Pericle Ducati-Origini Della Scultura Greca

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PERICLE DUCATI LA SCULTURA GRECA L’ARCAISMO FIRENZE NOVISSIMA ENCICLOPEDIA MONOGRAFICA ILLUSTRATA VIA FAENZA, N. 52 ORIGINI DELLA SCULTURA GRECA. A capo della loro scultura i Greci collocavano la figura mitica di Dedalo ateniese, che la leggenda metteva in rapporto con Minosse, il possente dominatore dell’Egeo, il re di Cnosso in Creta, quel Minosse, da cui ha tratto denominazione il periodo di civiltà e di arte cretese tra la prima metà del III millennio a. C. e la seconda metà del II millennio a. C. In realtà il nome di Dedalo si deve associare con le prime manifestazioni della scultura greca in età ben posteriore, quando cioè dall’arte, con formule rigorosamente geometriche del cosiddetto medio-evo ellenico (sec. X-VIII a. C.), era ormai avvenuto il passaggio alle espressioni di forme vegetali e di forme animalesche o mostruose dell’arte industriale orientalizzante. Il nome di Dedalo è all’inizio della grande scultura greca, ove il massimo problema consiste nella rappresentazione della figura umana, specialmente maschile ed ignuda. Dedaliche furono chiamate le prime espressioni scultoree e la tradizione letteraria ci parla di artisti dedalici, cioè della scuola di Dedalo esplicatasi in Creta e passata poi nel Peloponneso. La scultura greca non ci è nota nei suoi primi lavori, che erano eseguiti in legno; i cosiddetta xoana o sculture lignee, appunto per il deterioramento di questo materiale, sono andati perduti; erano tronchi di albero, erano travi piallate, in modo che il corpo non aveva apparenza organica, ma veniva rivestito di stoffe vistose, da cui uscivano la testa, le braccia, i piedi, parti anatomiche su cui si indirizzava l’attività dell’umile intagliatore e che venivano rivestite di stucco e dipinte. In compenso noi abbiamo alcuni primi esemplari della scultura in pietra. Essi non risalgono più in su della fine del sec. VII a. C. e prevalentemente riproducono la figura maschile ignuda, imberbe, stante, con la gamba sinistra un po’ avanzata rispetto alla destra, con le braccia pendenti lungo i fianchi e con le mani attaccate alle cosce. È il tipo cosiddetto dei kouroi o degli Apollini arcaici; è un tipo che, applicato alla figura muliebre, ci si presenta in piena arte geometrica espresso in modiche proporzioni in statuette eburnee. Cosi dal cimitero del Dipylon ad Atene, da una tomba, che, pei vasi dipinti geometrici che vi si rinvennero, non può discendere più in giù della metà del sec. VIII a. C., provengono cinque figurine di avorio; sono donne ignude, di cui due hanno sul capo il berretto cilindrico o polos e perciò rappresentano certamente delle divinità: angolosità nei contorni del corpo, esagerata

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sulle origini e l'evoluzione della scultura greca

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PERICLE DUCATILA SCULTURA GRECA

L’ARCAISMOFIRENZE

NOVISSIMA ENCICLOPEDIA MONOGRAFICA ILLUSTRATAVIA FAENZA, N. 52

ORIGINI DELLA SCULTURA GRECA.

A capo della loro scultura i Greci collocavano la figura mitica di Dedalo ateniese, che la leggenda metteva in rapporto con Minosse, il possente dominatore dell’Egeo, il re di Cnosso in Creta, quel Minosse, da cui ha tratto denominazione il periodo di civiltà e di arte cretese tra la prima metà del III millennio a. C. e la seconda metà del II millennio a. C. In realtà il nome di Dedalo si deve associare con le prime manifestazioni della scultura greca in età ben posteriore, quando cioè dall’arte, con formule rigorosamente geometriche del cosiddetto medio-evo ellenico (sec. X-VIII a. C.), era ormai avvenuto il passaggio alle espressioni di forme vegetali e di forme animalesche o mostruose dell’arte industriale orientalizzante.

Il nome di Dedalo è all’inizio della grande scultura greca, ove il massimo problema consiste nella rappresentazione della figura umana, specialmente maschile ed ignuda. Dedaliche furono chiamate le prime espressioni scultoree e la tradizione letteraria ci parla di artisti dedalici, cioè della scuola di Dedalo esplicatasi in Creta e passata poi nel Peloponneso.

La scultura greca non ci è nota nei suoi primi lavori, che erano eseguiti in legno; i cosiddetta xoana o sculture lignee, appunto per il deterioramento di questo materiale, sono andati perduti; erano tronchi di albero, erano travi piallate, in modo che il corpo non aveva apparenza organica, ma veniva rivestito di stoffe vistose, da cui uscivano la testa, le braccia, i piedi, parti anatomiche su cui si indirizzava l’attività dell’umile intagliatore e che venivano rivestite di stucco e dipinte.

In compenso noi abbiamo alcuni primi esemplari della scultura in pietra. Essi non risalgono più in su della fine del sec. VII a. C. e prevalentemente riproducono la figura maschile ignuda, imberbe, stante, con la gamba sinistra un po’ avanzata rispetto alla destra, con le braccia pendenti lungo i fianchi e con le mani attaccate alle cosce. È il tipo cosiddetto dei kouroi o degli Apollini arcaici; è un tipo che, applicato alla figura muliebre, ci si presenta in piena arte geometrica espresso in modiche proporzioni in statuette eburnee. Cosi dal cimitero del Dipylon ad Atene, da una tomba, che, pei vasi dipinti geometrici che vi si rinvennero, non può discendere più in giù della metà del sec. VIII a. C., provengono cinque figurine di avorio; sono donne ignude, di cui due hanno sul capo il berretto cilindrico o polos e perciò rappresentano certamente delle divinità: angolosità nei contorni del corpo, esagerata sottigliezza è nella cintura, con grossolanità ed imprecisione sono resi i tratti del volto e le mani. Ma qui non si tratta di sculture nel vero senso della parola, sì invece di prodromi della scultura.

