Pierluigi Chiassoni - Il Precedente Giudiziale - Nozioni Interpretazione Rilevanza Pratica

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Pierluigi Chiassoni Il precedente giudiziale: nozioni, interpretazione, rilevanza pratica 0. Precedente giudiziale e filosofia analitica del diritto I filosofi del diritto d’indirizzo analitico sono una categoria d’importuni. Sono soliti pensare, ad esempio: (1) che i termini tecnico-giuridici utilizzati dai pratici del diritto (avvocati e giudici) e dai giuristi, nel quotidiano disbrigo delle loro attività istituzionali, siano sovente equivoci; (2) che i concetti tecnico-giuridici utilizzati dai pratici del diritto e dai giuristi, nel quotidiano disbrigo delle loro attività istituzionali, siano sovente indeterminati (vaghi, imprecisi, oscuri) e pragmaticamente poco o punto giustificati; (3) che i pratici del diritto e i giuristi non siano pienamente consapevoli dei difetti del loro apparato terminologico e concettuale – dimodoché costoro continuerebbero inavvertitamente a servirsi di termini equivoci e di concetti indeterminati, con il risultato che i loro discorsi sarebbero spesso, nelle parole di John Austin, «un tessuto di espressioni malcerte», non di rado volti a fornire una soluzione a problemi mal posti; (4) che, pertanto, sia “loro” compito (dei filosofi analitici, s’intende) – in quanto metodologicamente meglio attrezzati per farlo – procedere all’analisi e alla ricostruzione razionale (ridefinizione perspicua) dell’apparato concettuale della scienza giuridica e della pratica forense, al fine di sostituire il farraginoso apparato corrente, con un nuovo apparato, costituito di concetti determinati e distinti. Peraltro, la terapia proposta dai filosofi analitici dovrebbe – nelle intenzioni di costoro – dispiegare effetti non limitati ai discorsi dei giuristi, i.e. alla dimensione linguistica della iuris prudentia, investendo invece lo statuto disciplinare e il metodo della scienza giuridica, indotta a una riflessione sulle proprie funzioni e sui modi per assolverle. Con riguardo all’apparato terminologico e concettuale usato dai pratici e dai giuristi nei loro discorsi sul precedente giudiziale, questi modi di pensare si ritrovano sia negli scritti dei fondatori della filosofia analitica del diritto – Jeremy Bentham e John Austin 1 ; sia, più Contributo al Seminario “Metodologia nello studio della giurisprudenza”, Dottorato di ricerca in Diritto Privato, Università di Genova, 22 giugno 2009. 1 Cfr. J. Austin, The Uses of the Study of Jurisprudence, in Id., The Province of Jurisprudence Determined, 1832, ed. H.L.A. Hart, New York, The Noonday Press, 1954, p. 372, dove, accennando al diritto giurisprudenziale (“judiciary law”, “common law”, “judge-made law”), osserva: «I find it much vituperated, and I find it as much extolled; but I scarcely find an endeavour to determine what it is. But if this humbler

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Pierluigi Chiassoni Il precedente giudiziale: nozioni, interpretazione, rilevanza pratica∗ 0. Precedente giudiziale e filosofia analitica del diritto

I filosofi del diritto d’indirizzo analitico sono una categoria

d’importuni. Sono soliti pensare, ad esempio: (1) che i termini tecnico-giuridici utilizzati dai pratici del diritto

(avvocati e giudici) e dai giuristi, nel quotidiano disbrigo delle loro attività istituzionali, siano sovente equivoci;

(2) che i concetti tecnico-giuridici utilizzati dai pratici del diritto e dai giuristi, nel quotidiano disbrigo delle loro attività istituzionali, siano sovente indeterminati (vaghi, imprecisi, oscuri) e pragmaticamente poco o punto giustificati;

(3) che i pratici del diritto e i giuristi non siano pienamente consapevoli dei difetti del loro apparato terminologico e concettuale – dimodoché costoro continuerebbero inavvertitamente a servirsi di termini equivoci e di concetti indeterminati, con il risultato che i loro discorsi sarebbero spesso, nelle parole di John Austin, «un tessuto di espressioni malcerte», non di rado volti a fornire una soluzione a problemi mal posti;

(4) che, pertanto, sia “loro” compito (dei filosofi analitici, s’intende) – in quanto metodologicamente meglio attrezzati per farlo – procedere all’analisi e alla ricostruzione razionale (ridefinizione perspicua) dell’apparato concettuale della scienza giuridica e della pratica forense, al fine di sostituire il farraginoso apparato corrente, con un nuovo apparato, costituito di concetti determinati e distinti.

Peraltro, la terapia proposta dai filosofi analitici dovrebbe – nelle intenzioni di costoro – dispiegare effetti non limitati ai discorsi dei giuristi, i.e. alla dimensione linguistica della iuris prudentia, investendo invece lo statuto disciplinare e il metodo della scienza giuridica, indotta a una riflessione sulle proprie funzioni e sui modi per assolverle.

Con riguardo all’apparato terminologico e concettuale usato dai pratici e dai giuristi nei loro discorsi sul precedente giudiziale, questi modi di pensare si ritrovano sia negli scritti dei fondatori della filosofia analitica del diritto – Jeremy Bentham e John Austin1; sia, più

∗ Contributo al Seminario “Metodologia nello studio della giurisprudenza”,

Dottorato di ricerca in Diritto Privato, Università di Genova, 22 giugno 2009. 1 Cfr. J. Austin, The Uses of the Study of Jurisprudence, in Id., The Province of

Jurisprudence Determined, 1832, ed. H.L.A. Hart, New York, The Noonday Press, 1954, p. 372, dove, accennando al diritto giurisprudenziale (“judiciary law”, “common law”, “judge-made law”), osserva: «I find it much vituperated, and I find it as much extolled; but I scarcely find an endeavour to determine what it is. But if this humbler

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recentemente, negli autorevoli propugnatori di un’adeguata “teoria generale del precedente giudiziale” – tra cui occorre menzionare gli studiosi riuniti nello «speciale gruppo di ricerca che si autodenomina “Bielefelder Kreis”»2.

Occorre sottolineare che le indagini dei filosofi analitici non pretendono in alcun modo di risolvere i problemi che possono presentarsi nella pratica del diritto.

Per fare un esempio: che cosa sia “vincolante” in un “precedente”, e in che modo ciò sia “vincolante”, se intese come questioni dogmatiche de iure condito sollevate in relazione a una determinata esperienza giuridica, non sono questioni che possano essere risolte con la filosofia analitica. Si tratta infatti – direbbe un filosofo analitico – di questioni etico-normative, di politica delle fonti del diritto (ideologia delle fonti, concezione delle “basi del diritto”), la cui risoluzione impegna la responsabilità morale del proponente; questioni che appartengono dunque, in quanto tali, al campo della pratica (dell’agire), non della teoria.

I servizi offerti dalla filosofia analitica sono invece, come accennato, di altro tipo. Hanno carattere ausiliario; consistono, ad esempio, nel chiarire in quali sensi si parli e/o si potrebbe (sensatamente) parlare, rispettivamente, di un “precedente” e/o della sua “forza vincolante” – così mettendo in luce quali siano, o potrebbero essere, le soluzioni alternativamente eligibili dai giuristi pratici. Ma è a questi ultimi soltanto che compete fornire – imporre, proporre, argomentare – soluzioni, nei limiti segnati dalla loro collocazione istituzionale e, in genere, dal contesto in cui si trovino a operare.

object where well investigated, most of the controversy about its merits would probably subside». Nelle parole di Austin risuonano quelle del suo maestro, Jeremy Bentham: cfr. J. Bentham, Of Laws in General, 1782, ed. by H. L. A. Hart, London, University of London – The Athlone Press, 1970, pp, 152 ss., nonché, per la critica del common law quale judge-made law, Id, A Comment on the Commentaries, in Id., A Comment on the Commentaries and A Fragment on Government, ed. by J. H. Burns and H. L. A. Hart, London, University of London – The Athlone Press, 1977, pp. 161 ss., s.t. 192 ss.; Id., An Introduction to the Principles of Morals and Legislation, 1789, ed. by J. H. Burns and H. L. A. Hart, London, University of London – The Athlone Press, 1970, pp. 8, 21c, 308. Austin dedica al judiciary law (comparandolo con lo statute law), tre ampie lezioni del suo corso: J. Austin, Lectures on Jurisprudence, or the Philosophy of Positive Law, London, Murray, 5 th ed., 1885, Lectures XXXVII-XXXIX.

2 La lista dei “Bielefelders” può leggersi in D. N. MacCormick, R. S. Summers, Preface and Acknowledgements, in N. D. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents. A comparative Study, Aldershot, Ashgate / Dartmouth, 1997, p. vii. Tra essi, Robert Alexy, Aulis Aarnio, Michel Troper, Michele Taruffo, Svein Eng, Lech Morawski, Alfonso Ruiz Miguel, Gunnar Bergholtz, Zenon Bankowski, Robert Summers, John J. Barceló. Cfr., inoltre, R. Cross, Precedent in English Law, 3rd ed., Oxford, Clarendon Press, 1977, p. 1; M. Taruffo, Dimensioni del precedente giudiziario, in AA.VV., Scintillae Iuris. Studi in memoria di Gino Gorla, Milano, Giuffrè, 1994, p. 387. La rivista “Ragion Pratica” ha dedicato al precedente giudiziale il numero 6 del 1998: “I giudici e il precedente”, a cura di M. Taruffo, con contributi di A. Aarnio, S. Eng, J. Marshall, A. Peczenik, R. Summers, M. Taruffo, M. Troper.

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Agli operatori del diritto la filosofia analitica propone, dunque, esercizi di consapevolezza (la quale si accompagna sovente al disincanto), non già soluzioni pratiche.

Sottoporrò ora alla vostra attenzione tre esercizi di filosofia analitica del precedente giudiziale.

Il primo esercizio attiene alla nozione di “precedente giudiziale” e alle nozioni, correlate, di “ratio decidendi” e “obiter dictum” (parte I, §§ 1-5).

Il secondo esercizio attiene all’identificazione – o interpretazione – del precedente giudiziale (parte II, §§ 6-8).

Il terzo esercizio attiene infine alla rilevanza – al “valore”, all’“efficacia” – del precedente giudiziale (parte III, §§ 9-11).

