Percorso 11 Società, cultura, incontro fra culture · In un suo noto saggio, l’antropologo Ulf...

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ITINERARIO DI LETTURA L’incontro fra culture Identità, razza e gruppo etnico Flussi migratori e modelli di integrazione Il multiculturalismo Le conseguenze della globalizzazione T5 T4 T3 T2 T1 157 Percorso 11 Società, cultura, incontro fra culture In un suo noto saggio, l’antropologo Ulf Hannerz scrive: «L’homo sapiens è la creatura che “produce senso”. Lo fa attraverso l’esperienza, l’interpreta- zione, la contemplazione e l’immaginazione, e non può vivere senza queste attività. L’importanza della produzione di senso per la vita umana è riflessa in un campo concettuale affollato: idee, significato, informazione, saggezza, capacità di comprendere, intelligenza, consapevolezza, capacità di appren- dere, fantasia, opinione, conoscenza, credenze, mito, tradizione... A questo gruppo di parole ne appartiene ancora un’altra, cara agli antropologi: cultu- ra. […] Studiare la cultura significa studiare le idee, le esperienze e i senti- menti, e insieme le forme esteriori che questi aspetti interiori assumono quando diventano pubblici, a portata dei sensi e dunque realmente sociali» (U. Hannerz, La complessità culturale, Bologna, il Mulino, 1998, p. 5). Al tema delle culture e delle loro reciproche relazioni è dedicato questo per- corso di lettura. Il primo brano, L’incontro fra culture, prende in esame le dinamiche di scambi e flussi continui fra le diverse culture. Il secondo testo, opera dell’antropologa Vanessa Maher, affronta due concetti cui, soprat- tutto in passato, si è spesso fatto ricorso per distinguere gruppi umani e affermare la superiorità dell’uno sull’altro: quello di razza e quello di etnia. Per quanto si sia dimostrata l’infondatezza del concetto di «razza», l’inte- grazione fra culture costituisce tuttora un problema, soprattutto nei Paesi che sono stati recentemente interessati da massicci flussi migratori. Fra questi rientra anche l’Italia: la sua situazione è esaminata nel terzo brano del percorso, Flussi migratori e modelli di integrazione, del sociologo Maurizio Ambrosini. A tematiche simili è dedicato anche il brano Il multi- culturalismo, in cui si descrive l’emergere del concetto di «multiculturali- smo» negli anni Ottanta del secolo scorso e si auspica una positiva convi- venza fra culture diverse. Tra le parole più usate per definire l’epoca contemporanea, accanto a «mul- ticulturalismo» compare spesso «globalizzazione». A quest’ultimo concetto, o meglio ad alcune sue conseguenze sul piano culturale, è dedicato il bra- no che conclude il percorso, tratto da un testo del sociologo polacco Zygmunt Bauman.

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ITINERARIO DI LETTURA

L’incontro fra culture

Identità, razza e gruppo etnico

Flussi migratori e modelli di integrazione

Il multiculturalismo

Le conseguenze della globalizzazione

T5

T4

T3

T2

T1

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Percorso 11

Società, cultura,incontro fra culture

In un suo noto saggio, l’antropologo Ulf Hannerz scrive: «L’homo sapiens èla creatura che “produce senso”. Lo fa attraverso l’esperienza, l’interpreta-zione, la contemplazione e l’immaginazione, e non può vivere senza questeattività. L’importanza della produzione di senso per la vita umana è riflessain un campo concettuale affollato: idee, significato, informazione, saggezza,capacità di comprendere, intelligenza, consapevolezza, capacità di appren-dere, fantasia, opinione, conoscenza, credenze, mito, tradizione... A questogruppo di parole ne appartiene ancora un’altra, cara agli antropologi: cultu-ra. […] Studiare la cultura significa studiare le idee, le esperienze e i senti-menti, e insieme le forme esteriori che questi aspetti interiori assumonoquando diventano pubblici, a portata dei sensi e dunque realmente sociali»(U. Hannerz, La complessità culturale, Bologna, il Mulino, 1998, p. 5).Al tema delle culture e delle loro reciproche relazioni è dedicato questo per-corso di lettura. Il primo brano, L’incontro fra culture, prende in esame ledinamiche di scambi e flussi continui fra le diverse culture. Il secondo testo,opera dell’antropologa Vanessa Maher, affronta due concetti cui, soprat-tutto in passato, si è spesso fatto ricorso per distinguere gruppi umani eaffermare la superiorità dell’uno sull’altro: quello di razza e quello di etnia. Per quanto si sia dimostrata l’infondatezza del concetto di «razza», l’inte-grazione fra culture costituisce tuttora un problema, soprattutto nei Paesiche sono stati recentemente interessati da massicci flussi migratori. Fraquesti rientra anche l’Italia: la sua situazione è esaminata nel terzo branodel percorso, Flussi migratori e modelli di integrazione, del sociologoMaurizio Ambrosini. A tematiche simili è dedicato anche il brano Il multi-culturalismo, in cui si descrive l’emergere del concetto di «multiculturali-smo» negli anni Ottanta del secolo scorso e si auspica una positiva convi-venza fra culture diverse.Tra le parole più usate per definire l’epoca contemporanea, accanto a «mul-ticulturalismo» compare spesso «globalizzazione». A quest’ultimo concetto,o meglio ad alcune sue conseguenze sul piano culturale, è dedicato il bra-no che conclude il percorso, tratto da un testo del sociologo polaccoZygmunt Bauman.

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L’incontro fra culture

Ugo Fabietti, Roberto Malighetti, Vincenzo Matera

Ogni cultura è sempre il prodotto di processi di contaminazione e di ibri-dazione con altre culture. Del resto, sarebbe impossibile immaginare unasocietà «autosufficiente» dal punto di vista culturale. Per questo motivo,oggetto specifico dell’antropologia può essere ritenuto il «traffico» delle cul-ture. Il crescente incontro e scambio tra culture non porta alla creazione diuna cultura omogenea su scala planetaria. Si sviluppa piuttosto un flussoin continuo mutamento, che è possibile cogliere a diversi livelli.Le culture prendono forma all’incrocio tra dinamiche interne ed esterne,locali e globali. Queste dinamiche si realizzano in un mondo caratterizzatoda squilibri persistenti, sul piano economico, politico e sociale, tra Paesicentrali e periferici. Queste asimmetrie si manifestano anche a livello cul-turale tra i Paesi occidentali e quelli del cosiddetto Terzo Mondo. Nello stes-so tempo, si formano «culture transnazionali» costituite da flussi culturaliveicolati da reti che si estendono in comunità e luoghi diversi, travalicandoi singoli Stati nazionali.

«Culture ibride» e «pensiero meticcio» sono due espressioni che, in uncerto senso, potrebbero riassumere rispettivamente l’oggetto e la natura del-l’antropologia. Le culture ibride […] sono quelle che si producono in un sem-pre più rapido processo di «incontro» fra culture. Le culture ibride sono le nuo-ve sintesi, i nuovi profili, i nuovi paesaggi che caratterizzano il mondo con-temporaneo dal punto di vista socioculturale: sintesi, profili e paesaggi delmondo che nascono appunto dall’incontro, oggi sempre più intenso, di indivi-dui e gruppi con storie, memorie, conoscenze e identità diverse, spesso fonda-te su premesse esperienziali e concettuali molto distanti tra loro.

