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Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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Introduzione
Il percorso storico che affronteremo quest’anno parte dagli anni dell’Italia postunitaria
(1861) ed arriva al boom economico degli anni ’60. Un lasso di tempo molto ampio
all’interno del quale individueremo alcuni aspetti e alcuni momenti cruciali. Partendo dalla
periodizzazione (e dallo studio dei “nodi storici” fondamentali), impareremo ad affrontare
determinate tematiche andando al di là del “limite temporale” e volgendo spesso uno sguardo
all’attualità. Nello specifico affronteremo gli anni della II rivoluzione industriale (fine 1800);
facendo un “salto nel tempo” faremo poi un raffronto con la III rivoluzione industriale e con
quella che a breve dovrebbe essere la IV rivoluzione industriale (la nano-tecnologica). Nel
momento in cui andremo ad affrontare gli anni dell’avvento dei Regimi totalitari (1920-
1930), faremo un altro “salto nel tempo” ed affronteremo un caso di violazione dei diritti
fondamentali oggi: il caso dei “suicidi di massa” nell’iPad-city di Shenzhen. Uno sguardo
sarà poi rivolto a Malala, la diciassettenne pachistana insignita il 10 ottobre 2014 del premio
Nobel per la Pace (insieme a Kailash Satyarthi) “per la loro lotta contro la soppressione dei
bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all’istruzione”. Lungo questo percorso
storico vedremo in grandi linee alcune tappe del fenomeno migratorio ed il suo snodarsi nei
secoli: dalla fine dell’’800 ad oggi. Soffermandoci sulla Resistenza italiana, impareremo a
confrontarci con registri linguistici quali i manifesti e le locandine. Cruciale sarà infine
capire le fondamenta storiche sulle quali si fonda la nostra Costituzione; “il bene supremo, la
Bibbia dei diritti, la legge sacra che governa le regole delle nostre istituzioni, che controlla i
limiti e la legittimità delle nostre leggi”. Infine volgeremo lo sguardo sulla Costituzione
europea. Sulla linea del tempo posta di seguito, possiamo cogliere queste tappe.
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17 marzo 1861: la proclamazione del Regno d’Italia
«Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo
quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo
di Re d’Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta
degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge
dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861».
Queste parole rappresentano il testo della legge n. 4671 del Regno di Sardegna. Poche
settimane dopo quel 17 marzo (il 21 aprile 1861), lo stesso testo sarebbe diventato la legge n.
1 del Regno d’Italia. Nasceva così un Regno, uno Stato unitario. Il re era Vittorio Emanuele II e
la carta costituzionale della nuova Italia lo Statuto Albertino. Il processo di Unificazione
italiana fu caratterizzato da differenti step. Nel 1866 l’Italia realizzò l’annessione del Veneto e
di Mantova (sottratti all’Impero Austro-Ungarico in seguito alla terza guerra d’Indipendenza
contro l’Austria combattuta a fianco della Prussia). Nel 1870 il processo di unificazione si
concluse con la “presa di Roma”; il Lazio fu annesso all’Italia e nel 1871 Roma divenne capitale
(dal 1861 al 1865 capitale era stata Torino; dal 1865 al 1871 capitale era stata, invece,
Firenze). Vittorio Emanuele II fu il primo re d'Italia. Carta Costituzionale della nuova Italia
Unita fu lo Statuto Albertino. Lo Statuto Albertino era una carta ottriata (dal francese
octroyée: concessa dal sovrano), una carta cioè “concessa dal sovrano” ai suoi sudditi; inizia
infatti così: «con lealtà di Re e con affetto di Padre Noi veniamo a compiere quanto avevamo
annunziato ai nostri amatissimi Sudditi». Lo Statuto Albertino era, inoltre, una carta
“flessibile”, infatti era modificabile con semplice legge ordinaria.
Il Re concentrava nelle sue mani i tre poteri fondamentali dello Stato (legislativo, esecutivo,
giudiziario). Solo il potere legislativo (fare le leggi) veniva condiviso in parte con il
Parlamento, composto da due Camere: Camera dei Deputati, che venivano eletti ogni cinque
anni e Camera dei Senatori, che venivano nominati dal Re con carica a vita.
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Condizione socio-economica Italia postunitaria
Sistema censitario
La condizione socio-economica dell’Italia postunitaria era difficile. Il nuovo Stato
italiano nasceva nel segno di una profonda frattura sociale; da una parte c’era quella
ristretta fascia di cittadini ricchi (per lo più grandi proprietari terrieri) che poteva esercitare il
diritto di voto, dall’altra parte c’erano milioni di lavoratori analfabeti (per lo più agricoltori)
che giornalmente dovevano fare i conti con la povertà e a livello politico non avevano alcun
peso. Si votava, infatti, secondo il sistema del suffragio censitario (era una forma di
timocrazia; la parola timocrazia deriva dal greco Τίμημα che significa censo e Κράτος che
significa potere).
Avevano diritto di voto solo i cittadini che:
avevano compiuto 25 anni
sapevano leggere e scrivere
pagavano almeno 40 lire di imposte l’anno
All’interno del paese potevano votare quindi pochissime persone (l’80% della popolazione era
analfabeta).
SISTEMI ELETTORALI A CONFRONTO
Impariamo a fare dei “voli pindarici”! Nella linea del tempo posta di seguito individuiamo i tre “nodi” cruciali che hanno rappresentato un momento di cambiamento nel sistema elettorale italiano fra il 1861 ed il 1946.
Paese “legale” e “paese reale”
Il nuovo Stato italiano, popolato da 22 milioni di abitanti, nasceva nel segno di una profonda
differenza fra paese “reale” e paese “legale”.
Il paese “legale” era formato da quella ristretta fascia di cittadini abbienti che potevano
esercitare il diritto di voto e quindi eleggere la Camera dei deputati e le amministrazioni
locali.
Il paese “reale” invece era formato dai milioni di lavoratori, per lo più agricoltori, alle prese
con i problemi dell’esistenza quotidiana, con la povertà e l’analfabetismo. I segnali più
allarmanti del disagio della vita dei ceti popolari erano l’elevatissimo tasso di mortalità
infantile e le ristrettezze dell’alimentazione che influivano negativamente sulle condizioni di
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ampi strati della popolazione (c’erano malattie dovute alla malnutrizione come la pellagra o il
rachitismo).
Il brigantaggio
La frattura sociale ed il malessere presente fra i cittadini si cominciò a manifestare nelle
regioni del sud attraverso il brigantaggio. La manifestazione più clamorosa delle tensioni
sociali che percorrevano l’Italia unita fu il “grande brigantaggio” che sconvolse il Mezzogiorno
fra il 1861 ed il 1865. Questo fenomeno di ribellione fu strettamente connesso alla “questione
meridionale” (con questa espressione si indicano quella serie di problematiche che
affliggevano il Mezzogiorno d’Italia segnandone la grande distanza economica, sociale e
culturale dalla parte centro-settentrionale del Paese. La definizione “questione meridionale”
venne usata per la prima volta nel 1873 dal deputato Antonio Billia, intendendo la disastrosa
situazione economica del Mezzogiorno in confronto alle altre regioni dell'Italia unificata)
Cause del brigantaggio
Ciò che fece scatenare questa forma di ribellione fu la mancata promessa della tanto
desiderata riforma agraria che avrebbe dovuto destinare la terra ai contadini (per riforma
agraria si intende una redistribuzione della proprietà delle terre coltivabili attraverso
un'espropriazione forzata, indennizzata o no, che l'amministrazione compie nei confronti dei
beni posseduti da grandi proprietari, per una successiva redistribuzione gratuita, o a prezzo
agevolato, in favore dei coltivatori privi di proprietà. Nella storia ci sono state numerose
riforme agrarie, spesso dovute a rivoluzioni o rivendicazioni violente da parte della classe
contadina. In Italia il Parlamento varò nel 1950 una legge in tal senso, la legge stralcio n. 841
del 21 ottobre, di cui parleremo nella parte conclusiva del nostro percorso storico).
L’unica fonte di sopravvivenza per la popolazione era rappresentata dell’agricoltura. Di tutta
la popolazione una ristrettissima parte, i latifondisti, aveva la terra mentre la massa di
braccianti agricoli era ridotta alla fame. Il nuovo governo che nel 1861 prese le redini del
potere affrontò la questione meridionale con un patto di alleanza fra i ricchi proprietari del
Nord e i proprietari terrieri del Sud, non mantenendo, come già detto, la promessa della tanto
desiderata riforma agraria che doveva destinare la terra ai contadini. A questo malessere si
aggiunsero altre sfaccettature negative per il popolo: lo Stato forte dell'Italia unificata
imponeva una rigida centralità amministrativa introducendo pesanti tasse che andavano a
gravare sul capo dei più deboli e la legge della ferma militare obbligatoria, particolarmente
odiata dalle popolazioni povere del Sud (odiata perché la leva obbligatoria portava via dalle
famiglie, e per tanto tempo, l’unica cosa che avevano: la forza lavoro, le braccia degli uomini …
aumentando così ancora di più la loro povertà). A tutto ciò andava aggiunta l'incapacità del
nuovo governo di affrontare la questione del Mezzogiorno focalizzando come esigenza
primaria la questione sociale che fu invece la vera molla scatenante di questa rivolta.
L’atteggiamento del popolo nei confronti dei briganti fu protettivo. Quella del brigantaggio fu
una guerriglia contadina che si concluse vittoriosamente per lo Stato solo con un massiccio
impegno di forze (oltre centomila uomini) e con i provvedimenti resi disponibili da una legge
eccezionale del 1863: la legge Pica. Questa legge, dal nome del suo promotore (il deputato
abruzzese Giuseppe Pica), fu promulgata dal parlamento della Destra storica e rimase in
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vigore dal 1863 al 1865. Fu presentata come "mezzo eccezionale e temporaneo di difesa", per
porre rimedio al fenomeno del brigantaggio nel Mezzogiorno, istituendo tribunali militari nel
territorio e permettendo la repressione di qualunque resistenza. Riservava ai tribunali
militari il giudizio sui briganti e puniva con la fucilazione chi avesse opposto resistenza con le
armi e inviava a domicilio coatto i sospetti.
Le brigantesse
Nel contesto del Brigantaggio va ad inserirsi la figura delle brigantesse. Come già i briganti, le
brigantesse furono l’espressione della sofferenza del popolo. Ci furono donne infatti che
insorsero in armi, affiancando i loro uomini, altre li seguirono nella latitanza, altre ancora li
fiancheggiarono in tutti i modi, fornendo loro l’essenziale per la vita alla macchia. Furono fiere
di combattere per se stesse, per la propria terra e per il Sud. Donne e brigantesse: non dedite,
dunque, solo alla casa, ma attive e protagoniste di un moto rivoluzionario. Attive e
protagoniste in battaglia, sui monti, nei paesi, nelle piazze e nei tribunali ove mutarono, con la
furbizia innata, spoglie e atteggiamenti. Seppero innegabilmente affrontare il martirio e le
sevizie. Andarono incontro alla morte con grande dignità e resero immortali le loro concrete
testimonianze. Riuscirono a conquistare sul campo l'ammirazione delle popolazioni del Sud
Italia e lasciarono un messaggio che nel tempo le ha rese protagoniste di una epocale sconfitta
e di una amara unità. La loro storia, quasi sempre dall’epilogo drammatico, può essere
raccontata grazie alla ricostruzione delle vicende che videro protagoniste alcune famose
“donne brigante” come Marianna Oliviero e Michelina De Cesare. Maria "Ciccilla" Oliviero,
bellissima ed allo stesso tempo crudele, era la donna del brigante Pietro Monaco. Catturata da
un reparto del 58° fanteria fu dapprima condannata a morte, pena poi commutata ai lavori
forzati. Quando morì la gente cantava "la fimmina di lu brigante Monaco muriu, lu cori comu na
preta mputtu tinia" (è morta la donna del brigante Monaco, aveva il cuore come una pietra).
Michelina De Cesare faceva parte invece della Banda "Guerra", amante del capobanda Francesco
Guerra, il quale l'aveva anche in grande considerazione nel preparare le azioni di guerriglia poiché
dotata di una grande abilità tattica. Inoltre grazie ad essa furono sventati numerosi agguati preparati
dalla milizia piemontese. Nel 1868 fu uccisa con tutta la banda Guerra. Venne seviziata e il suo corpo
nudo fu esposto in paese per intimorire gli amici dei briganti.
Nelle foto Maria “Ciccilla” Oliviero e Michelina De Cesare
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I moti del macinato (1869)
Queste tensioni sociali non riguardarono solo il sud; si manifestarono anche al nord. Tra gli
esasperati fermenti sociali che caratterizzarono la vita delle campagne nel primo decennio
postunitario vanno ricordati infatti anche i “moti del macinato”: la rivolta divampata nei primi
mesi del 1869 nelle regioni centro-settentrionali contro la tassa sulla macinazione dei
cereali. La risposta dello Stato a questa rivolta fu l’invio dell’esercito che provocò 250 morti.
Italia Paese di emigranti
Uno dei fenomeni sociali che ha segnato la storia del nostro Paese è stato quello
dell’emigrazione. Affrontare questo squarcio della nostra storia, inevitabilmente non può che
richiamare alla memoria la disperazione che, oggi, sta segnando le popolazioni provenienti da
paesi logorati dalla violenza e dal terrore. Persone che affidano alle “carrette del mare” la
speranza di un futuro. L’immagine in basso riporta una relazione, pubblicata nel 2009 su
Rainews24, che testimonia la diffidenza ed il razzismo che segnarono il popolo italiano negli
anni dell’emigrazione. Si tratta di una relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del
Congresso americano sugli immigrati negli Stati uniti (1912).
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Le quattro fasi dell’emigrazione italiana
Gli studiosi hanno suddiviso, per comodità, la lunga storia dell’emigrazione italiana in quattro
grandi periodi caratterizzati tutti da imponenti flussi migratori intercalati da momenti di stasi
nelle partenze.
Il primo periodo, quello che si potrebbe definire di scoperta e consolidamento, si fa giungere
fino al 1900, ovvero fino all’inizio del nuovo secolo e alla vigilia dell’entrata in vigore della
nuova legge sull’emigrazione (legge del 31 gennaio 1901, n. 23). In questo arco di tempo
furono registrati poco più di 5 milioni di espatri, con circa la metà degli emigranti che decide
di recarsi nei paesi transoceanici (circa il 51% del totale). La scelta di partire interessava, per
la gran maggioranza (81% delle persone) giovani uomini di estrazione rurale che espatriano
senza essere seguiti da altri membri della famiglia.
La seconda fase dell’emigrazione italiana (che parte dal 1901 e si conclude alla vigilia della
prima Guerra Mondiale) rappresentò il momento di maturità di tale fenomeno. Nel corso
degli anni si è assistito ad un aumento considerevole nel numero delle partenze (che
ammontano a circa 9 milioni), con il picco che viene toccato nel corso dell’anno 1913 con
870.000 espatri. Durante il periodo del primo conflitto mondiale, e proprio per cause belliche,
il numero degli espatri diminuì in maniera significativa per poi riprendere (in maniera
ridotta) nel primo dopoguerra. Tra il 1901 e il 1914 continuarono a partire soprattutto
giovani uomini. Provenivano generalmente dalle regioni dell’Italia meridionale (circa il 70%
del totale) e preferivano le mete transoceaniche, che registrarono un sensibile aumento
((62%), con gli Stati Uniti che accolsero almeno la metà degli emigranti.
Tra le due guerre il flusso migratorio diminuì vistosamente a causa di due fattori principali:
cominciarono ad avere effetto le politiche restrittive adottate dagli Stati Uniti (ad esempio il
Quota Act, la legge che limitava l'ingresso dei nuovi immigrati e stabiliva che la quota annuale
degli ammessi per ogni nazione fosse il 3% rispetto al totale dei connazionali residenti negli
Usa nel 1910), mentre, in Italia, il regime fascista da poco al potere assunse nei confronti
dell’emigrazione un atteggiamento negativo. Dopo la stasi del secondo conflitto mondiale il
movimento migratorio riprese vigore tanto che fino agli anni ’80 partirono dall’Italia circa
8 milioni di persone che ebbero come meta, soprattutto, paesi europei.
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Fino agli anni ’70-’80 circa, quindi, l’Italia è stato un Paese di emigranti. La svolta, da Paese di
emigranti a Paese di immigrati, è avvenuta nel 1973 quando per la prima volta c’è stato un
leggerissimo saldo migratorio positivo (101 ingressi ogni 100 espatri), caratteristica che è
diventata costante, amplificandosi negli anni a venire. Il flusso di stranieri ha cominciato a
prendere consistenza solo verso la fine degli anni settanta, sia per la "politica delle porte
aperte" praticata dall'Italia, sia per politiche più restrittive adottate da altri paesi.
Le cause scatenanti della migrazione di fine ‘800
Tra i fattori che diedero l’impulso decisivo alla grande migrazione di fine ‘800 e inizi ‘900, vi
fu sicuramente la crisi agraria che colpì l’Europa, e l’Italia in particolare, a cavallo dei due
secoli. Tra le cause principali, che per anni, sono state prese in considerazione dai politici e
dagli studiosi per dare una spiegazione alle difficoltà economiche che investirono la società
rurale del vecchio continente vi fu, sicuramente, quella dell’arrivo, dalle Americhe, di ingenti
quantitativi di frumento a basso prezzo che mise in seria difficoltà i produttori europei.
Questa nuova situazione di mercato fu resa possibile dallo sviluppo dei moderni mezzi di
comunicazione via mare, le navi a vapore, che resero veloce e, soprattutto, più economico il
trasporto delle merci sull’oceano. Pur riconoscendo al prezzo del grano americano la dovuta
importanza nel mutamento dei rapporti economici e produttivi che investirono le campagne
del vecchio continente, la moderna storiografia non dimentica di prendere in considerazione
anche altre concause. Ad accentuare il “disarticolamento del mondo” agricolo contribuirono
anche alcune patologie che colpirono in maniera significativa colture pregiate quali la
fillossera per la vite, la pebina per la sericoltura e la mosca olearia per l’ulivo e che privarono i
contadini, soprattutto quelli meridionali, di importanti fonti di reddito.
Se a questi fattori di crisi si aggiungono, inoltre, quello di un sensibile aumento della
pressione fiscale, che lo Stato unitario esercitò sulla società italiana per finanziare lo
sviluppo economico e industriale del paese, e quello che vede, sempre in questi anni, la
trasformazione generale del tessuto sociale che da un’impronta marcatamente rurale si avvia
a divenire, in importanti fasce di popolazione, una società urbana alle prese con le prime
forme di capitalismo, avremo un quadro piuttosto preciso delle problematiche che
contribuirono (o costrinsero) milioni di persone a prendere la difficile decisione di cercare
“fortuna” in terre lontane.
La preparazione del viaggio
Partire per emigrare non era, certamente, una scelta che si poteva prendere facilmente. Nella
decisione, poi, la famiglia assumeva un ruolo decisamente importante. Si poteva, infatti,
scegliere di andar via da soli o con alcuni dei parenti più stretti (come i genitori o, come più
spesso avveniva, con la moglie e i figli), ma si poteva anche emigrare perché richiamati da un
familiare (generalmente il padre o il marito) che già risiedeva da tempo all’estero.
Molto spesso, poi, il far partire un componente della famiglia e mandarlo a cercare fortuna in
un paese straniero era visto, da parte chi rimaneva, come una sorta di investimento per il
futuro, reso possibile grazie ai soldi delle rimesse che l’emigrante avrebbe mandato a casa.
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Una volta che la decisione era stata presa, bisognava trovare il denaro necessario per
acquistare il biglietto del vapore oltre che per avere a disposizione una piccola somma per le
prime necessità (e nel caso degli Stati Uniti, obbligatoria per dimostrare che non si sarebbe
stati a carico dell’erario). Anche a questa “bisogno”, normalmente, provvedevano amici e
parenti con un prestito: il denaro sarebbe stato restituito, con i dovuti interessi, grazie al
futuro salario ricevuto. In mancanza di tali finanziatori per così dire, “istituzionali” si era
costretti a ricorrere a persone esterne alla propria cerchia familiare. In questo caso si correva
il rischio di incappare in figure poco raccomandabili che potevano anche costringere il futuro
emigrante ad impegnare o vendere la propria casa o il piccolo pezzo di terra. In ogni caso,
comunque, era sempre in agguato il rischio, tutt’altro che remoto, di vedere le masserizie
sottovalutate o, nella peggiore delle ipotesi, di venire truffati da mediatori o acquirenti senza
scrupoli. Durante i primi anni del fenomeno migratorio, quando ancora le leggi non
prevedevano un’adeguata tutela dell’emigrante, questi doveva vedersela anche con gli
emissari di alcuni governi stranieri (come, ad esempio, quello brasiliano) che per convincerli a
partire per quel paese promettevano viaggi gratuiti e retribuzioni favolose. Da ultimo, ma non
meno insidiosi per l'emigrante, erano gli agenti e i rappresentanti delle compagnie di
navigazione che, non di rado, assicuravano (anche loro, come tutti) comodi viaggi in nave e un
lavoro sicuro e qualificato al di la dell’oceano pur di accaparrarsi l'aspirante viaggiatore.
Il viaggio in terza classe
Per molti emigranti il viaggio in treno per raggiungere il nord Europa o quello in nave per
mete transoceaniche è stata la prima occasione della vita per allontanarsi dal proprio paese e
dalla propria famiglia. Per molti di loro, anzi, costituiva il “viaggio” per antonomasia e,
pertanto, sarà facile immaginare con quale stato d’animo veniva affrontato e quali fossero i
timori per il futuro imminente.
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Fino all’approvazione delle nuove norme contenute nella legge e nel regolamento
sull’emigrazione (gennaio 1901) il viaggio rappresentava per l’emigrante un’avventura
durante la quale si avevano pochi diritti da far valere. Si dormiva in stive, riadattate in modo
approssimativo a camerate, in condizioni di promiscuità con gli altri emigranti e in spazi
veramente ridotti. Il cibo veniva servito in grossi pentoloni e le condizioni igieniche erano
tutt’altro che ottimali tanto che per respirare aria pura si era costretti ad andare in coperta. In
seguito, le condizioni migliorarono sensibilmente: i piroscafi vennero dotati di locali idonei
per far vivere le persone in modo dignitoso (furono, ad esempio, aumentati gli spazi minimi
delle brande a disposizione di ciascun passeggero); fu stabilito, per legge, che ogni persona
imbarcata avesse diritto ad un vitto adeguato che comprendesse anche la carne, generi di
conforto (vino e caffè) e che fosse, finalmente, servito in appropriati locali mensa. Vi fu un
notevole miglioramento dal punto di vista igienico perché venne stabilito che su ogni
piroscafo utilizzato per il trasporto di emigranti vi fosse imbarcato un medico militare con il
compito di verificare l’osservanza, da parte dell’armatore, di tutte le norme igeniche
contenute nella legge e di un rappresentante del "Commissariato per l'Emigrazione" che aveva
il compito di tutelare i viaggiatori. Nonostante le condizioni di viaggio fossero divenute
finalmente accettabili, la traversata rimaneva per alcuni un’esperienza traumatizzante e non
totalmente priva di rischi tanto che non era raro contrarre malattie contagiose e, nel caso
estremo perdere la vita (quest'ultima tragedia colpiva spesso i piccoli, e più indifesi,
passeggeri che erano i bambini appena nati).
L’economia delle rimesse
Se lo scopo principale dell’emigrante è stato quello di andare a cercare fortuna lontano dal
proprio paese di origine e di risparmiare il denaro necessario al suo sostentamento e a quello
della sua famiglia, si può tranquillamente affermare che il contadino italiano è sempre stato
un campione indiscusso nel saper accumulare la “moneta” guadagnata. Spesso egli era in
grado di lavorare fino allo stremo delle forze pur di mettere da parte un piccolo capitale in
denaro, rinunciando anche al necessario per vivere, pur di poterlo destinare alla famiglia
rimasta in Italia. L’economia delle rimesse ha avuto effetti importanti sulla società del nostro
paese sia per gli aspetti di macroeconomia che per la più modesta economia domestica.
L’afflusso di ingenti quantità di valuta pregiata dall’estero – si parla, tanto per dare un
esempio delle cifre in gioco, di una media di 450-500 milioni di lire (dell’epoca) all’anno per il
periodo 1900-1905 e di 800 milioni di media annua per il periodo 1906-1910 – ha avuto un
notevole peso nel miglioramento dei bilanci dello Stato e nel finanziamento dello sviluppo
economico del paese. Di contro, anche la famiglia dell’emigrante si trovò a gestire una
disponibilità economica a cui non era abituata. I primi soldi furono destinati a saldare i debiti
contratti con amici e parenti per affrontare le spese del viaggio; il resto è stato usato per
acquistare un pezzo di terra o per assicurare una casa decente ai propri familiari. In questo
contesto sono cambiati anche gli stili di vita quotidiani: in casa sono entrati generi alimentari
e generi voluttuari fino ad allora ritenuti appannaggio delle sole famiglie benestanti.
Raramente il denaro risparmiato veniva investito per la creazione di nuove attività produttive
o per assicurarsi mezzi di sostentamento futuri. In questo campo l’emigrante ha dovuto
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scontare la mancanza culturale di strategie imprenditoriali che gli consentissero di investire il
proprio denaro guadagnato con anni di duro lavoro.
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
Inserisco di seguito due differenti articoli di giornale che ci servono come spunto sia di
riflessione sia di confronto. Due volti di una stessa medaglia. L’Italia di oggi vista sia come Paese
che si trova ad accogliere “disperati” che affidano alle carrette del mare la speranza in un futuro
migliore, sia come Paese che sta assistendo ad una nuova fase di emigrazione con vere e
proprie “fughe di cervelli”.
Le lettere d'amore dei migranti morti in mare. Messaggi mai spediti destinati alle mogli e alle
fidanzate rimaste in patria
Le portavano addosso come fossero delle reliquie. Molte erano persino sigillate dentro buste di
plastica per non farle distruggere dal mare. Sono le lettere d'amore e di speranza inviate dai
migranti "in fuga dal sud del mondo" alle loro mogli, fidanzate, madri che hanno lasciato nei
paesi d'origine. Lettere mai arrivate a destinazione perché chi le ha scritte è morto nella
traversata. Proprio come Samir, un giovane egiziano tra i 20 e i 25 anni che - come riferisce il
quotidiano La Repubblica - è arrivato cadavere a Pozzallo: "Mio adorato amore, per favore non
morire, io ce l'ho quasi fatta. Dopo mesi e giorni di viaggio sono arrivato in Libia. Domani mi
imbarco per l'Italia. Che Allah mi protegga. Quello che ho fatto, l'ho fatto per sopravvivere. Se
mi salverò, ti prometto che farò tutto quello che mi è possibile per trovare un lavoro e farti
venire in Europa da me. Se leggerai questa lettera, io sarò salvo e noi avremo un futuro. Ti amo,
tuo per sempre Samir". O come quella di George, probabilmente di origine liberiana che
"avrebbe scritto scritto alla sua amata quando dal porto di Zuhara salì su uno dei barconi
salpato verso le coste di Lampedusa": "Amore mio, finalmente sono arrivato. La vita comincia
adesso, spero di tornare presto per portarti con me e vivere insieme lontani dalla guerra. Ti
amo" Lettere che, rilette oggi, sembrano quasi un testamento. Tra le righe spesso anche il
racconto della "loro odissea", la traversata nel deserto, il pizzo pagato ad ogni frontiera e la
paura che quel barcone su cui stanno per salire possa affondare. Repubblica riposta la
testimonianza di uno dei poliziotti della squadra mobile di Ragusa, da mesi impegnato a
Pozzallo: "In alcuni fogli si leggono racconti della prigionia nelle carceri libiche, in attesa del
trasferimento sui barconi che li avrebbero dovuti portare, vivi, in Italia. Troviamo di tutto in
quelle tasche e nelle buste che portano attorno al collo. Fotografie dei figli, della moglie, dei
genitori. Non sono utili alle indagini, ma quando le traducono ti fanno venire un groppo in gola"
Un giornalista del New York Times ne ha trovata una persino in un pacchetto di sigarette. Una
lettera brevissima, scritta a mano in un dialetto eritreo. "Volevo essere con te. Non osare
dimenticarmi. Ti amo tantissimo, il mio desiderio è che tu non mi dimentichi mai. Stati bene
amore mio. A ama R"
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http://www.huffingtonpost.it/2014/09/19/lettere-damore-migranti-morti_n_5847876.html
Paesi Brics, vita da cervelli in fuga: sogni e disillusioni degli italiani tra Cina e Brasile
Le economie emergenti del pianeta, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica (i cosiddetti Paesi
Brics, acronimo inventato da Jim O’Neill, ex dirigente della banca d’affari Goldman Sachs) sono
diventate il nuovo Eldorado. Non per tutti. Solo per chi ha spirito di adattamento, non vuole un
lavoro mordi e fuggi e si dà da fare per imparare la lingua, strumento indispensabile per avere
successo nel lungo periodo. Capire come vivono gli italiani in queste terre lontane, per geografia
e cultura, non è semplice. Scordatevi le “little Italy” di una volta. Oggi anche quando ci troviamo
a migliaia di chilometri da casa, non occupiamo lo stesso quartiere per sentirci meno spaesati,
difficilmente trascorriamo insieme il tempo libero, preferendo familiarizzare con gli stranieri.
Rintracciare le comunità italiane nei Brics dunque è impossibile, perché non esistono. Al
massimo su Facebook. Qui i primi expat hanno aperto pagine per scambiarsi consigli e
informazioni, magari organizzare eventi, solo all’inizio però, per rompere il ghiaccio. Poi si
sparpagliano o formano piccoli gruppi. Non c’è niente di cui stupirsi. La società contemporanea
è globale, e per chi ci è nato è la cosa più normale del mondo. Scappare negli ex terzo mondo
per cambiare vita non basta. Bisogna investire. Come sta facendo in Brasile Davide Nastasi, 25
anni, di Roma, che assieme a due amici nel novembre 2013 ha fondato una start up, la
Kobrin.co, per la creazione di accessori di design con stampanti 3d. “Abbiamo partecipato a un
bando del governo di Minas Gerais, che metteva a disposizione 30 mila dollari per ogni start up
– spiega Davide, una laurea in Giurisprudenza – eravamo gli unici italiani. La fase di incubazione
è durata sei mesi, da gennaio a luglio. La nostra intenzione è tornare al più presto in Brasile e
iniziare l’attività”. Finora hanno disegnato e confezionato occhiali da sole e speaker acustici,
tutti andati a ruba. “La domanda di beni è altissima. Restare vincolati al mercato italiano non è
lungimirante, anzi è un peccato originale che ti segna per sempre”. Davide e suoi colleghi nel
frattempo hanno seguito un corso di portoghese. “Se non sai la lingua, non riesci a entrare nella
loro mentalità”. Lo sa bene Fabio Maggi, 43 anni, milanese, che a Belo Horizonte, la capitale
dello Stato di Minas Gerais, fa il mediatore per gli investitori stranieri. “La maggior parte degli
italiani arriva qui e crede di farcela da sola. Poi capisce che non è possibile. C’è un sottointeso
da imparare: i brasiliani in genere sono pigri, hanno tempi di risposta dilatati, a volte ignorano le
offerte perché hanno già tanto lavoro, anche se subito non rifiutano la proposta. Retaggio del
passato coloniale, quando la gente era abituata solo a obbedire”. Fabio elenca i settori trainanti
del mercato brasiliano sono: “Quello immobiliare e quelli ad esso connessi, quindi
elettrodomestici, arredamento, idraulica, eccetera; energie rinnovabili, telecomunicazioni, gas e
petrolio”. Per trovare un socio d’affari e i clienti ha sfruttato il gruppo su Linkedin “Italians doing
business in Brazil”, quasi 4 mila membri. “Molti italiani alla fine mollano e tornano a casa” dice.
Perché? “Per la paura degli animali, non scherzo. Per esempio, Belo Horizonte è stata realizzata
in mezzo a una foresta, ci sono le scimmiette arrampicate sui fili della luce, se lasci un succo di
frutta sul tavolo nel giro di qualche minuto si riempie di formiche, e ovunque ti imbatti in ragni
enormi”. Altro problema: la mobilità. “Non esistono i treni e gli autobus sono pochi e malconci.
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Il sogno di ogni brasiliano è guadagnare abbastanza per comprarsi un’auto”. La criminalità non è
da sottovalutare. “I banditi entrano in uffici e ristoranti, chiudono le porte e chiedono soldi”. Il
costo della vita poi è cresciuto parecchio negli ultimi anni e il protezionismo frena gli affari. “Un
prodotto importato vale il 60 per cento in più. Anche la logistica è arretrata e i trasporti cari”. In
Russia bisogna fare i conti con inverni rigidi e una lingua difficile, che conviene studiare per non
essere tagliati fuori. Chi opta per Mosca deve prepararsi a spese alle stelle. In pratica, anche qui,
la stessa regola: o ti metti nell’ottica di investire tempo, energie e denaro prima di far soldi,
oppure dopo qualche mese getti la spugna e te ne vai. Ferdinando Baldini, 38 anni, milanese,
dal 2006 vive e lavora nella capitale russa. È il fondatore del gruppo “Italiani a Mosca” su
Facebook. “Gli iscritti sono studenti, lavoratori, anche i pensionati che si sono sposati con una
donna del posto. All’inizio organizzavo cene da cento persone, ora non ce n’è più bisogno, sono
nati dei gruppetti. Magari chi è appena arrivato ci contatta”. Ferdinando parla bene il russo e
gestisce uno showroom di abbigliamento sportivo. “Il mercato dei brand di lusso è saturo
ormai, serve altro”. Nessun progetto di rientrare in patria, per ora. “Voglio aprire un negozio
tutto mio”. Oltre al carovita (Ferdinando spende 1400 euro d’affitto al mese per 50 metri
quadri), c’è la preoccupazione del visto. “Se sei un semplice dipendente dura un anno, tre se hai
una qualifica e uno stipendio alto. Ne esistono anche altri, ogni volta una trafila per
rinnovarlo”. “Il muratore che diventa chef non esiste più. Non c’è disoccupazione, vero. Ma non
basta essere italiani per sfondare”. Giuseppe D’Angelo, 38 anni, ne ha fatta di strada prima di
diventare il capo degli chef del tempio della cucina italiana a Mosca: Culinaryon, dove privati e
aziende imparano a fare tortellini e risotti, scolare spaghetti, sfornare carne e dolci del
Belpaese, negli spazi esclusivi del Novinskij Passage, un centro commerciale di superlusso.
“Sono partito da Napoli nel 2008. Facevo lo chef di bordo sugli yacht, d’inverno l’avvocato.
Siamo una famiglia di avvocati da sette generazioni. Ma non faceva per me. Un oligarca russo
mi chiese di fargli da cuoco personale nella sua residenza, a Rublyovka, a un’ora dalla capitale.
L’ho seguito, ho resistito per due mesi, poi mi sono licenziato, era una prigione dorata, sempre
sorvegliato, non sapevo il russo, non avevo vita sociale”. Giuseppe, tramite dei fornitori, trova
un posto in un ristorante a Ufa, la capitale della Baschiria, una repubblica della Federazione
russa. Qui dura poco più di un anno, poi si trasferisce a Mosca. “C’era un’offerta di lavoro per
un ristorante italiano in un quartiere business, di banche e uffici. Dopo otto mesi me ne sono
dovuto andare un’altra volta. Mettevano il becco in cucina, per ridurre i costi mi costringevano
a cambiare le ricette: per ammorbidire la pasta alla carbonara dovevo usare la panna e non il
brodo; per condire olio di sansa e non quello extra vergine di oliva”. Quindi cambia ristorante,
altri tre anni. Da luglio scorso inizia a dedicarsi completamente alla scuola di cucina. “È la più
grande d’Europa. Organizziamo corsi di cucina per privati, consulenze per aziende o eventi,
come le feste di compleanno, in cui amici e festeggiato si preparano la cena”. Cinque mila
iscritti al mese e un progetto in franchising in cantiere. “Il costo della vita è folle. Per stare in
centro, vicino al lavoro, spendo circa due mila euro al mese di affitto per 80 metri quadri”.
