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1 AZIENDA SANITARIA LOCALE LANCIANO – VASTO - CHIETI CORSO DI AGGIORNAMENTO AZIENDALE PER MEDICI DI MEDICINA GENERALE ANNO 2013 RISCHIO CARDIOVASCOLARE A cura di Docente MMG: dr.ssa Stefania Plessi Docente Cardiologo: prof. Marco Bucci

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AZIENDA SANITARIA LOCALE LANCIANO – VASTO - CHIETI

CORSO DI AGGIORNAMENTO AZIENDALE PER

MEDICI DI MEDICINA GENERALE

ANNO 2013

RISCHIO CARDIOVASCOLARE

A cura di

Docente MMG: dr.ssa Stefania Plessi

Docente Cardiologo: prof. Marco Bucci

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INDICE

1. RAZIONALE E OBIETTIVI 3

2. PREMESSA 4

3. RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE 7

3.1 Come calcolare il rischio cardiovascolare 8

3.2 Carte e punteggio Italiani del rischio cardiovascolare 9

3.3 Carte Europee del rischio cardiovascolare SCORE 11

3.4 Linee guida ESC 2012 sulla prevenzione cardiovascolare 13

4. SESSO FEMMINILE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE 15

5. IPERTENSIONE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE 20

5.1 Misurazione dei valori della pressione arteriosa 21

5.2 Strategie terapeutiche 23

6. DISLIPIDEMIE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE 26

6.1 Le dislipidemie genetiche 27

6.2 Diagnosi 30

6.3 Scelta del trattamento 31

6.4 Follow-up 34

6.5 Cosa cambia nella gestione della riduzione del rischio CV nella pratica

clinica? 35

6.6 Aferesi delle LDL 38

La storia della nota 13 39

7. INSUFFICIENZA RENALE CRONICA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE 41

8. MALATTIE AUTOIMMUNI E RISCHIO CARDIOVASCOLARE 47

8.1 Psoriasi 47

8.2 Artrite Reumatoide 47

8.3 Lupus Eritematoso 47

9. ALTRI FATTORI DI RISCHIO EMERGENTI 48

9.1 Uricemia 48

9.2 Lp(a) 50

9.3 Omocisteina 52

9.4 Vit. D 53

10. ATTIVITA’ FISICA: COSA CI DICONO LE LINEE GUIDA 54

10.1 Individui sani 54

10.2 Pazienti con malattia CV nota 56

11. FUMO E RISCHIO CARDIOVASCOLARE 59

12. DIETA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE 60

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1. RAZIONALE E OBIETTIVI

Le malattie cardiovascolari (CV) sono tuttora nei Paesi sviluppati, come gli Europei e l’Italia, la

maggior causa di morte prematura: secondo le European Guidelines on cardiovascular disease

prevention in clinical practice – versione aprile 2012, sono responsabili del 42% di tutte le morti al

di sotto dei 75 anni di età nelle donne e del 38% negli uomini. Inoltre chi sopravvive ad un attacco

CV diventa un malato cronico con modifica della qualità della vita e notevoli costi economici per la

società. Pertanto uno dei compiti più importanti della Medicina Generale (MG) è la prevenzione

delle patologie CV. Essa si deve attuare durante l’attività quotidiana del Medico di Assistenza

Primaria, mediante la valutazione del rischio CV sui propri assistiti esenti da malattia con metodo

“opportunistico”e utilizzando strumenti come le carte del rischio che permettano una classificazione

di livello di rischio, utile anche a definire la rimborsabilità di eventuali terapie farmacologiche.

Occorre inoltre che il Medico di Assistenza Primaria individui e illustri al paziente i suoi fattori di

rischio CV: non modificabili come sesso, età e familiarità per la patologia e soprattutto i

modificabili come fumo, iperlipidemia, sedentarietà, diabete mellito, ipertensione arteriosa,

sovrappeso-obesità e adiposità addominale. La correzione dei fattori di rischio modificabili e il

cambiamento dello stile di vita sono gli unici mezzi efficaci per la prevenzione delle malattie CV e

lo sono tanto più quanto più precocemente vengono adottati. Il Medico di Assistenza Primaria deve

inoltre conoscere gli altri fattori di rischio emergenti: l’aumento della lipoproteina (a),

dell’omocisteina e dell’uricemia e la carenza di vitamina D.

OBIETTIVO GENERALE DEL CORSO

• il Medico di Assistenza Primaria deve implementare durante l’attività quotidiana la

valutazione del rischio CV

OBIETTIVI SPECIFICI DEL CORSO

Il Medico di Assistenza Primaria deve:

• saper individuare e illustrare ai propri assistiti i loro fattori di rischio CV

• saper utilizzare le carte del rischio

• conoscere gli altri fattori di rischio emergenti e le raccomandazioni delle ultime Linee-guida

sul rischio CV

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2. PREMESSA

A livello Nazionale, Regionale ed Aziendale la valutazione del rischio individuale di malattia CV è,

come già in passato, un obiettivo prioritario nel governo clinico della Medicina Generale.

Nel Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) 2010-2012 si spiega che tradizionalmente la

prevenzione, cioè l'insieme di interventi finalizzati ad impedire o ridurre il rischio ossia la

probabilità che si verifichino eventi non desiderati ovvero ad abbatterne o attutirne gli effetti in

termini di morbosità, disabilità e mortalità, è stata suddivisa nelle seguenti componenti :

− prevenzione primaria, che si rivolge a tutta la popolazione ed ha come obiettivo il controllo dei

determinanti di malattia;

− medicina predittiva, che tendenzialmente si rivolge a tutta la popolazione ed ha come obiettivo

la valutazione del rischio di insorgenza di una patologia;

− prevenzione secondaria, che si rivolge alla sola popolazione a rischio ed ha come obiettivo la

massima anticipazione diagnostica di una patologia;

− prevenzione terziaria, che si rivolge alla sola popolazione malata ed ha come obiettivo la

riduzione dell'impatto negativo di una patologia, ripristinando le funzioni, riducendo le

complicazioni e le probabilità di recidive

La classificazione degli interventi di prevenzione appena posta, si è rivelata, alla luce della

evoluzione scientifica, non più adeguata, perché da una parte pone l'accento sull'offerta e non sulla

domanda, dall'altra suddivide artificiosamente la persona, come se le fasi si susseguissero l'una con

l'altra, in momenti distinti e separati. Invece l’attuale PNP vuole porre la persona e la comunità, di

cui è parte, al centro del progetto di salute, valorizzando gli esiti più che i processi e considerare la

prevenzione rivolta a problemi e, conseguentemente, a obiettivi :

− prevenzione come promozione della salute: rientrano in essa gli interventi che potenziano i

determinanti positivi e che controllano i determinanti negativi sia individuali che ambientali;

− prevenzione come individuazione del rischio: screening di popolazione e medicina predittiva,

cioè medicina di preavviso, nel senso che, a fronte di un difetto o di una fragilità, consente di

scegliere uno stile di vita adeguato, di sottoporsi periodicamente a test di diagnosi precoce e di

adottare sin dall'inizio le necessarie misure terapeutiche. Si rivolge agli individui sani, nei quali

cerca la fragilità o il difetto che conferiscono loro una certa predisposizione a sviluppare una

malattia ed è una medicina di preavviso nel senso che consente di scegliere uno stile di vita

adeguato e di adottare sin dall'inizio le necessarie misure terapeutiche.

Nel capitolo del PSN 2010-2012 dedicato alle malattie CV, si puntualizza che il contributo

metodologico persegue i seguenti obiettivi:

− definire strumenti per la rilevazione epidemiologica del rischio cardio-cerebrovascolare (carta

del rischio, ma anche rilevazione di indicatori indiretti come il consumo di farmaci specifici)

− individuare screening di popolazione per l'identificazione precoce di ipertensione,

ipercolesterolemia, secondo criteri e caratteristiche di appropriatezza (secondo l'indagine

multiscopo ISTAT più del 50% della popolazione adulta controlla annualmente pressione

arteriosa e parametri biochimici, senza tuttavia una standardizzazione)

− predisporre protocolli terapeutici per il controllo dei principali fattori di rischio, secondo criteri

di evidenza di efficacia e analisi costi-benefici dei diversi principi attivi …

Il Piano Regionale di Prevenzione Sanitaria (PRP) 2010-2012 dell’Abruzzo analizza, su una

popolazione residente al 1° gennaio 2009 di 1.334.675 abitanti (Italia 60.045.000), di cui 648.680

maschi (48.6%) e 685.995 femmine (51.4%), i tassi standardizzati di mortalità per malattie CV che

coincidono con i dati nazionali, che costituiscono con il 25% per le malattie del sistema

cardiocircolatorio il tasso più alto di mortalità generale e con il 10-12% per gli accidenti

cerebrovascolari la terza causa di decesso (dopo le malattie cardiocircolatorie ed i tumori). La

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struttura demografica della popolazione, associata al progressivo invecchiamento, porta a ritenere

probabile anche per l’Abruzzo la previsione (ritenuta affidabile a livello mondiale) del raddoppio

dei decessi entro l’anno 2020.

Dai rilevamenti ISTAT del 2008 emergono per l’Abruzzo dati ancora più preoccupanti su due

rilevanti fattori di rischio per malattie CV:

− l’ipertensione è al 16.2% rispetto al 15.8% nazionale in crescita progressiva con l’età (nelle

interviste PASSI 2007 nel gruppo 50-69 anni era al 48% ed era associata alla condizione

sovrappeso-obeso)

− il diabete è al 5% rispetto al 4.8% nazionale.

Nel pool di AUSL partecipanti al sistema di sorveglianza regionale PASSI, in riferimento al periodo

2007-2009, circa 5.6 persone ogni 100 hanno dichiarato di avere il diabete.

Nel PRP Abruzzese sono inoltre analizzate altre priorità emergenti:

− senilizzazione, più accentuata nelle aree interne con alto numero di famiglie con anziani o

composte da sole donne ultrasessantenni (62%);

− sedentarietà con dati PASSI 2007 del 33% (Italia 28%) e tendenza all’aumento, in crescita

con l’età, maggiore nel sesso femminile e in persone con molte difficoltà economiche e

basso livello di istruzione. Inoltre il 19% delle persone sedentarie percepisce il proprio

livello di attività fisica come sufficiente;

− eccesso ponderale che secondo PASSI 2007 è presente:

o nel 48% degli adulti (37% sovrappeso e 11% obesità) rispetto al 43% in Italia, in

crescita con l’età, con prevalenza negli uomini, soprattutto in persone con difficoltà

economiche e basso livello di istruzione e sottostima del rischio per la propria salute

con autopercezione al 48% per il sovrappeso (Italia 50%)

o nel 35% dei bambini (25% sovrappeso e 10% obesità) da stili alimentari errati e con

rischio di persistenza di eccesso ponderale in età adulta;

− fumo con rilevazioni del sistema PASSI all’anno 2009 del 16% di ex-fumatori e del 31% di

fumatori adulti sotto i 70 anni (15 sigarette die in media) a fronte del nazionale 29%, con

incremento dal 2007 (26%), in particolare in età giovanile (il 64% del totale tra i 25 e i 49

anni), come nel resto d’Italia uomini (41% contro 21% donne) e persone con difficoltà

economiche e basso livello di istruzione. Soltanto il il 36%, fra coloro che sono stati dal

medico nell’ultimo anno, sono stati intervistati sul fumo da un operatore sanitario e il 60%

dei fumatori ha ricevuto da parte dell’operatore sanitario un invito a smettere di fumare o a

ridurre il numero giornaliero di sigarette fumate;

− ipercolesterolemia con dati PASSI 2007 di un 24% di diagnosi su un 74% di intervistati,

unico dato in linea con il rilevamento nazionale del 25%.

In base alle criticità evidenziate, il PRP Abruzzese fissa la prevenzione su programmi e

progetti con il coinvolgimento e la consapevolezza della collettività (empowerment) e

l’azione integrata degli operatori sanitari, soprattutto Medici di Medicina Generale (MMG),

prevedendo, tra i vari macroambiti, come intervento di medicina predittiva, la valutazione

del rischio individuale di malattia tramite il progetto “Gioca la carta del cuore:

aumentare la conoscenza del rischio cardiovascolare estendendo l’utilizzo della carta

del rischio”. Questo progetto amplia a tutto il territorio regionale la positiva esperienza pilota della ASL di Pescara, iniziata nel 2006 con il sostegno formativo ed elaborativo del

Reparto di Epidemiologia delle malattie cerebro e cardiovascolari del Centro Nazionale di

Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della salute (CNESPS) dell’Istituto Superiore di

Sanità (ISS), che dal 1998 promuove il Progetto Cuore su tutto il territorio nazionale. I

destinatari sono i soggetti di età compresa tra 35 e 69 anni di entrambi i sessi (al 1° gennaio

2010 633.343), esenti da un precedente evento cardiovascolare e a cui misurare la

probabilità di sviluppare infarto o ictus cerebrale nei successivi 10 anni. I MMG sono i

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destinatari intermedi, cioè i soggetti coinvolti attivamente nel progetto, che devono

effettuare un cambiamento nella loro pratica professionale, adottando metodologie

standardizzate come la carta del rischio CV (categorico) o il calcolo del punteggio di

rischio CV del programma cuore.exe (puntuale) per fornire agli assistiti informazioni

corrette sugli stili di vita a rischio cardiovascolare e raccomandazioni condivise sul

trattamento farmacologico. L’obiettivo specifico del progetto è portare il calcolo del

punteggio del rischio CV al 20% della popolazione abruzzese tra 35 e 69 anni. Si possono

considerare come risultati attesi intermedi, propedeutici all’obiettivo specifico:

− il calcolo del punteggio al 50% dei propri assistiti da parte del 40% dei MMG

− la predisposizione di una campagna di informazione collettiva sul rischio CV

− una campagna di comunicazione che produca da parte della popolazione target un

aumento di circa il 30% della richiesta del calcolo del punteggio di rischio CV al

proprio MMG.

Le attività previste per ottenere il risultato atteso sono:

− incontri di formazione relativa al calcolo del punteggio e al counselling al 70% dei

MMG

− varare una norma contrattuale regionale ad hoc che disciplini l’attività svolta dal

MMG nel calcolare il punteggio di rischio CV.

Nel Decreto di Giunta Regionale (DGR) Abruzzo n°369 del 20 maggio 2013 è deliberata la

proroga all’anno 2013 del PRP 2010-2012 con la riconferma degli stessi progetti e quindi anche,

come intervento di medicina predittiva, la valutazione del rischio individuale di malattia tramite il

progetto “Gioca la carta del cuore: aumentare la conoscenza del rischio cardiovascolare

estendendo l’utilizzo della carta del rischio”, mantenendo gli stessi obiettivi, attività e con

indicatori di risultato attesi di un 30% di MMG attivati sul totale e un 10% di popolazione

sottoposta al calcolo rispetto alla popolazione generale tra 35 e 69 anni

Il Decreto n°50 del 5 luglio 2013 del Presidente della Regione Abruzzo in qualità di Commissario

ad acta decreta nel “Piano delle attività per il Governo Clinico dei Medici di Assistenza

Primaria – anno 2013” di stabilire prioritario, oltre alla “appropriatezza prescrittiva dei farmaci” e

alla “vaccinazione antinfluenzale degli ultrasessantacinquenni”, anche il “calcolo del rischio CV”

tramite il progetto “Gioca la carta del cuore …” come previsto dal DGR 369/2013 e con invio dei

dati all’ISS. Per ogni assistito eleggibile la valutazione può essere ripetuta, sempre in prevenzione

primaria, con le modalità fissate dal programma. Inoltre tale decreto fissa la “norma contrattuale

regionale ad hoc” per la remunerazione dei MMG come previsto dal PRP: destina a questa attività

la somma di € 625.000, presa dal fondo per l’Assistenza Primaria per attività finalizzate al Governo

Clinico di € 3.08 annui/assistito come da art. 59, lett. B, commi 15 e 16 dell’ACN consolidato del

27 luglio 2009 e incarica la ASL di appartenenza del MMG di effettuare: l’acquisizione preventiva

dell’adesione, la quantificazione per ogni MMG partecipante del budget in proporzione al numero

di assistiti in carico e l’erogazione del compenso in base alle prestazioni effettuate.

BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA

1. Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) 2010-2012

2. Piano Regionale di Prevenzione Sanitaria (PRP) 2010-2012 dell’Abruzzo

3. Decreto di Giunta Regionale Abruzzo n°369 del 20 maggio 2013

4. Decreto n°50 5 luglio 2013 del Presidente Regione Abruzzo in qualità di Commissario ad acta

5. Art. 59, lett. B, commi 15 e 16 dell’ACN consolidato del 27 luglio 2009

6. www.cuore.iss.it

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3. IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE

Introduzione

Nonostante i progressi indiscussi nella conoscenza delle basi fisiopatologiche, l’amplificazione

mezzi diagnostici e le numerose opzioni terapeutiche disponibili, le malattie cardiovascolari

rappresentano la principale causa di mortalità e d

Le ragioni di questa persistenza vanno ricercate

l’ipertensione arteriosa, il diabete

sedentario, con abitudini dietetiche scorrette e l

sia nello scarso controllo (farmacologico e non) di tali fattori di rischio

Numerose evidenze hanno ormai acclarato come le lesioni aterosclerotiche si sviluppino

progressivamente e insidiosamente nel tempo, manifestandosi spesso solo nelle fasi più a

con eventi clinici drammaticamente evidenti (ictus cerebri, infarto miocardico, …). Tali acuzie

possono esitare nell’exitus o in disabilità che condizionano pesantemente la qualità di vita dei

pazienti e dei loro care-giver, con ricadute psicologic

Tabella 1

Figura 1: Disability Adjusted Life

RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE

Nonostante i progressi indiscussi nella conoscenza delle basi fisiopatologiche, l’amplificazione

mezzi diagnostici e le numerose opzioni terapeutiche disponibili, le malattie cardiovascolari

rappresentano la principale causa di mortalità e disabilità nei paesi occidentali

Le ragioni di questa persistenza vanno ricercate sia nell’aumentata incidenza di patologie quali

l’ipertensione arteriosa, il diabete mellito, le dislipidemia, sia nel dilagare di uno stile di vita

con abitudini dietetiche scorrette e l’ancora dilagante diffusione dell’abitudine tabagica,

controllo (farmacologico e non) di tali fattori di rischio (FR) cardiovascolari.

Numerose evidenze hanno ormai acclarato come le lesioni aterosclerotiche si sviluppino

progressivamente e insidiosamente nel tempo, manifestandosi spesso solo nelle fasi più a

con eventi clinici drammaticamente evidenti (ictus cerebri, infarto miocardico, …). Tali acuzie

possono esitare nell’exitus o in disabilità che condizionano pesantemente la qualità di vita dei

, con ricadute psicologiche, sociali ed economiche di non poco conto

7

Nonostante i progressi indiscussi nella conoscenza delle basi fisiopatologiche, l’amplificazione dei

mezzi diagnostici e le numerose opzioni terapeutiche disponibili, le malattie cardiovascolari

isabilità nei paesi occidentali (tabella 1).

tata incidenza di patologie quali

l dilagare di uno stile di vita

diffusione dell’abitudine tabagica,

cardiovascolari.

Numerose evidenze hanno ormai acclarato come le lesioni aterosclerotiche si sviluppino

progressivamente e insidiosamente nel tempo, manifestandosi spesso solo nelle fasi più avanzate

con eventi clinici drammaticamente evidenti (ictus cerebri, infarto miocardico, …). Tali acuzie

possono esitare nell’exitus o in disabilità che condizionano pesantemente la qualità di vita dei

he, sociali ed economiche di non poco conto1.

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Emerge, pertanto, la necessità d

interventi terapeutici (farmacologici e non) e di educazione della popolazione generale.

Tali interventi non possono prescindere da un approccio globale e integrato del rischio

cardiovascolare di ogni singolo individuo, che dovrebbe essere inquadrato nel

nella sua unicità.

Definizione

Il concetto di rischio cardiovascolare globale (RCG) risponde proprio alla necessità di trattare

l’individuo e non la singola patologia. Negli ultimi decenni

approccio tradizionale, basato sul trattamento dei singoli

integrato e multifattoriale del profilo di rischio cardiovascolare globale del singolo individuo

Si tratta di un passaggio naturale,

• “Multifattorialità” fisiopatogenetica delle patologie cardiovascolari

• Coesistenza negli stessi pazienti di più

• Azione sinergica di tali FR nel determinismo del danno d’organo

Figura 2: Rischio cardiovascolare tradizionale vs rischio ca

3.1 Come calcolare il rischio cardiovascolare

Sono attualmente disponibili diversi algoritmi di calcolo del rischio cardiovascolare

diverse società scientifiche internazionali sulla base degli studi

Framingham Risk Score

Il più noto e meglio conosciuto resta il

tempo diverse versioni e su cui si basano diverse carte del rischio e tavole incluse in Linee Guida

Emerge, pertanto, la necessità di una seria prevenzione cardiovascolare

interventi terapeutici (farmacologici e non) e di educazione della popolazione generale.

Tali interventi non possono prescindere da un approccio globale e integrato del rischio

cardiovascolare di ogni singolo individuo, che dovrebbe essere inquadrato nel

Il concetto di rischio cardiovascolare globale (RCG) risponde proprio alla necessità di trattare

iduo e non la singola patologia. Negli ultimi decenni si è passati progressivamente da un

dizionale, basato sul trattamento dei singoli FR, a un approccio basato sul trattamento

integrato e multifattoriale del profilo di rischio cardiovascolare globale del singolo individuo

Si tratta di un passaggio naturale, che deriva dai seguenti aspetti:

“Multifattorialità” fisiopatogenetica delle patologie cardiovascolari

pazienti di più FR cardiovascolare

Azione sinergica di tali FR nel determinismo del danno d’organo

Figura 2: Rischio cardiovascolare tradizionale vs rischio cardiovascolare globale

ischio cardiovascolare

Sono attualmente disponibili diversi algoritmi di calcolo del rischio cardiovascolare

diverse società scientifiche internazionali sulla base degli studi epidemiologici.

Il più noto e meglio conosciuto resta il Framingham Risk Score4, 5

, di cui sono state prodotte nel

tempo diverse versioni e su cui si basano diverse carte del rischio e tavole incluse in Linee Guida

8

i una seria prevenzione cardiovascolare da attuare mediante

interventi terapeutici (farmacologici e non) e di educazione della popolazione generale.

Tali interventi non possono prescindere da un approccio globale e integrato del rischio

cardiovascolare di ogni singolo individuo, che dovrebbe essere inquadrato nel suo complesso e

Il concetto di rischio cardiovascolare globale (RCG) risponde proprio alla necessità di trattare

si è passati progressivamente da un

, a un approccio basato sul trattamento

integrato e multifattoriale del profilo di rischio cardiovascolare globale del singolo individuo2.

Sono attualmente disponibili diversi algoritmi di calcolo del rischio cardiovascolare3, elaborati dalle

epidemiologici.

, di cui sono state prodotte nel

tempo diverse versioni e su cui si basano diverse carte del rischio e tavole incluse in Linee Guida

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nazionali e internazionali. Tale algoritmo calcola la probabilità che si verifichi un evento

cardiovascolare in un lasso di tempo di 5-10 anni, in pazienti di età compresa fra 35 e 70 anni,

basandosi su 7 FR (età, sesso, fumo, pressione arteriosa sistolica, rapporto colesterolo/HDL,

diabete mellito, ipertrofia ventricolare sinistra). Il rischio cardiovascolare così calcolato6 è

sovrastimato nelle popolazioni mediterranee rispetto a quelle nordamericane.

3.2 Carte e punteggio Italiani del rischio cardiovascolare

Proprio al fine di superare tale divario, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS), in collaborazione con

l’Osservatorio Epidemiologico Italiano, ha elaborato le carte del Rischio Cardiovascolare7 su studi

epidemiologici condotti su coorti italiane. Le classi di rischio globale assoluto sono calcolate per

categorie di 6 fattori di rischio (età, sesso, diabete, fumo, pressione sistolica e colesterolemia

totale). Tale strumento è stato utilizzato fino al 2011 sia per la stima del RCV che per valutare la

rimborsabilità del trattamento con statine secondo le precedenti versioni della nota 13 (2004 e

2007).

Tabella 2

Calcolo del rischio CV categorico tramite la carta del Progetto Cuore: 6 items, 40-69 anni:

Scelta la carta, in base al sesso e alla presenza o no del diabete: 1. posizionarsi nella zona fumatore / non fumatore

2. identificare il decennio di età

3. collocarsi sul livello corrispondente a pressione arteriosa sistolica e colesterolemia

totale 4. identificato il colore, leggere nella legenda a fianco il livello di rischio

Ripetere il calcolo almeno:

- ogni sei mesi per persone a elevato rischio CV, cioè superiore o uguale al 20%

- ogni anno per persone a rischio da tenere sotto controllo attraverso l'adozione di uno stile di

vita sano, cioè superiore o uguale al 5% e inferiore al 20%

- ogni 5 anni per persone a basso rischio CV, cioè inferiore al 5%

Punteggio individuale puntuale con cuore.exe del Progetto Cuore: 8 items, 35-69aa:

A parte il sesso e l’età espressa in anni, occorre inserire:

1. la media di 2 misure eseguita a distanza di alcuni minuti della pressione arteriosa

sistolica; biffare o no la casella “in trattamento con antipertensivi” 2. il valore del colesterolo totale e HDL

3. sì o no rispettivamente a seconda della presenza o meno di diabete

4. sì o no rispettivamente a seconda della presenza o meno di fumo.

Con questi dati, il software ti dà, con possibilità di stampa e consegna al paziente:

- la percentuale di rischio di malattia CV a 10 anni e la spiegazione del suo significato

- i consigli da dare al paziente riguardo fumo, alimentazione (frutta e verdura, grassi

animali, sale, alcool), attività fisica e peso

- la possibilità di confrontare il rischio con quello di una persona esaminata con tutti i fattori

di rischio modificabili a livelli “desiderabili: non fumatore, non diabetico, non in terapia

antipertensiva, pressione arteriosa sistolica uguale o inferiore a 120 mmHg, e

colesterolemia inferiore a 200 mg/dl

- la possibilità di valutare, nel caso in cui la persona sia un fumatore, di quanto si

abbasserebbe il rischio se smettesse di fumare per almeno un anno a parità di tutti gli altri

fattori di rischio.

