Piero Spila. Un'idea di cinema

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EDIZIONI FALSOPIANO Piero Spila UNIDEA DI CINEMA [Itinerari dautore fra eccesso e stupore]

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Itinerari d'autore, fra eccesso e stupore, di una firma storica della critica cinematografica italiana

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EDIZIONI

FALSOPIANO

Piero Spila

UN’IDEA

DI CINEMA[Itinerari d’autore

fra eccesso e stupore]

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VIAGGIO IN ITALIA

una collana diretta da Fabio Francione

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UN’IDEA DI CINEMA

ITINERARI D’AUTORE

FRA ECCESSO E STUPORE

EDIZIONI FALSOPIANO

Piero Spila

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© Edizioni Falsopiano - 2010via Bobbio, 14/b

15100 - ALESSANDRIAhttp://www.falsopiano.com

Per le immagini, copyright dei relativi detentoriProgetto grafico e impaginazione: Daniele Allegri - Roberto Dagostini

Stampa: LaserGroup s.r.l. - Peschiera BorromeoPrima edizione - Febbraio 2010

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SOMMARIO

Premessa

Sull’eccesso e lo stupore, il cinema e la critica p. 9

1. ERANO DÉI

Lumière e la scena primaria p. 19

Fritz Lang: il cinema inesorabile e le geometrie del destino p. 22

Cecil DeMille e l’onnipotenza p. 25

Luis Buñuel: la coscienza dell’irrealtà p. 32

Henri Alekan: lo sguardo degli angeli p. 36

L’effetto Manoel De Oliveira p. 37

2. IL GRANDE CIELO

Orson Welles: lontano da Hollywood p. 43

Robert Bresson: la colpa e l’innocenza p. 45

Oltre la linea: il metodo Rossellini p. 47

Il cinema universale di Kurosawa p. 54

Ritwik Ghatak: il Bengala è lontano p. 56

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Il primo Chabrol: il soliloquio raggiunto p. 62

Il secondo Chabrol: piccoli omicidi fuori dal genere p. 70

Jerry Lewis: la comicità, il caos, lo sperpero p. 72

Jean-Luc Godard: la rivoluzione dentro p. 75

Pasolini: l’omologazione e la differenza p. 78

Ermanno Olmi: il valore della diversità p. 82

Sergio Leone: elegia della circolarità p. 88

John Huston: l’ultimo inno alla vita p. 90

3. OMBRE ROSSE

Gianni Amico: i piani sequenza di “Tropici” p. 95

Straub-Huillet e lo stupore del cinema p. 97

Straub-Huillet cineasti italiani (intervista) p. 107

Andy Warhol: il cinema della semplicità p. 119

Marco Ferreri: gli specchi e le maschere p. 121

Carmelo Bene: maschere e rivoluzioni p. 138

Mario Schifano: trilogia per un massacro p. 141

Norman Mailer: immagine e demistificazione p. 149

La Georgia di Otar Ioseliani p. 156

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Dennis Hopper: l’altra parte del fiume p. 160

Nagisa Oshima: il dovere dello sguardo p. 162

Brian De Palma: lo sguardo punito p. 166

4. VERSO IL 2001, E OLTRE

Gianni Amelio e le buone cause p. 171

La guerra secondo Clint Eastwood p. 175

Padri e figli nel cinema di Nanni Moretti p. 177

David Lynch: delicati equilibri e orrori quotidiani p. 187

Hou Hsiao-Hsien: sogni e incubi del nuovo millennio p. 192

Michael Haneke: abissi, ossessioni, desideri p. 194

Gli implacabili shock di Lars Von Trier p. 197

Matteo Garrone e il discorso interrotto di Pasolini p. 200

Nota editoriale di Fabio Francione p. 205

Indice dei nomi p. 207

Indice dei film p. 214

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Sull’eccesso e lo stupore, il cinema e la critica

Più di quarant’anni fa passai buona parte dell’estate al Planetario di Roma,dove all’epoca la Cineteca Nazionale organizzava delle memorabili retrospet-tive. Era un luogo evidentemente adattato per altre funzioni, eppure sembravainventato apposta per esaltare le virtù più spettacolari del cinema: la larga pla-tea semicircolare, lo schermo sospeso che veniva giù dal soffitto, la volta altis-sima che la mattina si riempiva di stelle e pianeti per mostrare i misteri del-l’universo. Fu lì, in quella specie di Cappella Sistina prestata ai cinefili, chevidi per la prima volta i capolavori dell’espressionismo tedesco, Lang eMurnau, il Golem e Nosferatu. Ed era anche la prima volta in cui mi sentivoun po’ diverso dallo spettatore che ero stato fino allora. Proprio in quei gior-ni, infatti, avevo la fortuna di partecipare alla nascita di una nuova rivista dicinema, “Cinema & Film”, che per un certo periodo avrebbe svolto un ruoloimportante nella cultura cinematografica italiana e, per quanto mi riguarda,avrebbe impresso una svolta decisiva alla mia vita. Di quei film, a ripensarcicol senno di poi, mi impressionavano soprattutto l’eccesso e lo stupore dellamessinscena (scenografie gigantesche, movimenti degli attori complicati eprecisi, angolazioni inattese, luci mai viste prima…) e poi l’incanto di storieinverosimili e lontane, eppure piene di emozioni riconoscibili, destini segnati,passioni assolute e infelici: la morte di Sigfrido, colpito a tradimento duranteuna partita di caccia, i furori di Brunilde che non si dà per vinta, il duello mor-tale tra Mabuse e il procuratore Wenck, il ritorno a casa del giovane Hutter, inNosferatu, condannato a vita dalla sua ossessione. Sarà stato anche per la sug-gestione del luogo e il momento (avevo vent’anni) ma quell’idea di un cine-ma pieno di eccessi e stupori è rimasta per me indelebile e, con gli anni, arric-chita di esperienze (nel e al cinema) e messe a punto inevitabili, ha contribui-to a formare un gusto e un criterio di giudizio, a definire se non un’estetica cer-tamente una predilezione per certi film e autori. Occorre però intendersi benesui termini e soprattutto non bisogna sovrapporre un giudizio di merito a favo-

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re di un cinema rispetto ad un altro. Ci sono grandi autori che lavorano dasempre sull’eccesso e sulle punte estreme e altri, grandissimi, che lavoranosulla misura e “a togliere”, che anzi insistono a tal punto in questo procedi-mento espressivo da diventare a loro volta eccessivi ed estremi. Ci sono auto-ri che operano sulla sperimentazione e sul limite, sull’invenzione e sui partitipresi stilistici, altri, concentrati sulla forma e lo stile, cesellano i loro filmcome fossero gioielli, dicendo sempre meglio quello che, opera dopo opera,hanno già detto benissimo. Gli uni lavorano sulla sorpresa, la sfida, la terrabruciata, gli altri sull’equilibrio incarnato e l’armonia della forma perfetta.Personalmente ho amato gli uni (Lang, Buñuel, Welles, Godard, Oshima…) egli altri (Chaplin, Renoir, Ford, Hitchcock, Bertolucci…), ma chissà perché hofinito con lo scrivere di più sul lavoro dei primi. Ed è uno dei motivi che spie-gano questo libro, una raccolta di testi pubblicati in più di quarant’anni di atti-vità, tutti dedicati ad autori tra loro diversissimi per stile, intenzioni e mondiespressivi, e che pure in qualche modo è possibile collegare nel segno del-l’eccesso (formale o produttivo) e dello stupore (le storie, le invenzioni stili-stiche, gli scandali espressivi). All’interno di tale scelta di campo ci sonoanche delle sorprese, perché accanto ad autori sicuramente rappresentabilisotto il segno dell’eccesso, come Buñuel, Ferreri o DeMille, ci sono altri,invece, in cui l’eccesso è più indiretto, qualche volta addirittura nascosto,comunque presente ed essenziale, ed ecco infatti: Rossellini e Welles (per laloro indipendenza e modernità), Olmi (per il ritmo dei suoi film e l’uso deitempi morti), Amelio (per l’eticità dello sguardo), Moretti (per il narcisismoespressivo), Straub (per l’oltranzismo formale), Ghatak (per la capacità diconiugare ragioni stilistiche ed esistenziali). Alla fine sono 38 autori e ne man-cano ancora molti altri che pure meriterebbero di esserci perché corrispondo-no perfettamente ai requisiti indicati (in elenco: Dreyer, Resnais, Tarkowsky,Malick, Sokurov, ecc.) ma su cui, un po’ misteriosamente, non mi è capitatodi scrivere in maniera approfondita. Altri registi, invece, pur grandissimi, nonsono presenti perché, come detto, appartengono ad un cinema dell’armonia, adun’idea più classica della forma e dell’espressione. È per questo motivo chenel libro ci sono DeMille e non Spielberg, Rossellini e non Renoir, Ghatak enon Satyajit Ray, Lynch e non Kubrick. Mentre sono presenti, invece, autori“estremi” solo per un film: John Huston (per il suo commiato declinato sottoil segno della morte, The Dead) e Brian De Palma (per la sua riflessione spu-dorata sul porno e il voyeurismo in Body Double); o addirittura autori “estre-mi” solo per una scena, come capita a Murnau in Sunrise, quando il punto divista della macchina da presa si trasforma all’improvviso, e in un unico movi-mento, da una ripresa oggettiva e “in terza persona” alla soggettiva del prota-

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gonista, per condividerne il delirio amoroso. So bene, però, che come tutte leclassificazioni anche questa potrà suscitare riserve e obiezioni ragionevoli econdivisibili. Ma tant’è. Una volta Godard (grande regista e altrettanto gran-de critico) fece una classificazione del genere e scrisse che Renoir (e altri auto-ri con lui) era la musica e Rossellini la pittura. Non aggiunse altre spiegazio-ni, che forse non erano neppure possibili, solo un’idea, una suggestione, ma ame è sempre sembrato che avesse perfettamente ragione e che quell’indica-zione potesse essere accolta con profitto e divertimento. Mi auguro che siacosì anche in questo caso.