Cercare fortuna in India? Dipende, anche qui. “Ci sono circa due mila filiali di imprese italiane –
riferisce Sergio Sgambato di Assocamerestero – questo è il tipo di business che funziona, quelli
che partono all’avventura si contano sulle dita di una mano. L’inefficienza del sistema è tale che
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il vantaggio sul lavoro è minimo: la manodopera costa poco ma le infrastrutture fanno schifo”. I
settori di investimento più gettonati sono quello industriale (macchinari tessili, per la
trasformazione alimentare, lavorazione del marmo, gioielleria, automotive) e quello
dell’informatica. “C’è un mercato enorme, entusiasmo e voglia di fare” esordisce al telefono
Alessandro Fichera, 39 anni, amministratore di Octagona, società che fornisce consulenza e
servizi per le aziende che vogliono espandersi in India, Vietnam e Brasile. Le difficoltà, però,
sono all’ordine del giorno. “Vivo a New Delhi dal 2004 – racconta – l’India non è un ambiente
confortevole. Pesano le barriere culturali, il caos nelle strade, il rumore dei clacson, la sporcizia
e una burocrazia complicatissima. Per aprire un conto bancario ti serve un santo in paradiso.
Ogni banca ha le sue regole, ti chiede documenti diversi per fare la stessa cosa. Alla sera ho il
fegato gonfio”. La scelta migliore, insiste, “è produrre in India per il mercato indiano, e non in
Italia per vendere qui. I costi vengono ammortizzati a fatica”. “Ogni volta che ho mandato il cv
mi hanno risposto offrendomi un posto, ero io che dovevo rifiutare”. Francesco Santini, 30 anni,
di Torino, si innamora dell’India durante un viaggio in solitaria. “Sono partito nel febbraio 2013,
con pochi soldi in tasca, ci sono stato per tre mesi, ho lavorato in una fattoria in cambio di vitto
e alloggio”. Ha già una laurea in Scienze internazionali, un master in studi europei, uno stage
all’Unido (agenzia Onu per lo sviluppo industriale) e un altro all’Ilo (agenzia Onu per il lavoro).
“Ero un precario e avevo voglia di scoprire una cultura nuova”. A settembre dell’anno scorso ci
ritorna. “Ho lavorato per un’ong, ho insegnato italiano nelle scuole, ho fatto il figurante nei
matrimoni dei ricchi, 50 euro per 4 ore”. Gli italiani li incontra alle feste per expat, alcuni
tramite il sito Couchsurfing.org. Ma la maggior parte del tempo lo spende con gli indiani.
“Tentano sempre di fregarti sul prezzo perché sei bianco, rispondono sempre ‘sì’ anche quando
non possono fare una cosa o non ce l’hanno, non sono molto precisi, alla fine perdi la pazienza”.
Che farsene del bagaglio di conoscenze e aneddoti accumulato? A giugno decide di aprire un
sito web, Indiainout.com, con altri nove italiani, giornalisti, traduttori, appassionati di India e
Bollywood, contattati su Facebook. Notizie su usi, costumi, politica, viaggi, cinema e l’intenzione
di creare una bacheca di annunci lavoro. “Per ora a gratis, speriamo di trovare presto degli
sponsor”. Nel 2013 in Cina è nata la prima associazione per giovani expat italiani. Si chiama Agic
(Associazione dei Giovani italiani residenti in Cina), conta 200 soci a Pechino, 15 a Shanghai, una
trentina nelle altre sezioni di Chongqing, Chengdu, Hangzhou, 600 iscritti alla mailing list. Tutti
tra i 16 e i 40 anni. “Organizziamo eventi ogni mese, come l’aperagic, cioè l’aperitivo itinerante,
biciclettate, feste, convegni con imprenditori cinesi o italiani che raccontano come hanno
aperto start up, ong, studi di architettura in Cina” spiega Jacopo Bettinelli, nel consiglio Agic.
Ventisette anni, da due a Pechino, una laurea in lingue orientali a Venezia, precisa: “Non sono
fuggito dall’Italia, sono partito perché ero attratto dalla cultura cinese”. Jacopo, da 4 mesi
sposato con una ragazza cinese, lavora nell’ufficio comunicazione di un’azienda locale e
guadagna quasi due mila euro al mese. “Seguo i rapporti con i clienti italiani. Faccio tutto da
solo. In Italia senza esperienza pregressa non avrei mai avuto un ruolo così. Qui ti danno subito
tanta responsabilità”. Il peggior nemico è l’inquinamento. “Giro con la mascherina alla bocca, in
casa ho due filtri dell’aria e sul cellulare un’app che misura il livello di polveri sottili. Per questo
in futuro traslocheremo nel sud della Cina o in un altro Paese nel sud est asiatico”. Al mese
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Lo sfruttamento minorile nelle miniere di zolfo
Un altro aspetto che caratterizzò la Sicilia di metà e fine ‘800 fu l’estrazione di zolfo, definito
l’”oro giallo”. La nostra isola godette del monopolio naturale dello zolfo (91% della
produzione mondiale), che veniva quasi tutto esportato. L'industria chimica europea e quella
americana dipendevano infatti dallo zolfo siciliano. Tre furono, principalmente, le aree
cardine del mercato chimico mondiale: Enna, Agrigento e Caltanissetta. La produzione
massima si ebbe nel 1899 quando erano in funzione oltre 700 solfare; quell’anno furono
prodotte 537.000 tonnellate di zolfo puro (questa quantità rappresentò l'equivalente di circa
4/5 della produzione mondiale).
spende 600 euro di affitto per 60 metri quadri, e altri 400 per cibo e spese varie. “In Cina le cose
sono cambiate, non basta tirare i calci per far uscire le pepite d’oro. Se lavori in nero e ti
scoprono, il governo ti espelle. Da luglio c’è stato anche un giro di vite sul visto. Stanno
diventando selettivi e più rigorosi”. Anche Cecilia Freschini, 35 anni, vive a Pechino. Il suo
obiettivo è promuovere l’arte contemporanea italiana nel Paese del Dragone. “I nostri artisti qui
soffrono di invisibilità”. Nata e cresciuta a Verona, è un’esperta di economia dell’arte. Nel 2010
ha creato Lab-Yit, una piattaforma online per dare visibilità agli artisti italiani attraverso mostre
e progetti di vario tipo. “Quando arrivano, nessuno sa niente di loro. Istituzioni, giornali, uffici
stampa. E loro non sanno come muoversi. Gli enti che regalano premi di residenze artistiche
non si occupa del loro soggiorno, provocando disagi pazzeschi. Per uno straniero la Cina
sembra Marte, è difficile fare da soli. Non capita agli artisti di altre nazionalità, che di solito
sono seguiti dal Paese di provenienza”. Così per gli italiani ci pensa lei, insieme all’Istituto
italiano di cultura (che “fa quel che può, perché non ha molti fondi”): organizza volo,
pernottamento, trasferte, conferenza stampa con le testate del settore, e ovviamente la
galleria. Infine, il Sudafrica. “Gli italiani frequentano expat di altre nazionalità – lo conferma Ciro
Migliore, che nove anni fa ha fondato la Gazzetta del Sudafrica – in tanti hanno aperto bar e
ristoranti, altri sono nel turismo”. Mattia Vaccari è un’eccezione. Trentanove anni, da tre a Cape
Town, nato a Treviso, laurea e dottorato in astronomia a Padova. “Con un team di venti persone
sto lavorando al progetto di un radiotelescopio per ricevere segnali extraterresti dalle galassie
più distanti che sarà realizzato nel deserto del Karoo, a un giorno di viaggio da qui. È il sito
migliore sulla Terra per questo genere di studi”. Mattia ha risposto all’annuncio pubblicato sul
sito dell’American astronomical society. “Mi trovo bene, il clima è bello, la gente solare e
rilassata. Ci sono tante contraddizioni però. I neri sono in soggezione dei bianchi, ci sono le
università per i ricchi e quelle popolari, le baracche e le ville con piscina, i suv e i carretti trainati
dai cavalli”. Finalmente può permettersi di vivere da solo. “Pago 600 euro per una casa sul mare
di 80 metri quadri. A Padova dovevo condividere la stanza. Ora riesco anche a mettere via
qualche soldo e mi sono preso pure la macchina, il trasporto pubblico è scadente”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/20/paesi-brics-vita-da-cervelli-in-fuga-sogni-e-
disillusioni-degli-italiani-tra-cina-e-brasile/1161171/
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Le innumerevoli zolfare disseminate nell’isola, oggi restano a testimonianza di un patrimonio
storico-culturale che ci appartiene. Alcune sono state trasformate in parchi minerari. Nel
1991, infatti, una legge regionale ha istituito l'ente Parco minerario di Floristella-Grottacalda,
in provincia di Enna, la cui miniera di Floristella, risalente alla fine del XVIII secolo, ha svolto
attività fino al 1984 (il link di collegamento è http://www.enteparcofloristella.it/). Con due
decreti del 1994 e del 1996 l'Assessorato regionale ai beni culturali ed ambientali della
Regione siciliana ha, infatti, sancito l’interesse etno-antropologico delle dismesse zolfare di
Lercara Friddi. A Catania la cittadella dello zolfo, l'area industriale sorta per la lavorazione
dello zolfo, a nord-est dell'attuale Stazione di Catania Centrale da tempo abbandonata è stata
recuperata negli anni settanta integrando nuovo e antico e creando Le Ciminiere un’area
fieristica, espositiva e per convegni. L'agglomerato di stabilimenti di raffinazione e molitura e
ciminiere occupava una superficie pari all'intero centro storico testimoniando l'importanza
del settore zolfifero per l'economia catanese del tempo. Nel 2010 è stato inaugurato il Museo
delle Solfare di Trabia Tallarita, allestimento permanente presso il sito minerario di Trabia
(Riesi), che ospita un ricco percorso storico-tecnico sull'epopea delle solfare siciliane (il link
di collegamento è http://www.mstt.it/). Il lavoro all’interno delle miniere di zolfo si reggeva
sulla fatica di “pirriatura” e “carusi”. I picconieri (pirriatura) erano coloro che estirpavano lo
zolfo dalle miniere a colpi di piccone o provocandone scoppi con le mine. A causa delle alte
temperature all’interno delle miniere i pirriatura lavoravano quasi totalmente nudi, con
soltanto una sorta di telo che serviva a ricoprire le parti intime. La giornata lavorativa dei
picconieri durava dodici ore; si scendeva in miniera all’alba e si risaliva solo a sera. I carusi
lavoravano alle dipendenze del picconiere. Venivano chiamati in questo modo in quanto la
loro età poteva andare dagli otto ai quattordici anni. Non mancavano, comunque, i casi di
carusi adulti, dall’età anche di sessant’anni, ovvero di coloro che, avendo iniziato la carriera
lavorativa da bambini, avevano mantenuto lo status di caruso anche in età matura,
continuando a lavorare alle dipendenze del pirriaturi. Quest’ultimo di fatto era “proprietario”
dei carusi; infatti il rapporto di lavoro tra picconiere e caruso si instaurava quando il primo
versava il cosiddetto soccorso morto alla famiglia del caruso, ovvero un anticipo in denaro che
il bambino doveva riscattare col lavoro. Quando il caruso riusciva a riscattare il soccorso morto
poteva aspirare a diventare picconiere, altrimenti rimaneva caruso pure da adulto.
Carusi all’imbocco di un pozzo della zolfara – 1899
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I picconieri radunavano di primo mattino i carusi e con essi si dirigevano verso le miniere.
Giunti in miniera iniziava la discesa dei picconieri e dei carusi che, muniti di una lampada ad
acetilene, detta citulena, scendevano gli innumerevoli scalini per addentrarsi nelle profondità
delle miniere e per risalirne poi la sera. Quando la miniera era parecchio distante dal centro
abitato i minatori rimanevano a dormire nelle gallerie abbandonate in prossimità delle
miniere stesse. Oltre alla durezza del lavoro dentro la miniera si operava con la
consapevolezza di pericoli e disgrazie che potevano succedere da un momento all’altro;
frequenti, infatti, erano le esplosioni, i crolli, gli incendi. Per tale motivo si lavorava in
tensione, dovendo valutare la stabilità delle gallerie al momento di sferrare i colpi di piccone,
cercando di individuare il punto più conveniente. Era consuetudine osservare i topi e i loro
movimenti dentro le miniere; infatti la loro fuga era sintomo di un pericolo immediato. Il
picconiere, come detto, estirpava lo zolfo che, in quantità da cinquanta a ottanta chilogrammi,
veniva messo in sacchi di tela, chiamati stirratura. Ciascuno di questi sacchi veniva poi
consegnato ai carusi i quali, a spalla, provvedevano a portarlo all’esterno della miniera. Per
alleviare il peso e proteggere la schiena nuda su di essa veniva adagiato un cuscino di tela di
canapa pieno di paglia, detto chiumazzata. Giunti all’esterno, i carusi, assieme ai riempitori
riversavano il carico dentro i forni, la conduzione dei quali era affidata agli arditori, al fine di
estrarre lo zolfo puro. Quindi il caruso ridiscendeva in miniera per andare a prendere un
nuovo carico. Tale operazione si ripeteva da dieci a cinquanta volte al giorno a seconda della
profondità della miniera. Il lavoro nelle miniere di zolfo era certamente pesante e lasciava i
segni sui lavoratori. I carusi, infatti, molto spesso crescevano rachitici a causa delle immani
fatiche a cui erano sottoposti sin dalla tenera età. Le condizioni di lavoro, tuttavia, mutarono
nel tempo, ma solo nei primi del novecento si è potuto assistere ad una minore pesantezza del
lavoro, soprattutto per i carusi, quando il minerale estratto veniva portato all’esterno tramite
vagoncini che scorrevano su dei binari, cosicché i carusi dovevano trasportare a spalla lo zolfo
soltanto fino al vagoncino.
Per capire il tipo di sfruttamento al quale furono soggetti i carusi, riporto di seguito parte di
un articolo di Adolfo Rossi, un giornalista che nell’ottobre del 1893 fu inviato in Sicilia dal
giornale “La Tribuna” di Roma. Pubblicò una serie di servizi sulla situazione siciliana; i suoi
articoli destarono interesse non soltanto negli ambienti politici ma anche
nell’opinione pubblica. «La Tribuna» era a quel tempo uno dei maggiori giornali
italiani di informazione, sia per influenza sia per tiratura. La sua linea politica era
“filocrispina” e conseguentemente di opposizione al governo Giolitti, il che spiega
la libertà concessa al giornalista di denunciare i comportamenti repressivi delle
autorità prefettizie e di polizia che in Sicilia eseguivano le direttive del governo,
formalmente rispettose dei principi liberali ma già sostanzialmente orientate
verso la maniera forte.
“... A un certo punto, mentre attraversavamo la montuosa regione che separa Campobello dalle
zolfare, vedemmo in lontananza un ragazzo di nove o dieci anni, basso e robusto, che fuggiva per
la campagna brulla, inseguito a duecento metri di distanza da un uomo senza berretto e dalle
vesti bianche di zolfo, che per correre meglio si era levato le scarpe e con esse minacciava il
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fuggitivo con atti d'ira feroce. "E' un picconiere che cerca di ripigliarsi un caruso scappato", ci
dissero i contadini. "Se lo prende, lo concia per le feste! Sono cose che succedono qui tutti i
giorni". I carusi, com'è noto, sono generalmente ragazzi dagli 8 ai 15 o 18 anni, che trasportano
a spalla il minerale dello zolfo dalle profonde gallerie alla superficie, arrampicandosi su per gli
strettissimi pozzi. I picconieri, cioè gli uomini che coi picconi staccano il minerale nelle gallerie,
si procurano uno o più carusi mediante un'anticipazione ai genitori di una somma che varia
dalle 100 alle 150 lire in farina o frumento. Preso così come una bestia da soma, il caruso
appartiene al picconiere come un vero schiavo: non può essere libero finchè non ha restituito la
somma predetta, e siccome non guadagna che pochi centesimi al giorno, la sua schiavitù dura
per molti anni. Egli è maltrattato dal padre, che non può liberarlo, o dal picconiere, che ha
interesse a sfruttarlo il più a lungo possibile. E quando tenta di fuggire sono persecuzioni feroci.
"Ma fermate quel picconiere!", gridammo a quelli del Fascio. Alcuni soci lo raggiunsero infatti e
lo fermarono. Ma dopo una breve discussione vedemmo che lo lasciavano andare. "È nel suo
diritto - ci dissero quando tornarono a noi -il caruso gli appartiene". "Quando si tratta di qualche
scapaccione - ci disse un caruso che faceva parte della nostra comitiva - sono cose da nulla. Il
male è quando il picconiere adopera il bastone. La settimana scorsa il caruso Angeleddu d'anni
tredici fu ucciso dal suo picconiere con Otto bastonate". "E il picconiere non fu arrestato?"
"Non li arrestano mai. Chi s'incarica dei carusi? I carusi, quando muoiono ammazzati, per le
autorità sono morti sempre di morte naturale. Poco tempo fa nella miniera Ficuzza un altro
caruso morì in seguito a un calcio nello stomaco". Come ti chiami tu?" chiesi al caruso che ci
narrava questi orrori. "Filippo Taglialana da Campobello. Ho tredici anni. Lavoro come caruso
da cinque anni e sono in debito verso il picconiere di venticinque lire che non potrò mai pagare.
Tirammo innanzi molto tristi.[...]”
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
Inserisco di seguito due articoli di giornale che ci serviranno come spunto sia di riflessione sia
di confronto. Il primo riguardo un crolli avvenuto all’interno di una miniera in Turchia e risale
allo scorso maggio; il secondo riguarda una inchiesta condotta da Repubblica nell’agosto del
2013 e riguarda “i bambini in miniera”, una delle odierne forme di sfruttamento minorile.
Turchia: crolla miniera, oltre 238 morti
Il premier turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato che il bilancio "ancora provvisorio"
della strage mineraria e' salito a 238 morti. Erdogan si e' recato a Soma, sul luogo
dell'incidente, dove il ministro degll'energia Taner Yildiz ha ammesso che si sta "andando
verso il peggiore disastro mai avvenuto in una miniera in Turchia". Al momento
dell'esplosione, avvenuta ieri sera in una miniera di carbone della provincia di Manisa, nell'
ovest della Turchia, sotto terra c'erano 787 persone, ma alcune sono riuscite a fuggire. Finora
sono stati estratti 232 corpi senza vita e soccorsi numerosi sopravvissuti, tra cui 4 feriti
gravi. La corsa contro il tempo per salvare i minatori, che indossavano maschere a antigas
con un'autonomia fra i 45 minuti e un'ora e mezza, è iniziata alle 19:00 di martedi'. E di
fronte alle riserve di ossigeno sempre più scarse i soccorritori hanno continuano a pompare
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aria fresca verso le gallerie in profondità. Ma non è bastato. Secondo il governatore
provinciale Bahattin Atci, fra 200 e 300 minatori sono rimasti bloccati a quattro chilometri
dall' uscita in fondo alla miniera di carbone, proprietà di una società privata. I soccorritori
hanno iniziato a raggiungere alcuni dei minatori, vivi. Ma con il passare del tempo hanno
estratto anche molti corpi ormai senza vita. Le informazioni su quanto accaduto sono
imprecise e frammentarie, se non contraddittorie. L'incidente si è prodotto nel pomeriggio
durante un cambio di turno. Secondo l'emittente Ntv l'esplosione, avvenuta a due chilometri
di profondità, sarebbe dovuta a un cortocircuito. Le gallerie sono state invase da fiamme e
fumo spesso. I soccorritori sono stati divisi in quattro squadre, che continuano a lavorare
senza sosta nel disperato tentativo di fare estrarre dalle viscere della terra i sepolti vivi. Il
fumo, l'incendio, che non si sa se sia stato estinto, e il black-out elettrico rendono l'intervento
a rischio. Diversi soccorritori hanno dovuto essere ricoverati. Le carenze nella sicurezza delle
miniere di carbone turche sono da tempo al centro di polemiche. Nel 2013, sono stati 93 i
minatori morti nelle varie miniere del paese. Nel novembre scorso 300 minatori si erano
rinchiusi in fondo alla miniera di Zanguldak, nella regione del Mar Nero - dove nel 1992 una
esplosione aveva fatto già 163 morti - per protestare contro le misure di sicurezza
insufficienti dell'impianto. Due settimane fa il principale partito di opposizione, il Chp di
Kemal Kilicdaroglu, aveva chiesto in parlamento un'inchiesta sulla sicurezza proprio nella
miniera di Soma. La proposta e' stata bocciata dall'Akp, che ha la maggioranza assoluta nella
Grande Assemblea di Ankara.
http://www.ansa.it/sito/notizie/mondo/2014/05/13/turchia-crollo-miniera-almeno-20-
morti_b1379825-3000-4946-b1fc-75e1de6763b8.html (14 maggio 2014)
Tanzania, i bambini in miniera ma dell'oro restano solo briciole
Il rapporto di Human Rights Watch rende noto il fenomeno e sollecita il governo tanzaniano a
contenere il lavoro minorile, soprattutto nelle miniere "informali", senza licenza. Sono
migliaia di bambini che lavorano nel paese africano, il quarto più grande produttore d'oro
dell'Africa. Scavano pozzi instabili, lavorando sotto terra fino a 24 ore e poi trasportano
pesanti sacchi. Avvelenati dal mercurio
DAR ES SALAM - Bambini di otto anni lavorano in Tanzania in piccole miniere d'oro, con
rischi gravi per la salute e la vita. Human Rights Watch (HRW) in un rapporto pubblicato
oggi, rende noto il fenomeno e sollecita il governo tanzaniano a contenere il lavoro minorile,
per quanto possibile in un contesto sociale ed economico non esattamente florido,
soprattutto nelle miniere cosiddette "informali", quelle senza licenza, ricordando alla Banca
Mondiale e ai paesi donatori l'urgenza di sostenere questi sforzi. Scavano in profondità. Il
rapporto di 96 pagine, "Fatica Tossica: Lavoro infantile e Mercurio esposizione nelle miniere
dell'oro su piccola scala della Tanzania", descrive come migliaia di bambini lavorano nelle
miniere d'oro, autorizzate e non, in Tanzania, il quarto più grande produttore d'oro
dell'Africa. Scavano e trapano in profondità pozzi instabili, lavorando sotto terra fino a 24
ore e poi trasportano, quasi schiacciati, pesanti sacchi di minerale d'oro. I bambini
rimangono spesso schiacciati dai frequenti crolli, oltre che subire le conseguenze sulla salute,
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esposti come sono al mercurio e all'inalazione della polvere. "Pensavo di essere morta". Una
ragazza di 17 anni, sopravvissuta ad un incidente dentro una delle buche di una miniera, ha
riferito a Human Rights Watch: "Pensavo di essere morta". "In Tanzania - dice Janine Morna
di HRW - ragazzi e ragazze subiscono l'attrazione delle miniere d'oro, nella speranza di una
vita migliore. Il fatto è che poi restano imbrigliati in un labirinto senza uscita, si allontanano
dalla scuola e si espongono a gravi pericoli e a fatiche inimmaginabili". Molti bambini che
lavorano nelle miniere sono orfani, oppure in condizioni vulnerabili. Human Rights Watch ha
anche scoperto che molte ragazze impegnate nelle miniere sono costrette oltre tutto a dover
fronteggiare molestie sessuali e pressioni che le inducono alla prostituzione, correndo il
serioil rischio di contrarre l'HIV o altre infezioni trasmesse sessualmente. Duecento
interviste. Human Rights Watch ha visitato 11 siti minerari a Geita, un quartiere alla periferia
della capitale, nella regione di Shinyanga e in quella di Mbeya, rispettivamente a circa 980
chilometri a nord ovest e a 820 chilometri a sud ovest di Dar es Salam, per intervistare più di
200 persone, tra cui 61 bambini che lavorano nelle miniere d'oro. L'impiego di bambini in
attività mineraria pericolose è una delle peggiori forme di sfruttamento del lavoro minorile,
secondo gli accordi internazionali ai quali la Tanzania, di fatto, non aderisce. "Sulla carta -
afferma ancora la rappresentante di HRW, Morna - la Tanzania ha precise leggi che vietano il
lavoro minorile nelle miniere, ma il governo ha evidentemente fatto troppo poco per farle
rispettare. Gli ispettori del lavoro hanno bisogno di visitare i luoghi di estrazione per
comminare ai datori di lavoro - eventualmente - visibili e pesanti sanzioni per lo
sfruttamento del lavoro minorile". Il contagio nelle zone circostanti. Oltre tutto, per i bambini
lavoratori che vivono vicino a siti minerari c'è il grave rischio di avvelenamento da mercurio,
che attacca il sistema nervoso centrale e può causare disabilità permanente. Il metallo
pesante, infatti, colpisce specialmente gli esseri umani nella fase del loro sviluppo. La
maggior parte degli adulti, e persino dei bambini minatori, sono consapevoli di questi rischi
per la salute, ma gli operatori sanitari non hanno la formazione né le attrezzature per
diagnosticare o curare l'avvelenamento da mercurio. Il trattato di Minamata. La Tanzania ha
tuttavia contribuito a realizzare un nuovo trattato globale per ridurre l'esposizione al
mercurio in tutto il mondo, accordo sottoscritto da più di 140 governi nel gennaio 2013. Si
tratta della Convenzione di Minamata sul Mercurio, chiamato così in ricordo di un sito
velenoso in Giappone che provocò un disastro mezzo secolo fa. "La Tanzania ha contribuito a
portare sulla Convenzione Minamata sul Mercurio - ha detto Morna - per proteggere il futuro
del proprio popolo e della propria industria mineraria in crescita, ma ora ha bisogno di
prendere l'iniziativa per proteggere anche i suoi bambini, attraverso il monitoraggio e il
controllo e poi farli uscire delle miniere". A scuola non si va più. Lavorare nelle miniere
compromette anche l'educazione dei bambini, che saltano le lezioni o abbandonano la scuola
del tutto. Gli insegnanti dicono che la frequenza scolastica e le prestazioni diminuiscono
quando viene aperta una miniera d'oro nelle vicinanze della scuola. Inoltre, molti adolescenti
cercano lavoro a tempo pieno nel settore minerario, perché non hanno accesso alla scuola
secondaria o di formazione professionale. Dice un ragazzo di 15 anni, nel quartiere di Geita a
Dar es Salam, riassumendo in una frase l'impatto delle attività di estrazione sulla vita di un
adolescente: "E' difficile combinare il lavoro nelle buche con la scuola. Si perde la cognizione
del tempo. Poi un giorno mi sono ammalato e ho provato dolore in tutto il corpo".
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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La World Bank... e le "briciole" in Tanzania. La Banca Mondiale e altri donatori che
sostengono il settore minerario - dice HRW nel suo rapporto - dovrebbero ora incoraggiare
misure per porre fine al lavoro minorile nel settore minerario, per ridurre l'esposizione al
mercurio di bambini e adulti. "Ad esempio - si legge nella relazione - dovrebbero aiutare i
bambini nel passaggio dal lavoro alla scuola e assicurare che le miniere con nuova licenza
non utilizzino i ragazzini. Al contrario, nei 55 milioni di dollari della World Bank, per
sostenere il settore minerario in Tanzania, non c'è neanche 1 dollaro per affrontare
direttamente il fenomeno del lavoro minorile". L'ingresso nel grande mercato mondiale.
Come sempre accade in Africa (ma non solo) le attività estrattive più o meno legali, più o
meno estese, che sfruttano fino all'inverosimile il lavoro delle popolazioni locali, hanno la
grave responsabilità di non garantire mai che a beneficiare delle ricchezze ricavate dalla
terra siano, anche solo indirettamente, i cittadini che in quella terra risiedono. Secondo il
governo della Tanzania, i piccoli minatori estraggono circa 1,6 tonnellate d'oro nel 2012, per
un valore di circa 85 milioni di dollari. Ma dalle interviste fatte da Human Rights Watch si
apprende che l'oro estratto dai bambini finisce tutto nelle mani di piccoli commercianti che
acquistano oro direttamente nelle piccole miniere, per poi venderlo a grandi operatori
internazionali. L'oro passa attraverso diversi intermediari prima di raggiungere gli
esportatori. Le destinazione finali dell'oro delle "miniere dei bambini" sono prevalentemente
gli Emirati Arabi, la Svizzera, il Sud Africa, la Cina, il Regno Unito.
http://www.repubblica.it/solidarieta/diritti-umani/2013/08/23/news/tanzania-
65187141/
1861-1876: La “Destra storica” al potere
I quindici anni successivi all’unificazione italiana furono dominati dalla “Destra storica”. Gli
uomini della Destra storica provenivano prevalentemente dall’aristocrazia terriera. I suoi
esponenti (Bettino Ricasoli, Marco Minghetti e Quintino Sella) formavano un gruppo sociale
omogeneo e rappresentavano i gruppi dell’aristocrazia favorevoli alla soluzione unitaria e
monarchica del Risorgimento e l’alta borghesia finanziaria ed agraria. Alla Destra storica si
contrappose la Sinistra, cioè il raggruppamento liberal-progressista nato dall’unione della
Sinistra monarchico costituzionale del Parlamento piemontese, guidata da Agostino Depretis,
con democratici di provenienza mazziniana o garibaldina (Benedetto Cairoli, Francesco Crispi,
Giovanni Nicotera, Giuseppe Zanardelli). La “Sinistra storica” era invece formata da
mazziniani e garibaldini. La Sinistra storica, caratterizzata da un’impostazione più
democratica, era espressione di una componente sociale più ampia e diversificata
(prevalentemente la borghesia cittadina).
La “piemontesizzazione” dell’Italia
Il primo problema che il governo della Destra storica (guidato da Bettino Ricasoli ) dovette
affrontare fu la scelta dell’assetto amministrativo da dare al Paese. Le alternative erano:
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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- un modello di Stato accentrato, sull’esempio della Francia, con la sua struttura gerarchica
che prevedeva un forte controllo del governo centrale sugli enti locali, attraverso i prefetti
nominati dal governo.
- un modello di Stato decentrato, sull’esempio della Gran Bretagna, dove le varie contee
godevano di ampie libertà amministrative e giudiziarie
Venne scelto il modello di Stato accentrato. L’Italia venne divisa in province ed il governo
nominò per ogni provincia un suo rappresentante: il prefetto (un funzionario del Ministero
degli interni dotato di poteri di decisione su tutti i settori centrali della società, dalla
amministrazioni locali all’istruzione, dalla sanità all’ordine pubblico). Anche i sindaci dei
comuni erano nominati dal governo e ad esso rispondevano; i comuni non godevano così di
alcuna autonomia. L’Unificazione legislativa e amministrativa, ultimata nel 1865, fu
accompagnata da una serie di provvedimenti che miravano ad uniformare gli ordinamenti
economici e ad accelerare la creazione delle infrastrutture essenziali per un Paese che voleva
imboccare la strada della modernizzazione. Importante fu l’unificazione doganale, realizzata
estendendo a tutto il Paese le basse tariffe piemontesi.
Altra misura importante fu l’incremento della rete viaria e ferroviaria, indispensabile per
realizzare l’unificazione dei mercati della penisola. La classe politica al potere, la Destra
storica, era contraria ad uno sviluppo industriale perché riteneva che l’Italia, essendo povera
di materie prime, non avesse i requisiti adatti; inoltre temeva che il sorgere dell’industria,
creando una classe operaia, potesse generare enormi problemi sociali. Preferì quindi
assegnare all’Italia la funzione meno avanzata di paese agricolo - commerciale
(l’agricoltura, fra l’altro, era ancora fortemente arretrata soprattutto al centro-sud).
Gli uomini della Destra erano convinti della necessità di uno sforzo per raggiungere il
pareggio di bilancio, in modo da presentare l’Italia alla comunità internazionale come uno
Stato affidabile ed attrarre così capitali stranieri indispensabili per lo sviluppo economico del
Paese. La ricerca del pareggio di bilancio venne perseguita soprattutto attraverso lo
strumento fiscale. Il peso delle imposte crebbe in pochi anni suscitando malcontento e
rivolte. Fu soprattutto l’aumento delle imposte indirette (quelle che gravavano sui consumi di
tutti i cittadini) a suscitare questo tipo di reazioni: nel 1868 la tassa sul macinato (come già
detto nelle pagine precedenti della dispensa) suscitò manifestazioni di piazza che furono
represse con la violenza.
I governi della Destra favorirono in tutti i modi il libero scambio:
- sia all’interno del Paese, abolendo le dogane interne;
- sia all’esterno del Paese, applicando a tutta l’Italia le tariffe doganali piemontesi, tra le più
basse d’Europa.
Spremendo il Paese con la pressione fiscale, la Destra era riuscita nel suo intento di ottenere la
parità di bilancio, garantendo credibilità e prestigio internazionale per l’Italia. Tuttavia la sua
azione economica aveva avuto anche pesanti risvolti negativi:
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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- la costituzione di un unico mercato interno aveva messo in crisi l’economia
meridionale, più debole di quella del Nord;
- il libero scambio con le nazioni più avanzate aveva esposto la giovane industria italiana ai
rischi della concorrenza straniera, con esiti negativi.
A questi aspetti negativi, che determinarono divisioni all’interno della Destra storica, si
aggiunse la questione del “riscatto delle ferrovie”
Il “riscatto delle ferrovie”
Nel 1876 la Destra cominciò a mostrare segni di squilibrio al suo interno. I dissensi
culminarono nel contrasto sulla questione del “riscatto delle ferrovie”, che nel 1865 erano
state date in concessione a quattro società private. La maggioranza della Destra avrebbe
voluto che lo Stato acquistasse le strade ferrate assumendosi la loro gestione in
considerazione della natura pubblica del servizio; a questa soluzione però era contrario il
gruppo della destra Toscana (alcuni dei cui capi avevano stretti legami d’affari con le società
ferroviarie). Fu proprio l’allineamento dei moderati toscani alle posizioni della Sinistra a
provocare nella votazione del 18 marzo 1876 la caduta dell’ultimo ministero della Destra e la
formazione del primo ministero della Sinistra, diretto da Agostino Depretis.
1876-1896: La Sinistra storica al potere
Caduto il governo Minghetti, nel marzo del 1876, il re affidò ad Agostino Depretis, capo
dell’opposizione, l’incarico di formare un nuovo governo. Pochi mesi dopo, quando si tennero
le elezioni vinse la Sinistra storica, che governò il Paese per vent’anni. La Sinistra che salì
allora al potere aveva molto ridimensionato la sua originaria visione democratica e
comprendeva al suo interno molti esponenti moderati. Depretis fu presidente del consiglio
fino al 1887.
Le principali azioni del suo governo furono:
1) la lotta contro l’analfabetismo: nel 1861 in Italia gli analfabeti erano il 78%. Nel 1859
era stata varata in Piemonte la legge Casati che prevedeva l’istruzione elementare
gratuita con frequenza obbligatoria per i primi due anni. La legge Casati fu estesa poi
all’Italia Unita. Tuttavia la sua applicazione fu difficile a causa della mancanza di scuole
e di insegnanti preparati. Nel 1877 il governo Depretis varò la legge Coppino che
elevava l’obbligo scolastico fino a 9 anni di età (rendeva gratuita l'istruzione
elementare e introduceva le sanzioni per chi disattendesse l'obbligo). Furono inoltre
creati asili d’infanzia e scuole serali per permettere agli adulti di leggere e scrivere.
Tuttavia in molta parte d’Italia continuavano a mancare scuole e maestri e, a causa
della diffusa povertà, molti genitori rifiutavano di mandare i propri figli a scuola.
2) abolizione della tassa sul macinato
3) riforma elettorale (1882) Rimane il suffragio censitario maschile, ma:
a. si abbassa l’età degli aventi diritto (da 25 a 21 anni);
b. si dimezzano i requisiti legati al reddito (da 40 a 20 lire annue di imposte pagate);
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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c. viene introdotto tra i requisiti richiesti quello di aver frequentato la scuola
elementare. In tal modo gli aventi diritto al voto passano dal 2% al 7% della
popolazione (25% dei maschi adulti).