Si parla talora di “filosofia del precedente giudiziale”, per riferirsi, in termini affatto generici, alla riflessione sul precedente giudiziale, condotta secondo un qualche metodo d’investigazione filosofica e/o nella prospettiva di una qualche visione del mondo, che affronta problemi attinenti alla struttura, ai fondamenti, alla rilevanza teorica, alla rilevanza pratica, al riconoscere, interpretare, seguire precedenti.

Una “filosofia del precedente” può essere pertanto, secondo il metodo e/o la prospettiva adottata, una dottrina normativa del precedente, oppure una teoria esplicativa di aspetti salienti dell’àmbito di esperienza del precedente giudiziale.

Gli esercizi che vi propongo appartengono a una filosofia del precedente di tipo teorico-esplicativo.

I. Primo esercizio. “Precedente giudiziale”, “ratio decidendi”, “obiter

dictum”: un censimento di indeterminatezze 1. Premesse metodologiche

Che cos’è un precedente giudiziale? Nella prospettiva della filosofia analitica del diritto, la domanda –

in apparenza ovvia, innocente, semplice e sensata – presenta aspetti inquietanti.

Si tratta anzitutto – denuncia il filosofo analitico – di una domanda che è fatalmente equivoca: che cosa sta chiedendo chi la pone? Quale tipo di risposta costei riterrebbe adeguata? Vuole una risposta suscettibile di verità (che può essere giudicata vera o falsa) o mira invece a una risposta non apofantica, al di fuori del dominio del vero o falso?

Si tratta inoltre – prosegue il filosofo analitico – di una domanda che si presta facilmente a essere intesa come richiesta di una “vera” definizione del precedente giudiziale, della sua essenza o quidditas, ed è dunque sospetta sotto il profilo della metafisica dei concetti.

Si tratta infine – conclude l’analitico – di una domanda che, sotto le apparenze della ricerca della (di una qualche) verità, può nascondere intenti d’altro genere: ad esempio, l’intento di argomentare in favore di una nozione di precedente giudiziale, che si ritiene utile a

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conseguire determinati fini pratici. Sotto quest’ultimo profilo, la domanda è pertanto equivoca da un punto di vista pragmatico: che cosa vuole fare colei che si ponga una tale domanda? A quale tipo di universo di discorso, a quale forma di gioco linguistico, appartiene?

Sulla base di queste considerazioni, i filosofi analitici del diritto suggeriscono di evitare una domanda soltanto in apparenza semplice e sensata come quella; propongono inoltre di sostituirla, a seconda degli obiettivi di volta in volta perseguiti, con domande più precise, le quali non lascino spazio per dubbi circa il tipo di risposta ricercata, il suo valore semantico, e l’universo di discorso, il gioco linguistico, al quale appartiene.

In luogo di domandarsi “che cos’è il precedente giudiziale?”, occorrerebbe pertanto porsi, ad esempio, domande del seguente tenore:

1. Di fatto, quale significato ha, e/o ha avuto, l’espressione “precedente giudiziale”, e/o le espressioni corrispondenti in altre lingue naturali, nelle esperienze giuridiche X, Y, Z, ... ?

2. Quale significato è opportuno attribuire all’espressione “precedente giudiziale”, e/o alle espressioni corrispondenti in altre lingue naturali, in vista dei fini pratici F1, F2, ... Fn, e/o nella prospettiva delle norme N1, N2, ... Nn, e/o dei valori etico-normativi V1, V2, ... Vn?

3. Quale significato è opportuno attribuire all’espressione “precedente giudiziale”, e/o alle espressioni corrispondenti in altre lingue naturali, in vista di una maggiore chiarezza e precisione del linguaggio giuridico?

Se, accogliendo il suggerimento dei filosofi analitici, s’intraprende anzitutto un’indagine conoscitiva sulla nozione di “precedente giudiziale” nella cultura giuridica occidentale contemporanea, partendo da una domanda del tipo 1, si perviene, apparentemente, ai seguenti risultati.

2. “Precedente giudiziale”

A una sommaria (meta-)rilevazione dei suoi usi correnti,

l’espressione “precedente giudiziale” – e le corrispondenti espressioni in altre lingue naturali occidentali – si rivela essere ambigua sotto non meno di due distinti profili:

(1) riguardo al tipo di oggetto designato; (2) riguardo al grado di specificazione dell’oggetto designato. (1) L’espressione “precedente giudiziale” è anzitutto ambigua

rispetto al tipo di oggetto che ne costituisce il referente. Con essa, ci si può infatti riferire – alternativamente, oppure in modo simultaneo e indistinto – a non meno di tre cose diverse.

In primo luogo, la locuzione “precedente giudiziale” può essere usata per riferirsi a una qualunque sentenza, ovvero a una qualunque “decisione giudiziale” latamente intesa:

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(a) che sia stata pronunziata in un momento anteriore dato; (b) di cui si sia serbata memoria in una qualche raccolta di

giurisprudenza; (c) concernente un caso concreto (una concreta controversia, un

insieme di fatti) che presenta, quantomeno prima facie (non ripeterò questa precisazione in seguito, dandola per implicita), profili di similarità rispetto a un altro caso concreto, qui e ora (precedente-sentenza).

In secondo luogo, la locuzione “precedente giudiziale” può essere usata per riferirsi, non già a un precedente-sentenza complessivamente considerato, bensì a quella parte di un precedente-sentenza, che consiste nella decisione del caso concreto strettamente intesa: ovverosia, nella norma, o statuizione, individuale per un caso concreto che presenta profili di similarità rispetto a un altro caso concreto, qui e ora (precedente-dispositivo).

In terzo luogo, la locuzione “precedente giudiziale” può essere usata per riferirsi, nuovamente, non già a un precedente-sentenza complessivamente considerato, bensì a quella parte di un precedente-sentenza, che si suole denominare ratio decidendi, su cui, come si suole dire, “si fonda” la statuizione individuale per un caso concreto che presenta profili di similarità rispetto a un altro caso concreto, qui e ora (precedente-ratio)3.

(2) L’espressione “precedente giudiziale” si rivela ambigua,

tuttavia, non soltanto in relazione agli oggetti di volta in volta designati, ma altresì sotto il profilo del grado di specificazione degli oggetti designati.

In molti casi, infatti, con la locuzione “precedente giudiziale” non ci si riferisce semplicemente a una qualunque sentenza, e/o norma individuale, e/o ratio decidendi anteriori quali che siano, come nelle tre ipotesi sopra menzionate. Ci si riferisce invece a precedenti-sentenze, a precedenti-dispositivi o, più spesso, a precedenti-rationes precisando contestualmente, ad esempio, che sono:

(a) «presumibilmente rilevanti» per decidere un caso concreto, qui e ora4;

3 Cfr., p.e., le seguenti rilevazioni: «in a decision-making situation, a decision

taken in the past in similar circumstances or in a similar case» (G. Cornu, Vocabulaire juridique, 1990, citato da M. Troper, C, Grzegorczyk, Precedent in France, ibidem, p. 111); G. Marshall, What is Binding in a Precedent, ibidem, pp. 503, 504, 505; «una decisione anteriore da cui può essere tratta una regola giuridica in base alla quale può essere deciso un caso successivo uguale o simile […] il nucleo del precedente è la ratio decidendi della decisione anteriore» (M. Taruffo, Per un’analisi comparata del precedente giudiziario, in “Ragion Pratica”, 6, 1996, p. 62); F. Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario, in “Contratto e impresa”, 1, 1985, p. 701.

4 «’Precedent’ (Präjudiz) is usually taken to mean any prior decision possibly relevant to a present case to be decided» (R. Alexy, R. Dreier, Precedent in the Federal Republic of Germany, in D. N. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents. A Comparative Study, cit., p. 23; cfr. Inoltre: M. Taruffo, M. La Torre, Precedent in Italy, ibidem, p. 151).

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(b) «espressamente adottate o formulate [da una corte superiore, ndr] al fine di guidare» le future decisioni dei giudici inferiori5;

(c) «di fatto utilizzate» da «modelli» o «guide» per decidere casi qui e ora6;

(d) «dotate di un’influenza de facto o de iure» sulle decisioni successive7;

(e) «stabilite dai tribunali di rango più elevato, la cui osservanza è imposta o raccomandata, con vigore mutevole» ai giudici inferiori8;

(f) «vincolanti» rispetto alle decisioni successive9. Si noti che in tutte queste accezioni, più specifiche o ristrette, tra le

proprietà definitorie di “precedente giudiziale” figura un qualche riferimento alla “rilevanza”, “valore”, “efficacia”, o “forza” del precedente rispetto alla decisione di casi futuri. Su questo punto tornerò, come anticipato, nel terzo esercizio.

5 «[I]t is impossible according to Finnish law to say that any prior decision

possibly relevant to a present case to be decided is a precedent […] In the Finnish system, the meaning of ‘precedent’ is thus best taken as a decision which the deciding court expressly adopts or formulates to guide future decision making […] as guiding information [to] the lower courts» (A. Aarnio, Precedent in Finland, in D. N. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents. A Comparative Study, cit., pp. 79-80, corsivo redazionale).

6 «Precedents are prior decisions that functions as models for later decisions» (N. D. MacCormick, R. S. Summers, Introduction, in N. D. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents. A comparative Study, Aldershot, Ashgate / Dartmouth, 1997, p. 1); «Norwegian lawyers use ‘prejudikat’ (‘precedent’) in several senses […] in an ex ante sense […] is used sinonimously with ‘a previous judicial decision’ […] in an ex post sense […] [is] a judicial decision which is in fact used as a guide in later cases» (S. Eng, Precedent in Norway, in D. N. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents. A Comparative Study, cit., p. 196).

7 «[A] decision of a court which de facto or de jure influences the making of other decisions» (J. Wróblewski, citato da L. Morawski, M. Zirk-Sadowski, Precedent in Poland, in N. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents. A Comparative Study, cit., p. 229).

8 «Por lo común, en la tradición jurídica se denomina así [precedente, ndr] la doctrina o los criterios jurisprudenciales sentados por los más altos tribunales y cuya observancia se ordena o recomienda, con más o menos vigor, a los tribunales y jueces inferiores» (M. Gascón Abellán, La técnica del precedente y la argumentación racional, Madrid, Tecnos, 1993, p. 11).

