PICCOLA BIBLIOTECA ESSENZIALE · 2018-10-03 · MODA E DINTORNI 2 In copertina: Ava Gardner indossa...

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1 MODA E DINTORNI PICCOLA BIBLIOTECA ESSENZIALE

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1MODA E DINTORNI

PICCOLA BIBLIOTECA ESSENZIALE

MODA E DINTORNIMODA E DINTORNIMODA E DINTORNI 2

In copertina: Ava Gardner indossa il pretino, il famoso abito realizzato appo-sta per lei dalle Sorelle Fontana

3 introduzione (My English mood)

4 moda. dalla nascita della haute couture ad oggi (SofiaGnoli,ed.Carocci,2012)

7 Le imprese del sistema moda (StefaniaSavioloeSalvotesta,edEtas,,2005)

10 Lusso 2.0 (JarvisMacchi,ed.Lupetti,2013)

14 contro la moda (UgoVolli,ed.Feltrinelli,1990)

19 il senso della moda (RolandBarthes,ed.Einaudi,2006)

25 manifashion (MicheleCiavarella,2017)

28 vogueabolario (GiovannaErrore,2015)

30 dizionario della moda (GuidoVergani,ed.Dalai,2010)

33 dizionario della moda (MariellaLorusso,ed.Zanichelli,2017)

sommario

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Tutti conosciamo Gucci, Versace, Dior, Chanel eccetera. Ma la storia della moda va ben oltre questi pur importanti nomi. Ha origini molto più lontane e com-prende figure oggi dimenticate ma alle quali i designer di oggi devono moltissimo.

***Recentemente, per dire, ho avuto occa-sione di visitare la Fondazione Sorelle Fontana. Un piccolo appartamento, affac-ciato su Piazza di Spagna a Roma, dove è esposta solo una piccola parte (per li-miti di spazio) degli abiti confezionati in 40 anni di lavoro. Beh, la prima cosa che colpisce osservando quei meravigliosi abiti o le foto raccolte in volumi e ras-segne, è la loro straordinaria modernità. Potrei dire che Zoe, Micol e Giovanna avevano già inventato tutto. Basta pen-sare al famoso “Pretino”, l’abito ispirato all’abito talare confezionato nientemeno che per Ava Gardner. Semplicemente stupendo e di una potenza ineguagliabi-le. Per questo l’ho scelto come imma-gine per la copertina di questo e-book. E’ davvero un peccato che oggi quel patrimonio, cha ha fatto la storia della cultura italiana portandola in giro per

il mondo, sia destinato a scomparire sotto i colpi del tempo. Fortunatamen-te, gli abiti delle sorelle Fontana sono esposti nei più importanti musei come Metropolitan, Guggenheim, Louvre.

***Insomma, come sempre, per capire l’oggi bisogna conoscere un po’ il passato, la storia. E questo vale anche per la moda. Poi, dato che viviamo nell’era dei so-cial network, di Instagram e dello stre-etwear, non sentite anche voi il ri-schio di perdersi nella confusione? Di non capire più chi fa cosa e perché lo fa? Di perdere punti di riferimento?

***Di qui l’idea di proporre un mini elenco di testi base - con un breve estratto di ognu-no e il link per acquistarlo - per chi voles-se approfondire la propria conoscenza di questo mondo fantastico che è la moda.

Roma,maggio2018

introduzione

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di Sofia Gnoli

Nel sessantot-to, sotto la spinta della contestazione giovanile e delle vicende politi-co-economiche, la moda cambiò radicalmente. emerse allora quello che Gerardo Ragone ha definito: «l’abito catti-vo”, un tipo di abbigliamento da cui viene rigorosamente cancella-ta ogni traccia del rigore formale che aveva caratterizzato l’abbiglia-mento del periodo precedente».La rivoluzione del 1968 non nac-que per morire con la fine di quell’anno, ma per continuare a

produrre i suoi frutti nel decennio successivo. Nei primi anni settanta l’otti-mismo che aveva caratte-rizzato il decennio prece-dente andò scemando a causa della disoccupazio-ne e dell’inflazione sem-pre più alte, nonché per una crescente insoddisfa-zione nei confronti della

vita nella società industriale e tec-nologica. Questa situazione colpì profondamente l’industria italia-na dell’abbigliamento. Di fronte all’ascesa del confezionato, infatti, alcuni storici atelier come Anto-nelli, Carosa, Forquet, Schuberth, non riuscendo a reggere il passo

Capitolo 9: La democratizzazione della griffe

La contestazione giovanile e l’antimoda (pp. 225-226)

moda. dalla nascita della haute couture ad oggi

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con l’industrializzazione, chiuse-ro definitivamente la loro attivi-tà. Allora, si verificò «una svolta che vede il passaggio dal “ricco” al “povero”, dal perbenismo bor-ghese all’ostentazione della po-vertà; ciò che cambia non è solo l’abito, che dall’essere cucito ad-dosso, stirato e ordinato, diviene sgualcito, dimesso, trasandato, ma è l’intera forma mentis». La rivo-luzione giovanile, con il suo spic-cato carattere anticapitalistico e anticonsumistico, portò con sé l’”antimoda”. Si trattava di una re-azione alla visibilità sempre mag-giore assunta dalla moda ufficiale, che aveva avuto le sue radici nella Francia prerivoluzionaria. Come ha scritto il sociologo america-no Fred Davis: «Le dame di corte vestite da lattaie nella bergerie di Maria antonietta, gli Incroyables e le Mervilleuses della Francia po-strivoluzionaria, i dandy londinesi del periodo di Brummell e i loro imitatori francesi del XIX seco-lo, il demimonde della Parigi di Lautrec e il Greenwich Village di Malcom Cowley: tutti si diletta-vano e cercavano notorietà con i

loro atteggiamenti antimoda».Nel secolo scorso l’antimoda ha attraversato diversi momen-ti, di cui uno dei più importanti emerse nella seconda metà de-gli anni sessanta, in coincidenza con l’affermazione del movimen-to hippy (da hip, che in inglese significa “libero”, “nel vento”). A differenza dei loro progenitori, i mods, amanti di anfetamine e droghe chimiche, gli hippy pre-dilessero droghe naturali come l’hashish, materiali naturali come il cotone, il lino, la canapa, lo sti-le etnico o revivalistico, capelli lunghi, balli che non seguivano al-cuno standard. Per i figli dei fiori la moda era un sistema imposto dalla società per limitare la liber-tà. Favorevoli all’abbandono del-la moda ufficiale e all’invenzione di uno stile personale, odiavano tutto ciò che evocava moderni-tà e industrializzazione e, in con-trapposizione alla moda spaziale, si rifacevano alle civiltà etniche (India, Turchia, Cina) o al passato. Allora accanto alla voga del ba-tik, del tie-and-dye e delle gonne lunghe, si diffuse anche «un certo

