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VIS3Uomini e Luoghi
Progetto per l’Arte e il Territorio
ideato e prodotto da Planeta e Nuvole
Etna
Noto
Vittoria
Menfi
Sambuca di Sicilia
contributi di
Vito Planeta
Raffaella De Pasquale
Sergio Troisi
Roberto Alajmo
VIS3Uomini e Luoghi
Noto
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uoniv
ini
opere di
Aurelio
Giuseppe
Anna Rosa
Antoine
Kuutti
Antonio
Elisa
Maria Pilar
Juichi
Faina Gavazzi
Colombo
Bulzatti
MiccichÈ
Lavonen
Giacomoni
Yoshikawa
Saltini
Nicolaci
Mostra
Santa Maria dello Spasimo, Palermo
2-30 giugno 2007
a cura di Raffaella De Pasquale
Coordinamento e cura del progetto
Alessio Planeta, Francesca Planeta
e Vito Planeta
Fotografie
© Riccardo Scibetta
Riprese video
Laura Schimmenti e Gianluca Donati
Postproduzione video
IM*MEDIA, Palermo
Catalogo
Progettazione e realizzazione
Studio Priori, Milano
Coordinamento dell’allestimento
Maria Eugenia Notarbartolo
Progetto dell’allestimento
Studio Priori con la collaborazione
di Gaetano Cipolla
Allestimento realizzato da
Giuseppe Di Carlo, General Service srl
Illuminotecnica
Job Service
Ufficio stampa
Adicorbetta Comunicazione, Milano
Segreteria organizzativa del progetto
Maria Isolina Catanese
e Caterina Cipolla
Fotolito
G&G Computergrafica, Milano
Tipografia
La Neograf, Sesto Ulteriano (Mi)
Stampato su carta Scheufelen,
Job Parilux Matt bianca 170 gr
Traduzione
Gillian Wise
© 2007 Edizioni Nuvole Incontri d’Arte,
Palermo - www.associazionenuvole.it
© Gli autori per le loro opere
e i loro testi
Si ringrazia
Il Comune di Palermo
Si ringraziano
17
27
37
55
73
125
Presentazione
ViAggio in Sicilia
uomini e luoghi
Angeli sulla Sicilia
GLI ARTISTI
CARTOLINE DI VIAGGIO
RAFFAELLA DE PASQUALE
PERCORSO E ARTISTI
VITO Planeta
roberto ALAjMO
biografie e opere
SeRGio troisi
Ma ecco uno spettacolo che rompe
come una magia il corso dei pensieri m
sereno, un’enorme piramide azzurra
così largamente i suoi fianchi da pa
intera; una montagna che dà l’imma
bellezza e di maestà, che vi fa apr
un grido d’ammirazione. Una nuvola
candido veste la sua sommità e si r
di striscie simmetriche scintillant
un immenso velo di trina ingemmat
stendono vaste macchie bianche, c
macchie scure, che sembrano omb
invisibili. E via via che il treno le
si dilati e imbellisca: le macchie
le macchie oscure sono boschi, a
sorgono ville, fioriscono giardin
sorride la fecondità, splende la
che gioia dopo un lungo viaggio a
alla triste regione zolfifera! –
mio compagno di viaggio – ecco la
sovrana tremenda! Edmondo De Amic
malinconici. Lontano, nel cielo
a s’innalza, solitaria, stendendo
arere che ricopra una provincia
agine d’un mondo; un prodigio di
rire la bocca come per lanciare
a bianca la corona; un manto
rompe più sotto in una quantità
ti che somigliano alle frangie di
to; in giro alle sue falde si
che paiono strati di neve, e grandi
re dense proiettate da nuvole
si avvicina, la Montagna par che
bianche sono città e villaggi,
ranceti e vigneti; da ogni parte
ni, s’aprono strade, corrono acque,
a vita. Che meravigliosa sorpresa e
a traverso ai latifondi disabitati e
Ecco l’Etna! – mi dice un catanese,
a nostra grande madre benefica e
cis, Ricordi di un viaggio in Sicilia
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16-17Sono fermamente convinto che se i siciliani – quanti, fra loro, ne hanno la possibilità – viaggiassero
in Sicilia, la Sicilia sarebbe diversa. Probabilmente migliore. E credo che tra i pensieri di chi
la ama si annidi un’aspirazione, forse soltanto un sogno: che tutti quelli che non la conoscono
vengano ad ammirarla, che il resto del mondo sia percorso da un fremito d’invidia davanti all’Etna
fiammeggiante, o alla vista delle Eolie, annegate nell’azzurro, dai Monti Nebrodi. Nella mia
personalissima interpretazione, questa è una delle ragioni che hanno spinto la mia famiglia
a intraprendere l’avventura del “Viaggio in Sicilia”: condividere – prima con gli artisti, poi con
gli spettatori; con i “forestieri” come con i nostri conterranei – il Bello e il Bene che albergano
nell’isola. Approfondirne insieme la conoscenza. Gridarli ai quattro venti. Nulla di più e nulla
di meno che una dichiarazione d’amore incondizionato.
L’amore per le cose, per i luoghi – come quello per le persone –, passa attraverso la conoscenza.
Quando l’uno e l’altra vengono a mancare, quando prevale l’indifferenza, si crea un vuoto che il
Male non tarda a riempire. E in Sicilia è accaduto più di una volta, come hanno potuto testimoniare
alcuni dei protagonisti del Viaggio. Facile quanto inutile piangere su ciò che è stato; nostro dovere
è invece ripartire dal punto in cui siamo e cercare di progredire, di ricacciare il Male nelle
profondità dalle quali proviene. Io non ho amato la Sicilia come avrei dovuto, per oltre un decennio
ho preferito lasciarmela alle spalle e vivere altrove. Attribuisco in buona parte questa scelta alla
mia incapacità di osservare, e conoscere, e dunque amare, ciò che mi circondava. Ma intanto
ammiravo i miei cugini e i miei fratelli mentre prendevano in consegna dai loro genitori l’amore
e la conoscenza, per dar vita a un sogno che oggi è vino, è olio, è milioni di persone – dei cinque
continenti – che compiono, dentro un calice di vino, un Viaggio in Sicilia. Questo sogno,
e l’attrazione irresistibile che ha esercitato su di me, mi hanno incoraggiato nella decisione di tornare.
Nessuno di noi può seriamente pensare che il Cerasuolo di Vittoria o il Moscato di Noto siano
in grado di mutare il destino degli uomini o dei luoghi. Ma, personalmente, condivido in pieno
il pensiero di Charles Baudelaire quando scrive: “D’altronde, ho un’idea. Se il vino scomparisse
dai prodotti umani, credo che nella salute, e nell’intelletto del pianeta si aprirebbe un vuoto,
un’assenza, una difettosità [...]. Il vino, infatti, rappresenta una parte intima nella vita dell’umanità,
tanto intima che non sarei meravigliato se alcuni spiriti ragionevoli, sedotti da un’idea panteistica,
gli attribuissero una specie di personalità. Il vino e l’uomo mi appaiono come lottatori amici
che senza tregua si combattono e si riconciliano. Il vinto bacia sempre il vincitore”.
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26-27Il vero viaggio di scoperta non consiste nel
cercare nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi.
Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto
Viaggio in Sicilia è il progetto per l’Arte e il
Territorio prodotto da Planeta, che quest’anno
giunge alla sua terza edizione.
Il progetto consiste nella creazione di un gruppo
di artisti, italiani e stranieri, che vengono
accompagnati in un giro della Sicilia, durante il
magico periodo che coincide con la vendemmia.
Per una settimana convivono e si confrontano,
osservando e discutendo della Sicilia, dei luoghi
e delle persone che di volta in volta incontrano,
ricevendo dal Territorio suggestioni simili, ma
che ciascuno di loro interpreta a suo modo.
Al termine del percorso si stabiliscono per
alcuni giorni alle Case dell’Ulmo, a Sambuca
di Sicilia, dove danno inizio alla creazione di
opere che prendono le mosse dal Viaggio
appena concluso.
A giugno dell’anno seguente le opere
convergono in una mostra/evento, e una
selezione di esse contribuisce al corpus di una
collezione che ha il medesimo scopo del Viaggio
in Sicilia: un tributo da offrire, attraverso l’Arte,
al Territorio, la vera fonte di ispirazione per chi,
come Planeta, ha deciso di farne il fulcro della
propria attività, così come per gli artisti che ne
hanno tratto gli spunti per le proprie creazioni.