9 «[A] precedent is usually understood as a prior judicial decision that has to do with a similar case and binds other courts to a similar decision» (A. Ruiz Miguel, F. J. Laporta, Precedent in Spain, in D. N. MacCormick, R. S. Summers (eds.), Interpreting Precedents. A Comparative Study, cit., p. 269); «A precedent is simply any prior decision of any court that bears a legally significant analogy to the case now before a court […] There is, however, another usage, almost as significant, according to which ‘a precedent’ in the narrower sense is only a relevant case that is binding, and only that part of the case or opinion that actually binds» (Z. Bánkowski, D. N. MacCormick, G. Marshall, Precedent in the United Kingdom, ibidem, p. 323); «In New York, the word ‘precedent’ is used in a variety of ways, but when used most strictly, precedent means binding decisions of higher courts of the same jurisdiction as well as decisions of the same appellate court» (R.S. Summers, Precedent in the United States (New York), ibidem, p. 364).

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3. “Ratio decidendi” L’espressione “precedente giudiziale” è sovente usata per riferirsi,

per metonimìa, alla ratio decidendi di un precedente-sentenza (precedente-ratio).

In che cosa consiste, tuttavia, la ratio decidendi di una decisione giudiziale?

Per rispondere a questa domanda evitando soluzioni essenzialistiche – le quali, come mette in guardia il filosofo analitico, sono metafisicamente sospette e occultano operazioni di politica del diritto sotto l’apparenza di illustrare il “vero” concetto di ratio decidendi – occorre procedere alla rilevazione degli usi della locuzione “ratio decidendi” nel discorso giuridico.

Una sommaria indagine linguistica mette in luce, anche in questo caso, che la locuzione “ratio decidendi” è caratterizzata da un notevole grado di ambiguità, e che tale ambiguità concerne, nuovamente:

(1) il tipo di oggetto designato; e (2) il grado di specificazione dell’oggetto designato. (1) Sotto il profilo del tipo di oggetto designato, con la locuzione

“ratio decidendi” ci si può riferire, alternativamente, a non meno di tre cose diverse, che riflettono altrettante concezioni dottrinali circa il modo migliore di intenderla, e precisamente: una concezione (che si potrebbe chiamare) normativistica astratta; una concezione (che si potrebbe chiamare) normativistica concreta; una concezione (che si potrebbe chiamare) argomentativa.

Nella prospettiva della concezione normativistica astratta, con “ratio decidendi” si suole designare la norma generale – la “regola”, il “criterio”, il “principio”, la “massima”, la “premessa normativa”, ecc. – desumibile dalla sentenza complessivamente considerata, sulla base della quale è stato deciso un caso10.

Nella prospettiva della concezione normativistica concreta, con “ratio decidendi” si suole designare invece la norma generale contestualizzata: la norma generale usata da un giudice per giustificare la decisione di un

10 In tal senso, cfr., p.e., le seguenti caratterizzazioni: «A precedent […] is a

judicial decision which contains in itself a principle. The underlying principle which thus forms its authoritative element is often termed the ratio decidendi […] it is the ratio decidendi which alone has the force of law as regards the world at large» (J. W. Salmond, Jurisprudence, 7th ed. 1924, p. 201, citato da A. L. Goodhart, Determining the Ratio Decidendi of a Case, in “Yale Law Journal”, 40, 1930, p. 161); la “ratio decidendi” è il «criterio della decisione, o regola che sta alla base della decisione stessa» (G. Gorla, Le raccolte di giurisprudenza e le tecniche d’interpretazione delle sentenze (1964), in Id., Diritto comparato e diritto comune europeo, Milano 1981, p. 318 nota 23); la “ratio decidendi” è il «principio di diritto adottato dal giudice per definire la causa in relazione al contenuto di una domanda» (M. Lupoi, Pluralità di “rationes decidendi” e precedente giudiziale, «Foro italiano», Quaderni, 1967, c. 203).

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caso, considerata non già in sé e per sé, ma unitamente agli argomenti che la sorreggono e alla descrizione del fatto al quale è stata applicata11.

Infine, nella prospettiva della concezione argomentativa, con la locuzione “ratio decidendi” non ci si riferisce, specificamente, né a una norma generale in sé e per sé considerata, né a una norma generale contestualizzata, bensì, in termini generici, a un qualunque elemento essenziale dell’argomentazione svolta dal giudice per motivare la decisione di un caso12.

Si noti che le tre concezioni dottrinali della ratio decidendi ora distinte riflettono, spesso a un tempo, due delle idee evocate dal vocabolo latino “ratio”.

Da un lato, l’idea di norma o “regola” nel senso più generico del termine: in tale caso, la ratio decidendi è la norma – più o meno contestualizzata – del decidere.

Dall’altro, l’idea di ragione, ragionamento, argomento, o argomentazione: in tale caso, la ratio decidendi è la ragione del decidere, l’argomentazione, o la parte di argomentazione, addotta in favore di una decisione.

Ciò non è per nulla casuale: nella motivazione delle sentenze, gli enunciati che esprimono le norme generali su cui si fonda la decisione sono frammenti di un discorso in funzione giustificatoria. Tali norme costituiscono, in sé e per sé considerate, le principali ragioni giuridiche delle particolari decisioni assunte13.

(2) Sotto il profilo del grado di specificazione dell’oggetto designato, la

locuzione “ratio decidendi” si rivela parimenti ambigua. Accanto a caratterizzazioni in cui essa designa, in modo generico,

vuoi la norma generale astratta, vuoi la norma generale contestualizzata, nel senso chiarito prima, vuoi un qualunque

11 Cfr., ad esempio: la “ratio decidendi” è il «rapporto fra la risoluzione (motivata)

del “caso” e il “caso” stesso, cioé il “fatto” e le “questioni inerenti”» (G. Gorla, Precedente giudiziale, in Enciclopedia giuridica, vol. XXIII, 1990); la ratio decidendi è «the core of the information» che i giuristi traggono da un precedente, tenendo conto, complessivamente, della astratta descrizione del contenuto della decisione (“rubrication”) e della motivazione (“reasoning”) (A. Aarnio, Precedent in Finland, cit., pp. 76, 80).

12 Cfr., p.e., F. Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario, «Contratto e impresa», 1985, p. 701; M. Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente giudiziario, «Contratto e impresa», 1988, p. 546.

13 A Latin Dictionary, founded on Andrews’ edition of Freund’s Latin Dictionary, revised, enlarged, and in great part rewritten by C. T. Lewis, Oxford 1879 (rist. 1984), alla voce “ratio” enumera molteplici significati, tra cui i seguenti: (1) calcolo, conto, computo; (2) registro; (3) somma, numero; (4) affare, faccenda, questione, transazione; (5) interesse, vantaggio, tornaconto; (6) relazione, rapporto, proporzione; (7) corso di azione, condotta, procedura, modo (di agire), metodo, piano; (8) condizione, natura, modo (di essere); (9) facoltà intellettiva che presiede al calcolo o alla computazione, facoltà di giudizio, intelletto, ragione; (10) fondamento, motivo, ragion d’essere, causa ragionevole (di una cosa), ragione (nel senso di spiegazione razionale o ragionevole), argomento; (11) legge, regola; (12) teoria, dottrina, filosofia; (13) concezione, opinione fondata su basi razionali; (14) prova, argomentazione, ragionamento.

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elemento essenziale della motivazione in diritto di una sentenza, ne circolano altre dotate di un maggior grado di specificità.

Si è sostenuto, ad esempio – e si tratta, si badi, di un inventario che è ben lontano dall’essere esaustivo – che la “ratio decidendi” sia:

(1) l’elemento della motivazione che costituisce la premessa necessaria, ovvero il passaggio logico necessario, per la decisione di un caso14;

(2) il principio di diritto che nella sentenza è sufficiente a decidere il caso concreto15;

(3) l’argomentazione necessaria o sufficiente per definire un giudizio16; (4) la norma (“regola”, “principio”) che costituisce, alternativamente:

la condizione necessaria e sufficiente, oppure la condizione non necessaria ma sufficiente, o ancora una condizione necessaria ma non sufficiente, di una determinata decisione17;

(5) la norma per i fatti rilevanti della causa che, alla luce di un’analisi testuale del precedente-sentenza, il giudice ha di fatto stabilito e/o seguito, al di là di ciò che costui possa aver affermato, o creduto di fare18;

(6) la norma per i fatti rilevanti della causa che il giudice che ha pronunziato il precedente-sentenza dichiara espressamente, e comunque (presumibilmente) ritiene, di avere stabilito e/o seguito19;

(7) la norma espressamente o implicitamente trattata dal giudice come necessaria per decidere un caso20;

(8) la norma per i fatti rilevanti della causa che – alla luce del diritto esistente, dei fatti e dei precedenti, così come intesi da un giudice successivo e/o dalla dottrina – il giudice che ha pronunziato il precedente-sentenza avrebbe dovuto stabilire e/o seguire, per decidere correttamente la controversia;

(9) la norma per i fatti rilevanti della causa che, secondo l’opinione di un giudice successivo, il giudice che ha pronunziato il precedente-sentenza ha ritenuto di avere stabilito;

14 «[La] premessa e/o [il] passaggio logico che si riveli necessario per arrivare

alla decisione di un caso» (F. Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario, cit., p. 701).

15 Cfr. M. Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente giudiziario, cit., p. 546; D. N. MacCormick, Why Cases Have Rationes and What These Are, in L. Goldstein (ed.), Precedent in Law, Oxford, Clarendon Press, 1991, p. 170: «A ratio decidendi is a ruling expressly or impliedly given by a judge which is sufficient to settle a point of law put in issue by the parties’ arguments in a case, being a point on which a ruling was necessary to [the] […] justification of the decision in the case».

16 Cfr. M. Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente giudiziario, cit., pp. 546 ss.

17 G. De Nova, Sull’interpretazione del precedente giudiziario, cit., p. 779. 18 Cfr., p.e., G. Marshall, What is Binding in a Precedent, cit., p. 506. 19 Cfr., p.e., G. Marshall, What is Binding in a Precedent, cit., p. 506. 20 «The ratio decidendi of a case is any rule of law expressly or impliedly treated

by the judge as a necessary step in reaching his conclusion, having regard to the line of reasoning adopted by him, or a necessary part of his direction to the jury», ovvero «propositions of law which a judge appears to consider necessary for his decision are ratio» (R. Cross, Precedent in English Law, cit., pp. 78-79, 49).

