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Di cosa parleremo? Esattamente di tutte le cose di cui abbiamo già parlato. Dal senso dell’esistere al modo di amare; dall’amore per la verità al senso della sofferenza. Ma allora è una ripetizione? No. È un punto di vista diverso. In che senso? Nel senso che i discorsi che abbiamo fatto fino a ora non sono problemi “teorici”, che stanno solo tra le nuvole; sono invece fasci di nervi scoperti: dubbi vitali, “esistenziali”, reali, che investono, sia che ce ne accorgiamo o meno, la vita di tutti i giorni. Il senso di questi inserti è proprio quello di verificare nell’esperienza quotidiana, quella apparentemente banale delle cose di ogni giorno, quanto siano vivi e reali i nodi problematici su cui ci siamo soffermati fino a ora. Perché interviste insieme a brani di libri, spezzoni di film, proposte teatrali, quadri? Proprio perché la vita di tutti i giorni è fatta anche di queste cose. Per dirla in un altro modo: non si pensa soltanto, con le parole dei filosofi, ma anche (e oggi sempre di più) con le immagini, come quelle dei video, e con le parole nuove, come quelle degli slogan, che ripetiamo scherzando tra noi. E per capire di più è anche importante fare, agire. Essere protagonisti di situazioni. Avere gli occhi liberi. Questo inserto serve proprio per imparare a capire guardando in un altro modo, con altri mezzi e in contesti a noi più vicini. In conclusione, allora? In conclusione, imparate a scrutare: anche lo sfondo, le cose che sembrano più scontate, banali. Per renderci conto che spesso hanno la stessa importanza delle immagini in primo piano. Buon viaggio, dunque, e… occhi aperti! © SEI - Società Editrice Internazionale

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Di cosa parleremo?

Esattamente di tutte le cosedi cui abbiamo già parlato.Dal senso dell’esistere al modo di amare;dall’amore per la verità al senso dellasofferenza.

Ma allora è una ripetizione?

No. È un punto di vista diverso.In che senso? Nel senso che i discorsiche abbiamo fatto fino a ora non sonoproblemi “teorici”, che stanno solotra le nuvole; sono invecefasci di nervi scoperti: dubbi vitali,“esistenziali”, reali, che investono,sia che ce ne accorgiamo o meno, la vita di tutti i giorni.Il senso di questi insertiè proprio quello di verificarenell’esperienza quotidiana,quella apparentemente banaledelle cose di ogni giorno,quanto siano vivi e realii nodi problematici su cuici siamo soffermati fino a ora.

Perché interviste insieme a brani di libri, spezzoni di film, proposte teatrali, quadri?

Proprio perché la vita di tutti i giorniè fatta anche di queste cose. Per dirlain un altro modo: non si pensa soltanto,con le parole dei filosofi, ma anche(e oggi sempre di più) con le immagini,come quelle dei video, e con le parolenuove, come quelle degli slogan,che ripetiamo scherzando tra noi.E per capire di piùè anche importante fare,agire. Essere protagonisti di situazioni.Avere gli occhi liberi.Questo inserto serve proprioper imparare a capire guardando in un altro modo, con altri mezzie in contesti a noi più vicini.

In conclusione, allora?

In conclusione, imparate a scrutare:anche lo sfondo, le coseche sembrano più scontate, banali.Per renderci conto che spessohanno la stessa importanzadelle immagini in primo piano.Buon viaggio, dunque, e…occhi aperti!

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Il primo tra tutti i nostri successi deve essere riconoscere la possibilità di scelta, il riconoscere modi diversi di vita.

(M. MEAD)

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InsertiTanti modi per interrogarsi

4 Cinema4 I film per riflettere4 Quale realtà?6 Si può cambiare la realtà?8 Essere felici è possibile?9 La lotta contro l’ingiustizia

11 Quale amore?13 La guerra si può evitare?

15 Drammatizzazione15 Esprimere un’idea

16 Gli spunti possibili

16 Qualche suggerimento tecnico

18 1. Rifarsi alla realtàNEL CUORE DELLA NOTTE, 18 – Andare in di-scoteca: testimonianze, 18 – Le personedella notte, 22 – Gira droga in discoteca?,24 – Il rave: testimonianze, 25CHE COSA NE PENSANO GLI ADULTI, 27

32 2. Richiamarsi alla letteraturaCERCARE LA STRADA, 32CERCARE CULTURA, 33CERCARE UN AMORE, 34CERCARE LIBERTÀ E AMICI, 35CERCARE IL PROPRIO POSTO, 36CERCARE IL DIVINO, 38