È invece notevole che le prime manifestazioni di scultura (figure maschili ignude e figure femminili vestite stanti, figure, sia maschili che femminili, vestite e sedute) cadono nel periodo in cui la Grecia è in grande contatto con l’Egitto, ove si svolgeva da secoli una grande arte di scultura, quella grande arte, che manca invece alla Grecia del medio-evo ellenico e che è quasi del tutto estranea alla Grecia della civiltà cretese-micenea. La filellena dinastia saitica XXVIa (669-525 a. C.), specialmente con Psammetico I (663-609 a. C.) e con Amasis (568-526 a. C.) chiama a sé i Greci; s’intessono rapporti frequenti assai tra Greci ed Egizi, dopo il lungo periodo in cui e Grecia ed Egitto avevano condotto una vita isolata e difficile, con la stentata acerbità in Grecia, con l’affannosa debolezza contro Etiopia ed Assiria in Egitto. Mercenari e mercanti, i Greci penetrano nel meraviglioso paese nilotico, fulgido di memorie millenarie, vivono in città egizie e fondano colonie (Naucrati, Dafne).

Si è voluto negare l’influsso egizio nelle primitive opere di arte scultoria dei Greci; in realtà vi sono indizi che ci persuadono del contrario: nei kouroi, l’acconciatura della chioma coi due spioventi laterali a triangolo sulle spalle, che corrisponde all’egiziano klaft, la mano non più a dita allungate, come nelle statuette eburnee del Dipylon, ma con le dita maggiori chiuse e col pollice disteso, la gamba sinistra avanzata, invece della destra. Ma la completa nudità, ma la perfetta indipendenza della statua differenziano di un subito i kouroi ellenici dalle statue egizie, ove nella scultura aulica, ufficiale è lo shenti attorno alla cintura ed ove la statua posteriormente si appoggia ai pilastro istoriato di

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geroglifici.Una scintilla anima sin dall’ inizio la scultura dei Greci: è l’anelito non mai smorzato, ma sempre

fervido verso una forma ideale di bellezza tipica, per cui l’uomo e la donna debbono raggiungere quella perfezione fisica che eguaglia la umanità alla divinità. Fin dagli albori della scultura l’individuo sparisce, trionfa nelle sue varietà il tipo, onde la scultura greca sin dai primi, faticosi tentativi è assoggettata ad una severa disciplina formale che non è frutto di elucubrazione cerebrale, ma è una esigenza dello spirito, è un moto spontaneo, una inclinazione che si trasforma in volontà. Aspro è il cammino, ma dalla acerbità dell’arcaismo, così pieno di attrattiva come una campagna dopo il riposo invernale, piena di germogli, sboccerà gradatamente, senza salti né scosse, il saporoso frutto della scultura del pieno secolo V a. C.

KOUROI ARCAICI

Numerosi sono i kouroi sino a noi pervenuti. Fra ì più antichi è il cosiddetto Apollo di Orcomeno del Museo di Atene in duro, grigiastro calcare, dalla grossa testa, dalla scarsezza sommaria dei particolari; tra i più interessanti nella loro stranezza è il kouros del Museo Metropolitano di Nuova York, dagli enormi archi amigdaloidi, dal risalto netto, deciso delle varie parti anatomiche, dalla possanza muscolare del petto e delle gambe in contrasto con la sottigliezza del torace. In un caso due kouroi sono insieme riuniti; si ha allora un vero altorilievo; è l’esempio offertoci dalla curiosa stele di tufo (poros) di Dermys e Kitylos di Tanagra del Museo di Atene, che palesano una antichità maggiore per lo schematismo delle sagome e per l’assenza dei motivi anatomici rispetto anche all’Apollo di Orcomeno.

Ma tipici sopratutto sono da un lato il cosiddetto Apollo di Tenea (vicino a Corinto) della Glittoteca di Monaco, dall’altro le due statue atletiche (Cleobi e Bitone) del Museo di Delfi. Nell’«Apollo» di Tenea, che è in realtà una statua funeraria, si ha l’uso del nobile marmo pario; certo dobbiamo vedere in questo marmo dell’inizio del sec. VI l’opera di un artista insulare. Vi è snellezza di proporzioni, vi è forza disciplinata nel corpo vigoroso, ma con le spalle un po’ cascanti, nel corpo elastico, nervoso; vi è già un raggio di spiritualità nei tratti del volto, pure nel convenzionalismo arcaico. Nel volto emergono gli occhi di rana a fior di pelle, ma risalta anche il sorriso, che dà una espressione di arguzia. È il sorriso arcaico che diventa il motivo predominante nei volti attraverso tutto il secolo VI ed anche i primi tempi del secolo successivo. È infine da notare che l’autore dell’ «Apollo» di Tenea pare che abbia seguito un canone speciale di proporzioni: la testa è eguale al piede e l’intera figura è eguale a circa sette teste e mezzo.

Se insulare doveva essere lo scultore del marmo di Tenea, argivo era l’autore dei delfici Cleobi e Bitone: è invero rimasto un frammento della base con l’etnico e con la parte finale del nome dell’autore ....ymedes (forse Polimede). Nei due fratelli di Delfi le braccia sono un po’ ripiegate e staccate dal corpo, la gamba sinistra è più avanzata e perciò il torso si curva leggermente all’innanzi; da ciò nasce un ritmo un po’ più vivace. Ma tozze sono le figure (misurano ciascuna meno di sette teste); non più il raggio dell’intelligenza per mezzo del sorriso, ma è la forza bruta e, mentre nel kouros di Nuova York con l’assenza del sorriso vi è una espressione attonita, nelle statue delfiche con una sfumatura di sorriso nella bocca semidischiusa si palesa la brutalità massiccia; viso piatto, calotta cranica deficiente, ampiezza di mascelle e di mento, orecchie grandi e distese. Manifestamente le due statue delfiche sono posteriori all’«Apollo» di Tenea; ma nell’«Apollo» avvertiamo la espressione di una corrente artistica meno antica rispetto a quella a cui appartengono Cleobi e Bitone. L’autore di queste due statue, Polimede (?) argivo, appartiene invero al Peloponneso, a quel Peloponneso a cui sarebbe passata l’arte da Creta, ove sembra che si debbano supporre gli albori della scultura greca di pietra. Pertanto corrente ionica nella snella e sorridente statua di Tenea, corrente dorica nelle due pesanti, apatiche statue atletiche di Delfi.

CORRENTE CRETESE-PELOPONNESIACA.

Di questa corrente dorica o cretese-peloponnesiaca abbiamo cenni nella tradizione letteraria nei nomi di Chinsofo, cretese, e riconnesso con Dedalo, e di Dipeno e Scillide, che esplicarono la loro attività nel Peloponneso. Ma la conferma ci è data dai rinvenimenti archeologici. Sta invero all’inizio della scultura greca un torso tufaceo da Eleuterna (Creta), ora nel Museo di Candia, che rappresenta una figura muliebre vestita e forse seduta; i capelli sono espressi a trecce graffite a semplici reticolati e

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scendenti, tre per parte, sul petto; i tratti del largo volto sono grossolani e sommari. È questa opera una manifestazione analoga, ma di non pochi anni anteriore ai due atleti delfici.