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(10) la norma per i fatti rilevanti della causa che, secondo l’opinione di un giudice successivo, il giudice che ha pronunziato il precedente-sentenza ha di fatto stabilito e/o seguito, al di là di ciò che intendeva fare;

(11) la norma per i fatti rilevanti della causa che, secondo l’opinione dei giuristi, un giudice successivo avrebbe dovuto considerare come stabilita e/o seguita dal giudice che ha pronunziato il precedente-sentenza21.

Nella prospettiva di una filosofia analitica del precedente, le caratterizzazioni della ratio decidendi sopra registrate suggeriscono alcune considerazioni non oziose.

In primo luogo, è agevole constatare che non vi è uniformità di opinioni quanto alla nozione di “ratio decidendi” – un dato non casuale che riflette, almeno in parte, la pluralità e la diversità delle “teorie”, descrittive e/o prescrittive, del precedente giudiziale.

In secondo luogo, tutte le caratterizzazioni circolanti presentano margini d’indeterminatezza non trascurabili. Tra queste, peraltro, quelle che rispecchiano concezioni argomentative della ratio decidendi risultano essere assai più indeterminate e sfuggenti di quelle che rispecchiano, invece, delle concezioni normativistiche.

In terzo luogo, alcune delle caratterizzazioni sopra registrate sono fra loro inconciliabili. Una cosa è configurare la ratio decidendi come la norma – il “principio”, il “criterio” – (in un qualche senso) necessaria alla decisione di un caso; altra cosa è configurarla, invece, come la norma – il “principio”, il “criterio” – (in un qualche senso) sufficiente alla decisione di un caso. Se “necessario” e “sufficiente” non sono usati a caso, le due caratterizzazioni conducono a qualificazioni incompatibili degli stessi elementi di una stessa sentenza: un principio sufficiente può essere infatti, al tempo stesso, non necessario.

In quarto luogo, alcune caratterizzazioni della ratio decidendi di una sentenza sono oggettive; altre sono invece soggettive.

Le caratterizzazioni oggettive (nn. 1-5) fanno esclusivo riferimento al contenuto della sentenza, identificando la ratio decidendi con la norma che “fonda” – quale condizione necessaria, sufficiente, ecc. – la decisione del caso concreto.

Le caratterizzazioni soggettive (nn. 6-11) includono, tra le proprietà definitorie del concetto di “ratio decidendi”, il riferimento alla opinione (manifesta o presumibile), rispettivamente: (a) del giudice che ha pronunciato la sentenza-precedente (nn. 6-7); (b) dei giudici successivi (nn. 8-10); e/o (c) della dottrina giuridica (nn. 8, 11).

Di quest’ultima distinzione appare opportuno tenere conto, sia in sede di ridefinizione del (di un qualche) concetto di “ratio decidendi” (come si vedrà al § 5), sia trattando delle metodologie di identificazione del precedente (come vedremo nel secondo esercizio).

Prima di affrontare questi punti, tuttavia, occorre aggiungere un ultimo tassello all’indagine lessicale svolta sino a questo punto.

21 Per le ultime quattro caratterizzazioni della ratio decidendi, cfr. G. Marshall,

What is Binding in a Precedent, cit., pp. 506-507.

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4. “Obiter dictum”

Alle rationes decidendi, i giuristi e i pratici del diritto sono soliti

contrapporre gli obiter dicta. Che cos’è, tuttavia, un obiter dictum? Anche in questo caso, una sia pure sommaria indagine lessicale –

condotta secondo il metodo dei filosofi analitici – mette in luce una varietà di caratterizzazioni, che presentano gradi diversi di specificità.

Si è sostenuto, ad esempio – e si tratta anche qui di un inventario ben lontano dall’essere esaustivo – che sia obiter dictum:

(1) in negativo, tutto ciò che, nella motivazione in diritto di una sentenza, non è (parte della) ratio decidendi22;

(2) qualunque proposizione di diritto (“principio di diritto”, ecc.) che risulti non necessaria, superflua, rispetto alla decisione del caso concreto23;

(3) qualunque proposizione di diritto che risulti priva di efficacia giustificativa rispetto alla decisione del caso concreto24;

(4) qualunque principio, formulato nella sentenza, che sia non necessario, né sufficiente, rispetto alla decisione del caso concreto25;

22 «There is in one sense no problem in defining the character of obiter dicta, since

they consist in all propositions of law contained in the decision that are not part of the ratio. But that negative assertion masks a number of different ways in which judicial dicta may be related to the holding of a particular case» (G. Marshall, What is Binding in a Precedent, cit., p. 515).

23 Cfr., p.e., G. Gorla, “Ratio decidendi” e “obiter dictum” (1964), in Id., Diritto comparato e diritto comune europeo, cit., p. 331 nota 2. Nella ricostruzione di Gorla, sarebbero obiter dicta, in particolare: (i) le formulazioni di regole o di princìpi attinenti non già al caso da decidere, ma a casi ipotetici, che il giudice delinea, per ragioni più o meno occasionali, nel motivare la soluzione concretamente decisa (sul punto, cfr. anche G. Marshall, What is Binding in a Precedent, cit., p. 515); (ii) le esplicite anticipazioni della probabile, futura, giurisprudenza su casi ipotetici (percepiti come) connessi al caso concretamente deciso; (iii) i «trattatelli teorici» su questioni estranee al thema decidendum, formulati per (presumibile) sfoggio di erudizione. F. Galgano, L’interpretazione del precedente giudiziario, cit., pp. 701 ss. Nel primo gruppo di obiter dicta individuato da Gorla rientrano, apparentemente, i seguenti casi, messi in luce da Galgano: (a) il caso della formulazione di una norma e di una sua eccezione, con contestuale applicazione della norma; (b) il caso, speculare, della formulazione di una norma e di una sua eccezione, con contestuale applicazione dell’eccezione; (c) il caso infine della formulazione di princìpi «enunciati per contrapposizione o per differenza rispetto alla proposizione che funge da ratio decidendi». Secondo Galgano, quantomeno nei casi dei primi due tipi, «la proposizione in sospetto di obiter dictum non serve per decidere la lite, ma fa parte integrante del ragionamento che ha condotto alla decisione», ed è «organicamente connessa» alla ratio decidendi. Questi obiter dovrebbero pertanto essere opportunamente distinti da quegli obiter che sono meri svolazzi retorici o vuoti sfoggi d’erudizione da parte dell’estensore della sentenza. Si potrebbe parlare, in proposito, di obiter utiliter dicta e obiter inutiliter dicta.

24 Cfr., p.e., M. Lupoi, Pluralità di “rationes decidendi” e precedente giudiziale, cit., p. 203.

25 Cfr., p.e., G. De Nova, Sull’interpretazione del precedente giudiziario, cit., p. 779.

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(5) qualunque passaggio della motivazione che contenga delle argomentazioni non necessarie, né sufficienti, rispetto alla decisione del caso concreto, ma soltanto degli «svolazzi» o «digressioni» dell’estensore26.

(6) qualunque norma, o principio, il cui àmbito di applicazione – secondo l’opinione di una corte successiva o della dottrina – sia più ampio di quello della norma, o principio, esattamente applicabile al caso concreto27.

In via del tutto sperimentale, il nucleo di significato comune alle diverse caratterizzazioni ora registrate può essere riprodotto in una (ri)definizione del concetto di obiter dictum, più articolata di quelle attualmente in circolazione, secondo cui un “obiter dictum” è:

(a) un insieme di enunciati giudiziali (contenente almeno un enunciato);

(b) del più vario contenuto – potendo esprimere, alternativamente: una norma di condotta, l’interpretazione di un articolo di legge, un’argomentazione o un frammento di argomentazione in diritto, una definizione, un’opinione concernente un istituto del diritto positivo, ecc.;

(c) formulato all’interno di una sentenza (dictum, perlappunto); (d) il quale risulti essere vuoi irrilevante, vuoi rilevante ma

dispensabile, rispetto alla decisione adottata, nella prospettiva di un qualche metodo di analisi della sentenza.

Quest’ultima precisazione mette in evidenza che le nozioni di “rilevanza”, “irrilevanza”, e “rilevanza dispensabile” di un insieme di enunciati giudiziali rispetto alla decisione di un caso sono sempre relative ai metodi di analisi delle sentenze di volta in volta adottati, facendo parte dei loro rispettivi apparati concettuali: dimodoché può capitare che uno stesso insieme di enunciati, da prospettive metodologiche diverse, sia considerato ora come ratio, e dunque dotato di rilevanza decisoria-giustificatoria, ora come obiter inutiliter dictum, e dunque caratterizzato da irrilevanza decisoria-giustificatoria assoluta, ora come obiter utiliter dictum, e dunque caratterizzato da irrilevanza decisoria-giustificatoria relativa, o rilevanza dispensabile28.

5. “Ratio decidendi” e “obiter dictum”: dalle rilevazioni alle ridefinizioni (operative)

26 Cfr., p.e., M. Bin, Funzione uniformatrice della Cassazione e valore del precedente

giudiziario, cit., p. 546. 27 «There is another kind of obiter dictum, which perhaps is not, properly

speaking, an obiter dictum at all, namely a ratio decidendi that in the view of a subsequent court is unnecessarily wide» (G. Williams, Learning the Law, London, Stevens & Sons, 9th ed., 1973, p. 79); «There is another form of obiter dictum which is in effect a putative ratio decidendi reduced in rank by subsequent judicial reasoning. It may be held that a principle apparently laid down as the reason for a particular decision was too widely stated, or in some other way inappropriate» (G. Marshall, What is Binding in a Precedent, cit., p. 516).

28 Sul punto, cfr., p.e., R. Cross, Precedent in English Law, cit., pp. 60-61.

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Le rilevazioni (e/o meta-rilevazioni) svolte nei paragrafi precedenti

si sono risolte in un censimento di indeterminatezze. Nella prospettiva di una teoria analitica del precedente, la

constatazione dell’indeterminatezza possiede un valore conoscitivo non trascurabile: sia in sé; sia quale punto di partenza per eventuali ridefinizioni perspicue (ricostruzioni razionali) dei concetti indagati.