In quei decenni l’Italia mantenne i suoi connotati rurali con un’agricoltura caratterizzata da
profonde differenziazioni e gravi difficoltà. Nella Valle padana continuò a guadagnare
terreno la grande azienda capitalistica grazie anche ai lavori di bonifica delle residue zone
paludose. Nelle terre così coltivate si impiantarono colture specializzate e in particolare quella
della barbabietola che avrebbe permesso poi il decollo di una moderna industria zuccheriera
favorita da una forte protezione doganale. Questi processi rafforzarono le grandi aziende a
spese dei piccoli proprietari che portarono all’immiserimento dei contadini. Segno rilevatore
della condizione di miseria che opprimeva le persone furono le grandi migrazioni.
4) Il trasformismo
Nel 1882 la Sinistra storica vince le elezioni, ma la Destra ottiene un buon risultato e per la
prima volta viene eletto un deputato socialista (Andrea Costa). In seguito a questo
risultato i leader degli schieramenti opposti, Depretis e Minghetti, si accordarono per
costruire un’ampia formazione politica di centro che isolasse le “ali estreme” del
Parlamento, da un lato i conservatori e reazionari di Destra, dall’altro la nuova Sinistra,
definita Estrema (quella socialista e radicale). In realtà il trasformismo portò a costituire
maggioranze diverse a seconda della legge da approvare.
L’economia
Negli anni ’70 sorsero le prime grandi industrie italiane (gli stabilimenti chimici Pirelli, le
acciaierie Terni, le officine metallurgiche Breda) anche se l’economia agricola rimaneva
comunque di gran lunga prevalente.
Dal 1880 si fecero sentire gli effetti della “grande depressione” di fine ‘800, un periodo di
grave deflazione che colpì l'economia del mondo capitalistico e che aveva avuto inizio nel
1873 dopo anni di incessante crescita economica determinata dalla seconda rivoluzione
industriale (di cui parleremo nelle pagine a seguire). Il fenomeno più appariscente fu la forte
caduta dei prezzi, in particolare dei manufatti, cui si accompagnò una marcata riduzione dei
profitti e una stagnazione degli investimenti fissi. Agrari ed industriali reagirono alla crisi
chiedendo una protezione doganale alle merci italiane per arginare l’invasione dei prodotti
stranieri. Il governo della Sinistra che, come quello della Destra storica, era stato fino ad allora
liberoscambista, accolse queste richieste, adottando alte tariffe doganali sul grano e su vari
prodotti industriali. Ovviamente i paesi stranieri reagirono alzando i dazi sui prodotti italiani.
Il protezionismo doganale ebbe effetti positivi sui prodotti della giovane industria italiana, ma
con l’aumento del prezzo del grano (quindi del pane) determinò un grave peggioramento
delle condizioni di vita delle masse popolari. Per molti (come già abbiamo visto nelle pagine
precedenti della dispensa) l’emigrazione fu una scelta obbligata. Inoltre il protezionismo ebbe
effetti negativi sull’agricoltura del Sud, in quanto determinò la crisi dell’agricoltura
specializzata (vino, olio, agrumi) che non trovò più sbocco in Europa a causa della ritorsione
degli altri Paesi.
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Al nord ci fu una crescita del settore industriale, in particolare quello tessile e siderurgico (è
proprio nel 1899 che Giovanni Agnelli con l’aiuto di altri soci crea a Torino il più importante
gruppo finanziario e industriale privato italiano, la Fiat: Fabbrica Italiana Automobili Torino).
Questo tipo di sviluppo portò a parlare agli inizi del 1900 di “decollo industriale”; settori
interessati: settore tessile (fra le industrie tessili, altamente meccanizzate e favorite dalle
tariffe doganali, raggiunsero un forte sviluppo i cotonifici lombardi, piemontesi e napoletani, i
setifici comaschi, milanesi e bergamaschi. Questo prodotti venivano esportati verso i paesi
dell’europa orientale, dell’asia e dell’America Latina), settore siderurgico (aiutato
finanziariamente dallo Stato con una crescita di 15 volte la produzione di acciaio fra il 1869 ed
il 1916 ed il rafforzamento e la nascita di nuovi gruppi come Ilva, Ansaldo collegati alle banche
e alla cantieristica); settore meccanico (che riuscì a soddisfare la domanda interna di
locomotive, caldaie, macchine e che colse con tempestività le occasioni offerte dalla nascita
della bicicletta, automobile, motocicletta con gruppi come Fiat, Alfa, Bianchi). Nello specifico
lo sviluppo di questi tre settori portò a parlare di “triangolo industriale” (Milano, Torino e
Genova); ci fu così la crescita di un proletariato di fabbrica. Si determinò un irrobustimento
delle classi medie che portò alla crescita del ceto borghese.
Altri settori interessati furono: industria laniera (l’industria della lana, già affermata a Biella
e a Schio, vide moltiplicare le sue imprese non solo nell’Italia settentrionale ma anche in
Toscana, dove Prato divenne centro di pregiate tessiture), industria alimentare e della
gomma (ebbero un grande sviluppo l’industria dello zucchero, saccarifera Eridania). Fama
mondiale, inoltre, acquisì l’industria della gomma iniziata con la fondazione della Pirelli nel
1872 e di alcune industrie ceramiche come la Ginori a Firenze), industriale dell’automobile
e navale (oltre alla Fiat, che abbiamo già citato, grande impulso ebbero i cantieri navali
Ansaldo a Sestri Ponente e Orlando a Livorno), industria chimica, farmaceutica e
cinematografica (fra le industrie chimiche e farmaceutiche ci furono la Montecatini, fondata
a Firenze, e la milanese Carlo Erba. Importante ai fini dell’agricoltura fu la produzione di
fertilizzanti. Prima dello scoppio della guerra del ’15-’18 ottenne una brillante affermazione
anche la nostra industria cinematografica. Le banche avevano avuto un ruolo determinante
nell’indirizzare i risparmi privati verso i settori produttivi), sfruttamento risorse idriche (per
un Paese povero di materie prime come il nostro, questo fu un settore di sviluppo. L’ingegno
dei nostri imprenditori seppe rimediare alla mancanza di combustibili per l’industria con lo
sfruttamento delle risorse idriche fornite dai fiumi delle Alpi e degli Appennini), il
commercio (lo sviluppo del commercio intensificò lo scambio di merci sia sul mercato
interno sia su quello esterno. Il valore delle merci scambiate con paesi stranieri triplicò fra il
1870 ed il 1915), l’igiene urbana (si diffuse l’acqua corrente e migliorò la rete fognaria che
fece diminuire malattie infettive come il colera, il tifo e le infezioni gastroenteriche, mentre
diminuiva anche la mortalità infantile), l’aumento demografico (l’Italia, che all’inizio
dell’800 contava 18milioni di abitati, nel 1914 ne contava 36milioni; questo aumento
demografico confermava il miglioramento generale delle condizioni di vita ma rendeva
sempre più difficile il problema di assicurare a tutti pane e lavoro).
La politica estera: la Triplice Alleanza e le prime avventure coloniali
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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Tradizionalmente alleata della Francia e ostile all’Austria l’Italia governata dalla Sinistra
storica operò una brusca svolta nei rapporti internazionali. La causa fu l’occupazione
francese della Tunisia (1881). Da tempo l’Italia guardava con interesse a quel Paese, dove
risiedeva una folta comunità di connazionali. Il successo francese era stato favorito
dall’isolamento internazionale dell’Italia. Per uscire da tale isolamento e per ripicca nei
confronti della Francia, l’Italia stipulò nel 1882 un’alleanza con l’Austria e con la Germania
(la Triplice Alleanza). Si trattava di un accordo di natura difensiva: Italia, Austria e
Germania si impegnavano ad intervenire in aiuto reciproco solo in caso di aggressione da
parte di altri paesi.
Il governo Crispi
Nel 1887 Depretis morì. Gli succedette Francesco Crispi, il primo uomo meridionale a
diventare presidente del consiglio. Dopo l’unificazione abbandonò le idee repubblicane e
divenne sostenitore della monarchia. Rimase al potere quasi ininterrottamente tra il 1887 e il
1896. Con l’appoggio del nuovo re Umberto I (figlio di Vittorio Emanuele II, governò dal 1878
al 1900) accentrò su di sé le cariche di presidente del consiglio, ministro degli Interni e
ministro degli Esteri. Mai nessuno nell’Italia postunitaria aveva concentrato nelle sue mani
tanto potere. In politica estera il suo orientamento ostile alla Francia lo portò a consolidare
l’alleanza con la Germania. La Francia reagì introducendo una tariffa doganale molto pesante
sui prodotti italiani, alla quale Crispi rispose innalzando del 50% le tariffe sui prodotti
francesi. Ebbe così inizio una “guerra doganale” che causò una netta diminuzione delle
esportazioni italiane in Francia (- 40%). Poiché la Francia era il nostro primo partner
commerciale e il principale acquirente dei prodotti agricoli del nostro Mezzogiorno, ad
essere danneggiata fu soprattutto l’economia del Sud.
Sotto il governo Crispi, nel 1889, venne promulgato un nuovo codice penale, il codice
Zanardelli (dal nome dell’allora ministro di Grazia e Giustizia). Con esso veniva abolita la
pena di morte, ancora in vigore nei principali Stati europei, e si riconosceva una limitata
libertà di sciopero.
La politica coloniale: sempre nel 1889 Crispi firmò con Menelik, imperatore d’Etiopia, il
Trattato di Uccialli. Tale trattato fu redatto in due lingue: la versione italiana riconosceva i
possedimenti italiani in Eritrea e il protettorato italiano su Etiopia e Somalia. La versione in
lingua locale (amarico) parlava di un semplice patto di amicizia e come tale fu interpretato il
trattato da Menelik. L’intenzione di Crispi era quella di riprendere l’espansione coloniale,
ma questo progetto non fu accolto dal Parlamento e Crispi fu costretto alle dimissioni (1891).
Il primo governo Giolitti
Il successore di Crispi, Giovanni Giolitti, dovette subito affrontare un grave problema di ordine
pubblico: lo scoppio in Sicilia di un moto di protesta popolare detto dei fasci siciliani. Il
movimento comprendeva operai, artigiani, minatori e contadini che protestavano contro le
pesanti tasse del governo e contro i latifondisti, rivendicando una più equa distribuzione delle
terre. Giolitti decise di affrontare la questione con prudenza, senza fare ricorso a misure
repressive. Ciò lo fece apparire agli occhi di molti un presidente del Consiglio debole.
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Lo scandalo della Banca romana
Si tratta del più grande scandalo politico e finanziario che abbia colpito l’Italia unita. La B.R.
era uno dei sei istituti autorizzati dallo Stato a battere moneta. La legge assegnava a ciascuna
banca un preciso numero di banconote da stampare e mettere in circolazione. Negli anni ’80 si
cominciarono a notare delle anomalie relative al numero di biglietti circolanti stampati dalla
B.R. Nel 1889 un’indagine condotta dal senatore Giacomo Alvisi su iniziativa del ministro
dell’agricoltura, industria e commercio, Luigi Miceli, portò alla luce un fatto gravissimo:
esisteva una serie duplicata di banconote che la B.R. aveva messo in circolazione utilizzandola
come fondi neri per finanziamenti occulti. La truffa era stata ideata dal governatore della
banca, Bernardo Tanlongo: ogni banconota era contrassegnata da una lettera e da un numero;
stampando lo stesso numero su due biglietti diversi si era ottenuto il raddoppio della
circolazione monetaria. Il senatore Alvisi propose di discutere la sua relazione in Parlamento,
ma il governo decise di porvi il segreto di Stato. Alvisi morì improvvisamente e
misteriosamente. Addirittura l’anno successivo Giolitti propose di nominare Tanlongo
senatore. Prima di morire Alvisi, prevedendo l’atteggiamento del governo, mise a conoscenza
delle sue scoperte alcune persone a lui vicine, le quali le trasmisero al parlamentare
Napoleone Colajanni. Quest’ultimo denunciò alla Camera la questione della falsificazione e dei
finanziamenti occulti della B.R. Venne avviata una commissione d’inchiesta che portò
all’arresto di Tanlongo. Si avviò anche un duro scontro politico tra Crispi e Giolitti. Giolitti,
protettore di Tanlongo, non aveva mai ricevuto finanziamenti dalla B.R.; Crispi, la moglie e
altri suoi familiari invece sì. Giolitti presentò al presidente della Camera dei documenti che
provavano le responsabilità di Crispi, il quale negò tutto con violenza. Sostenuto dal re lo
statista siciliano tornò a guidare il governo alla fine del 1893. Si sparse allora la voce che
avrebbe fatto arrestare Giolitti con l’accusa di aver sottratto documenti all’indagine
giudiziaria. Giolitti fuggì a Berlino mentre dei giudici assolsero Bernardo Tanlongo. Intanto
tutto il sistema bancario venne riformato con la concentrazione delle emissioni in un unico,
nuovo istituto: la Banca d’Italia.
Il ritorno di Crispi
Tornato al potere, Crispi represse militarmente il movimento di protesta siciliano.
Successivamente tornò a rivolgersi alla politica coloniale con la pretesa che l’Etiopia
rispettasse la versione italiana del trattato di Uccialli. Il rifiuto di Menelik portò all’invasione
italiana del paese. Per l’Italia la spedizione militare si risolse in un completo disastro:
sconfitti ad Amba Alagi (1895), poi a Maccalè (1896), nel marzo 1896 16.000 soldati italiani si
scontrarono con 70.000 abissini nei pressi di Adua. Fu una carneficina: 7.000 italiani rimasero
uccisi, 3.00 furono fatti prigionieri. Travolto dalle critiche Crispi fu costretto a rassegnare le
dimissioni e a ritirarsi per sempre dalla vita politica. L’Italia fu allora costretta a firmare un
nuovo trattato in cui, rinunciando ad ogni pretesa sull’Etiopia, accettava di limitare il proprio
dominio coloniale a Somalia ed Eritrea.
La crisi di fine secolo
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Intanto nel Paese continuava a dilagare la crisi economica. Nel 1898 un improvviso
innalzamento del prezzo del pane provocò una ondata di manifestazioni che percorse l’Italia
intera. La più grave si ebbe il 6 maggio 1898, a Milano, quando il generale Fiorenzo Bava
Beccaris ordinò ai soldati di cannoneggiare la folla che protestava. I morti furono un centinaio.
Molti dirigenti dell’opposizione, soprattutto socialisti, furono arrestati, la libertà di stampa fu
decisamente limitata. Bava Beccaris fu elogiato dal governo e dal re Umberto I che lo decorò
con un’importante onorificenza militare. Il nuovo capo del governo Luigi Pelloux tentò di far
approvare una serie di norme che restringevano notevolmente le libertà di stampa e di
riunione, ma il suo progetto fallì grazie alla decisa azione dell’opposizione. Pelloux fu costretto
a dimettersi e le nuove elezioni (1900) diedero buoni risultati per l’opposizione, in particolare
per i socialisti. Nel luglio 1900 l’anarchico Gaetano Bresci, per vendicare i morti di Milano,
uccise, a Monza, il re Umberto I. In questa drammatica situazione il nuovo re Vittorio
Emanuele III decise di affidare il nuovo governo a Giuseppe Zanardelli, l’autore del nuovo
codice penale. A fianco di Zanardelli vi era Giovanni Giolitti. Giolitti fu Ministro del governo
Zanardelli dal 1901 al 1903 e poi, dopo la morte di questi, capo del governo quasi
ininterrottamente fino alla primavera del 1914.
Le riforme Zanardelli
Il governo di Zanardelli fu di transizione tra il vecchio e il nuovo, tra la vecchia Italia
dell'Ottocento e la nuova Italia del Novecento. Chiamando a collaborare al ministero Giolitti,
Zanardelli aprì la via alla nuova politica italiana. Operò nel campo della politica interna molte
riforme sociali (soprattutto quella che riguardava le contribuzioni erariali come, per esempio,
l'abolizione del dazio sulle farine), che contribuirono ad alleviare le condizioni disagiate delle
classi non abbienti. In politica estera, il suo ministero del 1901-03 significò non solo la
continuazione, ma anzi l'accentuazione dell'indirizzo dei suoi immediati predecessori, nel
senso di conservare alla Triplice Alleanza un valore puramente difensivo.
Giolitti
Succeduto a Zanardelli nel 1903, Giolitti domina la scena politica fino al 1914 guidando tre
ministeri; per avere più consenso fra la popolazione Giolitti cominciò il passaggio dallo Stato
liberale allo Stato democratico cioè da uno Stato in cui le masse erano escluse dalla
partecipazione diretta alla vita politica ad uno Stato in cui anche il popolo aveva voce in
capitolo grazie al diritto di voto (grazie a Giolitti si arrivò infatti al Suffragio universale
maschile nel 1912).
Ecco in modo schematico alcune delle principali riforme di Giolitti:
1. 1903 Statizzazione del servizio telefonico
2. Le ferrovie, che prima venivano gestite da privati, vengono ora gestite dalla Stato
(Statizzazione delle ferrovie avvenne nel 1905)
3. Occupazione della Libia (nel 1911, dopo le prime vittorie, gli italiani combatterono
contro l’esercito Turco, da cui formalmente dipendeva la Libia; fu una vera strage. Alla
fine, con il Trattato di pace di Losanna del 1912 viene riconosciuta l’annessione della
Libia all’Italia; nonostante tutto la guerra delle popolazioni libiche contro l’Italia
continuò)
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4. Nel 1912 viene fatto il Suffragio universale maschile che metteva così l’Italia in linea
con i più progrediti paesi europei (avevano diritto di voto i cittadini maschi sopra i 21
anni alfabeti o che avessero prestato il servizio militare ed a tutti i cittadini maschi
sopra i 30 anni)
Gli anni giolittiani videro la crescita di due movimenti politico-sociali di massa: quello
socialista e quello cattolico. L’ascesa del socialismo a forza politica nazionale poggiò sulla
scelta giolittiana favorevole ad una evoluzione democratica del paese e dall’altra
sull’affermazione in seno al Partito socialista del gruppo dirigente riformista di Filippo Turati
e Claudio Treves. I Riformisti formularono un giudizio analogo a quello di Giolitti sulla
situazione dell’Italia e sulle linee del suo sviluppo, così che fra riformismo e giolittismo si
venne a creare uno stretto rapporto. Secondo Turati e la sua corrente, l’avvento al potere di
Giolitti aveva creato le condizioni più adatte non solo per la crescita del movimento operaio
ma anche per un’evoluzione “naturale” verso il socialismo. Saliva così in primo pianola
prospettiva di un cammino graduale che attraverso le riforme cambiasse i caratteri della
società nazionale attraverso l’allargamento della legislazione sociale. Il limite principale del
riformismo fu però la poca attenzione data alla “questione meridionale”. I socialista basavano
infatti il loro programma agrario sulla “socializzazione” (significa: la proprietà e la gestione
collettive) della terra: un qualcosa che bene si adattava alle aspirazioni delle masse
bracciantili del nord (fatte ormai di “operai” agricoli) ma non a quelle dei piccoli proprietari,
affittuari e coloni del mezzogiorno nei quali era forte il desiderio di possesso della terra.
Contro gli ideali di Turati si schierava il sindacalismo rivoluzionario, una corrente che
(guidata da Arturo Labriola) insisteva sul ruolo autonomo del sindacato visto come un
organismo capace di creare dal basso e con un processo rivoluzionario le istituzioni operaie
che avrebbero dovuto sostituire allo “Stato borghese” il governo autonomo dei produttori. Nel
1904 i gruppi di sinistra conquistarono la maggioranza e proclamarono nello stesso anno uno
sciopero generale (il primo sciopero della storia italiana) per protestare contro l’intervento
della forza pubblica in alcuni sciopero che avevano causato cinque morti. Approfittando del
disordine causato dallo sciopero tra i ceti borghesi, Giolitti sciolse la Camera e indisse nel
novembre 1904 nuove elezioni che si conclusero con una diminuzione del numero di socialisti
alla Camera. La crisi attraversata dal sindacalismo rivoluzionario dopo il fallimento dello
sciopero generale contribuì a rafforzare le strutture sindacali che nel 1906 si concentrarono
nella CGL (Confederazione Nazionale del Lavoro). In quel periodo il Partito socialista italiano
(PSI) si lacerò al suo interno. La condanna dei socialisti contro la guerra in Libia provocò
infatti nel 1912 l’espulsione di Bonomi, Bissolati e dei loro amici che avevano approvato
l’iniziativa militare del governo Giolitti. In questi stessi anni prese nuovo vigore la corrente
intransigente, ostile alla politica giolittiana e decisa a riaffermare la funzione rivoluzionaria
del socialismo senza scendere a compromessi con le istituzioni borghesi. Sui nuovi
orientamenti ebbe forte influenza Benito Mussolini, un socialista (diventato nel 1912
direttore del quotidiano ufficiale del PSI, l’Avanti) antigiolittiano che fece appello al
movimento spontaneo delle masse. Significativa, per capire il fermento sociale del tempo, fu
“la settimana rossa”; fra i 7 ed il 14 giugno 1914 ci furono proteste in molte città italiane per
l’uccisione da parte della forza Pubblica ad Ancona di tre dimostranti in occasione di una
manifestazione contro il militarismo. In età giolittiana si sviluppò pure la Democrazia
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cristiana costituita dalle “leghe bianche” (chiamate così per distinguerle da quelle rosse,
socialiste), una fitta rete di associazioni sindacali. Significativo fu l’accordo fra cattolici e
liberali moderati risalente alle elezioni dell’ottobre 1913 (le prime a suffragio universale). In
quell’occasioni Giolitti ebbe bisogno del sostegno dei cattolici per fronteggiare l’avanzata dei
socialisti. Fu fatto così il patto Gentiloni, un accordo voluto da Giolitti in occasione delle
elezioni politiche italiane del 1913, che impegnava i cattolici a sostenere, nelle elezioni
politiche, i candidati liberali contrari a misure anticlericali.
La nuova maggioranza fu però difficile da gestire (i cattolici entrarono nella vita politica
italiana decisi ad affermare la propria autonomia e poco disposti a lasciarsi inserire in
maniera subalterna nei disegni di Giolitti; inoltre era diventata forte l’insofferenza della
borghesia produttiva contro Giolitti) e Giolitti preferì dimettersi nel marzo del 1914
favorendo la formazione di un ministero capeggiato da Salandra (esponente destra liberale
meridionale). Sintomo più evidente della crisi che corrodeva il sistema giolittiano fu
l’irruzione del nazionalismo; i nazionalisti, antisocialisti e antidemocratici, insistevano
sull’idea di uno Stato forte e di una Nazione destinata ad una politica estera di stampo
imperialistico (l’Associazione nazionalistica italiana era stata fondata qualche anno prima ,
1910, a Firenze a seguito del primo congresso dei nazionalisti italiani che già da alcuni anni si
identificavano nel fondatore dell'Associazione, Enrico Corradini. Nel 1923, poi, questa
Associazione confluirà nel Partito Nazionale Fascista).
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Mettiamoci alla prova!
1) Quando si concluse il processo di unificazione italiana?
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2) Cosa si intende per suffragio censitario?
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3) Fino a quando rimase in vigore lo Statuto Albertino in Italia?
________________________________________________________________________________________________________
4) Lo Statuto Albertino era una carta ottriata e flessibile. Cosa si intende con queste due
espressioni?
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5) Cosa si intende per questione meridionale?
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6) Quali furono le cause che determinarono il brigantaggio?
________________________________________________________________________________________________________
7) Quale legge emanò lo stato per soffocare il fenomeno del brigantaggio?
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8) Completa la linea del tempo posta di seguito, indicando le tappe dei “nodi cruciali” del
fenomeno migratorio italiano
9) Cosa si intende per economia delle rimesse?
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________________________________________________________________________________________________________
10) Quale tematica affronta il giornalista Adolfo Rossi nell’articolo, tratto da “La Tribuna”,
che abbiamo riportato nelle pagine precedenti?
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11) Negli anni dell’Italia postunitaria, quanti anni governò la Destra Storica?
________________________________________________________________________________________________________
12) Che tipo di modello di Stato scelse la Destra Storica?
________________________________________________________________________________________________________
13) Cosa si intende per “riscatto delle ferrovie”?
________________________________________________________________________________________________________
14) Quali furono i principali interventi fatti dal governo di Sinistra?
________________________________________________________________________________________________________
15) Quali furono le principali riforme di Giolitti?
________________________________________________________________________________________________________
16) Quando e da chi fu creata l’Associazione Nazionalistica Italiana?
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Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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La II rivoluzione industriale
Prima di concludere il periodo storico inerente l’Italia postunitaria, volgiamo lo sguardo verso
un fenomeno che interessò gli ultimi tre decenni dell’800 e che gli storici sono soliti definire II
rivoluzione industriale. La II rivoluzione industriale con le sue scoperte determinò un
“ribaltamento” in tutti i settori della società; anche la letteratura, attraverso il “metodo
scientifico” adottato dai naturalisti in Francia e dai veristi in Italia, fu espressione di questi
cambiamenti.
Definizione di rivoluzione
Con la parola “rivoluzione” si indica in genere un “ribaltamento”, un capovolgimento totale da
una realtà ad un’altra. Per rivoluzione industriale si intende un processo di trasformazione
economica che da un sistema agricolo-artigianale-commerciale porta ad un sistema
industriale moderno caratterizzato:
1) dall'uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica
2) dall'utilizzo di nuove fonti energetiche (come ad esempio il petrolio e l'elettricità)
3) dalla diffusione della fabbrica come principale luogo di produzione nel quale si
concentrano i mezzi di produzione (forza lavoro e capitale)
Ne consegue un notevole incremento, quantitativo e qualitativo, delle capacità produttive di
un Paese.
All'interno della più generica definizione di rivoluzione industriale va fatta una distinzione fra
prima e seconda rivoluzione industriale.
La I rivoluzione industriale
La prima, iniziata alla fine del settecento, partì dall’Inghilterra e riguardò prevalentemente il
settore tessile-metallurgico; comportò l'introduzione della macchina a vapore.
La II rivoluzione industriale
La seconda rivoluzione industriale, che sia pure in tempi diversi a seconda dei paesi, prese
avvio attorno alla metà del secolo XIX, si sviluppò con l'introduzione dell'elettricità, dei
prodotti chimici e del petrolio. La rivoluzione industriale comportò una profonda ed
irreversibile trasformazione che partì dal sistema economico fino a coinvolgere il sistema
produttivo nel suo insieme e l'intero sistema sociale. L'apparizione della fabbrica e della
macchina modificò i rapporti fra gli attori produttivi. Nacque così la classe operaia che
ricevette, in cambio del proprio lavoro e del tempo messo a disposizione per il lavoro in
fabbrica, un salario. Nacque anche il capitalista industriale, imprenditore proprietario della
fabbrica e dei mezzi di produzione, che mirava ad incrementare il profitto della propria
attività.
La seconda rivoluzione industriale si caratterizzò in modo incisivo rispetto alla prima perché
«più rapidi furono i suoi effetti, più prodigiosi i risultati che determinarono una
trasformazione rivoluzionaria nella vita e nelle prospettive dell'uomo.» La rivoluzione dei
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mezzi di trasporto modificò non solo la geografia fisica delle zone dove essa si verificò ma
anche la "geografia mentale" degli uomini, il loro modo di percepire lo spazio e il tempo. Iniziò
quel fenomeno che porterà, per effetto della contrazione dello spazio e del tempo,
(conseguenza dei nuovi più veloci mezzi di trasporto e comunicazione) alla globalizzazione
dei mercati, delle tecnologie e dei linguaggi, e in definitiva all’accelerazione della storia
dell'uomo.
Le innovazioni tecnologiche
Dal 1870 in poi, si ebbe in Europa e negli Stati Uniti uno sviluppo tecnologico senza
precedenti, che assicurò ai paesi Occidentali la supremazia tecnica in tutto il mondo. La
caratteristica che differenzia maggiormente la seconda rivoluzione industriale dalla
precedente sta nel fatto che le innovazioni tecnologiche non furono frutto di scoperte
occasionali ed individuali, bensì di ricerche specializzate in laboratori scientifici e nelle
università finanziate dagli imprenditori e dallo Stato per il miglioramento dell'apparato
produttivo. I settori in cui si ebbero i maggiori risultati furono quello agricolo, quello
manifatturiero e quello alimentare. Nel settore metallurgico giocarono un ruolo
fondamentale la realizzazione del Convertitore Bessemer e il Forno Martin-Siemens. Essi
permisero la realizzazione di macchine e utensili più robusti e resistenti del ferro che causava
problemi per la sua tendenza ad usurarsi rapidamente. Nel 1878 con l'adozione del "processo
Thomas" poterono essere utilizzati materiali di ferro con alta percentuale di fosforo. Fu
proprio questo metodo di defosforazione che consentì alla Germania ricca di questi minerali
di trasformarsi da paese agricolo a industriale sino a superare, con uno sfruttamento più
organizzato delle miniere dell'Alsazia e della Lorena e del bacino carbonifero della Ruhr, la
produzione delle acciaierie inglesi. L'acciaio permise nuove soluzioni nel campo della
meccanica e nel 1870 l'utilizzo del cemento armato in quello delle costruzioni. Novità
investirono anche il campo elettrico, soprattutto in Italia, con la costruzione della centrale
termoelettrica a carbone per opera di Galileo Ferraris.
Nel campo chimico, vi furono tra le industrie fortissime competizioni che portarono in
pochissimi anni alla scoperta di nuovi prodotti come fertilizzanti, coloranti sintetici,
ammoniaca, dinamite, soda e prodotti farmaceutici quali cloroformio, disinfettanti e
analgesici. Più lento fu invece lo sviluppo dell'apparato elettrico ancora in via di
sperimentazione ed ebbe un deciso incremento solo dopo il 1870, quando si produssero i
primi generatori (la dinamo e il motore elettrico, nonostante fossero già in uso da molto
tempo, risultarono poco convenienti e poco versatili per i processi produttivi). I progressi in
questo campo permisero la graduale diffusione della rete elettrica ad uso civile per
l'illuminazione (e successivamente l'utilizzo dei primi elettrodomestici) nelle case e nei luoghi
di lavoro. L'introduzione dell'elettricità come fonte di illuminazione delle città, molto più
efficiente di quella che utilizzava il gas illuminante, trasformò la vita dei cittadini rendendo
più sicure le strade e permettendo anche una vita notturna più intensa con la frequentazione
di punti d'incontro illuminati. La luce elettrica cambiò anche i ritmi di lavoro nelle fabbriche
dove prima la produzione cessava con il venir meno della luce diurna: gli operai poterono
lavorare in turni ininterrotti nelle 24 ore.
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Medicina
Fu soprattutto nel periodo della seconda rivoluzione industriale che vennero fatte numerose
scoperte in campo medico e scientifico; si trovò una difesa contro antichi flagelli come la
tubercolosi, la difterite, l'antrace, la peste, la lebbra, la rabbia, la malaria. Numerose
altre scoperte e invenzioni (come ad esempio lo stetoscopio) consentirono enormi progressi
nel campo della chirurgia e in generale delle condizioni igienico-sanitarie negli ospedali e
nella vita quotidiana delle famiglie. Un'altra decisiva scoperta nel settore medico-sanitario fu
l'adozione dell'anestesia a base di etere e cloroformio durante gli interventi chirurgici e
l'applicazione dei raggi x per le diagnosi interne. Questo complesso di scoperte e invenzioni
permise nel giro di pochi decenni di migliorare le condizioni igienico-sanitarie e alimentari di
gran parte delle popolazioni dei paesi industrializzati, di abbattere l'alto tasso di mortalità
infantile, e di innalzare notevolmente l'età media della popolazione e le aspettative di vita
delle persone. Tale evoluzione, unitamente alla maggiore disponibilità di risorse, condussero
nel giro di alcuni decenni ad un incremento esponenziale della popolazione.
Trasporti
I trasporti nella seconda metà dell'Ottocento divennero molto più sviluppati e complessi. Il
sistema ferroviario, uscito dalla fase pionieristica, ebbe un accrescimento senza precedenti.
L'enorme sviluppo del trasporto ferroviario rivoluzionò in breve tempo i commerci e la
possibilità di movimento delle popolazioni interessate, divenendo a sua volta un potente
elemento di accelerazione e moltiplicazione dello sviluppo economico delle aree raggiunte dal
servizio. La costruzione di ferrovie a raggio transcontinentale - la ferrovia New York San
Francisco (1862-1869), la transandina tra il Cile e l'Argentina (1910), la transiberiana (1891-
1904) Mosca-Vladivostok sul Pacifico e successivamente sino a Port Arthur sul Mar Giallo -
ebbe un'enorme influenza nello scambio delle merci poiché si ridussero notevolmente i costi
sino ad allora molto alti per il trasporto via terra. Inoltre in alcune delle più importanti città
Europee ed Americane, si ebbe la costruzione delle prime metropolitane, fra le quali quelle di
Londra e Parigi, che permetteva di spostarsi facilmente all'interno delle aree urbane,
enormemente accresciutesi già dopo la prima rivoluzione industriale.
Per quanto riguarda il sistema navale, grazie allo sviluppo della metallurgia e
all'introduzione dell'elica, si poterono costruire i primi scafi in ferro e successivamente in
acciaio, che permisero la costruzione dei robustissimi transatlantici.
Per i trasporti marittimi fu di enorme importanza la costruzione di canali come nel 1869
quello di Suez che in poco tempo determinò spostamento dei traffici tra l'Atlantico
settentrionale e l'oceano Indiano, lungo la rotta del Capo di Buona Speranza sostituita con
quella molto più breve del Mediterraneo e del Mar Rosso, ripristinando così l'importanza della
navigazione nel bacino mediterraneo come tramite tra l'Occidente e l'Oriente. Nel 1895 fu
completato il canale di Kiel che facilitò gli scambi tra Mar del Nord e il Baltico. Nel 1914 si
aprì il canale di Panama che mise in immediata comunicazione l'Atlantico e il Pacifico.
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Nel 1883 l'ingegnere tedesco Gottlieb Daimler brevettò il primo motore a benzina efficiente.
Pochi anni dopo apparve la prima vettura a benzina. L'invenzione dell’automobile si rivelerà
di straordinaria importanza, con effetti rivoluzionari sulle abitudini e lo stile di vita dei paesi
industrializzati; tali conseguenze, tuttavia, si avvertiranno in modo significativo solo a partire
dalla diffusione di massa dell'automobile, che inizierà successivamente, nei primi decenni del
XX secolo.
Comunicazioni
Parallelamente ai trasporti, anche le comunicazioni si fecero più veloci e intense. L'invenzione
del telegrafo prima e del telefono poi, permisero le prime comunicazioni
intercontinentali.
Nei primi anni del novecento l'avvento della radio avvierà una nuova era nel campo della
informazione che porterà notevoli conseguenze anche in campo sociale.
Telefono del 1896 prodotto in Svezia.
Il mutamento del rapporto tra agricoltura e industria
Gli aspetti più rilevanti della grande trasformazione economica e sociale connessa alla
seconda rivoluzione industriale si ebbero nella patria della prima: in Inghilterra dove masse
di popolazione si spostarono nelle città. Nel 1871 in Inghilterra il 35% della popolazione
lavorava nel settore agricolo, nel 1910 la manodopera agricola era scesa al 25%. Se la
produzione agricola non subì un vistoso calo questo fu dovuto alla meccanizzazione
dell'agricoltura che divenne "scientifica", anch'essa di tipo capitalistico ed industriale.
Nell'allevamento si cominciò a selezionare il bestiame e dove possibile si sostituì alla
cerealicoltura la coltivazione intensiva di frutta ed ortaggi.