Nel lavorare a questo libro mi è capitato di rimettere mano e rileggere (avolte sorprendendomi) testi pubblicati in più di quarant’anni di lavoro intensoe continuato, anche se spesso quasi clandestino (il destino delle riviste cultu-rali), e di attraversare un bel tratto di storia della cultura e della critica cine-matografica del nostro paese, dai periodi di massimo fulgore (brevissimi) alladesolante situazione attuale. L’avventura di “Cinema & Film”, a cui ho colla-borato sin dal primo numero, inizia negli anni ’65-66 quando già erano pre-senti tutti i sintomi di ciò che sarebbe accaduto con il ’68, un periodo cheabbiamo attraversato interamente al riparo della rivista e con la passione per ilcinema. Anni travolgenti e irripetibili anche per la critica cinematografica per-ché l’aspetto teorico (molto presente) colludeva fisiologicamente con l’ap-proccio politico. Si scriveva e si viveva di cinema ma ci si poneva domandesu cosa significava fare cinema, cosa significava partecipare a operazioni cul-turali come i festival, quali erano e dovevano essere i rapporti tra cultura eindustria, come era possibile incidere, anche interessandosi ad un’arte tanto“effimera” come il cinema, nei processi di produzione e dunque nell’evolu-zione sociale del paese. Su questi temi, come sulla “politique des auteurs” osull’amore per Hawks e Jerry Lewis, Anthony Mann e Melville, si stringeva-no rapporti e alleanze con riviste straniere come “Cahiers du Cinéma” e“Positif”, ci si confrontava con compagni e colleghi di altre testate, ancora piùideologizzate, come “Ombre rosse” di Goffredo Fofi e Gianni Volpi. Anni fon-dativi per tutti perché nell’esercizio critico erano stati introdotti nuovi stru-menti teorici (la semiologia, lo strutturalismo) ma c’era anche la predisposi-zione ad aprirsi a diverse influenze espressive, come accadde ad esempio conl’irruzione dell’Underground, il cinema sperimentale americano che rivolu-zionò l’intero apparato linguistico e produttivo del cinema, imponendo unapproccio ancora più libero ed emotivo, addirittura psicoanalitico.

Dopo il ’68, tutto questo finì. “Cinema & Film” di colpo interruppe le pub-blicazioni per una strana e collettiva demotivazione, per un’improvvisa stan-

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chezza che, in diversa misura, riguardò anche altre riviste di riferimento, primafra tutte i “Cahiers du Cinéma”, che prese una deriva pesantemente ideologiz-zata, addirittura maoista. Le cause erano evidenti: iniziavano anni difficili econfusi per tutti e c’era una posizione maggioritaria che considerava il “farecritico” come un’esercitazione insufficiente, e quindi si puntava ad operare nelcinema in modo più diretto, come registi, sceneggiatori, operatori culturali oorganizzatori di festival. Tipico l’itinerario di un collega come Enzo Ungariche, conclusa l’esperienza di “Cinema & Film”, gestì per qualche anno, conAdriano Aprà, uno dei fondatori della rivista, il Filmstudio, un cineclub storicodi Roma, in cui praticamente veniva continuato il percorso critico tracciatodalla rivista, programmando i film di cui si parlava, organizzando retrospettivesugli autori che amavamo. Successivamente, Ungari collaborò alle “Estatiromane” di Renato Nicolini, che si svolgevano alla Basilica di Massenzio, unagrande cineteca all’aperto dove si proiettavano i film fino all’alba, e poi allaMostra d’arte cinematografica di Venezia, a cavallo tra gli anni Settanta eOttanta, nelle edizioni dirette da Carlo Lizzani, in cui inventò tra l’altro lasezione “Mezzogiorno Mezzanotte”. Come si vede, tutte esperienze molto pra-tiche, un modo vitalistico di vedere e fare il cinema che però raccoglieva e met-teva a frutto una serie di stimoli seminati negli anni precedenti. Altri colleghidi “Cinema & Film”, come Maurizio Ponzi o Luigi Faccini, cominciarono afare film, altri ancora si dispersero in varie attività e interessi. Per quanto miriguarda continuai a fare critica, nei modi e negli spazi possibili. Vicende per-sonali mi portarono ad accettare un incarico di responsabilità presso il settoreaudiovisivi di una grande impresa pubblica (le Ferrovie dello Stato): dovevaessere per poco tempo e invece durò più di 30 anni. Un impegno professiona-le che pose dei limiti ma anche dei privilegi. I limiti erano quelli del tempo adisposizione, che ad esempio mi ha impedito, tranne per un breve periodo a“Reporter”, di svolgere attività da critico quotidianista; i privilegi perché larelativa sicurezza economica mi ha consentito di scrivere e di occuparmi dicinema solo quando reputavo che ne valesse davvero la pena. Nascono così lecollaborazioni a varie testate specialistiche e non, da “Nuovi Argomenti” a“Dolce vita”, da “Prima Fila” a “Il Patalogo”, da “Linea” a “Cinecritica” e cosìvia. E non ho mai smesso, in un periodo in cui il cinema in generale e, più inparticolare, la critica cinematografica, hanno affrontato una lunga stagione didifficoltà e progressivo degrado, il cui inizio è assolutamente certo. Il 28 luglio1976 la Corte Costituzionale pubblica la famosa sentenza con cui si stabiliscela liberalizzazione dell’etere, un colpo mortale per il sistema mediologiconazionale, che da quel momento in poi viene lasciato crescere e consolidaresecondo la legge del più forte (e del più protetto). Una battaglia che ha fatto

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soprattutto due vittime: la sala cinematografica tradizionale e il cinema di qua-lità, ovvero il cinema “della riflessione e della meditazione” (Miccichè). Conuna conseguenza diretta e pesante anche sul futuro della critica.

Questo libro raccoglie testi pubblicati nell’arco di più di 40 anni su varietestate e in diverse occasioni e contesti: il risultato è una serie di interventimolto dissimili tra loro, sia per la lunghezza sia per il tono e lo stile di scrittu-ra, testi d’occasione e saggi di maggiore respiro. Il primo articolo è del 1967(“Cinema & Film”), l’ultimo scritto poco tempo fa (“Cinecritica”). Tra l’unoe l’altro è trascorsa una vita, c’è stato uno sviluppo del pensiero, del modo divedere le cose e, in particolare, di guardare e apprezzare il cinema. Di certo ècambiato il modo di affrontare gli argomenti e di interloquire con il lettore. Inquesto senso confesso di rileggere i miei testi di fine anni Sessanta con note-vole imbarazzo, ci riconosco il rigore e la fatica, ma non condivido certamen-te la forma involuta, criptica, che per la verità era un segno distintivo deltempo e, in particolare, di “Cinema & Film”, ma che per me diventava ancheuna forma di difesa, una denuncia di insicurezza. Abbiamo deciso di pubbli-carli così come erano, con il loro presente storico e con minimi interventi diediting per eliminare imprecisioni e refusi. L’alternativa era riscriverli intera-mente ma si sarebbe persa l’atmosfera del tempo e del contesto e soprattuttosi sarebbe contraddetto lo spirito antologico del libro. Alla fine, tuttavia, tra itesti antichi e più recenti, quelli più analitici o impressionistici e leggeri, credosia possibile rinvenire un filo rosso comune che riguarda sia l’interesse per uncinema autentico e mai banale, sia una forma molto precisa di fare critica cine-matografica. Proprio quel tipo di critica che attualmente, nel nostro paese, èdiventata sempre più marginale ed evanescente. Capita infatti che un eserciziodella ragione e del sapere, un modo di confrontarsi con il cinema che ha cono-sciuto momenti altissimi e fondamentali, è di fatto quasi scomparso dalla cartastampata, relegato, almeno per quanto riguarda la ricerca specialistica e l’ap-profondimento, in spazi istituzionali e sociali ben delimitati (le cattedre uni-versitarie) o faticosamente coltivato in qualche rivista sempre sull’orlo dellachiusura. Un cinema attento soprattutto a fare di conto (che non sarebbe di persé negativo), però incapace di riflettere su se stesso in termini di linguaggio eforme estetiche ed espressive non ha un grande futuro. Ed è questa la situa-zione con cui conviviamo. Per chi fa critica cinematografica c’è sicuramenteun problema di spazi (ma il mercato non è mai stato generoso con chi non ècontrollabile), c’è però nella critica stessa, in genere, anche un’attitudine amodificare progressivamente ruolo e natura, ad appiattirsi troppo sugli eventi,limitandosi alla superficie dei fenomeni e mai alle loro ragioni, con l’osses-sione di “perdere il contatto” con il pubblico “che va al cinema”, e dunque alla

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fine omologandosi ad un modello informativo che contraddice o rende vanoogni tentativo di approfondimento, ogni riserva, ogni interpretazione alterna-tiva, ogni eccezione. Che sono proprio le caratteristiche del cinema fatto dagliautori di cui si parla in questo libro. La sensazione è di battersi a mani nudenei confronti di un cinema in cui ha assunto un totale sopravvento la dimen-sione industriale, un cinema autoreferenziale in termini solo economici, che siguarda allo specchio (il box office) e si compiace o si deprime sempre all’ec-cesso, senza aspettare le possibili controprove, senza tentare strade innovati-ve, senza rischiare sui tempi lunghi. È così che a perdere sono insieme il cine-ma e la riflessione critica.