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abbigliamento razionale ispirato a una possibile guerriglia urbana che comprendeva eskimo, jeans, pantaloni di velluto e camicia a quadri». Presto però anche l’an-timoda divenne terreno di ispi-razione per i creatori dei moda che la commercializzarono. L’an-tropologo angloamericano Ted Pohemus ha infatti sottolineato che l’autenticità dell’antimoda, dello street-style finisce proprio quando inizia a diventare “moda”, quando l’industria della moda ini-zia a copiarla.L’affermarsi del gusto folcloristi-

co fece sì che i prodotti venduti dalle aziende italiane diminuissero in favore di capi di abbigliamento importati, a costo bassissimo, dai paesi in via di sviluppo. Nel 1971 i negozi di moda in Italia erano oltre 24.000; dopo soli dieci anni erano quasi quadruplicati. nel frat-tempo il legame tra moda e in-dustria si era andato sempre più consolidando. Ne fu espressione l’attività della Camera nazionale della moda italiana (nata nel 1958) che, a partire dagli anni sessanta, stipulò numerosi accordi tra cre-atori di moda e industria.

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Le imprese del sistema moda

di Stefania Saviolo e Salvo testa

Capitolo 10: Il processo di comunicazione

Dalla comunicazione di immagine alla comunicazione di immaginari

(pp. 285-287)

Alla fine degli anni novanta l’enfasi sul pro-dotto è generalmente venuta meno, tanto che c’è chi lamenta l’estre-mizzazione della ten-denza opposta, per cui nei redazionali l’abito sparisce inghiottito dal contesto. In particolare, si nota-no due orientamenti: da un lato, soprattutto per gli accessori, si presenta ancora il prodotto fi-

sico in modo poco de-scrittivo, dall’altro si utilizzano immagini solo evocative che, nella loro vaghezza, spesso non qualificano né giustifica-no la scelta. Se prima nel mirino erano il dettaglio o l’attirbuto di prodot-to, ora prevalgono le suggestioni: la messa a

fuoco non è più sul vestito della modella ma sull’ambientazione in cui questo dovrebbe essere sfoggiato. Il codice di comunica-

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zione prevalente sembra essere quello di suggerire piuttosto che mostrare, evocando una sensazio-ne o un’emozione, per cui l’abi-to, la calzatura, l’accessorio sono apparizioni fugaci, se no del tutto assenti. Addirittura, nelle vetrine di molte griffe prestigiose non si vedono più abiti o accessori, ma la loro fotografia, a testimonianza di quanto stretto sia ormai il legame tra oggetto e immagine.Il problema è che, anche in questo caso, si rischia di restare nell’ambi-to della comunicazione di immagi-ne, nel senso che, se l’atmosfera è uguale per tutti, il messaggio con-tinua a non passare, esattamente come nel passato.Indubbiamente la comunicazione della moda negli anni novanta è stata caratterizzata dallo sforzo di passare da una comunicazione di prodotto a una comunicazione di identità di marca. Il completamen-to di questo processo, che nella maggior parte dei casi deve però ancora iniziare, vede le impre-se spostarsi verso il terreno più complessivo, ricco ma potenzial-mente scivoloso della comunica-

zione di immaginario; come a dire che poste le basi della propria identità, e quindi riconoscibilità e autogiustificazione nei confronti del consumatore finale, l’azienda comunica attraverso il proprio mondo di riferimento.Rispetto all’immagine, quello dell’immaginario è un concetto più vasto e pervasivo, perché su-pera le tradizionali segmentazioni per occasioni d’uso e stili di vita proponendo l’identità della marca come chiave di lettura trasversale del mondo in cui le persone vi-vono i diversi momenti della loro esistenza.Nella comunicazione, lavorare sull’immaginario significa partire non dall’area del bisogno ma da quella del desiderio; una sfida più difficile, che è possibile vincere solo se si riesce a fare in modo che il consumatore si identifichi nel protagonista di una storia; per-ché questo avvenga, la marc deve poter raccontare storie pertinen-ti, credibili e coerenti.Questa credibilità si guadagna con il tempo solo se i codici di comunicazione sono permanenti;

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è quindi necessario che oggetto della comunicazione sia la marca: all’identità stilistica deve corri-spondere un’identità di immagine, basata su codici di comunicazione riconoscibili, in quanto distintivi di una marca (la Sicilia di Dolce e Gabbana, l’ironia di Diesel, il ri-chiamo alla Magna Grecia di Ver-sace, il grido antifashion di Mo-schino ecc).Nessun immaginario, tuttavia, può essere credibile se non trova cor-rispondenza nel prodotto. Sotto questo profilo la comunicazione dovrebbe, almeno in parte, diven-tare informazione: le valenze stili-stiche, funzionali, qualitative, di va-lue for money distintive, devono essere comunicate perché creano differenziazione e aiutano il con-sumatore a farsi più evoluto.

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Lusso 2.0di Jarvis Macchi

Editori di un so-gno: questo sono di-ventati oggi i brand del lusso. Grazie alle nuo-ve tecnologie e ai so-cial media oggi i marchi di alta gamma hanno la possibilità di dialo-gare direttamente con un’audience potenzial-mente vastissima, senza dover necessariamente lasciar filtrare e reinterpretare il messaggio alle piattaforme media tradiziona-

li che diventano oggi il veicolo di una notizia creata e pensata all’in-terno del brand. Se la comunicazione della moda e del lusso prima dell’avvento della rivo-luzione digitale era fo-calizzata solamente su due asset - la campagna pubblicitaria e le pub-bliche relazioni - oggi il

vecchio modello è completamen-te sovvertito e i brand sono i veri padroni della loro immagine di marca e del legame che riescono

Capitolo 3: Social media e digital pr, comunicare i valori di marca

Brand content, editori di un sogno (pp. 83-87)

