PIEVE 1944 il paese cancellato

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Pieve 1944 il paese cancellato

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Pieve Santo Stefano è un paese tranquillo traversato dal fiume Tevere. Come molte comunità vive adagiato sui propri ritmi, popolato da gente semplice e operosa dalle solide origini contadine.Poi la guerra squarcia per sempre la quiete dell'antico abitato. E nell'agosto del 1944 tutti i cittadini vengono forzatamente sfollati dai tedeschi in ritirata, che hanno l'ordine di minare il paese e farlo saltare in aria. Prima di lasciare Pieve, gli abitanti cercano di nascondere come possono i loro pochi beni, il fotografo Lidio Livi mura la sua macchina a lastre in un edificio. Al rientro dopo lo sfollamento, il paese è completamente distrutto, ridotto a un cumulo di macerie. Pochi edifici e brandelli di muro sono ancora in piedi. Lidio Livi ritrova la sua macchina fotografica e si mette a scattare immagini che a sessant'anni di distanza raccontano di quel tragico ritorno. I cittadini di Pieve, cercando fra le macerie i residui della loro quotidianità, cominciano a dividere i sassi e a ricostruire. Ma la ricostruzione, affrettata e senza mezzi, impone altre scelte dolorose. Darà agli abitanti una Pieve completamente nuova, lasciando per sempre il rimpianto del paese cancellato. progetto grafico Visual Chiara Bigiarinicon le immagini dell'Archivio Fotografico Livi

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Pieve 1944

è un progetto di Associazione Culturale Antiche Prigioni

Centro Studi Storici e Ricerche Archeologiche - onlus Fondazione Archivio Diaristico Nazionale - onlus in collaborazione con Archivio Fotografico Livi

Comune di Pieve Santo Stefano

Pieve 1944. Il paese cancellato

percorso narrativo a cura di Loretta Veri immagini dell’Archivio Fotografico Livi

realizzate da Lidio Livi frasi tratte dalle testimonianze orali

raccolte dalle associazioni nell’ambito del progetto brani dai diari dell’Archivio di Pieve Santo Stefano

a cura di Bettina Piccinelli

progetto grafico e impaginazione: Chiara Bigiarini stampa: Al. Sa. Ba. Grafiche, Colle Val d’Elsa (SI)

gennaio 2008

Comune di Pieve Santo StefanoCroce di Guerra al Valor Militare

Città Del Diario

Provincia di Arezzo

Facoltà di Lettere e Filosofia di Arezzo

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A s s o c i a z i o n e C u l t u r a l e A n t i c h e Pr i g i o n i

C e n t r o S t u d i S t o r i c i e R i c e r c h e A r c h e o l o g i c h e - o n l u s

Fo n d a z i o n e A r c h i v i o D i a r i s t i c o Na z i o n a l e

c o n l e i m m a g i n i d e l l ’A r c h i v i o Fo t o g ra f i c o L i v i

P i e v e 1 9 4 4 i l p a e s e c a n c e l l a t o

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Ogni luogo ha la sua storia. Quella di Pieve Santo Stefano ha un lieto fine. Il paese è diventato per tutti la capitale del diario, il luogo che celebra, dal 1984, l’importanza della conservazione dei ricordi e il culto della memoria. È come una forma di restituzione per un paese che ha rischiato di essere cancellato per sempre, dalla geografia e dalla Storia, per la ferocia dell’uomo e l’insensatezza delle guerre.

Questo volume è una specie di piccolo miracolo. Noi amministratori parliamo sempre di come le Associazioni e gli enti dovrebbero lavorare in sinergia, facendo rete e coinvolgendo il territorio. Grazie alla felice intuizione di Fioralba Errera, che nel 2004 ha presentato la sua idea all’Amministrazione Comunale e a tutte le Associazioni di Pieve, si è sviluppato un progetto dal titolo Pieve 1944. L’iniziativa ha coinvolto l’intero paese, ha fatto lavorare insieme tre associazioni di Pieve Santo Stefano sotto il patrocinio del Comune (unico della Provincia di Arezzo ad essere stato insignito della Croce di Guerra al Valor Militare), ha portato alla luce un patrimonio semisconosciuto di immagini straordinarie dell’Archivio Fotografico Livi, che oggi diventa, grazie a questa pubblicazione, un bene collettivo. È anche grazie al Consiglio Regionale della Toscana se questo libro prende forma. Proprio il Consiglio Regionale, infatti, ha sottolineato che l’importanza della documentazione reperita andava al di là dell’interesse locale e aveva pieno diritto di trovare spazio in una pubblicazione. Le tre associazioni, come è noto, sono le Antiche Prigioni, l’Archivio diaristico nazionale e il Centro studi storici e ricerche archeologiche. Ognuna con la propria esperienza, ognuna con il proprio bagaglio artistico e culturale, queste tre associazioni hanno contribuito a rendere il progetto un elemento di identità per il paese di Pieve. Di pari passo all’impegno di valorizzare le immagini fotografiche, c’è stato quello di recuperare i ricordi degli abitanti, attraverso le tracce di scrittura dei loro diari depositati presso l’Archivio, ma anche attraverso il lavoro delle interviste realizzato in questi tre anni. Il progetto si è sviluppato in una prima mostra, dal titolo Pieve 1944, tracce della memoria di Pieve Santo Stefano e dei suoi abitanti (agosto/settembre 2004), una seconda mostra dal titolo Il paese cancellato. Pieve, la memoria, il risveglio (aprile/maggio 2005) e si conclude con questa prestigiosa pubblicazione che vuole fortemente restituire a Pieve la dignità del recupero della sua memoria. È un libro nel quale gli abitanti di Pieve potranno facilmente rispecchiarsi e riconoscersi. È il racconto di un’intera comunità attraverso la voce dei suoi protagonisti. Di chi è stato costretto a lasciare la sua casa e non l’ha ritrovata al ritorno dallo sfollamento. La nostalgia del paese com’era, lo strazio del ritorno con lo spettacolo delle macerie, i lutti terribili continuati anche molti anni dopo la guerra, la ricostruzione affrettata del dopo, per ridare una volto, totalmente diverso, al paese, adesso diventano un libro che è un racconto corale, fatto di voci e immagini della nostra Pieve. Le fotografie straordinarie realizzate da Lidio Livi sottolineano perfettamente l’incedere dei ricordi.

Un doveroso grazie agli enti e agli sponsor che hanno creduto in questa pubblicazione e a tutti quelli che hanno lavorato in questo progetto, per la passione che li ha animati, per le felici intuizioni che hanno avuto e per la qualità del prodotto che hanno saputo realizzare.

Lamberto PalazzeschiSindaco di Pieve Santo Stefano

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“A noi la casa ce la bruciarono”di Camillo Brezzi

1. La ricorrenza del 60° della Liberazione ha sollecitato soggetti e istituzioni in un’opera di studio e di riflessione su quei tragici eventi che hanno coinvolto anche il territorio aretino. Vale la pena sottolineare, a tale proposito, quanto l’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, a partire da questo anniversario, abbia sviluppato un lavoro significativo in tal senso. Sono state realizzate tre iniziative che si pongono in armonia con lo spirito e gli obiettivi che da anni l’Archivio si è dato, quello di sollecitare il ricordo, favorire la custodia della memoria, consolidare la nostra memoria individuale e collettiva, mettere in allarme rispetto ai rischi di una politica dell’oblìo. Il diario di Orlando Orlandi Posti, scritto nel carcere di via Tasso nei primi mesi del 1944, il volume di Patrizia Gabrielli con il suo ampio e raffinato saggio storiografico interpretativo e Pieve 1944. Il paese cancellato, una pubblicazione che vede l’impegno di tre associazioni pievane per dare voce e immagini ad alcuni momenti significativi delle diverse stagioni della Resistenza e del rapporto tra la sua memoria, la costruzione dell’identità repubblicana e della cittadinanza democratica.Come è noto, in quei drammatici venti mesi che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, uomini e donne di diverse età e di qualsiasi condizione sociale si sono impegnati con ogni mezzo per il ripristino dell’indipendenza, per porre fine al fascismo e all’occupazione dell’esercito tedesco e per la costruzione della democrazia. Fin dai primi anni Novanta, questi eventi hanno visto una rinnovata attenzione degli storici; tra questi Jacques Sémelin che nel suo libro Sans armes face à Hitler ha definito la categoria della resistenza civile come un impegno individuale contro il nazifascismo, fondato sul coraggio e sulla responsabilità. Un approfondimento in questa direzione è venuto da Tzvetan Todorov, Di fronte all’estremo, il quale - indagando sulle plurime strategie di resistenza attivate in condizioni estreme (campi di concentramento, ecc.) - ha posto in rilievo le diverse azioni compiute dai prigionieri per non soccombere al potere totalizzante dell’esperienza concentrazionista.Una categoria, questa della resistenza civile che confuta l’immagine della Resistenza, a lungo dominante, quale momento istituzionale, per sostenere, invece, molteplici forme di partecipazione che si espressero al di là delle consuete forme della politica. La resistenza civile ha lasciato emergere un panorama altrimenti inedito e ha favorito la messa a fuoco di diversi modi di essere nella Resistenza, che hanno finito per scompaginare - per dirla con le parole di Patrizia Gabrielli - lo stereotipo del partigiano uomo in armi per lasciare spazio ad una realtà poliedrica. La categoria della resistenza civile ha approfondito l’analisi - come faceva assai acutamente e con molta finezza più di dieci anni fa Pietro Scoppola nel suo 25 Aprile. Liberazione - delle condizioni di vita materiali e morali delle italiane e degli italiani in quei tragici venti mesi dell’occupazione nazifascista. Riferendosi al “vissuto degli italiani”, Scoppola metteva in luce i disagi, la paura, la fame così come il manifestarsi di una nuova tessitura di rapporti di solidarietà, base imprescindibile per la formazione di una identità nazionale libera dalla retorica nazionalista del regime fascista, improntata sul rispetto dell’individuo, dei diritti e dei doveri del cittadino: questa la dichiarazione della nuova cittadinanza democratica e repubblicana. Dalla documentazione delle tre pubblicazioni, emerge con chiarezza il superamento del luogo comune, che ha dominato a lungo nell’opinione pubblica, circa l’attendismo degli italiani. Era andata circolando e consolidandosi negli anni l’immagine di un insieme di cittadini e cittadine non “schierati”, “rimasti alla finestra” in attesa dell’esito del conflitto, ma – ha sottolineato Scoppola molto opportunamente - “non si poteva stare alla finestra quando la finestra stessa, con la casa, crollava”.Come è noto, il cambiamento di atteggiamenti degli italiani si lega strettamente a una data tra le più tragiche della storia italiana: l’8 settembre 1943. Dopo l’arresto di Mussolini, il 25 luglio del 1943, nel giro di poche ore si assiste alla dissoluzione del regime fascista, alla formazione del governo Badoglio, alla dichiarazione che “la guerra continua” a fianco dei tedeschi. In quei terribili quarantacinque giorni scorrono ore di incertezze e di paure, poi giunge il comunicato sulla firma dell’armistizio con gli angloamericani da parte di Badoglio. La notizia - anche per le sue espressioni quanto mai criptiche - fa piombare il paese nel caos. Non ci sono ordini per i soldati, né indicazioni alla popolazione. L’armistizio vuol dire che la guerra è finita; questa, per lo meno, è la speranza dei soldati italiani sparsi nei territori dell’Unione Sovietica, dell’Africa, della Grecia, e in Italia; questa la speranza, per pochi attimi la convinzione di uomini, donne, vecchi, giovani, bambini. Come sappiamo, invece, è l’inizio di una nuova e più terribile guerra. È l’inizio di una nuova tragedia per il popolo italiano. Con la fuga del Re e di Badoglio dalla capitale, l’Italia si trova divisa in due parti e occupata da due eserciti. È la morte di quella patria che il fascismo e i suoi alleati avevano ipotizzato, ma il paese reale risponde diversamente.Proprio a partire dall’8 settembre 1943, in più parti d’Italia si manifesta in modo esplicito la volontà di opporsi all’alleanza fascismo-nazismo e ci si batte per l’affermazione della libertà e della democrazia. Anzi, proprio con l’8 settembre si ha un risveglio dell’amor di patria, lo confermano - ad esempio - le forze armate a Porta S. Paolo a Roma, l’esercito a Cefalonia e a Corfù, la popolazione napoletana che mette in fuga i tedeschi. Un risveglio patriottico che cresce con il passare del tempo, con la nuova situazione politica: il territorio del centro e del nord Italia è occupato dalle truppe tedesche e, sia pure formalmente, governato dalla Repubblica Sociale italiana. Dagli uffici postali iniziano a partire le cartoline precetto per la leva obbligatoria nel nuovo esercito “repubblichino”: molti non rispondono. Questo episodio costituisce un tassello delle memorie di un giovane cattolico aretino, Ferdinando Turchetti: “Molti di questi giovani, in età tra i diciotto e i vent’anni, si conoscevano già tra loro o avevano fatto amicizia nei banchi di scuola o nei luoghi di lavoro. Una parte di loro decise di armarsi e resistere contro l’invasore. Si trovarono a dover combattere contro altri amici e conoscenti della loro stessa età che invece scelsero, nonostante tutto, di rimanere fedeli al fascismo”.