Da un certo punto di vista, parlare di culture «ibride» sembrerebbequasi voler sostenere che esistono anche culture «pure». Sul piano empirico leculture sono sempre state «ibride», almeno nel senso che ciò che costituisce ilmondo della nostra esperienza condivisa, pratica e simbolica, è sempre fruttodi incontri, di apporti e di mentalità differenti tra loro, di oblii e di ricordi cheattingono a esperienze culturali diverse. Questi apporti, incontri, ricordi e obliiche dipendono naturalmente, e in primo luogo, dal modo in cui le culture sicombinano e si ricombinano in base a determinati rapporti di forza, hanno oggiassunto una frequenza e un’intensità che sono notevolmente superiori rispettoal passato, anche a un passato piuttosto recente. Da un punto di vista empiri-co, di conseguenza, l’espressione «culture ibride» è un modo per esprimere ciòche accade nel mondo, una metafora dell’intensità e della frequenza che carat-terizzano l’incontro fra culture nel mondo contemporaneo. […]

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Su di un piano più astratto, concettuale, parlare di «culture ibride»significa invece mettere l’accento sulle strategie, pratiche e simboliche, che leculture intese come insiemi più o meno coerenti di significati interconnessi met-tono in atto per risituare continuamente se stesse in un contesto di contatto edi cambiamento accelerati […]. È per questo motivo che gli scienziati sociali siinterrogano, oggi più di un tempo, sulle dinamiche che caratterizzano i feno-meni di ibridazione culturale e sulle implicazioni che tali dinamiche rivestonoper i modi di vivere, i rapporti politici, giuridici, economici e per l’immagina-rio dell’umanità contemporanea.

Se l’antropologia culturale è un sapere che si occupa principalmentedella dimensione culturale della vita umana, e se quest’ultima dimensione è unadimensione «ibrida» (perché ibride sono le culture), con l’antropologia siamodi fronte a un «pensiero meticcio» […].

L’antropologia è un «pensiero meticcio» perché nasce sulla linea d’in-contro, sulla «frontiera» fra tradizioni culturali diverse. […]

Intendiamo pertanto fornire qui alcuni strumenti utili per unamigliore comprensione di quel complesso di fenomeni che possiamo sinteti-camente definire con la metafora del «traffico culturale». Con l’espressione«traffico delle culture» vogliamo infatti intendere quelle molteplici e comples-se dinamiche caratterizzanti i fenomeni di ibridazione che sempre più hannoluogo nel mondo contemporaneo e di cui abbiamo quasi sempre una perce-zione parziale, sovente contraddittoria, a volte banale e talvolta assolutamente«misteriosa». […]

Ciò che vorremmo chiarire fin da ora, però, è che questo «traffico» dibeni, simboli, idee, valori ecc. che caratterizza il mondo contemporaneo non sirisolve in una serie di «prestiti» e «acquisti», ma comporta invece una loro con-tinua riformulazione, o «riposizionamento significante»1 in base al contesto incui questi beni, idee ecc. vengono acquisiti o ceduti.

La percezione dei flussi di traffico che caratterizzano il mondo con-temporaneo ha portato a un esito paradossale. Da un lato vi è la sensazione dif-fusa, e per certi versi senz’altro giustificata, che i contatti e gli scambi favori-scano la tendenza a un’omogeneizzazione planetaria dall’aspetto sinistro o per-lomeno inquietante. […] Dall’altro lato, e in ragione della conflittualità di cuiquesti contatti sembrano essere responsabili, si ha la sensazione che le culture ele etnie siano delle entità isolate, irrimediabilmente prigioniere delle proprielogiche e della propria storia (e quindi quasi necessariamente in conflitto traloro). Senza negare l’effettivo carattere paradossale – o quantomeno problema-tico – del mondo contemporaneo, la questione va impostata in maniera tale danon offrire interpretazioni mutualmente esclusive della situazione attuale e futu-ra, e cercare di cogliere il senso che convergenze e divergenze culturali assumo-no nelle diverse situazioni.

1. riposizionamentosignificante: il «trafficoculturale» è un processodinamico: non implicauna recezione passiva dibeni, simboli, idee,valori ecc., bensì unoscambio attivo, ovverouna combinazionemutevole e originale di questi elementi inbase alle caratteristichedel contesto storico egeografico.

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Per lungo tempo si è pensato alle società e alle culture umane comea entità isolate e «prese» ciascuna nel circuito dei propri significati. Ciò non èdel tutto sbagliato, nel senso che le culture vanno effettivamente studiate neitermini che sono loro propri se vogliamo capire che senso abbiano certi com-portamenti e certe idee. Tuttavia ci si è anche resi conto che da sempre le cul-ture «cambiano», mutano cioè nel tempo i loro valori, le loro strutture, le loroistituzioni ecc. Quando la questione del mutamento ha cominciato ad attirareapertamente l’attenzione degli antropologi (dagli anni quaranta in avanti), èapparso sempre più chiaro come le trasformazioni a cui andavano soggette lesocietà da loro studiate […] non potessero essere spiegate solo ed esclusivamentein base all’azione di processi interni o solo all’intervento di fattori esterni, maanche come conseguenza dell’interazione tra una dinamica interna e una dina-mica esterna. […]

Negli ultimi decenni, la prospettiva intesa a cogliere le società e le cul-ture come entità dinamiche sottoposte all’influenza di forze sia interne che ester-ne è andata ulteriormente affinandosi, per sfociare in quella che, con una for-mula per la verità ormai un po’ abusata, viene definita «la dialettica del localee del globale». Quest’ultima si configura non come una serie di sovrapposizio-ni o di commistioni, bensì come un processo di «intreccio» dagli esiti il più del-le volte imprevedibili.

In tale processo, una cultura vede trasformati i propri valori e signifi-cati (locali) in rapporto a ciò che le giunge dall’esterno. Questo «esterno» nonsi configura però come un’altra cultura […], ma come un insieme di fenome-ni che interessano indistintamente tutte (o quasi) le culture. Ad esempio, il mer-cato delle materie prime; oppure la televisione. Tali fenomeni, che definiamoglobali, una volta assunti dalla cultura che li riceve, non sono più «esterni» adessa, ma diventano parte di quella cultura, la quale continua a formulare i pro-pri significati secondo le proprie esigenze locali che devono tuttavia tenere con-to, a loro volta, delle forze globali. […]

Così, invece di pensare al mondo come a un’entità che va soltantoomogeneizzandosi (processo che per certi aspetti non può essere negato: con-sumi, informazioni, linguaggi), o che è composto da realtà socioculturali sot-toposte alla dialettica di dinamiche «interne» e dinamiche «esterne» (il che è sen-z’altro vero), […] dobbiamo sforzarci di intenderlo come un vasto scenario alcui interno le varie tradizioni culturali recepiscono logiche globali che, puravendo origine altrove, sono suscettibili, una volta che siano assimilate, di rifor-mulare altre logiche a livello locale, in un processo virtualmente infinito. […]

Gli scienziati sociali tendono sempre più a parlare di culture transna-zionali. Per culture transnazionali si intendono […] delle «strutture di signifi-cato che viaggiano su reti di comunicazione sociale non interamente situate inalcun singolo territorio» […].

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Un esempio, ancorché limite, di cultura transnazionale potrebbe esse-re rappresentato dalle comunità che si costituiscono su Internet. Internet è larete globale che dovrebbe, stando alle previsioni, avvolgere il pianeta nel giro dipochi decenni consentendo collegamenti in tempo reale fra i punti più diversidella superficie terrestre, con la possibilità di accedere a banche-dati stermina-te e di connettere tali dati navigando da un sito all’altro. Da un punto di vistaplanetario, Internet è ancora poco diffuso, e c’è la possibilità che la sua diffu-sione non comporti affatto, come qualcuno invece spera, un uso «democrati-co» delle informazioni. Può darsi invece che, siccome le macchine hanno poten-ze diverse e sempre maggiori, e siccome alcuni individui saranno più formati dialtri nella loro utilizzazione, Internet possa venire a costituire la condizione perl’emersione di un’élite2 informatica transnazionale i cui membri, dialogando adistanza e al di là delle barriere costituite dagli stati-nazione e dalle loro politi-che economiche, perseguono strategie proprie in campo monetario, finanzia-rio, imprenditoriale ecc. come di fatto già in parte avviene.

È chiaro che, in un contesto come quello appena delineato, il qualerimane ancora ipotetico per il suo aspetto «totale» (ma di cui possiamo avereun’intuizione se pensiamo alle operazioni finanziarie compiute già oggi su sce-nari economici così diversi da persone sparse in vari punti della Terra), il mon-do ci appare per molti versi svincolato dalle iniziative «culturali» delle nazionisingole, e percorso da flussi transnazionali.