L'urbanesimo
Alla fine del XIX secolo l’industria aveva quasi sostituito l’agricoltura, che fino ad allora era
stata la principale risorsa economica di molte Nazioni. Milioni di persone così vivevano e
lavoravano in enormi centri industriali dove le condizioni erano discutibili, la maggior parte
degli stabilimenti era male areata e male illuminata, il lavoro era spesso pericoloso, gli orari
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gravosi ed i salari molto scarsi. Peggio di tutti stavano però le donne ed i bambini, costretti a
lavorare in condizioni pressoché di schiavitù. Per andare incontro alle necessità dell’industria
furono introdotte delle innovazioni tecniche che permisero la nascita di grosse fabbriche che
trasformarono in pochi decenni i borghi di campagna in fumanti centri industriali. I contadini
e gli artigiani cercarono lavoro nel nuovo mondo industriale, divenuto ormai il carro trainante
dell’economia. Nei centri sorti intorno alle fabbriche la popolazione aumentò rapidamente a
causa soprattutto dell’immigrazione interna dei contadini dalle campagne. A tutto ciò, però,
non corrispose un adeguato e razionale sviluppo urbanistico, le città sorsero in modo
caotico, si costituirono nuove abitazioni ovunque vi fosse spazio, causando così l’aumento
smisurato ed incontrollato dei fitti. Le città industriali si trovarono così in pochi anni ad essere
circondate da enormi periferie sub-urbane, tetre e malsane, specialmente nel periodo
anteriore alle scoperte medico-scientifiche. La rapida diffusione di questi centri ne rese
impossibile la pianificazione, l’igiene era pressoché sconosciuta e la sovrappopolazione
favoriva sempre più la criminalità e le malattie. Solo negli ultimi decenni del XIX secolo le
amministrazioni delle grandi città iniziarono a pianificare interventi di ristrutturazione
urbanistica su larga scala, come ad esempio la grande trasformazione operata a Parigi durante
il Secondo Impero, che prevedevano talvolta anche l'abbattimento di interi quartieri fra i più
vecchi e fatiscenti, per far posto a zone ricostruite secondo schemi urbanistici più razionali,
rispondenti a canoni più moderni e funzionali. Fu proprio per la necessità di mettere ordine e
poter controllare queste enormi caotiche aree urbane che fra l'altro si iniziò in tutti i paesi
industrializzati ad introdurre sistematicamente i numeri civici nelle abitazioni e a
regolamentare in modo più rigoroso lo sviluppo delle reti stradali, fognarie e dei servizi
pubblici in generale.
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
La III rivoluzione industriale
La Terza Rivoluzione Industriale ha preso avvio intorno agli anni ‘50 e va avanti ancora
oggi. Trova il suo cardine nell'informatica e, in particolare, nella informatizzazione dei
processi produttivi. Se dovessimo fissare una data dovremmo risalire all'invenzione, nel
1948, del transistor, meno ingombrante ma più potente delle valvole con il quale
funzionavano le radio e le televisioni. Il transistor, insieme ai circuiti integrati e ai micro-
processori, ha permesso di miniaturizzare tutti gli strumenti elettronici.
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Il primo calcolatore elettronico nasce negli Stati Uniti nel 1946;: funzionava per mezzo
di 19 mila valvole ed aveva dimensioni molto ampie. Successivamente i microprocessori e
i circuiti integrati hanno permesso di ridurre le dimensioni ed aumentare la potenza, la
velocità e le funzioni del calcolatore. Negli anni '60 nascono i primi dispositivi in grado di
concentrare grandi quantità di energia in poco spazio, grazie al laser, che viene utilizzato
in medicina per le operazioni chirurgiche, in campo militare, per registrare e riprodurre
suoni, come ad esempio il compact disc. I primi personal computer entrarono in
commercio nel 1977, e si diffusero rapidamente. Lo sviluppo dei computer permise lo
sviluppo di due nuove tecnologie dell'informazione: quella informatica e quella
telematica.
Negli anni '70 e '80 comincia la diffusione di Internet, nato da un progetto militare
denominato Arpanet. Internet permette di far pervenire ad ogni persona che abbia un
computer qualsiasi informazione in tempo reale. Negli anni '90 Tim Berners-Lee, uno
scienziato inglese che lavorava a Ginevra, inventò il Word Wide Web (WWW), un sistema
che rivoluzionò il mondo di internet permettendo di collegare diverse informazioni
cliccando una parola o un'immagine: si trattava del collegamento ipertestuale, meglio
noto con il nome inglese di link. Nel corso del Novecento si assiste quindi ad un
sostanziale cambiamento nella vita quotidiana delle persone.
Quasi in ogni casa arrivava l'energia elettrica, e ciò permise una diffusione degli
elettrodomestici: I ferri da stiro elettrici sostituirono quelli riscaldati sulle stufe o sulle
braci ardenti; i frigoriferi domestici, i condizionatori e le lavatrici facilitarono il lavoro
casalingo e resero le abitazioni più pulite e confortevoli. Si diffusero i telefoni e le radio,
già comuni dagli anni Trenta. Il cinema divenne molto popolare e nel 1927 uscì il primo
film sonoro. A partire dagli anni Cinquanta-Sessanta il televisore divenne lo strumento
principale di comunicazione: veniva usato per diffondere cultura e informazione, ma fu
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anche un potente mezzo di istruzione. In questo periodo ci fu anche una trasformazione
del settore dei trasporti: si diffusero le utilitarie (In America già dal 1910, in Italia nel
1936, ma nel resto dell'Europa e in Giappone solo nel secondo dopoguerra). Dopo la
guerra gli aerei vennero utilizzati più largamente per il trasporto di merci e persone.
Negli anni Sessanta gli aerei a reazione vennero utilizzati per il trasporto di civili.
La trasformazione più recente è quella legata alla diffusione sempre più massiccia di
informatica e telematica. La Terza Rivoluzione Industriale è caratterizzata anche dallo
sviluppo di fonti di energia rinnovabili alternative a fonti come il petrolio e il carbone.
Queste energie, utilizzate per la produzione di energia elettrica, sono l'energia eolica,
l'energia solare, l'energia idroelettrica, l'energia mareomotrice, l'energia geotermica,
l'energia nucleare...
La IV rivoluzione industriale
Una quarta rivoluzione industriale è oggi alle porte, infatti l’applicazione di teorie basate
sulla fisica quantistica ha permesso ai ricercatori di raggiungere, nella scienza dei
materiali e nell’elettronica, dimensioni nano-metriche, corrispondenti a un milionesimo di
millimetro. Tale tecnologia prende il nome di nanotecnologia ovvero quel ramo della
scienza applicata e della tecnologia che si occupa del controllo della materia su una
scala dimensionale che varia in genere tra 1 e 100 nanometri, e della conseguente
progettazione e realizzazione di dispositivi in tale scala. La materia a queste dimensioni
assume caratteristiche fisico chimiche che possono essere radicalmente cambiate
attraverso l’opportuna manipolazione degli atomi che la compongono. Si vengono così a
creare nuove strutture con proprietà meccaniche, elettriche, termiche, notevolmente
migliorate rispetto agli stessi oggetti primitivi privi di manipolazione nanotecnologica.
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Mettiamoci alla prova!
1) Cosa si intende per “rivoluzione”?
________________________________________________________________________________________________________
2) Completa la frase posta di seguito:
La I rivoluzione industriale ha determinato il passaggio da una
___________________________________________ ad una _______________________________________________________
3) Quali settori ha interessato la I rivoluzione industriale?
________________________________________________________________________________________________________
4) Storicamente quando si fa iniziare la II rivoluzione industriale?
________________________________________________________________________________________________________
5) Completa lo schema posto di seguito, indicando i settori che hanno interessato la I, la II
e la III rivoluzione industriale
6) Storicamente quando si fa iniziare la III rivoluzione industriale?
________________________________________________________________________________________________________
7) Gli storici individuano come fenomeno ormai “alle porte” la IV rivoluzione industriale.
Quale settore interesserà?
________________________________________________________________________________________________________
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La I guerra mondiale
L’attentato di Sarajevo
Il 23 luglio 1914 l’Austria, accusando il governo serbo di complicità nell’attentato di
Sarajevo contro l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono austroungarico, gli
inviava un ultimatum con durissime condizioni. La Serbia respinse solo alcune di esse (da lei
definite inaccettabili) richiamandosi al giudizio delle grandi potenze. Tuttavia l’Austria non
volle sentir ragioni e con l’appoggio della Germania il 28 luglio 1914 dichiarò guerra alla
Serbia. Aveva così inizio la I guerra mondiale, la guerra del 1914-1918.
Le cause della guerra, reali e “fittizie”
L’attentatore di Sarajevo, lo studente nazionalista bosniaco Gavrilo Princip, faceva parte di
una organizzazione irredentistica che aveva le sue basi in Serbia. Se nell’Europa del 1914 vi
erano già tutte le premesse per una possibile guerra, esse si acuirono in seguito all’attentato.
Quella di Sarajevo fu, in realtà, la “goccia che fece traboccare il vaso”; dietro infatti si celavano
interessi di tipo espansionistico; l’esasperata rivalità politica ed economica fra i vari stati
europei. Le reali cause che determinarono lo scoppio del primo conflitto mondiale possiamo
infatti individuarle nell’antagonismo fra Gran Bretagna e Germania e nell’interesse,
sempre più evidente, delle grandi potenze europee verso i Balcani ( (l’Austria aveva
particolari mire espansionistiche sulla Serbia, d’altra parte la Serbia era protetta dalla Russia).
Antagonismo Anglo-Tedesco
Uno dei principali focolai di tensione fu, come abbiamo detto, l’antagonismo a sfondo
imperialistico fra Gran Bretagna e Germania. La Germania voleva infatti creare intorno a sé la
Mitteleuropa (un blocco di territori che abbracciasse tutta l’Europa centrale) per diventare
“grande potenza mondiale”. L’impero tedesco stava infatti vivendo una rapida ascesa
economica (il suo commercio internazionale crebbe fra il 1887 ed il 1912 del 215%,
superando Stati Uniti 173%, Inghilterra 113% e Francia 98%). La penetrazione commerciale e
finanziaria fu particolarmente aggressiva in Turchia, dove società tedesche ottennero
concessione per la costruzione della ferrovia anatolica che doveva collegare Costantinopoli al
Golfo persico. La presenza tedesca nei Balcani creava paura sia alla Russia (preoccupata del
fatto che l’asse Berlino-Costantinopoli avrebbe potuto tagliare in due l’Europa) sia alla Gran
Bretagna (che aveva interessi nel Golfo Persico). La rivalità anglo-tedesca fu accentuata
dalla volontà della Germania di costruire una grande flotta militare (concorrendo così
con la Gran Bretagna che aveva la più grande flotta militare al mondo). La reazione della
Gran Bretagna fu quella di incrementare ulteriormente la propria flotta.
Balcani “polveriera d’Europa”
Altro punto di crisi fu rappresentato dai Balcani, dove il declino dell’impero ottomano aveva
accentuato l’interesse delle potenze europee. La Russia, che si atteggiava a protettrice degli
slavi della zona, era decisa a contrastare la volontà espansionistica dell’Austria-Ungheria che
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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aveva nella sua sfera di influenza la Bulgaria. Alla rivalità fra le due potenze si intrecciavano i
contrasti fra gli stati balcanici che rivendicavano ciascuno appartenenze territoriali. L’Austria,
inoltre, era sempre più preoccupata delle aspirazioni della Serbia, protetta dalla Russia, di
creare un Grande Stato degli slavi del sud (una Serbia indipendente). In questo groviglio di
contrasti si inseriva pure la Germania intenta a ricacciare indietro, verso oriente, i confini
della Russia, inserendo così nel suo progetto di “Grande Europa” il Baltico e la Polonia russa.
Il meccanismo delle alleanze
L’episodio di Sarajevo mise, comunque, in movimento il meccanismo delle alleanze. La Russia,
non potendo tollerare l’umiliazione della Serbia, dichiarò guerra all’Austria e alla Germania
e di rimando la Germania dichiarò guerra alla Russia e alla Francia che la spalleggiava. A
far precipitare la situazione fu dunque l’iniziativa del governo tedesco. I tedeschi di trovarono
a fronteggiare russi ad est e francesi ad ovest.
L’invasione del Belgio
Onde evitare di tenere contemporaneamente impegnate le sue forze su due fronti, la
Germania si gettò contro la Francia eliminandola dal gioco prima ancora che i russi avessero
completato la loro mobilitazione. Per far questo dovevano aggirare le massicce fortificazioni
francesi di confine. Il 3 agosto i tedeschi invasero così il Belgio neutrale.
L’intervento dell’Inghilterra
Ciò fu considerato dall’opinione pubblica internazionale una brutale prepotenza che rese
impopolare la causa tedesca, oltre a rappresentare una minaccia per l’Inghilterra, che non
poteva tollerare la presenza di una potenza nemica di fronte alle coste della Manica e che
dichiarò a sua volta guerra alla Germania col pretesto dell’indignazione della sua
opinione pubblica.
La “guerra di usura”
La Triplice Intesa contro gli Imperi centrali
Le tre potenze dell’Intesa (Francia, Inghilterra e Russia) si trovarono alleate a Belgio e
Serbia contro gli Imperi centrali. Al loro fianco si trovò anche Giappone, che mirava alle
posizioni tedesche in Estremo Oriente, mentre nel novembre agli imperi centrali si unì anche
la Turchia.
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La battaglia della Marna
All’inizio di settembre i tedeschi, superata la resistenza eroica dei belgi, giunsero a circa 30
chilometri da Parigi e sembravano avere la vittoria in pugno, ma fra il 6 ed il 12 settembre il
comandante francese ordinò la controffensiva generale riuscendo a bloccare l’avanzata
nemica sulla Marna (fu definito il “miracolo della Marna”). La battaglia della Marna portò alla
sostituzione del generale tedesco ed al passaggio, sul fronte occidentale, da una guerra di
movimento ad una guerra di posizione che si protrarrà per quattro anni, con i fanti
interrati nelle trincee ed impiegati in massacranti attacchi per logorare l’avversario (proprio
le atroci immagini delle trincee, stretti fossati scavati nella terra e nel fango protetti da
reticolati di filo spinato e da campi di mine, con gli uomini martoriati dalle bombe ed alle
prese con la fame e la sete in compagnie di pidocchi e topi, sono rimaste emblematiche della
Grande guerra).
Il fronte orientale
Sul fronte orientale le operazioni risultarono più mobili. I russi varcarono il confine
prussiano ma furono respinti dai tedeschi nelle battaglie di Tanenberg e dei Laghi Masuri. Più
a sud invece i russi occupano la Galizia, battendo gli austriaci e minacciando di invadere
l’Ungheria. I tedeschi allora giunsero in soccorso degli alleati e costrinsero i Russi a sgombrare
la Polonia e la Curlandia.
La situazione dopo il primo inverno di guerra
La situazione dopo il primo anno di guerra non era rosea per le potenze dell’Intesa. I tedeschi
avevano fallito il tentativo di sconfiggere la Francia ma occupavano ancora il Belgio e una
parte del territorio francese mentre passavano di vittoria in vittoria sul fronte russo. La
guerra si estese inoltre al Medio Oriente e agli imperi coloniali, coinvolgendo per la prima
volta i cinque continenti.
L’intervento dell’Italia
In questa prospettiva l’intervento dell’Italia, avvenuto il 24 maggio del 1915, portò un valido
aiutò alla Francia.
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Nell’immagine è possibile individuare i due schieramenti
La neutralità
L’Italia allo scoppio della guerra aveva dichiarato la propria neutralità. Secondo l’Alleanza (un
accordo stipulato nel 1879 fra Germania ed Austria Ungheria e di cui l’Italia era entrata a far
parte del 1882) il nostro Paese sarebbe dovuto entrare in guerra con l’Austria-Ungheria e la
Germania. Avvalendosi però di un’interpretazione letterale del trattato della Triplice Alleanza,
che non aveva un carattere offensivo ma solo difensivo, e del fatto che i due Imperi centrali
non avevano consultato il nostro Paese nei giorni decisivi della crisi (lasciandola all’oscuro
dell’ultimatum della Serbia) l’Italia rimase neutrale.
Interventisti
Nel paese vi erano due diverse tendenze: quella interventista e quella neutralista. Degli
interventisti facevano parte alcuni irredentisti (che miravano ad ottenere le terre rimaste
sotto l’Austria dopo il 1866), alcuni liberali e democratici, indignati per la brutale invasione
del Belgio, chi ritenevano giusta la guerra contro la prepotenza degli Imperi centrali per far
trionfare il principio di nazionalità, mentre i nazionalisti la vedevano come la prima tappa
dell’affermazione della potenza italiana in Europa. Fra gli interventisti vi erano uomini come il
socialista Cesare Battisti, depoutato al Parlamento di Vienna e assertore dell’italianità della
sua terra; liberali come Luigi Albertini, direttore del “Corriere della Sera”, agitatori come
Filippo Corridoni e Benito Mussolini, che dall’iniziale posizione neutralista si convertì
all’interfentismo, poeti come Gabriele D’Annunzio, che ebbe un ruolo di rilievo nelle
manifestazioni di piazza a favore dell’intervento.
Neutralisti
Fra i neutralisti vi erano i cattolici, i socialisti e molti liberali, il cui esponente maggiore
era Giolitti, il quale riteneva che restando fuori dal conflitto l’Italia avrebbe potuto ottenere
dall’Austria una correzione dei confini del Trentino, per una clausola della neutralità che
prevedeva compensi territoriali in caso di conquiste di una delle potenze alleate.
Le dimissioni di Salandra
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I primi di maggio l’interventista Salandra rassegnò le dimissioni, convinto che Giolitti
riuscisse a far valere la posizione nei neutralisti. Nelle città italiane però gli interventisti
diedero vita a clamorose manifestazioni (denominate le “radiose giornate” di maggio) che
fecero leva sul re il quale, insieme al Parlamento, confermò la fiducia a Salandra.
Il patto di Londra
Salandra, insieme al ministro degli esteri Sidney Sonnino, avviarono trattative con i due
schieramenti per capire cosa avrebbero potuto ottenere da una o dall'altra parte. Alla fine, il
26 aprile del 1915, l'accordo con la Triplice Intesa si concretizzò nel Patto di Londra. Con il
Patto di Londra l'Italia ricevette la promessa di ottenere, in caso di vittoria, Trentino ed il
Tirolo Cisalpino (Alto Adige) fino al Brennero, le città di Gorizia, Trieste e Gradisca, l'Istria
(esclusa Fiume) e parte della Dalmazia (quasi tutte le isole dalmate, inoltre, ed il possesso del
porto albanese di Valona. Inoltre vennero anche promessi ampliamenti dei possedimenti
coloniali. Il 3 maggio 1915 l'Italia, si disimpegnò dalla Triplice Alleanza. L'Italia dichiarò
guerra all'Austria-Ungheria il 23 maggio 1915 e alla Germania quindici mesi più tardi.
I primi anni di guerra
L’esercito italiano, al comando del generale Cadorna, iniziò ad attaccare le posizioni
austriache in Trentino e sull’Isonzo ma l’aspro territorio montagnoso e le fortificazioni
nemiche resero difficilissima l’avanzata. Il massimo sforzo fu in direzione di Trieste ma senza
risultati soddisfacenti in quanto gli austriaci sul Carso contesero agli italiani il terreno palmo a
palmo e resistettero a ben 11 offensive del nostro esercito (le undici battaglie dell’Isonzo).
La guerra nell’Adriatico
Nel Trentino, nonostante il valore delle nostre truppe alpine, vi fu un modesto balzo iniziale
degli italiani, dopodiché le posizioni si stabilizzarono per tutto il corso della guerra. Sul mare,
invece, la flotta italiana fu subito padrona della situazione mentre le navi nemiche furono
costrette a rimanere al riparo dei porti della Dalmazia e dell’Istria. L’intervento italiano,
malgrado le difficoltà incontrate dal nostro esercito, tuttavia giovò molto agli alleati,
distogliendo buona parte delle forze asburgiche degli altri fronti.
Le operazioni sul fronte russo
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L’offensiva degli austro tedeschi dell’inizio del 1915 aveva messo in difficoltà i russi, essendo
questi isolati dalle altre potenze dell’Intesa, mentre un tentativo di portare aiuti agli stessi
attraverso i Dardanelli si risolse in un disastro, in quanto i franco inglesi sbarcati a Gallipoli
furono costretti a rinunciare dopo ingenti perdite (aprile-novembre 1915).
L’interveto della Bulgaria
Questo convinse la Bulgaria a scendere in campo a fianco degli Imperi centrali e della Turchia
contro la Serbia (ottobre 1915), contro la quale vi era un’antica inimicizia. La Serbia non resse
all’attacco congiunto di bulgari a austriaci, il paese fu invaso e i superstiti dell’esercito serbo
furono salvati dall’intervento delle navi italiane ed inglesi sbarcati a Corfù insieme al governo
serbo in esilio (gennaio 1916).
La battaglia di Verdun
I successi incoraggiarono gli Imperi centrali che decisero di sferrare delle offensive sui fronti
francesi ed italiani nella speranza di raggiungere la vittoria e provocare il crollo dell’Intesa. I
tedeschi volevano portare i francesi a logorarsi nella difesa ad oltranza di un obiettivo di
grande valore non solo militare ma anche simbolico - sentimentale: Verdun (considerato
cuore della Francia). I tedeschi intendevano effettuare bombardamenti brevi ma violentissimi.
La battaglia di Verdun (febbraio-luglio 1916) fu una carneficina ma la strategia tedesca fallì
perché aveva sottovalutato il logoramento delle proprie forze e la tenacia dei difensori.
Verdun diventò così simbolo della resistenza francese.
La “spedizione punitiva”
Dopo un effimero successo dovuto alla sorpresa fallì anche l’offensiva degli austriaci del
maggio 1916 contro l’altopiano di Asiago. Gli austriaci del generale Conrad si erano prefissati
una “spedizione punitiva” contro l’Italia, accusata di aver tradito la Triplice Alleanza, per
giungere fin sulla laguna di Venezia. Ma essi furono costretti dalla controffensiva italiana a
ritirarsi pressoché sulle posizioni di partenza. Il contraccolpo psicologico portò comunque alla
caduta di Salandra e alla sua sostituzione con un ministero di coalizione presieduto da
Boselli.
La presa di Gorizia
Dopo il fallimento delle offensive nemiche contro l’altopiano di Asiago e a Verdun l’italia
dichiarò guerra anche alla Germania, per sottolineare la sua decisione di combattere accanto
agli alleati fino alla vittoria finale. Intanto nell’agosto del 1916 l’Italia riprese l’iniziativa con la
presa di Gorizia.
La sconfitta della Romania
Verso la fine del 1916 gli austriaci e i tedeschi si rifecero con l’invasione della Romania che era
entrata in guerra a fianco dell’Intesa fidando in una ripresa vittoriosa dei russi. L’occupazione
della Romania permise agli austriaci e ai tedeschi di impadronirsi di grandi risorse di grano e
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di petrolio, che furono loro di grande giovamento data la scarsità di viveri e di materie prime a
causa del blocco imposto loro dagli alleati.
La guerra di trincea
Dopo due anni e mezzo la situazione non era dunque mutata di molto. La guerra era diventata
una guerra di trincea. Le trincee erano dei cunicoli sotterranei scavati nella roccia dove i
soldati trovavano riparo dagli attacchi dei nemici. Erano strette e non molto profonde, perciò i
soldati dovevano stare rannicchiati per evitare i colpi dei cecchini, stretti gli uni contro gli altri
a causa dello spazio esiguo a disposizione. I bordi erano consolidati con travi di legno e
pietrame di varie dimensioni; inoltre sui bordi venivano collocati dei sacchi riempiti di sabbia
e del filo spinato per potenziare la difesa. All’interno delle trincee i soldati dovevano rimanere
a lungo immobili e muoversi solo strisciando per evitare i colpi durante gli attacchi dei nemici.
Quando pioveva le trincee si riempivano d’acqua e fango e i soldati soffrivano fortemente per
l’umidità, dalla quale cercavano di proteggersi con dei teli. Ad aggravare ulteriormente le
condizione di vita dei soldati c’erano la fame, i pidocchi, la sporcizia e la mancanza da
igiene, la vista e l’odore dei cadaveri. La tipologia delle trincee cambiava nei diversi fronti
di guerra. Sul fronte dolomitico e carsico tra Italia e Austria, ad esempio, il tipo di terreno non
rendeva possibile lo scavo di fossati profondi, cosicché si utilizzavano come fortificazioni
ammassi rocciosi, mucchi di sassi e a volte dei bassi muretti costruiti a secco oppure in
cemento.
La morte in trincea
La mortalità dei soldati che presero parte alla prima guerra mondiale si aggira attorno al 10%.
La probabilità di essere feriti era del 56%. Le ferite più gravi erano provocate
dall'artiglieria. Particolarmente temute erano le ferite al volto, che sfiguravano per sempre
chi ne fosse colpito. All'epoca della prima guerra mondiale l'assistenza medica era ancora
rudimentale. Non esistevano antibiotici, e anche ferite relativamente leggere potevano
facilmente evolvere in una mortale setticemia. I medici militari dell'esercito tedesco
verificarono che il 12% delle ferite alle gambe e il 23% delle ferite alle braccia avevano un
esito letale. Era destinato alla morte la metà dei feriti al capo e il 99% dei feriti al ventre. Tre
quarti delle ferite era provocata dalle schegge dei proiettili dell'artiglieria. Si trattava di ferite
spesso più pericolose e più cruente di quelle provocate dalle armi leggere. L'esplosione di una
granata provocava una pioggia di macerie, che, penetrando nella ferita, rendeva molto più
probabile l'insorgere di un'infezione. In aggiunta ai danni fisici vi erano quelli psicologici. I
soldati sottoposti ad un bombardamento di lunga durata (sulla Somme il bombardamento
preparatorio britannico durò una settimana) soffrivano spesso di sindrome da stress
postraumatico (in Italia, per indicare le persone colpite da questa sindrome, si usava
l'espressione “scemo di guerra”). Le condizioni sanitarie nelle trincee erano catastrofiche.
Molti soldati divennero vittime di malattie infettive: dissenteria, tifo, colera. Molti soldati
erano afflitti da diverse malattie provocate da parassiti. Spesso seppellire i morti era un lusso
che nessuna delle parti belligeranti aveva intenzione di sobbarcarsi. Per questo i cadaveri
rimanevano insepolti nella terra di nessuno sino a quando il fronte non si muoveva. In questo
caso era però troppo tardi per procedere ad un'identificazione. Così vennero introdotte le
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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piastrine identificative. Su alcuni fronti (come per esempio quello di Gallipoli) fu possibile
seppellire i morti solo dopo la fine della guerra. Più volte, durante la guerra (anche se
soprattutto nel primo periodo), vennero contrattati degli armistizi ufficiosi, per soccorrere i
feriti e seppellire i morti. I vertici militari erano però contrari ad ammorbidire l'ostilità tra le
parti in lotta, fosse anche per motivi umanitari, e tendevano a impartire alle truppe ordini che
intimavano di impedire il lavoro dei sanitari del nemico (in pratica, fare fuoco su di loro). Tali
ordini, però, furono generalmente ignorati. Per questo, quando i combattimenti cessavano, i
sanitari avevano modo di soccorrere i feriti, e accadeva frequentemente che i sanitari di parti
avverse si scambiassero i rispettivi feriti.
Strategia guerra di trincea
La strategia tipica delle guerre di posizione è quella del logoramento, imponendo al nemico un
consumo di risorse tale da non consentirgli il proseguimento della guerra. La strategia basata
sul logoramento richiese da parte di tutti i belligeranti la mobilitazione di tutte le risorse ai
fini bellici (la cosiddetta guerra totale), e ciò senza riguardo alle sofferenze della popolazione
civile. La strategia del logoramento si rivelò infine fatale per gli Imperi centrali, quando
l'entrata in guerra degli Stati Uniti spostò con decisione l'equilibrio delle forze a favore
dell'Intesa.
La nuova tecnologia militare
La prima guerra mondiale è stata definita una guerra tecnologica per l’introduzione di nuove
armi: mitragliatrici , granate, cannoni molto potenti e gas asfissianti al cloro. Proprio il
gas fu una delle armi più terribili per la sua efficacia nell’uccidere e per il terrore che
diffondeva fra i soldati. Inoltre comparvero per la prima volta tute mimetiche ed elmetti di
acciaio, necessari per proteggersi dal fuoco nemico che sostituirono le divise e i pittoreschi
cappelli ottocenteschi. La principale innovazione nel campo della guerra fu introdotta però
dall'esercito inglese: il 15 settembre 1916 gli inglesi durante la battaglia di Somme
attaccarono le linee tedesche accompagnati da carri armati i Mark. L'utilizzo dei mezzi
corazzati scateno panico nelle truppe del kaiser nonostante fossero ancora mezzi lenti e
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impacciati negli spostamenti. Il loro utilizzo non fu quello di aprire varchi nelle difese
avversarie a cui far seguire le forze di terra, come avvenne nella seconda guerra mondiale, ma
furono impiegati come supporto alla fanteria.
Il crollo della Russia
L’inverno del 1917 fu logorante non solo per gli eserciti ma anche per le stesse popolazioni
che furono afflitte da carestie, distruzioni e disagi. In particolare la Russia era sconvolta da
una crisi economica e politica. Nel marzo del 1917, dopo due anni di una guerra disastrosa che
era costata perdite enormi, il popolo insorse a Pietroburgo e rovesciò il regime zarista,
ritenuto responsabile di queste sciagure. Dopo alcuni mesi di avvenimenti caotici, in
novembre i socialisti estremisti di Lenin (bolscevichi) si impadronirono con un colpo di forza
del potere, dando inizio alla rivoluzione. I soldati russi nel frattempo avevano gettato le armi
ritornando alle loro case, cosicché ai nuovi governanti non restò altro da fare che accettare le
dure condizioni di pace imposte dagli austro tedeschi.
Caporetto
La defezione della Russia fu un colpo terribile per le potenze dell’Intesa e in particolare per
l’Italia che dovette fronteggiare da sola tutta la forza dell’esercito austriaco. Nonostante ciò
nell’estate del 1917 il nostro esercito riuscì ad avanzare in direzione di Trieste occupando
l’altopiano della Bainsizza. Tuttavia tra i soldati si facevano frequenti le manifestazioni di
protesta e fra i civili si segnalarono dei moti insurrezionali a Torino nell’agosto del 1917.
Nell’ottobre del 1917 gli austriaci, aiutati dai tedeschi, sfondarono le linee italiane di
Caporetto, sull’alto Isonzo, minacciando di aggiramento il nostro schieramento. Il nostro
esercito dovette ritirarsi dalla linea del fiume Isonzo abbandonando Friuli e parte del Veneto.
La “disfatta di Caporetto” fu il più grande massacro italiano della Grande guerra. 10.000
morti, 30.000 feriti e 300.000 prigionieri, oltre a quantità ingenti di viveri, armi e cannoni
perduti. La ritirata si arrestò solo sulla linea del Piave e del Grappa. le cause della sconfitta
sono da ricercare negli errori degli alti comandi e dallo stato di stanchezza e di
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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demoralizzazione delle truppe. Da allora tutta la guerra si trasformò in una guerra patriottica.
Dopo la disfatta di Caporetto il generale Diaz, succeduto a Cadorna, riorganizzò l’esercito
italiano. Migliorando le condizioni dei nostri soldati e facendo leva sul patriottismo e sul
bisogno di combattere in difesa della propria patria, Diaz diede un nuovo input al nostro
esercito. Ciò ricoprì di un nuovo significato morale la guerra e consentì il compattamento delle
truppe e della nazione, presupposto per la cosiddetta «Vittoria finale». All’interno del paese gli
italiani dimostrarono in questa occasione un patriottismo e una volontà di ripresa quali solo
un popolo maturo poteva avere. I partiti misero da parte i loro contrasti e venne formato un
governo nazionale sotto la guida di Vittorio Emanuele orlando, mentre la cittadinanza,
lavorando senza soste, approntò nuove armi e nuovi rifornimenti, facendo sfumare la
speranza del nemico di mettere in ginocchio l’Italia.
L’intervento americano
Nell’aprile del 1917 gli Stati Uniti d’America entrarono nel conflitto a fianco dell’Intesa
(cui avevano fornito denaro ed armi) guidati dall’allora presidente Thomas Wilson. Il
presidente Wilson espose il suo programma in “quattordici punti” per difendere i diritti delle
Nazioni ed instaurare un nuovo ordine internazionale.
La guerra sottomarina
I tedeschi si proponevano di spezzare il blocco navale attraverso una guerra sottomarina;
cercarono di soffocare economicamente l’Inghilterra e di costringerla alla pace prima che
l’intervento degli Stati Uniti potesse modificare radicalmente i rapporti di forza. Furono usati
gli U-Boote (sommergibili tedeschi, usati nella battaglia dello Jutland, unico scontro navale
diretto del conflitto che avvenne fra il 31 maggio ed il 1° giugno 1916 e che si concluse con la
sconfitta della Germania).
L’ultimo anno di guerra
L’intervento americano spostò l’equilibrio dalla parte degli alleati occidentali, che potevano
contare ora di un apporto inesauribile di mezzi finanziari ed economici e di uomini da parte
degli Stati Uniti. Tuttavia all’inizio del 1918 il rapporto generale delle forze era favorevole
ancora agli Imperi centrali. I tedeschi lanciarono nel marzo 1918 una grande offensiva nelle
Somme, nelle Fiandre e sulla Marna. Nonostante i successi iniziali i tedeschi non riuscirono a
realizzare l’obiettivo strategico che era nei loro piani e nella seconda metà di luglio l’iniziativa
tornò agli alleati occidentali che potevano ora contare sul contributo delle divisioni
americane. Nelle settimane successive gli alleati sfondarono la linea difensiva tedesca a
avanzarono riconquistando le regioni francesi perdute nel 1914, liberando il Belgio e
costringendo i tedeschi a compiere una ritirata generale sul Reno.
La Germania il 7 novembre 1918 chiese l’armistizio che le fu accordato l’11 novembre. La
caduta della Germania fu accompagnata dalla catastrofe dei sui deboli alleati. Furono liberate
la Serbia e la Romania. Le forze britanniche attaccarono anche nel fronte secondario del
Medio Oriente; dilagarono in Siria e Mesopotamia portando all’armistizio la Turchia (ottobre
1918).
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Nel fronte italiano le nostre forze sbaragliarono nella battaglia di Vittorio Veneto le truppe
austriache e obbligarono alla resa il governo di Vienna. Il 4 novembre a Villa Giusti, presso
Padova, l’Austria firmava l’armistizio. Finiva così la Grande Guerra; una strage che era
costata il sacrificio di circa nove milioni di vite umane, mentre molti milioni di reduci
avrebbero continuato a testimoniare a lungo con le loro mutilazioni il dramma di
un’esperienza sconvolgente.
I trattati di pace
La Conferenza di pace di Parigi
Finita la guerra a Parigi si riunì la Conferenza di pace che vide coinvolti 27 Stati, tutti vincitori,
della I guerra mondiale. La direzione della Conferenza fu presa da Francia, Gran Bretagna, Usa,
Italia e Giappone, ma nella sostanza solo Francia, Inghilterra e Usa riuscirono a prendere le
decisioni fondamentali (è importante capire che l’Italia usciva “amareggiata” da questa guerra.
Si parlò infatti di “vittoria mutilata”. Proprio su questa vittoria mutilata farà leva negli anni ’20
il Fascismo per ottenere consenso nel popolo). Durante questa conferenza, Wilson espose i
suoi "quattordici punti" con i quali fondava la sua idea di ristrutturazione post-bellica del
mondo.