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Con queste semplici e chiare parole, Ferdinando Turchetti ci presenta il dramma personale di molti italiani e italiane nei terribili venti mesi della guerra civile. Come schierarsi? Cosa scegliere? Quello della scelta è un tema di grande rilevanza sul quale la ricerca storica si è incentrata esaminando le ragioni ma anche le casualità che furono alla base delle scelte opposte cui giunsero gli italiani. La letteratura ha reso assai bene questo stato d’animo che trova la sua più chiara espressione nelle parole di uno dei più grandi narratori del Novecento, Italo Calvino che così scrive nel suo Il sentiero dei nidi di ragno: “Basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima, e ci si trova dall’altra parte”.Tra i tanti meriti dell’opera di Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, vi è l’esame, attraverso fonti diverse, delle motivazioni che sostengono la scelta dei partigiani come di coloro che aderirono alla Rsi. Pavone offre un panorama molto vario di soggetti e di questioni, dalle motivazioni esistenziali a quelle politiche, segnalando il passaggio importante compiuto in quei mesi quando si prospetta una società diversa; egli fa riferimento allo slancio utopico della Resistenza, all’attesa di un mondo nuovo nutrita da molti partigiani, di una rottura con la tradizione italiana di autoritarismo. Proprio da questa intelligente e sensibile analisi, corredata da una straordinaria gamma di fonti, Pavone fa luce su due sistemi di valori opposti, quelli dei fascisti e degli antifascisti.Della scelta così come l’essere spettatori della tragedia che si abbatte in quei terribili mesi si parla in un documento assai diverso da quelli finora ricordati. Una canzone di Francesco De Gregori, un autore che spesso si è misurato con la storia (Generale, Titanic, La storia siamo noi, Il bandito e il campione, Buffalo Bill, La leva calcistica della classe 1968, Viva l’Italia) tanto da rappresentare, meglio di chiunque altro, il legame tra musica e storia. Ne Il cuoco di Salò (pubblicato all’inizio del 2001) si ritrova la grande ispirazione che caratterizza molti brani di De Gregori, la sua profonda sensibilità per la dimensione esistenziale dei soggetti. Al di là delle pretestuose polemiche giornalistiche seguite all’uscita del disco, mi sembra, invece, che vada sottolineato in vari passaggi, la poesia, l’ispirazione, la sensibilità di De Gregori coniugata alla “pietas”, che è ben altra cosa dal “revisionismo”. Penso, per esempio al verso: “Quindicenni sbranati dalla primavera”. Ma in particolare, quella “pietas”, l’ho avvertita in due versi che sono ripetuti più volte, quasi divenendo un refrain: “Qui si fa l’Italia e si muore./ Dalla parte sbagliata si muore”. E il tono che De Gregori usa per sottolineare queste due parti del verso è significativo: forte, quasi roboante il primo, riecheggiando, fra l’altro, una famosa frase storica riferita all’epopea risorgimentale; mesto, triste il secondo (si sta parlando di morte), sommesso, in quanto è la triste constatazione, che al contempo viene sottolineata, che molti giovani stanno morendo, appunto, “dalla parte sbagliata”.Anche Licio Nencetti compie la sua scelta. A differenza di tanti altri, Licio, data la sua età, non è neppure costretto alla chiamata alle armi della Repubblica sociale italiana; è quindi una scelta ideale la sua: “Perché a 17 anni/ non si può regalare/ né l’oggi né il domani/ la propria libertà”, come ci ricordano i versi della canzone Il comandante Licio nel bel disco della Casa del Vento, Sessant’anni di Resistenza dedicata a personaggi e a episodi della guerra partigiana aretina.Rimanendo nel territorio aretino altri riferimenti si potrebbero fare con i nomi di Pio Borri, il primo caduto della Resistenza aretina, Modesta Rossi o Sante Tani.

2. Uscendo dal territorio aretino volti e nomi si moltiplicano. A Roma, un altro diciassettenne, Orlando Orlandi Posti, entra nella Resistenza e, nel febbraio 1944, viene arrestato, trasferito nel terribile carcere di via Tasso, poi ucciso il 24 marzo del ‘44 alle Fosse Ardeatine. Da via Tasso, Orlando riesce con alcuni stratagemmi a inviare dei brevi messaggi alla madre e alla amata fidanzata Marcella nascondendo i foglietti nei risvolti dei colletti delle camice che manda a lavare a casa. Nel settembre 2003 questi preziosi foglietti sono stati consegnati da un nipote di Orlando all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano e pubblicati in Roma ‘44. Le lettere dal carcere di via Tasso di un martire delle Fosse Ardeatine.Proprio in occasione del suo diciottesimo compleanno, il 14 marzo - dieci giorni prima di venire ucciso alle Fosse Ardeatine - Orlando, disegna, sui pochi fogli a disposizione, una porta della cella e una finestra con sbarre, un gesto con il quale egli sembra voler trasporre sulla carta lo spazio angusto nel quale si trovava a vivere - in quello che lui definiva “tomba dei vivi” e luogo dove le giornate finivano “senza nulla” -, quasi che tale trasposizione possa rendere più reale quella dimensione assurda per un giovane. Sempre su quel foglio Orlando annotava: “l’alba del mio 18 anno di vita la ho passata in carcere morendo di fame. Signore iddio fa’ che presto finiscono le sofferenze umane che tutto il mondo sta attraversando, fa’ che tutti tornino alle loro case, fa’ che il lavoro ritorni in ogni dove e così torni la pace in ogni famiglia e tutto torni nello stato normale. Signore sia fatta la tua volontà”.Ad uno scenario almeno in parte diverso conducono le ricche e variegate testimonianze raccolte nel volume di Patrizia Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne. Diari e memorie nell’Italia della seconda guerra mondiale, che dà voce ad una delle specificità di Pieve, la valorizzazione delle scritture e, nel caso di questo libro, è chiara la scelta di conferire visibilità alla scrittura femminile, appunto alle “parole di donne”. La scrittura autonarrativa (diari, memorie, autobiografie, lettere) è, del resto, un terreno privilegiato dalle donne che per lungo tempo non hanno avuto accesso alle carriera di scrittrici o di giornaliste, cioè alla scrittura pubblica. Le loro scritture nate per lo più tra gli interni domestici - ricorda Patrizia Gabrielli che ha privilegiato in precedenti suoi studi le fonti autonarrative - costituiscono “un patrimonio avvolto in un cono d’ombra, almeno fino a qualche decennio fa, quando la ricerca nel campo storico letterario si è orientata verso il recupero e l’analisi di documenti fino a quel momento esclusi dalla tradizione che hanno trovato un adeguato spazio di accoglienza in specializzati centri di raccolta e conservazione”. Scenari di guerra, parole di donne si basa su una ricerca approfondita e pone i diari di Pieve in rapporto e nel quadro del dibattito storiografico e letterario sulle

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scritture di guerra. Il volume è composto da due parti che si intersecano assai bene fra di loro: un ampio saggio storiografico dell’autrice che definisce “lo stato dell’arte” circa la produzione storiografica sulla guerra e sulla Resistenza. La seconda parte raccoglie una antologia di brani tratti, dai diari dell’Archivio di Pieve (ricerca alla quale hanno messo a disposizione le loro profonde conoscenze dell’Archivio Natalia Cangi, Grazia Cappelletti, Bettina Piccinelli e Loretta Veri). Il saggio, assai equilibrato, si sviluppa intorno ad un dibattito che ha visto negli ultimi anni una ricca partecipazione ed ha richiamato l’attenzione sulla resistenza civile, sulle stragi naziste, sul “vissuto degli italiani”. Al contempo queste pagine offrono un contributo sulla specificità della guerra in Toscana, una regione dove la guerra c’è stata, si è fatta sentire in tutte le sue forme. Una regione che - ha ricordato Enzo Collotti - acquisì un ruolo strategico negli scenari di guerra e, in particolare, nelle operazioni dell’esercito tedesco. Tra i temi richiamati dal volume, la violenza della guerra e - come sottolinea Gabrielli - il suo segno di genere, nel senso che colpisce differentemente gli uomini e le donne. È il caso delle violenze sessuali troppo a lungo taciute, sulle quali, ancora una volta, si sono espresse la letteratura e il cinema prima degli storici: è il caso di Alberto Moravia che nel 1957 pubblicò La ciociara, da cui trasse un bel film Vittorio De Sica con Sophia Loren (1960). Anche in Toscana si sono avuti episodi di violenze e - sottolinea Patrizia Gabrielli - era diffuso un clima di timore e insicurezza. Le donne cercano di nascondersi, di rifugiarsi per sfuggire alle violenze degli eserciti prima occupanti e poi “liberatori”.La guerra totale, che caratterizza la seconda guerra mondiale, si ripercuote in questa regione: i due eserciti che l’attraversano; la linea Gotica; i bombardamenti sulle città e centri abitati; la guerra civile tra fascisti “repubblichini” e partigiani; la Liberazione di alcune città, esemplare il caso di Carrara liberata dalle donne. Da qui la ricchezza della memorialistica e del materiale documentario prodotto nella regione, una produzione che ha conosciuto un decisivo impulso nell’ultimo quindicennio, grazie anche all’impegno della Regione Toscana.In questo contesto un ruolo particolare ha svolto Arezzo, territorio particolarmente martoriato dalle stragi naziste, il quale ha avuto una funzione di “apripista” nella ricerca su questi tragici eventi.