Oggi i processi di traffico culturale non sono più comprensibili in ter-mini di flussi a livello «inter-nazionale», ma piuttosto transnazionale. Questosignifica che, in conseguenza di vari processi quali la progressiva mondializza-zione del mercato e dell’informazione, oltre che dell’intensificarsi degli sposta-menti degli individui, i messaggi culturali, i significati e le forme espressive (gusti,comportamenti, idee ecc.) si intersecano e si articolano seguendo canali che sfug-gono il più delle volte alle logiche dei rapporti tra i singoli stati-nazione.

(U. Fabietti, R. Malighetti, V. Matera, Dal tribale al globale. Introduzione all’Antropologia, Milano, Bruno Mondadori, 2000, pp. 165-69, 178-79)

2. é l ite: (francese) cerchiaristretta di personedotate di prestigio,influenza e potere, chepuò costituire la classedirigente di una società,oppure un gruppo chepossiede specifichecaratteristiche ecapacità (ad esempio, ditipo intellettuale), e sidistingue per un elevatolivello di competenza inun determinato campodell’attività umana.

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Comprensione del testo1. Che cosa si intende con l’espressione «culture

ibride» e perché l’antropologia è definita dagliautori un «pensiero meticcio»?

2. Spiega quale contributo ha offerto la «dialetticadel locale e del globale» allo studio antropologi-co del mondo attuale.

3. Perché le comunità che si costituiscono suInternet possono rappresentare delle «culturetransnazionali»?

Rielaborazione e produzione4. Spiega la metafora del «traffico culturale», con-

tenuta nel brano che hai letto.5. Suddividi il brano in sequenze e a ciascuna attri-

buisci un titolo.

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1. Linneo: Carlo Linneo(italianizzazione di Carlvon Linné), naturalistasvedese vissuto tra il 1707 e il 1778.

2. movimento positivista-i l luminista: movimentointellettuale delSettecento, di criticadella tradizione culturalee istituzionale, che si proponeva didiffondere l’uso dellaragione e di favorire il progresso intellettualesociale e morale.

3. tratti morfologici: trattiesteriori: infatti, le razzesono distinte in base ad alcune caratteristichesomatiche degli individui.

4. stock genetico:patrimonio genetico,vale a dire l’insiemedelle caratteristicheereditate attraverso i cromosomi.

5. Lévi-Strauss: Claude Lévi-Strauss (1908-viv.),noto antropologofrancese,rappresentante dello«strutturalismo», in baseal quale i fenomeniosservabili sono la manifestazionesuperficiale di struttureorganizzative profonde.

Identità, razza e gruppo etnico

Vanessa MaherL’identità viene spesso rappresentata come qualcosa di fisso e struttura-to che «identifica» una persona o un gruppo. Per questo motivo è ricorren-te nella storia il riferimento ai concetti di razza e di etnicità, consideraticome l’«essenza» dell’identità di un certo gruppo sociale.Molte ricerche, condotte soprattutto da antropologi ed etnologi, hannomostrato, tuttavia, il carattere «costruito» o «inventato» dell’identità.L’antropologo Francesco Remotti sostiene al riguardo che l’identità è «unfatto di decisioni», nel senso che dipende «da ciò che vogliamo tratteneredi un fenomeno; dipende dal nostro tipo di interessi per quel fenomeno;dipende dal modo con cui intendiamo perimetrarlo, recingerlo, con bordi piùlarghi o più stretti».I confini che definiscono l’identità sono tracciati, dunque, secondo criterivariabili. L’antropologa Vanessa Maher mette in evidenza proprio la relati-vità dei confini rispetto ai concetti di razza e di etnicità. Nei confronti delprimo concetto, sembra ormai acquisito che le differenze culturali nonabbiano un fondamento biologico, mentre resta controverso il riferimentoall’identità etnica. Di particolare interesse sono le concettualizzazioni degliantropologi Fredrik Barth e Abner Cohen: il primo considera l’etnicità comecategoria attraverso la quale si organizzano socialmente le differenze cul-turali; il secondo ritiene che essa si riferisca a modelli di comportamentocondivisi, e che quindi possa essere usata come fonte di solidarietà e comerisorsa politica in una lotta di potere. L’etnicità è dunque una categoria che,oltre a essere costruita, si presta a essere continuamente «manipolata».

Il concetto di una specie umana divisa in razze ricevette il suo bat-tesimo ufficiale da Linneo1 alla fine del Settecento europeo, come parte delmovimento positivista-illuminista2 di classificazione dei gruppi viventi che ètuttora in atto. E così le «sei razze di Linneo» entrarono a far parte sia di mol-ti trattati dotti, sia del senso comune europeo. Secondo Linneo, le sei razzeumane erano: l’americana, l’europea, l’asiatica, l’africana, la selvaggia e lamostruosa. Ma questa bizzarra classificazione, in modo evidente basata sui trat-ti morfologici3, era fondata più su caratteri acquisiti che non su quelli eredi-tari. I primi, comunque, riflettono solo in modo parziale lo stock genetico4

degli uomini. Ma se persino le differenze fisiche fra le persone hanno una rela-zione molto lontana con l’informazione genetica, le differenze culturali non nehanno affatto. Lévi-Strauss5, fra gli altri, ha notato che la grande diversità intel-lettuale, estetica, sociale dell’umanità non è collegata da nessuna relazione cau-sale alle diversità osservabili sul piano biologico, fra raggruppamenti umani.Due culture elaborate da persone appartenenti alla stessa popolazione biologi-

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ca possono differenziarsi quanto o più di due culture appartenenti a gruppibiologicamente lontani.

Biologicamente, una specie può dividersi in razze autonome solo sele popolazioni che la compongono sono isolate sessualmente, e di stock gene-tici distinti. La prima condizione si è verificata molto raramente per l’uomo,visto che la specie umana si può adattare, grazie alla cultura, ad ambienti mol-to diversi fra di loro e questa facoltà ha permesso agli uomini di spostarsi fre-quentemente, rendendo più probabili i contatti fra gruppi.

[…] Nel tentativo di affrontare il problema della definizione termi-nologica dei rapporti fra gruppi sociali, farò riferimento soprattutto ad alcunetesi dell’antropologia sociale anglosassone degli ultimi trent’anni. Prenderò inconsiderazione alcune ricerche e teorizzazioni riguardanti «il gruppo etnico» e«l’identità etnica» che vengono viste in queste ricerche come entità fluide, defi-nite in relazione ad altri «gruppi» e altre identità. Infine, tratterò «l’etnicità» eil processo sociale che definisce i confini fra «gruppi etnici», quel processo chel’antropologo norvegese Fredrik Barth ha chiamato «l’organizzazione sociale del-la differenza culturale».

Barth, che si è formato anche in università anglosassoni come antro-pologo, ha fatto notare che alcuni degli antropologi funzionalisti6 degli annitrenta e quaranta7 hanno contribuito a creare il mito di un’umanità divisa ingruppi, ognuno con la sua cultura, organizzazione e lingua, concezione che èstata ampiamente utilizzata, per esempio, in Sud Africa.

In particolare, se la prende con le equivalenze facili che descrivono ilgruppo etnico come una popolazione:a) in grado di perpetuarsi biologicamente;b) che condivide valori culturali realizzati in forme culturali comuni; c) che costituisce un campo di comunicazione e di interazione;d) che ha membri che si riconoscono in gruppi identificati da altri come com-

ponenti delle categorie distinte dello stesso ordine.Tutto ciò assomiglia molto al concetto di razza che abbiamo già cri-

ticato come «mito sociale»: popolazione vale razza, che vale cultura, che vale lin-gua, che vale sistema sociale.