VIAGGIO IN SICILIA
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36-37Questo progetto d’arte contemporanea,
pensato e costruito in Sicilia, è giunto alla
sua terza edizione. Con continuità, dal
settembre del 2004, si è sviluppato un rapporto
di scambio tra artisti e territorio che si
è concretizzato nella creazione di quasi
un centinaio d’opere d’arte, nate dalla
sedimentazione della memoria del viaggio,
testimonianze di venticinque artisti, donne e
uomini, provenienti da diversi Paesi d’Europa
e del mondo, d’età e formazione diverse, felici
di venire in Sicilia, di incontrarsi, che hanno
avuto voglia di creare e di tornare, incuriositi
da un territorio in fermento, impegnato al
tempo stesso in un lavoro di riscoperta della
propria storia e di costruzione del futuro.
Questo territorio ha trovato le forme
per riflettere su se stesso, attraverso
l’arricchimento delle conoscenze, delle
relazioni e dei sentimenti, ed anche attraverso
questo Viaggio in Sicilia, che è un viaggio
attraverso la Sicilia vera: non quella degli
stereotipi, chiusa in se stessa, la Sicilia
metafora, oppressa e perdente di sempre,
bensì una Sicilia che vuole svolgere
un proprio ruolo.
Siamo partiti dai luoghi fisici, perché questi
conservano la loro storia: non solo nel
patrimonio archeologico e nei monumenti,
palazzi e chiese delle città, ma anche nelle
pieghe del paesaggio e nelle sue ferite, negli
alberi e nei prodotti della terra, in certe
espressioni della lingua e in un certo modo
di vivere che ancora ci distingue da altri
territori. Piccole cose, piccole storie
indispensabili per essere se stessi e per
guardare alle grandi cose, alla grande storia,
da una prospettiva determinata.
La storia dei luoghi è, infatti, nei luoghi stessi.
Può essere visibile o rimanere nascosta.
Noi ce ne vogliamo nutrire, e vogliamo tenere
aperti gli occhi sul mondo.
Non c’è territorio senza un individuo che
lo guarda e lo trasforma e non c’è Umanità,
non c’è civiltà, senza un territorio e una storia
condivisa. Le emozioni, le associazioni, le idee
e le storie che i luoghi e gli incontri del nostro
viaggio hanno evocato negli artisti, ci vengono
restituite rigenerate in forma di costruzione
artistica contemporanea: una rigenerazione
che traspone la storia e la memoria del
vissuto attraverso l’intelligenza e la sensibilità,
creando un filo diretto di comunicazione
con il nostro tempo.
Uomini e Luoghi, inscindibilmente uniti.
E il tentativo di rappresentare quest’unione,
questo nesso inscindibile, segue un percorso
che inizia con una sorta d’autorappresentazione
dell’individuo attraverso lo sguardo; è la
ricerca di Antoine Giacomoni e Kuutti Lavonen:
un fotografo e un disegnatore affascinati
dall’introspezione, dalla rappresentazione
dei volti, degli sguardi che rivelano l’anima:
degli uomini, delle donne, dei bambini, degli
artisti, della gente che abbiamo incontrato
e anche dei santi, delle madonne, degli
angeli... Poi ci sono i luoghi guardati,
scrutati, assorbiti; e il paesaggio diventa
stupore, paura, bellezza, malinconia, crudeltà:
Antonio Miccichè, Maria Pilar Saltini e
Giuseppe Colombo sono artisti che si pongono
come osservatori dell’altro da sé, ma il
uomini e luoghi RAFFAELLA DE PASQUALE
Dobbiamo batterciper conservaretutto ciò cheè piccolo,che conferisce alle grandicose unaprospettivada cui vederleW. Wenders,L’atto di vedere
38-39paesaggio è anche e sempre un paesaggio
dell’anima, né potrebbe essere diversamente.
Segue poi un terzo momento, nel quale sguardi
e paesaggi si combinano nell’azione e nel
racconto: la ricerca di Aurelio Bulzatti,
Anna Rosa Faina Gavazzi ed Elisa Nicolaci
esplicitamente guarda ad una dimensione
psicologica e sociale. Infine il giapponese
Juichi Yoshikawa, maestro della calligrafia,
è qui come una meteora catapultata da un
mondo altro, affascinante per la sua estraneità.
La calligrafia è di per sé un mistero:
l’interpretazione del calligrafo nasce nella
dimensione dell’attimo, nel limite incerto
tra coscienza e incoscienza, parlandoci così
di tradizioni altre.
Abbiamo provato quindi a raccontarci e a
raccontare la Sicilia: con le prime due edizioni
e oggi con questi nove artisti, con le foto
di viaggio di Riccardo Scibetta, con il racconto
di Roberto Alajmo e con le riflessioni di
Sergio Troisi. Ma non solo. Infatti sta proprio
nell’essere umano, e soprattutto nell’artista,
e nella sua capacità di vedere oltre, il potere
di trasformare luoghi aridi in territori fertili
della memoria. E sta al nostro operare
collettivo far sì che la memoria e la
conoscenza ci aiutino a pensare insieme
e a pensare in un modo nuovo, il modo giusto
per una regione che oggi si trova collocata
al centro di nuovi e potenti processi di
trasformazioni geopolitiche.
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54-55Secondo una leggenda popolare, nel 1516
al canonico della cattedrale di Palermo
apparvero miracolosamente, vergati sul
muro della chiesa in stato di abbandono,
i nomi dei Sette Angeli a cui l’edificio era
dedicato. Quali, esattamente non si sa: perché
ad eccezione dei tre maggiori – Gabriel,
Michael, Raphael – i nomi degli altri quattro
(o cinque, secondo altri testi) variano spesso,
così da poter elencare Samael, Uriel, Anael,
Sachiel, Cassiel, ma anche Barachiel,
Salatiel, Jehudiel. Inutile dire che a seguito
del miracolo la chiesa venne in tutta fretta
riedificata con annesso convento, anche se
oggi nulla ne rimane in piedi. Ma quella
tradizione sconosciuta a molti palermitani
è stata una delle molle che hanno deciso il
viaggio di Kuutti Lavonen dalla Finlandia in
Sicilia, sulle tracce quindi di un sogno di
schiere d’arcangeli. A conferma, se ce ne
fosse bisogno, di come l’isola sia capace
di irradiare un deposito di memorie e di
attese tanto ampio e diversificato quanto
a volte imprevedibile, dissolvendone gli
stereotipi in un caleidoscopio di rifrazioni,
di gioco di specchi che soltanto gli artisti,
forse, riescono a raccogliere ed alimentare.
Gli angeli di Lavonen – il tratto scuro e
nervoso, lumeggiati come nei disegni antichi –
accompagnano così questo viaggio in Sicilia
con il loro incedere ironico e saturnino,
riconoscendo i propri lineamenti nelle statue
intagliate nella pietra tenera del Val di Noto,
tessendo dialoghi a mezza voce, condividendo
ricordi e narrazioni con lo spirito dei luoghi,
ritrovando nei paesaggi e nelle città quella
simbologia degli elementi che ne sostanzia
i nomi. Ogni viaggio, del resto, è foriero di
contaminazioni; a maggior ragione quando,
come in questo caso, intreccia fili e traiettorie
secondo trame eterogenee, componendo
un puzzle di linguaggi le cui tessere non
collimano mai perfettamente e disegnando
una geografia ipotetica e plurale. I viaggi
d’artista impongono così una doppia verifica:
sondano, infatti, l’iconografia sedimentata del
luogo ma anche la capacità del proprio
linguaggio – dei propri codici – di misurarsi
con un sistema di segni storici e antropologici
strutturati in modo complesso su differenti
livelli; e le ibridazioni che seguono tale
confronto non sono mai scontate.