Ripetere il calcolo almeno:

• ogni sei mesi per persone a elevato rischio CV, cioè superiore o uguale al 20%

• ogni anno per persone a rischio da tenere sotto controllo attraverso l'adozione di uno stile di

vita sano, cioè superiore o uguale al 3% e inferiore al 20%

• ogni 5 anni per persone a basso rischio CV, cioè inferiore al 3%

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Tabella 3

Anche le Carte Italiane, tuttavia, hanno alcuni “difetti”:

- il rischio – come nelle carte del Framingham – è sottostimato nei pazienti più giovani (si

parla infatti di rischio “assoluto”, in cui l’età ha il “peso” più importante);

- le donne appaiono a “basso rischio” – e dunque non meritevoli di un adeguato intervento

preventivo – praticamente fino all’età avanzata.

Inoltre, tutte le carte hanno il limite di “categorizzare” il livello di rischio, piuttosto che

personalizzarlo: una persona che avrà un rischio del 19,5% ricadrà in una casella giallo-arancio, e se

dopo un certo periodo di trattamento dovesse scendere al 10,5% ricadrebbe sempre in una casella

dello stesso colore, rendendo praticamente invisibile il progresso fatto (che nell’esempio

equivarrebbe quasi a un dimezzamento!).

Per tale motivo, già dal 2008 lo stesso ISS ha promosso e raccomandato l’uso del Calcolatore del

Rischio Individuale, che poteva essere compilato on line sullo stesso sito dell’ISS, alle pagine del

Progetto CUORE (cuore.exe). Tale calcolatore restituisce un valore (“punteggio puntuale”) che

permette di valutare le modifiche (sia in senso migliorativo che peggiorativo) nel tempo e quindi di

proseguire o rafforzare gli interventi preventivi messi in atto, poiché considera valori continui per

alcuni fattori di rischio, cioè per l’età, la colesterolemia totale, l’HDL e la pressione sistolica

(ovviamente non per sesso, diabete e fumo). Inoltre include nella stima la terapia antipertensiva, sia

perché il valore di pressione sistolica registrato non è naturale ma dovuto anche al trattamento

specifico, sia perché la terapia antipertensiva è anche un indicatore di ipertensione arteriosa di

vecchia data. Al tempo stesso, la compilazione on line permette all’ISS di acquisire nuovi dati

epidemiologici utili a un eventuale futuro aggiornamento delle Carte del Rischio.

Inoltre, e purtroppo, le Carte del rischio sono state sempre utilizzate più per la stima del rischio

assoluto (che comunque è la loro prima indicazione) che non per la stima del rischio relativo, vale a

dire per fare un confronto tra il profilo di rischio di chi è esposto a certi fattori e di chi (a parità di

sesso ed età) non lo è. In tal modo si sarebbe potuto tentare un approccio diverso dal punto di vista

comunicativo, e forse si sarebbe potuto raggiungere un diverso livello motivazionale.

Con entrambe le metodiche occorrono misure standardizzate dei fattori di rischio:

− pressione arteriosa sistolica: va misurata con sfigmomanometro a mercurio al braccio

destro posizionato all’altezza del cuore a 45° rispetto al tronco, dopo che il paziente si è

riposato per 4 minuti in posizione seduta

− colesterolo totale e HDL con prelievo venoso, a digiuno da almeno 12 ore ed eseguito

negli ultimi 90 giorni

− diabete, definizione: glicemia con prelievo venoso, a digiuno da almeno 12 ore, ripetuta

una 2° volta in una settimana, uguale o superiore a 126, o terapia con ipoglicemizzanti

orali o insulina oppure storia clinica personale di diabete

− fumo, definizione di fumatore: chi fuma ogni giorno anche una sola sigaretta o ha smesso

da meno di 12 mesi, non-fumatore: chi non ha mai fumato o ha smesso da più di 12 mesi.

Entrambe le metodiche non sono utilizzabili:

− in gravidanza

− per valori estremi dei fattori di rischio:

• pressione arteriosa sistolica superiore a 200 mmHg o inferiore a 90 mmHg

• colesterolemia totale superiore a 320 mg/dl o inferiore a 130 mg/dl

solo per il punteggio, HDL-colesterolemia inferiore a 20 mg/dl o superiore a 100 mg/dl.

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Figura 3: Carte del Rischio Cardiovascolare

Con l’uscita della nota 13 versione 15 luglio 2011

quei tempi – per la stima del profilo di rischio

rimborsabilità o meno delle statine.

Governo clinico finanziati per spingere la loro implementazione anche attraverso

Calcolatore, cui si accennava poco sopra.

3.3 Carte Europee del rischio c

Recentemente, dopo la pubblic

Dislipidemie8, 9

, le ultime edizioni

adottato per il calcolo del RCV l’algoritmo derivato dallo studio

Risk Evaluation), differenziato per le popolazioni dell’Europa del Nord e del Sud con due diverse

carte del rischio. L’Italia va annoverata tra i Paesi a Basso Rischio Cardiovascolare.

Entrambi gli strumenti (Carte Italiane e Ca

applicabili esclusivamente in prevenzione primaria

considerati a rischio cardiovascolare elevato.

considerano ad alto rischio un paziente che h

o non fatale nei successivi 10 anni, le

che ha una probabilità > 5% di sviluppare un

eventi totali, ma solo il rischio di morte cardiovascolare). Da ciò si comprende il valore numerico

più basso, ma questo aspetto deve essere adeguatamente sottolineato in quanto l’abitudine a

consultare le carte italiane e a considerare il livello 20% come “alto rischio” potrebbe portare a

pericolose sottovalutazioni del profilo di rischio (in questo caso è meglio far riferimento alla scala

: Carte del Rischio Cardiovascolare italiane

nota 13 versione 15 luglio 2011 queste carte, pur rimanendo ancora valide

per la stima del profilo di rischio non erano più richieste per la valutazione della

orsabilità o meno delle statine. Tuttavia, restano ancora oggi in piedi sul territorio progetti di

Governo clinico finanziati per spingere la loro implementazione anche attraverso

Calcolatore, cui si accennava poco sopra.

del rischio cardiovascolare SCORE

Recentemente, dopo la pubblicazione delle nuove linee guida Europee per la gestione delle

e ultime edizioni della nota 13 AIFA (28 Novembre 2012 e 09 Aprile 2013) ha

l’algoritmo derivato dallo studio SCORE (Systematic COronary

, differenziato per le popolazioni dell’Europa del Nord e del Sud con due diverse

carte del rischio. L’Italia va annoverata tra i Paesi a Basso Rischio Cardiovascolare.

strumenti (Carte Italiane e Carte Europee) sono derivati da algoritmi di calcolo

in prevenzione primaria: i pazienti in prevenzione secondaria vengono

considerati a rischio cardiovascolare elevato. Ma la differenza fondamentale è che

alto rischio un paziente che ha una probabilità > 20% di sviluppare un

nei successivi 10 anni, le Carte Europee considerano invece ad alto rischio un paziente

di sviluppare un evento fatale (non considerano cioè il rischio di

eventi totali, ma solo il rischio di morte cardiovascolare). Da ciò si comprende il valore numerico

ma questo aspetto deve essere adeguatamente sottolineato in quanto l’abitudine a

a considerare il livello 20% come “alto rischio” potrebbe portare a

pericolose sottovalutazioni del profilo di rischio (in questo caso è meglio far riferimento alla scala

11

, pur rimanendo ancora valide – in

no più richieste per la valutazione della

in piedi sul territorio progetti di

Governo clinico finanziati per spingere la loro implementazione anche attraverso l’utilizzo del

uropee per la gestione delle

09 Aprile 2013) hanno

SCORE (Systematic COronary

, differenziato per le popolazioni dell’Europa del Nord e del Sud con due diverse

carte del rischio. L’Italia va annoverata tra i Paesi a Basso Rischio Cardiovascolare.

rte Europee) sono derivati da algoritmi di calcolo

: i pazienti in prevenzione secondaria vengono

Ma la differenza fondamentale è che le Carte Italiane

di sviluppare un evento fatale

ad alto rischio un paziente

n considerano cioè il rischio di

eventi totali, ma solo il rischio di morte cardiovascolare). Da ciò si comprende il valore numerico

ma questo aspetto deve essere adeguatamente sottolineato in quanto l’abitudine a

a considerare il livello 20% come “alto rischio” potrebbe portare a

pericolose sottovalutazioni del profilo di rischio (in questo caso è meglio far riferimento alla scala

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cromatica, uguale nelle due carte: rosso = alto rischiopressione arteriosa sistolica (PAS) e colesterolo totale

a maggior rischio CV ed una per quelli a minor rischio

l’intento di ridurre la sovrastimaper le precedenti carte europee del 2003diabetici (tipo 2) e non diabetici, essendo i primi considerati automaticamente ad “alto rischio”mentre per i diabetici di tipo 1 l’alto rischio è presente solo in caso di microalbuminuria.I livelli superiori di colesterolo totale

mg/dl il paziente è considerato automaticamente ad “alto rischio”. Come nelle precedenti LG, non viene considerata indispensabile la determinazione del colesterolo HDL, che, secondo gli autori, non modificherebbe sostanzialmente la capacità predittiva

A differenza delle carte italiane, europee suddividono la popolazione in 5 fasce (40meglio inquadrare il soggetto in esame all’età).

Figura 4: Carte dello SCORE per i Paesi a basso RCG

cromatica, uguale nelle due carte: rosso = alto rischio!). Le variabili considerate spressione arteriosa sistolica (PAS) e colesterolo totale. Le carte sono due, una per i paesi europei a maggior rischio CV ed una per quelli a minor rischio, tra i quali l’Italia:l’intento di ridurre la sovrastima del rischio nelle popolazioni del Sud Europa, come

europee del 2003. Come allora, non è presente la distinzione tra soggetti diabetici (tipo 2) e non diabetici, essendo i primi considerati automaticamente ad “alto rischio”mentre per i diabetici di tipo 1 l’alto rischio è presente solo in caso di microalbuminuria.

colesterolo totale inseribili nella carta sono 320 mg/dl; in caso di valori >mg/dl il paziente è considerato automaticamente ad “alto rischio”. Come nelle precedenti LG, non viene considerata indispensabile la determinazione del colesterolo HDL, che, secondo gli autori, non modificherebbe sostanzialmente la capacità predittiva offerta dal solo colesterolo totale.

che considerano solo 3 fasce di età (40-49; 50suddividono la popolazione in 5 fasce (40-49; 50-54; 55-59; 60-64; 65

il soggetto in esame (confermando in tal modo il peso decisivo attribuibile

Figura 4: Carte dello SCORE per i Paesi a basso RCG

12

Le variabili considerate sono: sesso, età,

una per i paesi europei

l’Italia: questa soluzione ha rischio nelle popolazioni del Sud Europa, come già accadeva

presente la distinzione tra soggetti diabetici (tipo 2) e non diabetici, essendo i primi considerati automaticamente ad “alto rischio”, mentre per i diabetici di tipo 1 l’alto rischio è presente solo in caso di microalbuminuria.

inseribili nella carta sono 320 mg/dl; in caso di valori > 320 mg/dl il paziente è considerato automaticamente ad “alto rischio”. Come nelle precedenti LG, non viene considerata indispensabile la determinazione del colesterolo HDL, che, secondo gli autori,

offerta dal solo colesterolo totale.

49; 50-59; 60-69), le carte 64; 65-69) allo scopo di

(confermando in tal modo il peso decisivo attribuibile

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3.4 Linee guida ESC 2012 sulla prevenzione cardiovascolare

Le nuove linee guida del 2012 della European Society of Cardiology (ESC), che si basano appunto sulle carte SCORE per la stima del rischio CV, hanno un nuovo approccio nella comunicazione: la correlazione rischio-età (risk-age), necessaria per rendere il paziente maggiormente consapevole del suo rischio CV. Molti trentenni sono attualmente considerati a basso rischio proprio in virtù della loro età; se invece lo stesso trentenne fosse un fumatore gli si dovrebbe comunicare che il suo rischio di avere un infarto è lo stesso di un paziente di 65 anni non fumatore, con maggior impatto sulla sua consapevolezza di malattia e sulla sua critica sui fattori di rischio. Importante è la raccomandazione di valutare il rischio CV di un individuo almeno una volta nella sua vita; per gli uomini dovrebbe essere fatto dopo i 40 anni mentre per le donne dopo i 50. Questa valutazione dovrebbe essere fatta dai medici o da infermieri, ma anche nelle farmacie. Alla fine di ogni sezione delle linee guida sono elencate le raccomandazioni, categorizzate in base al livello di evidenza che le supporta da strong (cioè forte, come ad esempio la riabilitazione cardiologica dopo ischemia miocardica), a weak (cioè debole, come la valutazione dello score coronarico di calcio nei pazienti asintomatici). Il livello di evidenza riflette un sistema di punteggio denominato GRADE, una misura basata su diversi fattori tra cui il grado di incertezza riguardo l’equilibrio tra rischi e benefici dell’intervento, e se l’intervento rappresenti un uso corretto delle risorse allocate. Infatti, il tradizionale approccio per stabilire il grado di evidenza vede predominare gli studi clinici di controllo randomizzati; questi rappresentano sì un’eccellente risorsa, ma comportano grosse limitazioni come l’esclusione della valutazione degli stili di vita; è infatti semplice realizzare questi trials per il colesterolo o per la pressione sanguigna, ma non lo è di certo per la valutazione della cessazione del fumo o di altri cambiamenti dello stile di vita. Serve dunque una maggior enfasi non tanto sulla terapia, quanto sulla prevenzione e sulla modificazione dei fattori di rischio. Oltre all’aggiunta della categorizzazione in base al livello di evidenza, queste linee guida presentano, alla fine di ciascun argomento trattato, una sezione denominata “what is new”, che rimarca le novità apportate in quello specifico ambito; sono inoltre evidenziati i campi specifici che necessiterebbero ulteriori studi di approfondimento: ad esempio nella sezione sul BMI il “what is

new” è che l’essere sottopeso porta con ogni probabilità ad un maggiore rischio di mortalità e

morbidità cardiovascolare e viene specificata la necessità di nuovi studi per determinare se la misurazione dell’adiposità regionale aggiunge al BMI valore predittivo nell’identificare i pazienti a rischio di malattie CV. Il comitato, inoltre, sottolinea come sia ora di avere ricerche che dimostrino in maniera definitiva il beneficio relativo alla dieta, all’esercizio fisico e alle modificazioni del comportamento nei pazienti obesi. La terapia antiaggregante piastrinica, in particolare l’aspirina a basse dosi, deve essere prescritta in tutti i pazienti ipertesi con pregressi eventi cardiovascolari. Può altresì essere presa in considerazione in pazienti ipertesi senza storia di MCV, con disfunzione renale o ad elevato rischio cardiovascolare. Nei pazienti che assumono aspirina deve sempre essere posta particolare

attenzione al rischio di complicanze emorragiche, in particolare del tratto gastrointestinale.

L’età vascolare: un nuovo concetto di rischio cardiovascolare

Nel 200810 è stato introdotto, sempre nell’ambito delle successive versioni del Framingham Risk Score, il concetto di “Età Vascolare”, ovvero l’età dell’apparato cardiovascolare del paziente calcolata tenendo conto della presenza di eventuali fattori di rischio cardiovascolare. La “rivisitazione delle Carte” alla luce di questi nuovi concetti è stata resa possibile grazie all’introduzione sul mercato e alla progressiva diffusione (in realtà ancora abbastanza limitata) di strumenti in grado di misurare alcuni parametri della rigidità delle arterie centrali (arterial stiffness, Pulse Wave Velocity, Augmentation Index,...). In tal modo è stato possibile acquisire nuovi dati che possono andare a modificare il valore numerico attribuibile ai classici fattori di rischio fino ad oggi considerati dalle varie carte.

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Mentre il calcolo del rischio CV consente di categorizzare i pazienti in differenti classi, considerando l’età anagrafica proprio come FR, introducendo il concetto di “età vascolare” la suddivisione potrà essere fatta in categorie diverse, che in sostanza assimilano un soggetto con fattori di rischio presenti ad uno che, senza quei fattori, ha un rischio paragonabile in funzione della sola età anagrafica11. In pratica, è come dire che un soggetto di 40 anni, che fuma e ha pressione e colesterolo alti, ha un rischio pari a quello di un 60enne che non ha quei fattori di rischio ma ha 20 anni di più (“età anagrafica” confrontata con l’”età biologica”): in tal modo, l’impatto comunicativo cambia sostanzialmente! Si tratta di un concetto non alternativo, ma solo additivo al calcolo del rischio cardiovascolare globale, facilmente comprensibile. Proprio il grande impatto comunicativo sulla popolazione e la possibilità di un miglioramento del parametro, conseguente all’aderenza alla terapia, potrebbe costituire un valido mezzo per potenziare la compliance del paziente nei confronti del trattamento non farmacologico e farmacologico dei diversi fattori di rischio. Figura 5: SCORE ed età vascolare

BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:

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4. SESSO FEMMINILE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Epidemiologia e dati scientifici

Le donne sono affette da patologie dell’apparato CV con intensità e gravità talora superiori all’uomo. In Europa le malattie CV, considerando ictus e cardiopatia ischemica, rappresentano la prima causa di morte nelle donne con una percentuale significativamente superiore a quella raggiunta nella popolazione maschile e cioè nel 45% verso il 38% secondo l’European

Cardiovascular Disease Statistics 2008 (1) (figure 1 e 2). In Italia, con percentuali inferiori, la situazione è sovrapponibile.

Fig 1. Mortalità femminile(dati European Cardiovascular Disease Statistics 2008) Fig 2. Mortalità maschile (idem)

Nel 2005 secondo il Registro nazionale italiano degli eventi coronarici maggiori del Gruppo di

Ricerca del Progetto Registro per gli Eventi Coronarici e Cerebrovascolari, tale percentuale è significativamente superiore a quella dovuta ai tumori, che è pari al 24% (2). L’andamento della mortalità per cardiopatia ischemica (CI) risulta in ascesa fino alla metà degli anni ’70, immodificata fra il 1976 e il 1978 e successivamente in lenta e graduale discesa con tassi di mortalità più elevati nella Italia Settentrionale e più bassi nell’Italia Centrale e Meridionale con una differenza molto elevata all’inizio degli anni ’70 che si riduce gradualmente negli ultimi anni in ragione di una progressiva “omogeneizzazione” verso stili di vita più uniformi. Diversi sono i fattori riconducibili alla riduzione della mortalità per la CI, fra questi: il miglioramento delle terapie in fase acuta dell’infarto del miocardio (IMA), il miglior controllo farmacologico della pressione arteriosa e della colesterolemia e la diffusione nella popolazione di stili di vita più salutari. Il trend di mortalità degli eventi cerebrovascolari dal 1970 al 2002 mostra nelle donne un graduale decremento con la sola eccezione delle regioni del Sud; non è evidente un gradiente Nord-Sud, mentre è possibile identificare nel meridione alcune aree in cui il fenomeno si manifesta con maggiore intensità. Alla base della riduzione della mortalità vi è, verosimilmente, l’introduzione e progressivo affermarsi nella popolazione di una efficace terapia antipertensiva. I dati del 2004 del Registro Nazionale degli Eventi Coronarici e Cerebrovascolari

dell’Osservatorio Epidemiologico Cardiovascolare Italiano (3) mostrano che il tasso di eventi coronarici totali (fatali e non) risulta superiore negli uomini rispetto alle donne, coerentemente con quanto riportato in altri Paesi, dove il genere femminile risulta avere un “vantaggio” in termini di

incidenza inferiore di eventi coronarici, specie in età premenopausale, con un “ritardo” di

circa 10 anni rispetto all’incidenza maschile. Tale vantaggio pare annullarsi dopo i 75 anni,

secondo il Women’s Health Study pubblicato ugualmente nel 2004 (4). Ulteriori dati sulle malattie CV in generale nella donna derivano nel 2010 dall’Osservatorio

epidemiologico cardiovascolare/Health examination survey (Oec/Hes) (5): il 5.8% delle donne (età 45-74 anni) è risultato affetto da angina pectoris, il 3% da claudicatio intermittens, l’1.5% da

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ipertrofia ventricolare sinistra, l’1.3% da fibrillazione atriale, l’1.2% da ictus, l’1.2% da TIA e lo 0.8% da infarto. Nella donna in età post-menopausale la cardiopatia ischemica (CAD) è la prima causa di morte e di ospedalizzazione con tasso pari al 39% dei decessi nel sesso femminile contro il 32% dei decessi nel sesso maschile negli Stati Uniti e, in Italia, con un tasso di mortalità del 46.8% contro il 37.5% (6). La minore incidenza di eventi CV nelle donne in età fertile è associata agli effetti protettivi esercitati dagli estrogeni, caratterizzati da:

− azione antiossidante − inibizione della proliferazione cellulare − miglioramento della funzione endoteliale e dell’equilibrio emostatico − modulazione favorevole del sistema renina-angiotensina-aldosterone (RAA) − riduzione dei livelli di LDL, LP (a), APO A1 - APO B e aumento HDL.

Per lungo tempo è stata opinione comune che le malattie CV fossero un problema tipicamente maschile o comunque che interessassero le donne nelle stesse modalità e fossero quindi da curare come negli uomini. Tutto ciò ha assunto particolare rilievo sul piano epidemiologico, diagnostico e di programmazione sanitaria, in quanto l’aspettativa di vita media nella donna è comunque maggiore, ma il rapporto costo/benefici degli atti medici è inferiore a quello dell’uomo e vi è stata dispersione di risorse nel tentativo di adattare alla donna quello che è efficace nell’uomo, dal punto di vista sia diagnostico che terapeutico. Finora le donne sono state sottostudiate (figura 3), sottodiagnosticate e sottotrattate, anche se finalmente adesso le società scientifiche internazionali stanno dimostrando nei confronti di questo campo della medicina un interesse sempre maggiore. Oggi sappiamo che sono necessari studi dedicati per comprendere meglio le specificità delle malattie CV femminili e trattamenti più mirati dei fattori di rischio delle donne per migliorarne l’assistenza. Figura 3

Fattori di rischio

Si possono suddividere in: tradizionali, emergenti e correlati al genere. I fattori di rischio CV tradizionali e cioè età, storia familiare, diabete, ipertensione arteriosa, tabagismo, dislipidemia, obesità ed inattività fisica sono comuni ad entrambe i sessi, ma presentano peculiarità quali-quantitative tipiche delle donne: è maggiore il rischio relativo di sviluppare

diabete, ipertrigliceridemia e bassi valori di colesterolo HDL ed è maggiore anche il rischio di

sviluppare patologie CV ad essi correlato a parità di fattori di rischio. Per quanto riguarda il diabete, la mortalità per CAD è 3-5 volte maggiore nella donna diabetica (7) rispetto alla non diabetica, mentre negli uomini l’incremento del rischio è di 2-3 volte.

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Attualmente la prevalenza dell’ipertensione arteriosa (8) aumenta con l’età: 22% sotto i 45 anni, 40% tra 50 e 60 anni, oltre il 50% sopra i 60 anni (il 18% è in condizione borderline) e nella donna vi è maggior associazione tra ipertensione e CAD (aumento del rischio 3.5 volte rispetto ai maschi). Anche l’obesità (definita come BMI>29 kg/m2), riscontrabile nel 30-40%delle donne in menopausa, determina nella donna un rischio tre volte maggiore di CAD rispetto all’uomo. Si associa attualmente ad insulino-resistenza, aumento delle LDL, del catabolismo delle HDL e del colesterolo totale (superiore a 200) presenti e/o corretti nel 72% della donne in menopausa (5) e ad inattività fisica, riscontrabile nel 48% di esse (9). Il tabagismo è in crescita, soprattutto nelle donne sotto i 35 anni (10), contribuisce ad una menopausa precoce e agisce sinergicamente con l’uso dei contraccettivi orali. Recentemente si sono presentati marcatori rappresentanti fattori di rischio CV emergenti. Di essi la proteina C reattiva ad alta sensibilità (PCR-hs), è un fattore indipendente predittivo di CI come dimostrato nelle donne del Women’s Health Study (4). Le donne con livelli di PCR nel quartile più alto, hanno mostrato nei 3 anni di follow-up un rischio di malattie CV da 5 a 7 volte più elevato rispetto ai quartili inferiori. Altri markers infiammatori con possibili ricadute sul sistema CV sono la interleuchina 6 (IL-6) ed il fibrinogeno. Il valore predittivo dei diversi markers infiammatori nella donna potrebbe essere indicativo di una possibile differenza nella fisiopatologia dell’aterosclerosi legata al genere. Inoltre le donne sono con maggiore frequenza (da 2 a 50 volte di più) affette da patologie infiammatorie su base autoimmune (artrite reumatoide, lupus eritematoso sistemico, tiroiditi, sindromi di Raynaud e Takayasu) rispetto agli uomini (11). Un’alterata vasodilatazione endotelio-mediata, indice di disfunzione endoteliale, può essere assimilata a un fattore di rischio di nuova identificazione o alternativamente ad una misura surrogata di malattia aterosclerotica subclinica in donne a rischio come quelle in menopausa, ancora asintomatiche. In particolare, la misura della vasodilatazione endotelio-dipendente, calcolata come “vasodilatazione flusso-mediata” sull’arteria brachiale con metodi diagnostici non invasivi, specificatamente l’ultrasonografia, si è rivelata un indice importante per la valutazione della cosiddetta “panarterial vulnerability” cioè la vulnerabilità dell’apparato vascolare, che permette una maggiore incidenza di eventi cardiaci acuti in presenza di placche aterosclerotiche. Tra l’altro, questo parametro è risultato buon predittore di rischio CV in numerosi studi (12). Un’altra condizione tipicamente femminile, l’ipovitaminosi D, è associata ad un aumento del rischio cardiovascolare per aumento dei valori pressori, formazione di calcificazioni vascolari e cardiopatia ischemica (13). La sindrome metabolica (SM) esercita un peso più rilevante come fattore di rischio specialmente nella menopausa, periodo in cui le diverse componenti della sindrome metabolica si presentano più spesso in associazione (14). Nella popolazione italiana, il 22.9% delle donne è risultato affetto da sindrome metabolica. Infine è rilevante ricordare l’impatto dello status psico-sociale sulle malattie CV e sulla CI in particolare. Tale impatto appare superiore nelle donne rispetto agli uomini per vari fattori contingenti: le donne vivono più spesso in condizioni economiche inferiori agli uomini di pari età, un maggior numero di donne sopravvive ai propri partner, vivendo quindi in solitudine e fattori comportamentali quali tabagismo, obesità, scarso esercizio fisico e depressione sono più frequenti nelle donne, specialmente dopo la menopausa. Alcuni fattori di rischio CV sono correlati al genere e, quindi, propri della donna: ipertensione gestazionale, pre-eclampsia/eclampsia, ovaio policistico, ipoestrogenismo di natura ipotalamica e naturalmente la menopausa.