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a creare con i consumatori attra-verso i contenuti che producono e alla modalità in cui li diffondo-no, sia online che offline. Non è un caso se i principali player del mondo del lusso stanno comin-ciando a ragionare come veri e propri editori, con una produ-zione di contenuti fotografici e video che, quantitativamente e qualitativamente, non ha niente da invidiare né all’industria cine-matografica né a quella editoriale. Così nelle aziende arrivano figure professionali nuove, responsabi-li editoriali o direttori creativi il cui compito non è più solo quello di definire l’immagine della mar-ca, ma anche la sua trasposizione, tutti i giorni, nei magazine online firmati dal brand a cui le maison stanno dedicando sempre più risorse sui loro siti o sui social media, adattando il linguaggio del brand al mezzo ma tenendo sem-pre la barra di navigazione ferma su valori, grammatica della comu-nicazione e coerenza di brand. E coinvolgendo all’interno della produzione di contenuti figure esterne alla marca come creati-

vi, illustratori, attori, videomaker, designer provenienti da altri set-tori e blogger.E non è un caso se i brand più se-guiti dagli utenti dal punto di vista digitale e quelli che hanno mag-gior successo nell’e-commerce siano anche quelli che hanno co-minciato a ragionare e agire come una vera media company. Come Louis Vuitton che ha trovato nel mondo digital infinite possibilità di declinare il suo heritage lega-to al viaggio, sia nelle campagne di brand sia attraverso applicazio-ni dedicate come Amble, un vero e proprio diario per iPhone del-le città più importanti del mon-do, con suggerimenti e consigli di viaggio firmati da testimonial d’eccezione come Sofia Coppo-la, Rachel Weisz, Stefano Accorsi, Christy Turlington, o da trendset-ter e star blogger come Kristin Knox, Tommy Ton, Gala Gonzalez. […]Con l’avvento del digitale molti brand del lusso hanno scoperto il video come strumento privilegia-to di comunicazione, sia con fini documentaristici che puramente

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di branding.Per Chanel il formato video è sta-ta l’occasione per creare una serie di di video legati alla storia del suo profumo più famoso, il N.5, rac-contandone il percorso su un sito dedicato e legando la fragranza a celebrities come Marylin Monroe, Andy Warhol, Nicole Kidman, e inoltre svelando molti aneddoti come la scelta del nome da parte di mademoiselle Chanel, oppure l’ispirazione del design della bot-tiglia.Chanel è uno dei brand più atti-vi sul fronte della produzione di contenuti editoriali: dal suo blog racconta il dietro le quinte della vita della maison e dei suoi eventi, mentre sul suo canale di YouTube c’è una parte di tutorial dedicata al make-up, così come le intervi-ste di Karl Lagerfeld o i video de-dicati agli eventi in tutto il mondo o i dietro le quinte delle sfilate e delle campagne pubblicitarie.Cartier invece oltre ad aver lan-ciato “Rouge”, il suo magazine per iPad multilingua, ha anche realizza-to uno dei video più ambiziosi (e più visti e commentati) mai creati

da un brand di lusso: l’Odysée de Cartier. realizzato da bruno Aveil-lan, regista famoso per aver gira-to degli spot per Magnum, Lanvin, Paco Rabanne, Perrier e Lacoste, l’Odysée ha per protagonista la pantera simbolo del brand, in un viaggio fantasy attraverso Cina, Russia, India, prima di far ritorno a Parigi. per realizzare i tre minuti e mezzo di video, Cartier ha dedi-cato un budget di 5 milioni di dol-lari e due anni di lavoro. Ad aiu-tare Aveillan uno staff di oltre 60 persone, mentre altre 50 sis sono occupate degli effetti speciali in postproduzione.Per realizzare la musica del video sono stati impie-gati 84 musicisti, mentre il video, solo sul canale YouTube della mai-son,, ha ottenuto oltre 16 milioni di visualizzazioni, senza contare quelle dal sito del brand e quanti l’hanno rivisto tramite i magazine online e i blogger che ne hanno parlato e l’hanno condiviso sulle loro piattaforme o sui social me-dia. I centosessantacinque anni di storia della maison sono stati tra-sformati in una produzione cine-matografica a tutti gli effetti, che

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non ha nulla da invidiare a colossi del grande schermo come Avatar quanto ad accuratezza delle rico-struzioni e delle immagini. […]Utilizzando lo stesso linguaggio del cinema per raccontare la loro mar-ca, era naturale che anche i brand della moda e del lusso scegliessero luoghi e momenti dedicati al gran-de schermo per lanciare le loro creazioni, come ha fatto Prada con A Therapy, un corto presentato al festival di Cannes nel 2012 e rea-lizzato da Roman Polanski, con due protagonisti d’eccezione: Helena Bonham Carter e Ben Kingsley. […]Il cambiamento di approccio è in atto e il cammino verso un nuovo modo più interattivo di raccontare la marca è appena cominciato.

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Capitolo 3: Il tempo delle origini

Nati con la camicia(pp. 49-53)

contro la modadi Ugo Volli

Non possiamo non chiederci: perché la Moda? Come e quan-do sorge il suo potere? Qual è stato il punto di attacco che ha prodot-to il suo attuale trionfo? Cosa ci spinge a diffonde-re dovunque il suo meccanismo essenziale, la transitorietà impe-rativa del gusto? Avverto qualche imbarazzo a porre questioni così perentorie, probabilmente per il fatto che ogni spiegazione gene-rale che è stata proposta di un fenomeno tanto “futile” appare

un po’ troppo perma-nente e vicina all’essen-za dell’uomo, sottratta a una causazione storica. Ci si trova a parlare di “esteriorità della vita”, dell’essenziale “essere carente” dell’uomo o del Dasein: termini indispen-sabili, probabilmente,

ma anche forse eccessivi. Certo, un’origine storica della Moda, o almeno una dinamica storica del suo sviluppo, è evidente, e ne parlo in altri punti di questo li-bro. Il sistema della Moda come lo conosciamo noi è certamente coevo alla civiltà moderna, ai suoi

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conflitti di classe, al suo modo di concepire il progresso, il potere, l’organizzazione collettiva della società. Ma questo, per l’appunto, è un risultato storico, caratteri-stico della nostra cultura, e non ne spiega le origini più remote e generali.E c’è infatti un’, o forse un suo archetipo: è la vicenda dell’ab-bigliamento, del suo significato culturale, delle sue ragioni pro-fonde, e del modo in cui esso si è trasformato in Moda. I due termini, abbigliamento e Moda, tendono a essere spesso confusi, ma è importante tener ferma la loro distinzione. La Moda è il fe-nomeno sociale del mutamento ciclico dei costumi e delle abitu-dini, delle scelte e del gusto, col-lettivamente convalidato e reso quasi obbligatorio. L’abbigliamen-to è uno dei suoi campi più ovvi e comuni, ma non il solo. Dalle malattie ai modi di fare l’amore, dalle bevande agli scrittori, dagli ideali politici ai detersivi, dalle religioni alle strade, dai colori ai santi, tutto può essere oggetto di moda e di fatto tutto lo è, nel-

la società dominata dalla Forma Moda. Del resto, reciprocamente, ci sono sempre stati abiti anche in società completamente al di fuori di un regime di Moda, per esempio in molte culture antiche, o orientali, o “primitive”, che sap-piamo documentare più o meno immobili nel loro abbigliamento per millenni interi, come l’antico Egitto, e anche Roma classica.D’altro canto proprio la confu-sione fra Moda e abbigliamento è a sua volta significativa. Perché è vero che il terreno di elezione della Moda, quello da cui è sor-ta e che ancora frequenta di più è il modo di vestirsi, la scelta di abiti, tessuti, linee e accessori. Il modello da cui sono partite le pratiche di restyling annuale dif-fuse in tutta l’industria dei beni di consumo della nostra società è la Haute Couture sartoriale, le teo-rie che disponiamo sulla moda in genere partono proprio dall’uso sociale dei vestiti. Così è difficile e forse sbagliato staccare del tut-to la nostra idea della Moda dal campo delle abitudini nel vestire, per il solo fatto che ci sono mol-