38 3. Richiamarsi al cinemaLA SCELTA DI NEO, 39

42 Arte42 Il Cristianesimo e le immagini42 Gli ebrei e la rappresentazione di esseri viventi44 I primi secoli del cristianesimo47 Che volto aveva Gesù?49 Dalla rappresentazione di Gesù a quella di Dio

e della SS. Trinità52 Un’arte cristiana55 I grandi cicli di affreschi56 Le Maestà59 Dalla croce al crocifisso61 La pianta della chiesa come simbolo64 Una religiosità contemporanea

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I film per riflettere

Ultima delle arti in ordine di nascita, figlia del sogno di poter riprodurre la realtà in movi-mento, il cinema è nato ufficialmente nel 1895 a Parigi, quando i suoi inventori, i fratelliLumière, proiettarono nel salone di un locale della capitale francese la ripresa dell’arrivodi un treno alla stazione. Gli spettatori delle prime file scapparono terrorizzati, temendo,non abituati al realismo della nuova arte, che il treno finisse davvero addosso a loro, uscen-do dallo schermo. Per i primi suoi anni di vita il cinema fu visto essenzialmente come fontedi divertimento e curiosità, esaurendosi in brevi film documentari, o di fantasia, o, soprat-tutto, di genere comico. Ben presto, però, proprio il suo carattere di veridicità condusse ilcinema a diventare, con la fotografia, il principale mezzo di indagine e di discussione deiproblemi contemporanei. Nel corso dei decenni la “settima arte” è divenuta così uno“specchio” del nostro tempo e il luogo dove porci molti degli interrogativi che ci sorgonosul nostro mondo. A questo proposito ti proponiamo alcuni film recenti, “problematici”,che appunto riflettono e fanno riflettere su molti aspetti del nostro tempo.

Quale realtà?Cominciamo da una pellicola, The Truman show, che pare proprio porsi la domanda: inche realtà viviamo?

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THE TRUMAN SHOWPRODUZIONE: USA 1998. REGIA: Peter Weir. SCENEGGIATURA: Andrei Niccol. INTERPRETI: Jim Carrey, Ed Harris, Laura Linney, Natascha McElhone, Noah Emmerich, BrianDelate, Paul Giamatti, Harry Shrarer.DURATA: 103’

La vicenda narra di Truman Burbank, un assicuratore, la cui vita si svolge in una tranquil-la e ridente cittadina sull’isoletta di Seahaven, dove il clima è mite, le strade sono sicure, lagente cordiale e simpatica: insomma, è una vita praticamente perfetta. Eppure Trumancomincia a essere tormentato da una strana inquietudine: gli sembra che ogni istante dellasua esistenza sia controllato da uno sguardo onnipresente e, sentendosi intrappolato dal-la monotona routine dei suoi giorni, coltiva un timido sogno di fuga: mollare tutto e anda-re alle isole Fijii. I sospetti di Truman non sono affatto paranoici: migliaia di telecamere dis-seminate in ogni dove, infatti, lo spiano in ogni minimo istante della sua giornata e il mondoin cui egli vive altro non è che il gigantesco set di una soap opera, che prosegue da trent’an-ni, in onda ininterrottamente – da quando Truman è nato – su un canale televisivo. Il regi-sta che ha ideato questo delirante show e che dirige la vita di Truman fin nei minimi detta-

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5gli vive segregato in una gigantesca cabina di regia. Trumandunque non sa di essere ripreso in ogni momento della suagiornata, non sa che quello in cui vive non è altro che ungigantesco set televisivo dove tutto è artificioso e meticolosa-mente progettato. Inconsapevolmente recita un copione alle-stito per lui da un regista misterioso sul palcoscenico di unarealtà artificiale: dalla vita con la moglie Meryl, alla colazionemattutina, all’uscita di casa tra i convenevoli con i vicini,all’acquisto dei giornali, all’arrivo in ufficio, alle bevute dibirra con Marlon, l’amico di sempre, le cui parole “sincere”

