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Giovanni Salmeri Piccola storia della logica I. Dall’antichità a Leibniz Roma 1999

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Giovanni Salmeri

Piccolastoria della logicaI. Dall’antichità a Leibniz

Roma 1999

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Presentazione ................................................................................................ 3

1. L’analitica di Aristotele .............................................................................. 51.1. Il tema dell’analitica ............................................................................... 51.2. I termini e la proposizione...................................................................... 71.3. Le categorie ............................................................................................ 81.4. La quantificazione .................................................................................. 91.5. Figure e modi del sillogismo................................................................. 101.6. La dimostrazione dei sillogismi ............................................................ 121.7. Il procedimento scientifico................................................................... 131.8. Il procedimento dialettico .................................................................... 16

2. La logica megarico-stoica......................................................................... 192.1. Il concetto di logica .............................................................................. 192.2. La logica proposizionale ....................................................................... 202.3. I discorsi conclusivi ............................................................................... 222.4. Gli indimostrabili .................................................................................. 232.5. L’antinomia del mentitore.................................................................... 23

3. L’arte combinatoria di Leibniz ................................................................. 253.1. La rifondazione della logica.................................................................. 253.2. La concezione della verità .................................................................... 26

4. La logica nel Novecento........................................................................... 304.1. Georg Cantor (1845-1918) ................................................................... 30

4.1.1. La teoria degli insiemi ............................................................ 304.1.2. La gerarchia dei transfiniti...................................................... 32

4.2. Gottlob Frege (1848-1925)................................................................... 344.2.1. La fondazione della matematica ............................................ 344.2.2. Funzione, senso, significato ................................................... 364.2.3. La logica proposizionale ......................................................... 384.2.4. La logica dei predicati............................................................. 41

4.3. David Hilbert (1862-1943).................................................................... 444.3.1. L’assiomatica.......................................................................... 444.3.2. Gli assiomi di Peano ............................................................... 46

4.4. Kurt Gödel (1906-1978)........................................................................ 484.4.1. Gödelizzazione e diagonalizzazione ....................................... 484.4.2. I due teoremi di limitazione ................................................... 49

4.5. Alan M. Turing (1912-1954) ................................................................. 524.5.1. Computabilità e tesi di Church............................................... 524.5.2. Il modello di Turing e Post...................................................... 534.5.3. Informatica e pensiero artificiale ........................................... 55

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Presentazione

Le pagine seguenti, che ho riscoperto in un angolo del mio disco rigido,sono un tentativo di presentare in maniera molto breve gli elementi fondamen-tali della storia della logica (e quindi dei suoi contenuti e problemi) con un lin-guaggio accessibile a studenti di scuola media superiore. Per spiegare il caratte-re di questo testo, credo che la cosa più semplice sia raccontarne la storia.

Comincio da lontano: il mio itinerario scolastico credo che sia stato similea quello dei miei coetanei. Nella scuola elementare lo studio dell’aritmetica eraaccompagnato da «note di insiemistica» che ruotavano attorno alle collezioni digiocattoli di Teo e Tea. Da quel che ricordo, tanto per il maestro quanto per noiscolari rimaneva misterioso quale fosse per comprendere meglio la matematical’utilità di quei giochini, e presto li abbandonammo (non ricordo se prima o do-po di aver imparato che i giocattoli che Teo e Tea avevano in comune era un’«in-tersezione»). Nella scuola media studiai solo buona tradizionale algebra e geo-metria (forse perché programmi e libri erano differenti, forse perché il professo-re ne saltava saggiamente qualche capitolo). Ma negli scaffali di casa, complicela passione di mio padre, trovavo molti libri che presentavano questa materia inmodo originale (per esempio la miniera dei cinque volumi di Enigmi e giochi ma-tematici di Martin Gardner) e così mi convincevo che la matematica poteva es-sere divertente (e anche la logica, della quale avevo un’idea solo molto vaga).Nel ginnasio-liceo invece un poco di logica e di teoria degli insiemi le studiai se-riamente, ricavandone un’impressione molto positiva: il modo di descrivere fattimatematici mi appariva più chiaro e preciso.

In quel periodo (gli anni ’80) iniziava a diffondersi l’informatica personale:il primo computer che ebbi tra le mani fu il minuscolo Radio Shack TSR-80 PC-1(http://oldcomputers.net/trs80pc1.html), con il quale iniziai i primi esperimentidi programmazione. E negli stessi anni mio fratello maneggiava l’elettronica di-gitale, e a casa entravano, come libri preziosi, i databook dei circuiti integrati: fucosì che scoprii che ciò che io chiamavo «congiunzione», «disgiunzione» e «di-sgiunzione esclusiva» (o magari latineggiando «et», «vel» e «aut») lui lo chiava-ma AND, OR e XOR. Si cominciava a parlare anche dell’introduzione dell’infor-matica a scuola, e rimanevo scandalizzato quando sentivo discorsi che ruotava-no sempre attorno a macchine da comprare: come se per studiare informatica cifosse bisogno di un computer! (Su ciò non ho cambiato idea, peraltro.)

Quando mi iscrissi al corso di laurea in filosofia, fuorviato da un foglio chelo indicava come «fondamentale», cominciai a frequentare il corso di Propedeu-tica filosofica. In realtà il professore spiegò subito che l’esame non era obbliga-torio, e che lui avrebbe trattato solo di logica formale. Alla terza lezione rima-nemmo in due. È uno dei corsi che ricordo con più piacere, faticoso ma estrema-

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mente formativo: la soddisfazione di fare cose difficili! Per l’esame, oltre a tuttociò che avevamo studiato di teoria (per verificare la quale noi due sopravvissutidovemmo sostenere un esame scritto dimostrando una ventina di teoremi), ilprogramma prevedeva i due volumi de La logica formale di Józef Maria Bocheń-ski, in cui imparai a collegare ciò che avevo studiato con una storia della filoso-fia che conoscevo sì, ma della quale non avevo mai seriamente esaminato il ver-sante logico.

Subito dopo la laurea tornai al mio liceo per insegnare filosofia e mi por-tai dietro tutto questo: per esempio l’idea che anche per le scienze «esatte» lastoria (con nomi e volti) fosse importante e potesse anche servire a collegaremeglio le materie tra di loro; o la consapevolezza che filosofia, matematica, logi-ca, informatica fossero cose diverse, ma con molti intrecci; o la convinzione chela chiarezza nel linguaggio e nel ragionamento è sempre una buona qualità.Non sempre soddisfatto del libro di testo iniziai a riscrivere alcuni capitoli di sto-ria della filosofia: mi preoccupavo soprattutto di essere preciso, evitando il piùpossibile le affermazioni generiche e cercando invece di esporre le argomenta-zioni, senza le quali la filosofia non esiste. Fu così che mi venne l’idea di scrivereanche un capitolo di storia della filosofia sulla logica del Novecento. Il mio scopoera scegliere alcuni temi più importanti, semplificare il discorso in maniera chefosse accessibile ad uno studente liceale, contemporaneamente dando un’ideachiara dei concetti centrali e del procedimento effettivo del ragionamento logi-co.

Ciò che segue è la bozza di quel progetto (composta negli anni ’90), prece-duto dalle parti dedicate alla logica di Aristotele, degli stoici e di Leibiniz, estrat-te dai relativi capitoli più o meno completi che scrissi (e che poi pubblicai nel sitohttp://mondodomani.org/mneme/). Dico «bozza», perché il testo sicuramenteavrebbe bisogno di essere riveduto e corretto. Inoltre, considerando l’insieme,sicuramente è sottostimata la logica medievale, qui ridotta solo a qualche com-plemento dell’analitica di Aristotele. Ma dopo poco lasciai l’insegnamento al li-ceo e cominciai a lavorare ad altre cose: una revisione non è dunque mai avve-nuta, né sarei in grado di farla ora. Salvo piccole modifiche, ho preferito dunquelasciare il testo com’era. D’altra parte non so neppure se gli attuali programmiliceali prevedano quegli agganci che ai miei occhi rendevano sensato il proget-to: per esempio ora l’informatica è nominata solo sotto forma di «strumento», enelle indicazioni sulla filosofia contemporanea non si cita mai espressamente lalogica. Chissà però se, anche così come sono, queste pagine possano servire aqualcosa o a qualcuno.

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1. L’analitica di Aristotele

1.1. Il tema dell’analitica

Secondo l’ordine tradizionale, si occupa di logica il primo gruppo di operedi Aristotele (384-323 a.C.): Sulle categorie, Sull’interpretazione, Analitici primi,Analitici secondi, Topici, Confutazioni sofistiche. Il nome «logica» è però assentein Aristotele, che usa invece il nome di «analitica». Queste opere furono raccol-te da Andronìco di Rodi sotto il titolo di Ὄργανον, cioè «strumento». Così facen-do egli suggeriva che l’analitica fosse una tecnica al servizio della filosofia, piut-tosto che una sua parte.