Anche se in modo non sistematico e con
un’angolatura molto parziale, uno degli
elementi in gioco nel viaggio in Sicilia è allora
una interrogazione condotta quasi in vitro
sullo stato dell’arte e sulla diversità di
approcci – accertata ormai da diversi anni –
che ne individua il sistema aperto. I lavori di
Anna Rosa Faina Gavazzi in tal senso possono
fungere da paradigma: le tecnologie sono
quelle, centrali nella ricerca contemporanea,
della fotografia e delle rielaborazioni
digitali delle immagini, e il repertorio è
quello – immediatamente riconoscibile –
del paesaggio, dell’architettura e dei singoli
manufatti della Sicilia centrale e orientale,
dalle facciate delle chiese tardobarocche ai
templi greci o alla statua equestre di San
Giorgio custodita a Scicli. Ma nella
impaginazione che mescola su un piano
Angeli sulla Sicilia SeRGio troisi
fluttuante la riproduzione meccanica e la
stesura all’acquarello le tracce si sdoppiano,
e la pretesa dei segni figurativi di configurare
una modalità assertiva viene vanificata
in un movimento circolare. Come è stato
ampiamente teorizzato, nell’odierna civiltà
delle immagini e della loro infinita
riproducibilità ogni oggetto è inevitabilmente
un simulacro di se stesso, e ogni esperienza
è comunque falsificabile: una consapevolezza
– non a caso Gavazzi ha lavorato molto con il
mezzo televisivo – che a differenza del
passato rende il resoconto visivo del viaggio
inevitabilmente congetturale, e ne confonde il
grado di verità. Analogamente ad una mise en
abîme, la stesura pittorica che si alterna alla
fotografia è essa stessa frutto di una
manipolazione fotografica, e la ripetizione in
alto e in basso del medesimo montaggio
compositivo è quindi una filiazione di presenze
egualmente pellicolari ed evanescenti.
L’assenza di gerarchia tra reale e virtuale
– la loro sostanziale ma ansiosa equivalenza –
segue probabilmente da vicino lo stesso
processo che negli ultimi due decenni ha
condotto allo smantellamento dei confini
tradizionali tra centro e periferia, generando
in modo diffuso uno sguardo meticcio sotto
molti aspetti indipendente dal fatto che esso
sia direzionato dall’interno o dall’esterno di
una specifica geografia. I tagli d’immagine
che caratterizzano i disegni a matita di
Antonio Miccichè – spesso decentrati in modo
dissimulato – enfatizzano con precisione
lenticolare la trama nitida dei dettagli
figurativi: la cromatura della lamiera di una
automobile come i riflessi dei graticci,
il cemento corroso dei piloni come la luce
mobile delle nuvole o le ombre delle dune
sulla spiaggia. È proprio la trascrizione
meticolosa di tale rete di particolari, senza
che intervenga alcun giudizio emozionale o
alcuna selezione, che rende i paesaggi di
Miccichè qualcosa di prossimo ai non-luoghi
di cui scrive Marc Augé, un’esperienza priva di
centro e di increspature, potenzialmente
replicabile senza disomogeneità a qualsiasi
latitudine. Né questa topografia uniforme,
che è diventata la visibilità totale del mondo,
viene meno quando, nella pittura, la materia
di colore procede per grumi e colature,
sfalsando a tratti la superficie con calibrati
fuori fuoco, perché anzi la tendenziale
monocromia di bruni, ocre e bianchi fa
recedere i dipinti su un livello di operatività
mentale, in bilico sul vuoto come dinanzi allo
specchio della propria melanconia.
Perennemente in agguato sotto una miriade
di travestimenti, è questa del resto – la
fascinazione della bile nera – una delle
parole-chiave del sentimento contemporaneo,
sortilegio ossessivo e astuzia dell’artista:
perché il non-luogo è un indizio e un sintomo
di pietrificazione, e il bagliore obliquo di
Saturno il solo espediente, forse, in grado di
smascherarlo. Anche quando la pittura si
anima di una rinnovata sospensione lirica,
come nella veduta del lago Arancio di
Giuseppe Colombo, il senso di contemplazione
luminosa si nutre di un vuoto a cui il paesaggio
fornisce soltanto la sua filigrana essenzializzata:
56-57
la successione di piante, campi, lago,
montagne e cielo ordinata in una latente
geometria bidimensionale, un ramo d’albero
che traversa la tela in orizzontale, in controluce,
con una semplicità grafica da stampa
giapponese. Sia pure depurato dai suoi
impulsi più cupi, aleggia, nella solitudine
vasta di questo silenzio rintracciato nel centro
dell’isola, uno spettro nordico, a dimostrazione
di come i viaggi possano segnare rotte
imprevedibili e sovversive. La percezione
stessa del paesaggio richiede allora una
operazione di spoliazione lenta, faticosa,
talvolta anche non priva di durezze e asperità,
così da evitare il tranello di una memoria
edulcorata e consolatoria. I dipinti di Maria
Pilar Saltini procedono in questo modo,
per piani di colore bloccati e incastrati l’uno
nell’altro come per un antico smottamento
geologico, solenni nella loro frontalità eppure
intimamente inquieti. Scabri nelle campiture
di materia dilavata così che la terra riveli i
riflessi di ardesia o di lava, questi paesaggi
distillano, della natura isolana, un sedimento
aspro, non molto dissimile da quello che negli
anni Cinquanta scorse Nicolas De Staël nelle
campagne assolate vicino ad Agrigento, e un
incombere analogo delle lastre del cielo e del
mare. Così che quando nella pittura rimangono
impresse le sagome di oggetti o animali
la loro presenza è affine a quella dei fossili
rimasti imprigionati tra gli strati rocciosi del
tempo: un racconto larvale.
Il racconto, del resto, è un fattore consustanziale
al viaggio, forse la sua motivazione più
segreta, certamente la sua forma necessaria;
anche se la crisi comunque parziale delle
grandi narrazioni ha costretto i resoconti a
percorrere sentieri in apparenza collaterali e
a ricostruire l’itinerario complessivo in termini
congetturali, per suggerimenti e ipotesi.
Da anni il lavoro di Antoine Giacomoni indaga
una geografia di volti, sguardi e lineamenti
che si intrecciano e si confondono lungo i
paesi del Mediterraneo, quasi a sondare altre
voci per il bellissimo breviario di Predrag
Matvejevic’. Come nel teatro di posa di un
illusionista, il corpo scompare inghiottito dal
nero del fondale e soltanto il viso si riflette
nella superficie dello specchio. Il suggerimento
al modello, da parte di Giacomoni, di adottare
l’indicazione di Diderot sul paradosso
dell’attore – colui che può assumere qualsiasi
personalità perché non ne possiede una
propria – insinua il dubbio di una tabula rasa,
e sospende nel movimento lievemente
ipnotico delle luci che si rispecchiano nella
pupilla l’abituale riconoscimento della
individualità del soggetto: alla contemplazione
narcisistica subentra così l’ansia della
pietrificazione, il sospetto atterrito che il
potere di Medusa si sia impadronito dei propri
occhi. Non a caso quei volti galleggianti nello
spazio nero dell’immagine richiamano
l’iconografia potente della testa decollata
di Golia, così come la dipinse Caravaggio
in quella che forse è la sua ultima opera,
brandita dinanzi allo spettatore dalla
profondità dell’ombra dalla mano di un Davide
sgomento. Quando questo itinerario di volti
e sguardi sarà compiuto da un capo all’altro
58-59del Mediterraneo, il risultato sarà allora quello
di un interrogativo rivolto alla identità del
grande mare e della sua cultura millenaria.
Da un capo all’altro, ossia da un nostos a una
nuova partenza. Il trittico di Aurelio Bulzatti,
nella immobilità straniata e lievemente
fantastica che riepiloga una intera stagione
dell’ambiente romano del Novecento, mette
in scena questi tragitti circolari: l’arrivo di una
coppia di migranti su una spiaggia siciliana
è insieme un auspicio, un sogno e una
reminiscenza, così come evidenziano i toni
appena smorzati della stesura del colore e
la posa deliberatamente ingenua delle figure;
e tuttavia sono quella paratassi da imagerie
popolare e quel montaggio persino didascalico
di emblemi a prestarsi alla affabulazione.
Chi racconta un ritorno, infatti, racconta
egualmente una distanza, una separazione e
uno slittamento: Elisa Nicolaci non conosceva
la casa dell’Ulmo sulla sponda del lago
Arancio, ma gli ambienti dell’antica masseria,
avvolgenti e protettivi, proiettano intorno
al visitatore le ombre archetipe della casa,
le presenze di lari e fantasmi benevoli,
la percezione liminare che chi ha percorso
quegli spazi continui ancora ad abitarli.