3. Pieve Santo Stefano custodisce centinaia di memorie sull’esperienza della seconda guerra mondiale, voci diverse sulla tragicità di un evento che ha visto svolgimenti ed esiti diversi nelle singole regioni. Nell’estate 2004 a Pieve Santo Stefano, è stata organizzata la mostra Pieve 1944, con una bella documentazione di fotografie scattate da Lidio Livi sessant’anni fa, che ci ha fatto conoscere un aspetto nuovo della politica di occupazione tedesca, non limitata ovviamente al solo centro della Valtiberina. Nei primi giorni di agosto, improvvisamente, giunge l’ordine del comando tedesco (come già ricordava Antonio Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano) “secondo il quale tutta la popolazione, senza distinzione di età e di sesso, doveva abbandonare, in poche ore, tutto il territorio ed essere deportata al nord. […] Alla deportazione della popolazione, seguì la sistematica distruzione delle abitazioni a mezzo di mine e con il fuoco”.Pieve, oltre a dover contare e piangere decine di morti, assiste ad un evento che incide in maniera non secondaria anche sul piano psicologico sulla popolazione costretta con la forza ad abbandonare la propria casa, a sfollare dal paese poi, a distanza di mesi, tornare trovando solo macerie. E’ importante che, a distanza di sessant’anni, proprio a Pieve Santo Stefano, nella località che è divenuto il luogo per eccellenza della memoria, si ricostruiscano, si analizzino gli atteggiamenti dei singoli soggetti prima e dopo la terribile ferita inferta ad un’intera comunità, così come si esamini lo sgomento di una popolazione e la sua reazione al dover ricostruire un intero paese.Anche questo ottimo libro, forse, non risponde all’interrogativo posto come titolo al diario di Omero Gennaioli, Perché la Pieve è stata distrutta? Indubbiamente la posizione geografica e la vicinanza alla Linea Gotica può rappresentare una motivazione, così come è da collocare - come spesso ha richiamato Ivano Tognarini - nella più complessa e articolata dimensione europea della guerra tedesca e il “contributo” che a questo tipo di operazioni ha dato anche l’esercito tedesco, la Wermacht, e non solo alcuni corpi speciali. Le stragi, i paesi minati, quindi, come conseguenza prioritaria dell’ideologia razziale del regime nazista, oltre che come strategia bellica per rallentare da una parte, la marcia dell’esercito angloamericano e, dall’altra, per “fare terra bruciata attorno ai partigiani sterminando la popolazione civile che sosteneva, in maniera più o meno intensa, le bande” dei partigiani. Le memorie familiari avevano custodito ricordi più o meno vividi su quei tristi giorni del ‘44 e li avevano trasmessi da una generazione all’altra, ma con la mostra e con queste pagine quei ricordi rimasti per lo più chiusi tra le pareti domestiche hanno trovato una nuova visibilità, hanno attraversato i territori del privato per fare la loro comparsa nella dimensione pubblica, per divenire un tassello significativo intorno al quale si va costruendo la memoria collettiva.Disporsi all’ascolto delle testimonianze degli abitanti di Pieve aiuta a ricomporre quelle tragiche vicende. Talvolta ci si trova di fronte a vere e proprie istantanee sull’estate del ‘44:

Il 5 agosto del 1944 i tedeschi cominciarono a porta’ via la gente della Pieve, a deportarli su in Romagna, perché dovevono radere al suolo il paese per ragioni tecniche della Linea gotica. Allora ci portaron via e la sede era alle scuole elementari, diciamo il posto base, dove per caricare e porta’ via più di tremila pievani ci volle tanti camion e allora noi si veniva caricati un po’ per giorno, cioè un po’ per notte, perché di giorno non potevon viaggiare che c’era l’areoplani che bombardavano. (Omero Gennaioli)

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Non è diversa da quella di Omero Gennaioli - tra i principali custodi di quell’evento - la testimonianza di Amelia Dalla Ragione. Uguali il ritmo serrato, l’andamento rapido che accompagna la narrazione degli eventi. Ma Amelia apre al lettore uno squarcio sulla declinazione di genere che gli atti di violenza assumono nello spazio della guerra:

Noi quando ci portaron via, la sera, ci caricaron di notte perché di giorno avevon paura degli apparecchi. C’eran tre soldati in gabina e tutto pieno de persone di dietro. La mi’ sorella, che era più piccina di me, aveva nov’anni. Uno de quei tedeschi mi faceva: “Tu venire qua co mea, co mea”. Voleva che andassi in mezzo a loro. Io ero grande, per l’età ch’avevo ero robusta, ero formata. E sicché la mi’ sorella, quando vide che mi voleva porta’ de là, lei montò su e gli pestò le mani. I pestoni che gli diede in quel camion, roba da fasse ammazzare! Eppure non gli fece niente, e a me non mi ci portò di là. (Amelia Dalla Ragione)

Tanta è la paura, l’incertezza attraversa la vita di uomini, donne, bambini costretti a mettersi in salvo mentre le bombe cadono:Allora se stava là a Strazzano e se mangiava come se poteva, da mangiare fori se faceva coi fornelli, eravamo tante famiglie che il posto n’c’era in casa, allora se mangiava fori, ci s’arrangiava come se poteva, io n’me ricordo nemmen che se mangiava. […] Un po’ di provviste s’avevano alla Pieve. Dopo han buttato giù la nostra casa, tutto, e noi siamo rimasti senza niente. Io e la Marietta se veniva giù e cominciò a saltare queste case. Non s’è preso niente. (Leonora Palazzeschi)

La piccola città conosce una trasformazione decisiva che altera il paesaggio architettonico; le esplosioni provocano una vera e propria mutilazione radendo al suolo intere zone:

Quando era verso le cinque o le sei si sentì delle forti esplosioni e se pensava che fossero cannonate e invece se vide un polverone in fondo al paese, se venne fuori, s’uscì dalle scuole elementari. Ci furon due o tre scoppi grossi e allora se vide che erano giù in fondo al paese e cominciava a saltare la Pieve, i tedeschi cominciavano a farla saltare da Via Michelangelo. (Omero Gennaioli)

Dopo i bombardamenti l’immagine della propria città è profondamente alterata, non resta che lo sconforto:Entriamo in Pieve Santo Stefano che ci si presenta in una visione lugubre e spettrale. È tutta un cumulo di macerie. (Michele Pilotti)

Ritengo sia un dovere civile proseguire nel lavoro di ricerca, di studio, di riflessione su quanto è accaduto sessant’anni or sono. E mi sembra si possa dire che oggi ampie aree della Toscana hanno una propria storia, o per lo meno hanno a disposizione molteplici e maggiori elementi per una più approfondita conoscenza della guerra nel territorio.Ora anche Pieve Santo Stefano, grazie al volume Pieve 1944. Il paese cancellato, colma una lacuna della sua storia.

Indicazioni bibliografiche- C. Brezzi, La Resistenza in Toscana, in “Italia contemporanea”, n. 246, marzo 2007.- I. Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1946.- Casa del Vento, Il Comandante Licio, in Sessant’anni di Resistenza, Provincia di Arezzo e Comunità Montana del Casentino, 2004.- A. Curina, Fuochi sui monti dell’Appennino toscano, Arezzo, Tipografia Badiali, 1957.- F. De Gregori, Il cuoco di Salò, in Amore nel pomeriggio, Sony, 2001.- P. Gabrielli, Scenari di guerra, parole di donne. Diari e memorie nell’Italia della seconda guerra mondiale, Bologna, il Mulino 2007.- P. Gabrielli, L. Gigli, Arezzo in guerra. Glia spazi della quotidianità e la dimensione pubblica, Roma, Carocci, Comune di Arezzo, 2006.- O. Orlandi Posti, Roma ‘44. Le lettere dal carcere di via Tasso di un martire delle Fosse Ardeatine, con una introduzione di A. Portelli e una nota editoriale di L. Veri, Roma, Donzelli, 2004. - A. Moravia, La ciociara, Milano, Bompiani, 1957- M. Palla (a cura di), Storia della Resistenza in Toscana, volume primo, Roma, Carocci, Regione Toscana Consiglio Regionale, 2006.- C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991.- P. Scoppola, 25 Aprile. Liberazione, Torino, Einaudi, 1995.- J. Sémelin, Sans armes face à Hitler. La résistance civile in Europe 1939-1943, Paris, Payot, 1989, trad. it. Torino, Sonda 1993.- T. Todorov, Di fronte all’estremo. Quale etica per il secolo dei gulag e dei campi di sterminio, Paris, Seuil, 1991, trad. it. Milano, Garzanti, 1992.- I. Tognarini, Kesserling e le stragi nazifasciste. 1944: estate di sangue in Toscana, Roma, Carocci, Regione Toscana Giunta Regionale, 2002.- F. Turchetti, Arezzo: dalla tragedia della guerra ai giorni nostri, Arezzo, Tipografia Artigiana Giovanni Ezechielli, 2004.

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Vorremmo raccogliere testimonianze, documenti, fotografie, oggetti di quel periodo perché la memoria non venga dispersa.