Che cosa ritenesse Aristotele stesso va desunto, più che da affermazioniesplicite, dall’origine di tali indagini, che probabilmente datano dai primi anni dipresenza nell’Accademia di Platone. Qui l’ambiente molto aperto e libero favorìsenza dubbio l’elaborazione di sue posizioni originali, che diedero occasione allapubblicazione delle prime opere. Tra essi va classificato anche il Protrettico,opera (perduta) di esortazione alla filosofia scritta in polemica con Isocrate, chenella contemporanea Antidosi (353) si faceva sostenitore di una formazione cul-turale fondamentalmente letteraria. Aristotele vuole invece legare la retorica al-la dialettica (l’arte platonica della discussione argomentata), e sul tema comin-cia anche a tenere corsi all’interno dell’Accademia. È verosimile che l’attività di-dattica sia accompagnata dalla stesura di trattati ad uso interno, che possonocoincidere in buona parte con le opere giunteci.

L’analitica di Aristotele nasce dunque dal desiderio di rendere più rigoro-sa la dialettica platonica fino a trasformarla in un metodo descrivibile e chiara-mente differenziato dai procedimenti retorici (che vengono sì studiati da Aristo-tele, ma come rientranti nel campo della tecnica). L’impostazione che permettequesto progresso viene manifestata con esemplare chiarezza già nei Topici,quello che probabilmente è il suo primo scritto sull’argomento:

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Il fine che questo trattato si propone è di trovare un metodo con cui poter costruire,per ogni problema proposto, dei sillogismi. [...] Sillogismo è propriamente un discorso(λόγος) in cui, posti alcuni elementi, risulta per necessità, a causa degli elementi stabiliti,qualcosa di differente da essi. Si ha così anzitutto dimostrazione, quando il sillogismo è costi-tuito e deriva da elementi veri e primi. [...] Dialettico è poi il sillogismo che conclude da ele-menti plausibili (ἔνδοξα). [...] Eristico è infine il sillogismo costituito da elementi che sembra-no plausibili, pur non essendolo, e anche quello che all’apparenza deriva da elementi plausi-bili o presentatisi come tali (Top. I 100 a18-b25).

Insomma, scopo ultimo della logica è individuare le leggi del ragionamen-to (συλλογισμοί). Una legge logica è quella che mi assicura che una certa con-nessione di proposizioni è sempre corretta, in virtù della sua semplice forma, aprescindere dalla verità delle proposizioni che la compongono (per questo oggisi usa parlare di «logica formale»). Per esempio, il ragionamento «se l’uomo èun anfibio, allora può vivere nell’acqua» è corretto, anche se la conclusione insé è falsa, essendo falsa la premessa. Viceversa, il ragionamento che dalla stes-sa premessa concludesse che «l’uomo non può vivere nell’acqua», sarebbescorretto, benché la conclusione sia vera. Il sillogismo corretto non assicuraquindi che ci siano conclusioni vere, ma assicura che, quando siano poste pre-messe vere, anche la conclusione sia vera.

Tale nuova impostazione puramente formale, sganciata dai contenuti diqualsivoglia scienza, spalanca in effetti ad Aristotele un campo di problemi mol-to grande, studiati con completezza e raffinatezza incomparabilmente superioria quelle usate da Platone. Questo è il motivo per cui l’effettiva esecuzione delcompito va molto oltre le originarie intenzioni, mentre viene in parte perso divista l’intento di chiarire il procedimento effettivo delle scienze. Ciò è tanto veroche Aristotele stesso dovrà annotare che non si può imporre in ogni campo delsapere (per esempio nell’etica) quell’esattezza dimostrativa messa in opera nel-la teoria del sillogismo.

È da notare che, anche se la definizione dell’analitica sembra richiamare alcuni aspet-ti della matematica (in particolare della geometria, della quale già all’epoca di Platone erachiara quella struttura deduttiva che più tardi Euclide formalizzerà), Aristotele non stabiliscenessun legame tra le due. Ciò si inquadra bene nella sua diffidenza nei confronti della mate-matica, che nell’Accademia platonica a lui contemporanea aveva preso un posto preponde-rante, a suo avviso abusivo e ingiustificato: la matematica per Aristotele è al massimo unadelle scienze teoretiche, che esamina la realtà astraendo dalla sua materia e mantenendonesolo gli aspetti quantitativi. L’analitica è invece lo studio preliminare di tutte le leggi del ragio-namento, che si applicano a qualsiasi scienza.

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1.2. I termini e la proposizione

Anzitutto Aristotele si rende conto che la teoria del sillogismo non può es-sere costruita se non cominciando ad analizzarne le componenti. Bisogna alloradire che il sillogismo è composto di «proposizioni», e che queste sono costituiteda «termini». È questa una distinzione che avrà una grande fortuna nella storiadella logica e che si può dire mantenuta in buona parte fino ad oggi.

Riguardo ai termini, Aristotele conduce analisi dettagliate sulla strutturadel linguaggio e sulle parti del discorso, fermando la sua attenzione in particola-re sul nome (ὄνομα) e sul verbo (ῥῆμα), inaugurando in questo modo anchel’analisi logica del linguaggio. Il carattere principale che egli riconosce ai terminiè il loro carattere significativo ovvero simbolico: «I suoni della voce sono simbolidelle affezioni che hanno luogo nell’anima, e le lettere scritte sono simboli deisuoni della voce» (De int. 16 a2). Tuttavia tale rapporto è solo convenzionale:non c’è nessun rapporto necessario tra il suono ['hippɔs] e il concetto del caval-lo, tant’è vero che altre lingue adoperano suoni differenti. Importante è perònotare che, malgrado il rapporto solo convenzionale, il linguaggio esprime tutta-via realmente il pensiero dell’uomo, e in quanto tale può essere il punto di par-tenza di un’analisi della forma e della struttura del ragionamento.

Entra più decisamente nel campo della logica l’analisi della proposizione.Essa viene anzitutto definita così:

La proposizione (πρότασις) è un discorso che afferma o che nega qualcosa rispetto aqualcosa. [...] Chiamo d’altra parte termine (ὅρος) l’elemento cui si riduce la proposizione,ossia ciò che è predicato e ciò di cui è predicato [cioè il soggetto], con l’aggiunta di essere odi non essere [cioè della copula] (Anal. pr. I 24 a16-b16).

Come nei termini ciò che conta è il loro significato, così nelle proposizioniè la loro verità o falsità. Anzitutto per Aristotele è evidente che il vero e il falsonon si trovano nelle cose, ma soltanto nel pensiero dell’uomo: non è questamela vera o falsa, ma solo ciò che io penso di essa. Inoltre:

Come nell’anima talvolta sussiste una nozione che prescinde dal vero e dal falso, e tal-volta sussiste invece qualcosa cui spetta necessariamente o di essere vero o di essere falso,così avviene pure per quanto si trova nel suono della voce. In effetti, il falso e il vero consisto-no nella congiunzione e nella separazione. In sé, i nomi e verbi assomigliano dunque alle no-zioni, quando queste non siano congiunte a nulla né separate da nulla. [...] Dichiarativi sono,però, non tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un’enunciazione vera oppure falsa. Taleenunciazione non sussiste certo in tutti: la preghiera, ad esempio, è un discorso, ma non ri-sulta né vera né falsa (De int. 16 a9 - 17 a7).

Ma che cosa significa che una proposizione è vera?

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Se è vero dire che una cosa è bianca (oppure che non è bianca), essa sarà ne-cessariamente bianca (oppure non sarà bianca), e d’altra parte, se una cosa è bianca (oppurenon è bianca), era vero affermare oppure negare la cosa (De int. 18 a40-b1).

Malgrado l’apparente banalità, questa definizione della verità come corri-spondenza tra la proposizione e la realtà eserciterà — condivisa o contestata —un’influenza decisiva sulla storia della filosofia.

1.3. Le categorie

Un’attenzione particolare è dedicata da Aristotele al verbo «essere» cherealizza la connessione grazie alla quale la proposizione può essere vera o falsa.Come si è visto, per Aristotele ogni proposizione può infatti assumere fonda-mentalmente solo le due forme «x è y» oppure «x non è y». Ciò è in effetti veroalmeno per la lingua greca, in cui anche i predicati verbali possono essere sem-pre riespressi sotto forma di copula e participio (osserva Aristotele: «Infatti nonc’è nessuna differenza tra “l’uomo è vivente” e “l’uomo vive”, né tra “l’uomo ècamminante” o “tagliante” e “l’uomo cammina” o “taglia”, e ugualmente ancheper gli altri casi», Metaph., V.7 1017 a 27-30). Questa era la scoperta che giàaveva fatto Parmenide.

Ciò che però viene continuamente contestato a Parmenide è la pretesache «ente» abbia un unico significato. Bisogna invece dire che «l’ente si dice inmolti significati diversi» (τὸ ὄν πολλαχῶς λέγεται, Metaph. IV 1003 a33 e altro-ve). Quando si considera, come stiamo appunto facendo, il verbo «essere» usa-to nelle proposizioni, bisogna dire che esso non ha un significato autonomo eunico, ma assume tutti i possibili significati dei termini che connette. Tali signifi-cati vengono classificati in alcuni gruppi principali (otto o dieci secondo i testi),chiamati «generi delle predicazioni» o in breve «predicazioni» (κατηγορίαι). Ec-co il testo più schematico al riguardo:

Delle cose dette secondo nessun collegamento [= termini] ciascuna significa o esisten-za o di una quantità o di una qualità o in relazione a qualcosa o in un luogo o in un tempo ogiacere o avere o fare o subire. Ed è esistenza (per fare un caso) ad esempio «uomo», «caval-lo»; di una quantità per esempio «di due cùbiti», «di tre cùbiti»; di una qualità per esempio«bianco», «grammatico»; in relazione a qualcosa per esempio «doppio», «maggiore»; in unluogo ad esempio «nel liceo», «in piazza»; in un tempo ad esempio «ieri», «un anno fa»; gia-cere per esempio «è disteso», «siede»; avere per esempio «è calzato», «è armato»; fare peresempio «tagliare», «bruciare»; subire per esempio «venir tagliato», «venir bruciato» (Cate-gorie, 1.4 1 b 25 — 2 a 4).