Nella mia attività a “Cinecritica”, mi capita spesso di imbattermi in giova-ni critici e studiosi di cinema che chiedono consigli e pareri sul modo e la pos-sibilità di coltivare professionalmente la loro passione. Le risposte purtropponon possono che essere vaghe. Mi viene sempre in mente però una scena del-l’ultimo film di Tarkowskij, Sacrificio. Quando Alexander, l’anziano protago-nista del film, pianta un albero in riva al mare e racconta al bambino muto chelo accompagna il poetico apologo di un uomo votato per la vita a compierequell’identico gesto. Ecco, gli dice, basterebbe che ognuno di noi, ogni matti-na, versasse un bicchiere d’acqua nella terra dove sta piantato l’albero e ilmondo sarebbe diverso e migliore. Tarkowskij nel suo millenarismo laico par-lava di volontà e sacrificio individuali contro la cecità e la violenza collettiva,più modestamente noi parliamo di una specializzazione da coltivare con impe-gno e rigore. Sono convinto, infatti, che i critici non debbano avere paura dellaloro specializzazione, perché alla lunga sarà proprio questa dote che faràsopravvivere la loro funzione rispetto all’omologazione di un sistema del-l’informazione sempre più invasivo e rumoroso, ma senza più sorprese e desi-derio. Viceversa, la scomparsa dalla scena mediatica della funzione criticadeterminerà un vuoto incolmabile tra pubblico e cinema. Un vuoto che verràinteramente occupato dal marketing e dalla forza degli investimenti.Marketing e investimenti così potenti da inventarsi addirittura una critica “vir-tuale”, evocando un fantasma (proprio la critica cinematografica) che si vor-rebbe invece scomparso. Il punto di arrivo è stato già toccato qualche anno fae ha un nome: David Manning, il critico virtuale inventato dalla Sony non perfar parlare bene dei suoi film, ma per farlo parlare nei modi “giusti” e “utili”all’ennesimo lancio promozionale: tante piccole frasi, tanti aggettivi roboanti,da poter ritagliare e incollare sui flani. Il pericolo per chi fa critica non è l’e-sistenza di Manning (lui non si interesserebbe mai di Lang o Ghatak), ma difinire col rassomigliargli.

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Nel chiudere queste righe devo una confessione e qualche ringraziamento.La confessione riguarda un impegno cominciato quasi per gioco (in praticafare un libro già scritto e disperso) ma che alla fine mi ha sempre più coin-volto, soprattutto perché ha consentito di ricordare parte di una stagione bel-lissima della mia vita, fatta di amore per il cinema e per la critica i cui segre-ti e piaceri ancora non smettono di sorprendermi. Il primo ringraziamento èper Adriano Aprà, tra l’altro presente in questo libro con due contributi; è ilmio primo maestro, conosciuto all’epoca di “Cinema & Film”, e mi ha inse-gnato tra le altre cose il culto rigoroso di una passione che deve essere presasul serio, una lezione di metodo e applicazione che ho fatto mia in tutti i lavo-ri successivi. E un altro ringraziamento non formale va all’amico e al collegapiù recente, Fabio Francione, a cui devo l’idea e la spinta di mettere mano aimiei lavori, cercando di dargli una forma e una logica accettabili. Egli rappre-senta un’altra generazione critica, ci divide la formazione culturale e, spesso,anche il gusto cinematografico, ma in lui riconosco l’entusiasmo, il rigore del-l’approccio e il gusto per le sfide da affrontare.

(Ottobre 2009)

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ERANO DÉI(1920-1940)

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Metropolis (1926) di Fritz Lang

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LUMIÈRE E LA SCENA PRIMARIA

Mary Pickford pianse di emozione la prima volta che si vide sullo scher-mo. E in effetti, l’immagine cinematografica dell’uomo è diversa da ognialtra immagine dell’uomo: dalla subdola simmetria dello specchio come dallastaticità un po’ lugubre della fotografia. Allo stesso modo, se fra gli spettato-ri che in una sera del 1895, a Parigi, assistevano alla nascita ufficiale del cine-ma, ci fosse stato un ferroviere, esso non sarebbe riuscito a trattenere un motodi orgoglio all’apparire della locomotiva. Non perché la locomotiva cheentrava sbuffando nella stazione di La Ciotat fosse più vera di quelle che ognigiorno vedeva correre sui binari, ma perché le immagini tremolanti e lattigi-nose di Lumière erano già storia, e sancivano figurativamente l’importanzadel suo lavoro, la naturale capacità del cinema di incarnare l’avventura e ilprogresso dell’uomo. Non è un miracolo che il cinema al suo apparire riu-scisse a provocare emozioni così forti, miracolo è che già all’esordio misu-rasse e definisse, con la presenza di un treno e un piano sequenza di 35 secon-di, la sua capacità espressiva e la sua incontrollabile vitalità. E questo al di làdelle intenzioni documentaristiche del suo inventore – che temeva come lapeste l’eccessivo entusiasmo del pubblico, l’idolatria delle vedettes, le inco-gnite dello sfruttamento industriale.

«Se un giorno la scienza riuscirà a darci l’illusione perfetta della vita,come non pensare che possa in futuro creare la vita stessa?», scrive all’indo-mani della prima proiezione un anonimo cronista parigino. E ancora: «con ilcinema, la fotografia ha smesso di fissare l’immobilità. Quando questi appa-recchi saranno venduti al pubblico e tutti potranno fotografare i loro cari inmovimento, nelle loro azioni, nei loro gesti quotidiani, con le loro parole afior di labbra, la morte cesserà di essere un fatto assoluto». Incredibile. Conl’invenzione di Lumière l’uomo già non si accontenta più di conosceremeglio la realtà che lo circonda, ma progetta di penetrare i misteri della vita.Sullo schermo ogni figura, ogni cosa si ammira a grandezza naturale, e l’in-quadratura di Lumière è definita così bene che non lascia sfuggire il minimoparticolare. Un marciapiedi assolato, la fuga prospettica di un binario, il cielocon un disegno di nuvole. Poi d’un tratto tutto si agita, tutto prende a corre-re. La locomotiva irrompe dal fondo, avanza in diagonale verso lo spettatoreed esce dal lato sinistro dell’inquadratura per lasciare il favore del campo(l’operatore è già diventato regista) all’umanità che comincia a invadere loschermo scendendo dai vagoni come da un Vaso di Pandora. Uomini giova-ni che sorridono incuriositi verso un oggetto che non conoscono (la macchi-

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na da presa), un signore in paglietta, militari in divisa e, fra gli altri, supe-rando un attimo di femminile imbarazzo, una giovane signora in abito bian-co e ombrellino: da sola, evidentemente in visita in città, attraversa il foto-gramma già pieno di mistero, come una vera attrice (e in effetti è la mogliedi Lumière prestatasi alla breve apparizione), come un vero personaggiocinematografico. Una semplice inquadratura, quella de L’arrivée d’un train àLa Ciotat, eppure basta per delineare uno spazio espressivo e una forma pos-sibile di racconto.

Quella del cinema non è stata un’invenzione qualunque: prepotente comeuna rivoluzione, ha popolato l’immaginario di nuovi concetti visuali e ha resoai segni improvvisamente consunti dei linguaggi tradizionali la nuova linguadel dato sensibile e diretto, della percezione non mediata e dunque soggetti-va e arbitraria. La prima volta di Lumière è già una “scena primaria” in cui ilsignificante (il treno) si moltiplica negli innumerevoli significati dei suoiviaggiatori, delle loro fisionomie, dei loro caratteri, delle loro storie. È signi-ficativo che il cinema sia nato insieme ai primi mezzi di trasporto di massa.Il treno avvicina i luoghi, il cinema gli avvenimenti: e tutti e due, insieme,modificano abitudini, idee, scelte di vita. Un’arte fatta di tecnica ma anche diforti suggestioni (il cinema, prima che dagli artisti, è stato inventato dagliingegneri), un mezzo di locomozione (il treno) nato con la civiltà delle mac-chine ma grazie alla testarda volontà di alcuni sognatori. Cinema e ferroviasono stati eventi dominanti di un’epoca durata più di un secolo che ha dato acentinaia di milioni di spettatori, e ad altrettanti viaggiatori, una rappresenta-zione del mondo che non era più quello che si raccontava (falso) ma quelloche finalmente si poteva vedere (nuovo, strano, liberatorio), un mondo in cuia vincere non era più solo l’unilateralità della ragione (dei più forti), ma doveera proprio la ragione a svelare l’ambivalenza e le contraddizioni del mondo.Nella messa in crisi delle leggi fisiche e nella liberazione dell’immaginario,nella sovversione delle dimensioni del tempo e dello spazio, nella vocazionea unire idee e desideri, realtà e fantasia, il cinema ha contribuito non solo adinsegnare il piacere di vedere meglio le cose, ma anche l’esaltazione e il dub-bio connaturati nell’atto stesso della visione. Un atto in cui le luci del mondotrovano un senso solo nella camera oscura della mente dello spettatore.Immagini in movimento: mai semplice registrazione e ricalco, ma sempremessa in scena, elaborazione, fuga in avanti. Ombre della fantasia, proiezio-ne realistica di sogni. Giacomo Casanova giudicava una delle più grandi stu-pidaggini che potesse commettere un amante dire “ti amo” alla donna che sa(è sicura) di essere amata. Il cinema - proprio a partire dall’irruzione sullascena della locomotiva di La Ciotat - è la sola arte capace di evitare questo

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rischio, almeno ogni volta che riesce a sconfiggere l’inerzia mentale di chi siaccontenta di vedere solo ciò che già conosce. A partire dal primo film diLumière il cinema (come era già capitato alla pittura e alla musica) denunciala sua vera e rivoluzionaria natura, deludendo le cautele di chi aveva predi-sposto per esso il noioso e mediocre destino di “documentare” la realtà, etraccia già i suoi confini più estremi: narrazione, avventura, invenzione.