Forte è la somiglianza di quest’opera d’arte con una statua tufacea, corrosa specialmente nel volto e pure rappresentante una donna seduta; proviene da Aigiorgitika (Arcadia) ed è ora nel Museo di Atene; indossa un mantello (himation) posto a tracolla e scendente con un lembo dalla spalla sinistra sul dorso. Ma la corrente cretese passa anche nell’Egeo; ne è prova un torso muliebre di Delo.

Il problema formale della figura seduta in questa corrente cretese-peloponnesiaca è ripreso nelle due statue muliebri scolpite in calcare e che originariamente stavano sull’architrave della porta del tempietto A di Priniàs (Creta), ora nel Museo di Candia, in funzione di cariatidi. Il polos, di forma a tronco di cono sulla testa di queste due figure, indicherebbe una natura divina, ma è arduo assai, anzi malsicuro fare identificazioni; lo schema è semplice, poiché la figura è ripiegata duramente a recisi angoli retti con le braccia incollate, per così dire, al corpo; una raggiera di trecce esce dal polos per cadere rigida sulle spalle e sul dorso.

La tradizione dell’arte orientalizzante, quale continua attraverso il sec. VI, in funzione subordinata rispetto alle scene figurate, nei vasi dipinti, si conserva nella ornamentazione del vestito con figure di Sfingi e nel fregio (zoophoros) di pantere e di pascenti cervi che corre sull’architrave, mentre al di sotto di questo architrave sono rappresentate a rilievo figure muliebri stanti.

Verosimilmente ad un simulacro seduto, ad un hedos appartiene una grande testa della dea Hera di calcare, trovata in Olimpia ed esposta nel Museo di Olimpia. È forse il residuo del simulacro onorato di culto dentro il tempio della dea nel santuario olimpico? È la medesima solidità degli atleti delfici; è la stessa violenta ossatura; si ripete anche qui il particolare dell’orecchio ampio ed esageratamente disteso. Ma il contorno del volto è un po’ più allungato e traspare il sorriso; dobbiamo infine immaginare la vivacità originaria del volto quando nelle occhiaie, ora vuote, doveva balenare il luccichio dello smalto.

LE STATUE DEI BRANCHIDI

Ma anche nella corrente ionica ci appare il tipo della figura seduta. Ce ne dà esempio la città greca di Asia Minore che ebbe con l’Egitto i più intensi rapporti: Mileto. A circa 16 chilometri a sud di questa città si innalzava il celebre tempio di Apollo Filesio o Didimeo; alla volta di questo tempio si svolgevano dal porto Panormo le sacre processioni per un percorso di cinque chilometri lungo un viale fiancheggiato da tombe, da statue votive di personaggi seduti, da statue di sfingi e di leoni; l’analogia coi lunghi viali adorni di opere scultorie e precedenti i santuari egizi è del tutto palese. Noi possediamo alcune statue di questi personaggi dignitosi, gravi, seduti su trono ed ammantati; sono essi i Branchidi, cioè i membri della famiglia in cui era ereditario il sacerdozio in onore del nume. Naturalmente queste statue sono di differenti stili, di diverse età; una delle più antiche è quella del Museo Britannico di Chares, primate di Teichiussa, avvolto in un lungo chitone ed in un mantello (himation) che passa sotto l’ascella destra. Rigida è l’attitudine con le grosse braccia sui braccioli del trono e le forme del corpo non sono appariscenti, sicché la stoffa sembra quasi una rigida cappa plumbea. Vengono alla mente i versi di Asio di Samo, poeta epico della metà del sec. VI a.C. a proposito dei Samì che, «ben coperti dagli abiti belli, trascinavano i chitoni bianchi di neve sulla vasta terra».

IL TIPO STATUARIO MULIEBRE ARCAICO.

Rimane il tipo della statua muliebre, vestita e stante. A capo della serie sta la figura marmorea di Delo del Museo di Atene, che è indicata da una iscrizione leggermente graffita sul fianco sinistro, come dedica ad Artemide da parte di una Nicandre di Nasso. È palese, in questa primitiva opera d’arte, il ricordo dell’intaglio in legno, onde essa fa l’effetto di uno di quegli xoana che anche ai tempi del periegeta Pausania (seconda metà del sec. II d. C.) nei santuari greci erano circondati da grande venerazione.

La statua delia è una figura incorporea sicché, veduta di fianco, è simile ad una trave sottile, mentre quasi del tutto lisci sono i piani anteriore e posteriore, rigorosamente paralleli tra di loro. La rigidezza è somma e nella figura indossante il chitone dorico o peplo solo un leggero rigonfiamento, il petto, ed un leggero restringimento, la cintura, annunziano la femminilità della persona rappresentata. Il volto, oggi guasto, di Nicandre è incorniciato dalla solita acconciatura della chioma a parrucca.

Più corporea, ma più tozza è la scultura marmorea, forse di provenienza cretese, già esistente nel

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Museo di Auxerre ed ora nel Museo del Louvre: volto grosso ed ossuto, anzi arguto in un abbozzo di sorriso ed incorniciato dalle solite trecce, qui quattro di numero per ciascun lato; mammelle pronunciate e discoste luna dall’altra, cintura stretta assai e provvista di una mitra o cinturone. Il problema del panneggiamento qui è risolto in modo che alcune parti del corpo sembrano del tutto ignude; ma ormai in questa figura salda con ambedue i piedi a terra, come la Nicandre di Delo, le braccia non sono più immobili, pendenti lungo i fianchi; il braccio destro è ripiegato e la relativa mano distesa si allunga tra le due mammelle. È codesta una prima emancipazione di un’arte preannunziante il movimento della persona, lo scioglimento del rigore del corpo stecchito.

Corrente cretese-peloponnesiaca è nella statuetta già di Auxerre; corrente ionica è nella statua marmorea acefala da Samo, ora al Museo del Louvre. Una iscrizione graffita sull’orlo del mantello esprime la dedica di un certo Cheramyes ad Hera in Samo; forse anche nel marmo non è rappresentata la dea, sì invece una figura muliebre che intercede per Cheramyes presso la divinità.