Il Centro Studi Storici e Ricerche Archeologiche nel 2004 lancia questo appello e lo rivolge alle persone di Pieve Santo Stefano che nel 1944 avevano almeno sei anni, un’età in cui i ricordi sono immagini nitide. Con queste intenzioni, sotto il patrocinio del Comune di Pieve Santo Stefano, nasce il progetto Pieve 1944, la cui spinta essenziale è data dalle celebrazioni per il 60° anniversario della Liberazione in Toscana promosse dal Consiglio Regionale.Il progetto appassiona subito altre due associazioni di Pieve, le Antiche Prigioni e l’Archivio Diaristico Nazionale, e si concentra fin dall’inizio intorno allo straordinario patrimonio dell’Archivio Fotografico Livi, messo a disposizione dagli eredi. Parallelamente inizia il lavoro di raccolta di testimonianze orali e gli abitanti di Pieve sono invitati a prendere parte a incontri collettivi, che vengono registrati e filmati. La prima iniziativa è stata la mostra dal titolo Pieve 1944, tracce della memoria di Pieve Santo Stefano e dei suoi abitanti, allestita nell’agosto e settembre 2004. Il punto di forza della mostra sono le fotografie di Pieve quasi completamente rasa al suolo dalle mine dei tedeschi. Queste eccezionali immagini, molte delle quali inedite, sono state scattate da Lidio Livi al suo rientro in paese dopo aver recuperato la macchina fotografica a lastre che aveva murato al momento dello sfollamento. La mostra si arricchisce dei documenti ritrovati dal Centro Studi nell’Archivio Storico Comunale, di frasi tratte dalle memorie conservate presso l’Archivio Diaristico e di una particolare installazione ideata dalle Antiche Prigioni che ha un grosso impatto emotivo sui visitatori. In una stanza riempita di macerie, alle pareti sono scritti i nomi di tutte le persone morte a Pieve a causa della Seconda guerra mondiale, nomi che i testimoni ci ripetono continuamente durante le interviste, e che vengono scritti e ripetuti all’infinito sulle pareti bianche. Calpestando le macerie il visitatore sente il rumore del Tevere che scorre immutato sulla distruzione del paese. Abbiamo visto molti anziani uscire da quella stanza con gli occhi lucidi. Il lavoro di raccolta di testimonianze prosegue, gli incontri collettivi lasciano spazio a interviste singole. Si alimenta la ricerca di altro materiale dell’Archivio Fotografico Livi che rivela molti tesori e molte sorprese: si cercano tracce del paese com’era ed emergono una serie notevole di altre immagini, sul prima ma anche sul dopo guerra. La seconda mostra viene allestita nell’aprile e maggio 2005, con il titolo Il paese cancellato. Pieve, la memoria, il risveglio. Vuole essere un omaggio a Pieve, un ricordo di come era prima del passaggio della guerra. Grazie all’uso di gigantografie, ricordi scritti, racconti orali in sottofondo, fotografie in sequenza e installazioni, il paese rivive nel suo antico splendore: bei palazzi, vecchie mura, colonnati, antichi torrioni. Poi le mine dei tedeschi radono quasi tutto al suolo e, nella fretta della ricostruzione, viene distrutto qualche altro vessillo del passato. Soprattutto questo aspetto procura un’animata discussione nei visitatori della mostra. L’accostamento violento fra le mura antiche, abbattute negli anni Cinquanta, e i palazzoni moderni che le sostituiscono suscita stupore e perplessità. Se nella prima mostra il sentimento ricorrente è quello del dolore, nella seconda prevale la nostalgia. Volevamo raccogliere il materiale delle due mostre e pubblicare un catalogo che sicuramente avrebbe restituito l’impatto e le suggestioni delle immagini della distruzione di Pieve. Ma riprendendo organicamente le testimonianze è emerso un racconto corale che ha condizionato la struttura del libro. La dimensione visiva e quella orale hanno prodotto una nuova narrazione che non è semplicemente la somma dei due linguaggi e che restituisce con forza diversa gli eventi e le emozioni che li hanno accompagnati. È un libro senza nomi in copertina, per scelta. Il protagonista assoluto è Pieve, il paese cancellato, che rivive attraverso le immagini e i ricordi dei suoi abitanti. Immagini e ricordi che sono stretti da un legame forte, come quello che ogni testimone ha per la sua Pieve. All’interno dei singoli capitoli, abbiamo accostato le fotografie alla narrazione, seguendo più questa suggestione che il rigore della cronologia. Le voci narranti, gli autori di questa storia sono i cittadini di Pieve Santo Stefano, le cui frasi, alcune tratte dalle memorie dell’Archivio diaristico, la maggior parte provenienti dalle interviste orali raccolte nell’ambito del progetto, sono riportate fedelmente con la semplicità e l’immediatezza dell’italiano popolare. Per scelta all’interno del volume parlano solo le parole dei testimoni, che vengono usate anche per la titolazione dei capitoli. Non ci sono interventi esterni, non ci sono note e ci si è limitati a tagliare qualche frase. Il compito più arduo è stato togliere: scegliere tra le fotografie quali inserire e quali scartare, scegliere le frasi tra le tante ore di registrazione accumulate. I capitoli del libro sono spezzoni di storia di Pieve: il ricordo pieno di nostalgia del paese com’era prima della ferita della guerra, popolato da personaggi che sono entrati nel mito della narrazione orale, lascia spazio all’evento tragico dello sfollamento coatto, nell’agosto del 1944. In questo capitolo convulso, dove le voci si intrecciano e si rincorrono, non ci sono fotografie. Tutti sono concentrati a salvare qualcosa della propria roba prima di lasciare il paese, come fece lo stesso Lidio Livi con la sua macchina fotografica. Nel capitolo del ritorno, le immagini hanno invece uno spazio ingombrante, prepotente, e raccontano più delle parole, che servono solo a descrivere il pianto agli occhi, elemento collettivo che ricorre in tutti i racconti. Subito la gente si organizza, si ricompone e si mette a lavorare per ridare un tetto alla propria famiglia, in mezzo alle macerie e ai tanti lutti che continuano a segnare la comunità, a causa delle costruzioni pericolanti e delle mine disseminate

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ovunque dai tedeschi in ritirata.

Avremmo voluto intervistare tutti i testimoni di quegli eventi. Ciò non è stato possibile, ma pensiamo che questa narrazione corale li possa rappresentare tutti. Uno di questi pievani ha seguito tutto il percorso del nostro progetto, dandoci indicazioni e consigli preziosi. È stata una voce critica la sua, a volte fuori dal coro. Lo ricordiamo durante il periodo di apertura della seconda mostra quando, davanti alle immagini del Torrione dei Lamponi o dell’Arco di Porta Fiorentina, scuoteva la testa sconsolato. Alla fine di quella mostra, Omero Gennaioli ha scritto un diario dal titolo Perché la Pieve è stata distrutta?. È l’ultimo scritto che ha depositato in Archivio prima di lasciarci. Da quel documento abbiamo estratto la sua voce critica, per integrarla in una sorta di dialogo immaginario con i suoi concittadini che conclude il nostro libro.

La memoria di Pieve è rimasta per anni sepolta sotto il cumulo delle macerie che ha cancellato anche la sua identità. Nei tre anni del progetto Pieve 1944 abbiamo colto l’urgenza di un recupero collettivo della memoria. Ci piace pensare che il nostro percorso sia un ulteriore passo verso questa riappropiazione.

Pieve Santo Stefano, dicembre 2007

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l ’ a c q u a d e l T e v e r e e r a b u o n a

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I miei ricordi nascono dalla Piazza della Collegiata, piccolo palcoscenico creato dalla mano gigante di uno scenografo che ha allineato le piccole case, incastrandole fra loro per fare corona attorno alla Chiesa e al suo piccolo campanile. Le case erano piccole, povere, ma per dare loro una certa civetteria c’erano tendine bianche alle finestre e qualche vaso di geranio e poi, bastava il piccolo porticato degli Olivoni a dare un certo tono alla Piazza.

Giulia Fabbri

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Il Monte dei Paschi era sopra il colonnato, poi c’era la Egle con i generi alimentari, poi c’erano i Siracusani con il ristorante, bar e albergo.

C’era un negozio di frutta, per modo di dire, vendevano le noccioline e poi col baroccino il giorno passava-no: “Chi vuol le mele cotte? Chi vuol le pere cotte?”. Le cuocevano al forno e poi le mettevano nel baroccino. La Ciocia, si chiamava noi.

Anna Maria Mencherini

Nella Piazza della Collegiata c’era tutto: la farmacia con il signor Eugenio, il barbiere, la merceria con l’An-dreina, il Caffè con l’Ines, la macelleria con la piccola Irene mia compagna d’asilo, il negozio di stoffe dove c’era la Bibi, il Ristorante dove c’era la Edilia dai capelli rossi, il “circolo” dove si riunivano gli uomini a giocare, il Dottor De Luca un magro e distinto signore con baffi e capelli bianchi, il negozio di scarpe della zia Sofia che aspettava il giorno di mercato per vendere qualche scarponcello ai contadini che scendevano a Pieve per vendere o comprare le loro bestie.

Giulia Fabbri

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In quei anni, in particolare, si era acceso, in questo mio paese, una specie di vivace antagonismo di prepo-tente divaricazione ambiziosa, tra il prevalere dei ragazzini, ragazzi e anche adulti (che incitavano dietro le quinte), rivaleggianti del Ponte Nuovo contro quelli della parte così detta alta del paese. Questo antagoni-smo che preoccupava non poco i genitori, aveva come scopo finale una specie di guerriglia che addirittura pretendeva con la prepotenza il prevalere di una fazione sull’altra. Dante Crescioli

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Conservo della Pieve un ricordo gioioso. Il corso affollato di gente; il vocio di tutte quelle persone, l’odore del soffritto che faceva venire fame; lo scampanio della Collegiata a mezzogiorno; il Rucca, con il camice bianco, accanto al suo carretto sul quale spiccavano gli alti coperchi in acciaio o alluminio lucido e i gelati che preparava fra due cialde rettangolari, come piccole scatole che, avendo i lati scoperti mostravano il con-tenuto i cui cristalli brillavano al sole; le donne che prendevano l’acqua con le mezzine, muovendo il lungo braccio della fontana in piazza.

Fabio Guerra

Quella Pieve dai colori stanchi ma caldi delle vecchie case cittadine, le docce spesso versanti l’acqua spor-genti dalle gronde dei tetti, tutti sbalzanti a linee, a piani e altezze diverse, i tre Archi, il colonnato Farmacia Baldassarri, Perugini, Gamberone (negozio di cocci cotti e vecchio Trombone della Banda) il colonnato Olivoni con sotto la Barbieria di Bertino Santi con il suo orologio della Torre Comunale, il Vecchio ma bello Palazzo Comunale, quello Ortolani, del Santini, del Doge nella Piazza Plinio Pellegrini.

Dante Crescioli

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Nelle strade a latere del corso principale era tutto un indaffararsi d’estate a strucchiare il vinco e d’inverno a spaccare la legna e dal Ponte Nuovo, Via Cellina alla Piazza delle Oche era tutto un sommesso vocio delle nostre donne e della vendita con il carretto a triciclo con il gelato del Rucca, alle mele cotte della Delasia, nel trascorrere estivo di quelle gioiose giornate di caluria, che cominciavano con la sveglia dei fischi, o canto, del merlo della De Rosa, accompagnato e seguito dal rumoroso ritmo trionfante del tamburo di Beppetto, e dal battere delle suole di Tonio di Cristo di Pero con il banchetto sulla strada di Via Cellina.

Dante Crescioli

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Al Ponte Nuovo c’era Gildo Senesi che faceva il carrozziere. Da citti ci s’andava sempre a giocare a campana perchè c’era un pochin de lastre. C’era questo distributore con questa cosa. Delle volte la Valentina, la mo-glie del Senesi, non l’aggangiava e allora noi ci se divertiva a vedella dondolare.