I requisiti che una (qualsiasi) ridefinizione analitica dei concetti di ratio decidendi e di obiter dictum deve soddisfare sono perlomeno tre: oltre al requisito della perspicuità, i requisiti della mutua esclusività e della neutralità metodologica.

In primo luogo, i due concetti devono essere (ri)definiti in modo da risultare mutualmente esclusivi: una stessa cosa non può essere, al tempo stesso, ratio decidendi e obiter dictum.

In secondo luogo, i due concetti devono essere (ri)definiti in modo da risultare, per quanto possibile, metodologicamente neutrali: i.e., utilizzabili all’interno di, ovvero compatibili con, diverse metodologie prescrittive di analisi delle sentenze.

Ciò premesso, in via del tutto provvisoria, una ridefinizione analitica – perspicua, mutualmente esclusiva, e metodologicamente neutrale – dei concetti di ratio decidendi e di obiter dictum potrebbe essere tentata utilizzando la forma della definizione operativa (in cui il significato del definiendum viene determinato sulla base di operazioni descritte nel definiens), e ricorrendo all’idea di “prova di resistenza”.

Per quanto concerne la ridefinizione operativa del (di un qualche) concetto di “ratio decidendi”, sembra opportuno:

- limitare il dato empirico di cui tenere conto ai soli concetti normativi di ratio decidendi, tralasciando invece i concetti argomentativi, per la loro eccessiva indeterminatezza;

- tenere conto della distinzione, prima rilevata nell’àmbito dei concetti normativi, tra le caratterizzazioni oggettive e quelle soggettive, limitandosi, peraltro, alla sola prospettiva del giudice che ha pronunziato la sentenza precedente.

Con queste precisazioni, si possono formulare due distinte (ri)definizioni operative di “ratio decidendi”, una oggettiva e una soggettiva.

Ratio decidendi (oggettiva) = Df. una norma generale (regola, principio)

– espressa da un enunciato formulato in una sentenza, o in essa implicita – è ratio decidendi se, ma solo se, alla luce della struttura logica della giustificazione della sentenza (così come ricostruita secondo le direttive di una metodologia di analisi delle sentenze), non possa essere espunta dalla motivazione in diritto della decisione, senza privare la decisione stessa della norma – o quantomeno: di una delle norme, tra loro alternative e convergenti – da cui può essere inferita, unitamente ad altre premesse (interpretative, qualificatorie).

Ratio decidendi (soggettiva) = Df. una norma generale (regola, principio)

– espressa da un enunciato formulato in una sentenza, o in essa

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implicita – è ratio decidendi se, ma solo se, secondo l’opinione ascrivibile al giudice che ha pronunziato la sentenza (così come accertata secondo le direttive di una metodologia di analisi delle sentenze), non può essere espunta dalla motivazione in diritto della decisione, senza privare la decisione stessa della norma giuridica – o quantomeno: di una delle norme, tra loro alternative e concorrenti – che ne costituisce un fattore giustificatorio imprescindibile.

Per quanto concerne la nozione di obiter dictum, una (ri)definizione

operativa può essere formulata nei seguenti termini, tenendo anche conto della (ri)definizione provvisoriamente fornita alla fine del paragrafo precedente.

Obiter dictum = Df. (a) un insieme di enunciati (contenente almeno un enunciato); (b) formulato all’interno di una sentenza o di altro provvedimento

giudiziale (dictum); (c) suscettibile del più vario contenuto – potendo esprimere,

alternativamente: una norma di condotta, l’interpretazione di un articolo di legge, un’argomentazione o un frammento di argomentazione in diritto, una definizione, un’opinione concernente un istituto del diritto positivo, ecc.;

(d) il quale risulti essere vuoi affatto irrilevante, vuoi rilevante ma dispensabile, rispetto alla decisione giudiziale adottata, nella prospettiva della giustificazione interna e/o della giustificazione esterna della decisione stessa.

La giustificazione interna di una decisione giudiziale è l’insieme

delle premesse (composto quantomeno di una premessa normativa universale – “I contratti in frode alla legge sono annullabili” – e una premessa qualificatoria individuale – “Il contratto tra Gino Bianchi e Bartolomeo Rossi è un contratto in frode alla legge”) da cui la decisione (““Il contratto tra Gino Bianchi e Bartolomeo Rossi è annullabile”) può essere dedotta.

La giustificazione esterna di una decisione giudiziale è l’insieme delle ragioni addotte dal giudice in favore delle premesse dalle quali la decisione è logicamente inferibile.

II. Secondo esercizio: “il problema dell’identificazione del precedente“

(“interpretazione del precedente”)

6. “Il problema dell’identificazione del precedente” Se si tiene conto del fatto che la locuzione “precedente giudiziale” è

usata in non meno di tre significati diversi, tra loro alternativi –precedente-sentenza, precedente-dispositivo, precedente-ratio (§§ 2 e 5) – appare chiaro che non vi è affatto “un” (unico) problema

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dell’identificazione del precedente, e che occorre invece distinguere tra:

(1) “il problema” dell’identificazione del precedente-sentenza, (2) “il problema” dell’identificazione del precedente-dispositivo, (3) “il problema” dell’identificazione del precedente-ratio. A ben vedere, peraltro, nessuna delle tre attività di “identificazione

del precedente” solleva “un” (solo) problema, o tipo di problema. Al contrario, per ciascuna di esse ci si può chiedere ad esempio, in

relazione a una o più esperienze giuridiche determinate: (1) in che modo i giuristi e/o i giudici e/o gli avvocati procedano di

fatto a identificare i “precedenti”, sollevando così un problema di metodologia descrittiva, o sociologica;

(2) se il modo in cui i giuristi e/o i giudici e/o gli avvocati di fatto procedono a identificare i “precedenti” sia tecnicamente adeguato, in vista dei fini che costoro di volta in volta si propongono di realizzare, sollevando così un problema di metodologia tecnica;

(3) in quale modo i giuristi e/o i giudici e/o gli avvocati debbano procedere a identificare i “precedenti”, secondo il diritto vigente, sollevando così un problema di metodologia normativa de iure condito;

(4) in quale modo i giuristi e/o i giudici e/o gli avvocati dovrebbero procedere a identificare i “precedenti”, secondo princìpi ideali di cui si auspica la positivizzazione, sollevando così un problema di metodologia normativa de iure condendo;

(5) quali metodologie normative attinenti all’identificazione dei “precedenti” siano state elaborate dai giuristi e/o dai giudici (in sede di obiter dicta), sollevando così un problema di meta-metodologia descrittiva;

(6) in che modo le metodologie normative attinenti all’identificazione dei “precedenti” elaborate dai giuristi e/o dai giudici (in sede di obiter dicta) possano, se del caso, essere riformulate in modo perspicuo, sollevando così un problema di meta-metodologia analitica.

Facendo esercizio di ars combinatoria, si possono distinguere, in conclusione, non meno di diciotto diversi problemi di “identificazione del precedente”.

7. “Interpretazione del precedente” I diciotto (e più) problemi sopra individuati non stanno tutti sullo

stesso piano, nella considerazione dei giuristi e dei pratici del diritto. Tra di essi, i problemi ritenuti più importanti concernono

l’identificazione del precedente-dispositivo e l’identificazione del precedente-norma.

L’identificazione del precedente-dispositivo – o identificazione del decisum – è sovente denominata “interpretazione della sentenza”, o, se è intervenuto il giudicato, “interpretazione del giudicato”. Si tratta di

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un’attività tipicamente compiuta dagli avvocati e dai giudici delle impugnazioni, per accertare che cosa sia stato esattamente deciso, e sia pertanto idoneo ad acquisire la forza di giudicato.

L’identificazione del precedente-norma – o identificazione della ratio decidendi – è sovente denominata “interpretazione del precedente”. Si tratta di un’attività tipicamente compiuta, oltre che nella pratica forense, in sede di dottrina giuridica e, ove un tale istituto esista, dai magistrati addetti alla massimazione ufficiale delle sentenze.

Nella locuzione “interpretazione del precedente”, nel senso più ristretto ora menzionato, l’attività di interpretazione ha per oggetto il precedente-sentenza – e, eventualmente, anche altri materiali ritenuti rilevanti dagli interpreti; e ha per risultato, o prodotto, la norma generale che ne costituisce la ratio decidendi – la quale, a sua volta, avrà un “valore” (una “forza”, un’”efficacia”, ecc.) dipendente da una qualche dottrina del precedente.

La ratio decidendi di una sentenza-precedente, una volta identificata e formulata mediante un insieme relativamente fisso di enunciati, può essere, a sua volta, oggetto di interpretazione.

Occorre peraltro distinguere, a questo riguardo, tra non meno di due sensi di “interpretazione” – e, corrispondentemente, tra due diversi sensi della locuzione “interpretazione della ratio decidendi”.

In un primo senso, per “interpretazione della ratio decidendi” si può intendere l’attività che consiste nell’identificare “l’esatto significato”, ovvero la “esatta portata precettiva”, di una ratio decidendi rispetto alla soluzione di un caso, reale o immaginario. Appartengono all’“interpretazione della ratio decidendi”, così intesa, tutte le operazioni – e le tecniche – volte a restringere (“confining”, “distinguishing” interno o a parte regulae, “measuring”, “nuance-ing”, “pruning”, “reducing”), estendere (“extending”), o accertare ponderatamente (“construing”, “explaining”), il senso di una data ratio decidendi29.

In un secondo senso, per “interpretazione della ratio decidendi” si può intendere, invece, l’attività volta a stabilire l’”esatto valore” di una ratio decidendi.

Appartengono all’“interpretazione della ratio decidendi”, così intesa, le operazioni – e le tecniche – che consistono, ad esempio:

(a) nel configurare una ratio decidendi come obiter dictum (“dictum-ising”);

(b) nell’indebolire (“impugning”) una ratio decidendi, sostenendo, ad esempio, che sia frutto della negligenza del giudice (ovvero, che sia stata resa “per incuriam”: “per-incuriam-ing”);

(c) nell’insidiare una ratio decidendi, ad esempio revocando in dubbio la correttezza della sua formulazione nei repertori (“undermining”), oppure mettendone in luce l’appartenenza a un passato oramai lontano (“antichizzazione”, “quondam-ing”);

29 Cfr., p.e., G. Marshall, Trentatré cose che si possono fare con i precedenti. Un

dizionario di common law, in “Ragion Pratica”, 6, 1996, pp. 29 ss.