Barth afferma che non c’è nessuna coincidenza fra gruppi biologici egruppi che condividono la stessa cultura, né ci sono coincidenze necessarie tragruppi etnici e gruppi che condividono la stessa cultura. Un esempio che l’au-tore porta a riprova di questo fatto è quello dei lapponi, che occupano varie«nicchie ecologiche». Ci sono i lapponi che allevano le renne, i lapponi che vivo-no lungo i fiumi, i lapponi che vivono sulla costa. Quelli che vivono sulla costasono indistinguibili dai norvegesi dal punto di vista culturale. Però, diversa-mente dai norvegesi, fanno parte di un gruppo etnico che comprende i lappo-ni che vivono nelle altre «nicchie» e che sono differenziati culturalmente fra diloro. L’area culturale non coincide con l’area linguistica, né il gruppo biologico

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6. antropologi funzionalisti: il«funzionalismo» è unacorrentedell’antropologia e dellasociologia che evidenziala necessità di studiareogni società come uninsieme di strutturesociali e culturali traloro interdipendenti,ciascuna delle qualisvolge una specificafunzione per l’esistenzae la riproduzione di un determinato sistemasociale o di una suaparte. Questaconcezione ha favorito,in alcuni autori, unavisione della culturacome entità statica ecoerente, in cui ogniparte è spiegata in basealla funzione svolta persoddisfare i bisognifondamentali del tutto.In questa prospettiva,ogni cultura risulta diconseguenzadifferenziata dalle altre.

7. trenta e quaranta: si fariferimento agli annitrenta e quaranta del Novecento.

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8. validità euristica: validitàconoscitiva; capacità di favorire la scoperta di nuovi risultati.

9. cognitiva: conoscitiva.

con il gruppo che condivide la stessa cultura, e il gruppo etnico è altro ancora.Secondo Abner Cohen il gruppo etnico può essere definito in termi-

ni operativi come una collettività di persone che da un lato condividono alcu-ni modelli di comportamento normativo (comportamento normativo significapensare che ci si deve comportare nello stesso modo e esprimere giudizi dellostesso tipo sul comportamento), dall’altro fanno parte di una popolazione piùgrande e interagiscono in un contesto sociale comune, con persone che pro-vengono da altre collettività.

È ovvio che questa definizione è così ampia che potrebbe compren-dere quelle categorie sociali che normalmente non vengono descritte in termi-ni etnici. Cohen osserva che converrà forse abbandonare l’uso del termine«gruppo etnico» e cominciare da capo. Per mettere in luce il fatto che il termi-ne «gruppo etnico» indica in genere delle categorie sociali non-bianche, e checontiene un elemento razzista implicito, propone di impiegarlo in modo «neu-tro» per esaminare la sua validità euristica8.

Un esempio provocatorio che Cohen ha dato di un gruppo etnico chenon viene normalmente descritto come tale è la collettività degli uomini d’af-fari che lavorano nella City di Londra. La City di Londra è un’area di circa 3-4 kmq all’interno della quale si trovano tutte le banche, tutte le attività assi-curative e della borsa, tutto ciò che concerne il mondo della finanza inglese.

Le persone che lavorano in questo piccolo territorio – così lo si potreb-be chiamare – sono poche migliaia. Spesso non si conoscono personalmente,non hanno rapporti faccia a faccia, ma hanno tutte frequentato le stesse scuo-le, riconoscono i nomi dei componenti del gruppo e aderiscono a comporta-menti normativi che rappresentano dei simboli di appartenenza comune.

Per esempio, se un uomo d’affari va a trovarne un altro, invece di par-lare subito della situazione della borsa si metterà a fare due chiacchiere sui risul-tati delle ultime partite di cricket, su chi ha sposato chi, perderà del tempo. Eglilancia una serie di segnali di tipo culturale che l’altro riconosce come simbolietnici e che qualificano chi li trasmette come una persona degna di fiducia.

Questo è un gruppo molto coeso, i componenti del quale sono lega-ti da parentele assai strette e diffuse, perché si sposano ampiamente all’internodelle stesse famiglie. Abner Cohen ritiene che questo è un gruppo analogo amolti dei gruppi che vengono definiti «etnici».

Per Cohen l’etnicità è una forma di interazione tra gruppi culturaliche agiscono all’interno di un contesto sociale comune. Ora, spesso i rapportifra gruppi immigrati e quello di accoglienza vengono descritti in termini di etni-cità ma per Cohen il termine etnicità si riferisce al grado di conformità, da par-te dei membri del gruppo etnico, alle norme che condividono nel corso del-l’interazione sociale.

Cohen vede il gruppo etnico non soltanto come una categoria cogni-tiva9 che permette alle persone di classificare in modo approssimativo […] quel-

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le di provenienza diversa in una situazione plurietnica, ma come qualcosa direale i cui componenti condividono interessi precisi, formando un «gruppo d’in-teresse». Nell’assenza di canali istituzionali legittimi per avanzare le loro prete-se politiche, il gruppo d’interesse tenderà a connotarsi etnicamente. […]

È chiaro che l’etnicità, come il genere o l’età (il genere nel senso delmodo in cui vengono costruite culturalmente le differenze sessuali), è un attri-buto che nel gergo antropologico è «discriminatore». Se una persona si defini-sce o viene definita in termini etnici o di genere, molto spesso questa defini-zione riflette il ruolo che viene costretta a svolgere nella società. Così, le donnedevono fare il lavoro domestico, devono operare in un settore definito del mer-cato del lavoro, ecc. Gli «extracomunitari» devono fare «i lavori che gli italianinon vogliono fare».

Le categorie etniche sono prodotte anche come un aspetto delle rela-zioni fra gruppi. Le categorie non sono ferme, sono create storicamente e pos-sono scomparire, se ne possono inventare di nuove. I «gruppi etnici» presentinelle città plurietniche, per esempio, rappresentano categorie inedite di perso-ne. Gli italiani che vivono nei luoghi di origine degli italo-americani sono diver-si socialmente e culturalmente da loro. In qualche modo, si è creata una cultu-ra e delle forme di relazione sociale che sono nuove rispetto alla cultura di pro-venienza, perché corrispondono a delle necessità funzionali di tipo diverso. […]

L’identità etnica da una parte viene determinata socialmente, dall’al-tra rimane condizionata dall’esperienza affettiva del singolo. Ma l’esperienzaaffettiva e di socializzazione non finisce con l’infanzia. L’identità etnica va defi-nita come la somma delle identità che una persona assume nel corso della vitae ha sempre una valenza relativa e situazionale.

(V. Maher, Razza e gruppo etnico: il mito sociale e la relatività dei confini, in V.Maher [a cura di],Questioni di etnicità, Torino, Rosenberg & Sellier, 1994, pp. 15-16, 21-25, 31)

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Comprensione del testo1. Spiega perché la divisione dell’umanità in razze

formulata nel Settecento da Linneo è in realtàun «mito sociale».

2. Qual è la critica che l’antropologo norvegeseFredrick Barth ha espresso nei confronti degliantropologi funzionalisti?

3. Spiega perché Cohen definisce un «gruppo etni-co» la collettività degli uomini d’affari che lavo-rano nella City di Londra.

Rielaborazione e produzione4. Individua la definizione di «gruppo etnico» elabo-

rata da Cohen.5. Esponi il contenuto del brano in un riassunto di

20 righe.

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Flussi migratori e modelli di integrazione

Maurizio Ambrosini

Si stima che il numero di stranieri, cioè di persone che vivono in un Paesediverso da quello in cui sono nate, abbia raggiunto, all’inizio del nuovo seco-lo, la quota di 175 milioni di individui, ovvero quasi il 3% della popolazionemondiale.Nel volgere di pochi decenni, anche l’Italia si è trasformata da Paese diemigrazione a Paese di immigrazione. La crescita dei flussi migratori avvie-ne contestualmente a profondi cambiamenti del sistema economico. In tut-ti i Paesi occidentali non è più la domanda di lavoro nelle grandi impreseindustriali ad attivare processi migratori. I lavoratori stranieri trovano, infat-ti, occupazione soprattutto nelle piccole imprese, nell’edilizia, nei settori deiservizi alle persone, ma anche in agricoltura e nel campo del turismo e del-la ristorazione. Gli immigrati svolgono attività rifiutate dai lavoratori autoc-toni, soprattutto in occupazioni caratterizzate da salari modesti e condizio-ni di lavoro disagevoli.Nonostante sia ormai ampiamente riconosciuto il ruolo positivo svolto dailavoratori stranieri rispetto al sistema produttivo, restano ancora aperti iproblemi relativi alla loro inclusione sociale. Nei Paesi europei possonoessere distinti diversi modelli di integrazione degli immigrati, anche se, nel-la maggioranza dei casi, l’immigrato continua a essere visto come una per-sona «desiderata ma non benvenuta».Il sociologo Maurizio Ambrosini delinea le peculiarità della situazione ita-liana, simile per molti aspetti a quella che caratterizza l’area mediterranea,ma diversa rispetto a quella dei Paesi che da più lungo tempo ospitano unaconsistente popolazione straniera.