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te altre materie di Moda, nella nostra società. E poi, essendo la moda un fenomeno sottile e assai controvertibile, che si può definire secondo modelli assai diversi, varie interpreta-zioni sono possibili; ma quando si dice che c’è un dominio della moda sul nostro modo di vivere, ciò su cui tutti si trovano d’ac-cordo è che in sostanza si vuol suggerire almeno un punto: che cioè molte cose diverse, molti campi e materie sono oggi re-golati da leggi analoghe a quelle che tradizionalmente reggono l’abbigliamento. Il dominio della moda sulla nostra cultura non è dunque solo una faccenda di cicli, di tempi, di consumo, ma è anche un trionfo della superfi-cie, del rivestimento, della de-corazione: una specie di diffu-sione sociale dell’abbigliamento a campi che a prima vista non lo riguardano affatto.L’archeologia della Moda, e cioè l’abbigliamento, ha a sua volta una preistoria, che per defini-zione, come tutte le preisto-rie, è soggetta più a congetture

che a conoscenze autentiche. Perché, si chiedono tutti i testi della moda e dell’abbigliamen-to, i nostri avi hanno incomin-ciato a vestirsi? Per protegger-si dal freddo, sostiene la voce del buon senso. Ma non è vero. Non solo nei climi tropicali, in cui l’umanità si è inizialmente sviluppata, il problema eviden-temente non si poneva affatto, allora come oggi; ma c’è addi-rittura un esempio canonico e citatissimo per dimostrare che anche in situazioni climati-che quasi polari la nostra co-stituzione ci permetterebbe di fare a meno degli abiti: nel cli-ma rigidissimo della Patagonia infatti vivono o vivevano le tri-bù fuegine, abituate a muover-si sostanzialmente nude. Fino a pochi decenni fa, del resto, i requisiti di protezione climatica personale (abiti) o ambientale (riscaldamento) erano mol-to inferiori anche in Europa a quelli che oggi consideriamo standard minimi.Le posizione contro la teo-ria troppo comoda del freddo

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come origine degli abiti sono ab-bastanza unanimi tra antropolo-gi e biologi almeno dai tempi di Darwin. Esser divergono però per l’elemento da sostituire al freddo come causa dell’invenzio-ne degli abiti. […]Ornamento, magia, sesso, pro-tezione fisica e simbolica: tut-te queste ragioni e le altre che possono essere introdotte come causa dell’invenzione dell’abbi-gliamento ci interessano fino a un certo punto per la loro qua-lità eventuale di origine primitiva e fondamentale. Noi non cerchia-mo infatti un punto di partenza assoluto, il nostro tema qui non è l’abbigliamento in sé, ma l’ar-cheologia della Moda. Possiamo dunque appagarci del fatto che queste forze sono state e sono importanti, e soprattutto che esse spingono ancora per deter-minare in un senso o nell’altro lo stato dell’abbigliamento. Proprio esse sono ancora, per così dire, la materia prima della Moda del ve-stire, che vive e si sviluppa e cam-bia giocandole continuamente le une contro le altre. […]

Che la natura dell’uomo sia la cultura, che in sostanza non sia più riconoscibile in nessun po-polo “primitivo” l’uomo bestione immaginato da certe illustrazioni scolastiche sulla preistoria è un dato di fatto empirico e assie-me anche un principio euristico dell’antropologia culturale che vale anche per il campo dell’abbi-gliamento. […]Ma nel momento in cui concor-diamo con Dorfles nel vedere la “personalizzazione” e la “dif-ferenziazione” come condizioni elementari e basilari dell’uomo che si veste, anche solo di un pe-rizoma, abbiamo incontrato qual-che cosa di più di una spiegazione generica e in fondo tranquilliz-zante: ci troviamo di fronte, ben dentro un argomento estraneo come quello che abbiamo chia-mato preistoria dell’abbigliamen-to, a un indizio sulle radici del-la Moda vera e propria. Perché “personalizzare”, “differenziare”, fornire un secondo corpo o una protesi estetica della pelle, come è stato suggerito da McLuhan a proposito dei vestiti, è già un’at-

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tività molto vicina alla Moda. Non si tratta qui di nessuna di quelle attività diciamo di primo grado che abbiamo considerato sopra, come ornamento, magia, pro-tezione, pudore, sesso. Siamo di fronte invece a un uso di secondo grado di questi stessi impulsi. Ci si vorrebbe certo difendere dal freddo, dagli sguardi altrui, otte-nere potere magico, bellezza, sex appeal. ma lo si vuole in maniera tale da “essere differenti”, “per-sonali”, da ingaggiare una sorta di competizione o di gioco con gli altri che si abbigliano: e in manie-ra che ci sia somiglianza al giusto grado, o conformità sociale, ma anche diversità; e soprattutto in modo che questo vada a costitu-ire la “persona”. E’ ben noto del resto che questo termine con cui indichiamo quel che ci differenzia dagli altri ha un’origine etimologi-ca che si richiama alla maschera. […]Così quest’”uomo naturale” con cui incomincia il nostro pensiero dell’abbigliamento, se non l’ab-bigliamento stesso, è da sempre l’orbita di un uso estetico, emu-

lativo del vestire. E dunque se la preistoria dell’abbigliamento è solo ipotetica, per noi irrecu-perabile, anche la distinzione fra abbigliamento e Moda non può essere assoluta, checché ne dica chi sottolinea l’ù2occidentale” in-venzione della Moda. Se anche in moltissimi tempi, società e culture manca il ciclo, il mutamento orga-nizzato che per noi caratterizza la Moda, pure non vi è mai un uso ingenuo, puro dell’abbigliamen-to. Vestirsi è sempre costruire la propria persona, determinare la propria maschera sociale; ma fare Moda, in qualsiasi contesto, è dar-si un abito simbolico, coprirsi di una superficie opaca e intercam-biabile come i nostri abiti.