Un motivo, questo, su cui tante volte hanno
imbastito le loro trame letteratura e arti
visive, sia pure queste ultime in misura
minore, agglutinando stanze e oggetti in
creature metamorfiche. I materiali morbidi
– stoffe e imbottiture su supporti di metallo
leggero – contraddicono con l’evidenza visiva
e tattile la rigidità delle cose: le porte non
segnano un divieto e una chiusura ma anzi
si flettono agevolmente con la familiarità
di un commensale in visita, e i colloqui degli
oggetti d’arredo evocano, chiamandoli a
raccolta, personaggi e frammenti di corpi.
Senza lacerazioni, perché la memoria antica
di questa dimensione manuale vale come un
esorcismo; e non è un caso che Juichi
Yoshikawa abbia celebrato l’epifania della
casa nell’esercizio rituale della calligrafia
intingendo i pennelli nel vino e nelle sue
proprietà simboliche. L’eleganza degli angeli
di Lavonen, la loro grazia assorta eppure
sempre sul punto di cedere a un trasalimento,
sigillano allora l’epilogo provvisorio del
ritorno: il lieve moto di torsione – possibile
omaggio agli esempi, cari all’artista finlandese,
di Bernardo Cavallino e Massimo Stanzione –
segnala un raccoglimento verso il paesaggio
interiore ma anche la disponibilità
a raccogliere gli indizi di un nuovo inizio.
E la figura di Uriel, appollaiato sull’albero
a scrutare l’orizzonte, annuncia già
un nuovo viaggio.
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Aurelio Bulzatti (Argenta,
Ferrara, 1954). Vive e lavora
tra Roma e Bologna.
Si afferma negli anni ‘80 a
Roma insieme al gruppo di
artisti (Di Stasio, Gandolfi,
Ligas, Piruca e Frongia) riuniti
intorno alla Galleria La
Tartaruga, diretta da Plinio
De Martiis. L’iter artistico
di Bulzatti, improntato al
ritorno al mestiere, risulta
caratterizzato da una costante
indagine relativa al recupero
dell’iconicità della narrazione,
partendo dalla fissità, vibrante
di materia pittorica,
di scene fermate nell’istante
significativo dell’azione.
Forti sono i legami
di quest’artista con la grande
tradizione pittorica del
Novecento: de Chirico e Sironi,
ma anche Mafai e Morandi.
Ed è da rilevare anche la
fascinazione per la statuaria
greca, che ritroviamo
nell’impianto delle molte
figure dipinte.
Principali mostre: nel 1984
partecipazione alla XLI
Biennale di Venezia; Pintores
Anacronistas Italianos a
Madrid; in seguito, Paesaggio
senza territorio (1986) e
La natura morta (1987)
– organizzate da Laura Gavioli
al Castello Estense di Mesola,
Ferrara; la XI e la XII
Quadriennale (1986 e 1992);
Vitalità della Figurazione,
curata da Vittorio Sgarbi
a Milano (1988).
Negli anni ‘90 lavora con
Netta Vespignani, dalla quale
è ospitato più volte
nell’omonima galleria; nel
1992 espone alla Galleria
Philippe Daverio di Milano.
Dopo il XXIV Premio Sulmona
si susseguono altre mostre
importanti: Surrealismo
padano: da de Chirico a
Foppiani, curata da Vittorio
Sgarbi a Piacenza nel 2002;
il Premio Michetti nel 2003
e nel 2006; 10 artisti celebrano
i 20 anni della Mikado nel
2005; la personale alla
Galleria d’Ac di Ciampino e
Visionari, primitivi, eccentrici
a cura di Laura Gavioli,
Galleria Civica di Palazzo
Loffredo, Potenza, nel 2006.
aurelio Bulzatti
72-73
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3
74-75
76-77Giuseppe Colombo (Modica,
Ragusa, 1971). Vive e lavora a
Modica. Ha frequentato
l’Istituto d’Arte a Comiso e poi
ha seguito i corsi di incisione
all’Istituto d’Arte di Urbino.
Nel 1989 si è trasferito a
Roma, dove ha conseguito il
diploma di pittura all’Accademia
di Belle Arti. È uno dei
componenti più giovani del
Gruppo di Scicli. Attento alla
reinterpretazione dei classici,
fa del disegno, nella sua
definizione plastica, il suo
punto di forza. Discostandosi
dal dibattito generazionale
sull’esaurimento del ruolo
della pittura, le conferisce
profondità narrativa e
il compito di reinventare
ponendosi davanti alla realtà.
Principali mostre: 1999, Giuseppe
Colombo, Olii, pastelli, disegni,
Galleria Bregoli, Modica, a cura di
P. Guccione. 2003 Colombo,
Opere 1999-2003, a cura di Marco
Goldin, Lineadombra Quadri,
Conegliano, maggio-giugno; 2005
Colombo, Nature morte e ritratti,
a cura di Marco Goldin, Vicenza,
Artefiera, aprile. Numerose le
mostre collettive con il Gruppo di
Scicli curate da Marco Goldin.
GIUSEPPE COLOMBO
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78-79
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80-81
82-83Anna Rosa Faina Gavazzi
(Milano). Vive e lavora a Milano.
Dal ‘90 si dedica con sempre
maggior impegno all’uso
della fotografia come mezzo
d’espressione. Fotografie
pure, fotografie lavorate
al computer, fotografie che
in realtà sono vere e proprie
installazioni realizzate in base
a una serie di complessi
procedimenti: Anna Rosa
Faina Gavazzi assembla figure
estrapolate con la fotografia,
le rielabora al computer,
riproduce all’acquerello
l’immagine ottenuta, la
fotografa affiancando infine
l’immagine fotografata
a quella assemblata,
chiudendole entrambe entro
un’unica cornice. Un lavoro
essenzialmente di tipo
reinterpretativo, sempre
lungo il versante della storia.
La natura e la storia vengono
consumate e riproposte
secondo rapporti, ritmi e
atmosfere nuovi, in cui
grande importanza assume
il valore coloristico.
Per tre anni consecutivi
realizza una serie di
fotografie scattate all’interno
del Teatro alla Scala di
Milano per la mostra Il tempo
della Musica nel Ridotto dei
Palchi alla Scala nel febbraio
‘99. Le foto esposte in
quell’occasione sono state
pubblicate nel volume
La Scala - Racconti dal
palcoscenico, edito da
Valentina Edizioni in versione
italiana e inglese per l’Anno
Scaligero 2000-2001.
La mostra 12 ritratti utili
(col pittore svizzero Fabrizio
Soldini) è esposta alla
Phoenix Etrusca di Capalbio
nel 2002, allo Spazio Krizia
di Milano nel 2004, alla Sala
della Nunziatura di Balerna
(CH) nel 2005, e pubblicata
nel volume Ver Sacrum di
Philippe Daverio. Invitata in
diverse mostre collettive da
Philippe Daverio e Roberto
Borghi, insieme ad altri artisti
tra cui Bueno, Chia, Matta,
Ragusa, Serafini, Spoerri
(Biella, Como, Milano,
Verona). Espone con Daniela
Facchinato, Image Gallery di
Bologna, nel 2004-2005.
ANNA ROSA FAINA GAVAZZI
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86-87
88-89Antoine Giacomoni (Borgo,
Haute Corse – Francia, 1955).
Dopo aver studiato Arti
Plastiche alla Sorbona, a
partire dal ‘78 sperimenta
una particolare tecnica per
realizzare ritratti mescolando
il minimalismo (un semplice
specchio contornato da
lampadine tonde) al glamour
dell’età dell’oro hollywoodiana
(ognuno diventa una star in
questo specchio dai mille
fuochi). Il Mirror-concept
s’impone come il doppio del
Corso in esilio. Dentro il suo
specchio, circondato da tante
lampade opaline, Giacomoni
ha colto gli umori e l’anima
di una chilometrica schiera
di persone che per qualche
minuto si sono concesse alle
sue lusinghe. Parigi, Londra,
Giamaica, Colombia, di nuovo
Londra, Parigi, Corte, Bastia.
Scopo di questo lungo
pellegrinaggio, catturare
l’essenza dell’animo umano,
o magari qualcuna delle
maschere dietro cui si
nasconde. Sempre in
compagnia del suo
inseparabile specchio e della
fedele macchina fotografica
(una gloriosa Pentax
Spotmatic, tutta metallo).
Nel 1991 Giacomoni pubblica
il suo primo lavoro, Portrait à
travers le miroir, Éditions
La Sirène, frutto di un
decennio di mirror sessions.