L’Italia ha iniziato a diventare un paese di immigrazione proprio quan-do i paesi dell’Europa centro-settentrionale, che per decenni avevano importa-to manodopera straniera, hanno deciso di non esserlo più. Almeno ufficial-mente.

Le origini di questa svolta possono essere rintracciate nella severarecessione del 1973-74: la prima crisi petrolifera aveva messo in ginocchio leeconomie dei paesi sviluppati, segnando la fine dei «trent’anni gloriosi» del pro-gresso economico postbellico. […]

Tra i provvedimenti adottati dai governi dei paesi più sviluppati delcontinente, rientra la brusca inversione di rotta nella politica migratoria: finedella possibilità di ingresso per ragioni di lavoro per le persone non apparte-nenti ai paesi della Comunità europea, chiusura delle frontiere, ammissione sol-tanto per ricongiungimento familiare o per asilo politico, incentivi al rimpatrio.

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[…] Nel breve volgere di qualche anno, l’Italia si trasforma, sotto ilprofilo dei flussi di popolazione, da paese di emigrazione a paese di immigra-zione […], senza quasi rendersene conto e senza essersi preparata a governarela nuova situazione, né dal punto di vista istituzionale né a livello sociale e cul-turale. […]

In punta di piedi, gli immigrati cominciano invece a entrare nell’e-conomia informale1, dapprima soprattutto nelle regioni meridionali, comebraccianti agricoli, uomini di fatica sui pescherecci, manovali edili, lavapiattinei ristoranti. Oltre naturalmente alle collaboratrici domestiche delle città, conRoma e Milano in testa. […]

Nasce così, nella seconda metà degli anni ’80, il problema immigra-zione. Si comincia a chiedere agli esperti e alle istituzioni statistiche di spiega-re quanti sono gli immigrati, si cerca disperatamente di contarli, si formulanostime mirabolanti, espressive più dello sconcerto e dell’allarme sociale che ilfenomeno suscita che dell’effettiva capacità di quantificare un universo così ete-rogeneo e sfuggente. […]

In realtà, la querelle2 che da allora oppone coloro che pensano che gliimmigrati siano un numero enorme e coloro che fanno notare che sono moltimeno, in termini assoluti e relativi, rispetto ai paesi dell’Europa centro- setten-trionale, ha poco senso: se gli immigrati siano troppi, oppure un numero mode-sto e tollerabile, è una questione relativa agli assetti della società ospitante, allasua disponibilità all’apertura, alla sua fiducia nel saper governare e gestire il feno-meno, alla sua percezione di un fabbisogno di queste nuove forze, alla sua capa-cità di integrazione. […]

Non esiste una soglia obiettiva e predeterminata a cui sia possibile fareriferimento per decidere quale sia il numero di stranieri «accettabile». […]

A questo punto possiamo tentare di inquadrare il caso italiano di inclu-sione degli immigrati, confrontandolo con le principali esperienze europee.

Come abbiamo visto, contrariamente alle esperienze più mature digestione del fenomeno, nessuna delle quali è peraltro esente da contraddizio-ni ed effetti perversi, l’arrivo di una popolazione straniera in cerca di lavoro econdizioni di vita accettabili è avvenuto in maniera spontaneistica, tra rigidechiusure di principio e opaca accettazione di fatto, specialmente laddove ladomanda di lavoro latamente3 intesa (quella delle imprese, ma anche quelladelle famiglie) richiedeva manodopera flessibile, poco esigente, disposta adassumere ruoli occupazionali e condizioni di impiego non più accettati dailavoratori italiani […]. Una situazione sanzionata dalle ricorrenti (e annun-ciate) sanatorie4, a vantaggio degli immigrati in un modo o nell’altro entratiin Italia, ma anche – dato quasi sempre dimenticato – nei confronti dei lorodatori di lavoro. Credo pertanto si possa parlare, nel caso italiano ma anchenegli altri paesi della sponda settentrionale del Mediterraneo, di un «modelloimplicito» di integrazione degli immigrati […], contrapposto ai principali

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1. economia informale:insieme delle attivitàeconomiche che hannoluogo fuori dalla sferadell’occupazioneregolare e che, quindi,non seguono, in tutto oin parte, le normeufficiali che regolano i rapporti di lavoro e la produzione di beni eservizi.

2. querelle: (francese)disputa.

3. latamente:implicitamente.

4. sanatoria: detto diprovvedimentolegislativo che mira a regolarizzare unasituazione consideratain precedenza illegale onon corretta dal puntodi vista amministrativo.Nel caso degli immigrati,riguarda la possibilità di regolarizzare, in baseai criteri previsti dalla legge, la propriaposizione rispetto alla permanenza e al soggiorno nel Paesedi arrivo.

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5. informare: indirizzare,conformare.

6. foriera: anticipatrice.7. enclave etniche:

espressione con cui si intendono gruppietnici, concentrati in unospecifico territorio (adesempio, un quartiere),i cui membri non hannola possibilità di integrarsi con la popolazione delpaese di immigrazione.

modelli identificati con diverse sfumature dalla letteratura sull’argomento:temporaneo, assimilativo, multietnico. […]

Il primo modello è quello dell’immigrazione temporanea, esemplifi-cato, almeno fino alla riforma del ‘99, dal caso tedesco, in cui l’immigrazioneè stata vista come un fenomeno temporaneo, di lavoratori ospiti che venivanochiamati in quanto necessari per rispondere a certe esigenze del mercato dellavoro, ma che non dovevano mettere le radici: ci si attendeva che tornasseroin patria dopo un certo periodo, per essere eventualmente sostituiti da altri, oche fosse possibile rimandarli indietro quando fossero cessate le ragioni del loroutilizzo. […]

Il secondo modello, definito assimilativo, può essere esemplificato dalcaso francese, o anche da quello americano del passato. Qui la spinta è versouna rapida assimilazione anche culturale dei nuovi arrivati. È un modello chepunta all’integrazione degli individui, intesi come soggetti sprovvisti di radici eautonomi (o da rendere tali) rispetto a comunità e tradizioni. […] La convin-zione della superiorità del proprio modello civile e nazionale ha informato5 l’ot-timismo francese sulla capacità di assimilare gli stranieri in quanto individui,mentre la formazione di comunità minoritarie è stata lungamente scoraggiata,in quanto foriera6 di appartenenze parziali, tendenzialmente contrapposte all’i-dentità nazionale. […]

Il terzo modello è quello multiculturale […]. Ha radici nel modelloflessibile e pluralistico della democrazia britannica, e trova attuazioni più avan-zate negli Stati Uniti di oggi, in modo ancora più esplicito in Canada […].