La distinzione più netta è tra la prima categoria e tutte le altre. La prima(in greco ousía, in italiano tradizionalmente reso con sostanza) indica infatti ilsoggetto primo, ciò che «esistendo» permette l’attribuzione di altri predicati:una considerazione questa che svolgerà un ruolo centrale nella Metafisica.

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All’interno dell’analitica, la teoria delle predicazioni adempie invece ad una fun-zione solo preliminare: mostrare come la riduzione di tutte le proposizioni allaforma soggetto-predicato nominale non pregiudica le possibilità espressive ed èperciò perfettamente accettabile.

Se le categorie abbiano un valore anche ontologico, se indichino cioè non solo igeneri dei predicati ma anche i generi della realtà stessa, è un problema che è statomolto dibattuto. In linea generale si può notare che l’analisi linguistica è per Aristoteleun punto di partenza costante, ma in numerose occasioni egli mette in guardia da unameccanica trasposizione dal piano del linguaggio a quello della realtà. Ecco uno deipassi più significativi:

Dato che non è possibile discutere presentando gli oggetti come tali, e che ci serviamo invecedei nomi come di simboli che sostituiscono gli oggetti, noi riteniamo allora che i risultati osservabili aproposito dei nomi si verifichino anche nel campo degli oggetti, come avviene a coloro che fanno cal-coli usando dei ciottoli. Eppure le cose non stanno allo stesso modo nei due casi: in effetti, il numerodei nomi è limitato, mentre gli oggetti sono numericamente infiniti (Confutazioni sofistiche I, 1652 a5-10).

1.4. La quantificazione

La classificazione delle proposizioni più importante per l’analitica riguar-da invece quella che modernamente è chiamata «quantificazione dei predica-ti»:

La proposizione è dunque un discorso che afferma o nega qualcosa rispetto a qualco-sa. Tale discorso, poi, è universale o particolare. [...] Con discorso universale intendo quelloche esprime l’appartenenza ad ogni cosa o a nessuna cosa; con discorso particolare, intendoquello che esprime l’appartenenza a qualche cosa o la non appartenenza a qualche cosa(Anal. pr. I 24 a16-20).

«Qualche» va inteso nel senso del moderno quantificatore esistenziale,cioè «almeno uno», assumendo che la classe individuata dal termine non siavuota. Si osservi che Aristotele non cita qui le proposizioni singolari, in cui cioè ilsoggetto indica un solo oggetto, né le considera mai esplicitamente nella tratta-zione dell’analitica. Tale esclusione non conduce però a nessuna grave deficien-za teorica, giacché, come è facile mostrare, nella teoria del sillogismo esse risul-terebbero formalmente equivalenti a proposizioni universali. In conclusione, sihanno solo i seguenti quattro modelli di proposizioni (rappresentate dai logicimedioevali con le lettere indicate a sinistra, che sono le prime vocali di affirmoe nego):

a: ogni x è yi: qualche x è ye: nessun x è y

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o: qualche x non è y

Tra i quattro modelli di proposizioni Aristotele individua dei rapporti che nelMedioevo vennero rappresentati nel «quadrato logico»:

Le proposizioni contrarie non possono essere contemporaneamente vere; quel-le subcontrarie non possono essere contemporaneamente false; delle contraddittoriela verità dell'una equivale alla falsità dell’altra; le subalterne (i, o) sono sempre verequando la subalternante (a, e) è vera.

1.5. Figure e modi del sillogismo

Dopo averne esaminato gli elementi costitutivi, si può infine considerareil sillogismo in sé. Quale ne sarà la forma generale? Bisogna anzitutto dire che ilsillogismo deve avere due premesse e una conclusione: da una sola premessanon si potrebbero trarre infatti conclusioni corrette. In generale, dunque, essoassumerà la forma: «se p e q, allora r», dove le tre lettere p, q, r stanno per trediverse proposizioni. Che cosa si può dire dei termini delle proposizioni? Condi-zione necessaria perché sia possibile trarre una conclusione corretta è che ledue premesse abbiano in comune un termine (detto «medio»), che serva percosì dire da «ponte» per poter connettere gli altri due (detti «estremi»). In so-stanza, sono possibili quattro «figure» del sillogismo, differenti solo per l’ordinedei termini (quello medio è indicato con y, gli estremi con x e z):

1. se ... y ... z e ... x ... y, allora ... x ... z2. se ... z ... y e ... x ... y, allora ... x ... z3. se ... y ... z e ... y ... x, allora ... x ... z4. se ... z ... y e ... y ... x, allora ... x ... z

Ora, secondo ciascuna di queste quattro figure possono essere costruitisillogismi connettendo i termini secondo uno dei quattro tipi di proposizioneprima considerati: affermativa universale, affermativa particolare, negativa uni-versale, negativa particolare. Un elementare calcolo combinatorio mostra che inquesto modo è possibile costruire 256 differenti sillogismi (4 figure × 4 primepremesse × 4 seconde premesse × 4 conclusioni). Ma quali di questi sillogismisono validi? quali cioè rappresentano ragionamenti corretti? Questo è il proble-

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ma fondamentale dell’analitica. Per riassumere la risposta di Aristotele, usere-mo la simbologia elaborata nel Medioevo soprattutto da Pietro Ispano (1219ca.-1277) e ancor oggi celebre. In essa ogni sillogismo è indicato da una parolamnemonica, in cui le tre vocali indicano nell’ordine la quantità delle premesse edella conclusione. Ecco dunque la tavola completa dei sillogismi (o «modi») vali-di:

1ª figura 2ª figura 3ª figura 4ª figura

barbara cesare darapti [bamalip]darii camestres datisi [camenes]celarent baroco disamis [fesapo]ferio festino felapton [fresison][barbari] [cesaro] ferison [dimaris][celaront] [camestrop] bocardo [camelop]

Tra parentesi quadre sono indicati i sillogismi che Aristotele analizza conminore dettaglio degli altri. I sillogismi validi sono comunque, dei 256 possibili,solo ventiquattro. Un esempio per ciascuna delle quattro figure:

1. barbara se ogni y è z e ogni x è y, allora ogni x è z2. camestres se ogni z è y e nessun x è y, allora nessun x è z3. felapton se nessun y è z e ogni y è x, allora qualche x non è z4. fresison se nessuno z è y e qualche y è x, allora qualche x non è z

A questo punto, ovviamente, è possibile sostituire alle lettere qualsiasinome universale: il ragionamento sarà sempre corretto, e, se le premesse saran-no vere, si otterrà una conclusione vera (ovvero un «sillogismo dimostrativo»).Ecco il celeberrimo esempio di un sillogismo barbara: «se ogni uomo è mortalee ogni ateniese è uomo, allora ogni ateniese è mortale» (spesso quest’esempioviene citato usando come termine «Socrate» anziché «ateniese»: si tratta di unanacronismo di quasi due millenni, giacché i termini singolari saranno introdottinella sillogistica solo da Guglielmo di Occam [1280-1349]). È opportuno notareche, a parte l’enunciazione un po’ differente da quella qui usata, anche Aristote-le discute i sillogismi in una forma estremamente concisa ed esatta, che diven-terà tipica per tutti gli scritti di logica della storia. Ecco per esempio come enun-cia il sillogismo barbara: «Se A si predica di ogni B, e se B si predica di ogni Γ, ènecessario che A venga predicato di ogni Γ» (Anal. pr. I 25 b32-35). Ciò che vasoprattutto notato è l’uso delle variabili per indicare i termini. È superfluo direche si tratta di una delle scoperte più feconde di tutti i tempi, che ha reso possi-bile lo sviluppo tanto della logica quanto della matematica: solo tramite esse sipossono infatti formulare in maniera semplice leggi universali, proprio quelle dicui Aristotele andava alla ricerca nella sua analitica.

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In una parte successiva della sua opera Aristotele compie un’importante esten-sione della sillogistica, cui accenniamo soltanto. Si tratta della «sillogistica modale», incui, oltre alle semplici affermazioni considerate finora («assertorie») vengono conside-rate anche quelle che contengono le espressioni «dev’essere» e «può essere». Ai sillo-gismi prima considerati, in cui entrambe le premesse sono assertorie, se ne aggiungo-no quindi altre otto classi, secondo le varie combinazioni dei tre tipi di proposizioni.Dei possibili sillogismi risultanti, Aristotele ne studia esplicitamente non meno di 137,in pagine che sono tra le più complesse della sua opera e che saranno molto spesso in-comprese o fraintese.

1.6. La dimostrazione dei sillogismi

Aristotele non si limita ad individuare quali siano le forme corrette di sil-logismo: egli si preoccupa anche di darne una dimostrazione. Riguardo ad essa,egli è cosciente che essa deve necessariamente fermarsi a premesse indimostra-bili, che possano essere accettate per la loro evidenza:

È ignoranza non sapere di quali cose si debba ricercare una dimostrazione e di quali,invece, non si debba cercare. Infatti, in generale, è impossibile che ci sia dimostrazione di tut-to: in tal caso si procederebbe all’infinito, e in questo modo, di conseguenza, non ci sarebbeaffatto dimostrazione (Metaph. IV 1006 a5-9).