Adele Cangi

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Nei secoli scorsi, all’ultimo piano del palazzo esistevano locali adibiti alle prigioni, che allora servivano tem-poraneamente per i reclusi e i locali per il personale. Nei locali sottostanti ancora esiste la sala del Teatro che ora à un’entrata dal vicoletto.Ma chi erano quei ragazzi del vicolo Antiche Prigioni? Eravamo noi, della nostra generazione, che mantenne il nome alla Società dato dai padri: “Carlo Goldoni”. Giovani e giovanissimi desiderosi di fare qualcosa per offrire spettacoli drammatici, e di arte varia, di cui la popolazione era ghiotta.

Onelio Pisani

Capitavano ogni tanto, ma di rado, qualche compagnia teatrale e per arrivare ad esibirsi a Pieve giungevano disperate e affamate, sebbene dei soldi ve ne erano pochi in giro, il teatro Comunale riusciva sempre con il modesto afflusso dei cittadini ad aiutarli. Vi erano inoltre alcuni pseudo artisti dilettanti locali che nel nostro teatro rappresentavano magistralmente meravigliose operette tanto gradite ed incoraggiate.

Dante Crescioli

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Dove adesso ci sono dei fondi c’erano i telai. Fa-cevamo molte coperte, tent’è vero che quando a noi ci rimaneva un etto o due di lana - allora la gente faceva tutti i golfi, tutta la roba, o in casa o a mano o a qualche macchina che c’era - avanzavano sempre una matassa, due matasse, allora ci si fa-ceva fare le coperte con tanti colori. Credo che qui alla Pieve tutti avevano quelle coperte fatte dalla pora Annita e dalla mamma di Savino.

C’era la trattoria del postino. La moglie del po-stino si chiamava Faustina e faceva anche da mangiare il lunedì per la gente che veniva giù alla Pieve. Tant’è vero che noi, che il lunedì non si chiudeva mai, s’andava a prendere i panini con l’affettato dalla Faustina.

Anna Maria Mencherini

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C’era il Caffè subito dopo l’arco sempre pieno di fumo e di uomini che giocavano a biliardo. Il negozio di alimentari dei Cascianini, dove Attilio faceva le Gazzose in certe bottigliette con la pallina, che spinta verso l’interno faceva uscire l’acqua gassata. Il negozio del Pulci con i vecchi scaffali pieni di pezze di cambrì, eta-mina, canapa, pelle d’uovo e seta. La Salumeria del Simiti con la Giulia grassa grassa.

Giulia Fabbri

C’era una bottega che si chiamava le Catola. Vendeva tutti i generi, vendeva la pasta, vendeva lo zucchero, vendeva le sardine sciolte. Ci dava un pezzettino così, con dieci centesimi, ci metteva appena due goccine d’olio e poi ci mandava via.

Adele Cangi

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Mi ricordo che lo zio ci mandava a sciacquare i fiaschi del vino nel Tevere e ci dava un quartino per misurare l’acqua che dovevamo mettere nel fiasco dopo averlo lavato. Sì, annacquava il vino, ma l’acqua del Tevere era buona da bere. Noi ragazzi la bevevamo sempre.

Damiano Mazzoli

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NON ESISTE TRA LE IMMAGINI SCANNERATE ALSABAPRIMA LOCANDINA PAESE CANCELLATO

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NON ESISTE TRA LE IMMAGINI SCANNERATE ALSABAPRIMA LOCANDINA PAESE CANCELLATO

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c ’ è i t e d e s c h i a l l a p o r t a

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Noi ragazzi da qualche tempo avevamo interrotto i nostri giochi osservando i grandi commettere violenze di ogni tipo, ciò può avere inciso nei nostri comportamenti. Io e Beppe a birbonate non si fu secondi a nessuno nella zona.

Luigi Camaiti

A scuola ci dicevon: “Tutto bene” perché lì era il fascio, sicché andava sempre bene. Anche durante la guerra, andava tutto bene.

Livio Moraldi

Vedevo i mi’ genitori preoccupati e queste cose me son rimaste, perché ero piccolino, avevo ott’anni, ott’an-ni e mezzo. Li vedevo preoccupati perché c’era la borsa nera, il mangiare non se trovava. Addirittura il mi’ babbo aveva nascosto ‘na damigiana piena di grano in una concimaia, per poterla ritrovare se c’era bisogno.

Alberto Gennaioli

Paura s’era sempre avuta dei tedeschi, ma io c’ho vissuto che c’era il comando a Cerbaiolo, quando s’era sfollati. Quelli che erono lì, erono delle degne persone. A parte che era la Wehrmacht e non erono le SS. Io me ricordo che è venuto un tedesco in casa con una scatoletta di carne e, per piacere, se gli se cambiava con un ovo. C’era dei tedeschi che venivono, volevon l’ova e via, invece questo è venuto con la scatoletta. Quello lì era una persona per bene.

Livio Moraldi

Ogni granata che fischiava stesi per terra nei campi, fra i roghi, una cosa pazzesca. Scalzi, perché non aveva-mo più le scarpe, arrivammo finalmente a Caprese Michelangelo. Eravamo affamati, la mia mamma travesti-ta da vecchia, il mio babbo che faceva finta di essere zoppo perché sennò lo portavano via.

Grazia Cappelletti

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Le cannonate fischiavano rapide e fitte sopra di noi, si stringeva le spalle dicendo: questa è passata! Anche questa è passata!… ma da una e l’altra non rompevano fila. Oddio! che paura!

Umberto Santucci

Il mi’ babbo lo presero e lo volevono amazzare. Sempre con la pistola alla testa e lo accompagnarono nella cantina, si fecero dare il vino, poi si fecero dare il prosciutto e glielo facevano mettere tutto dentro un sacco. E gli dicevano: “Tu porterai a grande strada”. La mattina s’era fatto il pane - allora il pane si faceva in casa per tutta la settimana - videro questo pane così bello fresco, cosa fecero? Presero tutto il pane che s’era fatto, lo fecero mettere su una sacca e anche quello alla strada. Poi quando ebbero raccolto tutto quello che gli pareva, presero questi sacchi, molti che riusciva il mi’ babbo a portarli, glieli misero sulle spalle e lo fecero venire alla nazionale. Ormai noi si pensava: “Il babbo muore, ce l’ammazzano”. E invece fortunatamente, dopo diverse ore, si vede il babbo che ritorna dal fondo della strada, piano piano però, porino, stanco e anche stremato dalla tensione. Dopo tanto dolore s’ebbe anche un po’ di gioia nel vedere tornare il babbo, però s’era rimasti senza niente.

Elena Gori

Ci presero e ci portarono giù in cucina. Ma uno di questi aveva preso d’occhio la Elsa, quindi avevamo paura. Quando fummo giù in cucina, che c’era la scala di legno, cominciarono a sparare come matti. Me lo ricordo: uno alto, moro, con i capelli tutti lisci, sopra la madia tagliava il lardo, un altro beveva sempre dal fiasco di paglia. Tra i tre o quattro che erano ubriachi fradici, uno non lo era. Ed era un tipo piuttosto grassottello, alto, con una faccia rubiconda e due occhi azzurri, il quale se ne accorse di quello che stava suc-cedendo, perché quelli ci avrebbero assaliti tutti. Quelli non guardavano più nessuno, né vecchi, né giovani. Ci aprì lo spiraglio dell’uscio e ci fece scappare.

Grazia Cappelletti

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Erono ‘na ventina di tedeschi. Rimasi sorpreso, sembrava che se dovesson fermare, poi fecero cenno d’anda’ via d’avanti. Fatto altri cinquecento metri, seicento, lasciato la strada statale per anda’ giù verso l’Ancione si sentì sparare. Dopo si seppe che i primi due a esse’ morti erano di Caprese, certi Romolini.

Pietro Gennaioli

A noi la casa ce la bruciarono. Quindici giorni c’è stato il foco, aveva colato perfino i vetri delle damigiane dal foco che c’era stato. E noi s’era lì alla chiesa della Madonna dei Lumi e se vedeva. Dopo venne le cannonate quando s’era lì. La mi’ mamma era a Belmonte che faceva il pane. La mi’ cugina era poco più in là di me, venne ‘na cannonata proprio nel pozzo e la prese.

Laudomia Mormii

Quel giorno hanno ammazzato quattro persone insieme al mi’ fratello. Andavano su per questi poggi de Conchi. C’era un babbo, una mamma e il mi’ fratello. Erano insieme, l’hanno fucilati tutti tre. Più c’era un figliolo di questi due genitori, indietro. Lui ha sentito che hanno sparato, è andato avanti per vedere cosa era successo e hanno ammazzato anche lui.

Renata Lanzi

Due donne s’eran nascoste in un campo di grano, tant’è vero che un tedesco l’ha vedute che s’eran nascoste là. Questo Veri le salvò, perchè quel tedesco che aveva scoperto quelle du’ donne che s’eran nascoste in quel grano per non se fa’ vedere, lui, questo Veri, c’aveva un’arma, ‘na pistolona lunga così, la teneva sempre na-scosta. Questo tedesco andò verso quelle donne, lui prese la su’ pistola, du botte e l’amazzò e salvò tutte due queste donne. E il giorno dopo hanno amazzato lui.

Vittorio Rigoni

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I Tedeschi non scherzavano, e una bella mattina fecero razzia nel Paese prendendo tutti a lavorare: Banchie-ri, Farmacista, Dottori, l’impiegato di Posta, gli anziani pensionati senza discussione. Tutti raus arbaite.

Umberto Santucci

Quelli delle SS ci portarono dal Mercatelli, però nei refugi ci s’aveva poco e niente. Divisero le donne da sé, le giovani da sé e l’omini da sé. L’omini gli facevon fa’ le buche della grandezza di una persona, le donne, come la mi’ mamma e la mi’ zia, le portarono a lavare i panni e a noi ci lasciarono in questa casa.

Laudomia Mormii

Il mi’ suocero vide arrivare ‘sta figliola involtata in una coperta, era nuda cruda, era coperta de lividi da fa’ paura. Allora il mi’ suocero la prende e la porta giù, ché i suoi erano in un fosso che c’era un rifugio. La porta giù dalla su’ mamma e la su’ mamma quando la vede arrivare disse: “A me me portino ‘ndo gli pare, io vado a casa. Non ci posso sta’ più quaggiù con una figliolina in quelle condizioni”. Aveva sedici, diciassette anni. Infatti la porta su a casa e c’erano i tedeschi alla Greppa. E allora questo tedesco quando l’ha vista - c’era uno che faceva il dottore - l’ha messa a letto. Quello che non gli ha fatto questo tedesco a questa citta! L’ha curata. Quello è stato bravo.