In Linea, nn. 8/9 agosto-settembre 1989

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FRITZ LANG: IL CINEMA INESORABILE E LE GEOMETRIE DEL DESTINO

Fra due punti estremi – il cervello e il cuore, ma anche l’innocenza e lacolpa, la verità e l’inganno, il sogno e il risveglio – è sempre la retta la lineapiù breve, non la più facile. Rappresentato geometricamente, tutto il cinemadi Fritz Lang, dai capolavori dell’espressionismo alla lunga stagione ameri-cana, dagli intrighi noir ai deliri esotici del dittico indiano, dalla mitologia delsuperomismo all’ossessione metafisica della colpa e del riscatto, sta in que-sto tracciato inesorabile e brutale, che non ammette scarti o arresti improvvi-si, deviazioni o incertezze. Secondo Lang «una storia di odio, assassinio, ven-detta, eroismo e sacrificio, deve avere un ritmo necessariamente diverso dauna storia che parla di qualcuno che cerca lavoro», e sul set si è sempre com-portato di conseguenza. Si racconta ancora lo stupore di Lang, durante leriprese di Le mépris, quando vide Jean-Luc Godard girare una scena conBrigitte Bardot al Chez Fouquet lasciando che si sentissero tutti i rumori difondo. «Ma perché questa scelta? Perché conservare i rumori reali? Quandotu sei al tavolino con una donna che ami, vedi solo lei, senti solo lei». PerLang è dunque innanzitutto una questione di metodo e di rigore espressivo,non di soprassalti morali, di scelte possibili, di rinunce o compromessi chealla fine si rivelano quasi sempre ininfluenti.

La vita e la morte, il destino, la colpa, il crimine: in Lang c’è sempre uningranaggio perfetto alla rovescia, dove tutto sembra funzionare a meravigliae invece si precipita verso la rovina, dove gli uomini e i loro sentimenti agi-scono liberamente solo in apparenza, in realtà sono imprigionati in un campomagnetico di attrazioni e ripulse da cui è impossibile sfuggire. «Nella scan-sione delle inquadrature di tutti i suoi film – ha scritto Lotte Eisner – nullapuò arrestare la marcia fatale del destino. Secondo questa rigorosa concate-nazione di avvenimenti, ogni scena o inquadratura, la loro durata, il ritmodegli incidenti che vi succedono, gli intervalli che le separano, il valore diuna parola, di una frase, tutto ha un proprio significato e tutto è importante.Le impressioni visive e sonore si accumulano per determinare il dramma sulquale piomba l’ananké inflessibile delle tragedie greche. Ogni dettaglio ciavvicina alla catastrofe finale». Nel cinema di Lang la buona causa nascondequasi sempre un secondo fine, l’altruismo e il senso di giustizia sono valoriche nel fondo hanno ben poca nobiltà, e la moralità è solo un accomodamen-to sociale necessario.

Nell’universo figurativo (e umanistico) di Lang, nelle sue parabole narra-

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tive, scarne e geniali, l’utopia rivela sempre, alla fine, un riflesso di medio-crità, le vittime, almeno per un attimo, assomigliano ai carnefici, i protagoni-sti positivi (gli eroi delle saghe nibelungiche come i disperati, infelici abitan-ti delle metropoli americane) convivono con terrori, angosce, insicurezze erapacità pre-umane. Il poliziotto è molto più efficace nel tutelare la leggequando smette di pensare agli ideali della sua missione e comincia ad agireguidato solo dal desiderio di una feroce vendetta personale (Il grande caldo),i derubati sono spesso più immorali dei rapinatori (Io sono innocente), gliinnocenti che si fingono colpevoli sono colpevoli davvero (L’alibi era per-fetto) e nessuna esistenza è tanto grigia e irreprensibile da non celare al suointerno un demone impazzito (La donna del ritratto, La bestia umana).

Se è vero che i grandi registi assomigliano ai film che fanno, allora Langnon poteva realizzare che il cinema che ha fatto, indipendentemente dalluogo, dall’epoca, dalle circostanze. Dai memorabili film del periodo muto altrionfo del sonoro, dal cuore dell’Europa, sfregiata dall’avvento del nazismo,alla Hollywood degli anni Trenta e Quaranta fino alle persecuzioni maccarti-ste, dalla censura di Goebbels a quella più subdola, voluta da Eisenhower,dalla vertigine di Babele alle piccole commedie strappate ai compromessiproduttivi e finalizzate alla rappresentazione dei vizi più intimi e triviali, ilregista di Metropolis e M, il mostro di Dusseldorf ha sempre incarnato un’i-dea di cinema unica e ossessiva: porre a confronto (e quindi rendere piùumano e vulnerabile) il caos dei sentimenti privati, delle contraddizioni esi-stenziali, degli slanci generosi e temerari, con le impeccabili geometrie dellaStoria, del Destino, delle scelte inevitabili.

Nel cinema (e nella vita) di Fritz Lang niente è mai casuale o arbitrario.Amava molto i western ma solo perché essi – diceva – hanno all’interno unamorale resa obbligatoria dalla necessità. «Ogni inquadratura di Lang – hascritto Truffaut – ogni movimento di macchina, ogni taglio è inesorabile». Ea livello di recitazione ogni gesto porta in sé qualcosa di unico e decisivo. Ènota la ferocia e la disciplina perfezionista di Lang nel lavoro. «Si dimenticasempre che non sono stati gli déi ad aver creato gli uomini, ma gli uomini adaver creato gli déi», dice Lang a 73 anni, interpretando se stesso in Il disprez-zo di Godard. Questa è una regola che Lang non ha mai dimenticato, neppu-re quando Goebbels lo convocò nel suo ufficio di Berlino per offrirgli la dire-zione della cinematografia tedesca. Qualche ora dopo Lang faceva le valigiee passava la frontiera. Destinazione Parigi e poi Hollywood. Non lo fece perun supremo slancio ideale e neppure per eroismo (infatti non se ne è mai van-tato), ma semplicemente perché era una cosa necessaria. Una scelta inesora-bile e giusta: come il suo cinema, pieno di eroi leggendari che diventano tita-

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ni déracinés, abitato da fantasmi e stregoni che si trasformano ogni volta in pic-coli uomini colpiti dal demone del desiderio e della vendetta. Un cinema essen-ziale, duro, rigoroso in una filmografia attraversata da stagioni difficili, com-promessi, cadute. Un cinema, quello di Lang, classico e fedele a se stesso.

In Fritz Lang, catalogo a cura di Mario Sesti per la retrospettiva promossadall’Assessorato alla Cultura del Comune di Roma - Edizioni Carte Segrete,Roma 1990

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CECIL DE MILLE E L’ONNIPOTENZA

Leggendario e discusso, spesso per partito preso, tagliato fuori dalla ”poli-tique (e génération) des auteurs”, Cecil B. DeMille è stato sempre sottovalu-tato dalla critica specialistica. Non è un caso che su DeMille e sulla sua operaesista una bibliografia imponente e una relativamente scarsa letteratura criti-ca. Definire DeMille “autore leggendario” è anche un modo per metterlo traparentesi, relegarlo fra i tanti luoghi comuni della storiografia cinematogra -fica o per citarlo en passant nelle ricognizioni socio-economi che o, peggio,nelle agiografie su Hollywood e i suoi miti.

Il risultato più appariscente è che il cinema di Cecil DeMille è stato stu-diato e normalmente presentato come fenomeno spettacolare/produttivo,come calzante esempio dell’industria cinematogra fica espressa alla sua mas-sima potenza, come convin cente fusione del piacere dello spettacolo con ilrelativo valore economico del film, e viceversa viene poco considerato dalpunto di vista delle forme linguistiche e narrative utilizzate, delle moltepliciinnovazioni apportate nella fase della messa in scena, di quella capacità asso-lutamente personale di coniugare rappresentazione e spettacolarizzazione diemozioni ingenue e universali.

Ulteriore riprova è che si parla quasi sempre di “ci nema alla DeMille”(con tutta la genericità che una tale definizione comporta), quasi mai di cine-ma di DeMille. Come se il cinema di DeMille, identificato col fenomenodella standardizzazione del lingu aggio cinematografico e dell’affermazionedei co dici hollywoodiani, non avesse in sé anche elementi autoriali, sviluppitematici importanti e autonome ricerche espressive.

È vero che un autore come DeMille ha operato in un contesto storico e inuna logica produttiva fortemente condizionati dal mercato, in una dimensio-ne cioè in cui i concetti stessi di “bellezza” e “realismo” erano sempliciopzioni in funzione del risultato, erano “valori aggiunti” che dovevano servi-re a rendere più piacevole il prodotto o a meglio mascherare gli arti fizi e gliapparati tecnici che rendevano possibile (e più credibile) lo spettacolo; ma èaltrettanto vero che DeMille ha dedicato sin dai primi film un’attenzione par-ticolare alla qualità e alla specificità linguistica ed espressiva di quei “valoriaggiunti” resi possibili dal cinema. Per lui non si trattava solo di rappresen-tare sto rie universali, ma anche di rappresentarle con un mezzo e con un lin-guaggio nuovi, con potenzialità espressive immense ma anche con condizio-namenti e limiti specifici. È un aspetto del cinema di DeMille che avrebbemeritato ben altra attenzione.