Nel caso dei sillogismi, gli sembra che quelli della prima figura possanosvolgere tale compito. Essi costituiscono quindi, nella terminologia odierna, gli«assiomi» del sistema sillogistico. Agli assiomi bisogna tuttavia aggiungere delleregole di derivazione. Aristotele individua come sufficienti le seguenti leggi disostituzione:

s: nessun x è y = nessun y è xs: qualche x è y = qualche y è xp: ogni x è y = qualche y è xm: se p e q allora r = se q e p allora rc: se p e q allora r = se non-r e q allora non-p

In tutti e cinque i casi, l’espressione a sinistra deve essere sostituita conquella a destra. Le prime tre leggi sono regole di «conversione» delle premesse,la quarta (non esplicitamente enunciata da Aristotele) stabilisce la possibilitàd’invertire le premesse del sillogismo, l’ultima rappresenta la riduzione all’as-surdo. Le lettere indicate a fianco sono anche qui i simboli medioevali, che si ri-trovano nei nomi dei sillogismi della seconda, terza e quarta figura: quando s op seguono una vocale, significa dunque che la proposizione corrispondente vaconvertita, quando compare una m le premesse vanno invertite, quando com-pare all’interno una c che bisogna effettuare la riduzione all’assurdo, even-tualmente invertendo prima le premesse. (Tutte le altre consonanti sono sem-

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plicemente riempitive.) In questo modo si giungerà alla forma della prima figurache inizia con la stessa consonante. Per esempio, per dimostrare disamis biso-gna: convertire la prima premessa (disamis); convertire la conclusione (disa-mis); invertire le premesse (disamis); così si ottiene un sillogismo darii (disamis).

Basteranno i successivi sviluppi della logica megarico-stoica per mettere in lucecome nell’analitica di Aristotele sia contenuto solo un piccolo sottoinsieme di leggi lo-giche (in termini moderni, l’intera sillogistica è solo una porzione del calcolo dei predi-cati monadici del primo ordine). Ciò nonostante, i meriti di Aristotele sono enormi:con lui non soltanto viene fondata — partendo quasi dal nulla — la logica formale,della quale vengono riconosciuti e delimitati chiaramente i compiti, ma viene anchecostruito in maniera pressoché impeccabile un sistema in sé completo, che costituiràper secoli la base di innumerevoli speculazioni (talvolta acute, talaltra di nessun valo-re). Questo risultato è tanto più degno di ammirazione quanto più si veda il naufragioche la logica dovrà subire lungo diversi secoli, soprattutto a partire dal Rinascimento:affinché in epoca moderna gli scritti di Aristotele possano essere di nuovo corretta-mente interpretati e discussi, bisognerà aspettare l’opera del polacco Jan Łukasiewicz(1878-1956).

1.7. Il procedimento scientifico

Negli Analitici secondi Aristotele considera il problema dell’applicazionedei procedimenti logici alla ricerca scientifica (ἐπιστήμη). Qui non interessa piùsolo la validità formale del sillogismo, ma anche la verità delle conclusioni cheesso raggiunge. Ciò spiega la grande attenzione che viene dedicata al problemadei princìpi della dimostrazione. Come già si è visto su un altro piano, anche nel-le scienze è impossibile un regresso all’infinito, e vanno quindi individuati deifondamenti indimostrabili:

È necessario che la scienza dimostrativa si costituisca sulla base di premesse vere, pri-me, immediate, più note della conclusione, anteriori ad essa, e che siano cause di essa: aquesto modo, infatti, pure i princìpi risulteranno propri dell’oggetto provato. In realtà, un sil-logismo potrà sussistere anche senza tali premesse, ma una dimostrazione non potrebbe sus-sistere, poiché allora non produrrebbe scienza (An. post. I.2 71 b20-25).

Le premesse prime di cui si serve la scienza hanno un legame molto stret-to con la teoria metafisica della definizione. Detto in breve, i princìpi devonoesprimere ciò che in ciascun àmbito della realtà è più generale e causa di ciòche è particolare: ma questi sono proprio i caratteri che a diverso livello vengo-no espressi nella definizione di ciascuna cosa. Ciò è coerente con la ripetuta af-fermazione (di palese origine platonica) che la scienza si occupa solo dell’univer-sale e necessario e non del singolare e accidentale:

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Dell’accidente non c’è scienza. Ogni scienza, infatti, riguarda ciò che è sempre o [al-meno] per lo più: come sarebbe possibile, altrimenti, imparare o insegnare ad altri? Infatticiò che è oggetto di scienza deve potersi determinare come esistente sempre o per lo più: co-me, per esempio, che l’acqua e miele ai febbricitanti per lo più giova. Altrimenti nemmenosarà possibile enumerare i casi in cui ciò non avviene: per esempio nel novilunio, perché an-che questo accade o sempre o per lo più, mentre l’accidente non fa così (Metaph. VI 1027a19-26).

Lo spirito di quest’affermazione è giunto in una buona misura fino alla scienzamoderna, che si preoccupa appunto di formulare leggi universalmente valide. In Ari-stotele però questo punto di vista è sostenuto in una forma esclusiva: come conse-guenza per esempio la storia, trattando di episodi singolari, non può essere una scien-za, e viene in ciò paradossalmente superata dalla poesia che tende a considerare si-tuazioni ideali e dunque potenzialmente universali.

La pratica della scienza quindi non coincide con la semplice deduzione dapremesse già date, ma piuttosto consiste in gran parte in altre due operazioni:la connessione dei princìpi per giungere ad una spiegazione soddisfacente deifenomeni, e la scoperta dei princìpi stessi. Riguardo alla prima, nella terminolo-gia dell’analitica ciò significa scoprire del termine «medio», cioè quello che giu-stifica la connessione dei due estremi che è già data nell’esperienza:

La prontezza deduttiva è una certa abilità di cogliere istantaneamente il medio. Taleabilità si presenta, ad esempio, nel caso in cui, vedendo che la parte illuminata della luna stasempre rivolta verso il sole, qualcuno coglie d’un tratto il perché della cosa, ossia comprendeche ciò si verifica poiché la luna riceve la sua luce dal sole; o nel caso in cui, quando si vedeuna persona che parla con un ricco, si comprende che ciò avviene poiché questa persona sifa prestare del denaro; o anche, nel caso in cui si coglie il perché due persone siano amiche,comprendendo che ciò deriva dalla loro inimicizia per un medesimo individuo. In tutto questicasi, infatti, nel vedere gli estremi qualcuno cogli tutti i medi, cioè le cause (An. post. I.34 89b10-16).

In termini più espliciti, il primo esempio porta al seguente sillogismo: «Sela luna è un corpo che riceve la luce dal sole e tutti i corpi che ricevono la lucedal sole hanno la parte illuminata verso il sole, allora la luna ha la parte illumi-nata verso il sole» (si noti che in questo sillogismo un termine, «la luna», è sin-golare, contrariamente a quanto viene teorizzato nell’analitica da Aristotelestesso). Da questa formulazione è chiaro che in assenza del termine medio nonverrebbe detto il perché di un dato fenomeno, ciò che invece costituisce un ele-mento essenziale della scienza. La correttezza del termine medio è mostratadunque da nient’altro che la maggiore o minore capacità di spiegare i fenomeniin maniera semplice e completa.

Riguardo alla scoperta dei princìpi stessi, Aristotele assegna un ruolo fon-damentale all’esperienza. Questa è la celebre discussione in proposito che ter-mina gli Analitici secondi:

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Ci si può domandare se [...] le facoltà dei princìpi si sviluppino senza sussistere in noisin dall’inizio, oppure se esse siano innate, senza che ce ne avvediamo. In verità, se le posse-dessimo sin dall’inizio, si andrebbe incontro a conseguenze assurde, poiché si dovrebbe con-cludere che, pur possedendo conoscenze superiori alla dimostrazione, noi non ci accorgiamodi ciò. D’altra parte, se noi acquistiamo queste facoltà, senza averle possedute in preceden-za, come potremmo render noto un qualcosa e come potremmo imparare, quando non siparta da una conoscenza preesistente? Tutto ciò è infatti impossibile, come dicevamo già aproposito della dimostrazione. È dunque evidente che non è possibile possedere tali facoltàsin dall’inizio, e che non è neppur possibile che esse si sviluppino in coloro che sono del tuttoignoranti e non posseggono alcuna facoltà. Di conseguenza, è necessario che noi siamo inpossesso di una qualche capacità, non però di una capacità tale da essere più pregevole dellesuddette facoltà, quanto ad acutezza.

Pare d’altronde che questa capacità appartenga effettivamente a tutti gli animali. Ineffetti, tutti gli animali hanno un’innata capacità discriminante, che viene chiamata sen-sazione. [...] Dalla sensazione si sviluppa dunque ciò che chiamiamo ricordo, e dal ricordospesso rinnovato di un medesimo oggetto si sviluppa poi l’esperienza. [...] In seguito, sullabase dell’esperienza, ossia dell’intero oggetto universale che si è acquietato nell’anima,dell’unità al di là della molteplicità, il quale è contenuto come uno e identico in tutti gli og-getti molteplici, si presenta il principio della tecnica e della scienza. [...] Le suddette facoltànon ci sono dunque immanenti nella loro determinatezza, né provengono in noi da altre fa-coltà più produttive di conoscenza, ma vengono suscitate piuttosto dalla sensazione. [...]