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(d) nel neutralizzare una ratio decidendi, sostenendo che i fatti rilevanti del caso presente sono sostanzialmente differenti da quelli ai quali quella ratio, prima facie pertinente, si applica (“distinguishing” esterno o a parte facti)30.

8. L’interpretazione del precedente: due modelli metodologici Nelle esperienze giuridiche occidentali, l’interpretazione del

precedente – i.e., l’attività che consiste nell’identificare la ratio decidendi di una sentenza giudiziale (sentenza-precedente) – è solitamente oggetto di direttive metodologiche di origine giudiziale e dottrinale. I legislatori non se ne preoccupano: vuoi, come in Inghilterra, perché il precedente è una fonte del diritto, e si ritiene competa ai giudici di formulare le meta-regole concernenti la sua interpretazione; vuoi perché il precedente non è – almeno ufficialmente – una fonte del diritto, e si ritiene che la sua interpretazione sia appannaggio della prassi e della scienza giuridica.

Se ci poniamo nella prospettiva della meta-metodologia descrittiva e analitica, si possono distinguere due principali modelli prescrittivi concernenti l’interpretazione del precedente: un modello misto (“modello soggettivo-oggettivo” o, in considerazione della sua area di provenienza, “modello inglese”) e un modello oggettivo (“modello inferenziale” o “sillogistico”, in considerazione della sua area di provenienza, “modello continentale”).

Offrirò di seguito una succinta ricostruzione dei due modelli, presentando ciascuno di essi, per quanto possibile, come una sequenza di direttive rivolte a un ipotetico interprete di precedenti.

8.1. Il modello misto (“modello inglese”)

Il modello misto, d’interpretazione soggettiva-oggettiva del

precedente, costituisce una riformulazione perspicua delle considerazioni in materia d’identificazione della ratio decidendi formulate da Sir Rupert Cross, nella sua disamina delle direttive metodologiche dei giudici inglesi (qualificate come “rules of judicial practice”) e dei criteri dottrinali di Wambaugh e Goodhart31. Alla luce di ciò, il modello misto, o modello inglese, potrebbe anche essere denominato “modello di Cross”.

Schematicamente, il modello misto si articola nelle seguenti, principali, direttive.

(R1) Nozione di ratio decidendi. Per ratio decidendi si deve intendere la

norma di diritto che il giudice che ha pronunziato la sentenza-

30 Cfr., p.e., G. Marshall, Trentatré cose che si possono fare con i precedenti. Un

dizionario di common law, cit., pp. 29 ss. 31 Cfr. R. Cross, Precedent in English Law, cit., pp. 42 ss.

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precedente ha ritenuto necessaria per la decisione del caso concreto (ratio decidendi soggettiva).

(R2) Risorse ermeneutiche. Per identificare la ratio decidendi soggettiva

occorre tenere conto dei seguenti dati: (1) le parole usate dal giudice che ha deciso il caso; (2) i fatti rilevanti della causa (material facts), assumendo che il

giudice abbia inteso statuire una norma adeguata per essi, in quanto rappresentativi di classi di casi individuali;

(3) le pronunce antecedenti su casi simili, nella misura in cui possono gettare luce sulla ratio decidendi soggettiva della sentenza oggetto d’interpretazione;

(4) le pronunce successive su casi simili, nella misura in cui possono gettare luce sulla ratio decidendi soggettiva della sentenza oggetto d’interpretazione, costituendo esempi di identificazione di una tale ratio decidendi soggettiva da parte di interpreti autorevoli.

(R3) Default Rule. Se non è possibile identificare la ratio decidendi

soggettiva – poiché (a) la pronuncia non è motivata; (b) la motivazione non è chiara; oppure (c) la (presunta) ratio decidendi soggettiva è stata oggetto di numerosi distinguishing in pronunce successive – l’interprete deve identificare la ratio decidendi con la norma generale che può essere ricavata combinando la norma individuale, che costituisce il dispositivo della sentenza (“order”), con i fatti rilevanti della causa32.

Il modello di Cross può apparire deludente a chi si attendesse

l’articolazione di un metodo rigoroso. Secondo Cross, tuttavia, questo metodo imperfetto è il massimo che si possa ottenere: e rappresenta una realistica via mediana tra l’estremo illusorio di coloro che aspirano a “scoprire le formule” per identificare con esattezza le rationes decidendi e l’estremo, altrettanto illusorio, di chi esalta la dimensione totalmente irrazionale della pretesa ricerca delle rationes decidendi.

8.2. Il modello inferenziale (“modello continentale”)

Il modello inferenziale – modello “modello sillogistico”, o “modello

continentale” – d’interpretazione del precedente si fonda sull’idea secondo cui il contenuto delle sentenze giudiziali può essere ricostruito mediante una o più inferenze logiche (uno o più sillogismi) concatenate.

32 «The derivation of a proposition of law from the facts of the case coupled with

the order made by the court after taking into account of those facts is an important feature of discussions concerning the ratio decidendi. For this purpose the order of the court must be treated as the conclusion of a syllogism of which the facts on which that order was based constitute the minor premiss and the proposition alleged to be the ratio decidendi is the major premiss» (R. Cross, Precedent in English Law, cit., p. 48; cfr. anche pp. 61 ss.).

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Questo modo di vedere, si badi, non è necessariamente compromesso con concezioni “logicistiche” – “formalistiche”, “meccanicistiche”, ecc. – del giudizio giurisdizionale. Al contrario, chi propugna, qui e ora, la ricostruzione della struttura logica del contenuto delle sentenze ritiene che ciò sia particolarmente utile:

(1) per identificare le premesse del ragionamento giudiziale; (2) per valutare se le conclusioni – le statuizioni individuali

pronunziate dal giudice – seguano logicamente da tali premesse; (3) per accertare se il giudice abbia, o no, addotto argomenti in

favore delle premesse del suo ragionamento; e, in caso affermativo, (4) per valutare se gli argomenti addotti soddisfino un qualche

standard di adeguatezza della motivazione in diritto delle decisioni giudiziali (ad esempio, un qualche standard di “razionalità della giustificazione giudiziale”).

Uno dei primi studiosi ad avere svincolato la concezione inferenziale delle sentenze dalle dottrine formalistiche, inserendola nel contesto della filosofia analitica del diritto, è stato il polacco Jerzy Wróblewski, al quale si deve la distinzione, corrente nella teoria contemporanea del ragionamento giuridico, e prima messa in luce, tra la “giustificazione interna” e la “giustificazione esterna” delle decisioni giudiziali33. Per tale motivo, il presente modello inferenziale, seppure ampiamente rimaneggiato rispetto all’originale, potrebbe anche denominarsi “modello di Wróblewski”.

Nella sua forma più semplice, il modello inferenziale d’interpretazione del precedente si articola nelle seguenti, principali, direttive.

(R1) Nozione di ratio decidendi. Dal punto di vista della sua struttura logica, una sentenza contiene tante rationes decidendi quante sono le premesse normative delle inferenze (sillogismi, modus ponens) mediante le quali il suo contenuto può essere riformulato.

(R2) Nozione di inferenza normativa. Una inferenza normativa è un

insieme di enunciati la cui premessa maggiore e la cui conclusione sono costituite da norme giuridiche.

(R3) Varietà di inferenze normative e di rationes decidendi. L’inferenza

normativa la cui conclusione è costituita da una norma individuale è un’inferenza normativa di primo grado, o inferenza decisionale. La norma generale, che costituisce la premessa maggiore di un’inferenza decisionale, è la ratio decidendi prossima su cui la statuizione individuale

33 Cfr. J. Wróblewski, Legal Decision and its Justification, in “Logique et analyse”,

14, 1971, pp. 410 ss.; Id., Legal Syllogism and the Rationality of Judicial Decision, in “Rechtstheorie”, 5, 1974, pp. 33 ss.; Id., The Judicial Application of Law, Dordrecht, Kluwer, 1992, cap. IX. Per una panoramica sulle teorie sillogistiche della sentenza giudiziale, cfr., p.e., P. Chiassoni, La giurisprudenza civile. Metodi d’interpretazione e tecniche argomentative, Milano, Giuffrè, 1999, pp. 151 ss.

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si fonda (unitamente, beninteso, alla premessa qualificatoria individuale).

Le inferenze normative, la cui premessa e la cui conclusione siano entrambe delle norme generali, sono inferenze di grado superiore. In particolare: l’inferenza normativa, la cui conclusione coincide con la ratio decidendi prossima, è un’inferenza normativa di secondo grado; l’inferenza normativa, la cui conclusione coincide con la premessa maggiore dell’inferenza normativa di secondo grado, è un’inferenza normativa di terzo grado, e così via.

La premessa maggiore dell’inferenza normativa di grado più elevato, tra quelle che possono essere (ri)costruite sulla base del contenuto della sentenza, è la ratio decidendi remota: la norma più generale – ovvero dotata del più ampio àmbito di applicazione – tra quelle che, su piani diversi, concorrono a giustificare la norma individuale del caso.

Le premesse maggiori delle inferenze normative intermedie – comprese tra l’inferenza decisionale e l’inferenza normativa di grado più elevato – sono rationes intermedie: per definizione, regole giuridiche più generali della ratio decidendi prossima, e meno generali della ratio decidendi remota34.

(R4) Due fasi dell’interpretazione del precedente. L’identificazione delle

rationes decidendi di una sentenza è un’attività che si articola in due fasi logicamente distinte: (i) una prima fase, dedicata all’analisi linguistica della sentenza; (ii) una seconda fase, dedicata alla ricostruzione della struttura logica del contenuto della sentenza.

34 Un banalissimo esempio. Sillogismo decisionale: “I proprietari di cani devono risarcire il danno cagionato a

terzi dal loro animale (ratio decidendi prossima). Mario Rossi è proprietario di un cane (Knut) che ha danneggiato un terzo (Gino Bianchi). Mario Rossi deve risarcire il danno cagionato da Knut a Gino Bianchi (norma individuale)”.

Sillogismo normativo di secondo grado: “I proprietari di animali pericolosi devono risarcire il danno cagionato a terzi dal loro animale (ratio decidendi intermedia). I proprietari di cani sono proprietari di animali pericolosi. I proprietari di cani devono risarcire il danno cagionato a terzi dal loro animale”.