Nella statua samia non si ha. come nella statua di Nicandre, la idea del trave, ma invece quella del tronco di albero; la figura è tutta racchiusa in un chitone di lino a sottilissime pieghe verticali, simile ad una fitta e greve maglia; sopra è a tracolla uno himation di lana. Ormai vi appare, ma timido assai, l’atteggiamento che diventa in seguito così comune nelle statue muliebri; e la mano destra abbassata ed attaccata al corpo solleva un lembo del vestito, la mano sinistra ripiegata al petto stringe un oggetto, forse un frutto o un fiore. E un lavoro minuzioso e coscienzioso e vi si avverte, più che l’influsso della tecnica del legno, quello del metallo a lamine battute ed incise.

Forse nella statua dedicata da Cheramyes è il ricordo del simulacro di Hera di Smilide, samio piuttosto che egineta, vissuto dopo Dedalo; probabilmente questo simulacro era uno xoanon avvolto con lamina metallica ribattuta a martello (sphyrelata). Si può ricostruire idealmente la intera figura della statua del Louvre mediante un torso trovato in Atene sulla acropoli, dal volto con le guancie piatte, con gli occhi grossi, spalancati, un po’ obliqui e con un leggero sorriso sulle labbra.

I PRIMI RILIEVI GRECI

Dopo i tipi principali di statue è da considerare il rilievo. I primi esempi a noi noti sono le stele più o meno frammentane provenienti da Priniàs (Creta); ivi è lo stadio precursore del rilievo, è il graffito dipinto o con figure muliebri dal solito tipo delle «dee» del tempietto A, pure di Priniàs, e della statuetta d’Auxerre, o con figure di guerrieri scudati.

Dal graffito è il passaggio al rilievo come nel fregio a pantere e a cervi dell’architrave del tempietto A di Priniàs, nel cui lato sottostante, le figure rilevate muliebri con polos tanto si avvicinano alla statuetta di Auxerre. Ma nello stesso tempietto cretese è il fregio girante attorno alla cella (zoophòros) con le strane figure di cavalieri minuscoli rispetto ai giganteschi cavalli; essi rivolgono verso lo spettatore il volto incorniciato dalla solita zazzera. Espressione ingenua, curiosa; strano accozzo della sodezza degli enormi cavalli e della fragilità dei bambineschi guerrieri che vi stanno sul dorso.

Ma in questi rilievi di Priniàs, come del resto nei graffiti delle stele, pure di Priniàs, la figura umana si muove, non è più rigidamente stecchita come nella scultura a tutto tondo, ed alla figura umana si accompagna la figura bestiale (pantera, cervo, cavallo), pure in movimento. Si è constatato il passaggio da Creta al Peloponneso per quanto concerne i tipi statuari; analogo passaggio è lecito avvertire per il rilievo. Una prova è il frammento della metopa del tempio dorico d’Athena dell’acropoli di Micene; è il frammento di una figura muliebre, con la testa incorniciata dall’ampia parrucca di prospetto, col corpo di profilo. La data 650-625 espressa per questo frammento, sulla base di confronti con vasetti configurati proto-corinzi, sembrerà un po’ troppo alta; forse il frammento è della fine del sec. VII a. C.

LA SFINGE DEI NASSÎ, LA NIKE DI DELO, IL MOSCHOPHOROS.

L’inizio del movimento si è potuto scorgere nella scultura a tutto tondo nella statuetta già ad Auxerre e nella statua dedicata da Cheramyes: ripiegamento, piuttosto che movimento quasi meccanico, innaturale di un braccio, che del resto rimane aderente al corpo. Ma ben presto si ha uno scioglimento più accentuato delle membra. Tre statue debbono essere qui addotte: la Sfinge dedicata dai Nassî nel santuario di Delfi, la Nike di Delo, il moschophoros o portatore di vitello dell’acropoli ateniese.

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La Sfinge marmorea dedicata dai Nassî nel santuario di Delfi si ergeva originariamente su di un’alta, snella colonna ionica. Questo mostro malefico, dotato di misterioso, funesto potere vigilava un giorno dall’alto sulla folla dei devoti visitatori del luogo sacro ad Apollo. Volto rudemente, ma fortemente scolpito a grandi occhi triangolari, bocca dischiusa, che sembra quasi formulare gli enigmi fatali della leggenda tebana; vigore terribile del crudele essere dal corpo alato di felino, saldamente piantato sul terreno con le zampe anteriori rigidamente tese e con gli artigli adunchi, che si raggrinzano, esprime esso magnificamente la idea dell’ineluttabile.

La Nike di Delo del Museo Nazionale di Atene è forse opera degli artisti di Chio, Micchiade ed Archermo, menzionati su di una base trovata accanto e che probabilmente appartiene alla statua. In questo marmo è lo schema di una figura in grande movimento, anzi in volo. La Nike, provvista delle ali aperte, di cui rimangono i residui sul dorso, è rappresentata in volo laterale con una gamba avanzata e con l’altra ripiegata assai; essa accompagna il movimento aereo con le braccia, il sinistro braccio ripiegato all’anca, il destro alzato. Manca in questa opera, satura d’ingenuità attraente, la correlazione tra le varie parti del corpo; mentre il corpo dalla cintura all’insù è esibito di pieno prospetto, dalla cintura all’ingiù è del tutto di profilo a sinistra; lo stridente contrasto ha una linea di brusco accostamento, cioè la linea della cintura.

Ma sagace è il modo col quale l’autore o gli autori della Nike di Delo hanno saputo rendere concreta la idea del volo. Nella ricostruzione che si è tentata della mutila figura, i piedi non poggiavano a terra, ma erano librati in aria ed alla base la figura si attaccava solamente per mezzo del lembo del peplo che scendeva verso terra, liberando la gamba destra che dal peplo esce ignuda. Così la dea della vittoria appariva come librata in aria.

Il moschophoros di marmo dell’ Imetto, che una iscrizione indica quale dono di un certo Rhombos o Konbos, ha la posa comune ai noti kouroi o Apollini, ma se ne distacca per alcuni particolari: la presenza della barba senza i baffi, il mantelletto (chlaina doppia) ed il motivo delle braccia. Le braccia invero sono sollevate e ripiegate per stringere saldamente le zampe del vitello destinato al sacrificio. La policromia doveva accentuare le vane parti del corpo ed invero la policromia, violenta, sfacciata è carattere necessario in questa scultura arcaica greca e va attenuandosi solo all’inizio del sec. V, ma non scompare mai durante tutto lo sviluppo di questa scultura. Così il colore doveva accentuare il distacco tra il mantelletto e le parti ignude del moschophoros, distacco ora espresso da una semplice orlatura; così la barba, che ora appare come una specie di frangia del tutto liscia pendente dal mento e dalle guance, aveva la sua attuale uniformità attenuata dal colore. In Rhombos o Konbos la superficialità anatomica è palese, ma sfugge a tale superficialità il trattamento vigoroso delle braccia ripiegate nello sforzo, mentre curioso è l’avvicinamento dello scialbo muso del vitello al volto di chi lo trasporta, volto animato da un largo sorriso.