In seguito, intraprende un
lungo lavoro dedicato alla
sua isola natale, La Corse à
travers le miroir, La Marge
Édition, 2002. Seguono: Nico,
ou le drame de l’exil (2003);
Daho par Giacomoni, the
mirror session’s parties
(2004); Reggae/Jamaïca
(2004), Éditions Horizon
Illimité. Nel 2007 pubblica
Les catalans à travers le
miroir, edizioni Trabucaire.
Attualmente sta preparando
un lavoro a colori dedicato al
Make-up art, intitolato Les
Métamorphoses de Stathis,
un altro dedicato alla cantante
barocca Armande Altaï e
Un miroir pour la mémoire,
album in bianco e nero
di mirror sessions
dedicato alle diverse isole
del Mediterraneo.
ANTOINE GIACOMONI
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90-91
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92-93
94-95Kuutti Lavonen (Helsinki,
1960). Vive e lavora a Helsinki.
È un artista che ama e
conosce profondamente l’arte
italiana. Inizia sempre il suo
lavoro partendo dal disegno,
le cui linee conoscono la
perfezione raffaellita e nello
stesso tempo s’innervano di
emozioni contemporanee.
Il colore steso successivamente
segue solo in parte le tracce
del disegno e vive di vita
propria. Particolarmente
emozionanti sono i grandi
ritratti nei quali i riferimenti
storici si combinano con la
verità di volti reali in un
profondo lavoro di ricerca
della propria identità.
Ha realizzato numerose
mostre personali e collettive
a partire dal 1981 in Finlandia
(a Helsinki, Jyväskylä,
Tampere, Turku) e in altri
Paesi. Nel 1987 ha partecipato
alla mostra itinerante Arte
Moderno Finlades (Centro de
Arte y Comunicación, Buenos
Aires, Argentina; Museo des
Bellas Artes, Montevideo,
Uruguay; Sala Mendoza,
Caracas, Venezuela; Museo de
Arte Universidad Nacional,
Bogota’, Colombia; Museo
Omar Rayo, Rondanillo,
Colombia); ha partecipato poi
ad Arco – la fiera d’arte
contemporanea di Madrid –
nel 1992 e nel 1995; a Miart
94, Milano; Northern
Dimensions, Kuwait, 2002;
Foyer Européen, Luxembourg,
Interférence I, Atelier Arcay,
Parigi, 2003.
Le sue opere sono presenti
in numerose collezioni
pubbliche: Museum of
Contemporary Art di Helsinki,
Finnish Parliament, Amos
Anderson Art Museum, Turku
Art Museum, Alvar Aalto
Museum / City of Jyväskylä,
Rovaniemi Art Museum /
Wihuri Foundation,
Harkonmäki Collection, Yrjö A.
Jäntti Art Collection, Kuntsi
Art Museum, Teresa and
Rafael Lönnström Foundation,
Paulo Foundation,
Saastamoinen Foundation,
Pyynikinlinna art collection,
Kerava Art and Culture
Association, Finnish National
Opera, Nordea Bank, OKO
Bank, Sampo Insurance
Company, Sonera, The
Swedish State, Art Museum of
Estonia, Malaga University
Collection, Spain.
Kuutti Lavonen
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98-99
100-101Antonio Miccichè (Palermo
1966). Ha studiato
all’Accademia di Belle Arti
di Palermo. Il suo percorso
di ricerca ha seguito una
molteplicità di forme
espressive: dall’installazione
alla scenografia, dagli
allestimenti teatrali fino alla
pittura vera e propria.
Nei lavori più recenti, che
traducono uno sguardo sul
paesaggio contemporaneo,
una stesura del colore ridotta
a una sostanziale monocromia
di tonalità bianche, ocra
e seppia che richiama la
precisione fotografica ma al
tempo stesso se ne discosta
per i contorni sfocati e incerti,
fa sì che l’oggetto della pittura
scivoli verso una spazialità
straniata, distante e a
volte sgomenta.
Mostre personali: Piani di fu-
ga, a cura di Emilia Valenza,
Loggiato San Bartolomeo,
Palermo, 2007; Waterfront,
a cura di Sergio Troisi,
Galleria Nuvole, 2006; Luoghi
della memoria, a cura di
Emilia Valenza, Trapani, 1998;
Paesaggi, a cura di Croce
Taravella, Palermo, 1994;
Mostre collettive: NPP-Non
pensiamoci più, a cura di
Cristina Alaimo e Davide
Lacagnina; Amor Mediterranei,
a cura di Paola Nicita,
Convento di San Francesco,
Sciacca (AG), 2005; Talents
nuovi, a cura di Gianluca
Marziani e Paola Nicita, 2000.
Miccichè ha partecipato
inoltre alle prime quattro
edizioni de Il Genio di Palermo
presentando pitture (1998),
installazioni (1999 e 2000)
e ha preso parte a
Meditazioni/Mediterraneo –
dialoghi con Palermo,
workshop con Studio
Azzurro (2001).
Tra le installazioni:
Checifaccioqui?, a cura di Ida
Parlavecchio, Travel café,
Palermo; Il sogno degli altri,
nell’ambito di Intervento 1,
a cura di Eva Di Stefano,
presentata sia al Kunsthaus
Tacheles, Berlino, che al
centro Policulturale Zapata,
Stoccarda, 2000; Doppia
Croce ++, per il parco della
Vucciria, Palazzo Rammacca,
Palermo, 2000; Alexandria, al
1° Festival di musica e arti
visive dei Paesi del
Mediterraneo, Alessandria
d’Egitto, 1999; Sogni d’oro,
Associazione Mondotondo a
Palazzo Rammacca,
Palermo, 1988.
Allestimenti e scenografie:
per La terra desolata di T.S.
Eliot con la regia di Claudio
Collovà, Teatro Bellini,
Palermo 2003; per K+BCKT,
uno studio di Lucio Garau
su Kafka e Beckett, 2000,
e per Monte di Pietà di
Christian Boltanski, curata
da Sergio Troisi, Palazzo
Branciforte, Palermo.
Antonio Miccichè
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102-103
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104-105
106-107Elisa Nicolaci (Palermo,
1977). Vive e lavora a Roma.
Per realizzare le sue sculture,
l’artista tende e cuce le stoffe
intorno a grandi strutture
metalliche cave e molto
leggere, di cui si avverte
appena la presenza.
Nei tessuti scelti, dalle loro
trame e dai loro decori, vede
affacciarsi espressioni di una
identità forte ed è così che
raffigurando volti, occhi e
bocche, intende mostrare,
in un certo senso fissare,
le “somatizzazioni” di
espressioni riconosciute nei
tessuti stessi. L’identità forte
di ogni tessuto evoca una
qualità dell’esistenza stessa:
vi sono tessuti che sanno di
bosco, tessuti che sanno di
memoria, che indicano la
nostalgia, che indicano il
tempo, che indicano il
sangue, che indicano il mito…
Nell’ottobre 2005, in
collaborazione con la Galleria
Prati di Palermo, allestisce
la mostra personale Finti
Teatri, presso il Teatro
Garibaldi di Palermo.
Nel giugno 2006, all’interno
della manifestazione Intrecci
Mediterranei, presenta al
Museo del Tessuto di Prato
l’opera Conosco qualcosa che
vi somiglia, realizzata per la
Fondazione Orestiadi di
Gibellina (TP), nell’ambito del
progetto La Tela di Aracne.
In settembre la stessa opera
viene esposta e acquisita dal
Museo delle Trame del
Mediterraneo in occasione del
venticinquesimo anniversario
delle Orestiadi.
Nel novembre 2006 inaugura
una mostra personale nella
Galerie Im Griesbad di Ulm.
Nel marzo 2007 inaugura
la personale Corpi Finti
presso la Galleria Weber &
Weber di Torino.
ELISA NICOLACI
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110-111
112-113Maria Pilar Saltini (Milano,
1971). Vive e lavora a Parigi
dove ha conseguito il diploma
all’École Nationale
Supérieure des Beaux-Arts.
Questa condizione di
emigrante, questa mancanza
di radici forti con una terra,
ha fatto sì che appunto nella
pittura si sia concentrata
la ricerca di un territorio
proprio, fortemente legato al
paesaggio, ai colori e ad
abitanti immaginari.
Una ricerca di familiarità,
luci, gesti, odori e percezioni
emerge con forza appunto in
luoghi non propri ed è la
condizione della lontananza
che aiuta a riscoprire se stessi.
Nei suoi quadri troviamo
un’affascinante ambiguità tra
figurazione e astrazione, tra
forma e informe, tra
pennellata definita e indefinita.