Sillogismo normativo (per ipotesi) di grado più elevato: “I proprietari di cose mobili pericolose devono risarcire il danno cagionato a terzi dalla loro cosa (ratio decidendi remota). I proprietari di animali pericolosi sono proprietari di cose mobili pericolose. I proprietari di animali pericolosi devono risarcire il danno cagionato a terzi dal loro animale”. Si noti che le premesse minori dei sillogismi di grado superiore sono premesse qualificatorie che rispecchiano una certa interpretazione, rispettivamente, delle locuzioni “cose mobili pericolose” e “animali pericolosi”. Si tratta pertanto di premesse la cui giustificazione è di cruciale importanza dal punto di vista, ad esempio, di certi standard di giustificazione razionale delle decisioni giudiziali (come sostenuto, anzitutto, da R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica. La teoria del discorso razionale come teoria della motivazione giuridica (1978), Milano, Giuffrè, 1998, pp. 185 ss.). Tali premesse interpretative, in sede di ricostruzione sillogistica del contenuto delle sentenze, possono essere configurate come elementi di – o quantomeno: collegate a – ragionamenti interpretativi, la cui premessa maggiore è costituita da una qualche direttiva interpretativa (ad esempio: la direttiva secondo cui “Si deve attribuire ai vocaboli il significato per essi corrente nella migliore dottrina”).

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(R5) Analisi linguistica della sentenza: risorse ermeneutiche. Al fine di

svolgere un’analisi della sentenza utile alla ricostruzione della struttura logica del suo contenuto, occorre distinguere accuratamente quantomeno tra i seguenti, principali, tipi di enunciato giudiziale:

(1) enunciati esprimenti norme individuali; (2) enunciati esprimenti norme generali; (3) enunciati interpretativi (in senso latissimo), attinenti ad esempio:

(a) all’interpretazione testuale di disposizioni normative; (b) alla qualificazione delle norme da esse ricavate; (c) all’accertamento e alla risoluzione di antinomie; (d) all’accertamento e all’integrazione di lacune, ecc.;

(4) enunciati esprimenti la qualificazione di fattispecie concrete secondo categorie normative (sussunzione individuale);

(5) enunciati esprimenti la qualificazione di classi di fattispecie secondo categorie normative (sussunzione generica, la quale, come si è detto in nota, riflette solitamente delle opzioni interpretative);

(6) enunciati attinenti ai fatti della causa e alla prova dei fatti, inclusi gli enunciati su fatti notori, massime di esperienza, o concernenti eventuali consulenze tecniche;

(7) enunciati che riferiscono le posizioni sostenute dalle parti e gli argomenti da esse addotti.

(R6) Esplicitazione di rationes decidendi implicite. L’esplicitazione di

regole giuridiche generali non formulate dal giudice, ma configurabili come rationes decidendi implicite è giustificata se, ma solo se, consiste nell’esplicitare le premesse normative di ragionamenti chiaramente ellittici (ovvero di inferenze chiaramente entimematiche).

(R7) Principio di eterointegrazione. Per stabilire – a fini argomentativi, eristici, o decisori – quale sia “la” ratio decidendi del caso, tra la pluralità di rationes identificate con l’analisi logica, occorre introdurre considerazioni normative estranee al modello inferenziale. Il modello inferenziale può soltanto mettere in luce quali siano le rationes decidendi, logicamente concatenate e caratterizzate da gradi diversi di generalità (crescenti o decrescenti a seconda del punto di vista), che sono state utilizzate dal giudice.

Da questo punto di vista, il criterio della ratio percepita come

necessaria dal giudice che ha pronunziato la sentenza-precedente, che costituisce, come si è visto, la nozione centrale del modello misto, funziona da criterio di selezione tra le diverse rationes decidendi identificate con il metodo oggettivo dell’analisi inferenziale.

III.

Terzo esercizio: “il problema della rilevanza del precedente”

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9. Premessa terminologica: “rilevanza”, “valore”, o “efficacia” del precedente giudiziale

In tutte le organizzazioni giuridiche moderne, si redigono documenti qualificabili come “sentenze”, i quali contengono decisioni giustificate sulla base di una o più rationes decidendi. In tutte le organizzazioni giuridiche moderne, inoltre, le sentenze – o quantomeno: un certo numero di esse – sono pubblicate su bollettini ufficiali e/o su riviste specializzate, sono inserite in archivi informatici, sono massimate, e/o annotate, e/o commentate da esperti (e sovente, anche da profani sacerdoti della pubblica opinione, con frequenti e vistosi fraintendimenti). In altre parole: in tutte le organizzazioni giuridiche moderne vi sono precedenti-sentenze e precedenti-rationes.

Nelle organizzazioni giuridiche moderne, tuttavia, i precedenti-rationes (cui mi riferirò, in seguito, con “precedenti”, senza ulteriori specificazioni) non sempre hanno – come è noto – la stessa rilevanza.

In che cosa consiste, però, la “rilevanza” dei precedenti? Occorre immediatamente precisare che con l’opaca locuzione

“rilevanza dei precedenti”, si possono intendere non meno di due cose diverse – anche se, a volte, s’intendono inconsapevolmente entrambe le cose a un tempo.

In primo luogo, con “rilevanza dei precedenti” si può intendere la rilevanza formale dei precedenti: l’influenza/ importanza/ forza/ considerazione che i precedenti devono avere rispetto alle decisioni giudiziali (e/o alla legislazione, e/o alle attività dei consociati) successive alla loro formulazione e/o utilizzazione, secondo le norme di un diritto positivo. La rilevanza formale dei precedenti dipende da regole giuridiche: di diritto scritto (costituzionale, legislativo, regolamentare, ecc.) e/o non scritto (consuetudini generali, consuetudini giudiziali, opinioni nomotetiche dei giuristi, ecc.).

In secondo luogo, con “rilevanza dei precedenti” si può intendere la rilevanza empirica dei precedenti: l’influenza che di fatto i precedenti esercitano sulle decisioni giudiziali, e/o sulla legislazione, e/o sulle attività dei consociati successive alla loro formulazione e/o utilizzazione.

La rilevanza empirica dei precedenti non dipende necessariamente dall’esistenza di regole giuridiche che attribuiscano a essi una rilevanza formale.

Da un lato, potrebbe accadere che i precedenti siano formalmente rilevanti ma non abbiano, di fatto, alcuna influenza sulle decisioni giudiziali, e/o sull’attività legislativa, e/o sulle attività dei consociati.

Dall’altro, potrebbe parimenti accadere che i precedenti siano privi di rilevanza formale e, nondimeno, esercitino una considerevole influenza sulle decisioni giudiziali, e/o sulla legislazione, e/o sulle attività dei consociati a essi successive.

Questa distinzione suggerisce una cautela. Quando ci s’interroga sulla “rilevanza” – ovvero la “forza”, l’“efficacia”, il “valore”, ecc. – dei precedenti in una data organizzazione giuridica, o si legge uno

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studio sulla “rilevanza” dei precedenti, è opportuno avere chiaro se l’oggetto dell’indagine sia la rilevanza formale dei precedenti; oppure la loro rilevanza empirica, al di là di un’eventuale rilevanza formale; o ancora, le due cose insieme.

10. Otto sistemi idealtipici

Ho caratterizzato la “rilevanza formale dei precedenti” come

istituita da regole giuridiche che attribuiscono ai precedenti un’influenza sui futuri comportamenti dei giudici, e/o dei legislatori, e/o dei consociati nel loro complesso.

Occorre ora chiarire in cosa possa consistere una tale “influenza”. Nella prospettiva di una teoria analitica del precedente, si possono

distinguere, sotto il profilo che qui interessa, non meno di otto diversi tipi-ideali di sistema giuridico, e precisamente:

1. sistemi con precedenti a rilevanza normativamente preclusa 2. sistemi con precedenti a rilevanza argomentativa debolissima 3. sistemi con precedenti a rilevanza argomentativa debole 4. sistemi con precedenti a rilevanza argomentativa forte 5. sistemi con precedenti vincolanti in senso debolissimo 6. sistemi con precedenti vincolanti in senso debole 7. sistemi con precedenti vincolanti in senso forte 8. sistemi con precedenti a rilevanza discrezionale.

(1) Sistemi con precedenti a rilevanza normativamente preclusa Questi sistemi – frutto di un esperimento mentale ovvero di un

esercizio di immaginazione filosofica: provare a immaginare come sarebbe un mondo diverso dal nostro in modo radicale - si caratterizzano per la vigenza di regole giuridiche che precludono ai giudici ogni utilizzazione, diretta o indiretta, dei precedenti.

In tali sistemi è altresì vietata la pubblicazione di riviste di giurisprudenza, l’annotazione e il commento delle sentenze, la massimazione delle sentenze e, in generale, ogni attività che comporti la pubblicizzazione del modo in cui una qualsivoglia controversia è stata decisa da un qualsivoglia giudice.

In sistemi di questo tipo, ciascun giudice deve decidere le controversie sottoposte alla sua cognizione unicamente sulla base del diritto scritto e delle consuetudini generali, ricorrendo, se del caso, alla sua padronanza dei metodi d’interpretazione dei materiali giuridici positivamente prescritti o culturalmente ammessi.

Sistemi siffatti, ove introdotti, realizzerebbero il modello di giurisdizione che Hermann Kantorowicz, nel celebre libello La lotta per la scienza del diritto (1906), descrisse nei seguenti termini: giudici all’opera in studioli il cui unico arredamento è costituito da un tavolo, sul quale è posata una copia dei codici vigenti.

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Un’eccezione a tale regime potrebbe forse essere essere contemplata per i giudici delle impugnazioni. Ma si tratta di una deroga tutt’altro che necessaria. L’azione davanti a un giudice superiore potrebbe infatti essere condizionata alla produzione di un certificato, nel quale il giudice inferiore attesta di avere deciso una controversia in primo grado – o, in genere, nel grado “(n - 1)”, ove “n” indica il numero massimo di gradi di giudizio previsti –, senza rivelare alcunché circa la motivazione della sua decisione. Le impugnazioni sarebbero totalmente devolutive ex lege; e le parti si troverebbero coinvolte in un processo interamente nuovo per ciascuno dei gradi di giudizio esperibili.