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Il match Chanel-Courrèges(pp. 84-89)

il senso della modadi Roland Barthes

Se apriste oggi una storia della nostra letteratura, dovreste trovarvi il nome di un nuovo autore classico: Coco Chanel. Chanel non scrive con carta e penna (se non nei moneti d’ozio) ma con stoffa, forme, e colori: il che non impedisce che le si attribuisca comunemen-te l’autorità e la brillantezza di un autore del grand siècle: elegante come Racine, giansenista come Pascal (che cita spesso), filosofo come La Rochefoucauld (che imi-

ta, fornendo al pubblico alcune massime), sensi-bile come Mme de Se-vigné, frondista, infine, come la Grande Ma-demoiselle, della quale riceve il soprannome e la funzione (si pensi alle sue recenti dichia-razioni di guerra ai sar-ti). Chanel, si dice, evita alla moda di sconfina-re nella barbarie e la

colma di tutti i valori dell’ordine classico: ragione, naturalezza, per-manenza, gusto di piacere e non di stupire; Chanel è molto amata dal “Figaro”, dove occupa insieme a Cocteau i margini della buona

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cultura modana.Che cosa si può opporre di estre-mo al classicismo se non il futuri-smo? Courrèges, si dice, veste le donne del 2000, che sono le ra-gazzine di oggi. Mescolando, come in ogni leggenda, il carattere del-la persona e lo stile delle opere, Courrèges viene gratificato di fa-volose qualità di innovatore asso-luto: giovane, tempestoso, galvani-co, virulento, pazzo per lo sport (e del più rude: il rugby), amante del ritmo (la sua collezione è stata presentata al suono di jerk), teme-rario fino alla contraddizione, poi-ché inventa un abito da sera che non è un abito (ma dei calzonci-ni); la tradizione, il buon senso e il sentimento - senza i quali non vi è in Francia vero eroe - sono in lui dominati, e semmai appaiono con discrezione in qualche angolo del-la sua vita privata: ama passeggiare sulle rive del torrente del suo pa-ese natale, disegna come un arti-giano e manda l’unico abito nero della sua collezione alla madre, a Pau.Tutto ciò dà l’impressione che qualcosa d’importante separi, a

tutti i livelli, Chanel e Courrèg-es - qualcosa forse di più profon-do della moda, o almeno di cui la moda è soltanto la circostanza di apparizione. Che cosa?Le creazioni di Chanel contesta-no l’idea stessa di moda. La moda (così come la concepiamo oggi) si basa su un sentimento violen-to del tempo. Ogni anno, la moda distrugge ciò che aveva adorato e adora ciò che distruggerà; la moda sconfitta dell’anno passa-to potrebbe rivolgere alla moda vincente dell’anno in corso quella frase ostile che i morti trasmetto-no ai vivi e che è possibile legge-re su molte tombe: «Ero ieri ciò che sei oggi, sarai domani ciò che sono oggi». L’opera di Chanel non partecipa - o partecipa poco - a questa vendetta annuale. Chanel lavora sempre sullo stesso mo-dello, che si limita a »variare», di anno in anno, come si «varia» un tema in musica; la sua opera dice (e lei stessa lo conferma) che c’è una bellezza «eterna» della donna la cui immagine unica ci sarebbe trasmessa dalla storia dell’arte; Chanel respinge con indignazio-

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ne i materiali deperibili, al carta, la plastica, con cui in America si tenta talvolta di fare gli abiti. La cosa stessa che nega la moda, la durata, viene trasformata da Cha-nel in qualità preziosa.Ora, nell’estetica del vestito c’è un valore molto particolare, per-sino paradossale, che riunisce la seduzione e la durata: è lo chic; lo chic sopporta o addirittura esige, se non l’usura del vestito, quantomeno il suo uso: lo chic ha orrore di tutto ciò che appare come nuovo (il dandy Brummell, si ricorderà, non indossava mai un abito senza prima averlo fatto un po’ invecchiare sulle spalle del suo domestico). Lo chic, sorta di tempo sublimato, è il valore chia-ve dello stile di Chanel. I modelli di Courrèges non hanno invece questa ossessione: molto freschi, colorati o anche coloriti, in loro domina il bianco, sorta di nuovo assoluto; questa moda volontaria-mente molto giovane, con riferi-menti collegiali, talvolta infantili, persino da neonato (calzini e scar-pette da bebè) per la quale anche l’inverno è una stagione assolu-

tamente chiara, è continuamente nuova, senza complessi, poiché veste esseri nuovi. Da Chanel a Courrèges cambia la «grammati-ca» del tempo: lo chic inalterabile di Chanel ci dice che la donna ha già vissuto (e sa vivere); il nuovo ostinato di Courrèges ci dice che essa sta per vivere.Il tempo, dunque, che è stile per l’una e moda per l’altro, separa Chanel e Courrèges. E così anche una certa idea di corpo. Non è un caso che l’invenzione specifica di Chanel, il tailleur, sia molto vicino al vestito da uomo. L’abito maschi-le e il tailleur chaneliano hanno un ideale comune: la «distinzione». La «distinzione» era nell’Ottocento un valore sociale; in una società da poco democratizzata, in cui agli uomini delle cosiddette clas-si superiori era vietato ostentare il proprio denaro - cosa sempre permessa per procura alle loro mogli - era permesso «distinguer-si» comunque, grazie a qualche dettaglio discreto. Lo stile di Cha-nel raccoglie, filtra, femminilizza questa eredità storica, rivelando-si proprio in tal modo parados-