LA SFINGE DI SPATA, L’AFRODITE DI MARSIGLIA, LA KORE ATTICA

Due altre opere ci presentano un passo ulteriore nella corrente offertaci dalla Nike di Delo; sono la Sfinge di Spata del Museo Nazionale di Atene e l’Afrodite cosiddetta di Marsiglia del Museo di Lione. Ma in queste due opere la vigoria comincia ad attenuarsi un po’ in mollezza. La Sfinge di Spata dal volto ampio, bonario, non ha certo quel carattere rude, ermetico nel tempo stesso, così consono con la natura del mostro rappresentato, quale noi constatiamo nella Sfinge delfica dei Nassî. L’Afrodite, designata come tale dall’attributo della colomba, ha tuttora una leggera sfumatura di mollezza; è la parte superiore della figura. Curiose sono in questa Afrodite le trecce scendenti sul petto e simili a nastri. Se, a quel che pare, l’Afrodite di Marsiglia appartiene all’indirizzo dell’arte jonico-asiatica, potremmo scorgere nella Sfinge di Spata una prova dell’ influsso di questo indirizzo nell’ Attica.

Un’aria di famiglia avvince la Sfinge di Spata ad un’altra scultura attica, forse un po’ anteriore; è

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la testa Iacobsen di marmo pario della Glittoteca Ny-Carlsberg: enormi occhi globulari, carnosità del volto col sorriso un po’ canzonatorio.

Invece una ben diversa espressione di arte, pure nell’Attica, nel minuzioso e che si ricollega alla tradizione prettamente locale, come vedremo, del rilievo, è nella testa detta Rampin dal suo primo possessore, di uomo barbuto, di provenienza ateniese, ora nel Museo del Louvre. È di marmo pario; il fine reticolato della barba ed i riccioli a chicchi di collana delimitanti la fronte, incorniciano un volto scarno.

Rimanendo nell’Attica si ha nella stessa linea del moschophoros una delle korai dell’acropoli. Gli scavi eseguiti tra il 1885 ed il 1891 sull’acropoli di Atene hanno recato alla luce molteplici e pregevolissime testimonianze di quanto era questo luogo sacro degli Ateniesi prima che esso fosse stato invaso e rovinato dai Persiani nel 480 e nel 479 a. C. Emergono tra questi relitti, ora raccolti nel Museo dell’Acropoli, le cosiddette korai, settantuna di numero, che riproducono giovani donne ateniesi e che in funzione di doni votivi affollavano lo spazio attorno al tempio di Athena poliàs e protettrice della città ed erano come mediatrici tra il devoto offerente e la vergine dea.

Già il frammento di una di queste korai si è addotto a proposito della statua offerta dal samio Cheramyes. Ora tra le più antiche di queste korai, che indossano l’abito ionico costantemente, è quella che indossa l’abito attico, cioè chitone di lino e peplo di lana. Impellente è il confronto con la statua delia di Nicandre, ma il progresso formale è accentuato assai; il tipo vetusto di xoanon si appalesa chiaramente nella parte inferiore della figura, ma nella parte superiore vi è già corporeità, vi è già movimento; rotonde appaiono le mammelle e distaccate assai l’una dall’altra e non sembrano affatto ricoperte dalla doppia stoffa, di lino del chitone, di lana del peplo. Il braccio destro pende lungo il fianco, ma la mano non solleva un lembo del vestito, come invece goffamente è espressa nella statua dedicata da Cheramyes; questa mano è invece atteggiata come le mani dei kouroi; invece l’avambraccio sinistro doveva essere arditamente avanzato a porgere l’offerta. Il volto è sorridente ed è avvivato dalla policromia dei grandi occhi; ma tale policromia si esplica anche nei leggiadri ornati sul peplo.

LA SCULTURA DECORATIVA DI TEMPLI DELL’ACROPOLI DI ATENE.

Oltre alla scultura a tutto tondo, oltre cioè alle statue, abbiamo le sculture decorative dei templi, cioè i rilievi e le statue nei frontoni, i rilievi delle metope nei templi di ordine dorico, i rilievi a fregio continuo (zoophoroi) nei templi di ordine jonico. Per quanto concerne i frontoni, i documenti più numerosi ci sono offerti dagli scavi dell’acropoli di Atene. Ivi è la cosiddetta arte del poros o del tufo, così chiamata dal grossolano calcare giallastro usato dagli Ateniesi, sia per l’architettura che per la scultura nel periodo, che dagli ultimi anni del sec. VII scende giù sino agli anni di poco posteriori al 550 a. C. Questo tufo, se imbevuto di acqua, diventa cosi molle che si può agevolmente tagliare con un coltello, sicché questa arte del poros ha innegabili, profonde somiglianze con la più antica scultura di legno.

Si sono riconosciuti residui di decorazione plastica di tufo sull’acropoli di Atene per forse undici edifizi. Il più antico frontone, a rilievo, è quello di Eracle e della idra lernea. Eccoci ormai nel campo delle scene mitiche, ove la preferenza assoluta è data ad Eracle, l’eroe nazionale.

Il piccolo frontone (m. 5,80 di lunghezza) che ha l’aspetto di arabesco, è saturo di ingenuità primitiva, inabile con la gigantesca figura dell’eroe nel mezzo, con il groviglio dei tentacoli dell’ idra a destra e con la minuscola biga in cui sta per montare Jolao.

In un altro frontone, pure a rilievo, è riprodotto l’elemento paesistico, sicché questo frontone si ricollega da un lato alle scene paesistiche della pittura e della toreutica cretese-micenea del secondo millennio a. C., d’altro lato preannunzia, con grave distacco di tempo, il rilievo paesistico dell’ellenismo. Con un grave distacco di tempo, perché nel rilievo ellenico predomina assolutamente la figura umana; solo, come esigenza del contenuto della scena rappresentata, è talora espressa la figura bestiale o quella mostruosa, mentre ogni elemento di ambiente è soppresso oppure fa una assai timida, quasi simbolica apparizione. Invece in questo frontone di poros dell’acropoli ateniese è rappresentato, di fianco, l’antico Eretteo o tempio di Athena poliàs col recinto da cui sporge in alto l’albero sacro di ulivo; varie figure muliebri sono dinnanzi, rigide, come pupazzi.