Linee Guida per la prevenzione delle malattie CV nelle donne

La prevenzione CV può essere articolata su due livelli di intervento: un intervento di popolazione, con l’obiettivo di promuovere stili di vita adeguati a diminuire il livello medio dei fattori di rischio principali nella popolazione generale, ed un intervento individuale, basato sulla conoscenza del

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singolo paziente e sulla correzione/controllo dei suoi specifici fattori di rischio attraverso lo stile di vita e quando necessario attraverso il trattamento farmacologico. In entrambe i casi le Linee Guida sono uno degli strumenti attraverso i quali possiamo cercare di raggiungere i nostri obiettivi. Nelle Linee Guida della European Society of Cardiology (ESC) “per la prevenzione

cardiovascolare nella pratica clinica” del maggio 2012 (15) lo spazio dedicato alle donne è notevolmente limitato e ridotto rispetto alla versione precedente: la prevenzione delle malattie CV nella popolazione femminile è collocata, insieme a quella della popolazione anziana, nel breve paragrafo “Age and gender” in cui si raccomanda solo di includere le donne (come le persone anziane) nella valutazione del rischio CV nella stessa modalità di altri gruppi al fine di determinare la necessità di specifici trattamenti. Il tutto pur essendo chiaramente riportato che le malattie CV sono la prima causa di morte nella popolazione femminile in tutte le nazioni dell’Europa per le donne sotto i 75anni (42%) in misura superiore a quella degli uomini (38%). I minori tassi di decesso per coronaropatia (ma non per stroke) possono essere interpretati come un effetto protettivo degli estrogeni endogeni, anche se esistono tra le nazioni differenze che possono essere meglio spiegate da differenze tra i due sessi nell’assunzione di grassi saturi con la dieta (piuttosto che da un eccesso di fumo nell’uomo). La mortalità CV non incrementa nelle donne in seguito alla menopausa, suggerendo quindi che le donne possono differire il loro rischio piuttosto che evitarlo

completamente. Le linee guida ESC consigliano le donne di adeguarsi ai suggerimenti di un aggiornamento del 2010 delle linee guida della l’American Heart Association AHA per la

prevenzione della malattie CV nelle donne (16), in particolare modo all’uso del Framingham

score. Si definisce una categoria di “salute cardiovascolare ideale”, cioè con assenza di fattori di rischio aggiunti, BMI < 25kg/m², regolare attività fisica da moderata a vigorosa e dieta salutare. Come esempio, le linee guida ESC citano lo studio Women’s Health Initiative, in cui solo il 4% delle donne delle donne fu compreso in questo stato ideale e un ulteriore 13% non ebbe fattori di rischio ma trascurò di seguire uno stile di vita salutare: ci fu una differenza del 18% di maggiori eventi di malattie CV in favore dell’ideale stile di vita verso il gruppo senza fattori di rischio e cioè rispettivamente 2.2% e 2.6% nell’arco di 10 anni. Nel 2011 l’AHA ha emanato una nuova versione delle Linee Guida per la prevenzione CV nelle

donne (17). Si conferma la stratificazione delle donne in 3 gruppi: “ad alto rischio”, “a rischio”, “a rischio ottimale/ideale”. La categoria a “rischio ottimale”, che corrisponde alla assenza di fattori di rischio, è stata introdotta per motivare le donne ad adottare o mantenere gli stili di vita più salutari, capaci di minimizzare il rischio modificabile. Seguendo la flow-chart si identifica la classe di rischio nella quale si colloca la donna ed attraverso step successivi si definiscono le azioni da intraprendere: interventi sullo stile di vita, interventi sui maggiori fattori di rischio, interventi farmacologici ad azione preventiva ed a dimostrata efficacia. Gli interventi farmacologici, indicati con il rispettivo livello di evidenza, comprendono: terapia della ipertensione arteriosa, terapia della ipercolesterolemia, impiego di betabloccanti, ACE-inibitori/sartani, farmaci antialdosteronici, acido acetilsalicilico (ASA), warfarin e dabigatran. A parte sono invece segnalati gli interventi non

efficaci o addirittura dannosi: terapia ormonale sostitutiva, supplementi a base di antiossidanti, acido folico e ASA nella donna di età inferiore a 65 anni.

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^ ^ ^ ^ ^

Nei successivi capitoli, esamineremo in dettaglio alcuni fattori che accrescono il rischio CV. Eviteremo volutamente a scopo di brevità il diabete mellito – oggetto quest’anno di un altro corso di aggiornamento e comunque più volte richiamato in questo testo nei vari studi citati – e altre

patologie associate ad aumentato rischio di eventi CV, con meccanismi patogenetici ancora oggetto di studio, come la disfunzione erettile, l’apnea ostruttiva nel sonno, gli stati influenzali, la

periodontite, la vasculopatia da radiazioni e la vasculopatia da trapianto.

Valuteremo poi alcuni comportamenti che invece riducono o aumentano il rischio CV stesso.

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5. IPERTENSIONE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Introduzione

Nonostante molte risorse siano investite nella diagnosi e cura dell’ipertensione arteriosa, questa patologia rimane in tutto il mondo una delle principali Si tratta di una patologia cronica, dotata di elevata prevalenza nella popolazione adulta e costituisce un “pesante” fattore rischio cardiovascolare, gravato da un’elevata mortalità e complicanze inabilitanti. Figura 1: Mortalità cardiovascolare e fattori di rischio

Le Linee Guida

Molte sono le linee guida riguardanti l’ipertensione oggi presenti nella letteratura scientifica: tra le più accreditate sono quelle preparate e redatte in collaborazione con la prevenzione delle malattie CV European Society of HypertensionIn esse sono stati riconsiderati due parametri di rischio, il corporea. Particolare attenzione è stata data anche all’ipertensione della popolazione giovane e di quella anziana. Approccio basato sul rischio CV globale

Come nella precedente edizionediagnostico basato sul rischio CV

fattori di rischio cardiovascolari, il danno d’organo asintomatico e le complicazioni cliniche in modo da giungere ad una valutazione complessiva. La revisione ha incluso anche il significato prognostico del danno d’organo asintomatico relativo a numerosi distretti: cuore, vasi, rene, occhio, SNC (Fig. 2).

IPERTENSIONE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Nonostante molte risorse siano investite nella diagnosi e cura dell’ipertensione arteriosa, questa patologia rimane in tutto il mondo una delle principali cause di morbilità e mortalitàSi tratta di una patologia cronica, dotata di elevata prevalenza nella popolazione adulta e costituisce un “pesante” fattore rischio cardiovascolare, gravato da un’elevata mortalità e complicanze

Mortalità cardiovascolare e fattori di rischio1

Molte sono le linee guida riguardanti l’ipertensione oggi presenti nella letteratura scientifica: tra le più accreditate sono quelle preparate e redatte in collaborazione con la terza

organizzata dalla European Society of Cardiology European Society of Hypertension (ESH)2, recentemente pubblicate il (giugno 2013)In esse sono stati riconsiderati due parametri di rischio, il sovrappeso e il target di indice di massa corporea. Particolare attenzione è stata data anche all’ipertensione della popolazione giovane e di

basato sul rischio CV globale

Come nella precedente edizione del 2007, viene rienfatizzata la necessità di un CV globale del paziente con necessità di integrare i valori pressori, i

fattori di rischio cardiovascolari, il danno d’organo asintomatico e le complicazioni cliniche in valutazione complessiva. La revisione ha incluso anche il significato

prognostico del danno d’organo asintomatico relativo a numerosi distretti: cuore, vasi, rene, occhio,

20

Nonostante molte risorse siano investite nella diagnosi e cura dell’ipertensione arteriosa, questa cause di morbilità e mortalità1.

Si tratta di una patologia cronica, dotata di elevata prevalenza nella popolazione adulta e costituisce un “pesante” fattore rischio cardiovascolare, gravato da un’elevata mortalità e complicanze

Molte sono le linee guida riguardanti l’ipertensione oggi presenti nella letteratura scientifica: tra le terza Task Force sulla

organizzata dalla European Society of Cardiology (ESC) e dalla il (giugno 2013).

sovrappeso e il target di indice di massa corporea. Particolare attenzione è stata data anche all’ipertensione della popolazione giovane e di

zata la necessità di un approccio

necessità di integrare i valori pressori, i fattori di rischio cardiovascolari, il danno d’organo asintomatico e le complicazioni cliniche in

valutazione complessiva. La revisione ha incluso anche il significato prognostico del danno d’organo asintomatico relativo a numerosi distretti: cuore, vasi, rene, occhio,

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Figura 2: Categorizzazione del RCV in relazione ai valori di PA

5.1 Misurazione dei valori della pressione arteriosa

Un’ulteriore differenza rispetto alle precedenti Linee Guida riguarda la misuraziarteriosa e in particolare dell'autoLe due metodiche di rilevazione dei livelli pressori presentano informazioni diverse e devono essere considerate complementari.

Automisurazione pressoria domiciliare

Se la misurazione nello studio medico resta ancora fondamentale per porre una diagnosi di ipertensione, le linee guida 2013 sono le prime a considerare i dati del monitoraggio nel modello di stratificazione del rischio. La misurazione della pressione arteriosa a domicilio può fornire informazioni sui valori pressori in giorni diversi e rilevati in una condizione il più vicino possibile alla vita di tutti i giorni. Devono essere raccomandati alcuni accorgimenti:

− consigliare solo l’impiego dimisurazione semiautomatici, con rilevatori pressori da braccio)

− istruire i pazienti ad eseguire 2riposo, e chiedergli di riportare su un dpreferibilmente misurati al mattino a digiuno e prima di assumere la terapia; eventualmente potrebbero essere utili misurazioni al pomeriggio e alla sera;

− informare i pazienti che i valori possono essere diversdelle oscillazioni spontanee della pressione;

− evitare di ottenere un eccessivo numero di misurazioni e assicurarsi che alcune di esse siano eseguite prima di assumere la terapia

− considerare anche che i valori di pressione rilevati a domicilio sono ridotti rispetto a quelli misurati in ambulatorio.

Rispettando tali condizioni, e riuscendo a mantenere un diario per alcune settimanesettimana prima della visita medicavantaggi:

− è metodica economica − fornisce maggiori informazioni su cui basare la d− migliora la compliance del paziente alla terapia.

Viceversa, l’automisurazione pressoria domiciliare dovrebbe essere scoraggiata quando:− rischia di causare ansietà nel paziente− può indurre automodifiche dello schema terapeutico.

Figura 2: Categorizzazione del RCV in relazione ai valori di PA

Misurazione dei valori della pressione arteriosa

Un’ulteriore differenza rispetto alle precedenti Linee Guida riguarda la misuraziin particolare dell'auto-misurazione domiciliare.

Le due metodiche di rilevazione dei livelli pressori presentano alcune differenze, forniscono informazioni diverse e devono essere considerate complementari.

Automisurazione pressoria domiciliare

Se la misurazione nello studio medico resta ancora fondamentale per porre una diagnosi di ipertensione, le linee guida 2013 sono le prime a considerare i dati del monitoraggio nel modello di stratificazione del rischio.

pressione arteriosa a domicilio può fornire informazioni sui valori pressori in giorni diversi e rilevati in una condizione il più vicino possibile alla vita di tutti i giorni. Devono essere raccomandati alcuni accorgimenti:

consigliare solo l’impiego di strumenti validati e di facile utilizzo (es.misurazione semiautomatici, con rilevatori pressori da braccio) istruire i pazienti ad eseguire 2-3 misurazioni in posizione seduta, dopo alcuni minuti di riposo, e chiedergli di riportare su un diario i valori medi ricavati. I valori vanno preferibilmente misurati al mattino a digiuno e prima di assumere la terapia; eventualmente potrebbero essere utili misurazioni al pomeriggio e alla sera; informare i pazienti che i valori possono essere diversi tra le varie misurazionidelle oscillazioni spontanee della pressione; evitare di ottenere un eccessivo numero di misurazioni e assicurarsi che alcune di esse siano eseguite prima di assumere la terapia, per ottenere informazioni sulla durataconsiderare anche che i valori di pressione rilevati a domicilio sono ridotti rispetto a quelli

Rispettando tali condizioni, e riuscendo a mantenere un diario per alcune settimanea visita medica programmata), l’automisurazione può avere importanti

fornisce maggiori informazioni su cui basare la decisione terapeutica del medicomigliora la compliance del paziente alla terapia.

one pressoria domiciliare dovrebbe essere scoraggiata quando:di causare ansietà nel paziente

può indurre automodifiche dello schema terapeutico.

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Un’ulteriore differenza rispetto alle precedenti Linee Guida riguarda la misurazione della pressione

differenze, forniscono

Se la misurazione nello studio medico resta ancora fondamentale per porre una diagnosi di ipertensione, le linee guida 2013 sono le prime a considerare i dati del monitoraggio out-of-office

pressione arteriosa a domicilio può fornire informazioni sui valori pressori in giorni diversi e rilevati in una condizione il più vicino possibile alla vita di tutti i giorni.

strumenti validati e di facile utilizzo (es. strumenti di

3 misurazioni in posizione seduta, dopo alcuni minuti di iario i valori medi ricavati. I valori vanno

preferibilmente misurati al mattino a digiuno e prima di assumere la terapia; eventualmente

i tra le varie misurazioni, in ragione

evitare di ottenere un eccessivo numero di misurazioni e assicurarsi che alcune di esse siano per ottenere informazioni sulla durata del trattamento;

considerare anche che i valori di pressione rilevati a domicilio sono ridotti rispetto a quelli

Rispettando tali condizioni, e riuscendo a mantenere un diario per alcune settimane (almeno una , l’automisurazione può avere importanti

ecisione terapeutica del medico

one pressoria domiciliare dovrebbe essere scoraggiata quando:

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Monitoraggio Ambulatorio della pressione Arteriosa

Il monitoraggio ambulatorio della pressione arteriosa offre numerose informazioni, in particolar modo sulla variabilità del profilo pressorio nell’arco delle 24 ore e durante le ore di riposo notturno, consentendo anche una valutazione della distribuzione temporale dell’efficacia terapeutica. Molti studi hanno dimostrato che questo tipo di monitoraggio è maggiormente predittivo di danno d'organo ed eventi CV rispetto alla misurazione ambulatoriale. Presenta una maggiore riproducibilità, in assenza di un effetto placebo e dell’errore dell’osservatore (es. arrotondamento dei valori di PA). I limiti sono soprattutto legati a una possibile inaccuratezza delle misurazioni automatiche della PA, in particolare durante la deambulazione, a interferenze con le attività quotidiane del paziente e con la qualità del sonno. E’ indicato nei seguenti casi:

− sospetta ipertensione da camice bianco, o viceversa di ipertensione arteriosa mascherata − sospetta ipertensione notturna − ipertensione resistente − paziente anziano − come guida al trattamento antipertensivo − diabete − ipertensione durante la gravidanza − valutazione dell’ipotensione o disautonomia

Target pressori

Figura 3: Target pressori

Rispetto alla precedente edizione delle Linee Guida del 2007, le nuove Linee Guida hanno abbandonato il concetto di obiettivo flessibile in funzione delle caratteristiche del paziente (dove ad un profilo di rischio più elevato corrispondeva un trattamento più aggressivo) in favore di una maggiore uniformità dei target

terapeutici, con una minore severità dei valori di PA da raggiungere in alcune categorie di pazienti. Come schematizzato nella Figura 3, il goal di PA sistolica da raggiungere in tutti i pazienti (sia a rischio cardiovascolare basso e moderato, così come in quelli ad elevato rischio come diabetici, soggetti in prevenzione secondaria e/o con comorbidità) è 140 mmHg. Una diversificazione dei target viene conservata per la PA diastolica: viene, infatti, raccomandato un target di 90

mmHg della popolazione generale e di 85 mmHg nei pazienti

diabetici. Anche nei pazienti anziani viene consigliata una “minore severità” di trattamento, con una raccomandazione a considerare le capacità fisiche e mentali di tale classe di pazienti. Il paziente iperteso anziano (≥ 80 anni) va trattato quando abbia valori di PAS ≥160 mmHg, con un target terapeutico compreso tra 150 e 140 mmHg; nell’anziano < 80 anni la terapia può essere considerata in caso di valori compresi tra 140-159 mmHg, purchè si sia certi che il soggetto tolleri bene i farmaci.

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Ricerca del danno d’organo

Considerando l’importanza del danno d’organo asintomatico come stadio intermedio nel della malattia CV e come determinante del rischio cardiovascolare globale, la presenza di segni e sintomi deve essere accuratamente vagliata con le tecniche più appropriate di filtrazione renale, microalbuminuria, spessore intimabraccio, fondoscopia). L’osservazione che(microalbuminuria, aumento della carotidee) è in grado di predire la mortalità un importante argomento in favorequotidiana. 5.2 Strategie terapeutiche

Diversamente da quanto affermato nel 2007, pazienti con una PA normale-innalzamento isolato della PAS; tutti questi, però, devono essere monitorati nel tempo per verificarne l’aderenza ai cambiamenti di stili di vita.Infatti, come mostrato in Figura 4, per i pazienti che presentano un rischio basso o moderato, le Linee Guida suggeriscono di correggere le abitudini alimentari e lo stile di vita per alcuni mesi, per poter valutare l'impatto che questi cambiamenti possono avere sui livelli pressori.In particolare, è raccomandata una riduzione del consumo giornaliero di (rispetto alla classica restrizione a 9PA sistolica di 1-2 mmHg in individui normotesi e fino a 4

Figura 4: Strategie terapeutiche in base al RCV.

Le Linee Guida raccomandano inoltre di mantenere un 25kg/m² e il girovita inferiore a 102 cm negli uomini e a 88 cm nelle donne

corporeo può ridurre la pressione arteriosa fino a 4 mmHg, mentre un resistenza può contribuire a ridurre la PA sistolica nei pazienti ipertesi fino a 7 mm

Considerando l’importanza del danno d’organo asintomatico come stadio intermedio nel e come determinante del rischio cardiovascolare globale, la presenza di segni e

sintomi deve essere accuratamente vagliata con le tecniche più appropriate (ECGdi filtrazione renale, microalbuminuria, spessore intima-media, stiffnes arteriosa, indice caviglia

fondoscopia). L’osservazione che ognuno dei 4 principali marker di dannodella pulse wave velocity, ipertrofia ventricolare sinistra

e la mortalità CV, indipendentemente dalla stratificazione SCORE, è argomento in favore dell’uso di questo strumento di valutazione nella pratica clinica

Diversamente da quanto affermato nel 2007, non viene raccomandato alcun trattamento per i -alta e in quei soggetti giovani nei quali sia stato rilevato un

innalzamento isolato della PAS; tutti questi, però, devono essere monitorati nel tempo per cambiamenti di stili di vita.

Infatti, come mostrato in Figura 4, per i pazienti che presentano un rischio basso o moderato, le Linee Guida suggeriscono di correggere le abitudini alimentari e lo stile di vita per alcuni mesi, per

che questi cambiamenti possono avere sui livelli pressori.In particolare, è raccomandata una riduzione del consumo giornaliero di sale

(rispetto alla classica restrizione a 9-12 grammi al giorno): tale strategia è in grado di diminuire l2 mmHg in individui normotesi e fino a 4-5 mmHg nei pazienti ipertesi.

: Strategie terapeutiche in base al RCV.

Le Linee Guida raccomandano inoltre di mantenere un indice di massa corporea inferiore a

inferiore a 102 cm negli uomini e a 88 cm nelle donne. Perdere 5 Kg di peso corporeo può ridurre la pressione arteriosa fino a 4 mmHg, mentre un allenamento aerobico di

può contribuire a ridurre la PA sistolica nei pazienti ipertesi fino a 7 mm

23

Considerando l’importanza del danno d’organo asintomatico come stadio intermedio nel continuum

e come determinante del rischio cardiovascolare globale, la presenza di segni e (ECG, Doppler, frazione

arteriosa, indice caviglia-marker di danno d’organo

ipertrofia ventricolare sinistra e placche

stratificazione SCORE, è valutazione nella pratica clinica

non viene raccomandato alcun trattamento per i e in quei soggetti giovani nei quali sia stato rilevato un

innalzamento isolato della PAS; tutti questi, però, devono essere monitorati nel tempo per

Infatti, come mostrato in Figura 4, per i pazienti che presentano un rischio basso o moderato, le Linee Guida suggeriscono di correggere le abitudini alimentari e lo stile di vita per alcuni mesi, per

che questi cambiamenti possono avere sui livelli pressori. sale a 5-6 g al giorno

12 grammi al giorno): tale strategia è in grado di diminuire la 5 mmHg nei pazienti ipertesi.

indice di massa corporea inferiore a

. Perdere 5 Kg di peso allenamento aerobico di

può contribuire a ridurre la PA sistolica nei pazienti ipertesi fino a 7 mmHg.

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Per i pazienti con un rischio più elevato (diabete, malattia renale o cardiovascolare) è necessario applicare una strategia di intervento più aggressiva anche con una ipertensione di grado 1, iniziando una terapia farmacologica, anche di associazione, fin dalle prime fasi, nel caso in cui qualche settimana di restrizione dietetica e esercizio fisico si siano mostrati inefficaci . Inoltre, un tempestivo inizio della terapia è raccomandato nei pazienti con ipertensione di grado 2 e

3 con ogni livello di rischio CV, contestualmente o poche settimane dopo l’introduzione delle

modificazioni dello stile di vita (Fig. 4). Terapia farmacologica

I principali benefici del trattamento antipertensivo sono derivati dalla riduzione dei valori pressori

di per sé e spesso indipendenti dal tipo di farmaco impiegato. Le principali classi che questa nuova edizione riconferma nella loro validità sono i diuretici (inclusi tiazidici, clortalidone, indapamide), i betabloccanti, i calcioantagonisti, gli ACE-inibitori e gli antagonisti recettoriali

dell’angiotensina II (vedi tabella), che possono essere impiegati in monoterapia o in associazione (figura 5). È però fondamentale che la scelta sia effettuata considerando le specifiche caratteristiche del singolo paziente piuttosto che indirizzarsi a un “paziente teorico medio”: in altre parole devono essere le singole situazioni a guidare la scelta del farmaco più opportuno e ciò che per un determinato paziente può a buona ragione considerarsi di prima scelta (per esempio un betabloccante in pazienti con storia di cardiopatia ischemica) non lo è in un altro paziente (per esempio un iperteso con diabete).

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Figura 5: Terapia di associazione

Un aspetto interessante delle nuove Linee Guida riguarda il trattamento dell’ipertensione arteriosa resistente mediante la tecnica della effettuata per via percutanea. Si tratta di una terapia promettente con dati preliminari di buona efficacia, che è attualmente riservata a casi particolari e soggetta a ulteriori sperimentazioni cliniche su ampie popolazioni.

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nello studio medico, a domicilio e nelle 24 ore. Ipertens Prev Cardiovasc giugno 2008;63

− ESH ESC Guidelines, Eur Heart J 2013;34(28 June 14), 2159

Un aspetto interessante delle nuove Linee Guida riguarda il trattamento dell’ipertensione arteriosa resistente mediante la tecnica della denervazione delle arterie renali, una procedura invasiva

Si tratta di una terapia promettente con dati preliminari di buona efficacia, che è attualmente riservata a casi particolari e soggetta a ulteriori sperimentazioni cliniche su ampie popolazioni.