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salmente datato. Esso corrispon-de a quel momento abbastanza breve della nostra storia (quello della giovinezza di Chanel) in cui una minoranza di donne ha avu-to accesso finalmente al lavoro, all’indipendenza sociale, e ha do-vuto trasporre nel proprio ab-bigliamento qualcosa dei valori maschili, a cominciare da questa famosa «distinzione», unico lusso rimasto agli uomini uniformati dal loro lavoro. La donna di Chanel non è la fanciulla oziosa, ma una giovane donna che affronta un la-voro discreto e vago; lavoro di cui essa lascia leggere nel suo tailleur morbido, al contempo pratico ed elegante, non il contenuto (non è un’uniforme) ma la compensa-zione: una forma superiore di di-vertimento, la crociera, lo yacht, il wagon-lit, insomma il viaggio moderno e aristocratico, cantato da Paul Morand e Valéry Larbaud. Così, di tutte le moda, lo stile di Chanel è forse, paradossalmen-te, il più sociale, perché ciò che combatte e respinge non sono, come si crede, le provocazioni fu-turistiche della moda giovane, ma

piuttosto le volgarità del vestito piccolo-borghese: Chanel dunque rischia di essere più efficace pro-prio nelle società poste dinnanzi a un bisogno nuovo di promozio-ne estetica - come per esempio a Mosca, dove infatti si reca.C’è tuttavia una contropartita allo stile di Chanel: un certo oblio del corpo che si direbbe dal tutto rifugiato, assorbito, nella «distin-zione» sociale del vestito. Non è colpa di Chanel: dai tempi del suo debutto è apparso qualcosa di nuovo nella nostra società, qual-cosa che o nuovi sarti tentano di tradurre, di codificare: è nata una nuova classe che i sociologi non avevano previsto: la giovinezza. Dato che il corpo è il suo unico bene, la giovinezza non è né vol-gare né «distinta»; semplicemente è. Guardate la donna di Chanel: è possibile cogliere il suo ambiente, le sue occupazioni, i suoi diverti-menti, i suoi viaggi; guardate quella di Courrèges: non ci si chiede che cosa faccia, chi siano i suoi genito-ri, quali siano i suoi antenati: essa è giovane, necessariamente, e tan-to basta. Al contempo astratta e

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materiale, la moda di Courrèges sembra essersi data una sola fun-zione: quella di fare del vestito un segno assolutamente chiaro di tutto il corpo. Un segno non è necessariamente un’esposizione (la moda è sempre casta); si dice forse troppo spesso che la gon-na corta «Mostra» il ginocchio. Le cose sono forse più complicate. Probabilmente ciò che interessa a un sarto come Courrèges non è lo strip-tease tutto materiale di cui ci si indigna: è semmai il fatto di dare al vestito femminile quell’e-spressione allusiva che ci rende il corpo del tutto vicino senza mai esibirlo; il suo scopo è di condurci a un rapporto nuovo con i corpi giovani che ci circondano, sugge-rendoci - attraverso un gioco di forme, colori e dettagli (che è ap-punto l’arte del sarto) - che noi potremmo entrare in confidenza con essi. […]Così, abbiamo da una parte la tra-dizione (con i suoi rinnovamenti interni) e dall’altra l’innovazione (con le sue costanti implicite); da un lato il classicismo (anche se sensibile), dall’altro il modernismo

(anche se familiare). Bisogna cre-dere che la nostra società abbia bisogno di questo duello, poiché essa insegna - almeno da qualche secolo - ad allargarlo a tutti i cam-pi dell’arte, e sotto un’infinita va-rietà di forme; e se esso esplode oggi nella moda, con una nitidezza eccezionale, è perché la moda è anch’essa un’arte, allo stesso tito-lo della letteratura, della pittura, della musica.Di più, il match Chanel-Courrèges ci insegna - o ci conferma - questo: oggi grazie al formidabile sviluppo dei mezzi di diffusione come la stampa, la televisione e lo stesso cinema) la moda non è soltanto ciò che le donne indossano; è an-che ciò che tutte le donne (e tutti gli uomini) guardano e leggono: le invenzioni dei nostri sarti piaccio-no o irritano esattamente come un romanzo, un film, un disco. Pro-iettiamo sui tailleur di Chanel e sui calzoncini di Courrèges tutto il fermento di credenze, pregiudi-zi, sentimenti e resistenze, in bre-ve tutta la storia di se stessi che si chiama - con una parola forse un po’ troppo semplice - il gusto.

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[…]Una volta inseriti in questa grande cultura di tutti i giorni, alla quale partecipiamo attraverso tutto ciò che leggiamo e vediamo, lo stile di Chanel e la moda di Courrèg-es formano un’opposizione che è molto meno la materia di una scelta di quanto non sia l’oggetto di una lettura. I nomi di Chanel e Courrèges sono come le due rime necessarie di uno stesso distico o come le opposte prodezze di di una coppia di eroi senza le quali non ci sarebbe una bella storia. Se vogliamo tenere insieme in modo indissociabile queste due facce di

uno stesso segno - quello del no-stro tempo - faremo allora della moda un oggetto veramente po-etico, costituito collettivamente per darci lo spettacolo profondo di un’ambiguità, e non l’imbarazzo di na scelta inutile.

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Moda Radicale(29 marzo 2013)

manifashiondi Michele Ciavarella

Il 3 marzo, a Parigi, pri-ma che cominciasse la sfilata di Givenchy, è sta-to distribuito un testo scritto per l’occasione da Antony Hegarty (An-tony and the Johnsons). Il titolo, Future Femini-sm, poteva essere legato alla collezione che di lì a qualche minuto, indossata dal-le modelle, avrebbe percorso la passerella. ma anche no, perché in realtà il testo era stato scritto a prescindere dalla collezione. Un passaggio del testo dice: «Abbia-mo violentato allo stesso modo il corpo della Terra e quello della

donna, e siamo arriva-ti alla fine della nostra storia. che gli uomini facciano un passo indie-tro, hanno fallito. Se c’è un futuro che riguarda tutta l’umanità, è femmi-nile».Si dirà: è facile per un musicista che fa del tran-sgneder la sua bandiera fisica e culturale scrive-

re un discorso che pretende di in-dicare un femminismo del futuro. Forse. Può essere. Ma non è facile per niente per la moda mettere a disposizione di questo discorso una platea così ampia di un mar-chio di risonanza globale.A commento delle sue sfilate

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Prada e Miu Miu per il prossimo inverno, Miuccia Prada dice: «Ho voluto parlare del piacere della moda, anche perché la moda oggi sta esprimendo la cosa più impor-tante per questi tempi: il deside-rio di cambiare». Alla fine della sfi-lata di haute Couture di Chanel lo scorso gennaio a Parigi, Karl La-gerfeld ha mandato in passerella due spose: è la sua presa di posi-zione sulla polemica scoppiata in Francia sulla legge dei matrimoni omosessuali.La moda, quindi, ha cominciato a lavorare, e anche in modo molto veloce, per uscire da un percorso segnato da anni di schiacciamento sull’esistente per staccarsi da una società pensata tutta sui valori maschili. Mettendo a disposizione la propria creatività, la moda sta cercando, cioè, di riprendere in mano quello strumento della ra-dicalità che le ha consentito, sto-ricamente, di anticipare i cambia-menti sociali s necessari ma che difficilmente si realizzano se sono lasciati soltanto nelle mani della politica.Da qualche stagione, la moda sta lavorando più sui significati che

sulle forme, e li trasferisce sull’a-bito. Che non è un oggetto insi-gnificante, ma è quella cosa che ci definisce alla vista degli altri. Oggi la moda non richiede alcuna legit-timazione né chiede di essere ac-cettata: non è più, come ai tempi del reflusso, in quella condizione di inferiorità che l’ha costretta a costruire le tipologie di donne così come richieste dalla società maschile.Consapevole di quanto l’estetica può essere l’etica, la moda oggi fa ricerca più di altri ambiti creativi su una nuova estetica che rivalu-ti la dignità delle persone, donne e uomini. per fare un esempio, la moda sta proponendo le gonne agli uomini, facendogli capire che indossare la gonna non vuol dire avere sensibilità femminile (né es-sere omosessuali) e, nello stesso tempo, avverte le donne che i pan-taloni conquistati a forza di lotte possono trasformarsi facilmente nello stesso strumento fallimen-tare del potere maschile. E ancora, ha eliminato ogni age discrimina-tion perché non fa più dell’età un elemento determinante per la sua definizione, come ha trasformato