Una complessità contraddittoria
che a dispetto di una calma
apparente resta sospesa in
una sorta di enigma, una
ferita della terra che è anche
una ferita dell’anima.
Il percorso espositivo di Maria
Pilar inizia nel 1994 con la
partecipazione alla mostra
Jeunes artistes français à
Paris al Grand Palais di
Parigi. Seguono: Cinq regards
sur la figure, Centre d’Art
Contemporain di
Saint-Cyprien, 2000; Couleurs
Méditerranéennes, Palais de
l’Unesco, 2002; Éphémère,
Abbaye de Royaument all’I le
de France, 2003.
La sua prima mostra
personale è del 1998, alla
Galerie Crous (Parigi),
seguita da Horsaison,
Galleria Ca’ d’Oro (Roma,
2004), e Collision, Espace
La Ruine (Parigi, 2005) e
successivamente Galleria
Franco Russo (Roma).
Nel 2005 ha partecipato
al Premio Lissone,
su segnalazione di
Valerio Adami.
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116-117
118-119Juichi Yoshikawa (Fukui,
Giappone, 1943).
Maestro della calligrafia, ha
studiato con Inamura Undo,
poi con Ueda Sokiu.
Ha rinnovato quest’arte
ancestrale dandole una nuova
dimensione, modificando
i supporti (calligrafia sulla
scultura, sui tessuti)
e praticando la calligrafia
monumentale. Considera
l’opera pittorica uno strumento
di percezione della varietà
della forma.
Mentre la calligrafia
tradizionale enfatizza la
visione frontale, nelle opere
di Yoshikawa il fronte e
il retro formano un’unica
entità dotata di tre dimensioni
e mezzo, dove la dimensione
aggiuntiva è rappresentata
dal tempo che chi guarda
impiega per immergersi
nell’opera. O, letteralmente,
per percorrerla: è il caso della
grande installazione realizzata
a Beijing (1990), che ricopriva
quasi per intero con più di
cento opere i 5000 metri
quadrati di piazza Tienanmen.
Nel 1990 espone al Fukui
Prefectural Art Museum.
Nel 1998 espone 900 opere al
Tokyo International Forum, in
occasione della 50a Mainichi
Calligraphy Exhibition (cui
aveva già partecipato nel
1979, vincendo il secondo
premio). Nel 2002 lo Ueno
Royal Museum di Tokyo gli
dedica un’antologica.
Nel 1976 riceve il premio
della 25a Keisei Exhibition e
nel 1997 il Fukui Citizen’s
Cultural Award.
Juichi Yoshikawa
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120-121
122-123
Visita in Sicilia tra i vini di Planeta e poi BIG SYOING!! GO!!
“Ho avuto la fortuna di visitare vari paesi europei – Inghilterra,
Belgio, Germania, Danimarca, Olanda, Svezia – a volte per delle
mostre di Syoing, a volte per dei workshop. In particolare,
ricordo con emozione ‘Juichi 11 Yoshikawa Syoing’ a Parigi e la
mia collaborazione con Hermès. Quando si riflette sul valore
della tradizione, della storia, della società e del senso di
appartenenza in Europa, non si può fare a meno di rivolgere un
pensiero all’Italia e per questo, quando ho ricevuto l’invito di
Planeta, sono subito volato in Sicilia. Nella brevità della visita,
è stato un susseguirsi di meraviglie, di sensibilità e di scoperte
sull’importanza dell’architettura, dell’arte e della cultura.
Tuttavia, quello che mi rimane maggiormente impresso della
Sicilia è il vento, sono le nuvole, è il cielo, è la passione delle
persone che vivono sotto quell’azzurro, è la profondità e il
sapore del vino creato con quelle uve. Sono affascinato da
questa terra e sento di dovervi ritornare.”
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(AG), c
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124-125Certe volte succede di arrivare in prossimità
e non riuscire a vederlo. È la foschia che lo
nasconde. Tu lo sai che c’è, e sai pure che è la
foschia a nasconderlo, ma nello stesso tempo
ti fai prendere dall’inquietudine, perché l’Etna
fa spavento anche quando non si vede.
Specialmente quando non si vede: perché se
una creatura del genere decide di nascondersi
significa che prepara qualche sorpresa.
Magari deciderà di apparirti senza preavviso,
quando non ci credi più, quando hai deciso
che era un incubo e che ormai ti sei svegliato.
Allora ti appare un labile profilo, visibile solo
se sai di cosa si tratta. In questi casi si scorge
in lontananza un tratto di pendici che salgono
seguendo un andamento grafico spaventoso.
Dal grado di pendenza si intuisce non quanto
è alta la montagna, ma quanto è grande,
quanto è immensa; ossia che rincorsa deve
prendere per arrivare dove è destinata ad
arrivare. Ed è la portata di questa rincorsa
che risulta preoccupante.
Il clima alla partenza è leggermente euforico,
come da gita scolastica, mitigato solo dall’età
dei partecipanti. Per chi si ritrova in posti che
già conosce, viaggiare con un gruppo di
stranieri è stimolante perché si guardano gli
stessi luoghi e persone con occhi diversi,
occhi di qualcuno che li vede per la prima
volta. Come sembrerà l’Etna a un giapponese
abituato ai paesaggi del Fuji Yama?
E le case senza intonaco che i siciliani
hanno costruito sul corso principale dei
loro paesi, come appariranno, agli occhi
di un giapponese?
‘A Muntagna, la chiamano gli abitanti delle
pendici. La montagna, al femminile. Non il
Vulcano, al maschile. Il Vesuvio è maschile,
e viene da chiedersi perché invece l’Etna
dovrebbe essere femminile. Eppure lo è.
A parità di minaccia per la popolazione
umana, forse il motivo va ricercato nel fatto
che l’Etna, molto più del Vesuvio, pare
discendere e affondare le sue radici nel
centro della Terra. L’Etna rappresenta
l’emanazione minacciosa della Grande Madre
Terra. È femmina, quindi, in quanto
incarnazione della Grande Madre. Chi viene
da fuori e ne riconosce il carattere minaccioso
è portato a considerarlo maschile: lo Etna.
Il vulcano. Ma i siciliani sanno quanto la
Madre Terra, e le madri in genere, possano
essere allo stesso tempo fertili e devastanti.
Per questo hanno ragione a tributarle
il genere femminile.
I due ospiti orientali, appositamente
interpellati, spiegano che anche in Giappone
il vulcano è femmina. E parlano di Kasà
e Skasà, i due termini che stanno a indicare
rispettivamente il vulcano attivo e il
vulcano spento.
I colori dell’Etna sono tre e consecutivi.
Innanzitutto c’è il verde di una vegetazione
abbondantissima. Poi viene il rosso della lava
incandescente, appena scaturita dal ventre
del vulcano, che spazza via il verde.
Infine subentra il nero della lava solidificata,
il colore che finisce per prevalere su ogni
altro. Ma solo per il momento: dopo qualche
CARTOLINE DI VIAGGIO roberto ALAjMO
anno il verde troverà modo di riconquistare
terreno a poco a poco, arrivando a trionfare
nuovamente sul nero. Fino a quando non
tornerà il rosso eccetera, eccetera.
A questo ciclo di tre colori se ne aggiunge un
quarto: il bianco. Un bianco che spicca per la
neve d’inverno e per le nuvole che quasi
sempre avvolgono la vetta e fanno da
contrasto col nero, rendendolo ancora più
minaccioso. Ma c’è pure il bianco spettrale
degli alberi sfiorati dalle colate più recenti.
Quelli investiti direttamente vengono
carbonizzati, e amen. Gli altri, quelli rimasti
al margine della colata, invece sbiancano.
Sbiancano proprio, come se restassero
terrorizzati. Sbiancano e allo stesso tempo
subiscono una sorta di fossilizzazione.
Pietrificati dal panico.
Il ciclo dei colori dura almeno
centocinquant’anni, a seconda del tipo di
magma, più o meno compatto. Ma vale la
pena di aspettare perché col tempo la lava si
trasforma in un terreno estremamente fertile,
ricco di minerali. Per almeno un paio d’anni
dopo che il flusso si è esaurito, la lava rimane
calda sotto e continua a fumare, in
determinati punti. Dopo un decennio
cominciano a crescere i primi muschi
e licheni. Poi viene il tempo della ginestra,
e ancora, e ancora.