Ipertensione e prevenzione cardiovascolare 2008

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Un aspetto interessante delle nuove Linee Guida riguarda il trattamento dell’ipertensione arteriosa , una procedura invasiva

Si tratta di una terapia promettente con dati preliminari di buona efficacia, che è attualmente riservata a casi particolari e soggetta a ulteriori sperimentazioni cliniche su ampie popolazioni.

misurazione convenzionale ed automatica della PA,

nello studio medico, a domicilio e nelle 24 ore. Ipertens Prev Cardiovasc giugno 2008;63-115

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6. DISLIPIDEMIE E RISCHIO CARDIOVASCOLARE

Introduzione

Le dislipidemie costituiscono uno dei fattori di rischio modificabili per eventi cardiovascolari e pertanto una loro corretta gestione costituisce una parte integrante nell’ambito della prevenzione cardiovascolare. Si tratta, in alcuni casi di patologie che insorgono anche in età giovanile, se non addirittura infantile, e appaiono meritevoli di un’attenta valutazione diagnostica, volta a identificare quelle forme genetiche, in realtà non così rare nella popolazione generale, che conferiscono un rischio notevolmente aumentato di eventi CV precoci. Una corretta diagnosi, basata su criteri clinici e ove possibile molecolari, consente infatti sia di identificare “a cascata” eventuali componenti di una stessa famiglia affetti da dislipidemie genetiche, sia di impostare un trattamento adeguato, volto a raggiungere il target di colesterolo LDL previsto a seconda della classe di rischio CV cui il paziente appartiene. Classificazione delle dislipidemie

La ben nota – ma ormai obsoleta – classificazione di Frederickson consente di operare una distinzione “fenotipica” delle dislipidemie (Tabella 1), sulla base della classe di lipidi prevalente e conseguentemente delle lipoproteine aumentate nel sangue. Tabella 1: Classificazione sec. Frederickson

FENOTIPO LIPIDI LIPOPROTEINE

I Trigliceridi Chilomicroni

II a Colesterolo LDL

II b Colesterolo e Trigliceridi (rapporto >1) LDL e VLDL

III Colesterolo e Trigliceridi (rapporto 0.3-1) Chilomicroni e IDL

IV Colesterolo e Trigliceridi (rapporto 0.2-1) VLDL

V Trigliceridi Chilomicroni e VLDL

Da un punto di vista fisiopatologico, le dislipidemie possono, invece, essere distinte in forme primitive e secondarie. Le dislipidemie primitive sono dovute ad alterazioni a carico di un solo gene (forme monogeniche) o di più geni (forme poligeniche). Le dislipidemie secondarie possono, invece, essere associate a patologie che non riguardano strettamente il metabolismo lipidico o essere conseguenti all’assunzione di alcune terapie farmacologiche. (Tabella 2) Tabella 2: Dislipidemie secondarie

IPERLIPIDEMIA MALATTIA O CONDIZIONE

CARATTERISTICHE

Ipercolesterolemia

colestasi Ipercolesterolemia anche molto marcata HDL elevate o ridotte Presenza di LP-X e LP-Y

anoressia nervosa

ipotiroidismo

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Ipertrigliceridemia

colelitiasi Spesso coesistono alterazioni metaboliche plurime (sindrome metabolica)

diabete mellito La dislipidemia può configurare una iperchilomicronemia, in particolare nei casi di scompenso metabolico del diabete di tipo I

obesità

IRC

emodialisi

etilismo

paraproteinemie

malattie autoimmuni

pancreatite Ipertrigliceridemia in un quinto dei pazienti (elevate VLDL e chilomicroni)

terapia con ß-bloccanti, diuretici, estrogeni

Iperlipidemie combinate

epatiti acute

6.1 Le dislipidemie genetiche

1

Ipercolesterolemia autosomica dominante (ADH)

Si tratta di una patologia trasmessa con carattere autosomico dominante, caratterizzata da elevati livelli di colesterolo LDL conseguente a un ridotto catabolismo di queste lipoproteine che, non adeguatamente captate dal fegato, si accumulano in circolo. È una delle malattia monogeniche più frequenti nella popolazione. Si stima che la forma omozigote di questa malattia (gravissima, e caratterizzata da un’elevata mortalità già in età pediatrica) abbia una prevalenza di 1 caso su 1.000.000 di soggetti, e che la forma eterozigote abbia un’incidenza di 1 caso su 500 soggetti. Secondo le conoscenze attuali può essere dovuta a mutazioni geniche a carico di: 1) gene del recettore delle lipoproteine a bassa densità (LDL-R), che causano un ridotto legame e catabolismo delle LDL plasmatiche (ADH-1); 2) gene dell’apolipoproteina B-100 (apoB) con conseguente produzione di una apoB-100 difettiva che ha una ridotta affinità di legame per il LDL-R (ADH-2); 3) gene di PCSK9 con alterazione della normale funzione dell’enzima proteolitico PCSK9 (ADH-3) Benché la diagnosi di certezza di possa ottenere solo con metodiche di analisi genica e molecolare, nella pratica clinica può essere diagnosticata con ragionevole certezza in presenza di: - valori di CT o LDLc superiori al 95° percentile per sesso e età: - valori di CT superiori a 260 mg/dL (in età < 16 anni) o a 290 mg/dL (in età > 16 anni) - opp. valori di LDLc > 190 mg/dL; - presenza di xantomi tendinei (per lo più al dorso delle mani o al tendine di Achille) o ad arco

corneale (in età inferiore a 45 anni) nello stesso paziente o nei parenti di I o II grado. - anamnesi familiare positiva per eventi cardiovascolari in età precoce (< 55 anni nei maschi e <

60 anni nelle femmine) e/o reperto dei valori di colesterolo prima ricordati in parenti di I o di II grado del probando (anche in assenza di lesioni cutanee).

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Tabella 3: Criteri di Simon Broome2 (unità di misura in mg/dL anziché in mmol/L (1 mmol/L = 38,5 mg/dL)

CRITERIO DESCRIZIONE

La diagnosi è DEFINITA se sono presenti entrambi i seguenti criteri:

A

Alterati valori di colesterolo totale e LDL-colesterolo (CT >290 mg/dL negli adulti o >260 mg/dL in soggetti <16 anni, ovvero LDL-C >190 mg/dL negli adulti o >160 mg/dL in soggetti <16 anni) e xantomi tendinei nel probando o parenti di I grado

B Analisi molecolare di una mutazione nel gene LDLR o APOB

La diagnosi è PROBABILE se è presente il criterio A e almeno uno dei seguenti:

C Storia familiare d’infarto del miocardio prima dei 50 anni in parente di II grado, ovvero prima dei 60 in un parente di I grado

D Storia familiare di livelli del CT >290 mg/dL in parenti di I o II grado

Tali caratteristiche sono quelle riportate tra i criteri del Simon Broome Register Group, che consentono di fare una diagnosi di ADH certa o probabile. Si ricordano le formule di conversione: - colesterolo: 1 mmol/L = 38,5 mg/dL; 1 mg/dL = 0,026 mmol/L - trigliceridi: 1 mmo/L =87,5 mg/dL 1 mg/dl = 0,011 mmol/L - HDL-Col: 1 mmo/L = 39 mg/dL 1 mg/dl = 0,03 mmol/L Il criterio diagnostico del Dutch Lipid Clinic Network (Tabella 4) attribuisce invece un punteggio compreso tra 1 e 8 a ciascun parametro di rilievo clinico per la patologia. Tabella 4: Dutch Lipid Score (tradotto dalle Linee Guida Europee sulle dislipidemie EAS/ESC 2011)

3-4

CRITERIO PUNTI

Parente di primo grado con infarto prematuro (<55 anni maschi, <60 femmine) o con affezioni vascolari o con valori di LDL-C sopra il 95° percentile

1

Parente di primo grado con xantomi tendinei o arco corneale o con valori di LDL-C sopra il 95°percentile in soggetti inferiori ai 18 anni

2

Probando con malattia coronaria prematura (<55 anni maschi, <60 femmine) 2

Probando con vasculopatia cerebrale o periferica prematura (<55 anni maschi, <60 femmine)

2

Probando con xantomi tendinei 6

Probando con arcus cornealis prima dei 45 anni 4

Livelli di LDL-C

> 8.4 mmol/L (> 325 mg/dL) 8

“ “ 6.5 – 8.4 (250-325 mg/dL) 5

“ “ 5.0 – 6.4 (190-250 mg/dL) 3

“ “ 4.0 – 4.9 (155-190 mg/dL) 1

Accertamento molecolare di una mutazione funzionale nel gene LDLR 8

Diagnosi “Definita” se la somma dei punti è superiore ad 8

“Probabile” se la somma dei punti è compresa tra 6 e 8

“Possibile” se la somma dei punti è compresa tra 3 e 5

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La diagnosi genetico-molecolare viene attualmente eseguita solo in alcuni Centri Specialistici, con una limitazione dovuta sia alla complessità delle metodiche, sia agli intuibili costi economici. Tuttavia, in alcuni casi selezionati e anche in relazione al fiorente sviluppo di nuovi farmaci ipolipidemizzanti che hanno come target proprio i geni più frequentemente coinvolti nella genesi dell’ADH, l’indagine genetica andrebbe consigliata. L’espressione fenotipica della malattia è estremamente variabile in termini di livelli di LDL-C, presenza di xantomatosi tendinea ed età di insorgenza clinica della cardiopatia ischemica (CAD). Tale variabilità dipende da numerosi fattori, soprattutto presenza di fattori ambientali negativi (in particolare l’abitudine al fumo), bassa concentrazione plasmatica di HDL (talora geneticamente indotta), associazione con varianti di altri geni che possono giocare un ruolo negativo o positivo, associazione con l’insulino-resistenza o con il diabete mellito tipo 2.

Iperlipidemia familiare combinata (CFHL)

E’ una condizione comune (1:100), caratterizzata da un aumentato rischio di aterosclerosi prematura. E’ caratterizzata da un incremento della colesterolemia e/o della trigliceridemia in soggetti appartenenti alla stessa famiglia. E’ probabilmente causata da un’aumentata sintesi (o da un ridotto catabolismo) dell’apoB, i cui livelli plasmatici sono infatti aumentati. In essa, tali alterazioni genetiche si combinano a fattori ambientali determinando una significativa e caratteristica variabilità fenotipica inter- ed intra-individuale. La diagnosi è prevalentemente clinica e una particolare attenzione deve essere posta alla diagnosi differenziale con la sindrome metabolica, con cui condivide alcune caratteristiche. I criteri diagnostici attualmente suggeriti sono i seguenti:

− Colesterolo totale > 250 < 300 mg/dl − Trigliceridi > 180 mg/dl − ApoB > 125 mg/dl (secondo le ultime linee guida EAS 2011 > 120 mg/dL) − Valutazione della variabilità fenotipica:

− Documentazione della variabilità fenotipica intrafamiliare, escluse le famiglie in cui diversi soggetti hanno solo il fenotipo IIa o solo il fenotipo IV o − Documentazione della variabilità fenotipica intraindividuale in un intervallo di tempo.

(va ricordato che la variabilità fenotipica può anche portare, per periodi di tempo limitati, ad un pattern normolipidemico).

− Esclusione delle iperlipidemie secondarie (in particolare la suddetta sindrome metabolica) − Documentazione di CHD prematura e/o di complicanze gravi dell’aterosclerosi: in pazienti

con il fenotipo IIb e senza dati sulla famiglia, il rilievo nel probando di ateromasia precoce o di una delle sue complicanze cliniche in qualsiasi distretto vascolare, costituisce un criterio addizionale.

Ipertrigliceridemia familiare

E’ un’anomalia trasmessa come tratto autosomico dominante, caratterizzata da un aumento delle VLDL plasmatiche. Si manifesta generalmente in età adulta; i soggetti affetti presentano un aumento della trigliceridemia con valori di circa 200-600 mg/dl; solitamente il colesterolo HDL è ridotto, mentre le LDL plasmatiche sono normali o solo leggermente aumentate. In caso di concomitanti alterazioni metaboliche (obesità, ridotta tolleranza al glucosio, iperinsulinemia, ipertensione e iperuricemia) va valutata la diagnosi differenziale con la sindrome metabolica.

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La diagnosi si basa sui seguenti criteri: - Confermare la presenza di altri casi di ipertrigliceridemia (TG > 400 mg/dl) in familiari di

1° grado, - Escludere forme secondarie (diabete mellito scompensato, farmaci concomitanti…) - Ricercare eventuali segni clinici (xantelasmi) - Incubare il sangue per 12 ore a +4°C e osservare le caratteristiche del surnatante.

Forme poligeniche

L’esordio è dopo i 30 anni. Nelle famiglie colpite circa 1/5 degli individui è affetto dalla patologia (deve comunque essere presente un altro ascendente o discendente diretto, con analoghe caratteristiche). Sono, in genere, caratterizzate da valori di colesterolo totale compresi tra 250 e 300 mg/dl con valori di colesterolo LDL stabilmente superiori a 160 mg/dl. I livelli plasmatici di apoB sono usualmente elevati, mentre trigliceridemia e colesterolo HDL sono in genere nella norma. 6.2 Diagnosi

La valutazione preliminare di un paziente affetto da dislipidemia deve comprendere un’attenta anamnesi patologica e familiare, un esame obiettivo e l’esecuzione di esami laboratoristici al fine di un corretto inquadramento diagnostico. Anamnesi L’anamnesi patologica è importante per valutare la presenza di patologie o terapie farmacologiche concomitanti che possano influenzare il profilo lipidico. Va anche attentamente indagata la presenza di eventuali e concomitanti fattori di rischio cardiovascolare (fumo, ipertensione arteriosa, diabete mellito) o di pregressi eventi cardiovascolari che porrebbero il paziente in una fase di prevenzione secondaria. E’ inoltre utile acquisire informazioni in merito all’anamnesi familiare, che andrebbe, se possibile, documentata: in particolar modo è importante la ricerca di notizie inerenti alla presenza in familiari di I grado di iperlipoproteinemia (ipercolesterolemia e/o ipertrigliceridemia) e di eventi cardiovascolari insorti in età precoce (< 65 anni nelle donne, < 55 anni negli uomini), anche al fine di effettuare la cosiddetta “diagnosi a cascata”. Esame obiettivo

L’esame obiettivo è spesso silente. Solo in alcuni pazienti si rilevano segni clinici, espressione di dislipidemia. Nell’ipercolesterolemia familiare, in particolare nella forma omozigote, possono essere rilevati: xantomi cutanei piani (a localizzazione palmare, cubitale o poplitea) o tuberosi (localizzati prevalentemente alla superficie estensoria di gomiti e ginocchia), xantomi tendinei (in particolare a livello dei tendini dei muscoli estensori delle dita delle mani e, più frequentemente, del tendine di Achille), arco corneale (area di aumentata densità ai margini della cornea, che sia evidente già prima dei 45 anni in quanto in età anziana è di comune riscontro, detto gerontoxon). Gli xantelasmi sono xantomi piani, che si localizzano per lo più a carico delle palpebre superiori e all’angolo nasale; possono essere associati a ipertrigliceridemia, ma si tratta di segni aspecifici, che possono essere presenti anche in assenza di alterazioni lipidiche. L’esame obiettivo può rivelarsi utile nell’individuare segni e sintomi patognomonici di eventuali patologie concomitanti, indirizzando la diagnosi verso forme di dislipidemia secondaria (segni clinici di ipotiroidismo, sindrome nefrosica,…). Dovrebbe sempre essere effettuata una valutazione clinica volta a identificare l’eventuale danno d’organo subclinico (iposfigmia dei polsi periferici e ABI < 0.9; presenza di soffi all’auscultazione dei vasi del collo).

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Esami laboratoristici

Già la semplice osservazione del siero, dopo incubazione di 12 ore a 4°C può fornire informazioni utili alla diagnosi: un siero cremoso con infranatante limpido è indicativo di un aumento della quota di chilomicroni; un siero omogeneamente torbido è invece tipico delle ipertrigliceridemie. Purtroppo questo vecchio tipo di osservazione, al pari dell’elettroforesi lipoproteica, non è più in uso nella maggior parte dei laboratori analisi. Una valutazione laboratoristica iniziale del paziente dislipidemico dovrebbe includere, oltre all’ovvia valutazione del profilo lipidico completo, anche il dosaggio di indici per lo screening di eventuali forme di dislipidemia secondaria. Tra questi vanno ricordati: glicemia (e HbA1c, se il paziente ha già una diagnosi di diabete mellito); transaminasi e indici di colestasi (gammaGT,

fosfatasi alcalina, bilirubina totale e frazionata); creatinina; TSH (e, in caso di alterazioni significative, dovrà essere effettuato un dosaggio anche delle frazioni tiroidee). Infine, poiché tra i più comuni effetti collaterali del trattamento ipolipidemizzante vi può essere un aumento degli enzimi muscolari, sarebbe utile conoscere i valori delle CPK prima di iniziare il trattamento. In particolare, si dovrebbe raccomandare al paziente di non effettuare il prelievo dopo sforzo fisico intenso, eventi traumatici, iniezioni intramuscolo: tali condizioni possono, infatti, di per sé determinare un’elevazione dei valori di CPK. 6.3 Scelta del trattamento

La scelta del trattamento deve essere fatta attraverso una serie di passaggi: 1. diagnosi (vedi sopra) 2. definizione del profilo di rischio 3. identificazione del target terapeutico 4. valutazione della distanza dal target 5. scelta del trattamento (statina appropriata in funzione della potenza relativa delle varie

molecole) 2. Definizione del profilo di rischio

Secondo le attuali linee guida delle maggiori Società Scientifiche internazionali, una volta fatta la diagnosi di dislipidemia, il paziente dovrà essere valutato per ciò che riguarda la presenza di altri fattori di rischio e inquadrato sulla base del cosiddetto “Rischio Cardiovascolare Globale” (RCG). Le ultime linee guida europee, come del resto quelle americane, hanno mantenuto l'impianto tradizionale basato sulla presenza di malattia CV, anche asintomatica purché documentata strumentalmente, o sul RCG stimato mediante un algoritmo basato su età, sesso, fumo, pressione arteriosa, colesterolo totale e talvolta HDL (algoritmo elettronico SCORE, oppure cuore.exe). La classificazione del rischio prevede quattro classi (vedi tabella 1): − Rischio molto elevato: precedente infarto miocardico, sindrome coronarica acuta,

rivascolarizzazione coronarica o di altri distretti arteriosi, ictus ischemico, arteriopatia periferica, malattia cardiovascolare documentata da test invasivi e non invasivi, diabete di tipo 2 o diabete di tipo 1 con danno d'organo (ad es. la microalbuminuria), insufficienza renale cronica grave (cioè velocità del filtrato glomerulare, VFG, 15-29 ml/min/1.73m²) e rischio globale calcolato con l'algoritmo SCORE ≥ 10%;

− Rischio alto: anche un singolo fattore di rischio purché grave, come dislipidemia familiare o ipertensione severa, oppure il diabete senza fattori di rischio CV e senza danno d’organo, oppure l’insufficienza renale cronica moderata (VFG = 30-59 ml/min/1.73m²) e rischio globale ≥ 5% e <10%;

− Rischio moderato: rischio globale a 10 anni ≥1% < 5%; tuttavia, se presenti altri fattori, quali storia familiare positiva per cardiopatia ischemica precoce, obesità addominale, inattività fisica, alti livelli di trigliceridi, proteina C reattiva ad alta sensibilità, Lp(a), fibrinogeno, omocisteina, la classe di rischio può essere superiore;

− Rischio basso: rischio globale a 10 anni <1%.

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Com’è noto, su tale classificazione si basae 2013) che regolamenta l’utilizzo dei farmaci ipolipidemizzanti in regime di rimborsabilità da parte del SSN. In realtà, nella nota è presente anche una quinta classe di rischio (guida europee EAS/ESC) che si pone tra il “rischio bassoquest’ultima categoria una quota di pazientiSCORE compreso tra 2 e 3. Inoltre, corretta: la scala cromatica delle carte usa accomuna in modo diverso. Infine, 3. Identificazione del target

L’identificazione della classe di rischio da raggiungere e quindi guida la scelta terapeutic

Figura 1: strategie di intervento in funzione del RCG

Tabella 1: target per l’LDL-Colesterolo nelle varie categorie di pazienti

Livello di rischio

molto alto

− Risk SCORE

− malattia coronarica/

− stroke ischemico

− arteriopatie periferiche

− pregresso infarto

− DMT2 con ≥ 1 FR CV e/o markers di

− IRC grave (VFG 15

alto

− Risk SCORE

− dislipidemie familiari

− ipertensione severa

− DMT2 senza fattori di rischio CV e senza danno d'organo

− IRC moderata (VFG 30

moderato − Risk SCORE

basso − Risk SCORE

Com’è noto, su tale classificazione si basano anche le più recenti versioni della nota 13 AIFAche regolamenta l’utilizzo dei farmaci ipolipidemizzanti in regime di rimborsabilità da parte

la nota è presente anche una quinta classe di rischio (che si pone tra il “rischio basso” e il “rischio moderato” e scorpora da

quest’ultima categoria una quota di pazienti, definiti a “rischio medio”, che hanno un punteggio Inoltre, nella nota tale suddivisione è fatta in maniera non del tutto

omatica delle carte usa colori differenti (2; 3-4; 5) per classi che la nota . Infine, ci sono delle incongruenze tra tabella e commento

L’identificazione della classe di rischio CV consente di definire anche il target

quindi guida la scelta terapeutica, come schematizzato in Fig

: strategie di intervento in funzione del RCG e dei livelli di LDL-Colesterolo 3,5

Colesterolo nelle varie categorie di pazienti (modificato da

Risk SCORE ≥10%,

malattia coronarica/BPAC

stroke ischemico

arteriopatie periferiche

pregresso infarto

≥ 1 FR CV e/o markers di danno d’organo (MAU)

IRC grave (VFG 15-29 ml/min/1.73m2)

Risk SCORE ≥5% e < 10%

dislipidemie familiari

ipertensione severa

DMT2 senza fattori di rischio CV e senza danno d'organo

IRC moderata (VFG 30-59 ml/min/1.73m2)

Risk SCORE ≥1 % e < 5%

< 1 %

32

della nota 13 AIFA (2012 che regolamenta l’utilizzo dei farmaci ipolipidemizzanti in regime di rimborsabilità da parte

che non esiste nelle linee ” e il “rischio moderato” e scorpora da

che hanno un punteggio tale suddivisione è fatta in maniera non del tutto

4; 5) per classi che la nota delle incongruenze tra tabella e commento.

target di colesterolo LDL a, come schematizzato in Figura 1 e in Tabella 1.

3,5

(modificato da 3)

Target LDL- Col

(MAU)

< 70mmHg

<100 mmHg

<115 mmHg

<130 mmHg

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4. Valutazione della distanza dal target

Un concetto fondamentale da tenere sempre presente quando si imposta una terapia ipolipidemizzante è la distanza dal target, vale a dire quanto bisogna ridurre i livelli di LDL-colesterolo per raggiungere il target terapeutico appropriato per ciascun paziente. E’ come dire che non esistono livelli di LDL-Colesterolo che potremmo definire “normali” uguali per tutti, ma ciascun paziente, in funzione del suo profilo di rischio, avrà un LDL-Colesterolo “desiderabile”. 5. Scelta del trattamento

Attualmente, il trattamento farmacologico ipolipidemizzante si basa in particolar modo sull’utilizzo degli inibitori dell’Idrossi-Metil-Glutaril-Coenzima-A (HMGCoA) reduttasi, o statine, che agiscono inibendo la sintesi epatica del cosiddetto “colesterolo endogeno”, vale a dire quella quota di colesterolo che il nostro organismo comunque sintetizza autonomamente in quanto necessario a tutta una serie di nostri processi biologici vitali. Come vediamo dalla figura 2, fin dall’inizio va attentamente scelta una statina che ci porti alla necessaria riduzione percentuale del colesterolo LDL, tenendo conto che un semplice raddoppio del dosaggio lo riduce solo del 6%. Figura 2: potenziale riduzione del LDL-Colesterolo attesa in base alle diverse molecole e ai diversi dosaggi

6

Un’altra possibilità terapeutica è costituita dall’ezetimibe, una molecola che inibisce l’assorbimento del colesterolo intestinale (sia quello alimentare che quello del circolo entero-epatico). Quando usata singolarmente, questa molecola ha un’efficacia moderata (≤18-20%): il suo utilizzo in associazione con le statine permette di sfruttare il vantaggio della “doppia inibizione” del metabolismo del colesterolo (sintesi epatica e assorbimento intestinale). Infine, nei pazienti con valori di HDL bassi e/o trigliceridi alti possono essere utilizzati i fibrati (in particolare il fenofibrato, che può essere somministrato anche in associazione con le statine),

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rimborsati dal SSN in caso di ipercolesterolemie familiari combinate. Utili anche gli omega-3 in caso di ipertrigliceridemie familiari o in caso di ipertrigliceridemie in corso di insufficienza renale. Tutti questi farmaci sono prescrivibili in forma rimborsabile secondo quanto previsto dalla nota 13 AIFA 2013. 6.4 Follow-up

Una volta effettuato un attento inquadramento diagnostico e impostato un adeguato trattamento (farmacologico o non), il paziente dislipidemico deve essere seguito nel tempo mediante visite mediche e controlli laboratoristici periodici, volti a valutare l’efficacia e la tollerabilità della strategia terapeutica messa in atto. In un paziente a basso RCG la prima scelta può essere senz’altro un trattamento non farmacologico, e una prima rivalutazione dei parametri lipidici può essere effettuata anche a distanza di tempo (fino a 12 mesi). In caso di mancato raggiungimento del relativo target terapeutico, si renderà necessaria l’introduzione del trattamento farmacologico. L’introduzione della terapia ipolipidemizzante farmacologica richiede invece controlli laboratoristici periodici, inizialmente più ravvicinati, secondo il seguente schema:

- a 6 settimane dall’inizio della terapia; - a 12 settimane (3 mesi); - a 6 mesi; - poi, almeno ogni 6 mesi (2 volte l’anno).

Qualora il target terapeutico non sia stato raggiunto, la terapia dovrà essere modificata, aumentandone la posologia o scegliendo un'altra molecola o introducendo un trattamento di associazione. In quest’ultimo caso il paziente dovrà essere monitorato mediante esami ematochimici seriati e più ravvicinati nel tempo fino al raggiungimento del target terapeutico e quindi alla stabilizzazione del dosaggio del trattamento. Gli effetti collaterali principali delle statine sono rappresentati dall’alterazione degli indici di necrosi epatocitaria (sGOT/ALT e sGPT/AST) e dall’aumento degli enzimi muscolari (CPK). A tal proposito sarebbe buona norma conoscere i loro valori basali prima di introdurre il trattamento farmacologico: un’epatopatia attiva costituisce, ad esempio, una controindicazione alla prescrizione delle statine; la presenza di ipotiroidismo aumenta il rischio di miopatia. Una volta introdotto il trattamento ipolipidemizzante, se non si rende necessaria una modifica terapeutica per scarsa efficacia e non si osservano significativi cambiamenti nel primo anno di trattamento, in assenza di sintomatologia sarà sufficiente valutare gli indici di tollerabilità (transaminasi e CPK) una volta l’anno. Si ricorda, infatti, che tali effetti si osservano più comunemente all’inizio del trattamento o quando si aumenti la dose del farmaco o si cambi la molecola. Se invece si dovesse osservare un’alterazione dei parametri di tollerabilità, bisogna innanzitutto valutare l’entità di tali alterazioni: valori di transaminasemia aumentati fino a 3 volte i valori normali e di CPK fino a 4 volte non dovrebbero allarmare e in molti casi permettono di proseguire il trattamento. In questi casi, il paziente andrà comunque seguito più attentamente e con controlli più ravvicinati (7-10 giorni), considerando eventuali concause che possano giustificare tali rialzi (per le CPK: traumi o sforzi muscolari, terapia intramuscolo…). Se tali alterazioni dovessero persistere o in caso di sintomatologia che limiti lo svolgimento delle attività quotidiane, potrà essere valutata l’opportunità di modificare il trattamento (scelta di una molecola a diverso metabolismo, riduzione della posologia, …), sempre monitorando strettamente i parametri di tollerabilità. Viceversa, in assenza di fattori confondenti e/o se i valori si stabilizzassero o rientrassero nei range di normalità, la terapia potrà essere ovviamente proseguita con relativa sicurezza fino a valori di CPK 10 volte superiori ai valori normali (= miopatia). Una definizione completa delle varie problematiche che possono presentarsi a livello muscolare è riportata in tabella 2.