La inabilità compositiva emerge da un altro frontone in poros, ove è rappresentato l’ingresso di Eracle nell’Olimpo; nel mezzo, rivolta a destra, è la gigantesca figura di Zeus, poi, sempre nell’ala destra, è la figura, seduta di fronte, di Hera; il profilo ed il prospetto hanno qui, in due contigue figure,

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un accozzo di stridente durezza; poi, man mano che ci si avvicina ali angolo destro, le figure vanno impicciolendo di proporzioni; se piccolo è Eracle, minuscolo è Hermes che lo segue. Il dettaglio qui regna sovrano, il dettaglio che degenera nella minuzia e che contrasta con le forme goffe, pesanti, angolose. Minuzia nel rendimento delle chiome e delle barbe, minuzia nella ornamentazione policroma dei vestiti.

Per l’Hekatompedon più antico degli anni di Pisistrato (poco dopo il 560 a.C.), cioè per il tempio lungo cento piedi che si innalzava accanto all’antico Eretteo e che è l’edificio lontanamente precursore del Partenone pericleo, si ha il celebre frontone, ove da una parte è rappresentata la lotta di Eracle, teso con tutte le forze a terra, lottante contro il Tritone, e dall’altra parte il cosiddetto Tifone tricorpore. Qui si tratta non più di rilievo, ma di scultura a tutto tondo. Singolare è il Tifone: sono tre figure fuse insieme, sì da costituire un mostro demonico dai tre corpi alati che finiscono in code serpentine a spirali ravvolte; le tre sinistre mani tenevano afferrati degli attributi simboleggianti forse l’acqua, il fuoco, l’aria; la destre erano tese vuote.

Ora l’aspetto, non già minaccevole, ma bonario e l’atteggiamento inerte, piuttosto che con Tifone o coi Tritopatores (dèi attici del vento), convengono con Nereo, cioè col vecchio marino, il quale con gli attributi suddetti dimostrerebbe la prerogativa di trasmutarsi in vario modo. Così Nereo starebbe ad osservare la lotta tra il Tritone e l’eroe Eracle.

Più dei due volti ultimi ed eguali tra di loro, spicca il primo volto di quasi prospetto con lunga barba azzurra, attaccata, quale barba posticcia, ad incorniciare il viso, dai cui occhi spalancati, dalla cui bocca tesa emana un senso di balordaggine. Ancor più strano è reso l’aspetto del mostro dalla policromia convenzionale: chioma, barba e baffi turchini, occhi verdi, spire serpentine variegate di turchino, di bianco, di rosso. Ma vigoria e flessibilità sono già nelle parti umane del triplice corpo del mostro e nell’Eracle teso nello sforzo della lotta.

Nel secondo frontone, l’occidentale, dello Hekatompedon era la maestria assai grande nella brutalità animalesca, di due poderose figure leonine, che azzannano un toro disteso morente al suolo; il gruppo era fiancheggiato da due serpenti, sicché tutto questo complesso bestiale, che ci richiama ancora l’arte zoomorfa e teratomorfa del periodo orientalizzante, riempiva in assai acconcio modo il frontone occidentale, che pertanto, per quanto concerne il principio compositivo, supera il frontone ad est.

IL FRONTONE DI CORFÙ; SCULTURE DELLA MAGNA GRECIA E DELLA SICILIA.

Da Atene e dalla scultura in tenero poros si può passare alla dorica Corfù. Anche a Corfù e precisamente nella località detta oggi Garitzà si possiede un esempio di grande pregio di un frontone figurato. E anzi il frontone arcaico di maggiori dimensioni che ci sia pervenuto, in quanto misura una lunghezza di circa sedici metri. Il frontone è di calcare ed è ad altissimo rilievo.

È probabile che queste troppo ampie dimensioni siano state la causa della sorprendente incoerenza compositiva, per cui tutto lo spazio triangolare è come suddiviso in scene e in gruppi tra di loro indipendenti. Campeggia nel mezzo una colossale figura di volante Medusa, che per lo schema (parte inferiore di tutto profilo; parte superiore di pieno prospetto; ripiegamento angoloso delle gambe) tanto ricorda la Nike di Delo; ma orrido è il volto ampio, schiacciato, dagli occhi bulbosi, sgranati, dal naso ad aperte froge, dalla bocca mostruosamente ampia con la chiostra dei denti e con la lingua pendente; a destra era Crisaore, a sinistra Pegaso, cioè i due mostri che nacquero dal sangue di Medusa, quando fu decapitata da Perseo. Qui è come una prolessi del tutto strana e curiosa.

Due pantere accosciate dividono questo gruppo centrale dai due gruppi angolari, minuscoli assai: a destra è Zeus che lancia la folgore contro un gigante inginocchiato: a sinistra è Priamo seduto, in schema irrigidito come le dee del tempio A di Priniàs; su Priamo è diretto il colpo di lancia dì Neottolemo. Questo assieme frontonale, pieno di incoerenza compositiva e di sì forte sconnessione concettuale, è presso a poco contemporaneo alle sculture tufacee dello Hekatompedon pisistrateo, cioè è di poco anteriore al 550 a. C. e costituisce una documentazione di grande importanza, quale anello di congiunzione tra la scultura dorica del Peloponneso e quella, pure dorica, delle colonie di Sicilia, cioè di Siracusa e di Selinunte.

Ma, prima ancora degli esemplari scultori di queste due località siciliane sarebbero da addurre per l’arte greca in suolo italiano le metope, quasi tutte frammentarie, dello Heraion o tempio di Hera argiva, cioè del santuario comune alle stirpi achee in Italia, già innalzantesi alle foci del Sele. Si tratta di

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un recente rinvenimento di metope con figure o scene del mito (in cui appare l’eroe Eracle), ove sono tuttora le formule dedaliche, con figure pesanti, tozze, della corrente cretese-peloponnesiaca dei tempi tra il sec. VII ed il sec. VI.