Questo modello è ravvisabile nelle società in cui le minoranze inter-ne o straniere si sono consolidate e si è affermata un’idea di tolleranza nei con-fronti degli immigrati e delle loro culture. Punta a costruire un’organizzazionesociale di tipo pluralistico, valorizzando e sostenendo la formazione di comu-nità e di associazioni di immigrati. […]

Comporta però anche effetti contraddittori, di cui si è cominciato aprendere coscienza: l’enfasi sul mantenimento della lingua e della cultura delpaese d’origine, favorita da programmi educativi specifici, può condizionare ilfuturo delle nuove generazioni, favorendone la permanenza nelle enclave etni-che7, ma svantaggiandole nello sforzo di inserirsi negli studi superiori e nel mer-cato del lavoro più aperto. […] Può arrivare a produrre forme di isolamento eghettizzazione delle minoranze, anziché inclusione e comunicazione reciproca.[…]

Vediamo ora, rispetto a queste esperienze, come si colloca il caso ita-liano e più in generale dell’Europa meridionale. […] Più che di un modelloprogettato e costruito esplicitamente dalle istituzioni politiche, si tratta qui diun modello che si è formato in maniera opaca e inintenzionale, ma non di menoleggibile a posteriori come una costellazione relativamente coerente di caratte-ri identificabili:

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– un arrivo e un insediamento spontaneistico, non derivante da politiche direclutamento di manodopera, né da misure efficaci di programmazione degliingressi;

– una scarsa regolazione istituzionale, in cui le misure legislative hanno piut-tosto rincorso il fenomeno con ricorrenti sanatorie, anziché precederlo egovernarlo;

– un’influenza rilevante degli attori locali (amministrazioni locali, volontaria-to, associazionismo, istituzioni ecclesiali, sindacati) nelle (minimali) inizia-tive di accoglienza, rispetto ad una debole regia delle istituzioni pubblichenazionali;

– una ricezione contrastata da parte della società ospitante, con aperture moti-vate su basi umanitarie e crescenti fenomeni di chiusura e rigetto, giustifi-cati sulla base della scarsa percezione di una funzione economica positiva deinuovi arrivati, delle crescenti ansie per la sicurezza e l’incolumità personale,dell’impressione di un processo non governato in maniera efficace, con com-ponenti massicce e inquietanti di clandestinità;

– un inserimento nel lavoro inizialmente contraddistinto in larga misura dal-l’informalità e dalla precarietà, ma con successivi progressi verso situazionipiù regolari e stabili, anche grazie alla mobilità territoriale e settoriale […];

– una capacità di cogliere i fabbisogni del sistema economico del paese rice-vente e di adattarsi ad essi, con riferimento ai settori in cui si sono manife-state negli anni ’90 carenze di offerta di lavoro: essenzialmente le aree dellavoro povero e flessibile […];

– un’evoluzione piuttosto rapida verso fasi più mature del ciclo migratorio,con il consolidamento di catene di richiamo e mutuo aiuto, ricongiungi-menti familiari, nascita di una seconda generazione, ingresso di questa nelsistema scolastico.

(M. Ambrosini, La fatica di integrarsi. Immigrati e lavoro in Italia,Bologna, il Mulino, 2001, pp. 15-18, 20-21, 24, 26-29)

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Comprensione del testo1. Quando l’Italia è divenuto un Paese di immigra-

zione e quali sono state le prime possibilità occu-pazionali per gli immigrati stranieri?

2. Descrivi il «modello implicito» di integrazionedegli immigrati, che caratterizza il caso italianoe in generale l’Europa meridionale.

3. Quali sono le differenze tra i modelli di integra-zione (temporaneo, assimilativo, multiculturale)presenti nei Paesi occidentali?

Rielaborazione e produzione4. Nel quadro dell’immigrazione nell’Europa meri-

dionale, quali sono i limiti delle politiche nazio-nali sottolineati da Ambrosini?

5. Nel brano che hai letto l’autore scrive: «non esi-ste una soglia obiettiva e predeterminata a cuisia possibile fare riferimento per decidere qualesia il numero di stranieri «accettabile»». Dopoaverne spiegato il significato, elabora un brevecommento. Sei d’accordo con la tesi dell’autore?

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Il multiculturalismo

Alberto Melucci

Il termine «multiculturalismo», la cui origine può essere datata agli anniOttanta del secolo scorso, si è rapidamente diffuso nel linguaggio quoti-diano, oltre che in quello scientifico. Il successo del termine è dovuto alleprofonde trasformazioni delle società occidentali, soprattutto con riferi-mento ai problemi sollevati dal confronto tra soggetti culturalmente diversiche condividono lo stesso spazio sociale.

Il multiculturalismo non segnala la semplice presenza della diversità cultu-rale nella vita quotidiana, ma mette in evidenza i conflitti che essa può pro-vocare e l’esigenza di considerare le differenze culturali come un valore dapreservare. Esso non riguarda, infatti, soltanto il principio di eguaglianza,ma chiama in causa il problema del riconoscimento delle specificità cultu-rali. La richiesta di riconoscimento vuole essere alla base delle cosiddette«politiche della differenza», vale a dire di interventi mirati in grado di valo-rizzare e difendere le caratteristiche specifiche di un gruppo particolare,assicurando al tempo stesso le condizioni che favoriscono la convivenza ela comunicazione interculturale.

L’idea di una società multiculturale non è tuttavia facile da realizzare. Comeosserva Alberto Melucci (1943-2001), uno dei più importanti sociologi ita-liani, ogni persona appartiene a differenti collettività, ciascuna delle qualigli conferisce una particolare identità, di diversa importanza a seconda delcontesto. Gli individui sono contemporaneamente membri, cittadini, perso-ne: «appartengono cioè a diversi gruppi; sono inclusi in diverse cerchie dicittadinanza (sistemi che implicano diritti e doveri verso una collettività);sono infine individui dotati di una propria autonomia personale e tesi ver-so qualche forma di realizzazione di sé» (Culture in gioco. Differenze perconvivere, Milano, Il Saggiatore, 2000). Il dibattito sul multiculturalismo rive-la dunque una serie di tensioni, tra le quali risultano rilevanti quelle chescaturiscono dalla necessità «di tenere conto simultaneamente delle diffe-renze e dei bisogni di integrazione».

Il fatto stesso che negli ultimi anni il dibattito sul tema del multicul-turalismo abbia assunto diffusione e rilievo internazionali è la testimonianza piùesplicita di un mutamento profondo in corso nella cultura contemporanea. Taledibattito mostra anzitutto che non possiamo più essere ingenui sulle parole.Infatti una larga parte delle discussioni in corso riguarda proprio quali parole siutilizzano per definire i fenomeni sociali di cui ci stiamo occupando. La nozio-ne di «multiculturalismo», e la parola stessa, sono oggetto di una controversiache non è solo scientifica, ma riverbera piuttosto nella discussione accademica

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tensioni e lacerazioni sociali che in certi casi assumono dimensioni minacciosee che hanno riflessi immediati sulle politiche. […]

Perciò la domanda da porsi in partenza riguarda proprio il perché ladiversità sia diventata ad un certo punto un problema. Il momento culturale incui ciò è avvenuto per il mondo occidentale si può identificare con una certaprecisione cronologica. È infatti alla fine degli anni ottanta che il tema della dif-ferenza culturale diventa oggetto nello stesso tempo di attenzione politica escientifica […].

Questa particolare focalizzazione dell’attenzione sul tema delle diffe-renze culturali avvenuta alla fine degli anni ottanta richiede dunque una rifles-sione sulle condizioni che si sono modificate e che hanno trasformato unadimensione strutturale permanente della società in una emergenza che ha tra-volto le certezze della cultura occidentale. Perché dunque la diversità è diven-tata un problema in questo particolare momento? Nella forma più sintetica, sipuò dire che la ragione fondamentale sta nel fatto che nel corso degli anni ottan-ta, e soprattutto dopo il cataclisma socio-politico rappresentato simbolicamen-te dal crollo del muro di Berlino, è diventata visibile ed esplicita la fine di unapossibilità su cui la diversità nelle società occidentali aveva sempre potuto con-tare: il fatto cioè che ci fosse sempre un esterno su cui era possibile proiettarela diversità stessa.

Alla fine degli anni ottanta, mentre si affermano i processi di inte-grazione su scala planetaria e cade la divisione bipolare del mondo, si affacciain Occidente la consapevolezza esplicita […] che non esiste più un esterno sucui proiettare le nostre diversità e dunque che lo spazio-tempo nel quale cimuoviamo comprende l’intero pianeta. Mentre l’Occidente sembra trionfarecome unico punto di riferimento per il mondo intero, esso realizza che lo spazio-tempo del pianeta, il solo che abbiamo a disposizione, deve conteneretutte le differenze e che, paradossalmente, la cultura occidentale rappresentasolo una di esse. L’unico spazio-tempo planetario rende inevitabilmente visi-bili le differenze e ne fa le componenti necessarie di qualunque possibile con-vivenza.