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le minoranze in un’espressione di valore. Indica, così, una strada pos-sibile per il cambiamento usando il suo potere di fascinazione.Sono segnali, è vero. Ma segnali che vanno seguiti, analizzati, in-coraggiati e anche controllati. Segnali di cui si occuperò questa

neonata Manifashion, cercando di scalfire quel muro di pregiudizio che la cultura, soprattutto quella italiana e anche quella di sinistra, ha sempre avuto nei confronti della moda, ritenuta a torto solo espressione di futili falpalà.

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vogueabolariodi Giovanna Errore

La stampa tipicamen-te estiva e casual, imman-cabile nel nostro guar-daroba, non è sempre stata in voga come oggi. Anzi, tutt’altro. Si legge nel Levitico, uno dei libri dell’Antico Testamento: «Non in-dosserai veste tessuta di due». Un’interpretazione troppo let-terale e decisamente forzata del passo convince la religiosissima società medievale che le righe va-dano bandite dall’abbigliamento della gente perbene. Le “leggi sun-tuarie” specificano infatti colori, tessuti, fantasie, modelli che pos-sono essere indossati o meno da

alcun strati della società. Vestono a righe le prosti-tute, i giullari, i galeotti, i boia.Nei secoli successivi la classica riga bianca e blu viene adottata come divi-sa ufficiale dei marinai, per due motivi: permette di

nascondere le macchie di sporco e di avvistare facilmente un uomo in mare. Nel 1858 in Francia una legge stabilisce anche il numero di righe cioè 21, una per ogni vitto-ria militare di Napoleone.È durante la belle epoque, e poi soprattutto con la rivoluzione dei costumi operata da Coco Chanel che le righe diventano un feno-meno di costume, stampa sempli-

Righe

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ce ma estremamente chic e anche simbolo dell’eleganza essenziale dei francesi. Non è un caso, in-fatti, che il maggior produttore di maglieria alla marinara sia il fran-cesissimo marchio Petit Bateau. Come sempre sono le grandi fi-gure dell’ambiente artistico-cul-turale a trasformare un dettaglio in mania: Pablo Picasso, la stessa Coco Chanel e poi James Dean, Brigitte Bradot, Audrey Hepburn.Anche le righe multicolor vivo-no negli stessi anni un grandis-simo successo: sono protagoni-ste dell’abito da sera Vionnet nel 1923 e delle zeppe Ferragamo nel 1938. Questo tipo particolare di righe coloratissime, sia orizzontali che verticali, viene chiamato ba-iadera, un termine che viene dal portoghese e significa “ballerina”, poiché gli abiti delle danze tradi-zionali portoghesi sono ricchi di righe multicolor. Negli anni ’60 la casa di moda italiana Missoni farà delle righe colorate il proprio bi-glietto da visita.Nel 1962 Yves Saint Laurent man-da in passerella la sua prima col-lezione di alta moda dopo essersi

allontanato dalla maison Dior, e la fa ruotare tutta intorno allo stile marinaresco, così il classico acco-stamento di bianco, blu e rosso torna alla ribalta. Alcuni anni dopo, all’inizio degli anni ’80 è l’ecletti-co Jean Paul Gaultier ad adottare questo stile, sia per le sue colle-zioni che per il suo abbigliamento. Quindi insomma, se quando in-dossate una maglia alla marinara vi “sentite un po’ degli avanzi di galera…sappiate che siete in buo-na compagnia!

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Sorelle Fontana(pp. 1101-1103)

dizionario della modadi Guido Vergani

Zoe (1911-1979), Micol (1913-2015) e Giovanna Fontana (1915-2004) nascono a Traversolo in provincia di Parma. Giovanissime apprendono il mestiere nella sartoria materna. La più grande, Zoe, dopo brevi soggiorni a Milano e a Pa-rigi,, nel 1936 approda a Roma dove, poco dopo, inizia a lavora-re per la sartoria Zecca. Di lì a poco viene raggiunta dalle sorelle.

mentre Micol fa un pe-riodo di apprendistato nella sartoria Battilocchi, Giovanna cuce abiti in casa. Nel ’43 si mettono in proprio, aprendo una sartoria in via Liguria, e iniziano a vestire i più bei nomi dell’aristocra-zia romana. elisa Massai, pioniera delle cronache

dedicate alla moda, ricorda: «Ave-vano la sapienza artigianale e l’in-tuito di chi viene dalla gavetta. Usavano, agguantavano. Non tut-to era farina del loro sacco. Ma

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facevano una moda italiana, alme-no embrionalmente. Furono tra le prime». La grande occasione arriva nel ’49 quando realizzano l’abito di nozze di Linda Christian per il suo matrimonio con Tyron Power a Roma: un evento da pri-ma pagina e valanghe di fotogra-fie sui rotocalchi di tutto il mon-do. Da allora inizia il loro intenso contatto con il jet-set internazio-nale. Nel ’51 partecipano con suc-cesso alla prima sfilata fiorentina organizzata da Giorgini di fronte ad una platea di buyer interna-zionali. Nel ’57 trasferiscono l’a-telier nella sede più ampia di via San Sebastianello 6. L’anno suc-cessivo vengono convocate alla Casa Bianca come rappresentanti italiane alla conferenza “La moda nel mondo”. Le creazioni di alta moda delle sorelle Fontana, oltre che per l’alta sartorialità, si distin-guono per le linee romantiche e ottocentesche impreziosite da ri-cami e applicazioni di strass, perle e merletti. La loro premièr stori-ca è stata Armena Carloni, sorella di Maria Carloni, un’altra grande maestra di sartoria e che ha la-