La tenuta dei P. in contrada Santo Spirito
è stata acquistata da pochi mesi. Sono dieci
ettari di uliveto che verranno trasformati in
vigneto, impiantando una varietà di uva bianca
autoctona che si chiama Carricante. La prima
vendemmia è prevista per il 2009, e il vino
chissà quando. Dopo le colate di epoca
paleolitica questa terra ha aspettato il tempo
giusto per diventare fertilissima. Il dono che
Madre Etna teneva in serbo fin dal momento
della massima furia è quasi pronto.
La terra è scandita dalle rasole, vale a dire
muri di pietra lavica molto spessi, dell’altezza
di circa un metro e mezzo, che risalgono
all’Ottocento. Hanno la triplice funzione di
fare da camminamento, suddividere il terreno
e liberare dalle pietre il terreno stesso,
rendendolo coltivabile. Esiste anche la
possibilità che inconsciamente gli uomini si
affidino a questi manufatti nell’illusione di
creare barriere contro le colate vulcaniche.
Illusione, appunto, e umana.
Altra differenza, rispetto a una gita scolastica:
i compagni di viaggio sono perfetti sconosciuti.
Col passare delle ore e dei giorni si imparerà a
chiamare ciascuno col suo cognome, e magari
poi col nome. Ma all’inizio si va molto a
spanne. Ci sono il fotografo, la regista, la
milanese, i giapponesi, il finlandese.
Come nelle barzellette. Le semplificazioni
servono a prendere confidenza, a patto di non
dimenticare che ognuno di loro è portatore di
una prospettiva che in questi giorni verrà
applicata al ritaglio di crosta terrestre che
i siciliani hanno sempre sotto gli occhi
e che proprio per questo rischiano di perdere
di vista, come succede per gli amori che
durano troppo tempo.
126-127Anna Rosa cerca il contatto per rivelare un
particolare che l’ha colpita: i gabinetti sono
sempre molto puliti. Dice che altrove non
è così. Per un siciliano si tratta di un
complimento che imbarazza, perché è vero,
in qualche caso, ma molto relativo. I gabinetti
privati, forse, o quelli che i privati si
preoccupano di tener puliti. Un siciliano è
portato ad accettare questo genere di
osservazioni con una certa costernazione,
combattuto fra la tentazione di smentire e
l’orgoglio una tantum di essersi comportato
bene. È proprio vero: certe volte vedere le
cose attraverso gli occhi di uno straniero
risulta particolarmente utile.
A Pantalica le tombe venivano scavate con
accanimento nelle pareti di roccia a
strapiombo. L’incaricato veniva calato per
iniziare a sbozzare lo scavo, pietra dura
contro pietra un po’ meno dura. Una fossa
sul terreno sarebbe stata più facile da
realizzare, ma c’era l’esigenza di preservare
la sepoltura dalle profanazioni.
Alla fine, la tomba prendeva la forma di un
utero materno, e il corpo del defunto veniva
deposto in posizione fetale. Forse nella
speranza che ricominciasse daccapo il suo
ciclo di vita.
Man mano, col passare delle ore e dei giorni,
si delineano le dinamiche del gruppo.
Non solo le simpatie e antipatie, ma proprio i
caratteri, la personalità di ciascuno.
C’è quello che ha fame, quello che ha sonno,
quello che deve fare pipì. Quello che soffre di
mal d’auto. Quello che fa sempre domande
alla guida. Quello che rimane indietro perché
se ne frega della guida e segue percorsi tutti
suoi. I vegetariani sono tre. C’è persino un
astemio, che risulta un po’ incongruo, in giro
per cantine e vigneti.
L’organizzazione, e in generale un po’ tutti,
sono preoccupati di compiacere i due
viaggiatori giapponesi, in quanto portatori
di una civiltà differente e imprevedibile.
Loro, per la verità, sono molto rilassati.
Quando un acquazzone sopraggiunge in piena
passeggiata, a un’ora dal riparo più vicino e in
mancanza di abbigliamento adeguato, loro
sono quelli che la prendono con maggior
umorismo, facendosi delle gran risate.
Per dire: che impressione fa il fatto che al
volante ci sia Francesca? In Giappone è il
proprietario dell’azienda a condurre il furgone?
E se si tratta di una donna, per di più?
Notevoli i momenti in cui qualcuno cerca di
spiegare concetti forse inconciliabili con la
loro cultura, tipo la pennichella o fare scarpetta.
Breve storiella esemplare. Quando Noto
venne distrutta dal terremoto del 1693, si
discusse a lungo su dove operare la
ricostruzione. Il vecchio sito rispondeva a
criteri di arroccamento e fortificazione ormai
superati dai tempi. L’altra ipotesi era un
anfiteatro collinare che si trovava una ventina
di chilometri più a valle, non troppo distante
dal mare, i cui terreni appartenevano a certe
famiglie aristocratiche. Per dirimere la
questione, il Viceré prese una decisione che
RAGUSA ibla
128-129
per l’epoca risultava di sensazionale
democrazia: si sarebbe svolto un referendum
fra tutta la popolazione. Al voto prevalse
un’ampia maggioranza favorevole alla
ricostruzione sul medesimo sito. Non è
difficile da capire: a parte ogni altra
considerazione, una cultura contadina
è vincolata alla vicinanza dell’abitazione
con il terreno da coltivare giorno dopo giorno.
Se il paese si allontana di venti chilometri,
il lavoro si allontana altrettanto, fino a
diventare irraggiungibile.
La maggioranza era stata schiacciante.
Ma si vede che i tempi di un referendum
democratico erano prematuri, perché il Viceré
decretò, alla fin fine, che si ricostruisse sulle
terre nuove dell’aristocrazia, ignorando del
tutto la volontà popolare.
Esercizio: trovare le reiterazioni moderne di
questa vicenda.
Il viaggio è fatto di accelerazioni e
decelerazioni. In certi momenti bisogna fare
in fretta, perché bisogna assolutamente
vedere una certa cosa. Poi però, come in ogni
sinfonia o concerto, dopo l’allegro viene il
momento dell’adagio, del largo. A una
giornata di corsa ne segue una di relax quasi
completo. È il momento di lasciar riposare
gli occhi e le gambe per far sedimentare ciò
che si è visto. Si elaborano le informazioni,
sopraggiunge una certa noia. E nella noia,
la creazione comincia a prendere forma.
Una peculiarità del viaggio è la sua forma
di democrazia artistica. In partenza tutti i
partecipanti si trovano alla pari sul piano del
talento, almeno agli occhi degli altri. Il caso
è intervenuto a fare casting, e quasi nessuno
conosce il lavoro altrui. Se fra loro c’è un
Michelangelo, dovrà dimostrarlo nei giorni
della creazione e dello svelamento, alla
cantina dell’Ulmo. Ma intanto già alla tenuta
di Buonivini, il giapponese accetta di dipingere
una parete della casa con la sua tecnica
calligrafica. È il primo a gettare la maschera
davanti agli altri, adoperando per giunta solo
strumenti di fortuna: vernice qualsiasi e una
scopa come pennello; sapendo che verrà
giudicato sulla base di ciò che sta facendo
sotto gli occhi di tutti. Per questo motivo
è anche il primo che acquista diritto a un
nome. Smette di essere il giapponese e
diventa a tutti gli effetti ciò che è sempre
stato: Juichi Yoshikawa.
Buonivini si chiama veramente Buonivini.
Cioè, non è una trovata dell’ufficio immagine.
Questa contrada all’incrocio fra due mari si è
sempre chiamata così perché dalla notte della
storia fino agli anni ottanta vi si faceva un vino
particolarmente apprezzato. Vino che
i contadini preparavano per sé e la propria
famiglia, vendendone solo una minima parte.
Poi venne il tempo dei contributi per
l’estirpazione, e in molti trovarono conveniente
smettere. Fin quando, a partire dal 2003,
i P. hanno deciso di venire a fare il loro
Moscato su questa terra tufacea, bianca,
calcinata, sempre pronta a compattarsi dopo
ogni pioggia.
La cantina c’è ma non si vede. È un tunnel
130-131sotterraneo coperto di vegetazione, una
specie di laboratorio di tecnologia avanzata
che risponde a criteri non solo ambientali:
è più comodo lavorare l’uva procedendo
dall’alto verso il basso, in caduta. E poi nel
sottosuolo è facile mantenere la temperatura
necessaria alla maturazione del vino nelle
botti di rovere, dove rimane da dicembre a
dicembre. Terzo e non ultimo vantaggio della
cantina invisibile: una volta fuori, non rimane
quasi nulla che alteri l’andamento
leggermente mosso dei vigneti.