(2) Sistemi con precedenti a rilevanza argomentativa debolissima o puramente eventuale

In questi sistemi, a rilevanza argomentativa debolissima, i giudici sono

destinatari di semplici raccomandazioni giuridiche – che non fanno sorgere né obblighi, né invalidità/nullità/annullabilità – date, ad esempio, nella forma di “criteri gius-positivi di buona pratica giustificatoria”:

(a) di (reperire e) fare menzione nella motivazione sentenza se vi siano dei precedenti pertinenti;

(b) di seguire per quanto possibile, in ossequio ai valori della certezza, prevedibilità, affidamento, i precedenti.

L’inosservanza delle raccomandazioni non ha però alcun effetto sulla validità della sentenza (non costituisce, pertanto, vizio sostanziale e un idoneo motivo d’impugnazione), né costituisce vizio argomentativo di motivazione.

In forza di ciò, la rilevanza del precedente è argomentativa e debolissima.

(3) Sistemi con precedenti a rilevanza argomentativa debole

In questi sistemi, a rilevanza argomentativa debole, i giudici sono

destinatari di due distinti precetti concernenti la rilevanza del precedente:

(a) un primo precetto impone i giudici l’obbligo di reperire gli eventuali precedenti pertinenti, e di farne menzione nella motivazione della sentenza;

(b) un secondo precetto consiste nella raccomandazione di seguire per quanto possibile, in ossequio ai valori della certezza, prevedibilità, affidamento, i precedenti.

L’inosservanza dell’obbligo di menzionare i precedenti è causa d’invalidità della sentenza, per difetto della motivazione in diritto (vizio argomentativo di motivazione), e costituisce idoneo motivo d’impugnazione.

L’inosservanza della raccomandazione di seguire i precedenti non ha, per contro, alcun effetto sulla validità della sentenza.

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Ne consegue che in sistemi di questo tipo, i giudici, una volta assolto l’obbligo di menzione dei precedenti rilevanti, possono/sono autorizzati a discostarsi dai precedenti mediante rigetti espressi apodittici o anche per semplice “fatto concludente”, decidendo in modo difforme.

La rilevanza del precedente è argomentativa debole, perché la presenza di un precedente contrario non impone alcun onere di argomentazione contraria / alcun “dovere” di dare ragioni, al giudice che intenda discostarsene. (4) Sistemi con precedenti dotati di rilevanza argomentativa forte

Un sistema attribuisce ai precedenti una rilevanza argomentativa – o

“persuasiva” – in senso forte, se impone ai giudici: (a) l’obbligo di reperire gli eventuali precedenti pertinenti, e di

farne menzione nella motivazione della sentenza; (b) l’obbligo di seguire i precedenti – ovverosia, di decidere il caso

sulla base di quei precedenti – a meno che non sia possibile addurre “buone”, o “serie”, o “gravi”, o “più forti”, ragioni per discostarsene / per rovesciare (overrule) il precedente.

L’inosservanza di questi obblighi è causa d’invalidità della sentenza, per difetto della motivazione in diritto (vizio argomentativo di motivazione), e costituisce di per sé idoneo motivo di impugnazione.

È questo il sistema che – secondo le note analisi di Gino Gorla –sarebbe vigente nel diritto positivo italiano, secondo una lettura opportuna degli artt. 111 Cost. e 65 ord. giud. (5) Sistemi con precedenti vincolanti in senso debolissimo (eccezioni aperte, openly defeasible, open defeasibility)

Un sistema attribuisce ai precedenti un’efficacia vincolante

debolissima, o assai relativa, se impone ai giudici: (a) l’obbligo di reperire gli eventuali precedenti pertinenti, e di

farne menzione nella motivazione della sentenza; (b) l’obbligo di seguire i precedenti – ovverosia, di decidere il caso

sulla base di quei precedenti, a meno che non ricorra una delle situazioni eccezionali di una lista aperta (esemplificativa: casi paradigmatici e situazioni analoghe).

L’inosservanza di questi obblighi è causa d’invalidità della sentenza, per violazione di norme di diritto (vizio sostanziale di motivazione), e costituisce idoneo motivo di impugnazione.

(6) Sistemi con precedenti vincolanti in senso debole (eccezioni tassative, closedly defeasible, closed defeasibility)

Un sistema attribuisce ai precedenti un’efficacia vincolante debole, o

relativa, se impone ai giudici:

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(a) l’obbligo di reperire gli eventuali precedenti pertinenti, e di farne menzione nella motivazione della sentenza;

(b) l’obbligo di seguire i precedenti – ovverosia, di decidere il caso sulla base di quei precedenti, a meno che non ricorra una delle situazioni eccezionali consacrate in modo tassativo dal diritto vigente – nelle quali è autorizzato a discostarsene (eccezioni chiaramente/rigorosamente formulate in una lista tassativa, chiusa, indisponibile).

Una variante intermedia tra questo sistema e il precedente potrebbe forse caratterizzarsi nel seguente modo:

- ci si può discostare dal precedente soltanto in una delle ipotesi eccezionali tassativamente previste;

- ciascuna di tali ipotesi è però descritta in un linguaggio altamente indeterminato, elusivo, che lascia ampio spazio a manovre interpretative.

(7) Sistemi con precedenti vincolanti in modo assoluto

Un sistema attribuisce ai precedenti un’efficacia vincolante assoluta, o

in senso forte, se impone ai giudici: (a) l’obbligo di reperire gli eventuali precedenti pertinenti, e di

farne menzione nella motivazione della sentenza; (b) l’obbligo di seguire in ogni caso tali precedenti, senza alcuna

possibilità di eccezione e anche se vi sarebbero delle “buone”, o “serie”, “gravi”, o “più forti” ragioni per discostarsene.

L’inosservanza di questi obblighi è causa d’invalidità della sentenza, per violazione di norme di diritto, e costituisce idoneo motivo di impugnazione. (8) Sistemi con precedenti a rilevanza discrezionale

In questi sistemi, infine, i giudici possono (nel senso che: sono

espressamente o tacitamente autorizzati ad) attribuire ai precedenti quella influenza, rispetto alla loro attività decisionale, che essi stessi ritengono opportuno attribuirgli, di volta in volta, alla luce delle concrete circostanze dei casi sottoposti alla loro cognizione.

In un sistema di questo tipo, pertanto, ciascun giudice può giudicare come se non vi fossero precedenti; oppure può limitarsi a richiamare gli eventuali precedenti in subiecta materia, discostandosene senza assolvere ad alcun particolare onere argomentativo; o ancora, può discostarsene, ma soltanto dopo avere assolto l’onere di una elaborata argomentazione in contrario; o infine, può seguire in modo acritico i precedenti, in quanto precedenti, scegliendo di attribuire loro forza vincolante rispetto alla propria attività decisoria. Ciascuna opzione è perfettamente legittima e, dunque, incensurabile in sede di impugnazione. 11. Rilevanza “orizzontale” e rilevanza “verticale” dei precedenti

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Negli otto sistemi sopra delineati ho trattato della rilevanza formale

dei precedenti rispetto all’attività decisionale dei giudici, senza tenere conto di un dato strutturale che accomuna le esperienze giuridiche moderne. Alludo all’organizzazione gerarchica degli uffici giudiziari, in base alla quale si distingue di solito fra giudici di primo grado, giudici di appello, e giudici supremi.

Alla luce di questo dato, si suole tracciare un’ulteriore distinzione: fra “rilevanza orizzontale” e “rilevanza verticale” dei precedenti.

I precedenti hanno rilevanza orizzontale se di essi devono tenere conto – nei modi indicati dalle regole del diritto positivo – i giudici dello stesso organo giudiziario che li ha formulati e/o utilizzati, oppure di organi giudiziari diversi, ma equiordinati35.

I precedenti hanno invece rilevanza verticale discendente se di essi devono tenere conto – nei modi indicati dalle regole del diritto positivo – i giudici di uffici giudiziari sotto-ordinati (“inferiori”) rispetto ai giudici che li hanno formulati e/o utilizzati.

I precedenti hanno, infine, una qualche rilevanza verticale ascendente se di essi devono tenere conto – nei modi indicati dalle regole del diritto positivo – i giudici di uffici giudiziari sovra-ordinati (“superiori”) rispetto a quelli che li hanno formulati e/o utilizzati.

Com’è ovvio, in uno stesso sistema i precedenti possono avere sia una rilevanza orizzontale, sia una rilevanza verticale (ascendente e/o discendente).

Alla luce di tale distinzione è possibile identificare, combinatoriamente, non meno di ventiquattro diversi tipi di sistemi giuridici, nella prospettiva della rilevanza formale dei precedenti, e precisamente: (1) sistemi con precedenti a rilevanza normativamente preclusa, orizzontale e verticale ; (2) sistemi con precedenti a rilevanza orizzontale normativamente preclusa; (3) sistemi con precedenti a rilevanza verticale normativamente preclusa; (4) sistemi con precedenti a rilevanza argomentativa debolissima, orizzontale e verticale; (5) sistemi con precedenti a rilevanza argomentativa debolissima orizzontale; (6) sistemi con precedenti a rilevanza argomentativa debolissima verticale; ecc. , ecc.

Questa tipologia, com’è ovvio, potrebbe essere ulteriormente ampliata, tenendo conto della distinzione fra “rilevanza verticale ascendente” e “rilevanza verticale discendente”. Occorrerebbe, inoltre, inserire nei tipi ideali di sistema del precedente ulteriori regole: attinenti, ad esempio, alla risoluzione di eventuali conflitti fra precedenti. Tali esperimenti di ingegneria istituzionale esulano però dai limiti del presente lavoro.

Un’ultima osservazione. La costruzione di tipologie come quella appena accennata può apparire oziosa: un vuoto esercizio di ars combinatoria. Tuttavia, se le proprietà che ne costituiscono gli elementi

35 Con riguardo alla rilevanza orizzontale del precedente si è anche parlato di

«autoprecedente»: cfr. M. Gascón Abellán, La técnica del precedente y la argumentación racional, cit., pp. 11-12, 47 ss.

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(o i “pezzi” da combinare) sono state caratterizzate in modo da cogliere aspetti rilevanti delle realtà di cui si intende dare conto, esse possono rivelarsi degli utili strumenti esplicativi.