Il multiculturalismo, come termine anzitutto, è uno dei risultati diquesta raggiunta consapevolezza. […]

Il dibattito sul multiculturalismo riguarda fenomeni qualitativamen-te non unificabili, la cui interpretazione richiede quadri analitici assai diversi.In primo luogo ci sono i fenomeni che rappresentano una eredità tipica dellostato moderno. Uno dei residui del processo di costruzione dello stato-nazioneè infatti la creazione di minoranze interne marginalizzate: nel corso della unifi-cazione statuale gruppi etnici e territoriali sono esclusi o resi marginali rispettoai diritti e alle possibilità che caratterizzano la nuova cittadinanza nazionale. Èquesto un tipico problema che caratterizza storicamente la formazione degli sta-ti-nazione occidentali […]. Oggi esso si estende alla formazione di nuovi stati

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nei paesi in via di sviluppo, ma si manifesta in certi casi anche come un effet-to di consapevolezza proprio grazie all’estendersi del dibattito sulle differenze[…]. Si tratta in ogni caso di fenomeni che dal punto di vista qualitativo sonocomparabili a quelli che caratterizzano le minoranze rimaste storicamente aimargini del processo di costruzione dello stato moderno.

Della stessa qualità è il problema delle culture o delle etnie divise frapiù stati, anche se le vicende storiche che hanno prodotto questo tipo di que-stioni etnico-nazionali sono diverse. Anche qui si tratta di un’eredità del pro-cesso di costruzione degli stati moderni e del modo in cui si sono stabilite lefrontiere. Sono spesso questioni difficili, con una lunga storia di conflitti ancheviolenti, ma che dobbiamo considerare un residuo irrisolto del processo di for-mazione dello stato-nazione moderno.

Di tutt’altra natura sono quei fenomeni che derivano dalla creazio-ne di nuovi spazi sovranazionali: pensiamo alla Comunità europea o a quelloche sta avvenendo nel continente nordamericano e nei rapporti tra le dueAmeriche. Si tratta di processi di allargamento dei mercati, di estensione del-la cittadinanza, di integrazione economica e/o politica, all’interno dei qualiemergono nuovi problemi di identità per le minoranze o le comunità locali, siaffermano nuovi diritti alla diversità e nuove domande legate al riconoscimentodi tale diversità.

Ancora diversi sono i problemi legati all’emigrazione. Non è necessa-rio ricordare che le migrazioni sono state da sempre un fenomeno che si èaccompagnato o ha addirittura messo in moto processi di profondo cambia-mento sociale. Oggi c’è però, rispetto alle esperienze storiche note, una qualitàspecifica e nuova dei processi migratori: essi si concentrano ormai su scala mon-diale in una sola direzione e riguardano i rapporti tra sud e nord del mondo.Sud e nord non sono più solo entità geografiche, ma riferimenti sociali e cul-turali che qualificano il rapporto tra modello dominante, quello capitalisticooccidentale, e quelli ad esso subalterni: in questo senso si possono leggere nel-la stessa chiave le migrazioni dai paesi ex-socialisti o le migrazioni regionali ver-so i centri più sviluppati di un’area sub-continentale (come per esempio nel sud-est asiatico). Oggi i processi migratori avvengono tutti all’insegna di questa uni-ca spinta e direzione: dalle periferie verso i centri che rappresentano su scalediverse la realizzazione del modello di società affluente realizzato dalle grandicapitali del mondo occidentale. I fenomeni migratori contemporanei espongo-no in modo violento e rapido le culture subalterne all’impatto con il modellodominante, oltre che al confronto ravvicinato tra loro producendo anche for-me diverse di razzismo […].

Per concludere vorrei affrontare il paradosso introdotto dalle diffe-renze. La differenza mano a mano che si afferma produce altre differenze, e vice-versa, via via che si riconoscono e si legittimano delle differenze se ne creanoaltre. La differenza ha dunque un potere autogenerativo e autopropulsivo.

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Il problema che nasce, e che la situazione statunitense ha messo benein evidenza, è di sapere dove ci si ferma. Il riconoscimento delle differenze cul-turali e dei diritti delle culture escluse fa appello alla nostra migliore coscienzademocratica ma sottace il fatto che nella situazione contemporanea la spiraleche si è avviata è potenzialmente senza arresto perché nessuno ha il potere didelimitare il campo.

L’avvitamento su se stessa della Identity Politics1 negli Stati Uniti è l’e-sempio più evidente di questo paradosso. Benché l’appello alle differenze sia sta-to un motore importantissimo del cambiamento dagli anni settanta in avanti,esso è diventato un fattore di frammentazione e di potenziali conflitti inter-gruppo. Si apre qui una riflessione che rilancia verso gli attori, i soggetti cheaffermano la differenza, la responsabilità di una sorta di autolimitazione nelladefinizione della propria identità. Tenendo conto che nessuna autorità centra-le o nessuna fonte di legittimazione generalizzata può porre oggi dei limiti a tut-te le possibili differenze, si deve prevedere una quota quasi inevitabile di con-flitti, ma nello stesso tempo occorre lavorare per accrescere le capacità di auto-limitazione degli attori.

Da una parte si tratta di costruire gli assetti istituzionali che possanoassumere al meglio la funzione di delimitazione delle differenze, e dall’altraoccorre alimentare nelle culture il potenziale di autolimitazione. C’è a questofine una risorsa implicita già presente nella situazione contemporanea: il fattoche nessuna cultura può oggi riconoscersi come autosufficiente.

C’è in tutte le identità che si costruiscono o ricostruiscono una quo-ta di mancanza e di sofferenza che può costituire una leva forte per la convi-venza possibile: riconoscere che gli altri ci mancano significa imparare a limita-re le pretese della nostra differenza. Questa capacità di autolimitarsi dovrebbecostituire uno dei perni centrali dell’educazione «multiculturale», perché quel-lo che ci manca e che gli altri hanno per noi è in questo momento una dellechiavi fondamentali per fondare il riconoscimento della convivenza.

(A. Melucci, Multiculturalismo, in Parole chiave. Per un nuovo lessico delle scienze sociali, Roma, Carocci, 2000, pp. 149-53, 155-56).

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Comprensione del testo1. Spiega perché secondo Melucci il multiculturali-

smo è divenuto dagli anni Ottanta un problema,oggetto di dibattiti politici e di studio in ambitoaccademico.

2. Quali sono i fenomeni sociali riconducibili allaproblematica delle diversità culturali?

3. Spiega il significato del paradosso introdotto dalriconoscimento delle differenze.

Rielaborazione e produzione4. Quali sono i presupposti di una «educazione mul-

ticulturale»?5. Elabora uno schema di sintesi del contenuto del

brano.

1. Identity Politics: politicafinalizzata a riconoscerele differenze culturali e i diritti delle cultureescluse.

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Le conseguenze della globalizzazione

Zygmunt Bauman

I processi di globalizzazione hanno effetti rilevanti non solo a livello eco-nomico e politico, ma anche sul piano culturale. Lo studioso polaccoZygmunt Bauman (1925-viv.), uno dei più noti sociologi contemporanei, èun acuto osservatore delle conseguenze della globalizzazione sulla vita quo-tidiana delle persone. Innanzitutto, cambiano i modi attraverso i quali sonopercepiti ed esperiti lo spazio e il tempo. In un mondo che è in continuomovimento, gli individui non possono stare fermi. Questo fenomeno è evi-dente se si considera che da una società basata sulla produzione si è pas-sati a una società incentrata sul consumo. Nella società attuale, infatti, nonsi può fare a meno di consumare. La possibilità di consumo, tuttavia, nonè uguale per tutti gli individui. La globalizzazione produce nuove disegua-glianze: quelli che stanno «in alto» e quelli che stanno «in basso» si distin-guono per il diverso grado di mobilità.Bauman mette in evidenza proprio le nuove forme di stratificazione che deri-vano dalla globalizzazione: si crea una polarizzazione tra chi ha la capacitàe le risorse per «attraversare il mondo» e chi, invece, è costretto a «veder-selo passare accanto». Le conseguenze culturali e psicologiche di questapolarizzazione sono enormi. Da una parte, ci sono coloro che sono liberi dimuoversi e di consumare; dall’altra, coloro che non hanno praticamentelibertà di scelta.