Irene Gennaioli

C’era ‘na tavolata tutta de tedeschi ‘briaca e allora io avevo detto che stavo male. Allora lui ha detto: “Ora lei la visita il dottore”. La mi’ mamma ha detto: “No, la mi’ figliola no!”. Se n’è alzato uno, gli ha dato un pugno sul naso. Il sangue gli spriciolava da tutte le parti, non s’aveva niente per asciugalla. C’han portato su in questa stanza ultima, c’hanno messo tutti ai muri, c’han portato via tutto quello che s’aveva, ma tutto: valigie, tutto. C’han lasciato solo coi panni che s’aveva adosso.

Laudomia Mormii

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Il 9 giugno del 1944 si scappò tutti dalla Todt perché sembrava che fosse vicino il fronte e perché s’aveva paura che ci portassero in Germania. Sicché si scappò quel 9 giugno, me ne ricordo, che ci si ritrovò tutti... cioè tutti, quelli della Pieve, su a quel podere che c’avevo io alla Villa di Pietra Nera e si dormiva nel capanno, dalle pecore.

Dino Marri

La scuola fu messa all’Asilo infantile e s’andiede lì. Io non finii perchè la maestra ci diede la tessera del fascio e io gliela presi, andai al bagno e la strappai. Allora me mandò dietro i citti per pigliamme e io dalla porticina dell’Asilo traversai la curva del Nanni, ma era gennaio e dopo stetti a letto con la polmonite un mese. Dopo m’espulsero per du’ anni dalle scuole del Regno. Allora, a primavera la pora Daria Giannini me trovò sotto l’arco e me diede la pagella con tutti zeri. E lei me disse. “Gino, tu n’se’ passato”. E io, - sa’, a quell’età - gli dissi: “Io n’so’ passato, ma gl’inglesi a Roma son passati”. In casa mia se sentiva Radio Londra.

Gino Pellegrini

Venendo dal Ponte Nuovo le prime porte eron quelle. Il mi’ babbo che sapeva il tedesco - era verso le quattro e mezzo, le cinque, al mattino - disse: “Figlioli, cercate d’alzarvi perchè c’è i tedeschi alla porta che bussono”. Per non falla butta’ giù - che poi dopo ns’è manco più rivista la casa noi - il mi’ babbo scese giù e gli dissero che volevono dormire e mangiare. Il mi’ babbo ci fece alzare a me e alla mi’ pora sorella, al mi’ Nino e Bep-pe. Quando se fece giorno la mi’ mamma c’accompagnò a Fognano, ci mandò via, perchè loro occuparono la casa.

Adele Cangi

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Messi tutti in fila ci hanno contati (guai se uno avesse fatto la mossa per scappare!). Erano così severi da non scherzare. Da qui inizia il tragico destino con destinazione ignota.

Umberto Santucci

Il 5 agosto del 1944 i tedeschi cominciarono a porta’ via la gente della Pieve, a deportarli su in Romagna, perché dovevono radere al suolo il paese per ragioni tecniche della Linea gotica. Allora ci portaron via e la sede era alle scuole elementari, diciamo il posto base, dove per caricare e porta’ via più di tremila pievani ci volle tanti camion e allora noi si veniva caricati un po’ per giorno, cioè un po’ per notte, perché di giorno non potevon viaggiare che c’era l’areoplani che bombardavano.

Omero Gennaioli

Cosi i Tedeschi, ripreser posto nella Gotica linia, in poco tempo. A noi, nel giorno tredici d’Agosto,

ordinato ci fu lo sfollamento. Voleo ridisertare a dogni costo,

poi ché mio padre, non era contento? Alle parole sue diedi valore,

sperando di imboccar la via migliore.Remo Rosati

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Noi quando ci portaron via, la sera, ci caricaron di notte perché di giorno avevon paura degli apparecchi. C’eran tre soldati in gabina e tutto pieno de persone di dietro. La mi’ sorella, che era più piccina di me, ave-va nov’anni. Uno de quei tedeschi mi faceva: “Tu venire qua co mea, co mea”. Voleva che andassi in mezzo a loro. Io ero grande, per l’età ch’avevo ero robusta, ero formata. E sicché la mi’ sorella, quando vide che mi voleva porta’ de là, lei montò su e gli pestò le mani. I pestoni che gli diede in quel camion, roba da fasse ammazzare! Eppure non gli fece niente, e a me non mi ci portò di là.

Amelia Dalla Ragione

Quando era verso le cinque o le sei si sentì delle forti esplosioni e se pensava che fossero cannonate e in-vece se vide un polverone in fondo al paese, se venne fuori, s’uscì dalle scuole elementari. Ci furon due o tre scoppi grossi e allora se vide che erano giù in fondo al paese e cominciava a saltare la Pieve, i tedeschi cominciavano a farla saltare da Via Michelangelo.

Omero Gennaioli

Dalla Gaburra s’andò via perché c’era il comando dei tedeschi, s’andò alla Casella che c’era i mi’ pori nonni. Dalla Casella passarono, ci presero tutti e ci portarono a Montalone. Se dormì lungo la strada. Me ricordo se sentiva le cannonate ci passavon sopra e scoppiavano n’so dove. La mattina ci ripresero, tutti in processione, e ci portarono alle scuole qui alla Pieve. Alle scuole ci se stette fino alla sera. La sera ci caricarono nei camion e ci portarono a San Piero. Poi da San Piero su su, con i carri con le bestie. Eravamo quattro figlioli, il mi’ babbo, la mi’ mamma, io ero il più grande sicché erano tutti più piccini di me. O coi cavalli o coi bovi, insom-ma insomma s’andette a finire a Canneto sull’Oglio, in provincia di Mantova, e ci siamo stati dieci mesi.

Gino Fontana

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La massa di gente nelle scuole si era ridotta a qualche centinaio e mio padre sempre sperando in qualcosa andava dal piazzale alla finestra dicendo: chissà le cannonate potrebbero colpire un ponte, oppure non ci po-trebbero avere più camion? Andò a finire proprio così, che per le ultime circa cento persone non arrivarono i camion alle ore dieci di sera, no alle undici, no a mezzanotte. Quando vennero sù nelle aule due tedeschi, che dicono di scendere tutti nel piazzale (G.Marconi) c’erano famiglie con i bambini, anziani e gente con balle, sacchi, zaini e valigie piene di roba. I militari stedescavano tra se, poi andarono con degli uomini al vicino magazzino della Cooperativa Operaia e presero diverse cariole, dieci o dodici per caricarci la roba di quella gente meno rimbambita di noi, mio padre, mia sorella e io solo la giacca con un pane e pantaloni corti. Si udì una voce; via! Partire.

Omero Gennaioli

Noi siamo venuti alle scuole, però non c’era i camion, ci hanno rimandato a casa. Siamo ritornati lassù, semo tornati nei refugi.

Laudomia Mormii

Gli ultimi tempi s’era andati nascosti nel Fosso de Belmonte, chiamata la buca della morte. Ci sarebbe stato, ma circa trecento persone nascoste lì, e sicché se veniva qualche volta, ma de rado. I tedeschi non ci vede-von lì. Ma la mi’ mamma con quei de Strazzanella andarono su a mette’ fori la roba de casa ché dicevon che bruciavon le case e invece, erono in diciassette, le presero e le portaron via.

Stefano Graziotti

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Io so’ stato sfollato a Strazzano. A Strazzano siamo stati lì e un giorno venne una voce che bruciavano questa casa. Alora il mi’ babbo sotterrò della roba e noi se prese e s’andette a fare - alora c’era la foglia delle pecore - con la foglia delle pecore fece una baracca nel Fosso de Belmonte. Dal Fosso de Belmonte dissero che ora bruciavano Strazzano - S’artornò là per arpiglia’ quella roba e portarono via il mi’ babbo, la mi’ mamma e il mi’ fratello e io rimasi con la mi’ sorella sordomuta. Da quel Fosso de Belmonte, io ero un cittotto, se venne al Falcone.

Col mi’ zi’ Mario se prese con un baroccino e s’andette alla Madonnuccia. Il mi’ zi’ Mario me mise a tracolla - il mi’ babbo c’aveva un prosciutto - e il mi’ zio me mise questo prosciutto alle spalle che poi quando s’aviò c’era ‘na scheggia dentro. E alla Madonnuccia dopo s’andette da Ido, che prese la mina quella mula, quella mula ch’avevo. Il Burligi era de dietro e scoppiò questa mina e il Burligi, tutto sporco d’ogni ben d’Iddio, però se salvò, e quella testa de quella mula ci venne a casca’ vicino a me e alla mi’ sorella.

Alberto Gennaioli

La fame tantissima perché da mangiare non c’era proprio. Ci s’arrangiava un pochino. Noi me ricordo che s’aveva una capra che la mi’ mamma s’era portata dietro perché c’avevo anche un fratellino piccino de pochi mesi, sicché quello prendeva solamente il latte, che poi morì, dopo tornati a casa de poco, perché era denu-trito. Non poteva vivere solamente con quel latte de quella capra

Renata Lanzi

Cominciarono a devastare il paese e incendiare anche le case di campagna così ci si dovette spostarsi nascon-dendoci in gran fosso eravamo circa 60 persone era un brutto stare.

Giuseppe Fiori

Se veniva su in vetta alla Pieve e se vedeva qualche cosa. Ho visto saltare il Ponte Nuovo, ho visto quando passò quell’apparecchio che cascò la bomba anche nel cimitero.

Stefano Graziotti

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Allora se stava là a Strazzano e se mangiava come se poteva, da mangiare fori se faceva coi fornelli, eravamo tante famiglie che il posto n’c’era in casa, allora se mangiava fori, ci s’arrangiava come se poteva, io n’me ricordo nemmen che se mangiava. Allora se veniva alla Pieve a prender qualcosa da mangiare, ci s’aveva un po’ di fornimento alla Pieve, allora ci presero, cominciò a cascar le case... s’era andati in casa, se trovò i tedeschi con un bastone, quello che s’aveva in mano ci rompero ‘gni cosa e noi via, se cercò d’anda’ su verso Strazzano e quando siamo stati su venivon le steggie vicino a noi, noi ci siamo buttati giù in un fosso, s’è aspettato un’oretta, quando era calmo, siamo scappati via a Strazzano. Un po’ di provviste s’avevano alla Pieve. Dopo han buttato giù la nostra casa, tutto, e noi siamo rimasti senza niente. Io e la Marietta se veniva giù e cominciò a saltare queste case. Non s’è preso niente.

Leonora Palazzeschi

Qualche volta se scese anche dentro la Pieve, e vedere come avevon messe queste bombe. Eron tre pel cor-ridoio su nelle case e le facevon saltare... eron bombe d’apparecchio che dopo gli mettevon la spoletta e le facevon saltare.

Stefano Graziotti

Per diversi giorni continuarono a fare saltare le nostre case in aria. Dopo lo scoppio si vedeva alzarsi in cielo delle enormi colonne di fumo e si sentivano i detriti ricadere per alcuni secondi. Era uno spettacolo deva-stante.