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DeMille proveniva dal teatro (il padre, autore preferito di David Belasco,personaggio di punta del teatro americano di fine ‘800; il fratello William, acui si affianca giovanissimo) e i suoi primi film da regista risentono di que-sta originaria impostazione. Ma è solo l’inizio, perché DeMille si pone imme-diatamente il problema del nuovo linguaggio e della necessità di interagirecon esso (la molteplicità dei punti di osservazione, la luce, il taglio e la com-posizione dell’inquadratura, e dunque l’economia dello spa zio, la dialetticadel campo visivo, il tipo di reci tazione degli attori). Lo fa, evidentemente,ancora senza mediazioni teoriche, solo attraverso l’apprendistato e l’uso ini-zialmente istintivo e poi sempre più metodolo gico di una personalissima tec-nica di regia, e lo fa soprattutto con una presenza ossessiva sul set, con un’at-tenzione maniacale per tutto ciò che accadeva in fase di preparazione o ripre-sa. I risultati si ve dono. Sin dai primi film gli attori di DeMille non si accal-cano più in un angolo dell’inquadratura - se condo l’uso, molto diffuso all’e-poca, di chi era abituato ad utilizzare solo l’arco ristretto del proscenio - masi dispongono in modo tale da valorizzare anche lo sfondo, la profondità dicampo, il paesaggio.

Ed è DeMille per primo, non i critici che hanno studiato la sua opera, arilevare la novità: «Liberarsi fi nalmente dai confini del palcoscenico. Solol’orizzonte come limite del palcoscenico, e il cielo come impalcatura percambiare scena. Nessun limite in altezza, nessun vincolo di rispettare lo spa-zio scenico. Questa la grande novità e libertà del cinema». Era appena l’ini-zio, e per DeMille era già un fatto di onnipotenza, già ragionava in ter mini dikolossal, e cioè di dimensioni, di supera mento dei limiti, di nuove opportu-nità da mettere a frutto, di libertà creative da sondare.

Ancora. DeMille ha utilizzato per i suoi film quasi sempre dei testi lette-rari, dei drammi teatrali, ma non si è mai posto, nemmeno per un momento,il problema del rispetto filologico di quei testi, si è posto semmai il problemacontrario, di come su perarli liberandoli da una serie di vincoli oggetti -vamente estranei alla logica visiva del cinema. Siamo nel 1916, DeMille èpraticamente agli inizi della carriera, ha ultimato The Trail of the LonesomePine e già rivendica l’autonomia del lin guaggio cinematografico rispetto altesto e al materiale profilmico: «Gli autori, come anche i lettori - scrive -lamentano spesso di quanto i film deformino o massacrino i romanzi da cuisono tratti. Talvolta sono lamentele più che giustifi cate. C’è in effetti, nellanatura dell’uomo, come una tendenza che ci spinge ad apportare quelli chenoi crediamo ingenuamente dei miglioramenti all’opera di un altro. Ma perlo più, queste lamen tele nascono da un disprezzo profondo per il ci nema e peril pubblico per il quale i film vengono realizzati. Un romanziere si serve delle

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parole, con tutto il potenziale di suggestione e concisione che le parolehanno. In una frase può dipingere e caratterizzare tutto un personaggio, rive-lare tutto il mistero di una vita. Ma un regista non può fil mare questa frase: ènecessario allora inserire nel film una scena nuova, che non c’era nel ro -manzo, ma che permette di far comprendere il background del personaggio oun elemento dell’azione che altrimenti sarebbe rimasto oscuro. Io dico chel’osservazione rituale: “Ma questo nel libro non c’è!”, è in realtà un omaggioreso allo scrittore e al regista».

C’è poi il problema luministico - tipico e spe cifico elemento del linguag-gio cinematografico - che DeMille affronta con serietà e con il contri butodecisivo dei suoi operatori Whickoff e Struss. «Quando lavoro - scrive - iocompongo una scena esattamente nello stesso modo che se quella scenadovesse essere disegnata o dipinta. Lo fac cio, non spostando la gente arbitra-riamente o ca sualmente nello spazio utile davanti alla macchina da presa, maguardando dentro l’obiettivo». Vale a dire che per DeMille l’inquadratura, neisuoi ele menti minimi, viene costruita a partire da una distribuzione precisa ed“espressiva” dei corpi e delle forme da inquadrare, in funzione dell’equilibriodelle luci e delle ombre, degli spazi esistenti fra gli oggetti, delle lontananzee delle prospettive. «Noi dipingiamo con le luci», scrive ancora DeMille all’i-nizio degli anni Venti, e conse guentemente, nei suoi film, viene spinta finoalle estreme conseguenze la ricerca espressiva sulla luce artificiale, utiliz-zando i tesori ereditati dalla foto grafia artistica o ancora meglio dalla pittura(«un’illuminazione alla Rembrandt o alla Vandyke» o, più semplicemente,«un effetto Corot» sono le abituali indicazioni date ai cameramen): e quindichiaroscuri e controluce, effetti di fumo e sfondi neri, luci dal basso e ombrespioventi, in vece della semplice illuminazione uniforme delle superfici comeall’epoca era uso fare. E ancora, l’utilizzazione puramente espressiva e rit-mica del piano americano, introdotto già con The Heart of Nora Flynn(1916), con il personaggio e l’oggetto da lui guardato contenuti nella stessainquadratura, per superare la stucchevole neces sità del montaggiocampo/controcampo, detta glio/campolungo; il rapporto molto aperto e colla -borativo con gli attori; l’uso assai anticipatore del co lore (in Joan the Woman,1916) o della musica di accompagnamento (di cui DeMille curava perso -nalmente la scelta e le partiture) o delle didasca lie, quasi mai impiegate perspie gare i comportamenti dei personaggi, ma quasi sempre per spostare inavanti la storia, per ri durre al minimo i “passaggi” narrativi ritenuti inutili ecosì via.

Il discorso è ancora più evidente quando dalle scelte di regia si passa adanalizzare le strutture narrative, le grandi rappresentazioni storico-religiose.

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Nel cinema di DeMille non ci sono soltanto temi ricorrenti (come puòsem brare) o valori morali da ribadire come ipotesi di un progetto unitario, c’èsoprattutto un modo personale di raccontare e ambientare storie sem prediverse e sempre uguali. Le storie assolute ed esemplari di eroi ed eroinecoincidono nelle loro cadenze e nelle loro soluzioni con le vicende esi -stenziali di donne e uomini che quotidianamente devono confrontarsi con lesfide del destino. Santa Giovanna o la casalinga che intro ducono e concludo-no il film sono due aspetti dello stesso discorso, uno complementare all’altro,una eco dell’altra. Più vicine a Propp che a Esopo o Fedro, le fabule demil-liane confermano i loro va lori di base, che però, con la stessa logica, potreb-bero tranquillamente venire ribaltati e negati. Gli eccessi del lusso di Sansonee Dalila o il barocco kitch di Cleopatra, o le orge e le crudeltà inaudite e sem-pre un po’ compiaciute (donne marchiate a sangue, uomini umiliati a morte),gli amori e i tradimenti inevitabili, for mano un teatro morale in cui tuttodiventa am missibile, e dove non c’è quasi mai spazio per condanne e anate-mi, ma solo una messa in scena “neutrale” e talvolta cinica dei vizi e delledebolezze umane. È un atteggiamento laico, d’autore, che passa indifferente-mente dal teatro filmato degli esordi ai primi kolossal storici, dai “drammimondani” alle epopee religiose. Come ha scritto Jacques Lourcelles (cfr.Présence du Cinéma, nn. 24/25, 1967) l’insegnamento biblico e i temi delcastigo e della colpa ispirano indiffe rentemente anche i film demilliani sullacoppia e sui pionieri, le saghe in costume come le comme die leggere. È sem-pre un problema di inadegua tezza personale o morale rispetto alla propriacondizione esistenziale: coppie infelici perché malassortite, eroi ed eroinepre destinati al martirio perché non in sintonia con le ragioni del loro tempo edel contesto in cui vivono. I conflitti sentimentali o di classe o razziali nonnascono mai per caso ma sono sempre in funzione di un disegno già traccia-to. A metà fra melo dramma e tragedia, kolossal e teatrino di senti menti,DeMille è invincibilmente attratto dagli uomini che ad un certo punto dellaloro esistenza mettono in gioco se stessi, chiamati a misurare la loro vita suvalori che appaiono sempre un po’ eccessivi rispetto alle loro possibilità: e illoro destino, infatti, è spesso il sacrificio estremo, il dono dì sé. Credente suigeneris, per DeMille que sto è anche un modo per vivere Dio e la fede, un rap-porto con la religione visto attraverso il pri sma della sua fantasia personale edella sua con cezione del lavoro sul set. In questo senso, al di là dei valori dimerito e dei giudizi anche ne gativi che si possono esprimere su molti dei suoifilm, DeMille è un autore moderno soprattutto per la ca pacità di compromet-tersi totalmente con le ra gioni, i valori e i limiti del suo cinema, di cui si ritie-ne artefice e responsabile assoluto.

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A cavallo dei secoli e dei millenni, attraver sando le regge babilonesi e gliaccampamenti in diani, i Grand Hotel fastosi e le case di correzione femmini-li, rappresentando i templi della cri stianità e i bordelli della borghesia, perDeMille è sempre stato un problema di felicità e sofferenza, e di come siapossibile rappresentare tali sen timenti sullo schermo. Con il suo cinema sipuò partire dalla Bibbia o, indifferentemente, dalle strutture sovradimensio-nate del kolossal, ma si arriva sempre al lusso sfrenato o alla prosaicità dellarealtà quotidiana.