Il modicano da secoli è terra di scaccia, una
sfoglia di pane molto sottile e variamente
farcita. La scaccia si fa in casa o si compra nei
panifici, nelle rosticcerie. E proprio a Modica
è ambientata un’altra storiella esemplare.
Qualche anno fa un imprenditore decise
di aprire da queste parti un McDonald’s.
La casa madre fece le sue verifiche, trovò
che tutti i parametri aziendali erano a posto
e diede lo sta bene.
Durò un anno: dopodiché l’imprenditore fu
costretto a chiudere. I parametri aziendali non
prevedevano il radicamento della scaccia
modicana, competitiva su un piano non solo
dietetico, ma anche secondo criteri di gusto ed
economicità. Di fronte alla scaccia, la polpetta
americana dovette arrendersi. Non era mai
successo, nel mondo, che un McDonald’s fosse
costretto alla chiusura. Sarà pure
un’eccezione, ma è un’eccezione esemplare.
Nel quartiere dello Sbalzo, a Modica, si trovano
le cosiddette grotte vestite. Erano case
scavate nella roccia, abitate fino a tempi
recenti. Poi, negli anni cinquanta, venne la
legge Romita per contrastare la cosiddetta
edilizia impropria. Gli ultimi trogloditi
incassarono l’offerta di una casa popolare,
ma le grotte continuarono a essere abitate.
Dai figli di quelli che ci stavano prima, che
andavano a viverci con la famiglia che avevano
formato a loro volta, o da altri inquilini che
prendevano la grotta in affitto. Oppure,
infine, da quegli stessi che ci avevano sempre
abitato, che non accettavano di essere
deportati altrove.
Dopo Yoshikawa, a mostrarsi nel proprio
lavoro è il corso, Antoine Giacomoni. Assieme
al suo assistente Paul allestisce un set
fotografico per ritrarre buona parte dei
partecipanti al viaggio, più le persone che si
incontrano strada facendo.
Sono primi piani allo specchio. Lui scatta
mentre il soggetto si guarda allo specchio con
la consapevolezza dell’espressione che sta
facendo. Chi si guarda allo specchio è, allo
stesso tempo, ciò che è e ciò che
vuole/vorrebbe essere. Magari fa la faccia,
effetto comunque inevitabile, ma almeno sa
che faccia sta facendo. È il ritratto che più si
avvicina alla perfezione possibile.
A Ibla, con l’emergere di una borghesia agraria
si crearono due fazioni campanilistiche,
ognuna ferocemente competitiva nei confronti
dell’altra. Ognuna dietro la copertura della
devozione: a San Giorgio, il patrono caro
all’aristocrazia, si contrappose San Giovanni,
rappresentante della classe emergente.
Dopo il terremoto del 1693 la frattura si
accentuò e i Sangiovannari se ne andarono a
fondare una città nuova, da tutt’altra parte,
dove oggi si trova la Ragusa moderna.
Paradossalmente fu l’aristocrazia sangiorgiana
a sposare le istanze architettoniche più
moderne, a Ibla. Mentre la borghesia, che
pure socialmente era la fazione destinata a
prevalere, nel suo arroccamento sposò
istanze ancora tardocinquecentesche.
La rivalità arrivava a punte di teppismo ben
poco spirituali, per esempio quando fu della
decapitazione dei Santi del polittico di San
Giorgio, avvenuta nel corso di una incursione
di tifosi di San Giovanni. Non mancarono gli
scontri di piazza, e qualche volta c’è pure
scappato il morto: nel trambusto scoppiato in
nome della fede qualcuno ne approfittava per
regolare conti personali.
Il signor A. apre le porte della sua casa ai
viaggiatori. All’esterno si presenta come una
casa moderna, di quella modernità che in
Sicilia prescinde dall’identità. Dentro, invece,
è un trionfo collezionistico dove gli oggetti
si affastellano secondo un criterio empirico
dettato dall’horror vacui: dal mobile d’epoca
alla statuina di padre Pio, dal falso Tiziano al
vero lampadario di Murano. Pianoforti, ritratti
dozzinali, ricostruzioni araldiche da parete,
la foto della madre in mezzo a tutto quel
bric-à-brac.
Il signor A. mostra tutto con orgoglio, accetta
i complimenti e, finita la visita, chiude la porta
alle spalle dei visitatori. Il mondo prosegue, e
lui si ritira in mezzo a quella specie di surreale
museo domestico che forse gli assomiglia.
Ogni tenuta ha una sua terra peculiare.
Cromaticamente peculiare. Dal nero dell’Etna
al bianco di Buonivini, al rosso di Dorilli,
nei pressi di Vittoria. Proseguendo, la terra
sarà marrone scuro all’Ulmo e quasi gialla
alla Dispensa. Assieme al clima, la fortuna
vinicola della Sicilia è dovuta proprio
a questa varietà.
Dorilli si trova in mezzo al mare artificiale
di plastica creato dalle serre, che marcano
pesantemente il paesaggio. La cosa strana
è che dalla tenuta non si vede neanche un
metro quadrato di cellofan. Se è vero che
l’agricoltura in serra è destinata a soccombere,
Dorilli somiglia a una prima macchia di
paesaggio ripristinato dopo il tramonto
della plastica.
Qui fanno il Cerasuolo, un vino che si è
guadagnato la prima docg della Sicilia e che
allo stesso tempo, nella variante dei P.,
smentisce la forza concentrata che negli
ultimi decenni si era portati ad attribuire
a questo vino snaturato. Sfrondando la
tradizione, è affiorato un Cerasuolo che fa
della leggerezza il suo maggior pregio.
C’è dietro forse una piccola lezione:
la leggerezza, se non è vacuità, certe volte si
ottiene solo passando attraverso la gravità.
Il tratto di costa compreso fra Vittoria e Gela è
fra i più estenuati di Sicilia. Si passa quasi
senza soluzione di continuità dal cellofan
132-133delle serre alle ciminiere del petrolchimico.
Gela, in particolare, è fra le città che peggio
hanno ammortizzato l’impatto con la
modernità architettonica. Però – pochi
chilometri prima di arrivare, su una collina –
si scorge un grappolo di costruzioni nuove,
dai colori coerenti e dalle linee armoniose.
Pare una specie di miracolo, nel contesto,
e in un certo senso lo è: il cimitero, di Gela.
Arrivare all’Ulmo subito prima del tramonto
significa restare assorti nel silenzio di certi
viaggi in automobile, quando in prossimità
della fine le parole lasciano il campo alla
fatica, alla noia e alla riflessione.
Riflessione che è figlia di noia e fatica.
Di tutte le cantine, l’Ulmo è quella che ispira
maggiore armonia. È all’Ulmo che si trova
il bosco della Segreta. È all’Ulmo che
l’avventura dei P. è cominciata. È all’Ulmo che
il viaggio si conclude. Dopo il silenzio assorto
degli ultimi chilometri, un silenzio rotto solo
da comunicazioni di servizio, si scaricano
i bagagli e ci si sistema nelle camere.
Anche il commiato possiede un suo pudore,
limitandosi alla promessa di rivedersi presto,
sapendo benissimo che in molti casi non
sarà così facile. Il viaggio finisce e da
domani gli artisti si metteranno al lavoro
per un’altra specie di viaggio, un viaggio
individuale e stanziale.
La caratteristica costante di tutte le cantine
dei P. è la loro diversità: costanza nella
diversità. Poi c’è il fatto che nessuna appare
consolidata da un punto di vista architettonico
e impiantistico. Ci sono sempre lavori in
corso, ampliamenti, ristrutturazioni.
Come se ogni tenuta fosse ben lontana da
un appagamento estetico, ma caratterizzata
soprattutto da un genere di bellezza dinamica,
sempre in divenire. Da un punto di vista
imprenditoriale questo si spiega con gli
investimenti che si susseguono. Se davvero
è così, il segreto della bellezza e della
ricchezza coincide con l’approssimazione,
solo approssimazione, alla bellezza e alla
ricchezza. Non è poi una novità e non è
neppure difficile da capire, viaggiando attraverso
la Sicilia: la felicità possibile a quanto pare
consiste nell’approssimazione alla felicità.
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