Il trattato di Versailles
Il trattato di Versailles è uno dei trattati di pace che pose ufficialmente fine alla prima guerra
mondiale. Fu stipulato nell'ambito della Conferenza di pace di Parigi del 1919-1920 e firmato
da 44 Stati il 28 giugno 1919 a Versailles, in Francia, nella Galleria degli Specchi del Palazzo di
Versailles. È suddiviso in 16 parti e composto da 440 articoli. Il trattato di Versailles sancì la
nascita della Società delle Nazioni (uno dei Quattordici Punti del presidente degli Stati Uniti
Thomas Wilson). Tra le disposizioni previste dal trattato di Versailles c'era la perdita delle
colonie e di territorio da parte della Germania. La lista di ex province tedesche che
cambiarono appartenenza comprende:
l'Alsazia-Lorena, restituita alla Francia;
lo Schleswig settentrionale, fino a Tondern nello Schleswig-Holstein, alla Danimarca (in
seguito a un plebiscito);
gran parte della Posnania e della Prussia occidentale e parte della Slesia alla Polonia;
la città di Danzica con il delta della Vistola sul mar Baltico, venne resa Città libera di
Danzica, sotto l'autorità della Società delle Nazioni e della Polonia.
Il trattato di Versailles oltre ad abolire la coscrizione per la Germania, pose anche grosse
limitazioni alle forze armate tedesche, che non dovevano superare le 100.000 unità. Il trattato
stabilì una commissione che doveva determinare le esatte dimensioni delle riparazioni che
dovevano essere pagate dalla Germania. Nel 1921, questa cifra fu ufficialmente stabilita in 132
miliardi di marchi (come vedremo nelle pagine successive della nostra dispensa, i problemi
economici che questi pagamenti comportarono sono spesso citati come la principale causa
della fine della Repubblica di Weimar e della ascesa di Adolf Hitler).
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La Società delle Nazioni
Si decise di istituire la Società delle Nazioni con cui regolamentare il dopoguerra;
un'organizzazione internazionale fondata nel 1919 allo scopo di mantenere la pace in Europa
dopo le devastazioni della Prima guerra mondiale. Prevista dalla prima parte del trattato di
Versailles, le sue funzioni fondamentali erano: ridurre gli armamenti, dirimere le dispute tra
le nazioni, mantenere le condizioni di vita dei popoli.
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
Inserisco di seguito un articolo di giornale che ci servirà come spunto sia di riflessione sia di
confronto; fa riferimento a “Valiant Hearts: The Great War”, il videogioco che racconta gli
orrori della Prima Guerra Mondiale. Questo videogioco è stato presentato in occasione del
Fuori Milan Games Week, l'evento di riferimento del settore dei videogiochi in Italia, andato
in scena dal 24 al 26 ottobre a Fieramilanocity che ha chiuso il bilancio con quasi 100.000
visitatori e un incremento di pubblico di oltre il 50% rispetto al 2013.
Centenario Prima Guerra Mondiale, a lezione di storia con un videogioco
In occasione del Fuori Milan Games Week, professori e studenti dell’Università degli
Studi di Milano si confrontano con il team di sviluppo di Valiant Hearts: The Great War
Milano, 21 ottobre 2014 - Un videogioco celebra il 100° anniversario della Prima Guerra
Mondiale. Un modo diverso per raccontare, in particolare ai nativi digitali, una delle più
grandi tragedie del Novecento in maniera inedita, interattiva ma anche estremamente
poetica. Tanto da attirare l’attenzione dei Dipartimenti di Informatica, Studi Storici, Beni
Culturali e Ambientali dell’Università degli Studi di Milano e del Politecnico di Milano. E quale
migliore occasione, se non il Fuori Milan Games Week, per parlarne pubblicamente, con
studenti di tutte le età, in compagnia di chi lo ha creato?
Valiant Hearts: The Great War, la Storia si mette in (video)gioco: ecco il titolo della tavola
rotonda che mercoledì 22 ottobre, a partire dalle 17, si terrà presso l’Aula Magna
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dell’Università degli Studi di Milano (Via Festa del Perdono, 7). Special guest
dell’appuntamento Yoan Fanise e Simon Choquet-Bottani di Ubisoft Montpellier, lo studio di
sviluppo che ha creato Valiant Hearts: The Great War, videogioco che rende omaggio ai 70
milioni di persone coinvolte nel primo conflitto mondiale. A moderare l’incontro Emilio
Cozzi, Vicedirettore di Zero ed esperto di cultura videoludica per Il Sole 24 Ore, Eurogamer,
Wired, Cineforum, Micromega e Rolling Stone. Oltre a studenti di ogni età, dai liceali agli
universitari, saranno presenti anche Dario Maggiorini e Laura Ripamonti, Co-direttori del
Laboratorio PONG - Playlab for inNovation in Games nel Dipartimento di Informatica
dell’Università degli Studi di Milano. Tra gli interventi previsti, quelli di Davide Gadia, esperto
di grafica e animazione del Dipartimento di Informatica, Maresa Bertolo, esperta di game
design del Dipartimento di Design al Politecnico di Milano, Francesco Tissoni, umanista
esperto di digital storytelling al Dipartimento di Beni Culturali e Ambientali dell’Università
degli Studi di Milano, e Alfredo Canavero, docente di storia contemporanea impegnato in
progetti di didattica sulla Prima Guerra Mondiale al Dipartimento di Studi Storici
dell’Università degli Studi di Milano. Ad animare il dibattito sarà proprio Valiant Hearts: The
Great War, il primo videogioco dedicato al centenario della Grande Guerra, prodotto da
Ubisoft e disponibile in versione digitale per PC, console e tablet. Partendo da fonti storiche
quali documenti ufficiali, libri, diari, fotografie e medaglie, saranno molteplici i temi che
verranno trattati, seguendo un approccio tecnico, storico e stilistico. A differenza dei classici
giochi di guerra, Valiant Hearts: The Great War adotta una prospettiva decisamente più
umana, adatta anche ai giovanissimi. Fedele alla realtà storica, il videogioco ha una finalità
educativa testimoniata dall’utilizzo in fase di sviluppo di documenti e fonti diverse, a
cominciare dalla corrispondenza epistolare dal fronte dei soldati. Non a caso, la Commissione
Francese per il Centenario della Prima Guerra Mondiale lo ha inserito nel programma
commemorativo Mission du Centenaire. Un valido strumento didattico per avvicinarsi allo
studio della Grande Guerra, in modo originale e coinvolgente.
http://www.ilgiorno.it/speciali/giorno-dei-ragazzi/centenario-prima-guerra-mondiale-a-lezione-di-
storia-con-un-videogioco-1.324785
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Mettiamoci alla prova!
1) Quali sono stati gli schieramenti della I Guerra Mondiale?
____________________________________________________________________________________________________________
2) L’Italia quando e a fianco di chi è entrata nel primo conflitto mondiale?
____________________________________________________________________________________________________________
3) Cosa era la Triplice Alleanza? Che funzione aveva?
____________________________________________________________________________________________________________
4) Cosa si intendeva per guerra di logoramento?
____________________________________________________________________________________________________________
5) Quali furono le cause che determinarono lo scoppio della Grande Guerra?
____________________________________________________________________________________________________________
6) La I guerra mondiale è stata una guerra tecnologica. Vero o falso?
7) Cosa ha rappresentato per noi italiani la “disfatta di Caporetto”?
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8) Simbolicamente cosa ha rappresentato la battaglia di Verdu?
____________________________________________________________________________________________________________
9) In che anno sono entrati nel conflitto gli Stati Uniti d’America?
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10) Cosa sono i “quattordici punti” di Wilson?
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11) Cosa ha sancito il trattato di Versailles?
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12) Quando e con quale funzione è stata creata la società delle Nazioni?
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13) Come si è conclusa la I guerra mondiale?
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Le conseguenze della Grande Guerra
La comunicazione di massa
Gli anni successivi alla Grande Guerra furono segnati da una serie di svolte che interessarono
il tessuto sociale.
Il primo, e forse più ovvio, sviluppo che la guerra fece registrare si collega all’uso che venne
fatto dei mezzi di comunicazione di massa come strumenti bellici. In precedenza erano
state soprattutto le marine militari della grandi potenze ad impiegare sistematicamente la
telegrafia senza fili. Grazie alla possibilità che essa forniva di comunicare su distanze molto
lunghe, gli imperi coloniali si trovavano più vicini alla madre patria e le comunicazioni tra le
diverse zone di combattimento aumentavano l’efficacia delle azioni militari. Con il 1914 si
ebbe innanzitutto uno sforzo enorme per la produzione di apparecchiature ricetrasmittenti.
L’esigenze di comunicazioni sempre più rapide impose così lo sviluppo della radiofonia che
progredì a veloci tappe, consentendo quella rapida evoluzione tecnologica che portò alla
radiodiffusione.
Un secondo elemento è legato all’uso dei mezzi di comunicazione anche sul cosiddetto
"fronte interno", cioè tra i civili. Nella prima guerra mondiale per la prima volta le
popolazioni di tutti i paesi erano coinvolte in un conflitto di lunga durata che implicava una
serie di esigenze comunicative: collegare l’industria bellica e il fronte, convincere le
popolazioni civili a contribuire allo sforzo militare, tenere alto il morale delle truppe sul
campo, fronteggiare la propaganda nemica. E’ infatti in questo periodo che nascono nuove
figure professionali legate a questa contingenza come gli inviati e i fotografi di guerra.
Dunque, la logica della guerra di massa sollecitava un riordino dell’apparato
comunicativo che era collegato non solo a esigenze strategiche e di efficienza ma anche di
controllo. Il suo costituirsi in termini di guerra totale mise in primo piano e trasformò in
fattori di primaria importanza le dimensioni legate alle comunicazioni e all’informazione: il
controllo sulla carta stampata non ebbe solo una funzione difensiva, mirata cioè a proteggersi
dalle eventuali verità diffuse dai giornali, ma si orientò anche verso un’azione offensiva, volta
a smuovere spiriti e cuori fuori e dentro la nazione attraverso la manipolazione dell’opinione
pubblica. Anche le democrazie, in cui vigeva la libertà di stampa, si trovano in questi anni di
fronte al conflitto tra il diritto alla verità dell’individuo e l’esigenza di tutelare l’interesse
superiore della nazione. Il potere politico esercitò quindi un controllo sull’informazione
in una duplice direzione, volta da un lato verso la censura, cioè la repressione della stampa in
quanto portatrice di informazioni e notizie pericolose, e dall’altro verso la propaganda,
sottolineando cioè le sue potenzialità in quanto amplificatrice degli interessi e del punto di
vista della nazione.
E’ proprio avvalendosi di questi “strumenti” che Mussolini in Italia ed Hitler in Germania
portarono avanti una vera e propria opera di “coinvolgimento” della massa. Come vedremo,
però, nelle pagine successive della dispensa, il “potere della comunicazione” fu utilizzato
anche nel periodo della Resistenza italiana come strumento per dire no alla dittatura.
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Trasformazioni sociale
In Italia l'esito della Grande Guerra fece nascere un sentimento di insoddisfazione;
insoddisfazione che nasceva per la constatazione che l'Italia avrebbe dovuto rinunciare ad
alcune delle terre promesse nel Patto di Londra (la Dalmazia settentrionale) in base al
"principio di nazionalità" invocato nei Quattordici punti di Wilson, ma contemporaneamente
non avrebbe avuto la città di Fiume, non compresa fra le ricompense promesse all'Italia
dall'Intesa nel 1915, ma abitata da oltre 25 mila italiani. A questo si aggiungeva la situazione
nebulosa delle pretese italiane in Anatolia (a fronte dei massicci guadagni territoriali franco-
britannici in Medio Oriente), la negazione di compensi coloniali in Africa, risolta solo dopo
molti anni, e la risistemazione dell'Adriatico meridionale ai danni dell'Italia, con
l'assegnazione arbitraria del Montenegro al nuovo Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni e
l'appoggio alle istanze albanesi di distacco dal protettorato imposto dall'Italia sul paese. A
nulla servì il gesto di rottura compiuto da Vittorio Emanuele Orlando e Sidney Sonnino, i quali
nell’aprile del 1919 abbandonarono per protesta la Conferenza di Parigi, salvo farvi ritorno
poco dopo per la firma dei trattati conclusivi, nei quali venivano riconosciuti all’Italia Trento,
Trieste e l’Istria. Anche se l'Italia venne esclusa dalle colonie tedesche in Africa, ottenne però
la frontiera del Brennero (con un allargamento che andava oltre i termini del patto di Londra)
e la maggior parte della flotta mercantile austro – ungarica. Questo sentimento di
insoddisfazione portò gli italiani a parlare di “vittoria mutilata”. La "vittoria mutilata",
espressione coniata da Gabriele D'Annunzio, assunse nel dopoguerra le dimensioni di un vero
e proprio mito politico; Mussolini fece leva proprio su questo senso di amarezza per attirare a
se le masse. In questo clima di delusione ebbero buon gioco i nazionalisti, che fecero sentire
la loro protesta ed esultarono per l’occupazione di Fiume effettuata nel settembre del 1919
dai volontari guidati dal poeta Gabriele d’Annunzio e fiancheggiati da truppe sediziose
dell’esercito. Finita la guerra l'Italia si trovò a dover fare i conti con problemi socio-economici
che già la caratterizzavano (limiti del decollo industriale; questione meridionale; distacco
gruppi dirigenti – popolo). Questo portò nel nostro Paese ad una serie di rivolte come il
“biennio rosso” (ciclo di lotte sociali di dimensioni senza precedenti per rivendicare
aumenti salariali e migliori condizioni di vita). Nel 1920 fu fatto lo “sciopero delle
lancette” (il tentativo da parte dei lavoratori della FIAT di far valere i propri diritti) e sempre
nello stesso anno ci fu l'occupazione delle fabbriche (nata per il rifiuto degli industriali
metalmeccanici di concedere un salario più dignitoso). Il fermento si allargò presto alle
campagne, dove i contadini reduci dalle trincee attendevano ora i benefici promessi
durante la guerra.
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Intanto in quegli anni si affacciarono nuove formazioni politiche, espressione di ideologie
moderne. Nel 1919 fu fondato dal sacerdote Luigi Sturzo il Partito popolare italiano, sotto
gli auspici della Chiesa. Lo stesso anno vide venire alla luce il movimento fascista, nato per
iniziativa di Benito Mussolini come forza extraparlamentare col nome di Fasci italiani di
combattimento, in difesa degli ideali nazionalistici e con un radicalismo antisocialista; esso si
rivolgeva soprattutto agli ex combattenti e ai ceti medi, facendo leva sulla paura di una
rivoluzione comunista. Nel 1921 da una scissione in seno al partito socialista nacque il
Partito comunista d’Italia: Antonio Gramsci ne era il leader teorico.
Nelle istituzioni si riflettevano le tensioni presenti nella società. Nel giugno del 1920 fece
ritorno alla presidenza del consiglio Giolitti, che per esperienza e prestigio si pensava potesse
comporre i contrasti politici. Egli risolse la questione di Fiume, firmando con la Iugoslavia il
trattato di Rapallo (12 novembre 1920), che riconosceva all’Italia Zara e le isole di Cherso,
Lussino, Zara, Lagosta e Cazza, e faceva di Fiume una città libera: tale sarebbe rimasta fino al
1924 anno in cui, con il trattato di Roma, passò sotto la sovranità italiana. Le difficoltà per
Giolitti vennero dalla situazione interna, perché cresceva nei ceti medi e nei possidenti,
allarmati dalle vittorie socialiste alle elezioni amministrative, l’attesa di una risposta
autoritaria, mentre l’opinione moderata era turbata dal disordine e dalle violenze generate ai
margini del movimento operaio da quanti speravano di innescare una situazione
rivoluzionaria. Il 18 settembre 1920, grazie ad un accordo italo-albanese (accordo di Tirana
del 2 agosto 1920, in cambio delle pretese italiane su Valona) e ad un accordo con la Grecia,
l'isola di Saseno entrò a far parte dell'Italia, la quale la voleva per la sua posizione strategica
all'imbocco del Mare Adriatico.
Esauritosi il cosiddetto Biennio rosso (1919-1920) delle lotte operaie e contadine, la reazione
dei ceti medi, degli agrari e degli industriali si indirizzò verso il movimento fascista, le cui
violenze erano ottusamente assolte come premessa a un auspicato “ritorno all’ordine”.
Mussolini riuscì così a catalizzare sia le frustrazioni della piccola borghesia, disposta
persino all’uso della violenza, sia lo spirito di rivalsa diffuso tra i grandi detentori di
ricchezze, gli agrari in primo luogo. Iniziarono allora le violenze delle squadre di volontari
fascisti, le camicie nere, contro le sedi e gli uomini del movimento operaio e socialista. Nelle
elezioni politiche del 1921 il Partito nazionale fascista, fondato in quell’anno, ottenne 35
deputati, un numero ancora inferiore a quello dei socialisti ma sufficiente a segnare la
sconfitta dei partiti democratici, tra loro profondamente divisi. Lo strumento usato dai fascisti
per abbattere le organizzazioni sindacali fu la “spedizione punitiva”. La Milizia Volontaria
per la Sicurezza Nazionale (indicata spesso con l’espressione “camice nere” per via del colore
della camicia che era parte integrante della loro divisa) montate sui camion e munite di armi
da fuoco partivano da un centro urbano verso le località circostanti per attaccare e
distruggere Camere del Lavoro, leghe, circoli, cooperative. La fondazione delle Camice nere
risale ad una deliberazione del Gran Consiglio del Fascismo del gennaio 1923. Inizialmente
pensato come milizia ad uso esclusivo del Partito Nazionale Fascista, nel tempo con la
“costituzionalizzazione” del fascismo e con un evidente contrasto con l'esercito del Regno
d'Italia finì col mescolarsi quasi del tutto con l'esercito.
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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Il governo Giolitti tenne un atteggiamento di sostanziale debolezza verso il fascismo e non ne
contrastò l’azione illegale. Nel 1921 Giolitti indisse nuove elezioni nell’intento di ridurre il
peso parlamentare dei popolari e del PSI. Il piano di Giolitti ebbe un successo solo parziale.
L’arretramento della sinistra ci fu ma in misura minore di quanto pensasse. Giolitti
riconobbe il fallimento e rassegnò le dimissioni.
Al governo Giolitti seguì quello presieduto da Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922). Bonomi
propose un “patto di pacificazione” tra fascisti e socialisti che avrebbe dovuto porre fine alla
guerra civile. Il patto era stato anche voluto da Mussolini, il quale così avrebbe dato un volto
legalitario al fascismo; ciò fu invece respinto dai capi del fascismo agrario e dello squadrismo
(Ras) che intendevano concludere l’opera di distruzione delle organizzazioni di sinistra.
Nell’ottobre del 1922 Mussolini chiamò a raccolta i suoi uomini organizzandoli in formazioni
di carattere militare, a capo delle quali mise un quadrumvirato composto da Italo Balbo,
Cesare De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi. Il 27 ottobre del 1922 le camicie nere si
raccolsero in diverse parti d’Italia per dirigersi su Roma (marcia su Roma del 28 ottobre) e
chiedere le dimissioni del governo presieduto da Luigi Facta. Questi si rivolse al re perché
proclamasse lo stato d’assedio e sciogliesse la manifestazione. Ma Vittorio Emanuele III si
oppose e affidò a Mussolini l’incarico di formare il nuovo governo.
In questo modo, attraverso una sorta di colpo di stato effettuato con il sostegno degli apparati
statali, Mussolini andò al governo a capo di una coalizione di liberali e popolari, che
simpatizzavano per lui e di cui per altro si liberò poco dopo. L'instaurazione della dittatura
fascista avvenne senza opposizione del sovrano. Il potere di Mussolini durerà per 20 anni, fino
al 1943, anno in cui Mussolini fu arrestato.
Nel 1923, in ambito scolastico, fece la riforma Gentile, una serie di atti normativi del Regno
d’Italia che costituì la riforma scolastica organica varata in Italia. Essa prese il nome
dall'ispiratore, il filosofo neoidealista Giovanni Gentile, Ministro della Pubblica Istruzione del
governo Mussolini nel 1923 che la elaborò assieme a Giuseppe Lombardo Radice. «La più
fascista» delle riforme, come la definì Mussolini, rimase sostanzialmente in vigore inalterata
anche dopo l'avvento della Repubblica, fino a quando il Parlamento italiano, con la legge del
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31 dicembre 1962, n. 1859, abolendo la scuola di avviamento, diede vita alla cosiddetta scuola
media unificata.
Il 6 giugno 1924, dopo una campagna elettorale caratterizzata da intimidazioni e violenze, si
tennero le elezioni. Il PNF ottenne il 65% dei voti. Le altre liste persero circa la metà dei
suffragi del 1921. Nella nuova Camera le opposizioni di sinistra seguirono una linea di
rigorosa intransigenza antifascista, soprattutto con i discorsi di Giacomo Matteotti che
denunciò le illegalità della campagna elettorale. La risposta fu l’assassinio di Matteotti
rapito a Roma il 10 giugno 1924. Nonostante tutto Vittorio Emanuele III riconfermò la fiducia
in Mussolini. Il 3 gennaio 1925 Mussolini si presentò in Parlamento per assumersi la piena
“responsabilità politica, storica di quanto accaduto” e per annunciare una soluzione di forza
della crisi.
Procedette così alla liquidazione di quello che rimaneva dello Stato liberale e alla costruzione
dello Stato fascista. Dal 1925 ci fu una seconda ondata squadrista; in quello stesso anno
soppresse la libertà di stampa.
Al 1925 risale la Battaglia del grano, una campagna che aveva lo scopo di far raggiungere la
completa autosufficienza dall'estero di questa fondamentale fonte alimentare per la nazione,
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nell'ambito della politica autarchica del regime. La "battaglia" venne proclamata durante la
seduta notturna della Camera dei deputati del 20 giugno 1925. Venne costituito, con regio
decreto, il Comitato permanente del grano. Durante la seduta d'insediamento, Mussolini
tracciò le linee generali d'intervento. Il Comitato permanente del grano doveva affrontare tre
problemi principali: il problema della selezione dei semi, il problema dei concimi e dei
perfezionamenti tecnici, il problema dei prezzi.
« La battaglia è semplice perché l’obiettivo è preciso. […] Ho letto con molto interesse tutte le
risposte date dai direttori delle Cattedre ambulanti di agricoltura i quali rispondevano alla
mia precisa domanda:<< È possibile nella vostra giurisdizione aumentare il rendimento
agricolo?>>. La risposta è stata unanime; dal monte al piano, dalle regioni impervie alle zone
fertili: dovunque è possibile aumentare il rendimento medio per ettaro del grano. Allora, se
questo è possibile, questo deve essere fatto! » (Benito Mussolini, 11 ottobre 1925)
Nel giro di sei anni, nel 1931, il regno d'Italia riuscì a soddisfare a pieno il suo fabbisogno di
frumento, arrivando ad una produzione di 81 milioni di quintali. Nello stesso anno per l'Italia
si registrò anche il primato per la produzione di frumento per ettaro: la produzione
statunitense, fino ad allora considerata la prima, raggiungeva infatti 8,9 quintali di frumento
per ettaro, mentre quella italiana era quasi doppia, contando 16,1 quintali per ettaro.
Nell’ottobre 1925 con il “Patto di palazzo Vidoni” la Confindustria si impegnò a
riconoscere come legittime rappresentanze dei lavoratori i soli sindacati fascisti: i
sindacati liberi vennero messi al bando. Una legge sindacale dell’aprile del 1926 vietò lo
sciopero. Nel 1926 tutti i partiti antifascisti vennero sciolti e giudicati illegali. Nello stesso
anno riportò la pena di morte per i colpevoli di reati contro lo Stato e, infine, istituì un
Tribunale Speciale per giudicare tali reati, composto non da magistrati ma da fascisti.
Questi provvedimenti passarono alla storia come “leggi fascistissime”; gli atti giuridici che
iniziarono la trasformazione di fatto dell'ordinamento del Regno d'Italia nel regime
fascista, ossia in uno Stato autoritario, di tipo nazionalista e centralista (il compimento di tale
processo avvenne nel 1939 allorquando, pur senza mutare direttamente gli articoli
interessati dello Statuto del Regno, la Camera dei deputati sarà soppressa e sostituita dalla
Camera dei Fasci e delle Corporazioni). A completare l’edificio giuridico della dittatura, nel
1928 una legge elettorale istituì il sistema a lista unica e il Gran Consiglio del fascismo viene
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“costituzionalizzato”. L’Italia diventava, così, una dittatura a partito unico il cui potere
decisionale è nelle mani di un solo uomo: Benito Mussolini, Duce del Fascismo.
Nel 1929, per allargare il consenso, Mussolini sottoscrisse fra Stato e Santa Sede i Patti
Lateranensi con i quali si è posta fine alla “questione romana”. Gli furono negoziati tra il
cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri per conto della Santa Sede e Benito Mussolini,
capo del Fascismo, come primo ministro italiano. A seguito di essi, la Chiesa cattolica ha
riconosciuto l’esistenza di uno Stato italiano ed ha accantonato definitivamente ogni pretesa
giuridica sul territorio di Roma.
Copertina de “La Domenica del Corriere” raffigurante la firma dei patti
A partire dal 1936 Mussolini imboccò la via dell’autarchia (per realizzare autonomia nella
vita economica della Nazione). Ridusse il più possibile le importazioni ed aumentò le
esportazioni. Aumentò il numero degli addetti all’industria. La crescita industriale riguardò in
particolare il settore elettrico (gruppo Edison), quello chimico e meccanico.
Politica coloniale: la Guerra d’Etiopia
La politica coloniale dell'Italia riprese slancio negli anni Venti, trovando una sua coerente
giustificazione nell'ideologia fascista. Subito dopo l'avvento di Mussolini, la presenza italiana
in Libia fu consolidata: fu ampliata l'occupazione della Tripolitania settentrionale (1923-
1925) e della Tripolitania meridionale, mentre una dura repressione fu avviata in Cirenaica,
guidata con successo dal generale Graziani. Tra il 1923 ed il 1928 fu inoltre completata la
conquista della Somalia, fino a quel momento limitata alla parte centrale del Paese. In Etiopia,
invece, il fascismo non ritenne, in questa prima fase, di modificare la situazione. Anzi, nel 1928
Italia ed Etiopia stipularono un patto di amicizia. La decisione di intraprendere una campagna
militare in Etiopia iniziò a maturare a partire dal 1930. Il pretesto per l'avvio delle operazioni
militari, i cui piani erano stati preparati già da tempo, fu offerto il 5 dicembre 1934 da un
incidente presso la località di Ual-Ual, lungo la frontiera somala. L'imperatore d'Etiopia, Hailè
Selassiè, preoccupato dai progetti italiani, si rivolse alla Società delle Nazioni, di cui il suo
Paese era membro dal 1923. Ma Inghilterra e Francia, che non volevano alienarsi l'appoggio di
Mussolini nel nuovo scenario politico d'Europa, impedirono di fatto che l'azione italiana fosse
ostacolata. Solo in un secondo tempo, quando l'opinione pubblica internazionale iniziò a
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mobilitarsi contro la violenta aggressione dell'Italia, la Società delle Nazioni approvò una serie
di sanzioni economiche contro l'Italia (ottobre 1935). Il 2 ottobre 1935, in un famoso discorso
pubblicato il giorno successivo su tutti i giornali italiani, Mussolini annunciò l'inizio di una
guerra provocata senza alcuna causa plausibile, rispolverando come giustificazione la
bruciante sconfitta subita dall'Italia alla fine del secolo precedente: «Con l'Etiopia abbiamo
pazientato quaranta anni! Ora basta!» L'esito della guerra era facilmente immaginabile
considerato l'enorme dispiegamento di mezzi disposto dall'Italia. Il 3 ottobre le truppe
italiane invasero l'Etiopia dall'Eritrea, occupando in breve tempo Adua, Axum, Adigrat,
Macallè. A metà novembre la direzione delle operazioni fu affidata al generale Pietro Badoglio
che, dopo aver affrontato la controffensiva etiopica, entrò a Addis Abeba il 5 maggio 1936. Il 9
maggio 1936 Mussolini poté proclamare la costituzione dell'Impero italiano d’Etiopia,
attribuendone la corona al Re d'Italia Vittorio Emanuele III.
Avvicinamento alla Germania – Accordi prebellici
Dopo la guerra d’Etiopia, l’Italia si avvicinò alla Germania (seguendo anche l’orientamento
filotedesco del ministro degli esteri, Ciano). L’accostamento italo-tedesco fu sancito negli
accordi del 24 ottobre 1936 (“Asse Roma Berlino”) che prevedeva la collaborazione fra i
due governi su varie questioni. L’Asse Roma Berlino fu il primo concreto avvicinamento tra i
due paesi. Il 25 novembre 1936 a Berlino seguì poi il “Patto anti-Comintern”, firmato da
Germania e Giappone per collaborare contro l’opera di disgregazione dell’Internazionale
comunista. L’Italia vi entrò il 6 novembre 1937. Questo originò il primo embrione
dell'alleanza tripartita (che costituì l’Asse Roma-Berlino-Tokyo) che sarebbe poi stata
formalizzata nel 1940. L'ingresso di Roma venne annunciato dall'Agenzia Stefani con queste
parole:
« Stamane, alle ore 11, è stato firmato a Palazzo Chigi un protocollo col quale l'Italia entra a far
parte, in qualità di firmataria originaria, dell'Accordo contro l'Internazionale Comunista,
concluso il 25 novembre 1936 fra la Germania ed il Giappone. Hanno firmato, per l'Italia, il
Ministro degli Esteri, conte Galeazzo Ciano; per la Germania, l'ambasciatore straordinario e
plenipotenziario del Reich in missione speciale, von Ribbentrop; per il Giappone,
l'ambasciatore Hotta. »
Un altro accordo prebellico fu il “Patto d’Acciaio”, un’alleanza sia “difensiva” che “offensiva”
tra Italia e Germania concluso a Berlino il 22 maggio 1939 che contrapponeva i due Paesi
alle Nazioni democratiche in vista del conflitto ormai considerato imminente. Nello specifico
le parti erano obbligate a fornire reciproco aiuto politico e diplomatico in caso di situazioni
internazionali che mettevano a rischio i propri "interessi vitali". Questo aiuto sarebbe stato
esteso al piano militare qualora si fosse scatenata una guerra; i due Paesi si impegnavano,
inoltre, a consultarsi permanentemente sulle questioni internazionali e, in caso di guerra, a
non firmare eventuali trattati di pace separatamente; la durata del trattato era inizialmente
fissata in dieci anni. Il prezzo iniziale pagato da Mussolini alla “brutale amicizia” di Hitler fu il
consenso all’invasione tedesca dell’Austria (12 marzo 1938) e alla sua annessione al Reich.
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Dal 1938 in poi, con la pubblicazione del Manifesto degli scienziati razzisti, il fascismo si
dichiarò esplicitamente antisemita.
Il Manifesto degli scienziati razzisti o, in forma abbreviata, Manifesto della razza, fu
pubblicato, con il titolo Il fascismo e i problemi della razza, il 14 luglio 1938 su Il Giornale
d’Italia.
Il testo delinea i tratti del nuovo razzismo fascista alla fine degli anni Trenta. La sua
pubblicazione si spiega nel contesto dell’alleanza sempre più stretta con la Germania nazista e
prelude alle leggi razziali della tarda estate e dell’autunno del 1938. Nel Manifesto si
sostenevano la concezione biologica del razzismo, l’esistenza di una pura razza italiana e la
non assimilabilità degli ebrei, che costituivano una razza non europea. Si trattava di posizioni
nuove per il fascismo e per la cultura italiana, che conosceva sì correnti razziste al proprio
interno ma era rimasta fino a quel momento estranea alle elaborazioni del nazismo. Per
queste ragioni il Manifesto suscitò forti perplessità tra gli intellettuali italiani, che tuttavia non
tardarono ad aderirvi, e nel mondo cattolico. Secondo la testimonianza di G. Ciano, Mussolini
gli avrebbe confidato proprio il 14 luglio 1938, giorno della sua prima pubblicazione, di aver
redatto quasi per intero il testo del Manifesto.
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
Inserisco di seguito un articolo di giornale che volge l’attenzione sulla violazione dei diritti fondamentali oggi: il caso dei “suicidi di massa” nell’iPad-city.
Mitici IPhone e iPad, fatti in Cina da schiavi del XXI secolo.
Condizioni di lavoro per noi inaccettabili . Ma la sfida è più grande.
Fanno scandalo nel mondo le condizioni disumane delle centinaia di migliaia di cinesi che
produco iPhone e iPad raccontate con gran rilievo in due lunghi articoli del New York Times, al
quale infine risponde il top manager di Apple Tim Cook. Eppure, come sottolinea Business
Insider.com, che alla Apple in Cina ha dedicato parecchi post letti da centinaia di migliaia di
persone in gioco non ci sono solo i soldi, gli alti guadagni e i bassi salari. La ragione per cui
Apple produce in Cina dipende da vari fattori - logistici, organizzativi, produttivi - che
consentono una “flessibilità estrema” : impensabile (e illegale) in Occidente da almeno un
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secolo, ma cruciale nella competizione altrettanto estrema in cui operano oggi le aziende
elettroniche. Di cui Apple è la punta più avanzata.
Ecco perché, al presidente Obama che qualche mese fa chiedeva a Steve Jobs se quelle migliaia
di posti lavoro cinesi potranno mai ritornare negli Usa, il fondatore di Apple rispondeva un
secco no: “Quei posti di lavoro non torneranno indietro”. E perché è così ardua la sfida di
vorrebbe fermare il processo che, esportando all'estero i lavori tipici della classe media,
contribuisce ad allargare le enormi disuguaglianze degli ultimi anni.
Modello Apple. Alta tecnologia, prezzi bassi… e alti costi umani (l'azienda nega "Ci sta a cuore
ogni oepraio") . Apple oggi la più ammirata e imitata società della terra, è anche la più
produttiva, l’anno scorso ha fatto profitti pari a $400.000 per addetto, più di Goldman Sachs, di
Exxon e di Google. Fino a pochi anni fa era fiera di produrre made in Usa. Oggi impiega in patria
43.000 persone, 20.000 all’estero (parte commerciale e software, l’unico settore rimasto negli
Usa). Ma i 70 milioni di iPhone e i 30 milioni di iPad sono fabbricati e assemblati in Cina da
700.000 addetti dei suoi partner/ fornitori .
Il maggiore è Foxconn, gigante cinese che assembla il 40% dell’elettronica di consumo del
mondo, e ha per clienti Amazon, Hewlett-Packard, Sony, Nintendo, Nokia, Dell, Samsung -oltre
a Apple. Con 1.2 milioni di addetti in varie fabbriche in Cina, e già oggetto di molti articoli.
Premessa. In Cina i sindacati sono illegali, proibiti dal Partito Comunista, anche se degli operai
ammettono di consultare segretamente delle associazioni.
Fabbriche gigantesche. Lo stabilimento Foxconn di Shenzhen dove si fanno iPhone, iPad e non
solo, impiega 430.000 persone. E’ in funzione 24 ore su 24, la luce artificiale è sempre accesa, le
finestre scarseggiano e anche la ventilazione è carente ai piani dove 20-30.000 operai siedono
su sgabelli ma per lo più stanno sempre in piedi per migliorare i tempi. C’è silenzio. Parlare è
vietato e, con manodopera abbondante e a basso costo, si fa quasi tutto a mano. Pazienza se
ripetendo ossessivamente lo stesso gesto le mani finiscono per non funzionare più. Si va a casa,
e avanti un altro. Circa il 5% degli addetti sono adolescenti, dai 12 ai 16 anni.
Assunzioni e licenziamenti facili. “Sono in grado di assumere 3000 persone dal giorno alla
notte”, dichiara un dirigente americano intervistato dal NYT, tra l’ammirato e lo sconcertato.
Altrettanto rapidamente si pssono licenziare migliaia di lavoratori. Anche assumere ingegneri
qualificati non è un problema. La Apple aveva previsto ci volessero sei mesi per selezionare gli
8700 ingegneri industriali necessari a sovrintendere 200.000 operai: in Cina sono bastati 15
giorni.
La giornata lavorativa, iperflessibile. Quella ufficiale è di 8 ore e la settimana in teoria di 60 ore.