Credo sia per questa modernità un po’ indiretta e trasversale che mentre lacritica ha trascurato gli aspetti autoriali del cinema di DeMille, un autorespettacolare e popolare come Steven Spielberg ha riconosciuto in questocinema un punto di riferimento insostituibile per la sua opera. La contiguitàfra questi due autori non può essere riferita solo al modo pragmatico e disin-cantato di utilizzare materiali narrativi/espressivi molto riconoscibili, popo-lari e, quindi, inesauribili (i temi biblici come i fumetti anni ‘4O e ‘5O o i car -toons più amati dal pubblico infantile), ma soprat tutto nel modo di porsi,altrettanto diretto, nei confronti dei gusti e delle attese del pubblico, non inse-guendo mai le mode ma semmai imponendole. In questo senso i film diDeMille e di Spielberg si assomigliano proprio nelle loro istanze di base,come progetti estetici e come finalità produttive. Più ingenui e rozzi, di presasicura nel disegno narra tivo ma imperfetti e schematici nella tessitura minu-ta del racconto e nel gioco dei contrasti, i film di DeMille sono in ogni casoimmediatamente ricono scibili, hanno una cifra stilistica forte e indelebile: illoro è più un marchio di fabbrica (“cinema di DeMille” appunto) che non un“touch” alla Griffith o alla Lubitsch. Più ricercati, consapevoli e sa pienti, maaltrettanto diretti e chiassosi, i film di Spielberg non si omologano semplice-mente alle superproduzioni correnti proprio perché non as somigliano a nes-sun altro modo di “fare” spetta colo, proprio perché sfuggono ad ogni regolame diologica che non sia quella della stretta speci ficità del cinema, della ine-sauribile potenzialità dello schermo.

È in questa specificità che sia DeMille che Spielberg, a diverso livello,superano l’intermediazione della critica per cercare il confronto con il pub-blico. Se è vero che il bisogno di cinema ha quasi sempre coinciso con il suoconsumo, ci sono autori, e DeMille e Spielberg sono certamente fra questi,che hanno dato corpo e forma a quel “bisogno” di cinema indipendentemen-te dal tipo di consumo esistente, semplicemente sosti tuendolo con la loroesperienza, incarnando loro stessi, con il loro lavoro, i loro gusti e il loromondo creativo, le ragioni del pubblico, spesso antepo nendosi al pubblico oinventandosi addirittura un pubblico. È l’idea di onnipotenza sempre pre sente

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nel cinema di DeMille e da cui non si può prescindere. L’idea di un cinemané completamente classico né completamente moderno, sicuramente atipico,atemporale, che ha o che manifesta una grande sicurezza, che non si arrestadavanti a nulla, che fa vedere sempre tutto, senza paura e ritegni. Un cinemasenza dissolvenze, né ellissi narrative, né fughe o deviazioni più o meno abilie astute. Un cinema che offre e mantiene quello che promette. Onnipotenzadunque nei riguardi del pubblico, ma anche nei riguardi dei temi, dei mate-riali, delle forme espressive utilizzate.

A proposito di DeMille, Spielberg ha confessato una volta di non essersimai ripreso dallo shock subito vedendo da bambino, la scena sconvolgentedella catastrofe ferroviaria di Il più grande spet tacolo del mondo, una scenadi distruzione e catarsi, di morte e resurrezione, in cui grazie al cinema tuttosi distrugge e tutto risorge. Un’immagine che per Spielberg deve essere stataquasi una specie di “scena primaria”, che difatti racconta di aver cercato diripetere più volte con i trenini giocattolo regalatigli dai genitori e che noncessa di evocare in quasi tutti i suoi film, come anche nella scena iniziale diIndiana Jones e l’ultima crociata, con il piccolo Indi che vede mate rializzarsiall’improvviso, nel deserto dello Utah, trasportato da un treno in corsa primadel disa stro, proprio il circo equestre filmato da DeMille in Il più grandespettacolo del mondo.

Il circo e il cinema come forme estreme di un immaginario che lega ilpubblico al massimo dell’illusione (l’assoluta libertà della fantasia) e al mas-simo della costrizione (il cerchio chiuso dell’arena e della platea, della fami-glia e della tribù, dell’educazione sociale e dei doveri morali). Libertà ecostrizione, cioè i princìpi essenziali del loro cinema, così apparen tementeeffimero eppure così rigorosamente lo gico, eccessivo eppure necessario.

Un cinema che in DeMille (come anche in Spielberg) si pone sempre unpo’ come sfida (osare un poco di più, andare sempre un poco più oltre) ecome affermazione (verificare e ribadire un con tatto naturale e tutto istintivocon le attese del pubblico), ma anche come possibilità di ripetere anche unpo’ ossessivamente i sentimenti primari della curiosità e della meraviglia.

Ha raccontato ancora Spielberg in un’intervista: «Sono nato in Arizona, inun posto dove l’aria è purissima e dove c’è la fortuna di godere meraviglio-se notti stellate. Ricordo che una notte, da bambino, mio padre mi ha sve-gliato: erano quasi le tre di mat tina. Siamo andati su una collina dietro casa eabbiamo disteso in terra una coperta. Ci siamo sdraiati e, sopra di noi, abbia-mo ammirato una pioggia favolosa di meteoriti. Era uno spettacolo straordi-nario. Da quella volta, la mia testa è ri masta un po’ fra quelle nuvole, inmezzo a quelle stelle». È un ricordo che assomiglia molto a quello confessa-

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to da DeMille nella sua autobiografia: «Quando avevo undici anni, ogni seramio padre ci leggeva un brano dell’Antico Testamento, uno del Vangelo espesso anche un episodio della storia americana, oppure un brano diTacheray, Victor Hugo o qualche altro autore classico. Aveva una voce fortee molto bella, ben modulata, un grande senso drammatico. Voleva fare l’at-tore. Con lui ogni cosa che leggeva sembrava vera».

Ecco, la Bibbia, l’astronomia e la fantascienza, il passato e il divenire, larealtà, lo spettacolo, il cinema, cioè un mezzo che consente allo spettatore divedere cose impossibili (o proibite), che fa sembrare vere anche le fanta sie.Nei kolossal come li intendeva e realizzava DeMille non è mai stata una que-stione di dimen sioni ma di scelte espressive. Non un cinema semplicementegrandioso, volutamente sovradimensionato, ma un ci nema capace di far asso-migliare il più possibile l’emozione del pubblico immerso nel buio di una salacinematografica allo stupore di un bambino sotto un cielo ca rico di stelle.

In Segno Cinema (“Sotto un cielo di stelle”), n. 47, gennaio-febbraio 1991

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LUIS BUNUEL: LA COSCIENZA DELL’IRREALTÀ

Realista visionario, moralista anarchico, miscredente mistico, pessimistasenza disperazione: suggestive e sempre insoddisfacenti queste e altre defini-zioni date di Luis Buñuel e del suo cinema, nel cercare di dare forma e con-fini ad una indeterminatezza estetica ed espressiva che è vano, e forse con-troproducente, delimitare e decifrare. Come la lettera rubata di Poe, il miste-ro del cinema di Buñuel è di essere cinema pochissimo misterioso, un corpusestetico e linguistico che si definisce proprio nell’impossibilità di definirel’indefinibile o, più precisamente, nell’inutilità di distinguere nei suoi film ilreale dal fantastico, l’istinto più naturale, vitale e segreto degli uomini dallaragione e dalla logica («Le immagini, come quelle del sogno - dice Buñuel -non riflettono mai la realtà: la creano»).

Dunque, tentare di decifrare la personalità di un autore come Buñuel o lanatura del suo cinema (complesso, ondivago, provocatorio ma sempre coe-rente) secondo i parametri tradizionali della contraddizione o dell’ambiguità,può essere riduttivo perché significa in qualche modo rinviare il momento diun’analisi più materialistica, in cui le opere di Buñuel vengano prese perquello che realmente sono, non elementi funzionali ad un assioma estetico eideologico, ma un modo di avvicinare e rappresentare la realtà senza schemie supporti linguistici precostituiti. In Buñuel il punto più estremo di surreali-smo è stato raggiunto non con le deliranti fantasie di Le Chien andalou, manella realtà degradata e nella follia di Las Hurdes. In questo senso nel suocinema le “contraddizioni”, le “rotture”, gli “scandali normativi”, sono luo-ghi ricorrenti di un itinerario consapevole, sono elementi di un tutto, ma sonosoprattutto loro stessi, i testi, il corpus dei film, i segni di ogni possibile chia-rimento e approfondimento. Dal surrealismo al manifesto politico, dal docu-mentario alla fiction, dall’invettiva blasfema all’apologo morale, in Buñuelc’è sempre la compresenza di materiali spuri, appartenenti a campi semanti-ci ed emotivi diversi. Peculiarità del suo cinema è di non rendere mai mani-festi i caratteri opposti, e comunque di non considerarli mai irreversibili, maviceversa di fare convivere e interagire, con una giustapposizione mai sotto-lineata, la natura e il senso più intimo dell’uno e del suo contrario. Fondendoinsieme l’assurdo con il quotidiano, lo scandalo con la norma, la forza pro-rompente dell’irrealtà e la misura oggettiva della ragione e della logica,Buñuel non normalizza i contrasti, ma li rende invece vitali, li dilata, li esa-spera, dona loro ulteriore slancio, vigore e potenzialità espressiva. È da quiche nasce il senso liberatorio di un cinema che ha in sé la capacità di porre

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sempre il sogno (e l’incubo) all’interno di un disegno narrativo in cui anchele stranezze e le anomalie più estreme si spiegano e si motivano con gli acca-dimenti più naturali, e dove la realtà rappresentata appare ambigua, vulnera-bile, pronta sempre ad essere contraddetta e superata.