vorato da Ventura e Irene Galit-zine. Tra gli anni ’50 e ’60, il loro atelier era frequentato da Marella Agnelli, Jackie Kennedy, Soraya e Liz Taylor. Intanto continuavano a vestire le dive. Nel ’52 il loro ate-lier fa da sfondo al film di Lucia-no Emmer “Le ragazze di Piazza di Spagna”. Poco dopo creano gli abiti di Ava Gardner per “La con-tessa scalza” (’54), “Il sole sorgerà ancora” (’57) e “L’ultima spiaggia” (’59). Sempre per la Gardner re-alizzano nel ’56 uno dei loro abiti più famosi: il pretino, abito dalla li-nea talare ripreso dal costumista Danilo Donati per Anita Ekberg in una scena della “Dolce vita” di Federico Fellini (’60). Nel ’60, su richiesta dei compratori sta-tunitensi, inaugurano una linea di prét-à-porter, a cui aggiungono poi linee di pelletteria, ombrelli, foulard, bigiotteria, biancheria da bagno e da tavola, e il profumo Micol lanciato nel ’91. Nel ’72, pur continuando la loro produzione sia nel campo dell’alta moda sia in quello del prét-à-porter, le sorel-le Fontana si ritirano dalle mani-festazioni ufficiali dell’alta moda.

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Tra i loro collaboratori si ricorda-no Balestra, de Barentzen, Giulio Coltellacci, Pistolese, Alain Rey-naud. Nel ’92 l’azienda e il mar-chio Sorelle Fontana sono ceduti a un gruppo finanziario italiano. (Micol ha continuato a occuparsi di moda attraverso la fondazione Micol Fontana che, creata nel ’44, promuove la creatività dei giovani

artisti italiani con concorsi e bor-se di studio).

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Introduzione

Il guardaroba delle parole della moda(pp. 9-12)

dizionario della modadi Mariella Lorusso

Come per ogni dizionario bilingue, l’intento principale di quest’opera è quello di collegare due lingue allo scopo di favorirne la comunicazione inter-linguistica, ma ciò che si attua nel passaggio da una lingua all’altra è anche la trasmissione di informa-zioni relative alla cultura dei Pa-esi in cui queste lingue vengono parlate.Anche la moda, come la lingua, è un veicolo di trasmissio-ne di cultura: bellezza, meraviglia, arricchimento, piacere. La cultu-

ra occupa una posizione cruciale nel discorso sulla moda, e poiché questa si manifesta sia attraverso espressioni non materiali - quali la lingua e il pensiero - sia materiali - quali ma-nufatti, gioielli, accessori, e capi di abbigliamento - mi

piace iniziare la riflessione con la definizione di cultura che dà Ma-rino Sinibaldi, particolarmente pertinente e utile a questa narra-zione: «Cultura non è quantità di libri letti, quadri visti, suoni ascoltati, idee pensate. Occorre conosce-re quanta bellezza e intelligenza

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ha prodotto la storia degli uomini, accanto alle atrocità e alle infamie, ma non basta. Bisogna sapere che ogni frammento di quella eredità arricchisce ciascuno di noi, produ-ce piacere, meraviglia, indipenden-za, merita di essere conservato e trasmesso, sfida ogni generazione a espandere quel tesoro. cultura non è il consumo di quel patri-monio ma la sua continua ri-cre-azione e condivisione. Non è una quantità, la cultura, ma una quali-tà degli individui e delle società, è prendersi cura di sé e del mon-do».[…] Quel brivido di ammirazione e di gioia improvvisa - una sorta di espansione dell’anima - deri-va dalla relazione intima tra due sensibilità: il creatore dell’ope-ra e l’osservatore-fruitore crea-no insieme emozione e sintonia. Scocca una scintilla: due soggetti si riconoscono, parlano lo stesso linguaggio e instaurano così un legame che si può definire quasi “sentimentale”, misto di piacere e di segreta complicità. La moda è questo e molto altro: lo dimostra l’attenzione che le rivolgono dall’i-

nizio degli anni ’80 del Novecento innovativi studi sui suoi molteplici aspetti. I Fashion Studies sciolgono finalmente la snobistica riluttanza di molti intellettuali a occuparsi di moda, argomento ritenuto frivolo e superficiale e dunque non de-gno di interesse. […]Con l’evoluzione dei Fashion Stu-dies come emanazione dei Cultu-ral Studies, l’orizzonte culturale e linguistico relativo all’abbigliamen-to si è ampliato, e si è finalmente chiarita la posizione di centralità che questo fenomeno dovrebbe assumere nella riflessione intellet-tuale. Si è compreso che il discor-so sulla moda esigeva un appro-fondito studio multidisciplinare e interdisciplinare fondato su mol-teplici approcci teorici e meto-dologici. Con maggiore intensità e attenzione, la moda viene oggi percepita come fenomeno cultu-rale, indagato nella sua comples-sità nei suoi poliedrici aspetti, che vanno da quelli artistici, estetici, semiotici, simbolici, fotografici, ci-nematografici, a quelli storici, an-tropologici, filosofici, sociologici, letterari, a quelli economici, pro-

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duttivi, pubblicitari,, a quelli legati agli aspetti comunicativi, linguistici, psicanalitici, psicologici, etici, lega-li, archivistici. essa viene studiata altresì dal punto di vista degli al-lestimenti museali, nei suoi legami con il mondo della musica e dello spettacolo, come nella prospetti-va della vita quotidiana e della co-municazione di massa. […]L’incessante processo di globa-lizzazione e di anglicizzazione di questo ambito, sancisce l’assun-zione dell’inglese come lingua vei-colare della comunicazione della moda, una sorta di “lingua franca”, che dalla fine degli anni 90 divie-ne definitivamente la lingua della moda per eccellenza.Sebbene il prestigio dell’Italia in questo campo sia riconosciuto a livello internazionale, la lingua ita-liana non registra pari incisività a causa di questa “colonizzazione” linguistica dell’inglese poiché, in un

settore così effervescente e mute-vole come quello della moda, alla costante ricerca di nuove espres-sioni per descrivere creazioni nuove, il ricorso ai forestierismi e a un codice linguistico diverso viene accolto favorevolmente al fine di rendere l’atto comunicati-vo più vivace e seducente.Così come lo studio della moda è stato trascurato per molto tem-po, l’indagine della sua lingua ha subito un simile destino. Analoga-mente, sul fronte dei dizionari si registra la totale assenza di uno strumento specialistico bilingue - inglese-italiano/italiano-inglese - che copra il lessico relativo all’ab-bigliamento, ai tessuti, ai gioielli, agli accessori ai metodi e ai mac-chinari di produzione, rendendo urgente la necessità di colmare questa lacuna. […]

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