È dunque evidentemente necessario che noi giungiamo a conoscere gli elementi pri-mi con l’induzione. In effetti, già la sensazione produce a questo modo l’universale. Ora, tra ipossessi che riguardano il pensiero e con i quali cogliamo la verità, alcuni risultano sempreveraci, altri invece possono accogliere l’errore; tra questi ultimi sono, ad esempio, l’opinionee il ragionamento, mentre i possessi sempre veri sono la scienza e l’intelligenza, e non sussi-ste alcun altro genere di conoscenza superiore alla scienza, all’infuori dell’intelligenza. Ciòposto, e dato che i princìpi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d’altro canto,ogni scienza si presenta congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i princìpi non sarannooggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l’in-telligenza, sarà invece l’intelligenza ad avere come oggetto i princìpi (An. post. II.19 99 b22 —100 b12).

I due termini «induzione» (ἐπαγωγή) e «intelligenza» (νοῦς) non vannoquindi contrapposti: il primo indica il procedimento tramite cui grazie all’espe-rienza viene individuato il carattere essenziale di qualcosa, che costituisce prin-cipio della scienza; il secondo la capacità individuale di compiere effettivamentetale procedimento, che quando è corretto (cosa peraltro sulla quale è facile in-gannarsi) assicura una conoscenza più fondamentale di quella «scientifica», laquale è derivata per dimostrazione.

L’appello all’esperienza mette in luce quell’irriducibile pluralismo che perAristotele sussiste nella costruzione della scienza. Sia per quanto riguarda i prin-cìpi, sia per quanto riguarda le dimostrazioni, le diverse scienze si distinguono leune dalle altre:

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Risulta evidente che, se viene a mancare qualche senso, necessariamente viene purea mancare qualche scienza, che sarà impossibile acquisire, dal momento che noi impariamoo per induzione o mediante dimostrazione. Orbene, la dimostrazione parte da proposizioniuniversali, mentre l’induzione si fonda su proposizioni particolari; non è tuttavia possibile co-gliere le proposizioni universali se non attraverso l’induzione, poiché anche le nozioni ottenu-te per astrazione saranno rese note mediante l’induzione, quando cioè si provi che alcunedeterminazioni appartengono ad un singolo genere in quanto tale, sebbene non risultino se-parabili dagli oggetti della sensazione (An. post. I.18 81 a38-b5).

Non è possibile condurre la dimostrazione passando da un genere all’altro: per esem-pio, non si può dimostrare una proposizione geometrica mediante l’aritmetica. Tre sono in-fatti gli elementi costitutivi delle dimostrazioni: in primo luogo ciò che si dimostra, ossia laconclusione (la quale esprime l’appartenenza di una determinazione per sé ad un qualche ge-nere); in secondo luogo gli assiomi (gli assiomi sono le proposizioni da dove prende le mossela dimostrazione); in terzo luogo, il genere sottoposto, le cui affezioni e determinazioni per sésono rivelate dalla dimostrazione (An. post. I.7 75 a38-b2).

Qualsiasi giudizio sulla teoria aristotelica della scienza deve necessariamenteprescindere dalle vicende storiche dell’aristotelismo, e in particolare dal fatto che lascienza moderna si è affermata proprio in polemica verso di esso. È infatti evidenteche molte delle polemiche sollevate lungo la storia nei confronti di Aristotele riguarda-no in realtà una ripetizione dei risultati da lui raggiunti e non le esigenze di metodoche egli avanzava. In linea generale va poi osservato che le riflessioni di Aristotele tut-to suggeriscono fuorché la presunzione di raggiungere facilmente un’assoluta certez-za, priva di possibilità di correzione: «Determinare se la conoscenza sussista o no è dif-ficile. È infatti arduo precisare se la nostra conoscenza parta o no dai princìpi propri diqualsiasi oggetto, il che costituisce appunto il sapere» (An. post. I.9 76 a26-28).

1.8. Il procedimento dialettico

Accanto al procedimento scientifico, Aristotele conserva anche uno spa-zio per la «dialettica», che continua ad avere in lui il senso platonico di «tecnicadella discussione». Per questo — come abbiamo visto — il ragionamento dialet-tico è presentato come quello che «conclude da elementi plausibili (ἔνδοξα)», iquali a loro volta sono definiti come quelli «che paiono a tutti o alla maggiorparte o ai sapienti» (Top. I 100 b21). Non si intende con ciò dire che la dialetticaè confinata nel campo della probabilità, ma piuttosto che essa prende le mossedalle opinioni sostenuti dall’interlocutore (reale o immaginario), per vagliarle egiudicare se esse siano vere o false. Proprio perché non ha bisogno di punti dipartenza veri e necessari, la dialettica risulta utile sia per affrontare i problemiche superano l’ambito di una singola scienza, sia per accertare (in concorrenzacon il metodo induttivo) i princìpi di una determinata scienza discutendo le opi-nioni fino a quel momento espresse. Ciò non toglie che lo spazio della dialetticapare in Aristotele restringersi man mano che viene sviluppata la tecnica del sil-logismo, e la sua opera dedicata al tema (i Topici) è senza dubbio giovanile.

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Come già in Zenone, il metodo dialettico è essenzialmente quello dellaconfutazione (in termini moderni dimostrazione per assurdo): quando daun’opinione si deduce una contraddizione, risulta dimostrata la tesi contraria.Perché tale metodo possa essere applicato, sono necessari due princìpi: i cosid-detti princìpi di non contraddizione e del terzo escluso. Essi vengono discussinon nell’Órganon, ma in una sezione presumibilmente giovanile della Metafisi-ca, con la giustificazione che essi riguardano «ciò che è in quanto è», oggettoproprio della metafisica. Eccone la formulazione:

Lo stesso [attributo] non può contemporaneamente dirsi e non dirsi dello stesso [sog-getto] e nello stesso tempo (Metaph. IV 1005 b19-20).

Non è possibile che tra due proposizioni contraddittorie ci sia una via di mezzo, ma ènecessario o affermarne o negarne una sola, qualunque essa sia (Metaph. IV 1011 b23-24).

Il primo di essi viene qualificato da Aristotele «il più forte di tutti i princì-pi» e il punto di partenza per qualsiasi dimostrazione (cioè più esattamente:confutazione). Proprio per questo, ne è impossibile — come sappiamo — unadimostrazione vera e propria. È possibile però una sorta di dimostrazione indi-retta, realizzata confutando l’avversario che lo neghi:

Il punto di partenza consiste nell’esigere che l’avversario [...] dica qualcosa che abbiaun significato per sé e per gli altri; e questo è pur necessario, se egli intende dire qualcosa. Senon facesse questo, costui non potrebbe in alcun modo discorrere, né con sé stesso né conaltri; se l’avversario concede questo, allora sarà possibile una dimostrazione. [...] Se relativa-mente ad un medesimo soggetto fossero vere, ad un tempo, tutte le affermazioni contraddit-torie, è evidente che tutte quante le cose si ridurrebbero ad una sola. Infatti, saranno la me-desima cosa e una nave e una parete e un uomo, se di tutte le cose un determinato predica-to si può tanto affermare tanto negare. [...] Infatti, se a qualcuno sembra che un uomo nonsia una nave, è evidente che non è una nave; tuttavia sarà anche una nave, dal momento cheil contraddittorio è vero. Allora tutte le cose saranno confuse insieme (Metaph. IV 1006 a18 -1007 b26).

In sostanza: soltanto per il fatto di discutere, usando quindi parole cui at-tribuisce un significato determinato, l’avversario fa uso del principio di non-con-traddizione e quindi ne ammette implicitamente la validità. Questa discussioneè molto importante soprattutto dal punto di vista della semantica (cioè dellateoria del significato).

Tuttavia Aristotele può affermare che il principio è necessario e che ad esso siriducono tutte le altre leggi logiche solo perché sta pensando alle dimostrazioni perassurdo; nella sillogistica invece egli ne fa un uso molto limitato, e mostra che è possi-bile costruire sillogismi validi che tuttavia lo vìolano. Benché Aristotele più tardi notòla cosa e precisò le sue affermazioni («nessuna dimostrazione assume espressamentel’assioma secondo cui non è possibile affermare e al tempo stesso negare qualcosa diun oggetto», Anal. post. I 77 a10-12), il passo della Metafisica trarrà spesso in ingan-

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no: ancora Kant (1724-1804) chiamerà il principio di non contraddizione «il sommoprincipio di tutti i giudizi analitici» (KrV A 150/B 189).