Quelle filmate da Buñuel sono zone di realtà “certe”, sociologicamente enarrativamente riconoscibili (il mondo dei diseredati e dell’alta borghesia, imendicanti e gli aristocratici, i prelati, i massoni, i miscredenti, i tutori dellalegge e i banditi, gli analfabeti e i filosofi). E in questo universo, “certo” einsieme inaffidabile, dove, per esemplificare, i folli si esaltano nella beatitu-dine e i santi tradiscono in ogni momento la loro perversione, Buñuel riaf-ferma di film in film una cifra d’autore indelebile: per capire il mondo e lesue leggi non si può fare a meno del sogno, del mito, dell’irrazionale, di unpo’ di follia. E in questa utilizzazione ossessiva degli stessi materiali e pro-cedimenti, la sua filmografia, pur piena di rotture e scarti laterali, trova unacontinuità di fondo e dunque una proficua ipotesi di lettura. Il sacro è vistocome una dimensione esistenziale in cui si svelano meglio i sintomi e le pato-logie, la promiscuità dei diversi è la riconferma di un’unitarietà in cui si com-pongono e scompongono sviluppi inattesi e combinazioni di segno uguale econtrario. In questo procedere, Buñuel non si limita ad allineare spunti nar-rativi e soprassalti emotivi, ma li accumula e moltiplica, quindi in qualchemodo li annulla.

In termini linguistici, la singola inquadratura e la sequenza, il dettaglio el’insieme, costituiscono poli autonomi e corrispondenti di una stessa possibi-le lettura e/o interpretazione: la metafora o il simbolo, il materiale onirico ela rappresentazione oggettiva non si sovrappongono ma sono elementi chealludono sempre a “qualcosa d’altro”, qualcosa che determina dubbi o incu-te inquietudini, che comunque mette a disagio anche parlando di cose “estre-me” e quindi “lontane”.

Interessante non è dunque indagare l’anomalia di un cinema che anomalonon è, ma capire semmai la meccanica di un procedimento che riesce ad esse-re “realistico” sovvertendo ogni pratica di realismo. Se la coscienza dellarealtà è sempre pre-supposta e quindi vissuta, necessariamente, con quotidia-nità e disattenzione, il momento successivo della percezione costringe aripercorrere esperienze ed emozioni, a rivalutare osservazioni prima trascu-rate, a superare infine lo stato di emotività facendolo coincidere con un altrosuccessivo, più controllato e razionale. Scoperta la discriminanterealtà/irrealtà: l’irrealtà che stimola e dilata il momento riflessivo, l’emotivitàchiamata a confrontarsi con la ragione, la situazione “abnorme” (irreale) chesi presenta attraverso stereotipi e convenzioni, tutto questo determina un

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atteggiamento vigile (“critico”) rispetto alla materia proposta, al di là del-l’arbitrarietà di partenza e del soggettivismo più sfrenato. Quindi, la perce-zione della realtà come coscienza dell’irrealtà, come razionalizzazione delleemozioni più estreme: se gran parte del cinema di Buñuel non è soltanto que-sto, è però soprattutto questo. L’apparente “eccentricismo”, le “anomalie”, le“provocazioni”, il surrealismo, sono quasi sempre la disarticolazione di unframmento isolato della realtà rispetto al contesto cui quel frammento appar-tiene. La realtà rappresentata in film come Bella di giorno o Tristana o ancheEstasi di un delitto non è mai astratta, né espressionisticamente deformata, èsemplicemente dislocata fuori delle normali attitudini percettive e interpreta-tive. Buñuel, con le sue provocazioni (narrative, stilistiche, espressive), sti-mola la coscienza e la disattenzione dello spettatore, e questa semplice ope-razione, che risale alle origini del cinema (Lumière), riesce ad essere di persé dirompente proprio perché “naturale”, apparentemente fuori da ogni “pro-getto”, quasi involontaria.

Parallelamente a questo processo di sterilizzazione della realtà, il cinemadi Buñuel rifiuta lo statuto della narrazione come elemento centrale su cuifondare il processo comunicativo con lo spettatore. I personaggi e le situa-zioni dei suoi film sono “riconoscibili”, come abbiamo visto, nei loro datisociologici, ma anche, linguisticamente, come oggetti-stereotipi di un“intreccio” sempre inteso come pura convenzione. Nei personaggi buñuelia-ni, come nell’evolversi delle situazioni, tutto si svolge secondo un processoche può apparire a volte illogico e trasgressivo, ma che è comunque inelutta-bile. Séverine, protagonista di Bella di giorno (forse il film più esemplifica-tivo alla luce di questo discorso) o Tristana, protagonista dell’omonimo film,sono poste fuori di ogni possibile dialettica: immerse in un tempo e in unospazio illusori (il tempo e lo spazio della loro immaginazione: senza nostal-gie per il passato, senza attese per il futuro), compiono azioni separate da unmomento psicologico o da una riflessione che in qualche modo le motivi.Esse non sono chiamate a compiere delle azioni, ma semplicemente a rap-presentarle. Il loro itinerario è prevedibile solo nella circolarità a cui sonocondannate, nell’ineluttabile vertigine di dover comunque ritornare al puntodi partenza o di non poter riuscire a bruciare i ponti alle spalle. Quasi appun-to che l’impasse, il girare a vuoto, la prevedibilità degli accadimenti (o la pre-vedibilità di ogni possibile colpo di scena) servisse in qualche modo adaccentuare il loro distacco emotivo e, quindi, a provocare effetti di volta involta più profondi e laceranti.

In questo senso è significativo l’uso della memoria e del flash-back nelcinema di Buñuel: mai tradizionale, mai impiegato come “rimando a...” o

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come soluzione che serva a spiegare alcuni passaggi della storia. In filmcome Bella di giorno o La via lattea o Il fascino discreto della borghesia, ilflash-back o il flash-forward, o comunque la dimensione onirica e fantastica,oltre ad aver un tempo e uno spazio del tutto autonomi, rimangono elementilinguisticamente e stilisticamente ambigui nel loro porsi come antitesi espres-sive del “presente rappresentato” o del “passato evocato”, nella sovversionee nel ribaltamento di ogni elemento temporale, di ogni procedimento dicausa/effetto.

Anche qui Buñuel fonde la metafora con il realismo, non ne dissocia idiversi statuti espressivi, non ne valorizza dialetticamente i contrasti: decon-testualizza semplicemente il dato reale e sottolinea l’ambiguità della metafo-ra. Le immagini non sono, così, mai omologhe all’oggetto che rappresenta-no, ma il senso (il loro fine demistificatorio) supera la forma che le costitui-sce, definisce e motiva (la loro strutturazione tradizionale). L’ambiguità,quindi, non come valore in sé, ma come iterazione di un equivoco interpreta-tivo, come un possibile tramite fra simbolismo e demistificazione del simbo-lo stesso.

Voler interpretare i film di Buñuel, dunque, significa spesso giungere ascorgere nel “film” il “non-film”, con un’operazione certamente arbitrariache non soddisfa mai del tutto, non concilia, non ripaga. Nei rapporti con lospettatore tutto si risolve nel rinvio ad un individuale e soggettivo prolunga-mento interiore. Che, da solo, è un gran bel risultato.

Insomma, qualsiasi “interpretazione” del cinema buñueliano è puntual-mente rimessa in gioco dal valore di scambio dei vari piani espressivi messiin campo (affermazione/ negazione, sogno/realtà, libertà/costrizione ecc.) edalla realtà rappresentata, che ogni volta irride (e insieme conferma) anche lapiù estrema delle fantasie.

«I sogni non si approvano né si giudicano, li si sogna, semplicemente»,dice Luis Buñuel, e in questa frase c’è, evidentemente, anche la definizionedi un modo di vivere e intendere il suo cinema. Così come i suoi film, pienidi lucidi incantesimi e inquieti risvegli, Buñuel è realistico e utopico insieme:rappresenta storie e fatti di cronaca (ma niente, si sa, è più politico della cro-naca), e non si stanca di evocare sogni (ma niente, si sa, è più realistico delsogno).

In Cinema & Film (“Belle de jour come coscienza dell’irrealtà”), n. 4 - autun-no 1967; poi in Cinecritica, n° 15 - ottobre/dicembre 1989

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HENRI ALEKAN: LO SGUARDO DEGLI ANGELI

Il cinema non è l’arte del bianco e nero, è invece l’arte del grigio, dell’in-finita gamma di colori e sfumature possibili fra il bianco lattiginoso e sfug-gente della dissolvenza e il nero ambiguo di una “notte americana”. Lo hadetto e dimostrato il grande Henri Alekan con più di 50 anni di carriera dadirettore della fotografia spesi soprattutto a provare la fondatezza di un par-tito preso estetico: è sempre più vera una luce ricreata in teatro di posa chenon una luce inseguita in esterni e poi forzatamente corretta con filtri e rifles-si. Una lezione antica, imparata lavorando con Jean Cocteau (La bella e labestia, 1945) e Marcel Carné (La vergine scaltra, 1949), e mai più rinnega-ta, neppure sui set di Wyler (Vacanze romane, 1953) o Wenders (Lo statodelle cose, 1982), di Losey o Robbe-Grillet.

Racconta la leggenda che un giorno, liceale in vacanza a Villefranche-sur-Mer, Alekan assistette alle riprese di un film americano. «Un prodigiosodispiegamento di mezzi tecnici - ha ricordato in un’intervista - trasformavaogni sera il porto della città in una grande magia. Passai cinque notti in bian-co e furono le notti che decisero la mia vita». La differenza è che l’impegnodi Alekan nel cinema è stato soprattutto di affrancarsi il più possibile dalladovizia dei mezzi messi a disposizione dalla tecnica e dalle produzionimiliardarie e di ottenere invece il prodigio della luce e del tono giusto solocon quello che era messo a disposizione. «Per modellare bene la luce – hadetto - non è vero che occorrono strumenti scientifici, bastano delle buste dicellophane. E le ombre si fanno anche usando il tulle e la carta. Gli uniciautentici miracoli li fa sempre la pellicola, che è passata negli anni da 12 a400 ASA e molto oltre». Che vuol dire raggiungere il massimo del realismocon il più dichiarato degli artifizi: in questo Henri Alekan è davvero un mae-stro irraggiungibile. Lo sa bene Wenders che per Il cielo sopra Berlino haquasi costretto l’ottantenne Alekan a tornare per lui sul set. «Solo Alekan - haammesso Wenders - avrebbe saputo ricreare l’universo magico degli angeli,esseri che non conoscono il mondo fisico e neppure i colori». Lo sguardodegli angeli e il colore del bianco e nero. Un battito di ciglia in primissimopiano a riempire l’obiettivo, qualcosa che sta nell’aria, sospeso sullo scher-mo, e forse già non c’è più. Il bianco e il nero del cinema, e fra l’uno e l’al-tro l’infinita gamma di grigi di Alekan.