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E’ ovvio però che in tali casi la compliance del paziente (e anche la “tranquillità” del medico…!) potrebbe venir meno prima di raggiungere tali livelli, per cui si raccomanda di inviare il paziente ad un centro specialistico per una più approfondita valutazione. Tabella 2: terminologia

Mialgia dolore muscolare aspecifico, in assenza di altre alterazioni biochimico-cliniche

Miopatia nome generico dato alle affezioni dell’apparato muscolare, associate ad un rialzo degli enzimi muscolari (CPK) di > 10 volte i valori normali

Miosite infiammazione del tessuto muscolare

Rabdomiolisi

distruzione del muscolo striato. Può essere causata da un’infezione o da un’intossicazione ed è associata a contratture dolorose delle masse muscolari interessate, a mioglobinuria e ad un aumento dei tassi ematici degli enzimi muscolari (CPK, ma anche aldolasi e LDH, utili in caso di conferma diagnostica)

6.5 Cosa cambia nella gestione della riduzione del rischio CV nella pratica

clinica?5

Le ultime linee guida sulle dislipidemie 20113 (frutto di uno sforzo congiunto tra i cardiologi della Società Europea di Cardiologia (ESC) e i lipidologi della Società Europea per l’Aterosclerosi (EAS), segnano un importante momento di aggiornamento per la pratica clinica relativamente alla gestione del rischio CV in prevenzione primaria e secondaria, introducendo molte novità che qui di seguito riassumiamo. La valutazione del rischio cardiovascolare globale

Per la stima del rischio CV, che resta il momento fondamentale nell’inquadramento del paziente e nella successiva gestione (vedi sopra), si raccomanda di fare riferimento alle carte del progetto

SCORE che, a differenza del Framingham, prendono in considerazione solo gli eventi fatali di natura cardiovascolare. Secondo il modello SCORE, si definiscono a rischio elevato i soggetti che hanno una probabilità di eventi fatali >0,5% per anno nei successivi 10 anni (= 5%). Approssimativamente, il fattore di conversione tra punteggio SCORE e probabilità di eventi fatali e non fatali è 3, per cui un punteggio SCORE di 0,5% corrisponde alla probabilità di avere 1,5% di eventi CV non fatali per anno (= 15% a 10 anni, che nelle Carte del Rischio CUORE configura però un paziente a rischio moderato). Inoltre, in queste ultime linee guida viene aggiunta, alle 3 (basso, moderato, alto) che esistevano nelle precedenti linee guida, riprese anche dalla carte italiane, una quarta categoria, quella dei soggetti a rischio molto elevato. Ma la vera novità di queste linee guida è la raccomandazione, per la prima volta nella carte europee, di inserire nel calcolo del rischio anche i valori di HDL-colesterolo (finora considerati solo negli algoritmi dei calcolatori del rischio individuale, cfr. calcolatore del punteggio individuale del software cuore.exe) che, a parità di punteggio SCORE, possono modificare significativamente la condizione di rischio. Tuttavia, la correzione per l’HDL-colesterolo non è immediata utilizzando le carte dello SCORE (che peraltro riportano i valori in mmol/L anziché in mg/dL) e può essere agevolmente effettuata solo collegandosi al sito www.escardio.org/guidelines. Altrettanto rilevante è la novità relativa al calcolo del rischio nei giovani e negli anziani. Nei giovani, infatti, il rischio globale risulta molto spesso basso, proprio a causa della giovane età, anche in coloro cha abbiano fattori di rischio molto elevati. In questo caso, come dimostrato dalla figura 3, la valutazione del rischio relativo (ovvero il rapporto tra rischio stimato e rischio di soggetti della stessa età ma senza fattori di rischio) può indicare un rischio comunque di molto superiore a quello atteso e, dunque, consigliare

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l’implementazione di stili di vita che, nell’arco dei dedi eventi tenendo sotto maggiore controllo i fattori di rischio. Allo stesso modo, anziani, proprio per il peso dell’età, il l’aggressività degli interventi dovrebbe tenere conto di questo aspetto e contestualizzarlo caso per caso con le caratteristiche del paziente anziano. Figura 3: calcolo del rischio relativo nei soggetti giovani

La valutazione dei parametri lipidici

Secondo le nuove raccomandazioni, tutti gli uomini dopo i 40 anni e le donne dopo i 50 dovrebbero effettuare uno screening lipidico, che dovrebbe essere anticipato per gli individui con storia familiare di malattie CV ischemiche precocidiabete, obesità, dislipidemie familiari, malattie autoimmuni o insufficienza renale cronica. Lo screening lipidico dovrebbe comprendere i seguenti parametri: HDL e LDL secondo la formula di Friedewald

particolari andrebbe effettuato il essere effettuato, solo per i trigliceridi, dopo almeno 12 ore dipasto per gli altri parametri. Tali raccomandazioni indiscussa relazione continua tra riduzione di LDL e riduzione di mortalità e morbilità evidenze che viceversa mancano Tuttavia, nei pazienti dismetabolici(> 300 mg/dL) possono influenzare il risultato portando paradossalmente ad un valore soddisfacente di LDL. In tali casi, può essere utile calcolare il – che peraltro non risente del digiuno suo target è di 30 mg/dl superiore a quello per l’LDLLDL sarebbe < 100 mg/dl). I target terapeutici

Questa è certamente la sezione più pratiche. Le LDL rimangono il target terapeutico da considerare e i livelli modulati in relazione al rischio di partenza. Cholesterol Treatment Trialists’ Collaboration (CTT) che, in oltre 170.000 pazienti arruolati in studi clinici, conferma la riduzione di eriduce gli eventi di circa il 22%) anche per valori di LDL <70 mg/dlbetter”). Di conseguenza, un’indicazione innovativa di queste linee guida è che

l’implementazione di stili di vita che, nell’arco dei decenni successivi, possano ridurre la probabilità di eventi tenendo sotto maggiore controllo i fattori di rischio. Allo stesso modo,

, proprio per il peso dell’età, il rischio assoluto risulta generalmente tà degli interventi dovrebbe tenere conto di questo aspetto e contestualizzarlo caso per caratteristiche del paziente anziano.

Figura 3: calcolo del rischio relativo nei soggetti giovani (tradotto e modificato da 3; 5

)

parametri lipidici

Secondo le nuove raccomandazioni, tutti gli uomini dopo i 40 anni e le donne dopo i 50 dovrebbero effettuare uno screening lipidico, che dovrebbe essere anticipato per gli individui con storia

ischemiche precoci in presenza di altri fattori di rischio quali ipertensione, diabete, obesità, dislipidemie familiari, malattie autoimmuni o insufficienza renale cronica. Lo screening lipidico dovrebbe comprendere i seguenti parametri: colesterolo totale, trigliceridi,

L e LDL secondo la formula di Friedewald (se i trigliceridi sono <400mg/dl). particolari andrebbe effettuato il dosaggio delle ApoB o della lipoproteina(a). Il dosaggio dovrebbe essere effettuato, solo per i trigliceridi, dopo almeno 12 ore di digiuno mentre non è influenzato dal pasto per gli altri parametri. Tali raccomandazioni tengono conto delle evidenze relative alla indiscussa relazione continua tra riduzione di LDL e riduzione di mortalità e morbilità evidenze che viceversa mancano per qualunque altro indicatore lipidico. Tuttavia, nei pazienti dismetabolici (diabetici, sindrome metabolica…) i trigliceridi spesso elevati (> 300 mg/dL) possono influenzare il risultato portando paradossalmente ad un valore soddisfacente

può essere utile calcolare il non-HDL colesterolo (= colesterolo totale o non risente del digiuno – e monitorarne le fluttuazioni nel tempo, considerando che il

suo target è di 30 mg/dl superiore a quello per l’LDL-colesterolo (es. < 130 mg/dl laddove il target

Questa è certamente la sezione più importante delle Linee Guida per le immediate ripercussioni Le LDL rimangono il target terapeutico da considerare e i livelli

modulati in relazione al rischio di partenza. Il riferimento principale è l’ultima metanalisi della Cholesterol Treatment Trialists’ Collaboration (CTT) che, in oltre 170.000 pazienti arruolati in studi clinici, conferma la riduzione di eventi con la stessa efficacia (1 mmol di riduzione di LDL riduce gli eventi di circa il 22%) anche per valori di LDL <70 mg/dl (concetto del

Di conseguenza, un’indicazione innovativa di queste linee guida è che 36

cenni successivi, possano ridurre la probabilità di eventi tenendo sotto maggiore controllo i fattori di rischio. Allo stesso modo, nei soggetti

risulta generalmente elevato e, dunque, tà degli interventi dovrebbe tenere conto di questo aspetto e contestualizzarlo caso per

Secondo le nuove raccomandazioni, tutti gli uomini dopo i 40 anni e le donne dopo i 50 dovrebbero effettuare uno screening lipidico, che dovrebbe essere anticipato per gli individui con storia

in presenza di altri fattori di rischio quali ipertensione, diabete, obesità, dislipidemie familiari, malattie autoimmuni o insufficienza renale cronica. Lo

colesterolo totale, trigliceridi,

(se i trigliceridi sono <400mg/dl). Solo in casi . Il dosaggio dovrebbe

digiuno mentre non è influenzato dal delle evidenze relative alla

indiscussa relazione continua tra riduzione di LDL e riduzione di mortalità e morbilità CV,

(diabetici, sindrome metabolica…) i trigliceridi spesso elevati (> 300 mg/dL) possono influenzare il risultato portando paradossalmente ad un valore soddisfacente

(= colesterolo totale – HDL) e monitorarne le fluttuazioni nel tempo, considerando che il

(es. < 130 mg/dl laddove il target

immediate ripercussioni Le LDL rimangono il target terapeutico da considerare e i livelli dovrebbero essere

Il riferimento principale è l’ultima metanalisi della Cholesterol Treatment Trialists’ Collaboration (CTT) che, in oltre 170.000 pazienti arruolati in

mol di riduzione di LDL (concetto del “the lower, the

Di conseguenza, un’indicazione innovativa di queste linee guida è che tutti i soggetti con

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malattia CV documentata, diabete, insufficienza renale cronica o SCORE >1categoria del rischio molto elevato) devono raggiungere il target <70 mg/dl. Nerischio i target sono rispettivamente 100, 1basso.

Come ottenere una riduzione dei livelli di LDL

Le linee guida hanno evidenziato(riduzione di circa 8 mg/dl per ogni 10 kg di peso persi) sui livelli di LDL rilevanza il ruolo favorevole sui livelli di Ma la vera novità del documento riguarda l’esame dei cosiddetti “naturali contenuti in cibi o in prodotti commerciali che possono essere usati in aggiunta ai farmaci che riducono il colesterolo, o isolatamente in alcune cdocumentata riduzione delle LDL nell’ordine del 7fitosteroli (sitosterolo, campesterolo, stigmasterolo) che sono presenti naturalmente negli oli vegetali, nei vegetali, frutta fresca, noci e legumi o aggiunti a yogurt o altri cibi. Altrettanto utile per la riduzione del colesterolo è la somministrazione, in dosi di idrosolubili di cui sono arricchiti attualmente una serie di cibi. A completamento di quanto riportato sulle linee guida, aricavato da erbe cinesi, al dosaggio di (“lovastatina vegetale”), a dosaggi di al 20% circa. Risultati simili, ma ancora da confermare, sono stati ottenuti anche con i Un limite di questo approccio è che mancano dati a lungo termine relativi al profilo di sicurezza di questi prodotti che comunque, ed è questa una novità, possono essere livello di rischio non giustifichi l’assunzione di farm

dietetici per il controllo dei valori di colesterolemia. Tabella 4: consigli per il controllo non farmacologico della colesterolemia

Trattamento farmacologico

Viene ribadito il ruolo centrale ed insostituibile delle statineindipendenti dal tipo di statina e, dunque, la scelta di quest’ultima deve essere effettuata in relazione

documentata, diabete, insufficienza renale cronica o SCORE >1categoria del rischio molto elevato) devono raggiungere il target <70 mg/dl. Ne

rispettivamente 100, 115 e 130 mg/dl per i soggetti a rischio alto, moderato e

a riduzione dei livelli di LDL: terapia non farmacologica e nutraceutici

to il ruolo modesto dell’attività fisica e della riduzione del peso (riduzione di circa 8 mg/dl per ogni 10 kg di peso persi) sui livelli di LDL rilevanza il ruolo favorevole sui livelli di HDL, trigliceridi e sulla insulino-sensibilitàMa la vera novità del documento riguarda l’esame dei cosiddetti “nutraceutici

naturali contenuti in cibi o in prodotti commerciali che possono essere usati in aggiunta ai farmaci che riducono il colesterolo, o isolatamente in alcune categorie di soggetti. In particolare, una documentata riduzione delle LDL nell’ordine del 7-10% è ottenibile con l’assunzione di

(sitosterolo, campesterolo, stigmasterolo) che sono presenti naturalmente negli oli ali, frutta fresca, noci e legumi o aggiunti a yogurt o altri cibi. Altrettanto utile per

la riduzione del colesterolo è la somministrazione, in dosi di 5-15 gr/die, di fibre vegetali

idrosolubili di cui sono arricchiti attualmente una serie di cibi. di quanto riportato sulle linee guida, anche la berberina,

al dosaggio di 1 g/die, e il riso rosso fermentato, che contiene , a dosaggi di 10 mg/die, hanno dimostrato di ridurre l

Risultati simili, ma ancora da confermare, sono stati ottenuti anche con i Un limite di questo approccio è che mancano dati a lungo termine relativi al profilo di sicurezza di questi prodotti che comunque, ed è questa una novità, possono essere consigliati nei casi in cui il

livello di rischio non giustifichi l’assunzione di farmaci. La tabella 4 riassume una serie di consigli dietetici per il controllo dei valori di colesterolemia.

Tabella 4: consigli per il controllo non farmacologico della colesterolemia (modificato da

ruolo centrale ed insostituibile delle statine. I benefici clinici appaiono indipendenti dal tipo di statina e, dunque, la scelta di quest’ultima deve essere effettuata in relazione

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documentata, diabete, insufficienza renale cronica o SCORE >10% (ovvero la categoria del rischio molto elevato) devono raggiungere il target <70 mg/dl. Nelle altre categorie di

soggetti a rischio alto, moderato e

n farmacologica e nutraceutici

il ruolo modesto dell’attività fisica e della riduzione del peso (riduzione di circa 8 mg/dl per ogni 10 kg di peso persi) sui livelli di LDL (mentre è di notevole

sensibilità). nutraceutici”, ovvero principi

naturali contenuti in cibi o in prodotti commerciali che possono essere usati in aggiunta ai farmaci ategorie di soggetti. In particolare, una

10% è ottenibile con l’assunzione di 2 gr/die di

(sitosterolo, campesterolo, stigmasterolo) che sono presenti naturalmente negli oli ali, frutta fresca, noci e legumi o aggiunti a yogurt o altri cibi. Altrettanto utile per

15 gr/die, di fibre vegetali

, un alcaloide naturale contiene monacolina K

di ridurre l’LDL colesterolo fino Risultati simili, ma ancora da confermare, sono stati ottenuti anche con i policosanoli.

Un limite di questo approccio è che mancano dati a lungo termine relativi al profilo di sicurezza di consigliati nei casi in cui il

. La tabella 4 riassume una serie di consigli

(modificato da 3; 5

)

benefici clinici appaiono indipendenti dal tipo di statina e, dunque, la scelta di quest’ultima deve essere effettuata in relazione

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alla entità della riduzione necessaria (“distanza dal target”) nel singolo paziente ed alla efficacia e tollerabilità della molecola. Nell’Addendum II on line delle Linee Guida è possibile trovare un breve vademecum operativo. Solo quando la massima dose tollerata della statina più efficace non riesce a raggiungere il target desiderato, si possono considerare strategie alternative o di combinazione. A tale riguardo le statine possono essere associate a vari altri farmaci che riducono il colesterolo, anche se la combinazione con ezetimibe appare certamente quella da favorire in prima scelta per il profilo di tollerabilità ed efficacia. Altre combinazioni possono essere prese in considerazione in relazione al profilo lipidico del paziente, compresa quella con acidi grassi omega-3, fibrati (evitando il gemfibrozil per gli aumentati rischi di miopatia) e fitosteroli. Popolazioni speciali

Nei bambini, tranne casi particolari, il trattamento farmacologico dovrebbe essere differito fino ai 18 anni, mentre nelle donne e negli anziani, sia pure poco rappresentati nei grandi studi, non esistono motivi di differenziazione rispetto agli uomini sia in prevenzione primaria che secondaria. In particolare, si raccomanda la terapia ad alti dosaggi di statine da iniziare tra 1 e 4 giorni da un evento coronarico così come raccomandato dalle Linee Guida attuali sulle Sindromi Coronariche Acute, anche se si sottolinea cautela nei pazienti anziani o con insufficienza renale o epatica. La vera novità sta però nella raccomandazione di rivalutare dopo 4-6 settimane i livelli di LDL ed

eventualmente aggiustare i dosaggi in relazione al target da mantenere in cronico. 6.6 Aferesi delle LDL

Quei rari pazienti che presentano un quadro di grave ipercolesterolemia, in particolare: - ipercolesterolemia familiare omozigote, - ipercolesterolemia familiare in doppia eterozigosi, - ipercolesterolemia familiare con valori di LDL minacciosamente alti nonostante la terapia

medica ipolipidemizzante al massimo dosaggio tollerato, e che come tali hanno notevoli difficoltà di trattamento con i farmaci attualmente disponibili, devono essere indirizzati a visita specialistica per valutare l’opportunità del trattamento con LDL-aferesi. Si tratta di una tecnica impegnativa e costosa ma altrettanto efficace, che consiste nel depurare il sangue in circolazione extracorporea dalle LDL in eccesso, a intervalli che di volta in volta saranno valutati in base alla risposta del paziente (le linee guida consigliano 1 o 2 volte a settimana, ma diversi protocolli hanno dato soddisfacenti risultati anche con intervalli di tempo di 10-15 giorni). La LDL-aferesi deve essere associata al trattamento con farmaci ipolipemizzanti per mantenere i livelli di LDL-colesterolo a valori accettabili anche negli intervalli di tempo tra una procedura e la successiva; il vantaggio è quello di poter ridurre la posologia di tali farmaci a dosaggi meglio tollerati rispetto a quelli che altrimenti sarebbero stati necessari nelle suddette situazioni. Dati i costi e la scarsa disponibilità di accesso alle poche strutture in grado di gestire tale metodica, la sua indicazione e prescrizione resta comunque a carico dei Centri specialistici di riferimento. BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA: 1. Soutar AK et al. Nat Clin Pract Cardiovasc Med 2007; 4(4): 214-225.

2. Simon Broome Register http://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK53810/

3. ESC/EAS guidelines for the management of dyslipidaemias. Eur Heart J 2011;32:1769–1818

4. Dutch Lipid Score http://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK53817/

5. http://www.cardiolink.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6103%3Ale-nuove-linee-guida-esceas-

per-il-trattamento-delle-dislipidemie&catid=1046%3A3-2011&Itemid=1

6. Nota 13 AIFA 2013; Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.83 del 9-4-2013

Per saperne di più

Linee guida cliniche per la prevenzione della cardiopatia ischemica nella ipercolesterolemia familiare.

Giorn Ital Aterosc 2013.

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La storia della nota 13

Le note AIFA furono introdotte a partire da inizio anni 2000 per sostituire le vecchie note CUF. Lo scopo

restava comunque quello di regolamentare la rimborsabilità dei farmaci in determinate categorie di

pazienti. La nota 13 è quella che stabilisce in quali circostanze siano rimborsabili o meno i farmaci

ipolipidemizzanti, in particolare le statine, che si stavano affermando già da 5-10 anni come farmaci di

sicura efficacia ma, purtroppo, gravate da un costo significativamente alto e che perciò imponeva delle

scelte strategiche riguardo le categorie a cui destinare in primo luogo tale trattamento.

Fin dalle prime versioni (2001), la nota 13 faceva riferimento non al solo livello di colesterolo totale ma al

rischio cardiovascolare globale (RCG), che all’epoca era stato introdotto dalle carte del rischio europee

mutuate sui dati del Framingham Heart Study e del Framingham Risk Score. La nota 13 stabiliva che la

rimborsabilità dovesse essere garantita a tutti i pazienti in prevenzione secondaria e – in prevenzione

primaria – a quelli con forme familiari o con un RCG > 20%.

Le carte del Framingham avevano però il limite di sovrastimare il rischio nelle popolazioni mediterranee –

e quella italiana in particolare – che, relativamente alla popolazione americana, sono gravate da un rischio

più basso. Per tali motivi nacquero le carte italiane del progetto CUORE dell’Istituto Superiore di Sanità

(ISS) che valutavano il rischio di eventi cardiovascolari totali (fatali e non); su quelle carte si basò la

successiva versione della nota 13 (2004), ribadendo la rimborsabilità a tutti i pazienti in prevenzione

secondaria e, per quelli in prevenzione primaria, solo se affetti da forme familiari o con un RCG > 20%

(considerato alto). In tal modo si mantenevano i cordoni della borsa (per così dire) ancora abbastanza

stretti e, in particolare nelle donne, era assai difficile riuscire a prescrivere un trattamento “preventivo” – e

per sia natura “cronico” – in regime di rimborsabilità.

Nel 2006 la simvastatina (e di lì a poco anche la pravastatina) perse il brevetto, e di conseguenza il prezzo

delle statine cominciò a scendere. La versione 2007 della nota, pur basandosi ancora sulle carte italiane

ISS, cominciò quindi ad adottare criteri un po’ meno restrittivi e a concedere la rimborsabilità anche a quei

pazienti con forme iatrogene o ai pazienti con insufficienza renale (forme cliniche per le quali, nel

frattempo, erano state prodotte sufficienti prove di efficacia).

Ma è negli ultimi due anni che si è assistito ad un vero stravolgimento della filosofia di trattamento e dei

criteri adottati per la rimborsabilità. Nel luglio 2011 fu pubblicata una versione della nota che, in virtù

della – allora prossima – scadenza del brevetto anche di atorvastatina, e quindi di un atteso generale calo

dei costi di trattamento, non richiedeva più l’uso delle carte del rischio per valutare la rimborsabilità, che

invece veniva concessa (oltre che ai pazienti con forme familiari o in prevenzione secondaria, considerati

sempre ad alto rischio) anche a tutti i pazienti in prevenzione primaria con un RCG moderato (definito,

quindi, non più in base alle carte ma sulla base della copresenza di 2 o più fattori di rischio): in tal modo

era assai più semplice avviare ad un trattamento con statine anche i pazienti di sesso femminile, i giovani

(prima non valutabili con le carte, fino ai 40 anni) e gli anziani (che prima, oltre i 69 anni, non potevano

essere inquadrati dalle carte). Inoltre, furono introdotte delle tabelle (farmaci di I o di II livello) che

avevano lo scopo di aiutare nella scelta del trattamento: infatti, con la nota era fornito anche un grafico che

riassumeva i diversi gradi di potenza (= di efficacia) delle diverse statine e dei loro diversi dosaggi (cioè la

percentuale di riduzione dell’LDL-colesterolo attesa per ciascuna molecola e ciascun dosaggio) in modo

da facilitare la scelta del trattamento in funzione della distanza dal target per l’LDL- colesterolo previsto

per ciascun paziente.

Questa versione ebbe vita breve in quanto, nel novembre 2012, una nuova versione stabilì che era

indispensabile riavvicinarsi alle linee guida europee (varate nel 2011) e quindi era necessario tornare a

usare le carte del rischio. Questa volta, però, si fece riferimento alle carte europee del progetto SCORE,

che definiscono solo il rischio di eventi fatali e per tale motivo hanno valori confrontabili con le carte

italiane in un rapporto circa 1:4. Pertanto, le carte europee considerano ad alto rischio il soggetto che ha

una probabilità di avere un evento > 5% nei 10 anni successivi. Questo aspetto va sottolineato perché

altrimenti si rischia di male interpretare un risultato del calcolo del RCG fatto con le carte europee (e non

più con quelle italiane) e di considerare a basso rischio chi è invece ad alto RCG (es. 5% con le carte

italiane piuttosto che con le carte europee).

La versione del 2012 conteneva ancora alcuni “refusi” e piccole imperfezioni che sono state “sanate” nella

ultima versione dell’aprile del 2013. La rosuvastatina è stata ammessa a rimborsabilità nei pazienti con

una forma di ipercolesterolemia familiare (distanza dal target > 50%; potenza della rosuvastatina 20 mg >

50%) Per il resto, tale versione è rimasta sostanzialmente immodificata.

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^ ^ ^ ^ ^

N.B. per la versione integrale della ultima versione della nota 13 si rimanda alla: - Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.83 del 9-4-2013

Riassumendo: possiamo dire che le diverse versioni della nota 13 si sono rese necessarie per mantenere

un difficile equilibrio farmaco-economico tra situazioni che ne allargavano le indicazioni, come il

progredire delle conoscenze (quindi delle evidenze a vantaggio del trattamento) e le variazioni di prezzo

(via via che i farmaci perdevano il brevetto) da una parte, e le esigenze dei bilanci della sanità pubblica –

che invece tendevano a regolamentarne l’utilizzo in un’ottica di contenimento delle risorse economiche.

Per la sua complessità e per le continue modifiche che ha subito, la nota 13 è stata spesso criticata ma le

ultime versioni, che hanno inserito delle tabelle con i farmaci consigliati nelle varie forme di

dislipidemia (a cominciare dai farmaci per il trattamento di I livello e poi, progressivamente, a salire

verso i trattamenti più “intensivi”), se ben utilizzate, possono fornire sufficienti garanzie di

appropriatezza.