Franca Franceschetti

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c o l p i a n t o a g l i o c c h i

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Non c’era niente, luce, negozi, scuole e botteghe. Solo la Collegiata l’avevano lasciata in piedi. Una desola-zione, barche di macerie, fili della luce e travi cadute per tutti i versi, muraglie pericolanti, vie e cantoni non esistevano, perché intasati dal materiale: non credo di essere capace di descrivere il tritio.

Omero Gennaioli

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Sono tornato, dunque, al mio paese - se così poteva ormai chiamarsi quell’ammasso di “cocci rotti”, intram-mezzato da qualche fortunato rimasuglio semisgangherato -, ed ho cercato tante cose fra quelle macerie: le persone care, la mia casa, le reliquie della mia infanzia e, naturalmente, fra queste, anche la mia scuola .

Terzilio Maidecchi

La tristezza nel vedere il paese in condizioni che... era impossibile chi è che non l’ha vissuto, chi non ha avuto la possibilità di vederlo, era impossibile oggi crederci.

Dino Marri

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Entriamo in Pieve Santo Stefano che ci si presenta in una visione lugubre e spettrale. È tutta un cumulo di macerie. Solo alcuni edifici il palazzo municipale, la chiesa ed alcune case della periferia sono state rispar-miate.

Michele Pilotti

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Che lavoro quelle macerie alte! Noi s’era piccini, giù, bassi bassi, e quelle macerie lassù. Amelia Dalla Ragione

Arrivati alla piazza mi ricordo che facemmo come se avessimo scavalcato una montagna e poi piano piano passammo l’arco. L’arco ci indicava la strada dove dovevamo andare.

Grazia Cappelletti

Quando si fu davanti alla nostra casa - dov’era, perché nc’era più - la mi’ sorella si mise a piangere. Adele Cangi

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Quando di casa mia giunsi all’ingressoqualsiasi potea entrar senza permesso.

Con rabbia maledii quelle persone, che fecion tutto ciò senza diritto

Smantellando, impiantiti ed affissione, che dalle stalle si vedea il soffitto.

Remo Rosati

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Per venire in piazza si scendeva giù sul fiume, poi si risaliva, sempre sulle macerie e poi in piazza, sopra le macerie alte.

Anna Maria Mencherini

Dietro sentii la voce di un vecchietto che mi toccò la spalla e io mi vergognai, svelto ad asciugarmi gli occhi. “Piangi, piangi pure. Io gli occhi li ho belle asciutti, che ho belle finito le lacrime”.

Onelio Pisani

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Tutti i giorni rientrava la gente, ma la gente rientravono col pianto agli occhi. Piangevano tutti che non c’era un bucarino de ricoverasse in nessun posto, era tutto disastrato. Ma poi bisognava stare attenti perché c’era le mine allora non splose.

Vittorio Rigoni

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m e t t e n d o i s a s s i d a u n a p a r t e

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Gli abitanti di Pieve Santo Stefano, avevano perso tutto, case, averi e in molte case, c’erano dolorosi lutti. Ora dovevano ricominciare da zero, cercando di riprendere la loro attività. Prima di tutto, bisognava sgom-berare le macerie e cercare di rifare un tetto.

Plinio Simoncelli

Si scavava mettendo i sassi da una parte, mentre calcinaccio e detriti anche di stemmi si caricavano in un barroccio del cassettone e poi uno alle stanghe e due ai lati per spingere giù al giardino del Pontenuovo a rovesciare nel Tevere. Si proseguiva verso le macerie della torre.Vennero il Savelli, il Mimi, Dantino e Albo, quattro uomini coraggiosi (matti) dal Comune e lo spinsero a rotolo in San Girolamo Battistero della Col-legiata. Non c’erano altri posti, perché ogni piccolo spazio nelle macerie dove non ci pioveva, la gente ci arrangiava casa.

Omero Gennaioli

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Io avevo il cuore secco, avevo visto tutto disastrato così, e dicevo dentro di me: “Io so’ giovane ancora”. Io sapevo murare, io facevo il muratore, ho sempre fatto il muratore, fino da ott’anni cominciai a lavorare.

I primi che poi cominciarono a ricostruire vagliavano questi calcinacci ch’era cascato dalle case e muravon con quelli lì, ma era come mura’ con la motta.

Vittorio Rigoni

Con Egidio s’era sempre insieme. Quando si è recuperato tutti quei libri che li buttavano nel Tevere! Venne l’Arciprete, disse - pioveva -: “Guarda là, è un peccato veder buttare via tutti quei libri”. Li mettevano nelle carrette e poi li buttavano nel Tevere, c’era la piena. Bisognava che sgombrassero le macerie, sopra le mace-rie c’era anche tutti quei libri. Buttavan via ogni cosa. Noi dopo s’andò lì, quelli che si riuscì a recuperare si portarono in casa canonica.

Anna Maria Mencherini

Noi ns’è ritrovata la roba, l’han presa. La mi’ mamma c’aveva la macchina da cucire, faceva la sarta. Tanta roba, coi bauli, l’avevamo seppellitta a Fontandrone. Ci s’aveva un contadino che s’era amici, ci facevano i viaggi su col carretto. Ns’è ritrovato niente.

Amelia Dalla Ragione

Piano piano cominciarono a ricostruire, magari ricostruivono male perchè non c’era materiali, non c’era niente. Sassi ce n’era tanti, che da tutte le parti avevon rubato tra quello e quell’altro. Gridavono perché “M’hai preso i mi’ sassi”, quell’altro gridava “Tu m’ha’ preso i mi’ sassi”. Gridavon tra di loro perchè gl’avevo-no preso i sassi ch’eron la su’ casa.

Vittorio Rigoni

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La gioia del mio babbo che ritrovò la sua bicicletta. “Questa bicicletta - disse - questo è l’unico mezzo. Meno male che abbiamo questa bicicletta perché io con questa potrò andare a cercare un po’ da mangiare”. C’era tanto nelle campagne, c’erano frutti, patate a non finire, però c’era un pericolo gravissimo ché i campi erano tutti minati. La gioia grande di aver trovato questa vecchia bicicletta che ancora conservo. Con questa bici-cletta lui andò nei campi, prese le patate, le metteva sul manubrio e contento, entusiasta che ci aveva trovato da mangiare, ce lo portava a casa.

Grazia Cappelletti

Noi trovammo la casa giù, però in un muro maestro il mio babbo ci aveva infilato la roba, che loro facevano i commercianti ambulanti. Il mio babbo era un muratore.

Franca Franceschetti

Noi s’arrivò in tempo. Da Anghiari, dice “Andiamo a vede’ la nostra roba”, però era la strada minata, me ricordo che il tu’ babbo andava avanti: “Mettete i piedi dove li metto io”, e allora se metteva i piedi dove li metteva lui. S’arrivò alla Pieve, la casa era cascata e il rifugio era già aperto, se trovò la gente già che saccheg-giava. S’arrivò in tempo. Se se veniva il giorno dopo n’se trovava più niente.

Leonora Palazzeschi

Quando siamo tornati, io, i miei fratelli, il mio babbo e la mia mamma... s’era creato un rifugio dove ci s’era messo tutte quelle cose che potevano servire e che era impossibile portarle dietro, ma quando siamo tornati era stato aperto. Sicché non c’era più niente.

Dino Marri

Le prime persone che erano rientrate avevano fatto man bassa, impossessandosi di tutto. Infatti, mio padre vide indossato da un amico il suo vestito migliore che aveva lasciato nel rifugio e dovette pagare 500 lire per riaverlo, prezzo che mio padre aveva pagato acquistandolo da un altro. Era tutto un mercato nero.

Maria Guerrini

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Il mi’ Romano prese la mina il 29 agosto. Il 30 se mise lì in quel campo sportivo del prete, che c’era l’orto de Zucchino. Dopo la Triannina portò la mi’ mamma a fa’ due passi. Io e il mi’ babbo s’era dietro, quando si fu all’altezza lì, dove parte il pullman, la vidi salta’ su pe’ l’aria così, una quindicina di metri. Proprio davanti a me e al mi’ babbo.

Gino Pellegrini

Era rimasto il palazzo dell’orologio, che caricato con una potente dose di esplosivo a orologeria, come la Villa di Dagnano dove c’era il comando generale saltarono in aria dopo otto, nove giorni.

Omero Gennaioli

Ci davano una stanza ogni famiglia nel Palazzo Comunale. Senonché quando si usciva di chiesa ci dovevano dare questa assegnazione. Quando s’era in chiesa già si sentì il botto: “Ma cos’è successo? Cos’è successo?”. Si venne quassù e non c’era niente. Lì sotto c’era le poste e c’era uno stanzino dietro, dove mettevano i pacchi che dovevano partire, che arrivavano eccetera. Avevan caricato quello stanzino di bombe a tempo, nessuno se n’era accorto e dopo una diecina di giorni che già i tedeschi erano andati via, è saltato tutto. S’era tutti alla messa, per fortuna.

Anna Maria Mencherini

Il Comune s’è visto bene che è andato a orologio, dopo qualche giorno qualche giorno ch’era saltato quell’al-tri. Noi s’era all’Acquaiola, che poi dopo s’aveva paura, dato che quella casa era in piedi. Dice: “C’è caso che sia a orologio anche la nostra”. Sicché se stava sempre con quel socché che saltasse anche quella.

Laudomia Mormii

Ci han dato in piazza, l’Amelia, la mamma della Miranda, un piatto de zuppetta. Figurati: vedere la zuppetta a noi ci sembrava de rivedere l’angelo custode!

Adele Cangi

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C’era rimasta la torre su, mezza rotta. Il Ponte Vecchio non c’era più, era caduto, ci avevano messo due fili di telefe-rica, c’avevano messo le tavole. Era un ponte che ballava per passare.

Vittorio Rigoni

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Siamo venuti su per il paese e lei ha messo le mani nei capelli: “Oddio, la Pieve! Oddio la nostra casa che nc’è più”. Lei quando è stata davanti alla casa... però prima siamo arrivati in Comune, quando siamo state lì s’è trovato uno che c’ha detto: “C’è il posto in Comune”. Noi la casa ns’aveva, ns’aveva niente, s’era anche scalzi e gnudi. Allora lì in Comune, chi piangeva la roba, chi piangeva quell’altre cose, non ci se poteva stare. Allora ha detto la mi’ sorella: “Andiamo a vedere che lì ci devo ave’ le lettere del mi’ marito”. E infatti se son trovate ‘ste lettere e se son lette. Nel frattempo è passato questo apparecchio, questo spostamento... s’era tutti tre, il mi’ fratello intorno al muro che avevan levato i sassi per aprire la strada, c’era un viottolino per passare. E io e lei s’era lì che se leggeva queste lettere del marito. In questo frattempo... lei l’ha presa proprio in pieno così, a me mi strisciò e basta.