Ai primi anni del sec. VI e a questa corrente cretese-peloponnesiaca risalgono tre metope calcaree di un tempio selinuntino, ora nel Museo di Palermo. Di queste tre metope quella con la rappresentazione di Eracle che doma il toro cretese è in assai tristi condizioni, perché profondamente scheggiata. Europa sul toro, una Sfinge, ecco il contenuto delle altre due metope assai meglio conservate. La giovinetta Europa, che da Zeus, qui sotto forma di toro, avrà poi come figlio Minosse, signore di Cnosso, si tiene stretta all’animale irruente verso destra; al di sotto le figure di delfini indicano il mare. Vi è contrasto tra la snella figura della rapita e la poderosa figura del toro col muso di fronte dai grandi occhi intontiti, sbarrati. Forte è la differenza tra tale muso e quello mansueto del vitello nella statua del moschophoros. In questo rilievo primitivo è già sagacia espressiva di movimenti.

Con la Medusa di Corfù si ricollega la Medusa ad alto rilievo policromo, su di una lastra fittile del santuario di Athena a Siracusa ed ora nel Museo Archeologico di questa città; ma la Medusa siracusana è di più energica e perciò di più terrificante espressione della Medusa corfiota. Questo è l’effetto della violenta policromia nella faccia mostruosa, ove ai lati della bocca escono aguzze zanne ed ove le guance e le sopracciglia sono marcate nelle loro linee ricurve dal colore nero.

Al confronto della figura di Europa sulla metopa selinuntma tozze assai sono le figure sulle metope, pure calcaree, del tempio C di Selinunte. Sono tre metope e mentre una rappresenta con brusco scorcio appiattito, di fronte una quadriga, le altre due illustrano episodi mitici: Perseo che, assistito da Athena, mozza il capo della Medusa; Eracle che trasporta i folletti Cèrcopi o due ladroni libici fatti prigionieri. Le tozze figure, pure avendo la parte inferiore del corpo espressa di profilo, possiedono nella parte loro superiore una frontalità assoluta e con le loro ampie facce dai tratti pronunciati guardano intontite, ma insistenti, quasi volessero attrarre su di sé l’attenzione dello spettatore.

Il Perseo di una metopa è pressoché eguale all’Eracle dell’altra metopa. E la ripetizione di schemi e di motivi; di nuovo non vi è che la espressione dei Cèrcopi o dei ladroni libici esibiti con la testa all’ingiù e con la chioma arrovesciata. Infine l’assenza di spiritualità della corrente dorica o peloponnesiaca, quale si constata, per esempio, nella Hera e nei due atleti di Delfi, è un ulteriore carattere di questi rilievi eseguiti nella dorica Selinunte.

I RILIEVI DEL TESORO DELFICO DI SICIONE O DI SIRACUSA.

Un altro esempio di arte dorica si possiede nelle metope di un tesoro delfico, o piccolo edifizio di forma templare, destinato alla custodia dei doni votivi di una determinata città. È incerto se il tesoro a cui appartengono queste metope fosse della città di Sicione, florida nella prima metà del sec. VI sotto gli Ortagoridi o della città di Siracusa. Strano è l’allungamento, pronunciassimo, di queste metope, misurando esse cm. 90 di lunghezza per 55 cm. di altezza, sicché non è da escludere la ipotesi che qui si tratti di un vero fregio continuo a più episodi. Quattro sono le metope calcaree a noi pervenute e tutte hanno un mitico contenuto, da cui è escluso l’eroe Eracle; vi sono anzi due miti rari, come quello dei Dioscuri e degli Afandi che seco conducono la mandria rubata o come quello della nave Argo in cui, per indicare sinteticamente tutti gli eroi che presero parte all’ardimentosa impresa, sono rappresentati il citaredo Orfeo ed i Dioscuri a cavallo. Ma si aggiungano nelle altre due metope Europa sul trono ed il gigantesco cignale di Calidone.

Alla regolarità di marcia nella metopa dei Dioscuri e di Idas (manca l’altro Afaride, Linceo), ove al passo cadenzato degli eroi corrisponde il ritmo non meno rigoroso dell’incesso delle bestie bovine rubate, si ricollega la regolarità della composizione nel rilievo di Argo con le due figure di cavalieri di fronte (si ricordi la quadriga di fronte di una delle metope del tempio C di Selmunte) e con le due figure di citaredi sulla nave insieme accostati e pure esibiti di fronte. I Dioscuri e l’Afaride Idas così rappresentati di profilo richiamano per le proporzioni, per le forme robuste i due atleti Cleobi e Bitone di Delfi.

Certo è che tra le sculture selinuntine e queste, o sicionie o siracusane, di Delfi esiste un evidente contrasto; là è la rudezza grossolana, che ha un accento del tutto provinciale, qui è la precisione del particolare con sottigliezza d’incisioni. Queste metope delfiche dimostrano un carattere comune coi vasi dipinti contemporanei, ma anche posteriori, a scene mitiche, ove ogni personaggio ha il nome suo

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scritto accanto, ed invero tracce chiarissime di questi nomi tracciati col bistro, si osservano nella metopa dei Dioscuri e degli Afaridi. Consimile uso è lecito supporre per altri rilievi arcaici; ma alla pittura talora si sostituisce il graffito,come nel rilievo di Samotracia del Museo del Louvre della fine del sec. VI con le figure di Agamennone, di Taltibio, di Epeio.

SCULTURA JONICA A SPARTA.

Da ambiente puramente dorico proviene un rilievo, nel quale tuttavia è lecito scorgere non più la pretta corrente di arte dorica. È la stele di marmo grigio-azzurro di Laconia trovata a Chrysapha nelle vicinanze di Sparta, ora nel Museo di Berlino; il luogo di rinvenimento era un tumulo dentro un recinto dedicato ad Hermes chtonios o terrestre; è dunque un monumento votivo, non sepolcrale. Su di un trono siede una coppia divina, infernale (Hades e Persephone); il dio col volto di prospetto, sì da accentuare il legame con lo spettatore, indossa la tunica senza maniche ed il mantello; lunga, femminea è la chioma con le prolisse e sottili trecce pendenti simili a collane di perle; dalla superficie scabra del mento si deduce che la barba doveva essere espressa col colore. Il dio tiene nella destra un kantharos, mentre la sinistra è distesa; al di là è la dea dall’ampio petto e dalle scarpe a punta sollevata; caratteristico è il gesto del tutto matronale di tener sollevato con la sinistra alzata lo scialle; con la destra invece essa stringe il frutto infernale, la melagrana, mentre dietro il trono allunga le sue spire un serpente. Minuscoli assai sono i mortali offerenti; due di numero, cioè un uomo dal lungo abito ed una donna.