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7. INSUFFICIENZA RENALE CRONICA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE

L’insufficienza renale cronica (IRC) è dovuta al lento, insidioso e progressivo decadimento

irreversibile delle funzioni renali sia escretoria che endocrina fino all’uremia terminale che richiede la dialisi o il trapianto, a differenza della forma acuta in cui la riduzione funzionale identificabile si verifica nell'arco di giorni ed è spesso reversibile. Patogenesi e stadiazione

E’ solo parzialmente nota. E’ in ogni caso multifattoriale e probabilmente dovuta alla ritenzione contemporanea di sostanze di vario tipo (azotemia, creatinina, uricemia, “medie molecole”…) che svolgono un ruolo patogeno con effetti sinergici, ad alterazioni idroelettrolitiche e dell'equilibrio acido base (acidosi), ad un aumento inappropriato dell’'increzione di ormoni (PTH, fattori natriuretici atriale e ipotalamico) ed è causata comunque da una vasta gamma di nefropatie e concause (iatrogena, pressoria, tossica, alimentare). Per mantenere normale l'equilibrio idro-elettrolitico ed acido-base, è necessario che il rene riceva una normale quantità di substrato (flusso ematico normale), abbia filtrato glomerulare (VFG) e funzione tubulare normali per formare l'urina ed abbia una via escretrice normale. L'insufficienza renale può quindi essere grossolanamente classificata come pre-renale (in cui il rene non riceve un flusso ematico adeguato), renale (in cui i componenti del rene di per sé non funzionano normalmente) e post-renale (in cui è alterata la normale escrezione dell'urina dopo che questa è stata prodotta). L'entità dell'insufficienza è quantificabile con lo studio del volume del filtrato glomerulare

(VFG), stimato con buona approssimazione dalla clearance della creatinina, clearance della creatinina = Concentrazione urinaria creatinina x Volume urinario

Concentrazione plasmatica creatinina

La creatinina è eliminata quasi completamente dalla filtrazione glomerulare e quindi indicatore ideale della funzione renale, meglio dell’azotemia che è il prodotto terminale del metabolismo proteico ed è dipendente sia dall’apporto dietetico di proteine che dalla velocità del loro catabolismo e, pur essendo escreta anch’essa per filtrazione glomerulare, è riassorbita in quantità significativa lungo il tubulo (in particolare negli stati di avidità del sodio, come la deplezione di volume) per cui il rapporto azotemia/creatininemia è 10 a 1. Il VFG può essere stimato ancora più esattamente (poiché la clearance della creatinina, venendo in piccola parte escreta, lo sovrastima un po’ e farmaci che inibiscono la secrezione tubulare di creatinina come cimetidina trimetoprim triamterene spironolattone e amiloride lo sottostimano) dalle formule di Cockroft e Gault

1° formula (140-età in anni) x peso in Kg

creatinina s. in mg/dl x 72

nel sesso femminile moltiplicare il valore finale x 0.85

2° formula K x (140-età in anni) x peso in Kg

creatinina s.in mg/dl x 8,86

K = 1,25 per l’uomo e 1,05 per la donna. In tabella 1 è riportata la classificazione dell’IRC in stadi proposta nel 2002 dalla National Kidney

Foundation (NKF) (1) ed espressa nelle linee guida della Kidney Disease Outcome Quality

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Initiative (K-DOQI) in base al VFG. La relativa stadiazione prende in considerazione due fattori: il "danno renale" e la riduzione della funzione renale, intesa come velocità di filtrazione glomerulare “VFG”. Il primo è diagnosticato a partire da reperti di laboratorio (presenza di albumina, proteine o tracce di sangue di origine renale nelle urine), strumentali (alterazioni patologiche individuabili con l'ecografia renale) o istologiche (biopsia renale), persistenti da almeno tre mesi. La presenza di tali segni consente di porre diagnosi di malattia renale cronica anche quando la velocità di filtrazione glomerulare è ancora normale o aumentata (stadio 1) o solo lievemente ridotta (stadio 2).

Tale classificazione è stata modificata nel 2004 dalla Kidney Disease Improving Global Outcomes (KDIGO) (2), aggiungendo un riferimento all'eventuale terapia sostitutiva in corso con l'aggiunta di una lettera T per trapianto, D per dialisi. Compromissione anatomofunzionale nell’IRC

Interessa numerosi organi ed apparati: − anemia ipoproliferativa, normocromica e normocitica da deficit di eritropoietina; − alterazioni dell’immunità umorale ma soprattutto cellulare con aumento della suscettibilità

ad infezioni batteriche, virali e micotiche; − alterazioni dell'omeostasi del calcio e del fosforo con secondaria iperattivazione

paratiroidea; − alterazioni neurologiche centrali fino all’encefalopatia uremica da alluminio o su base

aterosclerotica e periferiche come la restless leg syndrome; − gastrite uremica da ipergastrinemia; − compromissione polmonare interstiziale a tipo "polmone uremico" o "da acqua"; − alterazioni del metabolismo lipidico con aumento dei trigliceridi in VLDL e LDL,

diminuzione del colesterolo HDL, aumento del colesterolo VLDL, riduzione della ApoA, aumento della ApoB e iperomocisteinemia;

− compromissione della funzione endocrina con riduzione dell'idrossilazione da parte del rene del 25(0H)-colecalciferolo (calcifediolo) prodotto dal fegato in 1.25(OH)2 colecalciferolo (o calcitriolo), con un deficit di produzione di eritropoietina e l'iperproduzione di renina. E' incerto il ruolo della ridotta produzione a livello renale di sostanze ad azione vasodilatatrice, quali alcune prostaglandine.

Alterazioni dell'apparato CV nell’IRC

Degne di nota sono le alterazioni dell'apparato CV, specie dei pazienti in dialisi (30-50% dei decessi da patologia CV), ma che in maniera subdola possono essere presenti o prepararsi anche negli altri stadi (3). In era predialitica erano molto frequenti gli episodi di pericardite, spesso mortali. Il trattamento dialitico precoce ha ridotto la frequenza e la gravità di questa complicazione, più rara in dialisi peritoneale che in emodialisi, pur non annullandola. I fattori eziopatogenetici della pericardite

uremica sono numerosi: in alcuni casi è responsabile uno stato di uremia non ben corretto dal trattamento sostitutivo; altre volte questa complicazione interviene in soggetti apparentemente non sottodializzati: in queste condizioni è stato prospettato un possibile ruolo dell'ipertensione arteriosa, dell'iperparatiroidismo secondario, di meccanismi immunologici da immunocomplessi circolanti,

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l'uso cronico di eparina, gli stress chirurgici. L'eziologia può essere inoltre infettiva, batterica o virale. Aritmie cardiache (extrasistoli, tachicardie sopraventricolari, bradiaritmie) sono presenti dal 17% al 90% a seconda delle casistiche e possono essere scatenate da vari fattori: rapide variazioni, intra o interdialitiche, delle concentrazioni elettrolitiche sieriche, in particolare di potassio e calcio; modificazioni dell'equilibrio acido-base o della ripartizione ionica intra-extracellulare. Da tempo è stato prospettato un possibile effetto miocardiolesivo dell'uremia, tanto che si parla di cardiomiopatia uremica come forma a sé stante: anche indipendentemente dall'ipertensione arteriosa, si ha un aumento del volume cardiaco, con allargamento delle cavità sinistre, un'ipertrofia ventricolare sinistra e/o del setto interventricolare. A livello microscopico si osservano una fibrosi miocardica, talora grave, fenomeni degenerativi delle cellule miocardiche e deposizioni di calcio focali o, in caso di iperparatiroidismo, massive. L'arteriosclerosi coronarica è particolarmente frequente anche nei giovani e può causare stenosi coronariche e fenomeni ischemici gravi che non di rado sono asintomatici anche in soggetti non diabetici. Quando non correggibile, la cardiopatia ischemica può costituire una controindicazione al trapianto di rene. Terapia delle alterazioni dell’apparato CV

Nella terapia è fondamentale la correzione dei fattori rimovibili eventualmente implicati; la terapia farmacologica digitalica trova indicazioni nelle tachicardie sopraventricolari, nella fibrillazione

atriale o nello scompenso cardiaco, in assenza di un sovraccarico idrico o di ipertensione grave. L'insufficienza renale riduce la maneggevolezza della digossina, che non è dializzabile, aumentandone la tossicità. Si raccomanda in genere una dose iniziale di 0,25 mg/die per 2-3 giorni; la dose di mantenimento è in genere 0,125 a giorni alterni. L'obiettivo è di mantenere valori di digossinemia intorno a 1 ng/ml. E' necessaria una regolare monitorizzazione del farmaco. Altri Autori preferiscono la digitossina in relazione al suo metabolismo prevalentemente epatico. I vasodilatatori arteriolari (idralazina e minoxidil) possono migliorare la gittata cardiaca riducendo l'impedenza al deflusso; quelli venosi (nitroglicerina ed isosorbide dinitrato) agiscono aumentando la capacità del comparto venoso. Gli ACE inibitori, che inducono una favorevole ridistribuzione della gittata, possono essere usati in condizioni di scompenso, ma con attenta monitorizazione della potassiemia. I nitroderivati sono sicuri, ma possono causare ipotensioni. Tra i betabloccanti sono più usati il carvedilolo, il propranololo ed il metoprololo, che hanno un metabolismo epatico. Nel trattamento delle coronaropatie, le indicazioni all'angioplastica e agli interventi a cuore

aperto sono simili a quelli nei pazienti non uremici, pur con rischi più elevati. L'ipertensione arteriosa nell'insufficienza renale cronica evolve da una fase iniziale con gettata cardiaca aumentata e resistenze periferiche normali, ad una fase caratterizzata da un aumento delle resistenze periferiche. L'aumento della gettata cardiaca consegue all'espansione di volume extracellulare e all'anemia; l'aumento delle resistenze periferiche riconosce una genesi polifattoriale (espansione extracellulare, alterazioni del trasporto cellulare del sodio, attivazione del sistema renina-angiotensina e del sistema nervoso autonomo e, forse, riduzione delle sostanze ad azione vasodilatatrice di produzione renale). Sul piano pratico peraltro, il controllo dell'ipertensione arteriosa nel paziente in dialisi, è considerato tutt’ora di grande importanza per la riduzione della mortalità cardiovascolare, ma non è sempre agevole; i trattamenti ultra brevi diffusi in questi ultimi anni (dialisi di circa 3 ore) e l'impiego dell'eritropoietina, per il suo effetto ipertensivante, possono renderlo più difficile; la regolarizzazione dei valori pressori di questi pazienti non è sempre soddisfacente. Per il controllo dell'ipertensione sono fondamentali innanzitutto la restrizione dietetica dell'apporto di sodio e di acqua, un'adeguata disidratazione in corso di dialisi e variazioni mirate del tenore di sodio della soluzione dializzante. Nella scelta degli antiipertensivi si preferiscono betabloccanti, ACE-inibitori, calcioantagonisti ed inibitori del recettore dell’ Angiotensina II. Tra i betabloccanti, teoricamente indicati nei pazienti con coronaropatia ischemica o con aritmie, sono da preferire quelli a metabolizzazione epatica, per il minor rischio di accumulo e di bradicardia. Gli ACE inibitori potrebbero avere un'indicazione

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elettiva nei casi con elevata attività reninica o con insufficienza cardiaca, ma, specialmente nelle prime settimane, è possibile la comparsa di iperpotassiemia; nello studio REIN il ramipril ha però dato risultati eccezionali nella riduzione della frazione di filtrazione glomerulare e del rischio di insufficienza renale nella nefropatia non diabetica con proteinuria. I calcioantagonisti hanno una buona efficacia, ma, dilatando l’arteriola afferente glomerulare, possono incrementare la proteinuria. I sartani sono stati studiati nella nefropatia diabetica: lo studio RENAAL (losartan), gli studi IRMA 2 e IDNT (irbesartan) e lo studio ROADMAP (olmesartan) hanno dimostrato la loro capacità di ridurre la progressione della IRC, per il loro effetto antiproteinurico legato, più che alla riduzione della pressione arteriosa, al blocco dell’iperfiltrazione glomerulare da riduzione della pressione idrostatica conseguente alla dilatazione dell’arteriola efferente. I farmaci ad azione

centrale (clonidina, alfametildopa) possono causare secchezza della fauci, stipsi, sedazione ed ipotensione ortostatica; sono possibili rebound ipertensivi in caso di sospensione della clonidina; la dialisi rimuove significativamente l'alfametildopa, per cui può esserne richiesta una dose supplementare a fine seduta. Rischio CV e IRC

Come detto sopra, i pazienti con IRC presentano spesso ipertensione, dislipidemia o diabete

mellito, tutte patologie che costituiscono fattori di rischio maggiori per lo sviluppo e la progressione di disfunzione endoteliale ed aterosclerosi e che contribuiscono anche alla progressione dell’insufficienza renale. Ancora oggi questa categoria di pazienti tende a ricevere trattamenti meno intensivi rispetto ai pazienti con normale funzionalità renale (4). Nell’IRC i mediatori di

infiammazione ed i promotori della calcificazione risultano aumentati, mentre gli inibitori della calcificazione risultano ridotti, favorendo così la comparsa di calcificazioni vascolari e danno vascolare (5). La presenza di microalbuminuria è associata ad un rischio cardiovascolare 2-4 volte più elevato. Ridotti valori di VFG sono indicativi di aumentato rischio per malattie CV e mortalità per tutte le cause. In un ampio studio di coorte l’anemia, un ridotto VFG e la microalbuminuria sono risultati associati in modo indipendente a malattie CV e, se presenti simultaneamente, determinavano più frequentemente la comparsa di malattie CV ed un peggioramento della sopravvivenza (6). Il rischio CV è correlato all’entità di riduzione del VFG: i pazienti con disfunzione renale moderata (stadio 3, VFG 30-59 ml/min/1.73 m²) mostrano un rischio CV 2-4 volte maggiore rispetto ai pazienti senza IRC. Il rischio diventa 4-10 volte più elevato nell’IRC in stadio 4 (VFG 15-29 ml/min/1.73 m²) e 10-50 volte più elevato nell’IRC in stadio 5 (insufficienza renale terminale) (VFG <15 ml/min/1.73 m² o dialisi) (5). La terapia ipolipemizzante, come dimostra lo studio SHARP, sembra avere effetti favorevoli in un’ampia gamma di pazienti con IRC avanzata senza storia pregressa di infarto miocardico o rivascolarizzazione coronarica: una diminuzione di 0.85 mmol/l (33 mg/dl) del colesterolo legato alle lipoproteine a bassa densità (LDL) mediante terapia d’associazione con simvastatina 20 mg/die ed ezetimibe 10 mg/die è risultata determinare una riduzione dell’incidenza di eventi CV maggiori (infarto miocardico non fatale, morte, ictus non emorragico e necessità di rivascolarizzazione arteriosa) (7). Dislipidemia nell’IRC e linee guida

Secondo le linee guida ESC sulla prevenzione CV del maggio 2012 (8) la malattia renale cronica è caratterizzata da una dislipidemia mista (alti trigliceridi e colesterolo LDL e basso colesterolo HDL). La microalbuminuria è un fattore di rischio per malattia CV, che aumenta progressivamente da un normale VFG allo stadio finale. E’ noto che la malattia renale cronica dallo stadio 2 al 5 (ad esempio anche un VFG 90 ml/min/1.73 m²) è equivalente come rischio CV ad una coronaropatia e gli obiettivi terapeutici per il colesterolo LDL in questi pazienti devono essere adattati al grado di insufficienza renale. La dose di statina dovrebbe essere modificata secondo il VFG. La terapia con statine ha effetti positivi sugli esiti CV negli stadi 2 e 3 e rallenta la velocità di progressione del danno renale.

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Tabella 2: target terapeutici per l’LDL-Colesterolo a seconda del grado di IRC

Livello di rischio Target LDL- Col

molto alto − IRC grave (VFG 15-29 ml/min/1.73m2) < 70mmHg

alto − IRC moderata (VFG 30-59 ml/min/1.73m2) <100 mmHg

Secondo le linee guida ESC EAS sulla gestione delle dislipidemie del giugno 2011 (9), la riduzione del VFG è associata con malattie CV indipendentemente dagli altri fattori di rischio. Il profilo dei lipidi nell’insufficienza renale mostra anormalità quali-quantitative che peggiorano con il declino della funzionalità renale. Si ha un basso colesterolo HDL e l’elevazione dei trigliceridi è causata da aumentata produzione e ridotta eliminazione per modifiche degli enzimi regolatori e proteine. Conseguentemente i livelli del colesterolo non-HDL e dell’apoB sono aumentati e le sottoclassi di LDL vanno verso un eccesso di LDL piccole e dense ed un catabolismo marcatamente rallentato delle LDL con elevazione di esso e del colesterolo totale. Si ha inoltre un aumento dei livelli plasmatici di Lp(a). Numerosi studi clinici e post-hoc analisi evidenziano gli effetti benefici di una terapia con statine in pazienti con insufficienza renale cronica in stadio 2 e 3. Il Pravastatin Pooling Project (PPP) incluse 19.737 soggetti con un follow-up medio di 64 mesi ed evidenziò benefici notevoli nei soggetti con insufficienza renale e diabete con una significativa riduzione del rischio di mortalità per tutte le cause (rischio relativo 0.81 95% CI 0.73-0.89). Nell’ Heart Protection Study (HPS) la riduzione del rischio assoluto fu 11% in un sottogruppo di soggetti con lieve insufficienza renale comparato con 5.4% della coorte totale. I risultati dei pazienti con malattia cronica renale avanzata (stadio 4-5) ed in dialisi erano meno chiari: solo due studi osservazionali hanno riportato benefici dall’uso di statine in soggetti in emodialisi. Comunque nello studio Die Deutsche Diabetes Dialyse studie (4D) in un gruppo di 1200 di tali pazienti l’atorvastatina ebbe un non positivo effetto sugli esiti delle malattie CV. I risultati di A study to evaluate the Use of Rosuvastatin in subjects On Regular haemodialysis:

an Assessment of survival and cardiovascular events (AURORA), che arruolò 2776 pazienti in emodialisi, mostrarono che la rosuvastatina riduceva il colesterolo LDL come atteso, ma non aveva effetti significativi sugli esiti CV compositi. Questi risultati negativi mettono in dubbio i benefici delle statine nei pazienti ad alto rischio. Il già citato Study of Heart and Renal Protection (SHARP) riporta i risultati del trattamento con ezetimibe più sinvastatina in paragone con placebo in 9500 soggetti ad alto rischio con malattia cronica renale: i maggiori eventi aterosclerotici furono ridotti del 17% (P = 0.0022) ed i maggiori eventi vascolari del 15.3 % (P = 0.0012). Eterogeneità importanti ma non significative esistono tra i non dializzati ed i dializzati riguardo al placebo. Riguardo alla scelta terapeutica, il target è stabilito dal VFG come nelle altre linee guida. Debbono essere preferiti farmaci ad eliminazione principalmente epatica (fluvastatina, atorvastatina, pitavastatina ed ezetimibe). Statine metabolizzate via citocromo CYP3A4 possono dare interazioni e occorre speciale cautela. Nell’insufficienza renale allo stadio 5, il VFG è <15 mL/min/1.73m² e l’uso di statine con limitata escrezione renale è obbligatorio a basse dosi, mentre un opzione per ridurre i trigliceridi è l’uso di omega 3.

Riguardo alla sicurezza nella gestione del trattamento delle dislipidemie nei pazienti con malattia cronica renale, le statine sono generalmente ben tollerate ad un dosaggio moderato nella insufficienza renale cronica stadio 1-2, mentre negli stadi 3-5 occorrono riduzioni di dosaggio e si rischiano eventi avversi. Dovrebbero essere preferite le statine con minima escrezione renale (atorvastatina, fluvastatina e pitavastatina). Evidenze crescenti segnalano che i fibrati aumentano la creatinina e l’omocisteina, entrambi fattori di rischio CV e alterano la stima del VFG. Gli effetti del fenofibrato sono più pronunciati di quelli

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del gemfibrozil. Il fenofibrato è anche non dializzabile e non dovrebbe essere usato in pazienti con VFG < di 50 ml/min/1.73m². Invece si raccomanda di ridurre a 600 mg/die la dose di gemfibrozil se il VFG è < di 60 ml/min/1.73m² e di evitarlo se il VFG è < di 15 ml/min/1.73m². Recentemente gli omega 3 forniscono un’opzione per ridurre i trigliceridi in pazienti con dislipidemia mista. BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:

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LDL cholesterol with simvastatin plus ezetimibe in patients with chronic kidney disease (Study of Heart and Renal

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8. Perk J, De Backer G, Gohlke G et al. European Guidelines ESC on cardiovascular disease prevention in clinical

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9. ESC/EAS guidelines for the management of dyslipidaemias. Eur Heart J 2011;32:1769–1818

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8. MALATTIE AUTOIMMUNI E RISCHIO CARDIOVASCOLARE

8.1 PSORIASI

La psoriasi sembra essere un fattore di rischio indipendente per infarto miocardico. La sua fisiopatologia è caratterizzata da iperespressione antigenica, attivazione delle cellule T e proliferazione di citochine prodotte dai linfociti T-helper di tipo 1, con conseguente formazione di spesse placche rosse squamose e, in alcuni casi, comparsa di artrite. La psoriasi è anche associata ad alcuni marker di infiammazione sistemica, come l’elevazione della PCR. Il rischio di infarto miocardico è maggiore nei pazienti giovani affetti da psoriasi severa e si riduce leggermente con l’avanzare dell’età, ma rimane comunque elevato anche dopo aggiustamento per i classici fattori di rischio CV. Le forme severe della malattia sono associate ad un rischio più elevato di infarto miocardico rispetto alle forme lievi, rafforzando l’ipotesi che l’alterata risposta del sistema immunitario che caratterizza la psoriasi è correlata ad un rischio più elevato di infarto miocardico e mortalità CV 1, 2. 8.2 ARTRITE REUMATOIDE

I pazienti affetti da artrite reumatoide hanno una probabilità doppia di sviluppare un infarto

miocardico rispetto alla popolazione generale. Tale patologia è associata a tassi di mortalità più elevati nel post-infarto, che tuttavia rendono ragione solo parzialmente della ridotta aspettativa di vita (di 5-10 anni inferiore a quella dei soggetti non affetti). Il rischio CV risulta aumentato già nella primissima fase della malattia e l’eccesso di rischio, in aggiunta ai classici parametri di rischio, è probabilmente correlato al processo infiammatorio sistemico e ad uno stato

protrombotico.

La correzione dei classici fattori di rischio mediante modificazioni dello stile di vita, inclusi l’adozione di un’alimentazione sana, la cessazione del fumo e l’incremento dell’attività fisica

quotidiana, unitamente alla prescrizione di un’appropriata terapia farmacologica possono rivelarsi particolarmente importanti ai fini della riduzione del rischio nei pazienti con psoriasi o artrite

reumatoide. Alcuni studi osservazionali non randomizzati hanno riportato una riduzione dell’incidenza di eventi CV e della mortalità CV nei pazienti affetti sia da artrite reumatoide che da psoriasi trattati con methotrexate ad un dosaggio compreso tra 10 e 20 mg/settimana 3, 4. 8.3 LUPUS ERITEMATOSO SISTEMICO (LES)

Il LES è associato a disfunzione endoteliale e ad aumentato rischio di cardiopatia ischemica (CI), che tuttavia non è interamente imputabile ai classici fattori di rischio per CI. L’infiammazione

sistemica cronica alla base del lupus eritematoso sistemico determina disfunzione del microcircolo coronarico con alterazioni del flusso miocardico assoluto e della riserva coronarica. La disfunzione del microcircolo coronarico è un marker precoce di aterosclerosi accelerata e può contribuire all’aumentata morbosità e mortalità CV in questa categoria di pazienti 5. BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:

1. Perk J, De Backer G, Gohlke G et al. European Guidelines ESC on cardiovascular disease prevention in

clinical practice (version 2012). Eur Heart J, 2012: 352(11): 1138-45

2. Mehta NN, Azfar RS et al. Patients with severe psoriasis are at increased risk of CV mortality: cohort study

using the G. P. Research Database. Eur Heart J 2010;31:1000–1006

3. Westlake SL, Colebatch AN et al. The effect of MTX on MCV disease in rheumatoid arthritis: a systematic

literature review. Rheumatology (Oxford) 2010;49:295–307

4. Prodanovich S, Ma F. et AL. MTX reduces incidence of vascular diseases in veterans with psoriasis or

rheumatoid arthritis. J Am Acad Dermatol 2005;52:262–267

5. Recio-Mayoral A, Mason JC, Kaski JC, Rubens MB, Harari OA, Camici PG. Chronic inflammation and

coronary microvascular dysfunction in patients without risk factors for coronary artery disease. Eur Heart J

2009;30:1837–1843.