In Dolce vita, anno II, n. 14, novembre 1988

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L’EFFETTO MANOEL DE OLIVEIRA

Classe 1908, Manoel De Oliveira comincia a fare cinema nel 1929, ma, aparte gli addetti ai lavori, pochi fuori del Portogallo se ne sono accorti fino ametà degli anni Sessanta (Acto da Primavera e A caça) e poi all’inizio deglianni Ottanta, quando il clamoroso successo del suo Francisca (1981) lo fadiventare autore di culto. È sempre negli anni Ottanta che il cinema di DeOliveira assume la sua definitiva struttura formale, e che i suoi film comin-ciano a parlare con un ritmo “diverso”, scandito e solenne, a raccontare sto-rie narrativamente essenziali (anche se ispirate a drammoni d’amore borghe-si), ad esprimersi con una teatralità accentuata e, infine, ad essere segnatidalla saudade e dal rimpianto. Uno spostamento estetico notevole e quasiimpensabile in un autore partito dal naturalismo estremo (Douro, faina flu-vial, 1929) e dal documentario (Famaliçao, 1941). È con Acto da primavera(1963), lungometraggio girato con dei contadini che in un villaggio recitanola passione di Cristo, che De Oliveira resta colpito dalla staticità ieratica deiprotagonisti di quella rappresentazione popolare, e cambia radicalmente ilsuo modo di girare. «Il partito preso di moltiplicare i piani ravvicinati - scris-se all’epoca Jean-Claude Biette su “Cahiers du Cinéma” – opera una fusionedi stoffe monocrome, di visi, di capigliature, di frammenti di cielo e di pian-te, che assicura una continuità musicale dove l’armonia riveste il canto». Econ questo accorgimento stilistico il film ottiene dal pubblico una «comunio-ne totale e insieme un distanziamento pagano». La corona di spine, i chiodi,la lancia nel fianco del Cristo, il sangue, trovano nel contesto naif della mes-sinscena una forza sconvolgente, pari alle inquadrature di Hiroshima, delleguerre, dei campi di sterminio nazista. Da allora i fondali dipinti diverrannouna regola nel cinema di De Oliveira (come i trasparenti nei film diHitchcock), e la parola (o meglio, il profluvio verbale dei protagonisti) saràl’elemento centrale di un cinema estremo che rifiuta per scelta “l’oscenità delmostrare”. Il melodramma sembra a De Oliveira il genere ideale per raccon-tare l’anima più profonda e aristocratica della società portoghese, e nei suoifilm il calore delle passioni viene sottolineato sia dagli elementi naturali (ilvento, l’acqua, il fuoco), sia dall’inevitabile evolvere dei destini umani (desi-derio, morte, tradimento). È la stagione più felice di De Oliveira, scandita dacapolavori come O Passado e o Presente (1971), Benilde, ou a Virgem Mae(1975) e, appunto, Francisca. Oggi De Oliveira è un Maestro riconosciuto eper consentirgli di realizzare il suo kolossal, Le soulier de satin, si sono addi-rittura mobilitati i Ministri della cultura francese, Jack Lang, e portoghese,

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Coimbra Martins. Giustamente, perché Le soulier de satin, è un’opera-testa-mento per molti aspetti, non certo per l’età di De Oliveira (che ha tutta l’in-tenzione di continuare a lavorare a lungo), e neppure per le sue dimensioni(sette ore di durata, 85 personaggi), ma perché mette il punto, nel segno dellaperfezione formale, a una lunga fase creativa. Le soulier de satin racconta glianni mitici della storia dell’occidente a cavallo del ‘400 e ‘500, l’epoca dellegrandi scoperte e delle navi dei Conquistadores, il momento in cui il vecchioe il nuovo mondo si incontrano e gli imperi coloniali vivono il loro trionfo.Su questo sfondo di radicali trasformazioni geografiche, storiche, culturali,Manoel De Oliveira costruisce il suo film forse più grande e definitivo, ispi-randosi all’omonimo poema di Paul Claudel. La trama del film è pratica-mente irraccontabile, per la moltitudine dei personaggi e i labirinti dell’in-treccio. In estrema sintesi è una storia di continenti e di imperi, di grandiviaggi e umane dannazioni, vista attraverso l’infelice vicenda d’amore diDon Rodrigo, nobile cavaliere spagnolo, e Donna Prodezza, giovane mogliedel vecchio Don Pelagio, governatore di un piccolo protettorato africano. Unamore maledetto segnato dal destino (sul punto di seguire il suo amante,Donna Prodezza offre simbolicamente alla Vergine la scarpa di raso del tito-lo: andrà incontro al male, ma lo farà “zoppicando”). Un amore ostacolato daavventurieri e pirati, assedi e battaglie, disobbedienze e rinunce: più che unamore un desiderio inestinguibile, un sogno inaccessibile. Ma la storia è soloil supporto di un’opera che è ricca come un tesoro, traboccante di stelle e ple-niluni («notti con le stelle/lustrini rapidi sul tuo vestito frangiato di infinito»,Claudel), di deserti e oceani, palazzi reali e campi di battaglia, e in cui i per-sonaggi (dovere dell’epoca e del rango) non si limitano a spostarsi da unpaese all’altro, ma affrontano continenti (l’Africa, l’Europa, le Americhe).Opera gigantesca e anomala, dove il classico “più classico” assomiglia all’a-vanguardia più smodata, interamente giocata sull’accumulazione e sulla per-cezione visiva, Le soulier de satin è una festa dell’immagine, una “magnacharta” cinematografica che misura l’amore e la sete di potere, ma anche ilcosmo, la terra degli uomini e il mondo degli dei (che più volte scendono incampo), e dove il fedele trova il suo Dio, il laico trova conferma nell’impon-derabile e nel dubbio, il romantico la provvisorietà dei sentimenti, e così via.Tutto questo raccontato con lo stile consueto di De Oliveira, severo e rigoro-so, metodico e rituale. La narrazione è suddivisa in capitoli e siparietti, sepa-rati da titoli e didascalie. La centralità della macchina da presa, bloccata adelimitare uno spazio fisico e un campo visivo assolutamente astratti e idea-lizzati, all’interno di situazioni ed eventi che si svolgono “prima e dopo”, esempre altrove, da cui giungono solo echi e accennate reazioni. Movimenti di

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macchina limitati al massimo, quasi sempre piccoli spostamenti laterali, men-tre la profondità di campo è misurata dai personaggi che, di volta in volta, siavvicinano e si allontanano dall’obiettivo. Una recitazione classica, priva diemozioni che non siano quelle della parola e del verso, con gli attori che pro-nunciano i loro lunghi monologhi restando immobili, quasi in stato di trancee spesso guardando ostentatamente in macchina, ad eleggere l’occhio dellospettatore come privilegiato interlocutore. Uno stile di regia che naturalmen-te attira le accuse di sempre. Cinema teatrale, teatro filmato. Niente di piùfalso. Quello di De Oliveira è cinema al cento per cento della sua potenzia-lità espressiva. In teatro l’occhio dello spettatore si sposta, sceglie, privilegia.Nell’inquadratura di De Oliveira, fissa e reiterata, lo sguardo dello spettatorenon ha scampo ed è costretto a non perdere nulla. Il risultato è che il campovisivo delimitato dalla focale – in cui tutto avviene e tutto il resto è escluso –moltiplica e dilata il senso espressivo ed emotivo dell’immagine. Importantinon sono mai i personaggi inquadrati e neppure le parole che dicono, ma ipensieri che stanno dietro e muovono tutto. Tra l’altro, Le soulier de satin èanche il film in cui De Oliveira affronta più esplicitamente (quasi ironica-mente) la dialettica teatro/cinema. Mostrando il teatro con i suoi orpelli e isuoi trucchi scenici (fondali, dipinti, praticabili girevoli, boccascena, ecc.) esovrapponendogli il cinema con il set pieno di luci, i macchinisti che in abitimoderni si mischiano agli attori in costume. Le soulier de satin è probabil-mente il film della piena maturità espressiva di De Oliveira, per la smaglian-te bellezza delle immagini, per la gamma dei colori (la pittura di Rubensprima di tutto), per la perfezione della presa diretta, per la maestosa scansio-ne dei tempi narrativi, ma soprattutto perché porta all’estremo limite l’ideateorica che sostiene tutto il suo cinema. Cinema monocorde e monotono, mache ad entrarci “dentro”, nei suoi ritmi misteriosi e nel suo respiro, diventauna fonte inesauribile di emozioni e scoperte. Cinema formalisticamentebloccato, ripetitivo, certo, che però sa utilizzare, prodigiosamente, pittura,scultura, musica, danza, canto. Cinema classico, ma anche cinema modernoper le provocazioni che impone e le reazioni che determina. A 77 anni DeOliveira ammette di essere ancora alla ricerca di cosa sia quello strano “pois-sonne” (pesce femmina) che è il cinema, «un animale sopravvissuto ad epo-che e a ingenuità» (le invenzioni di Méliès, gli entusiasmi del cinéma-direct,le strattonate delle avanguardie). Un cinema che ha fatto tanta strada e ne faràaltrettanta, verso i suoi limiti più insondati, esattamente come insiste a fare,perfetto e totale com’è, il cinema di De Oliveira.

In Reporter, 3 settembre 1985

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