Tutto è piattezza nel rilievo, solo sulla spalla destra del dio è l’accenno ad un po’di rotondità, sicché il rilievo è come se fosse costituito da strati sovrapposti di lamine sottili e ritagliate. A ciò si accompagna una accentuata durezza di movimento, ma nella mollezza femminile dell’abbigliamento, nella ricerca accurata del particolare si appalesa una tonalità distinta da quanto si constata nelle opere della corrente cretese-peloponnesiaca. È l’influsso jonico che si manifesta in terreno dorico.

Influsso della Jonia asiatica, perché è precisamente a partire dagli anni attorno alla metà del sec. VI a. C. che le città greche dell’Asia Minore di stirpe jonica cominciano a dimostrare una grande attività nel campo dell’arte con caratteri peculiari anche per quanto si riferisce alla scultura. Verso la metà del sec. VI vediamo un grande artista jonico-asiatico attivo precisamente nella Laconia; è Baticle di Magnesia che, reso celebre dalla esecuzione del simulacro di Artemide Leucofriene per il tempio della sua città, è incaricato dagli Spartani di costruire e di decorare il trono di Apollo ad Amicle, del dio che era raffigurato da una enorme colonna di lamina bronzea, a cui si erano aggiunte la testa e le estremità. Ma prima ancora di Baticle un altro jonico, Teodoro di Samo, aveva lavorato quale architetto a Sparta. La corrente jonica a Sparta viene ad intrecciarsi con la corrente locale, dorica, a cui appartiene Gitiada spartano, architetto, scultore e toreuta, ben noto specialmente per il tempio di Athena Chalkioikos o della casa di bronzo, così chiamata a causa delle pareti rivestite di rilievi di bronzo. Una idea di tali rivestimenti a lamine bronzee sbalzate ci può essere offerta dalla lamina a forma trapezoidale ritrovata nel santuario di Olimpia con varie zone e cioè, partendo dall’alto: tre aquile (accenno a Zeus ?), due grifoni affrontati, Eracle inginocchiato che saetta un centauro, una dea fornita di quattro ali, che tiene sollevati per le zampe posteriori due leoni (la cosiddetta Artemide Persica).

SCULTURA JONICO-ASIATICA.

Per la scultura jonico-asiatica si possiede un punto di riferimento cronologico di grande importanza. La maggior parte delle colonne del tempio di Artemide in Efeso, secondo la testimonianza di Erodoto (I, 92), fu offerta da Creso, ultimo re della Lidia dal 560 o dal 555 al 546 o al 541. I faticosi, ma tumultuari scavi inglesi condotti dal 1869 al 1874 hanno prodotto la scoperta dei resti del duplice Artemision di Efeso, di quello arcaico abbruciato da Erostrato nel 356, e del nuovo Artemision subito ricostruito dopo l’incendio; tra il materiale dell’antico Artemision notevoli sono i residui delle colonne, di quelle colonne, che per gran parte erano state dedicate da Creso. Ora queste colonne sono, per dirla con Plinio, caelatae, cioè adorne di figure a rilievo attorno alla parte inferiore. I frammenti di alcune di queste figure dimostrano un tipo alto, ma vigoroso, con accuratezza, anzi con eleganza di particolari; è un evidente progresso rispetto allo stele di Chrysapha.

Altre opere scultorie si ricollegano alle columnae caelatae di Efeso, sono cioè due stele funerarie del Museo di Costantinopoli, quella di Syme (isoletta a nord di Rodi) e quella di Dorylaion, la prima col defunto stante a destra ed appoggiato ad un bastone e con la figura di un cignale nell’esergo, la

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seconda con la figura della dea alata sollevante con la mano sinistra una belva (Artemide Persica) e nel rovescio con la figura del defunto a cavallo e, al di sotto, con una biga.

Si aggiunga una terza stele, già trasportata nell’antichità a Roma. È la stele Albani Torlonia, nota già dai tempi di G. G. Winckelmann (metà del sec. XVIII). Ivi la defunta è rappresentata come madre felice, perché una giovine schiava con una fascia nelle mani le ha allungato tra le braccia l’ultimo suo figlioletto, mentre le due figlie maggiori, due bimbette, le stanno dinnanzi. In queste rigide figure, pei gesti della mamma, del puttino, della serva, gesti che insieme le collegano, è già quel carattere di affettuosità famigliare, serena nella mestizia, che vedremo sbocciata completamente nelle numerose stele attiche del sec. IV. La finezza e la minuzia nelle figure, sia negli abiti a regolarissime pieghe e piegoline, sia nelle chiome, rientrano del tutto nell’ambiente jonico-asiatico ed aggiungono valore a questo rilievo, che è pregevole anche e sopratutto per una limpida, ingenua nota di umanità.

Peculiare della scultura greca in Asia Minore — siamo ormai nella seconda metà del sec. VI — sono le forme grasse, molli, senza nerbo; è quasi un cosiddetta tryphé (mollezza accompagnata da licenza ed alterigia) jonica, che era proverbiale. Le statue dei Branchidi della via sacra del santuario di Apollo Filesio presso Mileto, tutte ravvolte negli ampi mantelli, ci offrono una testimonianza pregevole assai di questo stile largo e floscio della scultura jonica, di cui un esempio anteriore si possiede nella Afrodite di Marsiglia, già sopra accennata.

Già a proposito di uno di questi Branchidi si addussero le parole di Asios, poeta samio; qui converrà ricordare anche i versi di Senofane concernenti i Colofonî, che si recavano all’agorà (alla piazza principale) «indossando abiti interamente tinti di porpora … pavoneggiandosi per essere adorni di chiome di bella apparenza, irrorati di unguenti odoriferi».

Uno dei primi esempi di questa floscia carnosità ci è offerto dal rilievo di Taso del Museo di Costantinopoli, in cui è rappresentato Eracle, col volto oggi scheggiato, ginocchioni in atto di scoccare una freccia; la grossezza delle cosce in questa atticciata figura ha del mostruoso. Vengono quindi i frammenti di un fregio di Cizico, sempre del Museo costantinopolitano, con corse di bighe; vi si sente, per così dire, il clima dell’Asia, che qualche cosa richiama per tali rilievi l’arte mesopotamica, assira.

La testa rodia di giovane chiomato,sempre del Museo di Costantinopoli, col suo largo volto e dagli allungati, stretti occhi e dalla beffarda espressione, ricorda fortemente altri volti delle columnae caelatae di Efeso;