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9. ALTRI FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE

9.1 IPERURICEMIA

Introduzione

E’ noto da tempo che l’acido urico è un potente agente anti“scavenger” intra-cellulare dell’eccesso di radicali liberi dell’ossigeno, presenti in condizioni di aumentato stress ossidativo. Tuttavia, numerosi studi clinici hanno mostrato come un incremento dei livelli plasmatici di acido urico al di sopra dei limiti fisiologici inducendo un’aumentata produzione di radicali liberi dellche risultano potenzialmente dannose per la parete vascolare ed altri tessuti. Iperuricemia e Rischio Cardiovascolare

Molteplici sono gli studi clinici che hanno documentato l’associazione tra l’iperuricemiprincipali fattori di rischio cardiovascolare: proprio le strette e complesse interazioni che l’iperuricemia intesse con i classici causale dell’iperuricemia nella patogenesi della ma

Sebbene recenti evidenze sperimentali suggeriscano che l’iperuricemia esercita azioni di tipo ossidativo e pro-infiammatorio, non sono del tutto noti i meccanismi fisiopatologici tramite cui si esplica il danno a carico dell’apparato cardiovascolare (Figura 1) Figura 1: Possibili meccanismi di danno cardiovascolare mediato dell’iperuricemia

D’altro canto, nonostante alcuni trials clinici, che hanno utilizzato “endCV, suggeriscano che il trattamentoeffetto benefico sull’apparato cardiovascolare, le evidenze in tal senso sono ancora poche e talora contrastanti.5 Conclusioni

Non è ancora chiaro se l’iperuricemia rappresenti un fattore di marker di malattia [CV: sono necessari ulteriori studi clinici e sperimentali al fine di chiarire meglio il ruolo dell’acido urico nella patogenesi e nella progressione della malattia Sebbene alcuni piccoli trials clinicieserciti un effetto benefico sull’apparato cardiovascolare, attualmente non esistono in letteratura dati sufficienti per raccomandare il trattamento farmacologico dell’iperuricemia asintomaticprevenzione primaria e secondaria della malattia

LTRI FATTORI DI RISCHIO CARDIOVASCOLARE

E’ noto da tempo che l’acido urico è un potente agente anti-ossidante in grado di fungere da cellulare dell’eccesso di radicali liberi dell’ossigeno, presenti in condizioni di

Tuttavia, numerosi studi clinici hanno mostrato come un incremento dei livelli plasmatici di acido urico al di sopra dei limiti fisiologici (6 mg/dl) +sia in grado di esplicare azioni proinducendo un’aumentata produzione di radicali liberi dell’ossigeno ed una serie di altre alterache risultano potenzialmente dannose per la parete vascolare ed altri tessuti. 1-

Iperuricemia e Rischio Cardiovascolare

Molteplici sono gli studi clinici che hanno documentato l’associazione tra l’iperuricemiprincipali fattori di rischio cardiovascolare: proprio le strette e complesse interazioni che

classici fattori di rischio CV rendono peraltro difficile chiarire il ruolo causale dell’iperuricemia nella patogenesi della malattia CV.3-4

Figura 1: Possibili meccanismi di danno cardiovascolare mediato dell’iperuricemia

D’altro canto, nonostante alcuni trials clinici, che hanno utilizzato “end-points” surrogati di rischio , suggeriscano che il trattamento farmacologico dell’iperuricemia possa esercitare un possibile

effetto benefico sull’apparato cardiovascolare, le evidenze in tal senso sono ancora poche e talora

Non è ancora chiaro se l’iperuricemia rappresenti un fattore di rischio o sia semplicemente un : sono necessari ulteriori studi clinici e sperimentali al fine di chiarire

meglio il ruolo dell’acido urico nella patogenesi e nella progressione della malattia Sebbene alcuni piccoli trials clinici suggeriscano [che la riduzione farmacologica dell’iperuricemia eserciti un effetto benefico sull’apparato cardiovascolare, attualmente non esistono in letteratura dati sufficienti per raccomandare il trattamento farmacologico dell’iperuricemia asintomaticprevenzione primaria e secondaria della malattia CV.

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ossidante in grado di fungere da cellulare dell’eccesso di radicali liberi dell’ossigeno, presenti in condizioni di

Tuttavia, numerosi studi clinici hanno mostrato come un incremento dei livelli plasmatici di acido sia in grado di esplicare azioni pro-ossidanti,

o ed una serie di altre alterazioni -2

Molteplici sono gli studi clinici che hanno documentato l’associazione tra l’iperuricemia e i principali fattori di rischio cardiovascolare: proprio le strette e complesse interazioni che

peraltro difficile chiarire il ruolo

Figura 1: Possibili meccanismi di danno cardiovascolare mediato dell’iperuricemia

points” surrogati di rischio farmacologico dell’iperuricemia possa esercitare un possibile

effetto benefico sull’apparato cardiovascolare, le evidenze in tal senso sono ancora poche e talora

rischio o sia semplicemente un : sono necessari ulteriori studi clinici e sperimentali al fine di chiarire

meglio il ruolo dell’acido urico nella patogenesi e nella progressione della malattia CV. [che la riduzione farmacologica dell’iperuricemia

eserciti un effetto benefico sull’apparato cardiovascolare, attualmente non esistono in letteratura dati sufficienti per raccomandare il trattamento farmacologico dell’iperuricemia asintomatica per la

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N.B. Restano invariate le indicazioni al trattamento dell’iperuricemia nei pazienti con evidenza clinica di gotta o artrite gottosa: le linee guida identificano come trattamenti di prima linea gli inibitori della xantino-ossidasi (allopurinolo), tuttavia la nota AIFA 91 stabilisce che nei soggetti nei quali l’allopurinolo sia controindicato (ipersensibilità nota) o non tollerato, e in caso di inadeguata riduzione dei valori di uricemia, può essere utilizzato il febuxostat. Invece, il trattamento con febuxostat non è raccomandato nei pazienti con cardiopatia ischemica o con scompenso cardiaco congestizio.

BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:

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7.2 LIPOPROTEINA (a)

La lipoproteina (a), nota con la sigla Lp(a), è un fattore di rischio per malattia cardiovascolare ben noto già nella letteratura di quasi 20 anni fa, anche se in tempi più recenti è stata riportata alla ribalta del grande pubblico da parte dei mass media come “il nuovo colesterolo cattivo” e oggi il suo ruolo nella stima del rischio cardiovascolare continua ad essere oggetto di dibattito. La Lp(a) è una particella simile alle LDL (definibile come una LDL aberrante) sintetizzata dal fegato che consiste in un’apolipoproteina B100 (il nucleo proteico della LDL) legata con legame covalente ad una coda glicoproteica di lunghezza variabile di struttura simile al plasminogeno e detta apolipoproteina (a). A differenza delle altre lipoproteine, che hanno una funzione biologica chiara come molecole di trasporto dei lipidi nel plasma, la funzione della Lp(a) è praticamente sconosciuta ma, per le somiglianze strutturali di cui si è appena detto, essa compete col plasminogeno per il legame con la fibrina inibendo, di conseguenza, la fibrinolisi. In vitro, è stato osservato che è in grado di oltrepassare l'intima arteriosa umana e, negli studi compiuti su animali, è stata riportata la capacità di Lp(a) di promuovere trombosi, infiammazione e formazione di cellule schiumose, effetti questi che interessano i momenti salienti dell'aterosclerosi: genesi, progressione ed evento clinico finale. L’aggressività vascolare della Lp(a) consiste quindi nel fatto di comportarsi da un lato come una LDL difficilmente modificabile con la terapia medica standard e dall’altro di avere un’azione pro-

trombotica per antagonismo funzionale col plasminogeno vero.

Un’altra causa di pericolosità legata alla Lp(a) è il fatto di simulare ipercolesterolemie non statino-sensibili che portano il paziente (e spesso anche il suo Medico) ad interrompere la terapia per riscontro di una mancata efficacia nella riduzione della colesterolemia LDL (specie se calcolata con la formula di Friedewald e non dosata con metodo diretto). I livelli di Lp(a) nel sangue sono estremamente variabili (da valori molto bassi, quasi indosabili (<0,2 mg/dL) a livelli molto elevati (>200 mg/dL), cioè 1.000 volte di più) e sono prevalentemente determinati da fattori genetici, in particolare dalle isoforme dell'apo(a) che si differenziano tra loro per la dimensione della molecola: più la molecola di apo(a) è piccola, più la concentrazione plasmatica di Lp(a) è elevata. Le principali cause note di aumento secondario dei livelli di Lp(a) sono l’invecchiamento, l’ipofunzione tiroidea, la sindrome nefrosica, alcune patologie autoimmunitarie sistemiche ed il crollo della stimolazione estrogenica nel post-menopausa, situazioni di per sé associate ad un aumentato rischio di sviluppare una malattia cardiovascolare. Il rischio cardiovascolare associato ad alti livelli di Lp(a) è tipicamente di tipo esponenziale; per questo, a livelli intermedio-alti di Lp(a), il rischio non aumenta di molto rispetto a valori bassi, mentre per valori alti impenna drasticamente. Mancherebbe, cioè, una relazione continua tra livello di Lp(a) e rischio e questo, insieme a problemi di standardizzazione della metodica di misura, potrebbe spiegare i risultati spesso contrastanti degli studi epidemiologici. Una recente metanalisi di 36 studi prospettici che hanno coinvolto 126.634 soggetti in prevenzione primaria ha chiaramente quantificato il rischio cardiovascolare associato ad alti livelli di Lp(a) (Figura 1). Valori particolarmente elevati di Lp(a) sono associati ad un aumento del rischio relativo di 1.13 (95% CI, 1.09-1.18) per quanto riguarda la patologia coronarica e di 1.10 (95% CI, 1.02-1.18) per quanto riguarda lo stroke ischemico. Inoltre, i livelli elevati di Lp(a) sono anche maggiormente associati ad altre patologie vascolari maggiori come l’arteriopatia obliterante periferica e l’aneurisma dell’aorta addominale, oltre che alla cardiopatia ischemica ed allo stroke e nei pazienti affetti da una di queste patologie come l’arteriopatia obliterante periferica, si osserva che coloro che presentano Lp(a) elevata (>30 mg/dL) hanno mortalità totale significativamente più elevata rispetto ai pazienti con valori di Lp(a) inferiori e questa differenza si accentua ancor più confrontando pazienti diabetici e non. Infine, alti livelli di Lp(a) si associano ad un ulteriore e più rapido declino della funzione renale in pazienti già affetti da IRC. La Lp(a) si conferma quindi come un fattore di rischio cardiovascolare indipendente da quelli tradizionali quali colesterolo totale, colesterolo LDL, apolipoproteina B, ipertensione, diabete, obesità e fumo, ma il suo peso prognostico è rilevante solo quando i suoi livelli sono molto elevati.

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Figura 1: Livelli di Lp(a) e RCV

Alla luce di tutti i dati sopra riportati, la Società Europea dell’Aterosclerosirichiamato l’attenzione dei colleghi coinvolti nell’inquadramento e nella gestione del rischio cardiovascolare dei pazienti, suggerendo di dosare rivisto le sue linee guida: per una più precisa valutazione del rischio cardiovascolare, infatti inutile la misura della Lp(a) nella popolazione generalein diversi documenti firmati dalla Socdeterminazione della Lp(a) andrebbe fatta solo nei soggetti con un alto rischio cardiovascolare o con una forte familiarità per malattie aterosclerotiche precoci.Rimane però il problema di cosa faumentato ancor più a causa dell'alta concentrazione di Lp(a).resistente ed è solo leggermente ridotta da un’attività fisica dimostrato una buona azione di riduzione di questa lipoproteina, ma il farmaco non è più disponibile. Solo nelle donne in postterapia ormonale sostitutiva. Non rimane altrischio modificabili: infatti nell’ultima versione 2013 della nota AIFA 13 i pazienti con livelli elevati (> di 50 mg/dl) di Lp(a) sono considerati in “particolari categorie” a rischio. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA:

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2. Koshinsky MI, Marcovina SM, Lipoprotein (a): structural implications for pathophysiology.

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management of dyslipidaemias of the European So

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6. Kamstrup PR, Tybjærg-Hansen A, Nordestgaard BG.

risk prediction.QJ Am Coll Cardiol

Figura 1: Livelli di Lp(a) e RCV

i dati sopra riportati, la Società Europea dell’Aterosclerosirichiamato l’attenzione dei colleghi coinvolti nell’inquadramento e nella gestione del rischio cardiovascolare dei pazienti, suggerendo di dosare sistematicamente la Lp(a)

per una più precisa valutazione del rischio cardiovascolare, inutile la misura della Lp(a) nella popolazione generale. Viceversa, come da tempo suggerito

in diversi documenti firmati dalla Società Italiana per lo Studio dell’Arteriosclerosi (SISA), determinazione della Lp(a) andrebbe fatta solo nei soggetti con un alto rischio cardiovascolare o con una forte familiarità per malattie aterosclerotiche precoci. Rimane però il problema di cosa fare in quei soggetti che hanno un rischio cardiovascolare

a causa dell'alta concentrazione di Lp(a). Infatti, la Lp(a) leggermente ridotta da un’attività fisica adeguata. Solo l'acido nicotinico aveva

una buona azione di riduzione di questa lipoproteina, ma il farmaco non è più Solo nelle donne in post-menopausa si osserva una risposta “farmacologica” alla

Non rimane altro che intervenire con più energia sugli altri rischio modificabili: infatti nell’ultima versione 2013 della nota AIFA 13 i pazienti con livelli elevati (> di 50 mg/dl) di Lp(a) sono considerati in “particolari categorie” a rischio.

Emerging Risk Factors Collaboration. Lipid-related markers and cardiovascular disease prediction.

Koshinsky MI, Marcovina SM, Lipoprotein (a): structural implications for pathophysiology.

Enkhmaa B, Anuurad E, Zhang W, Tran T, Berglung L. Lipoprotein (a): genotype-phenotype relationship and

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Clark R for the PROCARDIS Consortium. Genetic varianys associated with Lp(a) lipoprotein level and coronary

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Catapano A.L. et al. / ESC/EAS Guidelines for the management of dyslipidaemias. The Task Force for the

management of dyslipidaemias of the European Society of Cardiology (ESC) and the Europea

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Hansen A, Nordestgaard BG. Extreme lipoprotein(a) levels and improved

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51

i dati sopra riportati, la Società Europea dell’Aterosclerosi (EAS) – che aveva richiamato l’attenzione dei colleghi coinvolti nell’inquadramento e nella gestione del rischio

(a) – ha recentemente per una più precisa valutazione del rischio cardiovascolare, risulterebbe

. Viceversa, come da tempo suggerito Italiana per lo Studio dell’Arteriosclerosi (SISA), la

determinazione della Lp(a) andrebbe fatta solo nei soggetti con un alto rischio cardiovascolare o

rischio cardiovascolare alto e la Lp(a) è tipicamente dieto-Solo l'acido nicotinico aveva

una buona azione di riduzione di questa lipoproteina, ma il farmaco non è più una risposta “farmacologica” alla

ro che intervenire con più energia sugli altri fattori di rischio modificabili: infatti nell’ultima versione 2013 della nota AIFA 13 i pazienti con livelli elevati (> di 50 mg/dl) di Lp(a) sono considerati in “particolari categorie” a rischio.

related markers and cardiovascular disease prediction. JAMA 2012;

Koshinsky MI, Marcovina SM, Lipoprotein (a): structural implications for pathophysiology. Int J Clin Lab Res

phenotype relationship and

anys associated with Lp(a) lipoprotein level and coronary

Catapano A.L. et al. / ESC/EAS Guidelines for the management of dyslipidaemias. The Task Force for the

ciety of Cardiology (ESC) and the European Atherosclerosis

Extreme lipoprotein(a) levels and improved cardiovascular

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9.3 OMOCISTEINA

L’omocisteina è un aminoacido solforato che deriva dal metabolismo della metionina, un aminoacido essenziale che viene assunto con la dieta: è contenuto negli alimenti di origine animale, come carne, uova, formaggi. Il metabolismo dell’omocisteina può seguire due vie: la via della rimetilazione a metionina (utilizza gli enzimi metionina-sintasi, metilene-tetra-idro-folato-reduttasi [MTHFR] in presenza del cofattore acido folico, e l’enzima betaina-sintetasi); la via della transulfurazione (che utilizza l’enzima cistationina-sintetasi, coadiuvata dal coenzima vit. B6). Iperomocisteinemia

Si definisce Iperomocisteinemia la condizione caratterizzata da un’aumento dei valori di omocisteina ematica, (valori normali: <13 micromoli/litro negli uomini); <10.1 micromoli/litro nelle donne); <11.3 micromoli/litro fino a 14 anni). La concentrazione plasmatica di omocisteina è il risultato di una stretta relazione tra le abitudini dietetiche e fattori genetici predisponenti. L’iperomocisteinemia può, infatti, essere presente in caso di una dieta ricca di carni, formaggi (che contengono metionina) e povera di acido folico e vitamine del gruppo B; può essere conseguente a uno scorretto stile di vita (tabagismo, eccessivo consumo di caffè e bevande alcoliche) oppure a patologie concomitanti (es. malassorbimento). Valori molto elevati di omocisteinemia possono, infine, essere conseguenti a mutazioni genetiche a carico degli enzimi coinvolti nel suo metabolismo (es. Deficit di MTHFR, CBS, metionin-sintetasi). Iperomocisteinemia e Rischio cardiovascolare

L’ipotesi di una correlazione tra valori elevati di omocisteina ed arteriosclerosi risale al 1969, quando Mc Cully teorizzò il suo effetto sulle cellule endoteliali delle arterie, sostenendo che livelli moderatamente elevati di omocisteina erano correlati alla patologia cardiovascolare. I primi dati disponibili indicavano che un aumento di 5 µmol/L del livello di omocisteina rispetto ai valori normali, è associato ad un aumento del 20% del rischio di eventi coronarici, indipendentemente dagli altri fattori di rischio. Gli studi osservazionali che si sono svolti nei vent’anni successivi avevano, di fatto, validato tale ipotesi identificando l’omocisteina come un fattore indipendente di rischio cardiovascolare. Numerosi studi sono stati poi condotti sia per definire le basi fisiopatologiche di tale correlazione che per valutare gli effetti della supplementazione di acido folico, con o senza vitamina B12, sui livelli di omocisteina e, conseguentemente, sul rischio cardiovascolare. Tuttavia, i lavori al momento disponibili in letteratura non sono concordi nel definire in maniera netta che la supplementazione di acido folico – sebbene sia ben tollerata – possa apportare un beneficio in termini di prevenzione di eventi cardiovascolari e di riduzione della mortalità cardiovascolare. Pertanto, il dosaggio dell’omocisteina al fine di valutare il rischio cardiovascolare (anche se – ovviamente – valutato in associazione ad altri parametri quali il profilo lipidico e la glicemia) rimane controverso. Peraltro, anche l’interpretazione del risultato ai fini della determinazione del rischio non è ancora standardizzata. Le attuali indicazioni al dosaggio dell’omocisteina sono limitate alla valutazione di un eventuale deficit di vitamina B12 e folati, tipicamente presente in: pazienti malnutriti; negli anziani, in cui si può osservare un ridotto assorbimento intestinale; negli alcolisti e in soggetti che fanno uso di droghe. In conclusione: le raccomandazioni dell’American Heart Association sostengono che il nesso

causale tra livelli elevati di omocisteina e sviluppo di arteriosclerosi non è ancora stato

stabilito e raccomandano una dieta bilanciata, ricca di frutta e verdura, limitando l’utilizzo dei supplementi vitaminici ai casi in cui non sia possibile beneficiarsi di una dieta adeguata.

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9.4 VITAMINA D Negli ultimi anni numerosi studi hanno valutato il coinvolgimento della vitamina D in alcune patologie croniche e, in particolar modo, nelle malattie cardiovascolari. E’ stato, infatti, osservato come vi sia un’associazione altamente significativa tra le basse concentrazioni di vitamina D e la presenza di fattori di rischio cardiovascolari, in particolar modo l’ipertensione arteriosa e il diabete mellito.1

In uno studio che ha analizzato un database clinico relativo a 41497 pazienti di medicina generale è emerso, inoltre, che nei pazienti con carenza di vitamina D era possibile evidenziare una maggiore prevalenza di malattia coronarica, infarto miocardico, fibrillazione atriale, insufficienza cardiaca, vascolopatia periferica, ictus, TIA e tachicardipovitaminosi D è più facile rilevare scarsa tolleranza alle statine ed insorgenza di mialgie, che tuttavia possono essere corrette con la semplice supplementazione di vitamina E’ noto che il recettore della vitamina D (VDR) e alcuni enzimi coinvolti nel suo metabolismo sono presenti nella parete vascolare e a livello cardiaco: nel modello murino knockrilevata una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari e di ipertrofia cardiaca. Tuttmeccanismo fisiopatologico alla base di tali osservazioni rimane ancora oscuro D’altro canto se è vero che la supplemegli studi finora disponibili hanno finora solo parzialmente cause cardiovascolari5. Al momento, le evidenze disponibili non sono sufficienti per raccomandare la supplemevitamina D, con la finalità di prevenzione cardiovascolare. Ulteriori studi mirati a verificbenefici dell’integrazione con vitamina D in prevenzione cardiovascolare sono necessari. BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:

1. Anderson JL et Al., Am J Cardiol

2. Zimmerman A et Al., Am J Clin Nutr

3. Glueck CJ et Al. Current Med Res Opin

4. Pilz S et Al. Scand J Clin & Lab Invest

5. Bjelakovic G. et Al. Cochrane Database Syst Rev

Negli ultimi anni numerosi studi hanno valutato il coinvolgimento della vitamina D in alcune patologie croniche e, in particolar modo, nelle

E’ stato, infatti, osservato come vi sia un’associazione altamente

tra le basse concentrazioni di vitamina D e la presenza di fattori di rischio cardiovascolari, in particolar modo l’ipertensione arteriosa e il diabete

In uno studio che ha analizzato un database clinico relativo a 41497

erale è emerso, inoltre, che nei pazienti con carenza di vitamina D era possibile evidenziare una maggiore prevalenza di malattia coronarica, infarto miocardico, fibrillazione atriale, insufficienza cardiaca, vascolopatia periferica, ictus, TIA e tachicardia ventricolare1,2. Inoltre, nei pazienti con ipovitaminosi D è più facile rilevare scarsa tolleranza alle statine ed insorgenza di mialgie, che tuttavia possono essere corrette con la semplice supplementazione di vitamina

vitamina D (VDR) e alcuni enzimi coinvolti nel suo metabolismo sono presenti nella parete vascolare e a livello cardiaco: nel modello murino knockrilevata una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari e di ipertrofia cardiaca. Tuttmeccanismo fisiopatologico alla base di tali osservazioni rimane ancora oscuro

D’altro canto se è vero che la supplementazione di vitamina D è economica e di facile applicazione, gli studi finora disponibili hanno finora solo parzialmente mostrato un beneficio sulla mortalità per

omento, le evidenze disponibili non sono sufficienti per raccomandare la supplemevitamina D, con la finalità di prevenzione cardiovascolare. Ulteriori studi mirati a verificbenefici dell’integrazione con vitamina D in prevenzione cardiovascolare sono necessari.

Am J Cardiol. 2010 Oct 1;106(7):963-8

Am J Clin Nutr 2012;95:91–100

t Med Res Opin 2011 Sep;27(9):1683-90

Scand J Clin & Lab Invest, 2012; 72(Suppl 243): 83–91

Cochrane Database Syst Rev. 2011 Jul 6;(7)

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emerso, inoltre, che nei pazienti con carenza di vitamina D era possibile evidenziare una maggiore prevalenza di malattia coronarica, infarto miocardico, fibrillazione atriale, insufficienza cardiaca,

Inoltre, nei pazienti con ipovitaminosi D è più facile rilevare scarsa tolleranza alle statine ed insorgenza di mialgie, che tuttavia possono essere corrette con la semplice supplementazione di vitamina3.

vitamina D (VDR) e alcuni enzimi coinvolti nel suo metabolismo sono presenti nella parete vascolare e a livello cardiaco: nel modello murino knock-out per VDR è stata rilevata una maggiore incidenza di eventi cardiovascolari e di ipertrofia cardiaca. Tuttavia l’esatto meccanismo fisiopatologico alla base di tali osservazioni rimane ancora oscuro4.

tazione di vitamina D è economica e di facile applicazione, mostrato un beneficio sulla mortalità per

omento, le evidenze disponibili non sono sufficienti per raccomandare la supplementazione di vitamina D, con la finalità di prevenzione cardiovascolare. Ulteriori studi mirati a verificare i benefici dell’integrazione con vitamina D in prevenzione cardiovascolare sono necessari.

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10. ATTIVITA’ FISICA: COSA CI DICONO LE LINEE GUIDA 1

Introduzione

L’attività fisica regolare e l’allenamento aerobico sono correlati con una riduzione del rischio di eventi coronarici fatali e non fatali in soggetti sani 2 o con fattori di rischio coronarico 3 e in pazienti con cardiopatie 4,5. Uno stile di vita sedentario rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio per lo sviluppo di malattia CV e, pertanto, l’attività fisica ed aerobica viene raccomandata dalle linee guida quale valido strumento non farmacologico per la prevenzione primaria e secondaria delle malattie CV. Ciononostante, nell’ambito dei paesi dell’UE, meno del 50% dei cittadini pratica un’attività fisica regolare ricreativa e/o professionale e l’osservato aumento della prevalenza di obesità è associato ad uno stile di vita sedentario. Razionale biologico

Un’attività aerobica regolare determina un miglioramento delle prestazioni fisiche, in quanto aumenta la capacità di utilizzare l’ossigeno da parte dell’organismo per produrre l’energia necessaria a svolgere l’esercizio. Questi effetti si esplicitano praticando una regolare attività fisica aerobica ad intensità comprese tra il 40% e l’85% del VO2 [volume massimo (V) di ossigeno (O2) in ml] o della riserva di frequenza cardiaca, in cui l’intensità dell’allenamento è tanto più elevata quanto maggiore è il livello di forma fisica iniziale e viceversa. L’esercizio aerobico si associa anche – a parità di carico di lavoro – ad un risparmio del consumo miocardico di ossigeno, come dimostrato dalla riduzione del doppio prodotto (frequenza cardiaca x PAS), diminuendo così la probabilità di ischemia miocardica. Inoltre, l’attività fisica aerobica può esitare anche in un miglioramento della perfusione miocardica, accompagnato da un aumento del diametro dei rami coronarici principali, da effetti positivi sul microcircolo e da un miglioramento della funzione endoteliale. L’attività fisica esercita molteplici effetti positivi anche su numerosi fattori di rischio CV, in quanto previene o ritarda la comparsa di ipertensione nei soggetti normotesi o riduce i valori pressori in quelli ipertesi, aumenta i livelli di colesterolo HDL, contribuisce a tenere sotto controllo il peso corporeo e diminuisce il rischio di sviluppare diabete mellito non insulino-dipendente. Inoltre, l’allenamento fisico è risultato in grado di indurre pre-condizionamento ischemico, processo attraverso il quale l’ischemia miocardica transitoria durante sforzo incrementa la tolleranza del tessuto miocardico a successivi e prolungati episodi ischemici, con conseguente riduzione del rischio di danno cellulare e di tachiaritmie potenzialmente fatali. L’attività fisica va intesa come un “farmaco”: deve essere prescritta – sia negli schemi di trattamento in prevenzione primaria che secondaria – seguendo precise indicazioni e posologia. La tabella 1 riporta le raccomandazioni delle linee guida europee 1 relative all’attività fisica: indicazioni nelle varie fasce di età, negli individui sani o con patologia CV; modalità di “somministrazione”

Individui sani

Negli individui sani, livelli crescenti sia di attività fisica che di efficienza cardiorespiratoria si associano ad una significativa riduzione (~20-30%) del rischio di mortalità da ogni causa e CV con una relazione dose-risposta2. Le evidenze disponibili indicano che il rischio di morte in un determinato arco temporale decresce all’aumentare dei livelli di attività fisica e di efficienza cardiorespiratoria, tanto nelle donne quanto negli uomini e per tutte le fasce di età dall’infanzia alla senilità. Occorre tenere presente che queste conclusioni derivano da risultati di studi osservazionali e non è quindi possibile escludere un bias (distorsione statistica) di selezione legato, da una parte, alla presenza di malattia subclinica non diagnosticata, che può aver indotto alcuni soggetti a ridurre il loro livello di attività fisica prima dell’inizio dello studio, e dall’altra alla tendenza a mettere in relazione abitudini più salutari (es. non fumare e osservare una sana alimentazione) con gli individui fisicamente attivi. Tuttavia, anche dopo aggiustamento per questi fattori confondenti, diversi studi hanno confermato l’esistenza di una relazione inversa tra il livello di attività fisica o di

efficienza cardiorespiratoria e la mortalità da ogni causa e CV

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Tabella 1

Buona parte di tali effetti favorevoli sulla mortalità sembrano derivare da una riduzione della mortalità CV e per cardiopatia ischemica (CI), mentre la diminuzione del rischio coronarico attribuibile ad un’attività fisica regolare di tipo aerobico è simile a quella prodotta dalla modificazione di altri fattori dello stile di vita, come ad esempio smettere di fumare. Valutazione del rischio

È tuttora controverso quali metodi debbano essere utilizzati per la valutazione dei soggetti sani che desiderano intraprendere una regolare attività fisica/allenamento aerobico. In generale, negli individui apparentemente sani il rischio di eventi CV maggiori correlato all’esercizio fisico è estremamente basso, nell’ordine da 1 su 500 000 a 1 su 2 600 000 ore di esercizio/paziente. Sulla base di quanto recentemente suggerito per le attività sportive amatoriali in soggetti di età media o avanzata, una valutazione accurata del rischio deve prevedere l’analisi del profilo di rischio coronarico e del livello di attività fisica abituale e che si intende raggiungere, riservando eventualmente uno screening più intensivo (con test da sforzo) per i soggetti sedentari e/o con fattori di rischio CV e/o desiderosi di svolgere un’attività fisica ad intensità vigorosa. Gli individui che praticano attività fisica saltuariamente sembrano essere a rischio più elevato di eventi coronarici acuti e morte improvvisa, sia durante che post-esercizio. In linea generale, nei soggetti sedentari e in quelli con fattori di rischio CV si raccomanda di

iniziare con un’attività fisica di bassa intensità.