Ore piene di 60 minuti, senza pause per andare al bagno, fare una telefonata o due chiacchiere
(come si fa in Usa). Di fatto a Foxconn City lo standard sono 12 ore consecutive, con punte di
14-16 ore, specie quando c’è un nuovo gadget da lanciare sul mercato. Sei giorni alla settimana.
Turni che possono iniziare alle 7 di mattino o alle 7 di sera, senza alcun preavviso (in Usa e
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Europa non si può) . Il tutto a ciclo continuo.
“Quando arrivarono i nuovi modelli di screen dell’iPhone era mezzanotte, 8000 operai vennero
tirati giù dal letto, un biscotto e un tè, e via. 96 ore dopo erano già usciti 10.000 iPhone col
nuovo schermo”. Un caso considerato esemplare dell’”efficienza”cinese.
Tre mesi dopo si contavano 1 milione di pezzi. Da allora ne sono stati prodotti altri 200 milioni.
Stile caserma, e cinesi affamati e frugali. Gli operai sono così disponibili anche perché vivono
per lo più accanto agli stabilimenti. Stipati in 20 in 3 stanze, o in grandi caseggiati-dormitori
dove le cuccette sono impilate fino al soffitto. Solo gli ingegneri si permettono a volte minuscoli
appartamenti. La fabbrica ha 20 caffetterie, ciascuna delle quali serve oltre 10.000 persone.
Ogni giorno la cucina centrale prepara 3 tonnellate di maiale e 13 di riso. Per controllare la
truppa operaia ci sono 300 guardie. I cinesi si adattano a tutto ciò perché sono più affamati e
più frugali, osserva BusinessInsider commentando il NYT.
Sicurezza minima, e incidenti frequenti. Sono i danni collaterali di tanta "efficienza". Centinaia
di operai sono stati intossicati da una sostanza (n-esano, un idrocarburo incolore) usata per
pulire gli screen dell’iPhone. Aveva sostituito l’alcol, perché evapora 3 volte più in fretta,
accelerando i tempi produttivi, anche se provoca danni neurologici. A Chengdu gli operai
addetti alla levigazione della custodia producono quantità di polvere di alluminio che si posa
ovunque, sui vestiti, sui capelli, sugli occhi (per proteggersi non bastano le mascerine). E,
nell’aria non ventilata, può causare esplosioni. E' è accaduto il maggio scorso, 4 operai e
ingegneri morti, 18 feriti. La Foxconn corre ai ripari. Ma 7 mesi dopo esplode un altro
stabilimento a Shangai, 59 feriti.
Suicidi di massa. Nel 2009 un lavoratore si butta da una finestra del dormitorio per aver perso
un prototipo. L’anno dopo si sono gettati di sotto in 18, e 14 sono morti. La Foxconn a quel
punto ha fatto mettere delle reti di protezione. Il 2 gennaio scorso 300 operai e operaie hanno
minacciato di ripetere il gesto. Per protestare - a quanto sembra - contro la medesima azienda,
che avrebbe promesso un contributo a chi se ne andava, ma poi ha ritirato l’offerta. Nello
stabilimento modello di Longhua il 5% degli operai (24.000) abbandonano il lavoro ogni mese
(non viene detto se volontariamente o licenziati) , rimpiazzati secondo il bisogno
Controlli. La Foxconn dichiara di effettuarli. E anche Apple compila report ogni anno, ma poi le
cose restano come prima. I contratti che Apple (e altri) fanno ai loro partner/fornitori lasciano
loro margini di guadagno così ridotti che questi si rifanno risparmiando sui lavoratori.
Vantaggi per i cinesi? Shenzhen 30 anni fa era un villaggio tra le risaie, oggi è una città di 13
milioni di abitanti. Senza la Foxconn e le altre società di assemblaggio i cinesi andrebbero
ancora a raccogliere riso per $50 al mese. Oggi ne prendono $250, che dal 2010 sarebbero
diventati $298, $10 al giorno, meno di $1 l’ora. Meglio di prima, sostengono vari economisti,
specie per le donne che non avevano alternativa: l’Occidente trasferisce denaro dai ricchi
consumatori ai poveri cinesi.
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Sicuramente vantaggi per Apple e gli altri committenti. Malgrado il trasporto, i costi di
produzione sono estremamente più bassi . Come abbiamo detto, però, non si tratta solo di
soldi, di bassi salari "cinesi".Costruire iPhone negli Usa li farebbe costare $65 di più degli $8 di
quelli made in China. Costi riassorbilili nei $600 del prezzo dell'iPhone al consumo.
http://www.lastampa.it/2012/01/30/blogs/underblog/mitici-iphone-e-ipad-fatti-in-cina-da-
schiavi-del-xxi-secolo-jSWGYFqQES25ukJnKHwFGP/pagina.html
Dedichiamo ora uno spazio a Malala e Satyarthi, insigniti da pochi giorni del premio
Nobel per la Pace
Oslo ha scelto i bambini, la pace che per esistere deve passare attraverso i loro diritti e ha
assegnato il Nobel all'indiano Kailash Satyarthi per la sua lotta contro il lavoro minorile, e alla
pachistana Malala Yousafzay, che due anni fa, a 14 anni, fu quasi uccisa dai talebani contrari al
suo impegno a favore dell'istruzione femminile. Due attivisti di Paesi acerrimi rivali come India
e Pakistan, un Nobel per la Pace per due con un doppio scopo: riconoscere l'impegno e
avvicinare territori nemici. Era accaduto solo nel 1993 con Nelson Mandela e Frederik de Klerk
e l'anno dopo con il palestinese Yasser Arafat e gli israeliani, Shimon Peres e Yitzhak Rabin.
Malala, nel ringraziare, ha lanciato un appello ai premier di Pakistan e India affinché prendano
parte insieme alla cerimonia di consegna. "Ho domandato al primo ministro (indiano)
Narendra Modi e al premier (pachistano) Nawaz Sharif di unirsi a noi. Credo veramente nella
pace ed è molto importante per il progresso di entrambi i Paesi che abbiano buone relazioni".
Rovesciando il pronostico che dava Papa Francesco per favorito, il presidente del comitato per
il Nobel, Thorbjoern Jagland, ha annunciato i nomi poco dopo le 11. Secondo il Comitato, il
60enne Satyarthi e la 17enne Malala sono stati premiati "per la loro battaglia contro la
repressione dei bambini e dei giovani e per il diritto di tutti i bambini all'educazione". "Ora
voglio vedere tutti i bambini andare a scuola", ha detto Malala dedicando il suo premio a "tutti i
bambini che non hanno voce, la cui voce deve essere ascoltata". Malala, la ragazza scampata ai
talebani. "Sono onorata" ha detto Malala, "sono felice e fiera di essere la prima cittadina
pachistana a ricevere questo riconoscimento e di condividerlo con un cittadino indiano".
Malala è anche la persona più giovane ad aver mai ricevuto il Nobel. La notizia le è arrivata
mentre si trovava a scuola a Birmingham, dove vive da quando è scampata nel 2012
all'attentato dei talebani in Pakistan. Aveva solo 14 anni, quando uscendo dalla sua scuola, in
Pakistan, fu colpita da colpi sparati da due uomini. Volevano ucciderla perché impegnata nella
difesa dei minori nel suo paese. Nel 2009 Malala era diventata famosa con un diario in lingua
urdu, nel quale denunciava le atrocità commesse dai talebani nella valle di Swat. Parole che
andavano punite: "Avevo solo due opzioni: restare in silenzio e farmi ammazzare o alzare la
voce contro i tiranni e farmi ammazzare: ho scelto la seconda". Satyarthi: "Lavoriamo insieme".
Forse in futuro i due paladini dell'infanzia potrebbero trovarsi a lavorare fianco a fianco.
"Conosco Malala personalmente e la inviterò a lavorare con me", ha detto Satyarthi, parlando
con i giornalisti a New Delhi dove vive con la famiglia. L'attivista ha aggiunto che il
riconoscimento "è un momento di gioia per gli indiani e per i bambini". Il diritto all'istruzione.
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"I bambini - si legge nel comunicato che accompagna il Premio - devono poter andare a scuola e
non essere sfruttati per denaro. Nei Paesi più poveri del mondo, il 60 per cento della
popolazione ha meno di 25 anni d'età ed è un prerequisito per lo sviluppo pacifico del mondo
che i diritti dei bambini e dei giovani vengano rispettati. Nelle aree devastate dalla guerra, in
particolare - si legge ancora nella motivazione - gli abusi sui bambini portano al perpetuarsi
della violenza generazione dopo generazione. "Nonostante la sua giovane età Malala ha già
combattuto diversi anni per il diritto delle bambine all'istruzione ed ha mostrato con l'esempio
che anche bambini e giovani possono contribuire a cambiare la loro situazione. Cosa che ha
fatto nelle circostanze più pericolose", ha aggiunto Thorbjoern Jagland. L'uomo che ha salvato
80 mila bimbi. Dal '90 Satyarthi lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile. La sua azione
ha permesso di liberare almeno 80 mila minori dalla schiavitù, favorendone la reintegrazione
sociale. "Mostrando grande coraggio personale Kailash Satyarthi, continuando la tradizione di
Gandhi, ha capeggiato diverse forme di protesta e dimostrazioni, tutte pacifiche,
concentrandosi sul grave sfruttamento dei bambini per motivi economici - si legge nella
motivazione di Oslo -. Ha anche contribuito allo sviluppo di importanti convenzioni per i diritti
dei bambini". Un riconoscimento che Satyarthi ha accolto con gioia: "Sono estremamente lieto
perché questo significa il riconoscimento della nostra lotta. Ringrazio veramente molto il
Comitato del Nobel per avere riconosciuto la drammatica situazione in cui milioni di bambini si
trovano nell'età moderna". Satyarthi ha anche avviato diverse campagne di sensibilizzazione
per informare i consumatori su quali siano i prodotti realizzati attraverso l'impiego di
manodopera minorile, che nell'Asia costituisce fino a un quarto della forza lavoro non
qualificata. La sua organizzazione, la Coalizione sulla servitù minorile dell'Asia meridionale, è
diventata una delle lobby più influenti e credibili al mondo. Reazioni internazionali. Il
presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha espresso la propria soddisfazione per
l'assegnazione ricordando al mondo che la necessità di proteggere l'infanzia e i giovani dallo
sfruttamento e dall'ignoranza, sono divenuti simboli viventi di un messaggio di civiltà, troppo
spesso dimenticato. "I veri vincitori oggi sono i bambini", ha detto il segretario generale
dell'Onu, Ban Ki-Moon. Il ministro degli Esteri (e futura lady Pesc della Ue) Federica Mogherini
nota che si tratta di "una scelta che deve richiamare tutto il mondo, dalla politica alla società
civile, a uno sforzo quotidiano di difesa dei diritti umani". Per l'ex presidente israeliano Shimon
Peres, "Malala è un simbolo per le ragazze e le donne di tutto il mondo e un esempio per tutti
noi". Il primo ministro pachistano Nawaz Sharif ha dichiarato oggi che Malala Yousafzai "è
l'orgoglio" del Pakistan. "I risultati da lei ottenuti sono incomparabili e ineguagliabili. Le
ragazze ed i ragazzi del mondo dovrebbero assumere la responsabilità della sua lotta e del suo
impegno". La concessione del premio rappresenta "un forte messaggio rivolto al mondo
sull'importanza dell'istruzione nella costruzione di società pacifiche e sostenibili", commenta
la direttrice dell'Unesco, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la
cultura, Irina Bokova. "Kailash Satyarthi è un amico, una persona vicina all'Unesco, ed è alla
guida dagli anni Ottanta del movimento globale per porre fine alla schiavitù e al lavoro che
sfrutta i bambini. Malala è con noi nella lotta per l'istruzione universale, specialmente per le
bambine".
Il Papa e Snowden. Nei giorni scorsi gli scommettitori avevano individuato come probabili
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vincitori del Nobel per la Pace, oltre a Malala, anche papa Francesco e Edward Snowden, la
talpa della National security agency statunitense (Nsa) che ha portato alla luce lo scandalo dei
programmi di sorveglianza del governo Usa. Ma fino a oggi, come al solito, il Comitato per i
Nobel non aveva lasciato trapelare alcuna informazione, limitandosi a rivelare di avere
ricevuto 278 candidatura per il titolo. Il segretario del Comitato norvegese per i Nobel, Geir
Lundestad, che quest'anno la scelta era più difficile, riferendo che c'erano stati già "sette
incontri invece che i soliti cinque o sei".
I 278 candidati. Nel marzo scorso il Comitato di Oslo rese noti i nomi dei 278 candidati, tra i
quali una cinquantina di organizzazioni. In buona posizione veniva dato il presidente russo
Vladimir Putin. E invece, il leader russo, inizialmente accreditato per il suo ruolo nel disarmo
chimico siriano, è stato sbalzato indietro in classifica dalla controversia con l'occidente sul
conflitto ucraino. Numerose anche le associazioni che si sono contese il premio. Tra le prime
'People of Lampedusa', simbolo all'accoglienza dei migranti, ma anche Medici senza frontiere,
le madri argentine di Plaza de Mayo. In Italia si era parlato anche di un ipotetico
riconoscimento alla missione Mare Nostrum. E poi i tanti attori e musicisti impegnati in
campagne di beneficenza come, ad esempio, Bono, Leonardo di Caprio e Angelina Jolie.
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Mettiamoci alla prova!
1) Cosa si intende per “vittoria mutilata”?
____________________________________________________________________________________________________________
2) Su cosa fece leva il Fascismo per ottenere il consenso della massa?
____________________________________________________________________________________________________________
3) Il potere politico come esercitò il proprio controllo sull’informazione?
____________________________________________________________________________________________________________
4) Cosa riguardava la Riforma Gentile?
____________________________________________________________________________________________________________
5) Numera gli avvenimenti posti di seguito, in base alla corretta successione cronologica
6) In che senso Mussolini imboccò la via dell’autarchia?
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7) Cosa si intende per Battaglia del Grano?
____________________________________________________________________________________________________________
8) Cosa si intende per squadrismo?
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9) Cosa erano le Camice nere?
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Il Nazismo
L’altro grande movimento nazionalista diffusosi in Europa fra il 1920 ed il 1930 fu il Nazismo.
Leader di questo partito e di questa ideologia fu Hitler.
Il Partito nazionalsocialista tedesco dei lavoratori (NSDAP) fu fondato da Hitler subito dopo la
Grande Guerra. Base del nazionalsocialismo era: critica violenta dei socialisti e dei comunisti,
odio contro pacifismo, impegno di restituire al proprio paese la grandezza originaria. Come il
Fascismo in Italia, anche il Nazismo (seppur prendendo il poter con un colpo di Stato) fece
leva sui malessere lasciati dalla I Guerra Mondiale (la Germania era uscita sconfitta dalla
Grande Guerra).
Nel 1925, durante un periodo di detenzione per il putsch di Monaco del 1923, Hitler scrisse La
mia battaglia, nella quale esponeva la sua dottrina che avrebbe poi attuato con criminale
coerenza.
Premesse
Prima di arrivare a parlare del nazismo, facciamo però una breve premessa storica. Dopo la
Grande Guerra, il periodo della storia tedesca che parte dal 1919 ed arriva al 1939 prende il
nome di Repubblica di Weimar.
La Repubblica di Weimar
Con il nome di Repubblica di Weimar si suole definire l'esperienza di una democrazia che,
per quindici anni (dal 1919 al 1933), ha rappresentato le speranze e le contraddizioni
dell'Europa tra le due guerre mondiali. La Repubblica di Weimar dovette affrontare
problemi gravissimi. Anzitutto la grande inflazione che dal 1922 al 1924 mise in ginocchio la
Germania provocando disoccupazione, fame e un clima di grave instabilità politica e sociale. Ci
furono mesi durante i quali occorrevano miliardi di marchi anche per comprare il pane.
Questo alimentò i movimenti più eversivi della destra (a cominciare dal partito nazional-
socialista) che vedevano nei trattati di pace di Versailles e nello strangolamento della
Germania voluto dalla Francia e dall'Inghilterra (che chiedevano il pagamento dei danni di
guerra) una delle prime cause del collasso del paese. Tra il 1925 e il 1930 la Germania riuscì
comunque a risollevarsi grazie agli aiuti finanziari americani e una rigorosa politica
economica. Fu un periodo di grande libertà politica, di vivacità culturale e artistica (nel
cinema, nella musica, nel teatro), di molteplici attività sociali (dallo sport alla diffusione delle
comunicazioni di massa). Rimaneva però il peso del pagamento dei danni di guerra aggravato
dall'occupazione francese del bacino carbonifero della Ruhr. Le prime ondate della crisi
economica americana del '29 raggiungendo anche la Germania trovarono il terreno favorevole
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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per gli avversari della democrazia tedesca. I dirigenti della Repubblica furono considerati
incapaci di reagire alle pretese dei paesi vincitori. Questa critica accrebbe il revanscismo
tedesco e fece conquistare popolarità e larghi consensi elettorali al partito nazional-socialista
che giunse quindi al potere grazie a questi consensi.
Ma la Repubblica di Weimar era molto debole e fu presto sottoposta a minacce estremiste. Per
reprimere tentativi insurrezionali filosovietici degli aderenti alla Lega di Spartaco il governo
federale si affidò a “corpi franchi” composti da ex militari di destra. Questo evento, sommato alla
crisi economica mondiale che si stava andando a delineare, permise al Partito Nazionalsocialista di
Adolf Hitler di vincere le elezioni del 1933 e di costituire il governo federale. Nel 1934 moriva il
Capo dello Stato, il maresciallo Von Hindemburg, e Hitler, violando la Costituzione, assunse
anche la carica di Capo dello Stato (era Führer und Reichskanzler, Guida e Cancelliere del
Reich). Il 19 agosto 1934, i tedeschi furono chiamati alle urne per esprimere il loro parere
sull'assunzione del potere totale da parte di Hitler. Più che un'elezione, fu una scontata
conferma plebiscitaria del nuovo stato delle cose (su 45.5 milioni di aventi diritto al voto, 38
milioni espressero parere favorevole e 4.5 milioni ebbero il coraggio ed il buonsenso di
negare la loro approvazione). .Nasceva così il Regime Totalitario del Terzo Reich.
Il consolidamento al potere di Hitler
Una tappa importante del consolidamento al potere di Hitler fu la cosiddetta “notte dei
lunghi coltelli” il 30 giugno 1934. Fu un eccidio (circa 200 vittime) compiuto dalle SS con il
quale il Fuhrer si liberò dei suoi più pericolosi oppositori interni di sinistra.
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I vertici nazisti cominciarono, con regolare perseveranza, ad attuare la loro politica
antisemita, cominciata con l’azione di boicottaggio contro le attività ebraiche e con il rogo dei
libri di scrittori ebrei, al fine di purificare la cultura tedesca.
Il 15 settembre 1935 vennero emanate le leggi di Norimberga, che tolsero agli ebrei ogni
diritto politico, proibendo anche i matrimoni misti, al fine di tutelare la purezza della
popolazione di razza ariana; la stessa propaganda martellava continuamente le menti dei
cittadini, con discorsi, articoli volti a screditare, ferocemente, il "traditore giudeo" nemico
della patria e del popolo tedesco.
La vera e propria azione di persecuzione cominciò però il 9 novembre 1938, quando, nella
"notte dei cristalli", al fine di vendicare l’uccisione, avvenuta a Parigi, di un diplomatico
tedesco, ucciso da un dissidente ebreo, furono distrutti negozi, case, sinagoghe, profanati
cimiteri, sterminate intere famiglie. Nonostante il nazismo avesse cominciato a gettare la
maschera, il consenso di Hitler e del suo movimento, negli anni pre-bellici, raggiunse livelli
trionfali. Il Fuhrer aveva, infatti, trasformato un Paese distrutto ed umiliato in una Nazione
che stava ritrovando l’antica potenza ed i fasti perduti; la miseria degli anni venti, la
disoccupazione, il collasso economico, erano ormai soltanto un ricordo. Hitler infiammava le
folle con discorsi esaltanti la grandezza della Germania, una nazione destinata a vendicare le
umiliazioni subite e a riconquistare un posto di prim’ordine in Europa e nel mondo. Il
nazionalismo fece ritrovare ai tedeschi il benessere perduto: anche grazie al potenziamento
dell’industria bellica tutti lavoravano, ogni famiglia poteva vivere serenamente, le città erano
più floride ed eleganti che mai, degne cornici per i rappresentanti della razza perfetta. Ai
congressi del partito di Norimberga, alle Olimpiadi di Berlino del 1936, Hitler, di fronte a folle
oceaniche e deliranti, in un clima di esaltazione collettiva, appariva come il condottiero
invincibile di una nazione ritrovata, più possente che mai, che cominciava a preoccupare il
mondo intero per le sue smanie di grandezza e per la sua esuberanza. Erano gli anni del
nazismo farneticante, che trovava la sua magnificazione del mito della purezza ariana in
filmati come il " Trionfo Della Volontà" e “Olimpia", della regista Leni Riefenstahl, e nella
megalomania delle geometrie dell’architetto del Reich Albert Speer. Nella progettazione dei
monumentali edifici di regime, Speer sostenne la teoria del "valore delle rovine". Secondo la
teoria tutti i nuovi edifici sarebbero stati costruiti in modo tale da lasciare rovine grandiose
per migliaia di anni a venire, che avrebbero testimoniato la grandezza del Terzo Reich alle
generazioni future, come le rovine dell'Antica Grecia o dell'Impero Romano. Per l'Esposizione
Internazionale «Arts et Techniques dans la Vie moderne» tenuta a Parigi nel 1937 Speer
disegnò il padiglione tedesco, concepito come baluardo nazista in diretta contrapposizione
formale e simbolica con il padiglione sovietico, ubicato proprio di fronte ad esso. Entrambi i
padiglioni vennero premiati con la medaglia d'oro. Speer venne incaricato di progettare la
ricostruzione e la riqualificazione urbanistica di Berlino, la futura Germania, capitale dello
stato millenario pangermanico. Il primo passo di questo piano fu la costruzione dello Stadio
Olimpico per le Olimpiadi del 1936.
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Mettiamoci alla prova!
1) Cosa si intende per Repubblica di Weimar?
____________________________________________________________________________________________________________
2) Quando e cosa determinò la fine di questa Repubblica?
____________________________________________________________________________________________________________
3) Su cosa fece leva Hitler per ottenere il consenso della massa?
____________________________________________________________________________________________________________
4) Quando vennero emanate le Leggi di Norimberga?
____________________________________________________________________________________________________________
5) Cosa si intende per Notte dei lunghi coltelli?
____________________________________________________________________________________________________________
6) Cosa fu la Notte dei cristalli?
____________________________________________________________________________________________________________
7) Nella progettazione della “nuova Berlino”, a quali modelli auspicava Hitler?
____________________________________________________________________________________________________________
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Preludio alla II guerra mondiale
Le cause che determinarono lo scoppio del II conflitto mondiale, sono da individuare nella
politica estera aggressiva della Germania di Hitler e nel riarmo della Germania nel 1935.
Obiettivo di Hitler era infatti quello di realizzare una Grande Germania e di conquistare uno
“spazio-vitale” (lo spazio vitale era collegato al concetto di razza ariana). Hitler intendeva
imporre la superiorità razziale ariana tramite un’azione militare destinata a soggiogare le
altre nazioni e gli altri popoli. Per far questo fu varato un piano economico quadriennale, volto
a fare, della Wehrmacht, un esercito moderno ed evoluto, pronto e predisposto alla guerra.
Nel 1929 ci fu una grave crisi economica che segnò la fine di un breve periodo di equilibrio ed
accentuò contraddizioni sociali e politiche. La fine dell’ordine internazionale dopo la Grande
Guerra ebbe il suo inizio nel fallimento della lunga conferenza di Ginevra sul disarmo
(febbraio 1932-ottobre 1933) che si chiuse con l’annuncio del ritiro della Germania di Hitler
dai suoi lavori e dalla Società delle Nazioni. Il primo passo di una politica estera aggressiva fu
il riarmo nel marzo del 1935 (in violazione degli accordi di Versailles). La responsabilità del
riarmo fu affidata ad Hermann Goring, che fu in grado di contare su risorse economiche
sterminate e su una forza lavoro senza precedenti. La replica della Francia e dell’Inghilterra fu
limitata all’ambito diplomatico. Si arrivò così alla conferenza di Stresa (aprile 1935) nella
quale Francia, Gran Bretagna e Italia protestarono contro il riarmo tedesco.
Inizialmente l’Italia dichiarò lo “stato di non belligeranza”(Mussolini era consapevole dello
stato di impreparazione militare del nostro Paese). Nonostante gli accordi di Stresa però
l’Italia, vista la guerra d’Etiopia, si avvicinò ad Hitler. I due Paesi si erano avvicinati dopo la
campagna d’Etiopia, quando il governo tedesco appoggiò l’Italia regia, contro il boicottaggio
economico stabilito, nei suoi confronti, dalla Società delle Nazioni, per l’invasione dello Stato
sovrano dell’Abissinia. L’avvicinamento tra i due regimi (come abbiamo già detto nelle pagine
precedenti) sfociò in un vero e proprio trattato di alleanza tra Italia fascista e Germania
nazista, in quello che fu denominato "asse Roma-Berlino" e che ebbe modo di operare
immediatamente nella guerra civile spagnola, in appoggio alle forze nazionaliste di Francisco
Franco; l’evento fornì ad Hitler l’occasione di collaudare le sue forze armate, in funzione di
una guerra sempre più imminente; gli Stuka tedeschi divennero dunque, tragicamente, i
protagonisti ed i signori assoluti dei cieli spagnoli, seminando il panico con devastanti
bombardamenti, preceduti dall’ agghiacciante suono della sirena che tali aerei azionavano
durante la loro picchiata, proprio al fine di terrorizzare gli inermi civili. Passo successivo fu
nel marzo 1936 l’occupazione della Renania. Nel 1938 le truppe tedesche occuparono
l’Austria realizzando così l’Anschluss (annessione). Nel settembre del 1938 si riunì a
Monaco di Baviera una conferenza a quattro fra Germania, Italia, Gran Bretagna e Francia.
L’Inghilterra e la Francia diedero soddisfazione alle richieste di Hitler che così ebbe il
consenso di occupare i territori dei Sudeti ma che non si impegnò a rimanere nei limiti
territoriali stabiliti. Questo sancì la fine dell’influenza anglo-francese nella scacchiera
dell’Europa centrale e sud-orientale. Hitler creò uno Stato slovacco satellite della Germania la
cui indipendenza fu proclamata il 14 marzo 1939. L’indomani reparti della Wehrmacht (il
nome dell’esercito tedesco) entrarono a Praga facendo della Boemia e della Moravia un
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protettorato tedesco. Era la fine delle illusioni di pace. Subito dopo Hitler cominciò a rivolgere
le sue minacce alla Polonia, reclamando Danzica. L’attacco lanciato contro la Polonia fu una
guerra lampo, fondata sull’azione combinata di grossi raggruppamenti di carri
corazzati e di formazioni di aerei da bombardamento. Varsavia capitolò il 27 settembre.
La Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania per formale ottemperanza al patto di mutua
difesa britannico-polacco che aveva stretto con la Polonia il 25 agosto, ma senza avere ancora
piani militari precisi. La Francia si affiancò alla dichiarazione di guerra britannica con poca
convinzione. In realtà sia i britannici che i francesi si sentirono "travolti" dagli eventi e,
sconcertati dall'imprevisto intervento militare sovietico di fatto a fianco della Germania,
inizialmente non seppero muoversi con decisione contro gli aggressori. In particolare, il
politico socialista francese Marcel Déat, in un articolo di giornale del 4 maggio 1939, con la
sua riflessione «Morire per Danzica?» aveva già espresso i dubbi, le perplessità e la voglia di
pace che albergavano in buona parte dell'opinione pubblica francese e britannica. Percependo
l'indecisione degli avversari, ma anche spinto dal timore di precipitare in un conflitto contro
le due potenze europee, Hitler il 6 ottobre 1939 propose una Conferenza di Pace a Gran
Bretagna e Francia, nel tentativo di far accettare il fatto compiuto dell'invasione della Polonia
e per discutere del nuovo ordine geopolitico europeo. Britannici e francesi rifiutarono
sdegnatamente, anche alla luce dei massacri dei civili polacchi ad opera dei tedeschi; ma allo
stesso tempo non prepararono alcuna offensiva terrestre contro la Germania. Il periodo che
andò dal settembre del 1939 al maggio 1940 fu soprannominato la finta guerra (o anche la
strana guerra, secondo alcune traduzioni): Gran Bretagna e Francia, Nazioni che pur avendo
formalmente dichiarato guerra alla Germania, non riuscirono ad organizzarsi militarmente, ne
ebbero sufficiente convinzione politica per intraprendere alcuna offensiva terrestre. Nel
frattempo la Wehrmacht rimaneva al riparo dietro la linea Sigfrido” (una massiccia linea
fortificata tedesca lunga circa 600 km; partiva dalla regione di Aquisgrana ed arrivava al
confine svizzero; questa linea si contrapponeva alla Linea Maginot, un complesso integrato di
fortificazioni, opere militari, ostacoli anti-carro, postazioni di mitragliatrici, sistemi di
inondazione difensivi, caserme e depositi di munizioni realizzati dal 1928 al 1940 dal Governo
francese a protezione dei confini che la Francia aveva in comune con il Belgio, il Lussemburgo,
la Germania, la Svizzera e l'Italia).
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I francesi si mobilitarono più che altro con spirito difensivo, rinforzando le truppe a guardia
della linea Maginot; mentre i britannici inviarono un corpo di spedizione in Francia quale
rinforzo per gli alleati. I primi mesi di guerra furono caratterizzati da scontri navali e battaglie
aeree, soprattutto tra Gran Bretagna e Germania. Essendo la Gran Bretagna una grande isola, e
dipendendo quindi dal mare per i collegamenti commerciali con il resto del mondo e con le
sue colonie, la Kriegsmarine (Marina da Guerra tedesca) si mobilitò immediatamente per
intercettare il traffico marittimo da e per la Gran Bretagna, per mettere in difficoltà l'economia
e le industrie britanniche. I tedeschi impiegarono sommergibili U-Boot, navi da guerra e
alcune navi corsare. La Royal Navy (marina britannica), pertanto, si trovò subito impegnata
nel pattugliare e proteggere le vitali rotte commerciali, dal Mare del Nord all'oceano Atlantico.
La Kriegsmarine ottenne alcuni importanti successi iniziali. Nell'arco di vari mesi fra il 1939 e
il 1940, la Royal Air Force effettuò numerosi raid di bombardieri contro i porti militari
tedeschi, le fabbriche di U-Boot, i cantieri navali e i depositi di munizioni navali; in particolare
a Wilhelmshaven e Kiel. Le conseguenti battaglie aeree contro la Luftwaffe furono molto
sanguinose. Fra il 1939 ed il1940 la Germania riuscì ad occupare Norvegia, Danimarca,
Belgio, Olanda e Francia. In questi stati i nazisti imposero governi collaborazionisti cioè fatti
da persone disposte a collaborare con gli invasori. Il 10 giugno 1940, l’ Italia dichiarò guerra
alla Francia e alla Gran Bretagna. La prima ormai stava crollando e l’iniziativa dell’Italia fu
per lei un colpo molto duro.
Mussolini aveva paura che la guerra stesse per finire e temeva di rimanere a mani vuote, ma
aveva sottovalutato la forza della Gran Bretagna e non tenne conto che gli Stati Uniti
sarebbero potuti entrare in guerra. L’esercito italiano disponeva di armamenti limitati e
oltretutto arretrati. Le prime iniziative dell’Italia rivelarono subito l’insufficienza delle sue
forze armate. Il tentativo di strappare Malta agli inglesi fallì. Dopo iniziali successi, anche
l’attacco contro i possedimenti inglesi dell’Africa settentrionale fu fermato. Ma il fallimento
più grave fu il tentativo di invasione della Grecia. Sia in Africa che in Grecia solo l’intervento
dei tedeschi consentì di riprendere la conquista. Con la sconfitta della Francia, Hitler era
riuscito ad imporre il dominio tedesco sull’Europa. Restava solo la Gran Bretagna a
contrastarlo; infatti il governo inglese, guidato da Winston Churchill, respinse le proposte di
pace avanzate dal Furher. Vista l’impossibilità di raggiungere un accordo, Hitler decise di
invadere la Gran Bretagna. Per due mesi l’aviazione britannica ( la RAF = Royal Air Force) e
quella tedesca si scontrarono nella battaglia d’Inghilterra. La RAF riuscì ad infliggere pesanti
perdite ai tedeschi. Perciò il 17 settembre Hitler rinunciò al progetto di invadere la Gran
Bretagna. Le forze nazi-fasciste mantenevano l’iniziativa ma era ormai svanita l’idea di una
guerra lampo. Nel 1941 la Germania intervenne a sostegno delle truppe italiane in Africa e nei
Balcani. Ma lo sforzo maggiore dell’esercito tedesco fu l’invasione dell’URSS. Dopo l’accordo
per la spartizione della Polonia, Hitler aveva deciso di tornare al suo programma iniziale:
conquista di spazio vitale ai danni dell’Unione Sovietica e distruzione dello Stato comunista. Il
22 giugno 1941 iniziò l’invasione, seguendo il cosiddetto “piano Barbarossa”, che prevedeva il
rapido annientamento di ogni resistenza sovietica. Il 7 dicembre 1941 un inatteso intervento
causò una svolta decisiva nella guerra. Il Giappone attaccò e distrusse quasi metà della flotta
degli Stati Uniti nel porto di Pearl Harbour. Quello Giapponese fu un attacco a sorpresa; la
dichiarazione di guerra agli Stati Uniti arrivò solo mentre l’attacco era ormai in corso. Il
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presidente americano Franklin Delano Roosevelt ribattezzò l’attacco di Pearl Harbour come il
“giorno dell’infamia”. L’America era ancora scossa e sotto choc quando l’8 dicembre del 1941
entrò in guerra. L’ingresso dell’America nel conflitto fu sancito dalla Carta Atlantica; la
dichiarazione dei principi di politica internazionale concordata dal presidente degli Stati Uniti
F.D. Roosevelt e dal primo ministro britannico W. Churchill nell’isola di Terranova. I punti
essenziali erano: rinuncia a ingrandimenti territoriali; diritto di autodeterminazione dei
popoli; diritto di accesso, in condizioni di parità, al commercio e alle materie prime del
mondo; libertà dei mari; rinuncia all’impiego della forza, una volta distrutta la tirannia
nazista.
La riuscita dell’incursione su Pearl Harbor diede al Giappone un vantaggio temporaneo sugli
Stati Uniti costretti a riorganizzarsi e a fronteggiare un conflitto su due fronti dopo la
dichiarazione di guerra da parte della Germania e dell’Italia datata 11 dicembre. Ma dopo una
prima fase di difficoltà l’America riprese il timone delle operazioni. Ma il conflitto tra America
e Giappone era destinato a durare per altri anni ancora. Il fronte in molti casi si cristallizzò,
trasformando lo scontro in una dura e cruda guerra di posizione e logoramento: con i soldati
statunitensi che tentavano di avanzare verso il Giappone strappando lembo di terra su lembo
di terra ai nipponici. Particolarmente cruenti, per esempio, furono gli sbarchi e la conquista
delle isole di Iwo Jima (febbraio del 1945) e Okinawa (aprile-giugno 1945), dove i soldati
americani si trovarono ad affrontare il fanatismo dei kamikaze asiatici. La guerra del Pacifico
si concluse definitivamente solo il giorno di Ferragosto del 1945, con il Giappone in ginocchio
e l’imperatore Hirohito, figura sacra per il Paese, che accettò la resa incondizionata. Solo pochi
giorni prima, per la decisione della presidenza di Harry Truman, gli Usa avevano scatenato sul
nemico l’inferno. Erano le 8.15 del 6 agosto 1945 quando Hiroshima venne incenerita dalla
bomba atomica, arma mai usata prima di allora. Il 9 agosto, invece, erano le 11.02, la stessa
malasorte toccò alla città di Nagasaki. Le vittime delle esplosioni furono centinaia di migliaia,
mentre altre centinaia di migliaia di giapponesi morirono negli anni seguenti per causa del
fallout nucleare.