In modo simile stanno le cose con il principio del terzo escluso, che affer-ma che non c’è una terza possibilità tra il vero e il falso (tertium non datur), eche dunque la negazione della negazione è eguale all’affermazione. Anch’essonon è necessario in senso assoluto: lo stesso Aristotele si rese conto di ciò, e li-mitò la portata di questo principio nel caso delle proposizioni «future contin-genti» (per esempio «domani ci sarà una battaglia navale»), che non sono névere né false:

Dal momento che i discorsi sono veri analogamente a come lo sono gli oggetti, è chia-ro che a proposito di tutti gli oggetti, costituiti così da accadere indifferentemente in due mo-di secondo delle possibilità contrarie, anche la contraddizione si comporterà necessariamen-te in maniera simile. È appunto ciò che avviene riguardo agli oggetti che non sono sempre,oppure a quelli che non sempre non sono. In tali casi è infatti necessario che una delle dueparti della contraddizione sia vera e l’altra falsa, ma non è tuttavia necessario che una deter-minata parte sia vera oppure falsa; sussiste piuttosto un’indifferenza tra le due possibilità, equand’anche uno dei due casi risulti più vero, la verità e la falsità non saranno tuttavia già de-cise sin da principio (De int. 9 19a33-39).

Applicare il principio del terzo escluso in questi casi equivarrebbe insom-ma ad ammettere che tutte le cose avvengono per necessità: «In tal modo, nonoccorrerebbe più che noi prendessimo delle decisioni, né che ci sforzassimo la-boriosamente» (De int. 9 18b30-31).

Il fatto che tali due princìpi sono indispensabili solo nell’ambito dialettico nontoglie nulla alla loro enorme importanza storica e teorica. Ancora oggi sono utilizzaticome criterio per distinguere i possibili generi di logica proposizionale. Così, le logicheche assumono tanto il principio di non contraddizione quanto quello del terzo esclusovengono chiamate «classiche», quelle che assumono solo il primo «intuizionistiche»,quelle che non assumono né il primo né il secondo «minimalistiche».

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2. La logica megarico-stoica

2.1. Il concetto di logica

Dopo l’analitica di Aristotele, la filosofia greca può vantare un secondogrande contributo alla costituzione della logica. Si tratta delle teorie che, svilup-pate originariamente dai Megarici e dai «Dialettici» (particolarmente Eubulidedi Mileto, Diodoro Crono e Filone di Megara) furono poi riprese e ordinate dagliStoici, in particolare da Crisippo (277-204 a.C). La conoscenza di questo contri-buto è purtroppo molto frammentario: nessuna opera originale ci è rimasta. Ciòè un segno chiaro del minore interesse con cui questa forma di logica venne stu-diata lungo i secoli, fino a venire quasi del tutto dimenticata (salvo poi essere«reinventata» nell’Ottocento).

I contributi della scuola megarico-stoica sono di due tipi: il primo com-prende approfondimenti o chiarimenti di idee già presenti in Aristotele ma informa ancora implicita o imprecisa; il secondo vere e proprie novità che com-piono una netta estensione rispetto all’analitica aristotelica. Sicuramente piùpreciso rispetto ad Aristotele è il concetto stesso di «logica» (questa denomina-zione venne messa in uso proprio dagli Stoici). Essa viene considerata senza al-cun dubbio una parte della filosofia piuttosto che un suo strumento:

[Gli Stoici] rappresentano la filosofia come un animale, paragonando la parte logicaalle ossa e ai nervi, l’etica ai muscoli, la fisica all’anima. O anche come un uovo: la logica è ilguscio, dopo viene l’etica, la parte più interna è la fisica. O anche come un campo fertile, delquale la siepe di recinzione è la logica, il frutto è l’etica, il terreno o gli alberi la fisica. O infinead una città ben costruita e amministrata secondo ragione (SVF II, 38).

Con molta chiarezza viene anche introdotta una distinzione che ad Aristo-tele era in parte ignota:

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Gli Stoici dicono che questi tre elementi sono connessi fra di loro: il significato(σημαινόμενον), il significante (σημαῖνον) e l’evento (τυγχάνον). Il significante è il suono stes-so, ad esempio «Dione»; il significato è l’entità manifestata e che apprendiamo in quantocoesiste con il nostro pensiero, e che gli stranieri non capiscono, sebbene odano il suono;l’evento è ciò che esiste all’esterno, ad esempio Dione stesso. Di questi, due sono corporei, ecioè il suono e l’evento, e una è incorporea, e cioè l’entità significata, il senso (λεκτόν), che[solo] è vero o falso (SVF II, 166 = FL 19.04).

L’oggetto proprio della logica è costituito per gli Stoici solo dai sensi(λεκτά). La distinzione stabilita tra «eventi» e «sensi» corrisponde sostanzial-mente a quella moderna tra «estensione» e «intensione» (chiarita soprattuttoda Gottlob Frege [1848-1925]). Per mostrarne la differenza, prendiamo comeesempio la proposizione «Gli uomini sono mortali». Da un punto di vista esten-sionale, essa viene interpretata così: «L’insieme degli uomini è incluso nell’insie-me dei mortali». Da un punto di vista intensionale viene invece spiegata così: «Ilconcetto di uomo comprende il concetto di mortale». Gli Stoici, ritenendo chela proposizione in sé non abbia alcun corrispondente «reale» (al contrario deisuoi termini), ma sia solo un λεκτόν, scelsero senza incertezze per la loro logicaun’interpretazione intensionale. (Oggi si ritiene che entrambe le alternative sia-no lecite, e che in particolare quella che intensionalmente è una logica dei pre-dicati diventi estensionalmente una logica delle classi.)

2.2. La logica proposizionale

Dove la logica stoica supera nettamente l’analitica aristotelica, creandopraticamente un campo nuovo, è nello studio della proposizione (chiamataἀξίωμα). Una prima distinzione fondamentale è tra proposizioni semplici e com-plesse. Semplice è la proposizione che contiene solo un predicato (per esempio«è giorno»), complessa è quella costituita dal collegamento di più proposizionitramite connettivi logici (per esempio «è giorno e piove»). Ovviamente, i con-nettivi possono unire proposizioni a loro volta complesse. Si osservi che la nega-zione di una proposizione semplice (per esempio «non è giorno»), che oggi vie-ne classificata tra le proposizioni complesse, era invece considerata semplicedagli Stoici.

Ora, la loro intuizione fondamentale è che i connettivi logici (non, e, o, se... allora, ecc.) vanno considerati operatori, simili, per esempio, ai comuni opera-tori aritmetici (+, –, ×, /). Mentre però questi ultimi operano su valori numerici, iconnettivi logici operano sui valori di verità che le proposizioni possiedono inquanto λεκτά. Il caso più semplice è quello della negazione logica: quando essaè applicata ad una proposizione vera genera una proposizione falsa, e viceversa.Riguardo ai connettivi che collegano due proposizioni bisognerà considerarequattro casi: due proposizioni entrambe vere, due entrambe false, la prima verae la seconda falsa, e viceversa. Definire una connessione logica equivale così a

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scrivere la sua «tavola di verità», cioè precisare quale sia il valore di verità dellaproposizione complessa in corrispondenza dei quattro casi ora detti. Per esem-pio, una proposizione congiuntiva («è giorno e piove») sarà complessivamentevera solo quando entrambe le proposizioni congiunte sono vere. In questo mo-do gli Stoici vennero definite diverse connessioni. Eccone le più importanti, del-le quali diamo a sinistra il nome e a destra, sulla stessa riga, la tavola di verità:

proposizione 1 vera vera falsa falsaproposizione 2 vera falsa vera falsa

congiuntiva (... e ...) vera falsa falsa falsadisgiuntiva inclusiva (... o ...) vera vera vera falsaalternativa (o solo ... o solo ...) falsa vera vera falsacondizionale (se ... allora ...) vera falsa vera veracondizionale doppia (solo se ... allora ...) vera falsa falsa vera

Un paio di osservazioni importanti. La prima riguarda le due differenti disgiun-zioni, che né in greco né in italiano sono chiaramente distinte nel linguaggio naturale.Quella esclusiva (o «alternativa») esclude, appunto, la verità di entrambe le proposi-zioni disgiunte (per esempio: «partirò lunedì o martedì», ma non i due giorni contem-poraneamente); quella inclusiva invece no (per esempio: «se c’è pioggia o neve biso-gna guidare con prudenza», e anche se ci sono le due cose contemporaneamente). Ladistinzione tra le due è facile in latino, dove l’esclusiva s’indica con aut e l’inclusivacon vel. Come si vedrà, gli Stoici, contrariamente all’uso moderno, usavano per lo piùla disgiunzione esclusiva.

Una seconda osservazione riguarda la proposizione condizionale (o implicazio-ne). La tavola definisce la cosiddetta «implicazione materiale» o «filoniana», dal nomedel logico megarico Filone. Essa risulta falsa solo nel caso che ad un antecedente verosegua un conseguente falso, e ciò indipendentemente dal senso delle proposizioniconnesse. Per esempio, tutte e tre queste proposizioni risultano vere: «se 2 è pari, al-lora è un numero primo», «se la luna è verde, allora il cielo è azzurro», «se Aristoteleè cinese, allora Platone è turco». Tale uso è molto più ampio di quello del linguaggionaturale, in cui invece una proposizione condizionale viene considerata vera soloquando in più c’è un nesso reale tra le due proposizioni (come per esempio nei sillogi-smi aristotelici). Questa è detta «implicazione formale», e di essa due varianti furonodefinite da Diodoro Crono e da Crisippo. Il problema era molto dibattuto, al punto cheun bibliotecario di Alessandria del II sec. riferisce: «Anche i corvi gracchiano sui tettisu quali implicazioni siano corrette» (FL 20.06). La discussione continuerà nel Medio-evo, quando Paolo Veneto (1368-1429) elencherà ben dieci significati differentidell’implicazione, e arriverà fino ai giorni nostri.