Intensità e quantità dell’attività fisica

La quantità di attività fisica o di allenamento aerobico di moderata intensità in grado di determinare una riduzione della mortalità da ogni causa e CV è di 2.5-5h/settimana 2,3; in ogni caso, maggiore è la durata totale dell’attività fisica/allenamento aerobico nella settimana, maggiori sono i benefici osservati. Da sottolineare che analoghi risultati possono essere conseguiti praticando 1-1.5h/settimana di attività fisica/allenamento aerobico di intensità vigorosa o una combinazione

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equivalente di esercizio fisico di intensità moderata e vigorosa. Inoltre, le evidenze disponibili indicano che la quantità totale settimanale di attività fisica può essere raggiunta sommando le diverse sedute di allenamento giornaliere, ciascuna della durata di almeno 10 min, e che l’attività fisica/allenamento aerobico deve essere distribuita su più giorni della settimana. I tipi di attività fisica/allenamento aerobico comprendono non solo le attività sportive, come marcia, corsa o jogging, pattinaggio, ciclismo, canottaggio, nuoto, sci di fondo e lezioni di ginnastica aerobica, ma anche le normali attività quotidiane come camminare a passo sostenuto, salire le scale, svolgere i lavori domestici, fare giardinaggio e dedicarsi ad attività ricreative di natura attiva. Un’attività fisica moderata è definita in termini relativi come un’attività svolta tra il 40% e il 59% del VO2 max o della riserva di frequenza cardiaca o ad un livello di percezione della fatica pari a 5-6 secondo la scala di Borg CR10, che corrisponde ad un dispendio energetico assoluto pari a ~4.8-7.1 equivalenti metabolici (METs) nei soggetti giovani, 4.0-5.9 METs in quelli di età media, 3.2-4.7 METs in quelli di età avanzata e 2.0-2.9 METs negli anziani. In maniera analoga, un’attività fisica

vigorosa è definita come un’attività svolta tra il 60% e l’85% del VO2 o della riserva di frequenza cardiaca o ad un livello di sforzo percepito pari a 7-8 nella scala di Borg CR10, che corrisponde ad un dispendio energetico assoluto pari a ~7.2-10.1 METs nei soggetti giovani, 6.0-8.4 METs in quelli di età media, 4.8-6.7 METs in quelli di età avanzata e 3.0-4.2 METs negli anziani. La tabella 2 riporta uno schema che riassume le caratteristiche delle attività fisiche consigliate in

un paziente con ipertensione (es. di fattore di rischio CV).

Tabella 2: Caratteristiche dell’attività fisica consigliata nei pazienti ipertesi (*)

Pazienti con malattia cardiovascolare nota

4,5

Nei pazienti con malattia CV nota un’attività fisica aerobica è generalmente parte integrante di un programma di riabilitazione CV e, di conseguenza, i dati disponibili fanno riferimento quasi esclusivamente alle misure relative allo stato di efficienza cardiaca e non alla valutazione del livello di attività fisica abituale. Questo nasce dalla necessità di una valutazione formale sia della capacità di esercizio che del rischio correlato all’esercizio nei pazienti con cardiopatia accertata. In questo contesto, può essere più difficile riconoscere gli effetti della sola attività fisica sul rischio cardiovascolare. Ciononostante, in una metanalisi che ha incluso prevalentemente uomini di età media, la maggior parte dei quali con pregresso infarto miocardico ed i restanti con pregresso BPAC o angioplastica coronarica o affetti da angina stabile, è stata evidenziata una riduzione di circa il 30% della mortalità CV totale nei pazienti sottoposti ad un programma di allenamento aerobico della durata di almeno 3 mesi, percentuale che saliva a ~35% se veniva considerata la sola mortalità per CI. I dati disponibili erano insufficienti per determinare l’impatto dell’attività fisica

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aerobica sui tassi di rivascolarizzazione; inoltre, l’allenamento aerobico non ha mostrato alcun effetto sull’incidenza di infarto miocardico non fatale. Oggigiorno, l’uso crescente delle tecniche di rivascolarizzazione e delle terapie farmacologiche ha portato ad una popolazione di pazienti coronaropatici relativamente a basso rischio, in cui è meno probabile che si assista ad un miglioramento significativo della sopravvivenza in ragione degli effetti di ciascun intervento aggiuntivo. Dati recenti hanno comunque confermato l’esistenza di una relazione dose-risposta inversa tra efficienza CV (valutata mediante test da sforzo al tappeto rotante ed espressa in METs) e mortalità per tutte le cause in ampie popolazioni di pazienti coronaropatici di entrambi i sessi [storia di CI documentata all’angiografia, infarto miocardico, BPAC, angioplastica coronarica (PCI), scompenso cardiaco cronico, vasculopatia periferica o segni o sintomi suggestivi di CI al test da sforzo]. Infine, in pazienti a basso rischio l’allenamento aerobico si è dimostrato altrettanto efficace di una strategia invasiva come la PCI nel migliorare lo stato clinico e la perfusione miocardica, ma associato ad una minore incidenza di eventi CV. In una metanalisi che ha valutato gli effetti dell’attività fisica aerobica sulla mortalità CV nei pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico, è stato evidenziato che, complessivamente, un allenamento aerobico di intensità moderata-vigorosa determina una riduzione della mortalità nei pazienti con scompenso cronico da disfunzione sistolica del ventricolo sinistro e prolunga significativamente il tempo di riospedalizzazione. Come per un qualsiasi trattamento farmacologico, anche qui l’aderenza all’allenamento aerobico prescritto si è rivelata un fattore fondamentale nel determinare gli effetti benefici sulla prognosi. Valutazione del rischio clinico

Nei pazienti con malattia CV, la prescrizione dell’attività fisica è fortemente condizionata dal rischio correlato all’esercizio. Gli attuali algoritmi per la stratificazione del rischio aiutano ad identificare i pazienti ad aumentato rischio di eventi CV correlati all’esercizio che verosimilmente necessitano di un monitoraggio cardiaco più intensivo, e la sicurezza dei programmi di attività fisica supervisionata che si attengono alle indicazioni per la stratificazione del rischio associato all’esercizio è ampiamente riconosciuta. L’occorrenza di eventi CV maggiori durante attività aerobica supervisionata nell’ambito di un programma riabilitativo è rara, nell’ordine da 1 su 50 000 a 1 su 120 000 ore di esercizio/paziente, con una letalità compresa tra 1 su 340 000 e 1 su 750 000 ore di esercizio/paziente. Lo stesso vale per i pazienti con scompenso cardiaco cronico e ridotta frazione di eiezione ventricolare sinistra, in classe NYHA II-IV e trattati con terapia ottimale di back-ground per lo scompenso cardiaco secondo quanto indicato nelle linee guida. Intensità e quantità dell’attività fisica

A differenza dei soggetti sani, nei pazienti con malattia CV i dati disponibili non consentono di definire in maniera altrettanto precisa una quantità di allenamento aerobico da svolgere settimanalmente 4,5 e, pertanto, la prescrizione dell’attività fisica deve necessariamente essere personalizzata sulla base del profilo clinico di ciascun paziente. I pazienti con rischio clinico basso, pregresso infarto miocardico acuto, BPAC, PCI o affetti da angina stabile o scompenso cardiaco cronico possono praticare un’attività aerobica di intensità moderata-vigorosa con 3-5 sedute alla settimana di 30 min ciascuna, ma in ogni caso la frequenza, la durata e la supervisione delle sedute di allenamento devono essere adattate alle loro caratteristiche cliniche. Nei pazienti con rischio clinico moderato-alto la prescrizione dell’attività fisica deve essere individualizzata in maniera ancora più rigorosa sulla base del carico metabolico suscettibile di indurre segni o sintomi anomali. Tuttavia, anche nei pazienti più compromessi, limitate quantità di attività fisica adeguatamente supervisionata esercitano comunque un effetto positivo, in quanto consentono di condurre una vita più autonoma e di contrastare la depressione correlata alla malattia. Sono disponibili dati sulla prescrizione di un allenamento aerobico basata sulle evidenze in determinate categorie di pazienti coronaropatici.

In conclusione: La pratica di una regolare attività fisica e/o di un allenamento aerobico è associata ad una riduzione della mortalità cardiovascolare.

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Tuttavia, esistono ancora delle lacune nelle evidenze scientifiche disponibili e resta da definire se: - Gli effetti favorevoli sugli esiti possano essere conseguiti mediante attività fisica di minore

durata ed intensità in categorie di pazienti che sono impossibilitati a seguire le raccomandazioni (anziani, con decondizionamento o scompenso cardiaco avanzato).

- La relazione dose-risposta tra efficienza cardiorespiratoria e riduzione del rischio CV osservata in prevenzione primaria si applichi anche nel contesto della prevenzione secondaria.

- Una regolare attività fisica produca un miglioramento degli esiti a lungo termine nei pazienti con scompenso cardiaco cronico.

- Un allenamento ad intervalli ad alta intensità sia superiore ad un allenamento continuo di intensità moderata nel migliorare la capacità funzionale e nell’indurre il rimodellamento positivo del ventricolo sinistro nei pazienti con scompenso cardiaco cronico.

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

1. Linee guida europee sulla prevenzione delle malattie cardiovascolari nella pratica clinica (versione 2012) Perk J et

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Malattie Cardiovascolari nella Pratica Clinica. G Ital Cardiol 2013;14(5):328-392

2. US Department of Health and Human Services. Physical Activity Guidelines Advisory Committee Report. 2008.

http://www.health.gov/PAguidelines/Report/pdf/CommitteeReport.pdf.

3. Richardson CR, Kriska AM, Lantz PM, Hayward RA. Physical activity and mortality across cardiovascular

disease risk groups. Med Sci Sports Exerc 2004;36:1923–1929.

4. Taylor RS, Brown A, Ebrahim S, Jolliffe J, Noorani H, Rees K, Skidmore B, Stone JA, Thompson DR, Oldridge

N. Exercise-based rehabilitation for patients with coronary heart disease: systematic review and meta-analysis of

randomized controlled trials. Am J Med 2004;116:682–692.

5. Piepoli MF, Davos C, Francis DP, Coats AJ. Exercise training meta-analysis of trials in patients with chronic heart

failure (ExTraMATCH). BMJ 2004;328:189.

Per saperne di più: Buono P et al. Attività fisica per la salute: cap.9:153-74. Idelshon-Gnocchi Ed. Napoli 2009

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11. FUMO E RISCHIO CARDIOVASCOLARE

È ormai accertato che l’abitudine al fumo costituisce un fattore predisponente allo sviluppo dell’aterosclerosi e dei conseguenti fenomeni trombotici, anche se restano da definire chiaramente i meccanismi esatti mediante i quali il fumo determina un aumento del rischio di malattia aterosclerotica. Tali meccanismi sono stati documentati in studi osservazionali di coorte, in indagini sperimentali e in studi di laboratorio nell’uomo e nell’animale, dai quali emerge come il fumo abbia delle ripercussioni sulla funzione endoteliale, sui processi ossidativi, sulla funzione piastrinica, sulla fibrinolisi, sull’infiammazione, sulle alterazioni del metabolismo lipidico e sui disturbi vasomotori. Le specie reattive dell’ossigeno – i radicali liberi – presenti nel fumo aspirato provocano l’ossidazione delle LDL plasmatiche; le LDL ossidate a loro volta innescano il processo infiammatorio nell’intima delle arterie attraverso la stimolazione dell’adesione dei monociti alla parete vasale, con susseguente aggravamento dell’aterosclerosi.

Ricordiamo in tabella 1 le “5 A” per una strategia di cessazione del fumo nella pratica di routine.

Tabella 1

1. ASK Identificare in modo sistematico i fumatori in ogni occasione. 2. ADVISE Raccomandare con forza a tutti i fumatori di smettere. 3. ASSESS Stabilire il livello di dipendenza del fumatore e quanto è pronto a smettere 4. ASSIST Concordare una strategia per cessazione (data, counseling comport.e

farmaci 5. ARRANGE Predisporre un programma di follow-up

Nella figura l riportiamo l’algoritmo modificato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità

(OMS) per la cessazione dell’abitudine al fumo. Figura 1

BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:

1. Perk J, De Backer G, Gohlke G et al. European Guidelines ESC on cardiovascular disease prevention in

clinical practice (version 2012). Eur Heart J, 2012: 352(11): 1138-45

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12. DIETA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE

I nutrienti di rilevanza per le malattie CV sono rappresentati dagli acidi grassi (che incidono prevalentemente sui livelli delle lipoproteine), dai minerali (che influenzano prevalentemente la pressione arteriosa), dalle vitamine e dalle fibre.

Acidi grassi

Nella prevenzione delle malattie CV mediante modifiche dell’alimentazione la quantità di grassi e la composizione in acidi grassi della dieta sono stati al centro dell’attenzione fin dagli anni ’50. Ai fini della prevenzione, la composizione in acidi grassi riveste maggiore importanza rispetto alla quantità totale di grassi. Le nostre conoscenze sugli effetti delle diverse classi di acidi grassi (saturi, monoinsaturi e polinsaturi) e degli specifici acidi grassi di ciascuna di queste classi (es. omega-3 e acidi grassi trans) sulle differenti frazioni lipoproteiche plasmatiche sono notevolmente progredite 1.

Acidi grassi saturi Nel 1965, Keys et al. hanno documentato come la sostituzione nella dieta dei grassi saturi con gli

acidi grassi insaturi si accompagni ad una riduzione della colesterolemia totale. Tenuto conto degli effetti sui livelli sierici di colesterolo, è plausibile che questo possa influire sullo sviluppo di malattie CV. Ciononostante, dopo oltre 40 anni di ricerca, l’impatto dell’apporto di acidi grassi saturi sull’insorgenza di malattie CV resta tutt’oggi motivo di dibattito. In una recente metanalisi di studi di coorte, un elevato introito di grassi saturi non è risultato associato ad un aumento del rischio relativo di CI o malattie CV, anche se diversi aspetti metodologici possono rendere ragione di questo risultato nullo. In una serie di studi, l’effetto degli acidi grassi saturi sugli eventi cardiovascolari è stato aggiustato per i livelli di colesterolo – un esempio di aggiustamento inappropriato. Un altro importante aspetto riguarda il particolare nutriente che sostituisce gli acidi grassi saturi. Infatti, studi epidemiologici, clinici e fisiologici hanno mostrato in maniera univoca che il rischio di

CI diminuisce del 2-3% quando l’1% dell’introito energetico di acidi grassi saturi viene sostituito

con gli acidi grassi polinsaturi. Analoghe riduzioni non sono state osservate quando l’apporto di acidi grassi saturi sia stato sostituito con carboidrati o acidi grassi monoinsaturi. Pertanto, ridurre l’introito di acidi grassi saturi a meno del 10% dell’apporto energetico mediante sostituzione con acidi grassi polinsaturi rimane un fattore dietetico rilevante per la prevenzione delle malattie CV.

Acidi grassi insaturi

Gli acidi grassi monoinsaturi esercitano effetti positivi sui livelli di colesterolo HDL quando introdotti nella dieta in sostituzione degli acidi grassi saturi o dei carboidrati. Gli acidi grassi polinsaturi riducono il colesterolo LDL e, in misura minore, il colesterolo HDL quando consumati in sostituzione degli acidi grassi saturi. Gli acidi grassi polinsaturi possono essere genericamente divisi in due gruppi, nello specifico gli acidi grassi omega-6, prevalentemente di origine vegetale, e gli acidi grassi omega-3, prevalentemente derivati dall’olio e grasso di pesce. L’acido eicosapentaenoico e l’acido docosaesaenoico, entrambi appartenenti alla famiglia degli omega-3, giocano un ruolo importante. Per quanto non abbiano effetti sulla colesterolemia, si sono dimostrati in grado di ridurre la mortalità per CI e, in misura minore, la mortalità per ictus. In diversi studi, basse dosi di acido eicosapentaenoico e docosaesaenoico sono risultate associate ad un rischio più basso di CI fatale ma non di CI non fatale, e l’ipotesi di una loro capacità di prevenire le aritmie cardiache fatali è stata avanzata a spiegazione di tale differente effetto, anche se ultimamente smentita dallo studio Rischio e Prevenzione del Mario Negri Sud

2.

La categoria di acidi grassi insaturi con una cosiddetta “configurazione trans”, noti come acidi

grassi trans, è risultata determinare un aumento del colesterolo totale ed una diminuzione del colesterolo HDL. Questi acidi grassi, contenuti nella margarina e nei prodotti da forno, sono stati solo parzialmente eliminati dai prodotti delle industrie alimentari, ma ancora maggiori sarebbero i vantaggi derivanti da una loro ulteriore rimozione. Infatti, piccole quantità di grassi trans sono comunque presenti nella dieta, potendosi trovare nella carne dei ruminanti e nei latticini. La sostituzione dell’1% dell’apporto energetico di acidi grassi trans con acidi grassi saturi, monoinsaturi o polinsaturi determina una riduzione del rapporto colesterolo totale/HDL pari a,

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rispettivamente, 0.31, 0.54 e 0.67283. Una metanalisi di studi prospettici di coorte ha evidenziato che, mediamente, un introito di acidi grassi trans superiore al 2% dell’apporto energetico comporta un aumento del rischio di CI del 23%. È raccomandato quindi di limitare l’introduzione di acidi

grassi trans a non oltre l’1% dell’apporto energetico totale, tenendo conto che minore è l’introito maggiori saranno i vantaggi.

Colesterolo nella dieta L’impatto del colesterolo nella dieta sui livelli sierici di colesterolo è marginale rispetto a quello della composizione in acidi grassi della dieta. Quando vengono osservate le raccomandazioni delle linee guida che prevedono una diminuzione dell’introito di grassi saturi, generalmente questo si accompagna anche ad una riduzione dell’apporto di colesterolo nella dieta. Alcune linee guida per una sana alimentazione non forniscono quindi delle indicazioni precise sull’introito di colesterolo nella dieta; in altri casi viene raccomandato di limitare l’apporto a meno di 300 mg/die.

Minerali

Sodio Gli effetti dell’introito di sodio sulla pressione arteriosa sono ben noti. Sulla base dei risultati di una metanalisi è stato stimato che anche una minima riduzione del consumo di sodio pari a 1 g/die

(che 1 g corrisponde a circa 2.5 g di sale) si traduce in un calo della PAS di 3.1 mmHg nei pazienti

ipertesi e di 1.6 mmHg nei pazienti normotesi. Nella maggior parte dei paesi occidentali si rileva un elevato consumo di sale (~9-10 g/die), laddove l’introito massimo raccomandato è di 5g/die, con quantità ottimali che non dovrebbero

superare i 3 g/die. Gli alimenti trattati rappresentano una delle fonti principali di sodio. Utilizzando un modello di simulazione, è stato stimato che nella popolazione americana una riduzione del consumo di sale di 3 g/die comporterebbe una riduzione dell’incidenza di CI del 5.9-9.6% (stime massime e minime sulla base delle differenti quantità assunte), di ictus del 5.0-7.8% e della mortalità da tutte le cause del 2.6-4.1%. Potassio

Il potassio è un altro minerale che influisce sui valori pressori, le cui fonti principali sono rappresentate da frutta e verdura. Un elevato apporto alimentare di potassio è risultato determinare

una riduzione della pressione arteriosa. Il rischio di ictus è estremamente variabile a seconda delle quantità di potassio assunte con la dieta: i soggetti che si collocano nel quintile a più alto introito di potassio (consumo medio di 110 mmol/die) presentano un rischio relativo di ictus del 40% inferiore rispetto ai quelli che si trovano nel quintile a più basso introito (consumo medio di 61 mmol/die).

Vitamine

Vitamina A ed E Numerosi studi prospettici osservazionali e caso-controllo hanno documentato un’associazione

inversa tra i livelli di vitamina A ed E e il rischio di MCV, imputando tale effetto protettivo alle loro

proprietà antiossidanti. Tuttavia, studi di intervento volti a definire il relativo rapporto di causalità non sono riusciti a confermare i risultati degli studi osservazionali. Vitamine del gruppo B (B6, B12 e acido folico) Queste vitamine sono state studiate per la loro potenziale capacità di ridurre le concentrazioni di omocisteina, ritenuta un fattore di rischio per malattie CV (vedi capitolo dedicato). Tuttavia, è rimasto irrisolto il quesito se l’omocisteina rappresenti semplicemente un marker di rischio o se esista una reale correlazione causale. In una recente metanalisi condotta su 8 RCT, la Cochrane Collaboration è giunta alla conclusione che gli interventi mirati a ridurre i livelli di omocisteina non si accompagnano ad una riduzione del rischio di infarto miocardico fatale e non fatale (RR 1.03, IC 95% 0.94-1.13), di ictus (RR 0.89, IC 95% 0.73-1.08) o di morte per tutte le cause (RR 1.00, IC 95% 0.92-1.09). Successivamente, sono stati conclusi e pubblicati tre ampi studi di prevenzione secondaria [Study of the Effectiveness of Additional Reductions in Cholesterol and Homocysteine (SEARCH), VITAmins TO Prevent Stroke (VITATOPS) e Supplementation with Folate, vitamin B6 and B12 and/or OMega- 3 fatty acids (SU.FOLOM3)], i quali hanno concordemente dimostrato che la supplementazione con acido folico e vitamina B6 e/o B12 non esercita alcun effetto

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protettivo sullo sviluppo di malattie CV. Ne deriva, quindi, che la supplementazione con vitamine

del gruppo B volta a ridurre i livelli di omocisteina non si associa ad una diminuzione del rischio.

Riguardo alla vitamina D si rimanda all’apposito capitolo.

Fibre

Il consumo di fibre nella dieta risulta associato ad una riduzione del rischio di malattie CV. Anche se il meccanismo alla base di tale riscontro non sia stato ancora chiaramente definito, è ormai largamente riconosciuto che un elevato introito di fibre determina una riduzione della risposta

glicemica postprandiale dopo un pasto ad alto contenuto di carboidrati, nonché una riduzione dei

livelli di colesterolo totale ed LDL. Le principali fonti di fibre sono rappresentate dai cereali integrali, legumi, frutta e verdura. L’American Institute of Medicine raccomanda un introito di 3.4 g/MJ pari ad un consumo di circa 30-35 g al giorno per gli adulti, considerato l’apporto ottimale ai fini preventivi.

Nella tabella 1 è sono schematizzati i principi di una dieta che dovrebbe aiutare a ridurre il rischi CV. A ciò va aggiunto che l’apporto calorico deve essere limitato alla quantità di energia necessaria per mantenere (o conseguire) un peso corporeo ideale, pari ad un BMI massimo <25 kg/m² nell’uomo e di 24 nella donna, se entrambi di media taglia corporea. Tabella 1: principi per una dieta preventiva nei confronti del rischio CV

• Acidi grassi saturi: meno del 10% dell’apporto energetico totale, sostituzione con polinsaturi

• Acidi grassi trans-insaturi: il meno possibile, preferibilmente non da alimenti trattati e per meno dell’1% dell’apporto energetico totale da fonti naturali

• Meno di 5 g di sale al giorno

• 30-45 g di fibre al giorno, da prodotti integrali, frutta e verdura

• 200 g di frutta al giorno (2-3 porzioni)

• 200 g di verdura al giorno (2-3 porzioni)

• Pesce almeno due volte alla settimana, una delle quali costituita da pesce grasso.

• Consumo di bevande alcoliche: da limitare a due bicchieri al giorno (20 g/die di alcool) per gli uomini e un bicchiere al giorno (10 g/die di alcool) per le donne

BIBLIOGRAFIA e SITOGRAFIA:

1. Perk J, De Backer G, Gohlke G et al. ESC European Guidelines on cardiovascular disease prevention in clinical practice (version 2012). Eur Heart J, 2012: 352(11): 1138-45 2. The Risk and Prevention Study Collaboration Group: n–3 Fatty Acids in Patients with Multiple Cardiovascular Risk Factors. New Engl J Med 2013; 368: 1800-08.