Adele Cangi

Se andò a vedere cosa succedeva. Questi du’ travi eron cascati giù e c’era questa donna rannicchiata sotto, con le gambe... la rivedo ancora. Nino, il fratello, che se tirava i capelli “Oddio, oddio, oddio!”. Io e Pasquali-no Pellegrini si provò a alzare quei du’ travi, poi venne altre persone. Quando se riuscì a levare quei du’ travi, insomma a sollevarli un po’ e tirarla fuori, la testa era completamente schiacciata.

Pietro Gennaioli

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Trovai la sala del teatro, dormitorio pubblico. Non sapeva dove andare la gente. Aprirono le porte e quelli che non avevano casa si adattarono a dormire dentro la sala. Il nostro teatro ha fatto anche da dormitorio per gli sfortunati.

Onelio Pisani

Se venne nel Teatro Comunale circa un mese finché non avessero liberato le baracche di legno. Avevamo fatto un piccolo recinto nel Teatro Comunale, s’era una diecina di famiglie, un recinto un pochino per uno, c’era letto, cucina, fornellino de quelli da poter scaldare qualche cosa, c’era una stufa a legna. Infatti era tutto affumicato il teatro e dopo aiutai a rimbiancarlo anch’io.

Stefano Graziotti

La cucina economica l’avevano messa lì in mezzo al teatro e lì, in cento cristiani se doveva cucina’ tutti, sic-ché: chi gridava da una parte, chi da quel’altra.

Adele Cangi

Un fascista lo volevono picchiare subito dopo passata la guerra perché quello era veramente manifestato fascista prima. Se lo prendevano quel giorno l’avrebbon trinciato. E allora la mi’ mamma, anche se non la pensava uguale ai fascisti - ma lei è sempre stata de perdonare la gente - l’ha nascosto in camera sotto il letto. C’è stato tante ore nascosto.

Renata Lanzi

In piazza trovò Egidio Capaccini, che quello è stato il grand’omo per la Pieve! Egidio gli disse: “Maria, ch’ha fatto? Sta peggio l’Adele?”. “Oh! Egidio, male come ieri sera – perchè veniva a trovamme Egidio - però ci vorrebbe ‘na bicicletta che il mi’ Nino va a cercargli le medicine in qua e in là”. “Maria, andate all’Asilo che ve la porto io la bicicletta”. Andette alla segheria, prese la bicicletta e la portò all’Asilo.

Adele Cangi

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La sera del 31 dicembre noi eravamo qui alla Pieve. Usciva la messa dalla Collegiata. Poi siamo ripartiti da lì, a piedi a piedi, col nostro bagaglio siamo arrivati a Fratelle. S’arrivò lassù ch’era un sereno, certe belle stelle!

Elia Mambelli

Han durato tre o quattr’anni a sminarle queste zone. Della Pieve è morto più di quaranta persone delle mine, poi n’è morti non solo quelli della Pieve, ma sono morti anche l’altri, sono morti militari, sono morti gente di Romagna che venivano a Pieve, è morto ‘na ragazza di Firenze che veniva a trovare i parenti a Bulciano e poi prese una mina al Fossetto Nero, è morto un veterinario con la motocicletta, son morti giovanotti del Borgo, insomma sarà morto cento persone delle mine nella nostra zona.

Omero Gennaioli

I tempi non erano molto belli, lo spettro della guerra era in ogni dove. Di quando in quando arrivava notizia che il Tizio o il Caio era morto pestando una mina. Purché piccola quando camminavo nel bosco pensavo a quei mostruosi ordigni che si nascondevano sotto terra.

Pina Cangi

Egidio aveva visto che io avevo patito tanto e gli piaceva de rifare il teatro, e allora m’è stato tanto dietro perchè nei primi tempi gli dicevo: “No, no, io n’vengo, n’vengo, n’vengo”. Invece m’ha spunzicchiato che m’ha fatto distrarre de tutto quello che avevo passato, del dispiacere... perché in fine e in fondo la mi’ sorella era morta de novembre e noi s’è fatto... de gennaio me pare se fosse pronti.

Adele Cangi

Non solo la miseria, ma anche i morti. Con le mine n’è morti ‘na quarantina, un’altra quarantina sono stati assassinati dai tedeschi, perchè dove li trovavano l’ammazzavano, e poi una quindicina o venti sono morti dalle granate o dalle cannonate. Insomma, ci hanno dato una croce al merito, ma le croci 158 nel cimitero me sembrono abbastanza, ce la potevon dare ‘na medaglia d’oro che sarebbe stato meglio per il paese.

Omero Gennaioli

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e r a l a m o d a d e l c e m e n t o a r m a t o

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Queste costruzioni che contrastano col vecchio,Erano più i giovani, i ragazzi voglio dire, erano più soddisfatti e contenti perché voleva-no lasciare il vecchio.

Grazia Cappelletti fatte così anche senz a g ronda.

Deo gratia costruire come andava andava. Anna Maria Mencherini

Già nel 1948 erano state costruite tante case popolar i , M’hanno assegnato ‘na casa popolare, a tutta la mi’ famiglia. Mi ricordo che era l’inizio dell’autunno, perché era freddo, nc’era nemmeno i vetri, non c’era niente, che ce li portò questi vetri Ettore Camaiti. Ce li trovò du’ vetri. Altrimenti s’era trovato fra le macerie un po’ de cenci, se mettevono lì per tappare un pochino perché cominciava a venire un po’ de freddo.

Adele Cangi nel 1949-50 le case Fanfani ,

I miei genitori, e la famiglia di mio marito, abitavano nelle case ancora pericolanti, poi nelle Baracche. Ma incominciava a vedersi qualche costruzione di case, poi le case Fan-fani che attendevano con ansia.

Rina Cestelli poi le case Unra;

C’assegnarono le case Unra del ’50. Ci assegnarono in Comune, a noi ci assegnarono quella casa indove se sta. C’han dato la chiave. Se fece lo sgombero proprio il giorno avanti Natale del ’49. Del ’50 ci sono venuti a sta’ tutti. C’era una signorina che era diret-trice che ci guardava, come se doveva tenere il villaggio messo bene. Doveva esse’ tenuto sempre bene, dopo se mise tutte le siepi intorno. C’erono delle regole da rispettare. Col baroccio se portò via quella pochin de roba che s’aveva. S’aveva un letto... poco e niente, ché avevon distrutto tutto!

Stefano Graziotti

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niente pietra arenar ia, Bisognava fare i conti anche con i finanziamenti, perché non era il solo paese distrutto. Era tutta l’Italia in condizioni così.

Anna Maria Mencherini niente sassi del Tevere ,

Dai dolori che ci s’aveva, dal dispiacere d’essere stati tanto in giro senza nessuno che ci dava niente, non so nemmeno se gli si fece festa, però appena entrati si disse col mi’ fratello, con Nino, Beppe e i mi’ genitori: “La roba non ci s’ha”, non ci s’aveva niente, no, non ci s’aveva niente. Un armadio, che ce l’aveva detto il sor Cecco: “Questo armadio portatelo via sennò ‘ndo appoggiate la roba?”. E se dormì per terra fintanto che Beppe non fece le rapazzole. Però la contentezza d’avere un tetto, per conto nostro!

Adele Cangi anzi , s i di strug geva quel lo che era r imasto di vecchio.

Ho provato tanto dolore quando hanno buttato giù tutto il pezzo attaccato alla Fonte, la Chiesa di San Francesco, l’arco, che sopra quell’arco c’era un camminamento. E accanto, era tutto un blocco, il Palazzo Lamponi dove c’era il Torrione, era una fortezza, quasi. Però eravamo rimasti talmente senza una lira e nella miseria più nera che la proprietaria, amica della mia mamma, Clementina Lamponi, disse una sera: “Gianna, con il pianto nel cuore, ma io vendo”. Naturalmente lo prese la Forestale, ma allora non c’erano più soldi neanche nelle tasche dello Stato. Il pensiero che su questo palazzo ci avrebbero fatto la scuola della Forestale di Stato, posti occupazionali, per il rimboschimento di tutta la nostra vallata... Era una rinascita.

Grazia Cappelletti I l pr imo ad essere di strutto f u i l torr ione,

Certo era bello il Torrione. Me n’arcordo, noi se stava per quella strada proprio lì, era bello lì in cima, lì in cima indove se girava, insomma, era bello.

Stefano Graziotti poi si demoli sce l ’arco di Por ta Fiorentina

Non era un arco vero e proprio, sopra c’era la terrazza del Capaccini. Non era un arco di valore. Adesso non ci sarebbe passata neanche una macchina.

Anna Maria Mencherini

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poi f u costruita una casa dove c’era la chiesa di San FrancescoIo so’ entrato del ’57 al Palazzo della Forestale a lavorare perché me sposai. Facevo l’im-bianchino per conto mio. Quattro o cinqu’anni ho fatto l’imbianchino per conto mio. Andai per mettere in regola i libretti, è stato un mettere in regola i libretti che ci so’ stato diciannov’anni. E s’è fatta mezza Pieve. Lì per lì nn’ero muratore, m’arrangiavo a fare tutto. So’ entrato a lavorare che era già tutto distrutto.

Stefano Graziotti e le brutte costruzioni pubbliche e pr ivate iniziarono nel 1956,

Era un gioiellino. Era un paesettino, però era un gioiello, era bello. Io quando entro all’Asilo che l’è un po’ com’era ma non tanto, me prende un socché. Sicché io sento la nostalgia anche adesso della Pieve. C’era quella chiesa de San Francesco ch’era qualcosa! Quel palazzo del Santini, sopra lì dove l’era la chiesa, c’era una terrazza che prendeva da lati a lati. Nel paese c’era l’antichità. Quel Monumento che quando se scappava da scuola c’era tutti quei fiorellini bianchi tutto intorno e c’era un pochin d’andare a sedere, ci si metteva lì a sedere e le nostre mamme che venivono su sotto all’arco a vedecci: “Ma quando venite a casa a mangiare?”

Adele Cangi i l monumento al fante con i l piedi stal lo r icoper to di marmo bianco f u trasfer ito al g iardino del Ponte Nuovo sopra ad un piedi stal lo di pietraccia,

C’era questo contrasto tra la tristezza, la malinconia di una guerra che aveva lasciato le sue tracce e aveva cancellato il paese e la gioia invece di rinascere.

Grazia Cappelletti

era la moda del cemento armato. Omero Gennaioli

La mia Pieve. La mia Pieve quella la cui originalità diversa da oggi non c’è più. Peccato che la Pieve si presenti ora ripetuta e più o meno eguale ad altri paesi e città. I soliti scatoloni immotivati e lisci di cemento, che fanno con ogni dove, un tutto eguale, così come se tutti i viventi si chiamassero con lo stesso nome.

Dante Crescioli

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Sive favore tuli, sive hanc ego carmine famam; iure tibi grates, candide lector ago. Sive favore tuli, sive hanc ego carmine famam; iure tibi grates, candi�de lector ago.

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