La nostra è una società dei consumi. Ma quando parliamo di societàdei consumi, abbiamo in mente qualcosa di più che non la banale osservazio-ne che tutti i membri della nostra società consumano; tutti gli esseri umani, eanche tutte le creature viventi hanno sempre «consumato», da tempo imme-morabile. Ciò che abbiamo in mente è che la nostra «società dei consumi» lo ènello stesso senso profondo e fondamentale in cui la società dei nostri prede-cessori, la società moderna nella sua fase di fondazione, industriale, era una«società della produzione, dei produttori». […]

La società attuale forma i propri membri al fine primario che essi svol-gano il ruolo di consumatori. Ai propri membri la nostra società impone unanorma: saper e voler consumare. […]

Le differenze sono così profonde e multiformi che giustificano pie-namente che si parli della nostra come di una società dei consumi, un model-lo separato e distinto. Il consumatore di una società di consumatori è una crea-tura totalmente diversa dal consumatore di qualsiasi altra società precedente. Setra i nostri antenati filosofi, poeti e predicatori si ponevano la questione se silavorasse per vivere o si vivesse per lavorare, il dilemma che più spesso si sente

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rimuginare oggi è se si abbia bisogno di consumare per vivere o se si viva perconsumare. […]

La parte del consumatore la si può far balenare a tutti; tutti possonovoler essere consumatori e godere delle opportunità che quel tipo di vita com-porta. Ma non tutti possono essere consumatori. Volerlo non basta; per rendere ildesiderio davvero desiderabile, e per poter quindi trarre piacere dal desiderio,bisogna avere una ragionevole speranza di avvicinarsi a ciò che si desidera. Questasperanza, che per alcuni è realistico nutrire, per altri è vana. Tutti noi siamo con-dannati a una vita di scelte, ma non tutti abbiamo i mezzi per scegliere.

Come tutte le società che conosciamo, la società postmoderna, deiconsumi, è una società stratificata. Ma è possibile distinguere un tipo di socie-tà dalle altre guardando alle dimensioni che assume la stratificazione dei loromembri. La misura che definisce quelli «in alto» e quelli «in basso» in una socie-tà di consumatori discende dal loro grado di mobilità, cioè dalla libertà di sce-gliere dove collocarsi.

Una differenza tra quelli «in alto» e quelli «in basso» sta nel fatto chei primi possono lasciare indietro i secondi, ma non viceversa. Le città contem-poranee sono luoghi di una «apartheid1 al contrario»: quanti se lo possono per-mettere, abbandonano la sporcizia e lo squallore delle zone cui è invece con-dannato chi non se lo può permettere. […]

C’è poi un’altra differenza. Quelli «in alto» sono convinti di viaggia-re attraverso la vita di loro volontà e di scegliere le varie destinazioni in base allesoddisfazioni che offrono. Quelli «in basso» spesso vengono buttati fuori dadove vorrebbero stare. […] E se non si muovono, spesso la terra viene strappa-ta sotto i loro piedi, per cui ci si sente comunque in movimento. Se prendonola strada, nella maggior parte dei casi la loro destinazione la scelgono altri; dirado è piacevole, e comunque non viene scelta in base alla piacevolezza. Puòdarsi che occupino un luogo assolutamente modesto, che lascerebbero volen-tieri, ma non hanno dove altro andare, dato che non sarebbero i benvenuti danessun’altra parte e difficilmente sarebbero autorizzati a piantarvi le tende. […]

Tutti possono essere ormai dei nomadi, nei fatti o nelle attese, ma c’èun abisso difficile da superare tra le esperienze che si possono avere, rispettiva-mente, al vertice e alla base della scala della libertà. […]

In effetti, i mondi sedimentati ai due poli, al vertice e al fondo dellaemergente gerarchia della mobilità, differiscono nettamente; e tra di essi scen-de poco alla volta l’incomunicabilità. Per il primo mondo, il mondo di chi èmobile su scala globale, lo spazio ha perduto la sua qualità di vincolo e vienefacilmente attraversato sia nella sua versione «reale» sia nella sua versione «vir-tuale». Per il secondo mondo, quello di coloro che sono legati a una località, dicoloro cui è vietato muoversi, costretti perciò a sopportare in modo passivo qual-siasi cambiamento che il luogo cui sono legati è costretto a subire, lo spazio rea-le si va rapidamente restringendo. […]

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1. apartheid: politica disegregazione razziale.

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Il contrarsi dello spazio abolisce il fluire del tempo. Gli abitanti delprimo mondo vivono in un perpetuo presente, immergendosi in una sequenzadi eventi che quasi un cordone sanitario isola sia dal passato sia dal futuro.Questa gente è costantemente occupata e non «ha» mai «tempo», dato che ogniistante è privo di estensione, un’esperienza identica a quella di un tempo che tiimpegna fino al colmo, quasi a soffocarti. La gente condannata al mondo oppo-sto è schiacciata dal peso di un tempo che non passa mai, ridondante2 e inuti-le, un tempo che non si sa come riempire. In quel tipo di tempo «non succedemai niente». Questa gente non «controlla» il tempo, ma non ne è neppure con-trollata, a differenza dei nostri antenati che timbravano il cartellino all’entratae all’uscita, assoggettati al ritmo senza volto della fabbrica. Essi possono soloammazzare il tempo, e ne sono lentamente uccisi.

I residenti del primo mondo vivono nel tempo; lo spazio non contaper loro, dato che attraversare qualsiasi distanza è ormai istantaneo. […] I resi-denti del secondo mondo, invece, vivono nello spazio: pesante, gommoso, intoc-cabile, che lega il tempo e lo tiene al di fuori del controllo dei residenti. Il lorotempo è vuoto; nel loro tempo «non succede mai nulla». […]

Per gli abitanti del primo mondo […] i confini statali sono aperti, esono smantellati per le merci, i capitali, la finanza. Per gli abitanti del secondomondo, i muri rappresentati dai controlli all’immigrazione, dalle leggi sulla resi-denza, dalle «strade pulite» e dalla «nessuna tolleranza» dell’ordine pubblico, sifanno più spessi; si fanno più profondi i fossati che li separano dai luoghi doveaspirerebbero ad andare e dai sogni di redenzione, mentre tutti i ponti, appenaprovano ad attraversarli, si dimostrano ponti levatoi. I primi viaggiano quandovogliono, dal viaggio traggono piacere (specialmente se viaggiano in prima clas-se o con aerei privati), sono indotti a viaggiare o vengono pagati per farlo e,quando lo fanno, sono accolti col sorriso del benvenuto e a braccia aperte. Isecondi viaggiano da clandestini, spesso illegalmente. Accade ancora che paghi-no per l’affollata stiva di barche puzzolenti e rabberciate più di quanto gli altrinon paghino per il lusso dorato della «classe affari». Ciononostante, li si guar-da con disprezzo e, se la fortuna non li assiste, vengono arrestati e immediata-mente deportati al primo arrivo.

(Z. Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 89-91, 96-100)

2. ridondante:sovrabbondante.

Società, cultura, incontro fra culturePercorso 11

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Comprensione del testo1. Quali sono le caratteristiche della società del

consumo in cui viviamo?2. Perché la globalizzazione crea una nuova strati-

ficazione, differenziando chi sta «in alto» e chista «in basso»?

Rielaborazione e produzione3. Spiega perché l’autore definisce le città contem-

poranee «luoghi di una apartheid al contrario».4. Suddividi il brano in sequenze e a ciascuna attri-

buisci un titolo.

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