Con la definizione dei connettivi logici viene così iniziata quella che oggi èchiamata logica proposizionale e che in età moderna venne rifondata da diversilogici, tra i quali spicca Gottlob Frege. In essa, al contrario della logica dei predi-cati (di cui la sillogistica aristotelica costituisce una parte), non viene considera-ta la struttura interna delle proposizioni, ma solo il loro valore di verità. Tramite

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le tavole è possibile «calcolare» una proposizione comunque complessa, ovvia-mente una volta che sia noto il valore di verità delle proposizioni semplici.

2.3. I discorsi conclusivi

Questa chiara nozione permise di formulare una distinzione che ad Ari-stotele era sfuggita: quella tra discorsi conclusivi e proposizioni vere (in linguag-gio moderno: tra deduzioni corrette e leggi logiche):

Un discorso (λόγος) è un sistema costituito da premesse e da una conclusione. Le pre-messe sono le proposizioni accettate per la dimostrazione della conclusione, la conclusione èla proposizione dimostrata a partire dalle premesse. Prendiamo ad esempio il seguente di-scorso:

Se è giorno allora c’è luce;ma è giorno;dunque c’è luce.

In esso c’è luce è la conclusione, le altre proposizioni sono le premesse (FL 21.01 =Pyrrh. Hyp. B 135).

Alcuni discorsi sono conclusivi, altri non conclusivi. Sono conclusivi quando la proposi-zione condizionale che inizia con la congiunzione delle premesse del discorso e finisce con laconclusione è vera. Ad esempio, il discorso citato è conclusivo, perché è vera la connessionedella congiunzione delle sue premesse con c’è luce, in questa proposizione condizionale: se ègiorno e se è giorno allora c’è luce, allora c’è luce. Non conclusivi sono i discorsi non costruitiin questo modo (FL 21.02 = Pyrrh. Hyp. B 137).

Più esplicitamente, un discorso conclusivo corrisponde ad una proposizio-ne condizionale sempre vera, qualunque sia il valore di verità delle proposizionisemplici che la compongono. In generale, oggi viene chiamata legge logica unaproposizione complessa (anche non condizionale) che è vera indipendentemen-te dai valori di verità delle proposizioni semplici. Per esempio, «p o non p» èuna legge logica. Più chiara che in Aristotele è anche la distinzione tra discorsiconclusivi e conclusioni vere:

Fra i discorsi conclusivi alcuni sono veri [nella conclusione], altri falsi. Sono veri quan-do, oltre alla proposizione condizionale costituita dalla congiunzione delle premesse e dallaconclusione, anche la congiunzione delle premesse, cioè l’antecedente della proposizionecondizionale, è vera (FL 21.07 = Pyrrh. Hyp. B 138).

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2.4. Gli indimostrabili

Come Aristotele aveva costruito la sua sillogistica a partire dai modi dellaprima figura, ritenuti evidenti, così anche gli Stoici stabilirono cinque discorsi«indimostrabili». Li enumeriamo, indicando con p e q due generiche proposizio-ni, mentre tra parentesi riportiamo i nomi che saranno assegnati nel Medioevoe che sono ancor oggi talvolta usati:

1. Se p allora q; ma p; dunque q (modus ponendo ponens).2. Se p allora q; ma non q; dunque non p (modus tollendo tollens).3. Non (p e q); ma p; dunque non q (modus ponendo tollens).4. O solo p o solo q; ma p; dunque non q (modus ponendo tollens).5. O solo p o solo q; ma non p; dunque q (modus tollendo ponens). (cfr. SVF II, 241)

Le idee sul ruolo di questi princìpi erano molto chiare:

Gli indimostrabili sono quelli di cui gli Stoici dicono che non hanno bisogno di dimo-strazione per essere sostenuti. [...] Essi ne immaginano molti, ma ne pongono particolarmen-te cinque, da cui pare che si possano dedurre tutti gli altri (FL 22.03 = Pyrrh. Hyp. B 156).

Non sapendo quali regole venissero ammesse per dedurre nuovi «discor-si» (a causa della frammentarietà delle fonti), non possiamo giudicare se venneeffettivamente costruita una logica proposizionale completa, in cui cioè tutte leproposizioni vere siano dimostrabili. Pare certo però che venne almeno chiara-mente intuìto il concetto di completezza di un sistema logico. Esso svolgerà unruolo fondamentale nella logica contemporanea, quando Kurt Gödel (1906-1978) riuscirà sorprendentemente a dimostrare che nessun sistema logico cheraggiunga una certa potenza espressiva può essere completo.

Ci si potrebbe domandare quale sia l’utilità di stabilire indimostrabili e regole dideduzione se — come già detto — l’uso delle tavole è sufficiente per accertare la ve-rità o falsità di qualsiasi proposizione. In realtà, le tavole di verità diventano inutilizza-bili appena si esce dal dominio della logica proposizionale e si entra in quello della lo-gica dei termini. Per esempio, i sillogismi di Aristotele non potrebbero essere dimo-strati così. Ciò significa che a partire da un certo livello di complessità non esiste piùnessun modo puramente meccanico per dimostrare teoremi.

2.5. L’antinomia del mentitore

Un ulteriore campo dove la logica megarico-stoica diede importanti con-tributi è nello studio delle cosiddette «antinomie logiche». La più importante èquella nota come «antinomia del mentitore», formulata per la prima volta dalmegarico Eubulide:

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Il cretese che afferma che i cretesi mentono sempre, mente o dice la verità?

Lo spunto per questo paradosso sembra essere stato offerto da un esa-metro del sapiente cretese Epimenide (VI sec. a.C.), testimoniato nel Nuovo Te-stamento: «I Cretesi sono sempre mentitori, cattive bestie, pigri ghiottoni»(Κρῆτες ἀεὶ ψευσταί, κακὰ θηρία, γαστέρες ἀργαί [Tit. 1,12]). È evidente che sigiunge in ogni caso ad una contraddizione: se il Cretese dicesse la verità, ciò si-gnificherebbe che sta mentendo; se stesse mentendo, ciò significherebbe chedice la verità. Crisippo scrisse sull’argomento ventotto libri, ma qualcuno fece dipeggio; ecco la lapide di Filita di Cos (340 ca.-285 a.C.): «Viandante, io sono Fili-ta; l’argomento chiamato “il mentitore” e le profonde meditazioni notturne micondussero alla morte» (FL 23.08). Sfortunatamente non conosciamo bene lesoluzioni elaborate. Pare che Crisippo sostenesse che l’antinomia del mentitorenon è neanche una proposizione, essendo impossibile stabilire se è vera o falsa.Questo problema accompagnerà comunque l’intera storia della logica. Paolo Ve-neto nel Medioevo discuterà ben quindici soluzioni differenti dell’antinomia,che è rimasta al centro dell’attenzione fino ai tempi moderni.

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3. L’arte combinatoria di Leibniz

3.1. La rifondazione della logica

Benché le ricerche di Leibniz (1646-1716) nel campo della logica siano insé molto importanti, la loro importanza storica è purtroppo molto limitata: egliinfatti non pubblicò praticamente nulla di ciò che scoprì, e si dovette attenderela fine dell’Ottocento perché ciò che per lui era già cosa nota venisse gra-dualmente riscoperto. Lo studio della logica è visto da Leibniz in gran parte co-me alternativa al Discorso sul metodo di Descartes, giudicato troppo vago neisuoi criteri della «chiarezza e distinzione»:

Vedo che gli uomini del nostro tempo abusano molto di quel famoso principio conti-nuamente ripetuto: qualsiasi cosa percepisco chiaramente e distintamente di qualcosa, è ve-ro, ovvero può essere enunciato di essa. Spesso infatti agli uomini che giudicano frettolosa-mente sembrano chiare e distinte cosa oscure e confuse. Dunque l’assioma è inutile se nonvengono usati dei criteri del chiaro e del distinto [...] e se non consta la verità delle idee. Delresto non sono da disprezzare quei criteri di verità degli enunciati che sono le regole della lo-gica comune, che anche i geometri usano, che cioè nulla va ammesso come certo se non èprovato da un’accurata esperienza o da una solida dimostrazione; e solida dimostrazione èquella che rispetta la forma prescritta dalla logica, non come se fossero necessari i sillogismiordinati al modo scolastico [...] , ma almeno in modo che l’argomentazione sia conclusiva invirtù della forma (come esempio di un’argomentazione nella forma debita potresti dire an-che un qualsiasi calcolo legittimo); così né bisogna omettere qualche premessa necessaria, etutte le premesse o devono essere già da prima dimostrate, o almeno vanno assunte a mo’d’ipotesi, nel qual caso anche la conclusione è ipotetica. Coloro che osserveranno atten-tamente queste norme facilmente si proteggeranno da idee ingannevoli (Meditationes de co-gnitione, veritate et ideis).