Mappa dei due schieramenti durante la II guerra mondiale; gli Alleati in blu, l’Asse in grigio
Intanto l’Inghilterra ottenne l'importante vittoria di El Alamein che costrinse gli italo-
tedeschi ad abbandonare l’Africa. L’armata rossa, intanto aveva bloccato un imponente
attacco tedesco. Infine, con la lunga battaglia di Stalingrado, i sovietici riuscirono a sconfiggere
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i nazifascisti. L’armata tedesca e il corpo di spedizione italiano furono costretti a ritirarsi
disordinatamente. Dopo la vittoria in Africa, le forze anglo- americane ( gli Alleati)
controllavano il Mediterraneo. Così, nel 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia. Essi venivano
accolti dalla popolazione come dei liberatori.
Gli italiani volevano la fine della guerra ma erano anche stanchi del fascismo. Nel marzo 1943
vi furono molti scioperi operai contro il di esso. Di fronte a questa situazione il Gran Consiglio
del Fascismo votò la sfiducia a Mussolini (25 luglio 1943). Lo stesso giorno il re informò il
duce che aveva affidato l’incarico di formare un nuovo governo al maresciallo Pietro Badoglio.
Subito dopo Mussolini venne arrestato. Pietro Badoglio sedò sedato l'euforia popolare nata
dalle le speranze di pace connesse alla caduta del capo del fascismo, con il famoso proclama
radiofonico caratterizzato dall'impegno: "La guerra continua".
Dopo lunghe trattative, l’Italia firmò l'armistizio di Cassibile con gli Alleati; questo armistizio,
siglato segretamente il 3 settembre del 1943, fu reso noto l’8 settembre ed è l'atto con il quale
il Regno d'Italia cessò nel corso della II guerra mondiale le ostilità contro le forze britanniche
e statunitensi. In Italia ci fu un generale sbandamento durante il quale la famiglia reale fuggì
da Roma insieme a Badoglio, rifugiandosi a Brindisi. Le autorità e i dirigenti dello Stato,
compresi gli stati maggiori delle forze armate, si smembrarono, scomparvero, si resero
irreperibili. Nessuno diede al popolo e all’esercito le indicazione per affrontare la nuova
situazione. L’esercito italiano, abbandonato da un Re e da un presidente del consiglio che si
diedero alla fuga, si ritrovò nelle mani dei tedeschi. E’ proprio in questo momento che in Italia
si sviluppa la Resistenza (a cui dedicheremo uno specifico spazio nelle pagine successive della
dispensa). I tedeschi occuparono l’Italia centrale e settentrionale e il 12 settembre liberarono
Mussolini. Hitler consentì al duce di fondare nel nord la Repubblica sociale italiana, con sede a
Salò. Ora l’Italia era divisa in due: il centro nord sotto la repubblica di Salò e il sud dove
sopravviveva il Regno d’Italia. Gli Alleati il 6 giugno 1944, prendevano terra in Normandia con
la più grande flotta da sbarco, così che i tedeschi dovettero ritirarsi.
Alla metà di settembre la Francia era completamente liberata. Ad est, intanto, la Germania
doveva subire una forte controffensiva russa. Nel 1945 la sorte della Germania appariva
segnata. Il 30 settembre Hitler si tolse la vita. Nella Berlino occupata dai Russi, il 7 Maggio
1945 l’ammiraglio Donitz firmava la resa senza condizioni della Germania. L’Italia era stata
liberata pochi giorni prima, il 25 aprile 1945. La resa del Giappone avvenne solo dopo che due
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bombe atomiche avevano distrutto le città di Hiroshima e Nagasaki. Il 2 settembre 1945 però
anche lui firmò la resa. La seconda guerra mondiale si chiudeva con 50 milioni di morti.
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Mettiamoci alla prova!
1) Quali furono le cause che determinarono lo scoppio del II conflitto mondiale?
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2) Quali furono i due schieramenti che si vennero a creare durante la II guerra mondiale?
____________________________________________________________________________________________________________
3) L’Italia in che occasione iniziò ad avvicinarsi alla Germania Nazista di Hitler?
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4) Quando entrò in guerra l’America? Firmando quale Carta?
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5) Cosa rappresentò per gli italiani l’armistizio di Cassibile?
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6) In che anno fu arrestato Mussolini?
____________________________________________________________________________________________________________
7) Dopo l’arresto di Mussolini, cosa accadde in Italia?
____________________________________________________________________________________________________________
8) Cosa si intende per “operazione Barbarossa”?
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Il dramma nel dramma: la shoah
Gli anni della II guerra mondiale, furono segnati da un ulteriore dramma che rientra nel
progetto di “purificazione” della razza condotto da Hitler: la shoah.
Come si legge dall’enciclopedia online Treccani, il termine shoah è di origine ebraica
(«tempesta devastante», dalla Bibbia, per es. Isaia 47, 11) ed indica lo sterminio del popolo
ebraico durante il Secondo conflitto mondiale. Fra il 1939 e il 1945 circa 6 milioni di Ebrei
vennero sistematicamente uccisi dai nazisti del Terzo Reich con l’obiettivo di creare un
mondo più ‘puro’ e ‘pulito’. Numero stimato di ebrei alla vigilia della Seconda guerra mondiale
(in nero) e numero stimato delle vittime della S. (in rosso)
Numero stimato di ebrei alla vigilia della Seconda guerra mondiale (in nero) e numero stimato delle
vittime della S. (in rosso)
Alla base dello sterminio vi fu un’ideologia razzista e specificamente antisemita che affondava
le sue radici nel 19° sec. e che i nazisti, a partire dal libro Mein Kampf («La mia battaglia») di
A. Hitler (1925), posero a fondamento del progetto di edificare un mondo ‘purificato’ da tutto
ciò che non fosse ‘ariano’. Alla ‘soluzione finale’ (così i nazisti chiamarono l’operazione di
sterminio) si arrivò attraverso un processo di progressiva emarginazione degli Ebrei dalla
società tedesca. Le leggi di Norimberga del 1935 (di cui abbiamo già parlato nelle pagine
precedenti) legittimarono il boicottaggio economico e l’esclusione sociale dei cittadini ebrei;
dal 1938, e in particolare dalla cosiddetta ‘notte dei cristalli’ (8-9 novembre 1938, quando in
tutta la Germania le sinagoghe furono date alle fiamme e i negozi ebraici devastati) in poi, il
processo di segregazione e repressione subì un’accelerazione che sfociò nella decisione, presa
dai vertici nazisti nella Conferenza di Wannsee (gennaio 1942), di porre fine alla questione
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ebraica attraverso lo sterminio sistematico. Lo sterminio partì dalla Germania, ma si espanse
via via con le conquiste del Terzo Reich, colpendo gli Ebrei dei paesi occupati, vale a dire di
quasi tutta Europa. Essi furono in una prima fase ‘ghettizzati’, cioè forzosamente concentrati
in appositi quartieri delle città (il principale ghetto europeo, per estensione e numero di
abitanti, fu quello di Varsavia). Esistevano tre tipi di ghetto: i ghetti chiusi, quelli aperti e
quelli destinati alla “distruzione”. Il ghetto più grande in Polonia fu quello di Varsavia, dove
oltre 400.000 Ebrei vivevano ammassati in un'area di meno di due chilometri quadrati. Altri
grandi ghetti furono creati nelle città di Lodz, Cracovia, Bialostock, Lvov, Lublino, Vilnius,
Kovno, Cestokowa e Minsk. Decine di migliaia di Ebrei risiedenti in Europa Occidentale furono
deportati nei ghetti della parte orientale. I Tedeschi ordinarono agli Ebrei residenti nei ghetti
di indossare targhette di identificazione o bracciali, e ne obbligarono molti al lavoro forzato
per il Terzo Reich. Gli Ebrei risposero alle restrizioni del ghetto attuando varie forme di
resistenza: gli abitanti spesso organizzarono attività cosiddette illegali, come l'introduzione
segreta di cibo, medicine, armi o informazioni. Sovente essi superarono i muri del ghetto
all'insaputa dei Consigli Ebraici e senza la loro approvazione. Alcuni Consigli al completo, e in
altri casi solo alcuni dei loro membri, tollerarono o incoraggiarono tali attività illecite, in
quanto erano necessarie a mantenere in vita gli abitanti del ghetto. Nonostante i Tedeschi in
teoria dimostrassero di solito scarsa preoccupazione per i riti religiosi, o per la partecipazione
ad eventi culturali o a movimenti giovanili all'interno delle mura del ghetto, essi spesso videro
una minaccia alla sicurezza in qualunque riunione sociale e agirono senza scrupolo per
incarcerare o eliminare sia i capi di tali circoli che coloro che semplicemente li frequentavano.
Inoltre, le autorità germaniche proibirono generalmente anche qualunque forma di istruzione,
a tutti i livelli. In alcuni ghetti, membri dei movimenti di resistenza ebraici organizzarono
diverse insurrezioni armate; la più grande fu quella del ghetto di Varsavia, nella primavera del
1943. In seguito furono deportati nei campi di concentramento e di sterminio, costruiti
soprattutto in Europa orientale. Ad Auschwitz, Treblinka, Dachau, Bergen Belsen, Mauthausen
(ma furono decine e decine i campi disseminati in Europa, tasselli di un sistema pianificato nei
minimi dettagli) giungevano ogni giorno convogli carichi di persone.
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La cartina ritrae la collocazione dei campi di concentramento nazisti
Dopo la selezione iniziale, che ‘salvava’ temporaneamente coloro che erano in grado di
lavorare, una parte veniva inviata direttamente verso la meta cui tutti i deportati erano infine
destinati: la camera a gas. I campi di sterminio erano anche luoghi di torture, di esperimenti
pseudoscientifici su cavie umane (come quelli effettuati sui gemelli di J. Mengele), di lavori
sfiancanti e selezioni quotidiane: di tali atrocità è rimasta testimonianza nelle memorie di
coloro che riuscirono a sopravvivere. Vittime dello sterminio, oltre agli Ebrei, furono anche
zingari, omosessuali, testimoni di Geova, oppositori politici. Le SS tedesche e le unità di polizia
uccisero quasi 2.700.000 Ebrei nei campi di sterminio, tramite asfissia con gas velenoso o
tramite fucilazione. Circa sei milioni di Ebrei, uomini, donne e bambini, vennero uccisi
nell’Olocausto, cioè i due terzi degli Ebrei che vivevano in Europa prima della Seconda Guerra
Mondiale.
In Italia il regime fascista aveva emanato nel 1938 le leggi razziali che, tra l’altro, escludevano
gli Ebrei dalle scuole, da molte professioni, dalla vita sociale.
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La deportazione e lo sterminio iniziarono dopo il settembre 1943 quando, in seguito al crollo
del regime fascista e all’armistizio, i Tedeschi occuparono l’Italia settentrionale. Le autorità
della Repubblica sociale italiana collaborarono alla deportazione. Uno dei primi episodi fu il
rastrellamento del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943, nel corso del quale furono catturate
oltre 1000 persone.
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In Italia, furono operativi 35 campi di concentramento e transito. I principali, istituiti
dall'autorità tedesca, furono: il Campo di transito di Fossoli (in provincia di Modena), il Campo
di transito di Bolzano, (operativo da maggio 1944 a maggio 1945), la Risiera di San Sabba
(Trieste), il Campo di concentramento di Borgo San Dalmazzo (Cuneo), operativo da
settembre 1943 a febbraio 1944. La loro funzione fu principalmente quella di smistare verso i
campi di sterminio in Germania e Polonia ebrei, rom, dissidenti politici e testimoni di Geova.
Solo i prigionieri più pericolosi venivano fucilati nei campi.
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
Riporto di seguito una intervista fatta ad Elena Loewenthal (scrittrice e traduttrice
italiana, esperta di cultura ebraica) e tratta da lastampa.it, che ci servirà come input per
un confronto ed una riflessione. Riguarda il “giorno della memoria” (27 gennaio).
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Uno dei vagoni usati per la deportazione degli ebrei verso i campi di sterminio dal binario 21 della
stazione Centrale di Milano
Perché oggi si celebra il Giorno della Memoria?
Istituito tredici anni fa, il Giorno della Memoria si celebra il 27 gennaio perché in questa
data le Forze Alleate liberarono Auschwitz dai tedeschi. Al di là di quel cancello, oltre la
scritta «Arbeit macht frei» (Il lavoro rende liberi), apparve l’inferno. E il mondo vide
allora per la prima volta da vicino quel che era successo, conobbe lo sterminio in tutta la
sua realtà. Il Giorno della Memoria non è una mobilitazione collettiva per una solidarietà
ormai inutile. È piuttosto, un atto di riconoscimento di questa storia: come se tutti,
quest’oggi, ci affacciassimo dei cancelli di Auschwitz, a riconoscervi il male che è stato.
Che cosa è, che cosa rappresenta Auschwitz?
Auschwitz è il nome tedesco di Oswiecin, una cittadina situata nel sud della Polonia. Qui,
a partire dalla metà del 1940, funzionò il più grande campo di sterminio di quella
sofisticata «macchina» tedesca denominata «soluzione finale del problema ebraico».
Auschwitz era una vera e propria metropoli della morte, composta da diversi campi -
come Birkenau e Monowitz - ed estesa per chilometri. C’erano camere a gas e forni
crematori, ma anche baracche dove i prigionieri lavoravano e soffrivano prima di venire
avviati alla morte. Gli ebrei arrivavano in treni merci e, fatti scendere sulla cosiddetta
«Judenrampe» (la rampa dei giudei) subivano una immediata selezione, che li portava
quasi tutti direttamente alle «docce» (così i nazisti chiamavano le camere a gas). Solo ad
Auschwitz sono stati uccisi quasi un milione e mezzo di ebrei.
Con il termine Shoah che cosa si definisce?
Shoah è una parola ebraica che significa «catastrofe», e ha sostituito il termine
«olocausto» usato in precedenza per definire lo sterminio nazista, perché con il suo
richiamo al sacrificio biblico, esso dava implicitamente un senso a questo evento e alla
morte, invece insensata e incomprensibile, di sei milioni di persone. La Shoah è il frutto
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di un progetto d’eliminazione di massa che non ha precedenti, né paralleli: nel gennaio
del 1942 la conferenza di Wansee approva il piano di «soluzione finale» del cosiddetto
problema ebraico, che prevede l’estinzione di questo popolo dalla faccia della terra. Lo
sterminio degli ebrei non ha una motivazione territoriale, non è determinato da ragioni
espansionistiche o da una per quanto deviata strategia politica. È deciso sulla base del
fatto che il popolo ebraico non merita di vivere. È una forma di razzismo radicale che
vuole rendere il mondo «Judenfrei» («ripulito» dagli ebrei).
Quali sono gli antecedenti?
L’odio antisemita è un motivo conduttore del nazismo. La Germania vara nel 1935 a
Norimberga una legislazione antiebraica che sancisce l’emarginazione. Tre anni dopo
l’Italia approva anch’essa un complesso e aberrante sistema di «difesa della razza»,
rinchiudendo gli ebrei entro un rigido sistema di esclusione e separazione dal resto del
paese. Ma questa terribile storia ha dei millenari precedenti. Prima dell’Emancipazione,
ottenuta in Europa nella seconda metà dell’Ottocento, gli ebrei erano vissuti per millenni
come una minoranza appena tollerata, non di rado perseguitata e cacciata, e sempre
relegata entro i ghetti. Tanto nel mondo cristiano quanto sotto l’Islam. Visti con
diffidenza e odio per la loro fede tenace (e, dal punto di vista della maggioranza,
sbagliata), hanno sempre rappresentato il «diverso», la presenza estranea. Anche se da
millenni vivono qui e si sentono europei.
Perché la Shoah è un evento unico?
Dopo la Shoah è stato coniato il termine «genocidio». Purtroppo il mondo ne ha
conosciuti tanti, e ancora troppi sono in corso sulla faccia della terra. Riconoscere delle
differenze non significa stabilire delle gerarchie nel dolore: come dice un adagio ebraico
«Chi uccide una vita, uccide il mondo intero». Ma mai, nella storia, s’è visto progettare a
tavolino, con totale freddezza e determinazione, lo sterminio di un popolo. Studiando le
possibili forme di eliminazione, le formule dei gas più letali ed «efficaci», allestendo i
ghetti nelle città occupate, costruendo i campi, studiando una complessa logistica nei
trasporti, e tanto altro. La soluzione finale non è stata solo un atto di inaudita violenza,
ma soprattutto un progetto collettivo, un sistema di morte.
Perché ricordare e commemorare?
Il Giorno della Memoria non vuole misconoscere gli altri genocidi di cui l’umanità è stata
capace, né sostenere un’assai poco ambita «superiorità» del dolore ebraico. Non è infatti,
un omaggio alle vittime, ma una presa di coscienza collettiva del fatto che l’uomo è stato
capace di questo. Non è la pietà per i morti ad animarlo, ma la consapevolezza di quel che
è accaduto. Che non deve più accadere, ma che in un passato ancora molto vicino a noi,
nella civile e illuminata Europa, milioni di persone hanno permesso che accadesse.
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Mettiamoci alla prova!
1) Cosa si intende per shoah?
____________________________________________________________________________________________________________
2) Quando furono emanate in Italia le leggi razziali?
____________________________________________________________________________________________________________
3) In Italia non ci furono campi di concentramento.
4) Cosa erano i ghetti?
____________________________________________________________________________________________________________
5) Cosa erano i luoghi di sterminio?
____________________________________________________________________________________________________________
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La Resistenza italiana e la nascita della Costituzione
Per Resistenza, come si evince nella stessa enciclopedia online Treccani, si intende in senso lato “il
movimento di lotta popolare, politica e militare che si determinò durante la Seconda guerra
mondiale (1939-45) nelle zone occupate dagli eserciti tedesco e italiano contro gli invasori esterni e
contro i loro alleati interni e che a seconda dei paesi ebbe caratteristiche, finalità e anche intensità
diverse”.
In Italia il fenomeno della Resistenza trova le sue radici nel contesto che si andò a delineare dopo
l’8 settembre del 1943, data in cui Badoglio firmò segretamente l’armistizio con gli Alleati.
Contemporaneamente i nazisti passarono il confine al passo del Brennero ed occuparono l’Italia
settentrionale. L’Italia si trovò così tagliata in due: a Sud di Salerno (e poi della linea del fronte
stabilizzatasi sul Garigliano fra il 1943 ed il 1944) vi erano gli Anglo-Americani e il governo alleato
del maresciallo Badoglio; a Nord i Tedeschi, che liberarono Mussolini dalla prigionia e lo misero a
capo della Repubblica Sociale Italiana (RSI) fondata a Salò sul Lago di Garda (non è un caso che a
quegli anni risalga la costituzione in Italia di campi di transito la cui funzione era principalmente
quella di smistare verso i campi di sterminio in Germania e Polonia gli ebrei, i rom, i testimoni di
Geova, i dissidenti politici). Dall’8 settembre 1943 al 25 Aprile 1945, come già accennato, l’Italia
fu divisa in due da una linea di confine ben definita che, nel corso della II guerra mondiale, andò a
spostarsi sempre più verso nord, fino a che l’esercito tedesco non si ritirò definitivamente dal suolo
italiano.
In questo lasso di tempo nacque e si sviluppò la Resistenza: la guerra di liberazione nazionale
contro i nazi-fascisti. Come racconta lo stesso Massimo Ottolenghi, classe 1915 tessera 343 del
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Comitato di liberazione nazionale piemontese nel suo “monito alle nuove generazioni” (il testo è
Ribellarsi è giusto): “furono tanti i giovanissimi, anche sedicenni, che nel 1943 raggiunsero la
montagna per imbracciare un mitra. All’inizio sei da solo a decidere e ti senti contro tutti. Poi ti
accorgi che la tua idea avvicina tante persone come te, la tua scelta non è più un atto solitario ma un
destino da condividere”.
La Resistenza ebbe principalmente luogo nell’Italia settentrionale sotto la direzione del Comitato di
Liberazione Nazionale (CLN).
Come si legge in questa foto che ritrae un Comunicato diramato dal CLN: “nel momento in cui il
nazismo tenta di restaurare in Roma ed in Italia il suo alleato fascista, i partiti antifascisti si
costituiscono in Comitato di Liberazione Nazionale per chiamare gli italiani alla lotta e alla
resistenza”.
Il maggior contributo alla Resistenza venne dai giovani delle classi richiamate alle armi dalla
Repubblica sociale italiana, che scelsero di confluire nelle brigate partigiane e nelle altre
organizzazioni di lotta, nonché da militanti e dirigenti di tutti i partiti antifascisti Come si evince
dalla foto che ritrae un manifesto risalente al 1943, “Pena di morte per i disertori ed i renitenti di
leva”. Mussolini fece apparire sui muri i bandi di presentazione alle armi per le classi 1924-1925, di
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giovani cioè fra i 18 ed i 19 anni per andare a ricostituire il nuovo esercito fascista. Un bivio che si
presentò dinnanzi ad un’intera generazione che fu chiamata a fare una scelta.
Alcuni storici hanno evidenziato più aspetti contemporaneamente presenti all'interno del
fenomeno della Resistenza: una guerra patriottica contro l’invasore tedesco, una guerra civile fra
italiani fascisti ed antifascisti, una guerra di classe fra componenti rivoluzionarie e classi
borghesi.
Proprio la Resistenza, proprio l’opposizione alle barbarie e al dolore che l’alleanza con il
nazismo aveva portato, rappresenta le fondamenta, la base su cui è stata ricostruita
l’Italia democratica di oggi. Alcune delle persone che avevano sostenuto e dato vita alla
Resistenza, riuniti nel Comitato di Liberazione Nazionale (CLN), con la fine della guerra
(1945) e la liberazione dalle truppe nazi – fasciste, entrarono sulla scena politica italiana
lavorando per la creazione di un’Italia fondata sulla democrazia. Nel 1945 quindi, finita la
guerra, l’Italia viene liberata dalle truppe anglo – americane. Il 2 giugno del 1946 il popolo
italiano viene chiamato a votare. Ora che la II guerra mondiale era finita e gli alleati anglo –
americani avevano liberato l’Italia dal dominio nazi - fascista, il popolo italiano si trovava
nuovamente libero, libero di scegliere il proprio futuro! Andando a votare ad ogni italiano,
uomo o donna che avesse compiuto almeno 21 anni di età (nel 1975 il limite di età passa
invece da 21 a 18), furono date due schede: una per scegliere fra Monarchia e Repubblica (il
referendum istituzionale), l’altra per eleggere l’Assemblea Costituente. Quelle del 1946 furono
le prime elezioni a suffragio universale maschile e femminile.
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Alla fine di queste elezioni vinse la Repubblica. Il re Umberto II, successore di Vittorio
Emanuele III, ammise la fine della Monarchia in Italia e andò in esilio. Capo provvisorio dello
Stato fu Enrico De Nicola; il primo Presidente della Repubblica, eletto dal Parlamento secondo
le regole contenute nella nuova Costituzione, fu Luigi Einaudi nel 1948. Quando nel 1946
l’Assemblea Costituente si insediò iniziarono subito i lavori per creare la nuova Costituzione
(che andava a sostituire lo Statuto Albertino, Carta Costituzionale del Regno d’Italia dal 1861).
I deputati che entrarono a far parte dell’Assemblea Costituente furono per lo più persone che
avevano avuto un ruolo attivo nel periodo della “Resistenza” ed avevano quindi combattuto la
dittatura nazi-fascista. (Alcuni “nomi famosi” che aveva preso parte alla Resistenza ed
entrarono poi a far parte dell’Assemblea Costituente, lavorando pure per la creazione della
nostra Costituzione, furono: Giulio Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro, Amintore Fanfani, Aldo
Moro, Luigi Einaudi, Giorgio La Pira, Alcide De Gasperi). L’Italia ormai da Regno era diventata
una Repubblica, era uno stato libero e aveva bisogno di un testo che gestisse ed articolasse
questa libertà. Ecco perché l’Assemblea Costituente lavorò subito per creare la nuova
Costituzione!
Era una carta fatta dai cittadini (dalle persone che attraverso il voto tutto il popolo aveva
liberamente scelto) e per i cittadini. Nel 1947 la commissione approvò il testo della nuova
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
97
Costituzione che entrò in vigore il primo gennaio del 1948. Per la prima volta gli italiani
avevano una Costituzione fatta direttamente dai loro rappresentanti liberamente e
democraticamente eletti. Quello della Costituzione è un dono, come scrive Ottolenghi, “della
nostra generazione che ne ha pagato un alto prezzo. E’ un dono prezioso che siete tenuti a
difendere nel vostro interesse e per il vostro domani. E’ il bene supremo, è la Bibbia dei diritti,
la legge sacra che governa le regole delle nostre istituzioni, che controlla i limiti e la legittimità
delle nostre leggi”
La nostra costituzione nasce quindi da un popolo sofferente e fortemente provato dalle
barbarie della II guerra mondiale. Come disse Piero Calamandrei (una delle persone che
presero parte all’Assemblea Costituente) in un discorso fatto ai giovani sulla nascita della
Costituzione:
“Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle
montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove
furono impiccati. Dovunque è morto un Italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì,
o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione”.
La Costituzione è nata dalla voglia di riscattare la propria dignità e la propria libertà
dalla dittatura nazi-fascista. La Costituzione è nata dal bisogno di dare una base, delle
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fondamenta su cui creare il nuovo Stato Italiano… uno Stato che, uscito logorato dal II
conflitto mondiale, andava a ricostruire la propria economia e la propria società. La
Costituzione è nata per indicare a ciascuno i propri diritti e doveri, i valori, i principi e
le regole su cui si fonda il nostro Stato. La Costituzione ha rappresentato la nascita di una
nuova Italia che, uscita dalla guerra, andava e ricostruire se stessa su basi di democrazia ed
uguaglianza.
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
Dopo aver parlato delle fondamenta storiche sulle quali è sorta la nostra Costituzione, volgiamo
ora lo sguardo sulla Costituzione europea, un progetto di revisione dei trattati fondativi
dell'Unione Europea, redatto nel 2003 dalla Convenzione Europea e definitivamente
abbandonato nel 2009 a seguito dello stop alle ratifiche imposto dai no ai referendum in Francia
e Paesi Bassi. Diverse innovazioni della Costituzione sono state incluse nel successivo Trattato di
Lisbona, entrato in vigore il 1º dicembre 2009.
Come si evince dal sito dell’Unione europea http://europa.eu, il trattato che adotta una
Costituzione per l'Europa, si appella alla volontà dei popoli europei di superare le antiche
divisioni per forgiare il loro comune destino, pur restando fieri della loro identità e della loro
storia nazionali. Gli Stati membri attribuiscono competenze all'Unione per conseguire i loro
obiettivi comuni; l'Unione coordina le politiche degli Stati membri dirette al conseguimento di
tali obiettivi ed esercita sulla base del modello comunitario le competenze attribuitele dalla
Costituzione. L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della
democrazia, dell'uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani,
compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori, enunciati nell'articolo I-
2, sono comuni agli Stati membri. Inoltre, le società degli Stati membri si caratterizzano per il
pluralismo, la non discriminazione, la tolleranza, la giustizia, la solidarietà e la parità tra uomini e
donne. Tali valori svolgono un ruolo importante, e soprattutto in due casi concreti. In primo
luogo, il rispetto di questi valori è una condizione preliminare per qualsiasi adesione di un nuovo
Stato membro all'Unione secondo la procedura enunciata all'articolo I-58. In secondo luogo, la
violazione di tali valori può comportare la sospensione dei diritti di appartenenza di uno Stato
membro all'Unione (articolo I-59).
Rispetto ai trattati esistenti, la Costituzione ha incluso nuovi valori, ossia la dignità umana,
l'uguaglianza e i diritti delle minoranze, come anche la caratterizzazione delle società degli
Stati membri formulata in precedenza.
A tali obiettivi generali si aggiungono una serie di obiettivi più dettagliati:
uno spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia senza frontiere interne ;
un mercato interno nel quale la concorrenza è libera e non è falsata;
lo sviluppo sostenibile, basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei
prezzi, su un'economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena
occupazione e al progresso sociale, e su un elevato livello di tutela e di miglioramento
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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della qualità dell'ambiente;
la promozione del progresso scientifico e tecnologico;
la lotta contro l'esclusione sociale e le discriminazioni, la promozione della giustizia e
della protezione sociale, la parità tra uomini e donne, la solidarietà tra le generazioni e la
tutela dei diritti del minore;
la promozione della coesione economica, sociale e territoriale e della solidarietà tra gli
Stati membri.
Inoltre, l'Unione rispetta la diversità culturale e linguistica e vigila sulla salvaguardia e sullo
sviluppo del patrimonio culturale europeo.
Agli obiettivi attualmente enunciati nei trattati, dunque, la Costituzione aggiunge la promozione
del progresso scientifico e tecnologico e la solidarietà tra le generazioni, nonché la tutela dei
diritti dei minori. La coesione economica e sociale viene dotata di una dimensione territoriale.
Anche la diversità culturale e linguistica, insieme alla salvaguardia e allo sviluppo del patrimonio
culturale europeo, diventano obiettivi dell'Unione.
Il paragrafo 4 dell'articolo I-3 è dedicato alla promozione dei valori e degli interessi dell'Unione
nelle sue relazioni con il resto del mondo. Tale paragrafo raggruppa gli obiettivi, ripresi dal
trattato UE, relativi alla politica estera e di sicurezza comune, nonché le disposizioni del trattato
CE in materia di cooperazione allo sviluppo:
la pace;
la sicurezza ;
lo sviluppo sostenibile della terra;
la solidarietà e il rispetto reciproco tra i popoli;
il commercio libero ed equo;
l'eliminazione della povertà;
la tutela dei diritti umani (in particolare quelli del minore);
lo sviluppo del diritto internazionale (ovvero il rispetto dei principi della Carta delle
Nazioni Unite).
La Costituzione include come nuovo obiettivo la tutela dei diritti dei minori sulla scena
internazionale.
Infine, nella parte III del trattato costituzionale, gli articoli da III-115 a III-122 contengono alcune
disposizioni relative a esigenze più specifiche che l'Unione deve rispettare nell'attuazione della
Costituzione. Si tratta in particolare della parità tra uomini e donne, della lotta contro le
discriminazioni, delle esigenze relative all'impiego e alla politica sociale, della tutela
dell'ambiente e dei consumatori e della considerazione della specificità dei servizi d'interesse
generale.
Principi fondamentali
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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L'articolo I-4 della Costituzione garantisce la libera circolazione delle persone, delle merci, dei
servizi e dei capitali all'interno dell'Unione (le famose "quattro libertà") e vieta rigorosamente
qualsiasi discriminazione in base alla nazionalità.
Per quanto attiene alle relazioni tra l'Unione e gli Stati membri, il trattato costituzionale riunisce
le disposizioni pertinenti degli attuali trattati nell'articolo I-5. Si tratta in particolare del rispetto
dell'identità nazionale nonché della struttura fondamentale, politica e costituzionale, degli Stati
membri. Nel medesimo articolo è integrato anche il principio di leale cooperazione.
L'articolo I-6 del trattato costituzionale è dedicato al diritto dell'Unione. Esso definisce il
principio del primato del diritto dell'Unione europea sul diritto degli Stati membri. Quest'ultimo,
elaborato negli anni dalla Corte di giustizia attraverso la sua giurisprudenza, è da tempo
riconosciuto come un principio fondamentale ed un elemento chiave del meccanismo di
funzionamento dell'Unione. La Costituzione lo rende semplicemente più visibile, inserendolo in
primo piano nel trattato.
L'articolo I-7 attribuisce all'Unione europea la personalità giuridica. Fondendo la Comunità
europea con l'Unione europea, la nuova Unione avrà dunque il diritto di concludere accordi
internazionali , proprio come la Comunità europea oggi, senza per questo mettere in causa la
ripartizione delle competenze tra l'Unione e gli Stati membri.
Simboli dell'unione
L'articolo I-8 elenca i simboli dell'Unione:
la bandiera dell'Unione, che rappresenta un cerchio di dodici stelle dorate su sfondo blu;
l'inno dell'Unione, tratto dall'Inno alla gioia della Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven;
il motto dell'Unione, «Unità nella diversità»;
la moneta dell'Unione, l'euro;
il 9 maggio, celebrato in tutta l'Unione come la giornata dell'Europa in memoria della
dichiarazione di Robert Schuman del 1950, che ha dato avvio al progetto d'integrazione
europea.
La Costituzione non crea nuovi simboli, ma riprende quelli già utilizzati dall'UE e noti ai cittadini
e dà loro rango costituzionale.
Diritti fondamentali
La Costituzione introduce importanti innovazioni in materia di protezione dei diritti
fondamentali. L'articolo I-9 del trattato costituzionale riprende la garanzia dei diritti
fondamentali del trattato UE, facendo riferimento alla Convenzione europea di salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) nonché alle tradizioni costituzionali comuni
agli Stati membri. Tale articolo apre anche la via per un'adesione formale dell'Unione alla CEDU. I
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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diritti fondamentali fanno dunque parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali.
Un protocollo, allegato alla Costituzione, stabilisce che l'adesione dell'Unione alla CEDU dovrà
preservare le caratteristiche specifiche dell'Unione stessa e del suo ordine giuridico e non dovrà
incidere sulla situazione specifica degli Stati membri nei confronti della CEDU. Inoltre, una
dichiarazione allegata all'atto finale della Conferenza intergovernativa (CIG) prende atto
dell'esistenza di un regolare dialogo tra la Corte di giustizia dell'Unione europea e la Corte
europea dei diritti dell'uomo, che potrà essere rafforzato non appena l'Unione europea avrà
aderito a detta Convenzione. Il trattato costituzionale integra inoltre la Carta dei diritti
fondamentali, proclamata solennemente durante il Consiglio europeo di Nizza del dicembre
2000, nella parte II della Costituzione. L'Unione europea si dota dunque di un catalogo dei diritti
fondamentali che sarà giuridicamente vincolante per l'Unione, le sue istituzioni, agenzie e organi,
ma anche per gli Stati membri, relativamente all'attuazione del diritto dell'Unione. L'inclusione
della Carta nella Costituzione non compromette la ripartizione delle competenze tra l'Unione e
gli Stati membri. L'inclusione della Carta nel trattato costituzionale rende quest'ultima più
visibile ai cittadini, che saranno meglio informati sui loro diritti. Inoltre, la Carta contiene dei
diritti supplementari non compresi nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, in
particolare i diritti sociali dei lavoratori, la protezione dei dati, la bioetica o il diritto ad una
buona amministrazione.
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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Mettiamoci alla prova!
1) Cosa si intende per Resistenza?
____________________________________________________________________________________________________________
2) Quando e perché nasce la Resistenza in Italia?
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3) Per cosa sta l’acronimo RSI?
____________________________________________________________________________________________________________
4) In che senso la Resistenza fu una guerra civile?
____________________________________________________________________________________________________________
5) In che anno avvenne il suffragio universale maschile e femminile?
____________________________________________________________________________________________________________
6) Da chi era costituita l’Assemblea Costituente e che ruolo aveva?
____________________________________________________________________________________________________________
7) Quando entrò in vigore la Costituzione italiana?
____________________________________________________________________________________________________________
8) Su quali fondamenta storiche trae origine la Costituzione italiana?
____________________________________________________________________________________________________________
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Il “miracolo economico” degli anni ‘60
A conclusione di questo percorso, volgiamo lo sguardo verso alcuni aspetti socio-economici
che caratterizzarono l’Italia del dopoguerra: il “miracolo economico” degli anni ’60, i flussi
migratori degli anni ’50 e la nascita della TV.
Nel panorama mondiale gli anni che seguirono alla II guerra mondiale presero il nome di
guerra fredda; la contrapposizione politica, ideologica e militare che venne a crearsi nel 1945
tra due blocchi internazionali, categorizzati come Occidente (gli Stati Uniti d'America, gli
alleati della Nato e i Paesi amici) ed Oriente, o "blocco comunista" (l'Unione Sovietica, gli
alleati del Patto di Varsavia e i Paesi amici).