Leibniz non intende però semplicemente riprendere la logica antica e me-dioevale, ma concepisce l’idea di una sua radicale rifondazione, che viene da lui

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posta sotto il nome di «arte combinatoria» e che eserciterà una certa influenzaanche sui posteri. In tale denominazione è implicito un netto progresso rispettoalle idee precedenti in materia:

Chiamo arte combinatoria quella scienza (che si può dire anche in generale caratteri-stica, o speciosa), in cui si tratta di tutte le forme o formule delle cose, cioè della qualità ingenere, o del simile e dissimile, a, b, c, ecc. (che possono rappresentare quantità o altro), inquanto dalla loro combinazione nascono via via altre formule; essa si distingue dall’algebrache concerne le formule applicate alla quantità, ovvero l’eguale e l’ineguale. L’algebra, per-tanto, si subordina alla combinatoria, e si serve continuamente delle sue regole, che peraltrosono di gran lunga più generali, e valgono non solo per l’algebra soltanto, ma anche per l’artedecifratoria, per vari generi di giochi, per la stessa geometria trattata linearmente al mododegli antichi, insomma, dovunque entri in gioco la similitudine (SAU, fine).

Leibniz concepisce insomma l’«arte combinatoria» come una scienzapuramente formale, che offre una base universale per tutte le altre. Il modellodi tale scienza è offerto dalla matematica: in essa infatti il linguaggio naturale,di sua natura soggetto ad ambiguità e fraintendimenti, è abbandonato in favoredi un linguaggio artificiale, che permette di effettuare la deduzione come unsemplice «calcolo» di natura meccanica, cioè tramite la combinazione degli ele-menti del linguaggio; la stessa cosa deve avvenire nella logica, che dunque assu-me l’aspetto di una sorta di matematica generalizzata (e che perciò viene chia-mata da Leibniz anche «mathesis universalis»). Anche il nome «caratteristica»allude allo stesso fatto: la logica deve operare su simboli («caratteri») indipen-dentemente dal loro significato. Quest’idea, benché in parte ispirata dalla lettu-ra di Hobbes e di Lullo, è in realtà di gran lunga più profonda; tra l’altro, essa ri-specchia esattamente la concezione di logica che si affermerà nel Novecento, eche per questi motivi viene spesso chiamata «logica matematica».

3.2. La concezione della verità

Esiste una nozione logica che assume un’importanza fondamentale perl’intera filosofia di Leibniz. Si tratta del concetto di verità, evidentemente legatoalla comprensione della logica come «arte combinatoria» e dunque puramenteformale. Ecco uno dei numerosi testi in cui Leibniz si pronuncia con chiarezza alriguardo:

È palese che ogni predicazione vera ha qualche fondamento nella natura delle cose, equando una proposizione non è identica, vale a dire quando il predicato non è compresoespressamente nel soggetto, bisogna che vi sia compreso virtualmente, e questo è ciò che ifilosofi chiamano in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. Così bisogna che il terminedel soggetto racchiuda sempre quello del predicato, di modo che colui che intendesse perfet-tamente la nozione del soggetto, giudicherebbe anche che il predicato gli appartiene. [...]Dio, vedendo la nozione individuale o ecceità di Alessandro [Magno], vi vede in pari tempo il

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fondamento e la ragione di tutti i predicati che si possono dire di lui con verità, come peresempio che egli vincerà Dario e Poro, fino a conoscere a priori (e non per esperienza) se èmorto di una morte naturale o avvelenato, il che noi possiamo sapere solo grazie alla storia(DM 8).

In sintesi: la ragione della verità di una proposizione va trovata sempre esolo all’interno della proposizione stessa, e cioè nell’inclusione del predicato nelsoggetto; questa inclusione può essere o evidente («il triangolo equilatero è untriangolo») o soltanto virtuale, nel qual caso è necessaria un’analisi completadel soggetto per mostrarvi la presenza del predicato, benché quest’analisi allamente limitata dell’uomo possa risultare di fatto impossibile. Tutte le proposi-zioni vere hanno dunque di per sé la loro dimostrazione a priori, cioèindipendentemente dall’esperienza, anche se la maggior parte vengono cono-sciute dall’uomo solo a posteriori, e cioè dall’esperienza: che il 1º gennaio del2000 a Roma faccia un certo tempo di per sé ha la sua dimostrazione a priori, inséguito cioè ad un’analisi del concetto di atmosfera terrestre; ma di fatto noi loverremo a sapere solo quando giungerà quel giorno, dunque per esperienza. Ta-le concezione di verità non identifica però la realtà con la necessità, come avvie-ne in Spinoza? Leibniz rifiuta esplicitamente questa conseguenza:

Sembra che in questo modo sarà distrutta la differenza tra le verità contingenti e ne-cessarie, che la libertà umana non avrà più alcun luogo, e che una fatalità assoluta regnerà sututte le nostre azioni così come su tutti gli altri avvenimenti del mondo. [...] Io dico che laconnessione o conseguenza è di due tipi: una è assolutamente necessaria, e il suo contrarioimplica contraddizione, e questa deduzione ha luogo nelle verità eterne, come sono quelledella geometria; l’altra è necessaria solo ex hypothesi, e per così dire per accidente, ma essaè contingente in sé, quando il contrario non implica affatto contraddizione. E questa connes-sione è fondata non sulle idee del tutto pure e sul semplice intelletto di Dio, ma ancora suisuoi liberi decreti e sulla connessione dell’universo (DM 13).

Si tratta di un punto di estrema importanza nella filosofia di Leibniz, chedunque va ben chiarito. Le due proposizioni «il triangolo ha gli angoli internieguali a due retti» e «Alessandro Magno vince Dario» hanno entrambe il moti-vo della loro verità in sé stesse, cioè i predicati sono presenti nei rispettivi sog-getti. La loro differenza è chiara però quando si esaminano le proposizioni con-trarie: «il triangolo non ha gli angoli interni eguali a due retti» e «AlessandroMagno non vince Dario». La prima è una proposizione certamente falsa, perchéil concetto di «triangolo con gli angoli interni non eguali a due retti» è con-traddittorio, come può essere facilmente dimostrato nella geometria euclidea.Ma il concetto di «Alessandro Magno che non vince Dario» non è in sé contrad-dittorio: benché nel nostro mondo esso non abbia esistenza, è immaginabile unmondo diverso in cui Alessandro Magno perda. Le verità necessarie (o di ragio-ne) sono quindi quelle valide in tutti i mondi possibili (e cioè non contraddittori),le verità contingenti (o di fatto) sono quelle valide nel mondo reale ma non in

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tutti i mondi possibili. Esse sono dunque necessarie solo sulla base di una pre-messa (ex hypothesi): dato che questo è il mondo esistente, allora necessaria-mente Alessandro vince Dario. Ciò si può esprimere anche dicendo che le veritànecessarie sono fondate sull’intelletto di Dio, che pensa tutti i mondi possibili,mentre quelle contingenti sono fondate sulla volontà di Dio, che ha deciso qua-le di questi mondi possibili creare, cioè rendere reale.

Da ciò si ricava anche che ci sono in realtà proposizioni contingenti che, controla regola generale, non hanno una prova a priori, o perlomeno non nel senso in cui laposseggono le altre: le proposizioni esistenziali, che affermano se qualcosa esiste ono. Nel concetto di Alessandro Magno non è compresa la sua esistenza. Ciò avviene —eccezione dell’eccezione — solo nel caso di Dio, come si vedrà.

Da questa concezione della verità discende la supremazia di due princìpilogici:

I nostri ragionamenti sono fondati su due grandi princìpi:il principio di contraddizione, in virtù del quale giudichiamo falso ciò che la includa, e

vero ciò che è opposto al contraddittorio o falso;e il principio di ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo che nessun fatto po-

trebbe essere vero, o esistente, nessuna enunciazione vera, senza che vi sia una ragione suffi-ciente perché sia così e non altrimenti, benché queste ragioni il più delle volte possano nonesserci affatto note.

[...] La ragione sufficiente si deve trovare anche nelle verità contingenti o di fatto, cioènella sequenza delle cose distribuite nell’universo delle creature, dove la risoluzione in ragio-ni particolari potrebbe andare fino ad un dettaglio senza limiti, a causa della varietà immen-sa delle cose della natura e della divisione dei corpi all’infinito (M 31-32, 36).

I due princìpi sono in gran parte complementari: se infatti il principio dicontraddizione (detto anche «di non contraddizione») afferma che le proposi-zioni in cui il predicato è incluso nel soggetto sono vere, il principio di ragion suf-ficiente afferma che nelle proposizioni vere dev’esserci una ragione della loroverità, e cioè anzitutto l’inclusione del predicato nel soggetto. Leibniz si preoc-cupa di far notare che questo principio si applica anche alle verità contingenti,in cui l’analisi del soggetto potrebbe dover andare all’infinito e dunque esseredi fatto impossibile all’uomo (un’idea questa evidentemente ispirata dal calcoloinfinitesimale).

Ciò non significa — come spesso è stato affermato — che il principio di noncontraddizione riguardi solo le verità necessarie e quello di ragion sufficiente solo leverità contingenti: entrambi riguardano ogni verità. È però vero che il principio di ra-gion sufficiente ha un’estensione maggiore di quello di non contraddizione, perché siestende anche alle proposizioni contingenti esistenziali, sebbene mutando leg-germente di significato: lì la ragion sufficiente della verità non può consistere certonella presenza del predicato nel soggetto. Proprio quest’uso del principio di ragion suf-

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ficiente è in grado secondo Leibniz di condurre alla metafisica, che s’interroga sull’esi-stenza delle cose e sulla sua causa.