Il “miracolo economico” degli anni ‘60
Uscita logorata dalla seconda guerra mondiale l’Italia andava lentamente a ricostruire sé
stessa; la propria dignità, la propria società, la propria economia. Primo segno tangibile di
questa voglia di ripresa fu, come abbiamo detto nelle pagine precedenti, la creazione della
legge fondamentale e fondativa della Repubblica Italiana: la Costituzione. Ma nell’immediato
dopoguerra che situazione c’era in Italia a livello economico e sociale? L’economia era
sfinita, provata e a livello sociale la condizione in cui il nostro Paese versava era la
stessa di inizio secolo: agricola arretrata e provinciale. Quaranta anni più tardi però lo
stesso Paese, l’Italia, diventerà uno dei sette più industrializzati al mondo, integrato nel
sistema occidentale di mercato ed il tenore di vita dei suoi cittadini si può definire tra i più
elevati. Il volto dell'Italia è dunque decisamente cambiato da allora, e per certi aspetti è
irriconoscibile, trasformato da un processo di accumulazione e di urbanizzazione così
rapido e profondo da avere pochi altri riscontri nella storia europea del dopoguerra. “La
società italiana conobbe una rottura davvero grande con il passato: nel modo di
produrre, di pensare e di sognare, di vivere il presente e di progettare il futuro”. Cosa
aveva reso possibile una tale trasformazione della società italiana? I fattori di cambiamento
furono tanti e distribuiti nel tempo, ma il perno di tutto va cercato in un periodo
relativamente limitato, che va dalla metà degli anni '50 al 1963, e che ha preso il nome di
"miracolo economico". Si parlò di “miracolo” perché fra gli anni ’50 ed il 1963 si
verificarono cambiamenti socio-economico-culturali improvvisi e del tutto fuori
dall’ordinario. Effettivamente però questo “boom economico” non nacque dal nulla, vi sono
delle premesse storiche che hanno portato poi alla sua determinazione. Certo è, però, che la
rapidità (e quindi la traumaticità) con cui si è assistiti al passaggio da un tipo di economia ad
un’altra non solo non ha eliminato ma anzi ha accentuato maggiormente i già gravi e
radicati problemi strutturali che caratterizzavano l’Italia prima della guerra. Prima di
definire i pro ed i contro di questo “boom economico”, cerchiamo di darne una definizione,
cerchiamo di capire di cosa si tratti.
“Boom economico”
A partire dalla fine degli anni ’50 ci fu in Italia una fase di rapida trasformazione delle
strutture economiche e sociali. Fu un processo che in dieci anni trasformò la penisola da
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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paese agricolo, sostanzialmente sottosviluppato, a moderno paese industriale. Fra il
1959 ed il 1962 ci fu un grandissimo aumento dell’economia determinato da una serie di
fattori simultanei.
Fattori che determinarono il boom economico:
1.congiuntura internazionale che offriva opportunità di crescita per le imprese italiane (alla
fine della seconda guerra mondiale due fatti storico-politico-economico segnano una svolta
sul panorama europeo: l’accordo di Bretton Woods ed il Piano Marshall. L’accordo di Bretton
Woods stabilì regole per le relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi
industrializzati del mondo, un ordine monetario totalmente concordato pensato per
governare i rapporti monetari fra stati nazionali indipendenti. Il Piano Marshall prevedeva
una serie di aiuti economo - finanziari per cercare di ricostruire l’Europa). Più che
l’intraprendenza e l’ abilità degli imprenditori italiani, ebbero effetto l’incremento vertiginoso
del commercio internazionale e il conseguente scambio di manufatti che lo accompagnò.
2. Fine del tradizionale protezionismo dell’italia (grazie alla congiuntura internazionale, e
all’intensificarsi delle relazioni commerciali e finanziarie fra i vari paesi, il sistema produttivo
italiano si rivitalizzò)
3. Disponibilita’ di nuove fonti di energia (scoperta del metano e degli idrocarburi in Val
Padana)
4. Trasformazione dell’industria dell’acciaio (la realizzazione di una moderna industria
siderurgica sotto la protezione dell'IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale, permise di
fornire alla rinata industria italiana acciaio a prezzi sempre più bassi)
Il maggior impulso a questa espansione venne proprio da quei settori che avevano
raggiunto un sufficiente livello di sviluppo tale da consentirgli di reggere l’ingresso
dell'Italia nel Mercato Comune (il Mercato Comune è il precursore dell’Unione Europea, è
l'area dei paesi della comunità europea su cui si realizza la libera circolazione di merci, servizi,
persone e capitali).
(Negli anni del “boom economico” il settore industriale registrò un notevole
incremento; l’aumento produttivo maggiore ci fu nel settore delle autovetture).
5. Basso costo del lavoro (gli alti livelli di disoccupazione negli anni ’50 furono la condizione
perché la domanda di lavoro superasse abbondantemente l’offerta, con le prevedibili
conseguenze in termini di andamento dei salari. A partire dalla fine degli anni ’50, infatti, la
situazione occupazionale cambiò drasticamente: la crescita divenne notevole soprattutto nei
settori dell’industria e del terziario).
Il boom nel settore dell’industria e del terziario andò però a scapito del settore agricolo. La
politica agricola comunitaria, fra l’altro, aveva assecondato questa tendenza prevedendo essa
stessa benefici e incentivi destinati prevalentemente ai prodotti agricoli del Nord Europa. Il
risultato di questo processo fu l’imponente movimento migratorio avutosi negli anni
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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‘60 e ‘70 (del flusso migratorio e dei motivi che lo determinarono ne parleremo nei capitoli
successivi).
Intorno al 1954 il ministro dell’economia Vanoni predispose un piano per lo sviluppo
economico controllato che, negli intenti del governo, avrebbe dovuto programmare il
superamento dei maggiori squilibri sociali e geografici (il crollo dell’agricoltura, la
profonda differenza di sviluppo tra Nord e Sud); ma questo piano non portò ad alcun
risultato. Le indicazioni che vi erano contenute in materia di sviluppo e di incremento del
reddito e dell’occupazione, si basavano su una previsione fortemente sottostimata sul ruolo
che avrebbe dovuto giocare il progresso tecnologico e l’incremento della produttività del
lavoro che ne sarebbe derivato. Quelle previsioni furono, quindi, travolte da un processo
d’espansione, ben lungi da quel ristagno che il piano Vanoni metteva nel conto delle
previsioni. Proprio perché non previsto, e per mancanza di un incanalamento regolato della
crescita, il processo di espansione portò con sé gravi squilibri sul piano sociale. Il
risultato finale fu quello di portare il «boom economico» a realizzarsi secondo una logica
tutta sua e a dar luogo a profondi scompensi.
Elementi negativi del “boom”
1.Il primo di questi fu la cosiddetta “distorsione dei consumi”. Una crescita orientata
all’esportazione determinò una spinta produttiva orientata sui beni di consumo privati,
spesso su quelli di lusso, senza un corrispettivo sviluppo dei consumi pubblici. Scuole,
ospedali, case, trasporti, tutti beni di prima necessità restarono infatti parecchio
indietro rispetto alla rapida crescita della produzione di beni di consumo privati. Il
modello di sviluppo sottinteso al «boom» implicò dunque una corsa al benessere tutta
incentrata su scelte e strategie individuali e familiari, ignorando invece le necessarie
risposte pubbliche ai bisogni collettivi quotidiani.
2.Un altro dei mutamenti più rilevanti degli anni del “miracolo economico” fu la profonda
trasformazione della struttura di classe della società italiana . Uno degli indicatori che
mostravano come l’Italia fosse entrata ormai nel novero dei paesi sviluppati, fu il rapido
incremento del numero di impiegati, sia nel settore privato, che nel settore pubblico. La
categoria dei tecnici crebbe in maniera altrettanto rilevante in quegli anni. Al vertice del
settore si collocavano i manager del comparto industriale, che furono i veri soggetti delle idee
sulla nuova organizzazione industriale, le cui teorie avevano da tempo fatto scuola nelle
Università americane. Il numero di dirigenti d’azienda che non vantavano titoli di proprietà
delle realtà produttive che dirigevano aumentò sensibilmente negli anni del <<miracolo>> e,
parimenti, aumentò il loro potere di condizionamento del ceto politico, soprattutto di quello
che controllava direttamente o indirettamente l’industria pubblica.
Cambiamenti in positivo determinati dal boom
Gli anni della grande espansione furono anche teatro di straordinarie trasformazioni degli
stili di vita, del linguaggio e dei costumi degli italiani. Nessuno strumento ebbe un ruolo
così rilevante nel mutamento molecolare della società quanto la televisione.
Progressivamente essa impose un uso passivo e familiare del tempo libero a scapito delle
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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relazioni di carattere collettivo e socializzante che, alla lunga, avrebbe modificato
profondamente i ruoli personali e gli stili di vita oltre che i modelli di comportamento. A
questo si accompagnò anche un deciso aumento del tenore di vita delle famiglie italiane. Nelle
case facevano la loro comparsa le prime lavatrici e frigoriferi (la cui produzione era svolta
soprattutto da imprese italiane di piccole e medie dimensioni). Anche le automobili
cominciavano a diffondersi sulle strade italiane con le Fiat 500 e 600 che diede grande
impulso alla produzione della casa torinese. Si costruirono anche le prime autostrade a partire
dalla Milano-Napoli, l'Autostrada del Sole.
Italia: le grandi migrazioni interne
A partire dagli anni ’50 ebbe inizio una nuova fase dell’emigrazione (l’ultima delle quattro fasi
di cui abbiamo parlato nella prima parte della dispensa): l’emigrazione europea.
CAUSE MIGRAZIONE ANNI ’50 – TESSUTO ECONOMICO SOCIALE
Il “boom economico” che fra gli anni ’50 ed il 1963 aveva portato ad un notevole sviluppo
dell’economia italiana (vedi capitolo precedente) se da una parte aveva determinato
l’incremento delle industrie e del settore terziario, d’altra parte però aveva accentuato
ulteriormente gli squilibri fra nord e sud. Questo avvenne perché il boom dell’industria
italiana non si verificò in modo omogeneo in tutto il Paese, ma interessò solo alcune
parti; si concentrò esclusivamente nel “triangolo industriale” Torino, Milano, Genova. Il sud
ne rimase escluso; questo non fece che accentuare ancor più quella differenza sociale,
economico, culturale già esistente fra nord e sud chiamata “questione meridionale”. Ad
accentuare ancora di più le differenze fra nord e sud fu la questione dell’agricoltura nel
meridione. Nel 1950 fu fatta la riforma agraria dal governo De Gasperi per cercare di sanare
l’economia nel mezzogiorno d’Italia. Nel 1950 di fronte alle pressanti richieste dei braccianti e
dei lavoratori della terra, stanchi di vivere di stenti e in povertà, il governo De Gasperi vara la
riforma che si basò sulla distribuzione della terra, indirizzandosi contro il latifondismo, cioè
quelle grandi estensioni appartenenti ad un unico proprietario, e caratterizzate da colture
estensive o addirittura da terre in abbandono. Nel Sud vennero distribuiti circa 700.000 ettari
di terra a 100.000 famiglie di braccianti. Se da una parte la riforma agraria accontentò
l’antica fame di terra dei contadini meridionali, che con le loro proteste stavano
diventando ormai un “focolaio di contestazione” pericoloso, d’altra parte però non
bastò comunque a migliorare le condizioni economiche del sud. Viste le difficili
condizioni economico – lavorative del sud e visto il boom delle industrie al nord, inizia
un notevole flusso migratorio dal sud al nord. A differenza della grande emigrazione che si
era attuata tra '800 e '900 (la “grande emigrazione”), questa non è diretta soltanto verso
l'estero, che in quegli anni significa specialmente il Belgio, ma soprattutto verso
l’interno, verso l’Italia settentrionale. Si tratta quindi di una migrazione interna!
L'impetuoso sviluppo dell'industria del Nord negli anni del "miracolo economico", provoca
quindi un fenomeno di migrazioni interne senza precedenti nella storia d'Italia, sia per le sue
dimensioni, sia per le trasformazioni sociali cui esso dà luogo. Tra il 1951 e il 1967 più di 5
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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milioni di persone lasciano le campagne, attratte dalla prospettiva di lavorare
nell'industria e tra esse una larga fetta proviene dal Sud.
L’emigrazione in Belgio
Vengono conclusi in questi anni vari accordi bilaterali tra Italia e Belgio, che definiscono
sostanzialmente gli aspetti finanziari dell'immigrazione italiana. Gli immigrati italiani si
dirigono in misura considerevole verso le miniere di carbone del Belgio: sono circa 24.000 nel
1946, oltre 46.000 nel 1948. A parte un periodo di flessione corrispondente agli anni '49-'50,
anni di rallentamento dell'espansione economica, il movimento migratorio continua con
grande intensità, raggiungendo la punta più elevata nel 1961, quando gli italiani
rappresentano il 44,2 per cento della popolazione straniera in Belgio, raggiungendo le
200.000 unità.
Migranti dal nord e migranti dal sud
Per chi lasciava le campagne del Nord la situazione era, in genere, più favorevole. C'era, sì, una
forte corrente migratoria dalle zone collinari povere di alcune regioni (soprattutto del
Veneto) verso città lontane come Milano e Torino, o verso l'estero.
Ma nella maggior parte dei casi si trattava di andare dalla campagna al capoluogo di provincia,
o a un grosso paese in cui erano sorte industrie. In questi casi gli spostamenti erano limitati
(poche decine di chilometri) o addirittura inesistenti: molti potevano continuare a risiedere
dov'erano prima, e limitarsi a cambiare mestiere. In termini di condizioni di vita, di abitudini,
di integrazione nell'ambiente sociale circostante, i cambiamenti erano modesti e non
drammatici. Ben diverso era, invece, il caso di chi abbandonava la campagna meridionale.
Qui, essendo mancato - o assai ridotto nelle sue dimensioni - uno sviluppo industriale
moderno, partire significava fare non decine, ma centinaia e anche migliaia di
chilometri. Significava passare in un mondo diverso, caratterizzato da abitudini,
mentalità diverse e spesso ostili. Il quartiere di San Salvario a fianco della stazione di Porta
Nuova a Torino è stato per anni il primo approdo degli immigrati dal Sud, che appena arrivati
cominciavano a girare per quelle strade alla ricerca di un alloggio. In un clima di diffidenza,
spesso l'unica soluzione era rappresentata dalle pensioni ed affittacamere che
noleggiavano i letti secondo i turni di lavoro delle fabbriche.
La nascita della tv
Sulla scia del grande “miracolo economico” se da una parte si determinarono elementi
negativi (l’elemento negativo che abbiamo valutato noi è la non omogenea crescita del
settore industriale che, accentuando il divario fra un nord che dava lavoro ed un meridione
già segnato dal malessere economico, determinò un notevole flusso migratorio) d’altra
parte però ci furono straordinarie trasformazioni degli stili di vita, del linguaggio e dei
costumi degli italiani. L’oggetto che forse meglio di tutti esprime il “cambiamento dei
tempi” e la voglia di una società che, sulla scia del benessere economico, voleva
evolversi e guardare avanti è certamente la Televisione.
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Dalla radio alla tv
Prima della comparsa della Televisione l’oggetto che maggiormente aveva attratto la curiosità
e l’interesse delle persone, entrando a “far parte delle loro famiglie”, era la radio. Gli anni ’20
avevano rappresentato l’affermazione della radio, la prima forma conosciuta al mondo di
broadcasting (trasmissione). La radio porta per la prima volta la contemporaneità nella
riproduzione dei suoni ed annulla le distanze, l’ascoltatore ha quella sensazione di
“essere là” che solo lo spettacolo dal vivo e la partecipazione diretta avevano, fino allora,
consentito. La sua sfera privata incorpora ora, forse per la prima volta, elementi propri della
sfera sociale. Non importa quanto sia lontano dai grandi centri, quanto modesta sia la
sua abitazione: ogni giorno arrivano nella sua casa le notizie del momento. I grandi
eventi giungono in diretta a casa sua: la benedizione papale o i discorsi dei governanti, le
performance dei cantanti e degli attori più famosi. Tutto ciò che prima era esclusivo, costoso,
raro, eccezionale, lento nella diffusione, tende a diventare accessibile, gratuito, frequente,
quotidiano, sincrono. Sia pure in una forma virtuale, senza una partecipazione diretta, l’utente
della radio è in collegamento con il mondo in una forma che, fino a pochi anni prima, era stata
il privilegio di pochi. La radio costituisce una nuova abitudine; per la prima volta la vita
familiare dispone di un personaggio esterno, un “ospite fisso” dalle mille risorse, attorno al
quale si riorganizzano la conversazione, gli orari, i rapporti fra i vari membri della famiglia.
Essa trasmette informazione, musica, radiodrammi, intrattenimento di varietà, conferenze,
dibattiti e programmi educativi, talvolta politici, insieme a molte informazioni di servizio: a
cominciare dalle previsioni meteorologiche. Per capire il ruolo “centrale”che aveva la radio
nella società basti pensare che durante la guerra sarà proprio una radio ( Radio Londra ) a
supportare sforzi e speranza per la conclusione della guerra (era uno degli unici mezzi che le
persone avevano a disposizione per “avere notizie da fuori”). Nella seconda metà degli anni
‘30 in vari paesi si era pronti per la televisione; ma la crescente tensione
internazionale, che portò alla guerra, non soltanto impedì la produzione degli
apparecchi e il lancio della tv, ma soppresse le condizioni sociali di sfondo, come il
benessere, il desiderio di investire in beni durevoli per una migliore qualità della vita,
o una coesione sociale sufficiente, che potevano rendere plausibile la televisione.
Queste condizioni ci furono invece dopo la guerra. Tra il 1945 e il 1955 la tv si diffuse in
condizioni di crescente prosperità economica, di cui non aveva goduto la radio negli
anni ‘30. All’inizio la visione fu collettiva (quando nei paesini una famiglia benestante
comprava la Tv, invitava tutto il vicinato a guarde “Lascia o raddoppia?” e “Il Musichiere”), ma
appena possibile essa si diffuse in tutte le case. In questo, forse, si coglie un aspetto negativo
infatti, come risulta scritto su un giornale dell’epoca: “Sta nascendo un nuovo costume e pochi
se ne accorgono. Famiglie intere che prima erano solite trascorrere le serate in casa escono
all’aperto: si stipano nei bar, nei caffè all’angolo delle strade che possiedono il televisore”. Se la
radio aveva cominciato a costituire un supporto per la costruzione di un nuovo senso della
vita, questa funzione fu svolta assai meglio dalla tv. Dopo la fine della seconda guerra
mondiale la ripresa economica permetteva la crescita degli acquisti e dei consumi, nella
quale procurarsi un televisore diventava a un certo punto indispensabile. La
televisione guidò le trasformazioni del senso comune che questi processi sociali
portarono con sé; contribuì per la prima volta a unificare le lingue nazionali superando
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particolarismi e dialetti; costituì una forma di socializzazione o, se preferiamo, di
educazione alla vita urbana, di “costruzione di società”, fornendo nei suoi programmi
esempi e modelli di vita agiata e di un più ricco consumo. Nel 1954 iniziano in Italia le
trasmissioni televisive (le trasmissioni ufficiali della Rai iniziano alle ore 11 di domenica
3 gennaio 1954. Si inaugurano i centri di trasmissione di Milano, di Torino e di Roma e la
prima edizione del telegiornale fu interamente dedicata a quest’evento).
Ecco nascere pertanto "il nuovo focolare" che tanta influenza avrà nei comportamenti e
nell'organizzazione della nostra società, anche in aspetti banali quali l'orario della cena,
l'orario del sonno dei bambini ( “a letto dopo Carosello…” ) e perché no anche nel nascere di
nuovi piccoli conflitti, quali la scelta dei canali o la "gestione" del telecomando.
Carosello
Un “mito” legato alla storia della Tv in Italia è il Carosello (che, come ho già detto prima,
era andato ad incidere nelle abitudini delle persone indicando la fine della trasmissione come
l’orario del sonno dei bambini… “a letto dopo Carosello…!”). Carosello nasce il 3 febbraio 1957
alle 20.50. Le scenette dovevano essere in bianco e nero. Il titolo del programma rievocava un
celebre film musicale da poco uscito, Carosello napoletano. Il teatrino è costruito sul modello
di quelli napoletani. La musica riadatta una vecchia melodia popolare napoletana di autore
sconosciuto, I pagliacci, a cui si aggiungono un rullo di tamburi e una bella tarantella.
Carosello diviene il breve il programma più seguito della Televisione di Stato, unica
trasmissione interamente ideata, scritta e diretta da privati e che fu per molti giovani alle
prime armi una grande nave scuola per imparare il mestiere.Nel 1961 l'ascolto di Carosello,
nonostante la nascita di altri programmi di intrattenimento, è di 7 milioni e 800 mila
spettatori. Nel 1963 la vecchia sigla viene cambiata vengono raffigurate quattro celebri piazze
di città italiane: Venezia, Siena, Napoli e Roma. L'ascolto é di 8 milioni e 200 mila. Il primo
gennaio 1976 va in onda l'ultimo Carosello: una Raffaella Carrà commossa recita l'addio al
programma brindando con lo Stock e ringraziando tutti quelli che vi hanno lavorato.Gli ultimi
ascolti di Carosello parlavano di 19 milioni di italiani, fra cui 9 milioni di bambini.
Ufficialmente, la decisione di sospendere il programma è della Commissione parlamentare di
vigilanza della Rai, che tende a ridurre la pubblicità ai vari prodotti nelle ore di maggior
ascolto. Il lavoro di Carosello equivale alla produzione di circa 80 film, il 57% della
produzione cinematografica italiana. Complessivamente sono andate in onda 42 mila scenette.
Non va dimenticata la grande produzione di cartoni che caratterizzò Carosello. I primi sono
del 1958: Angelino per il detersivo Supertrim della Agip e l'Omino coi baffi per la caffettiera
Bialetti. L'anno seguente é la volta di il Vigile e il foresto per il brodo Lombardi e Ulisse e
l'ombra per il caffé Hag. Contemporaneamente, nascono in Carosello i pupazzi animati.
Cominciò Topo Gigio, che esordì in pubblicità nel 1961 per i biscotti Pavesini. Il 1965 è l'anno
di Carmencita e il Caballero, pupazzi creati da Testa per il caffè Lavazza e che ripropongono
l'uso di accenti torinesi e meridionali per la parlata dei personaggi. Poi arrivano gli abitanti
del pianeta Papalla, il pulcino Calimero, creato dai fratelli Pagot per il detersivo della Mira
Lanza e ancora l'ippopotamo Pippo, Jo Condor , il Gigante buono e molti altri…
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In questo processo di crescita, caratterizzato dal progressivo cambiamento del tenore
di vita degli italiani, dal diverso modo di pensare e dai nuovi modelli che la Tv
proponeva, fecero la loro comparsa d’oltreoceano i primi elettrodomestici ed i
frigoriferi (la cui produzione era svolta soprattutto da imprese italiane di piccole e medie
dimensioni). Ecco alcune marche di questi elettrodomestici: Candy (azienda italiana
produttrice di elettrodomestici con sede a Brugherio, vicino a Milano; nel 1945 fece la prima
lavatrice), Ariston (nasce tra gli anni cinquanta e sessanta, come marca creata da Merloni
Elettrodomestici per lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi dal 1966), Delonghi (la maggiore
produttrice di elettrodomestici Italiana con sede a Treviso. Fondata come una piccola
industria di pezzi di ricambio nel 1902, la compagnia iniziò a produrre elettrodomestici nel
1950). Un’altra marca era la Zoppas, il cui slogan diceva: quelli che “resistono a tutto e a tutti”.
Nel 1961 gli elettrodomestici Zoppas entrano a far parte dei protagonisti di Carosello. La
pubblicità recitava pressappoco così: “Voi chiedete al progresso, quello risponderà! Risultati
tangibili di quel progresso sono gli elettrodomestici, e la donna che voglia una lavabiancheria,
solida, comoda da usare e delicata con la biancheria, non chiede troppo: chiede Zoppas!”
Per avere un’idea del periodo in cui gli elettrodomestici fecero il loro ingresso nella nostra
società, riporto in modo sintetico alcune informazioni significative. La diffusione di
elettrodomestici in Europa crebbe in larga misura tra il 1950 e il 1970, periodo nel
quale divennero oggetti di uso comune.
Lavatrice: dopo la seconda Guerra Mondiale, lo slancio industriale che caratterizzò
soprattutto l'Europa occidentale vide nascere nuove esigenze e desiderio di benessere: a
livello domestico (anche per il ruolo della donna che stava considerevolmente cambiando,
soprattutto in Italia) le industrie elettromeccaniche iniziarono una fervida attività di ricerca
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e produzione di lavatrici. La Germania, che già prima della guerra aveva iniziato la
produzione di lavatrici, riprese continuando sulla scia della tecnologia inizialmente adottata,
che vedeva una decisa scelta per i modelli a cestello ad asse orizzontale. le lavatrici tedesche,
anche prodotte dopo la guerra, erano però caratterizzate da notevoli problemi statici, che ne
rendevano piuttosto complicata l'installazione: dovevano infatti essere fissate al pavimento.
Erano però le macchine più evolute esistenti, dotate già di automatismi (timer, pressostato),
che ne consentivano il funzionamento in maniera pressoché autonoma. In Italia, invece, si
adottò inizialmente il modello americano, con agitatore ad una vasca e mangano per la
strizzatura (Candy modello 50, prodotta nel 1947), poi il modello classico a due vasche, semi-
automatico (Candy bi-matic, prodotta nel 1957, Rex-Zanussi mod. 250, prodotta alla fine degli
anni '50) e, con l'adozione anche in Italia dei timer, finalmente i modelli automatici (Candy
Automatic, 1959, Rex-Zanussi modello 260 etc.) ulteriormente evoluti nelle superautomatiche
a seguito dell'adozione delle vaschette per il detersivo separate (per pre-lavaggio, lavaggio,
additivi di risciacquo).
Dalla ghiacciaia al frigorifero
Il frigorifero è un’invenzione relativamente recente. Prima, per poter mantenere o
semplicemente tenere freschi alimenti, c’era la “ghiacciaia”. Con il termine ghiacciaia si
indicano sia quegli ambienti in cui veniva prodotto e/o immagazzinato il ghiaccio prima
dell'invenzione del frigorifero negli anni '20, sia quei contenitori a forma di parallelepipedo
che, in ambito prevalentemente domestico, assolvevano alla funzione che in seguito
avrebbero assunto i frigoriferi. Nei nostri paesini passavano davanti a ciascuna casa persone
che portavano con se blocchi di ghiaccio dalla forma rettangolare. Vendevano questo blocco di
ghiaccio a pezzi. Le persone, una volta acquistato il ghiaccio, lo mettevano o nelle brocche per
rinfrescare le bevande o lo mettevano in un “canestro”, con frutta e quant’altro, e lo calavano
nella cisterna (ovviamente non lo immergevano nell’acqua!). Come è facile capire, l’avvento
del frigorifero ha rappresentato davvero uno stravolgimento delle abitazioni anche
alimentari delle persone. Con la conquista del freddo i prodotti si riuscivano anche a
trasportare ed a mantenere per lunghi periodi mantenendo caratteristiche simili a quelle
originali. Lo sviluppo dei commerci in tutto il mondo portò a quel fenomeno chiamato da molti
storici “delocalizzazione” dei gusti alimentari: mentre fino ai secoli precedenti la gente si
nutriva quasi esclusivamente di alimenti prodotti nella zona in cui vivevano, grazie alla
“conquista del freddo” alle persone fu possibile accedere a cibi esotici, prodotti a migliaia di
chilometri di distanza. In conclusione la Televisione, gli elettrodomestici e, come vedremo nei
capitoli successivi la Fiat 600 e 500, sono state l’espressione massima di una svolta che
negli anni del “boom economico” ha cambiato le nostre abitudini, il nostro modo di
vivere e pensare.
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
Volgiamo lo sguardo su un fenomeno che ha segnato la storia del globo e che ha portato la nostra società ad essere ciò che è oggi: la società del consumo. Una società in cui, come diceva Pasolini, il “potere” ha manipolato le persone nel modo peggiore, “trasformandone la
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coscienza, istituendo dei nuovi valori che sono valori alienanti e falsi, i valori del consumo”. Riporto di seguito un articolo di giornale tratto da lastampa.it che riguarda l’obsolescenza programmata e gli iPhone.
Crescono le voci su iPhone 6 e con loro quelle sull'obsolescenza programmata
La correlazione tra le ricerche "iPhone slow" e l'uscita dei nuovi modelli Apple. Una specializzanda di Harvard ha studiato la correlazione tra la lentezza dei vecchi iPhone e l'arrivo del nuovo modello (senza arrivare a una conclusione oggettiva).
Le voci sull'imminente arrivo dell' iPhone 6, a settembre, ottobre o forse addirittura non entro l'anno, corrono di pari passo con l'eterna questione dell' obsolescenza programmata studiata da Apple. Ovvero lo stranissimo fenomeno per cui, all'approssimarsi della data di presentazione di un nuovo iPhone, i modelli precedenti rallentino o non funzionino bene come prima. I sostenitori della teoria affermano che la subdola strategia Apple preveda che negli ultimi aggiornamenti dell'iOS, via via che ci si avvicina all'uscita del modello nuovo, sia inserito del codice “di disturbo” che rallenta hardware e applicazioni dello smartphone al punto di esasperare l'utilizzatore che si convince che il suo iPhone non va più bene, sta “scadendo”, e che è venuto il momento di comprarne uno nuovo. Posto che, tecnicamente, per una piattaforma chiusa come iOS, la cosa sarebbe possibilissima, l'obsolescenza programmata somiglia più a un argomento da blockbuster che alla realtà. Ma, tant'è, nonostante razionalmente sia stato dimostrato che una strategia di questo tipo per Apple sarebbe troppo rischiosa, oltreché illegale, c'è chi si diverte ad analizzare la cospirazione. Tra questi Sendhil Mullainathan, professore di economia ad Harvard, che ha raccontato la questione ai propri studenti e ha trovato un'adepta, Laura Trucco, che sta completando il suo Ph.D ad Harvard. Il ragionamento della specializzanda è semplice: analizzare lo storico delle ricerche di Google su Google Trends per capire se ci sia una correlazione tra la ricerca “ iPhone slow” e l'uscita di un nuovo modello dello smartphone di Apple. E, guarda un po', il grafico che ne risulta dimostra che c'è un picco di ricerche esattamente in concomitanza con le uscite degli iPhone negli anni (vedi foto).
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La cosa interessante è che i picchi si presentano improvvisi, come cime dolomitiche, esattamente nei giorni successivi al lancio. Il grafico dimostra solo una coincidenza ripetuta e, sostiene Mullainathan, che forse la gente “pensa” che il suo iPhone si sia rallentato: un'allucinazione collettiva insomma, efficace più di centinaia di milioni di dollari investiti in marketing e pubblicità. Il consumatore scopre che sta arrivando un nuovo iPhone e inconsciamente inizia a rifiutare il vecchio modello, esattamente come farebbe una donna con un paio di scarpe. La ricerca prosegue con una novità, questa volta la dottoressa Trucco analizza anche la piattaforma Android. Ma ci sarebbe una differenza sostanziale nelle conclusioni. Mentre Apple ha il motivo (per un eventuale strategia di obsolescenza programmata), ovvero vendere più iPhone, e il mezzo, agire sugli aggiornamenti del sistema operativo, nel caso di Google con Android, il motivo non c'è (completamente) visto che Google ha solo una percentuale sulle vendite di smartphone Android. Al contrario, Samsung, per esempio, avrebbe il motivo ma non il mezzo. Il grafico equivalente allo storico della ricerca “ Samsung Galaxy Slow” è simile a un elettrocardiogramma di un ciclista sui tornanti del Tourmalet: è un crescendo costante senza correlazioni ne con nuove release di Android ne con le uscite dei nuovi Galaxy. Stessa cosa per altre ricerche correlate a altri smartphone Android. Inoltre, curioso notare che i picchi relativi a “iPhone slow” si manifestano quando il prodotto è disponibile e non all'annuncio, fatto che farebbe vacillare la tesi del consumatore influenzato dai rumors. In ogni caso la conclusione potrebbe essere che Apple influenza il consumatore molto di più di qualsiasi altro brand di telefonia. Altra tesi a favore dell'obsolescenza programmata di Apple è che in concomitanza con l'uscita di un nuovo iPhone c'è sempre un aggiornamento dell'iOS, che potrebbe volutamente andare più lento nei vecchi modelli. Nel caso di Android una strategia di questo tipo non funzionerebbe visto che pochissimi possessori di Android eseguono gli aggiornamenti regolarmente. Al contrario, la tesi che potrebbe portare Apple, se mai si pronunciasse, è che l'ultimo sistema operativo è realizzato per l'ultimo iPhone e non è ottimizzato per i modelli precedenti. Il professore di Harvard conclude senza una dimostrazione dell'obsolescenza programmata di Apple ma con una riflessione sull'utilità di analizzare i Big Data, e di trarre conclusioni sociologiche o antropologiche a partire dai Google Trends. In definitiva, i dati evidenziano correlazioni che dovrebbero essere usati per dimostrare, con altri strumenti più oggettivi e precisi, eventuali conclusioni.
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Mettiamoci alla prova!
1) Cosa si intende per “boom economico” degli anni ’60?
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2) Quali sono stati gli elementi che hanno favorito il boom?
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3) Cosa si intende per guerra fredda?
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4) Cosa fu la “congiuntura bilaterale Italia Belgio”?
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5) Quando nacque in Italia la televisione?
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6) Quali furono le cause delle migrazioni degli anni ’60?
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Indice
17 marzo 1861: la proclamazione del Regno d’Italia pagina 3
Condizione socio-economica Italia postunitaria pagina 4
Il brigantaggio pagina 5
Italia Paese di emigranti pagina 7
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
- Le lettere d'amore dei migranti morti in mare
- Paesi Brics, vita da cervelli in fuga: sogni e disillusioni degli italiani tra Cina e Brasile
Lo sfruttamento minorile nelle miniere di zolfo pagina 16
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
- Turchia: crolla miniera, oltre 238 morti
- Tanzania, i bambini in miniera ma dell'oro restano solo briciole
1861-1876: La “Destra storica” al potere pagina 22
1876-1896: La Sinistra storica al potere pagina 24
Giolitti pagina 29
METTIAMOCI ALLA PROVA pagina 31
La II rivoluzione industriale pagina 34
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
- La III e la IV rivoluzione industriale
METTIAMOCI ALLA PROVA pagina 41
La I guerra mondiale pagina 42
I trattati di pace pagina 52
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
- Centenario Prima Guerra Mondiale, a lezione di storia con un videogioco
METTIAMOCI ALLA PROVA pagina 55
Le conseguenze della Grande Guerra pagina 57
Percorso storico, Istituto “Michelangelo” Scordia a.s. 2015-2016 Classe V
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L’ascesa al potere di Mussolini pagina 59
Avvicinamento alla Germania – Accordi prebellici pagina 64
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
- Mitici IPhone e iPad, fatti in Cina da schiavi del XXI secolo. 65
- Il premio nobel a Malala 68
METTIAMOCI ALLA PROVA pagina 71
Il nazismo pagina 72
METTIAMOCI ALLA PROVA pagina 77
Preludio alla II guerra mondiale pagina 78
METTIAMOCI ALLA PROVA pagina 83
Il dramma nel dramma: la shoah pagina 85
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
- Il giorno della memoria
La Resistenza italiana e la nascita della Costituzione pagina 93
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
- La Costituzione europea
METTIAMOCI ALLA PROVA pagina 102
Italia: le grandi migrazioni interne pagina 106
La nascita della TV pagina 107
UNO SGUARDO SULL’ATTUALITA’
- Crescono le voci su iPhone 6 e con loro quelle sull'obsolescenza programmata 112