fanno in realtà anch’esse parte della finzione. Alcuni segnali esterni insospettiscono sem-pre più Truman, spingendolo a indagare oltre la routine quotidiana che viceversa sareb-be proseguita indisturbata secondo la regia prevista dallo show. Così, dal momento chegli si insinua il dubbio sull’illusorietà della sua esistenza, non si sente più appagato dal-l’esistenza rassicurante del luogo in cui vive (il cui nome Seahaven non a caso significa“porto tranquillo”) e, mosso da un senso di stupore, vuole “sapere”. La sua sete di veritàcresce a tal punto da non venire meno neppure di fronte ai rischi e all’incertezza dell’im-presa in cui si avventura: meglio affrontare il mare su unafragile barca a vela (Truman ha il terrore del mare dopo unnaufragio in cui ha perso il padre) piuttosto che essere con-dannato a una vita inautentica. Esito del suo viaggio alla sco-perta dell’ignoto, e snodo centrale del film, è l’incontro conChristof, il regista dello show che rivendica per sé il ruolo di“creatore” del mondo in cui Truman per trent’anni è vissutoal solo scopo di realizzare uno show di grande audience, eche, quando il suo “burattino” tenta di scappare, cerca intutti i modi di trattenerlo.“Chi sono io? Chi sei tu?” Questa è la domanda sconcertata che il protagonista del film,Truman Burbank, rivolge al suo “creatore”, e da questa ne scaturisce un’altra non menoinquietante: “Tutto quello che vediamo è vero?” L’intensa drammaticità dell’epilogo rap-presenta lo snodo cruciale del film. Che uso potrà fare Truman della verità che ha appre-so? Gli si profilano due modi opposti di reagire alla scoperta di una scissione tra realtàe finzione: potrà restare nell’Eden artificiale a cui è abituato e continuare la vita tran-quilla di sempre, oppure, semplicemente salendo una scala e varcando una porta, potrà

andarsene verso un mondo ignoto di cui non conosce nulla.Se rimanesse si condannerebbe a una vita priva di rischi, madel tutto fittizia; se invece decidesse di avventurarsi in maredovrebbe affrontare pericoli e insidie, ma potrebbe giungereal mondo vero.In realtà la scelta non è così lineare, tant’è che l’epilogo delfilm è inquietante e dubbioso. Infatti rimangono aperte dueipotesi circa quanto Truman po -trà incontrare oltre la porta: laprima è che al di là del mare esi-

sta effettivamente un altro mondo, ma, come prospetta il crea-tore, del tutto identico a quello inautentico in cui fino ad allo-ra Truman è vissuto. L’unica differenza è che a SeahavenTruman gode della sicura protezione di Christof, che nelmondo reale verrebbe meno. La seconda possibilità è cheoltre quella porta non vi sia proprio nulla, nessun’altra realtàdiversa e autentica rispetto a Seahaven, che, spiega il creato-

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6 re, rappresenta il mondo come dovrebbe essere. Il mondo in cui Truman ha finora vissutosarebbe dunque non una copia, ma il modello, e ciò comporterebbe che nessuna salvezzasia possibile, perché a quell’esistenza fittizia non c’è scampo.

• All’inizio del libro abbiamo spiegato da quale sentimento scaturiscono Ia do manda religiosae quella filosofica: vedi una qualche relazione con questo film?

• Abbiamo anche avuto modo di toccare i temi della sete di conoscenza e quello della ribel-lione aI proprio creatore (che neI film sono centrali). Ti ricordi a che proposito e con qualiconseguenze?

• “Non sarà sempre eccitante, ma questa è vita reale”: cosìspiega Christof a Truman che vuol fuggire. Come potrestispiegare il concetto di realtà alla luce di quanto hai studia-to? Per esempio: ricordi che concezione aveva il Buddha dellarealtà? Ti sembra in qualche modo rapportabile a quantoemerge dal film?

• Che cosa avresti fatto tu al posto di Truman? Ti sembra giu-sto che la ricerca della verità comporti un prezzo?

Si può cambiare la realtà?Abbiamo visto come anche al cinema l’interrogarsi sulla realtà in cui si vive sia un proble-ma fondamentale. Ma, una volta che ci si è fatta un’idea di tale realtà, come reagire?Accettarla così com’è, oppure tentare di modificarla? Sono stati diversi i periodi storici(quelli delle “rivoluzioni”, ad esempio) in cui gli uomini hanno tentato di modificare lasocietà. Ma ci sono idee diverse sul come farlo. Vediamo un esempio estremo: quello dicoloro che ritengono si possa imprimere una “accelerazione” alla storia con lo strumentodella violenza. Ci aiuta il film Buongiorno, notte.

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BUONGIORNO, NOTTEPRODUZIONE: Italia 2003. REGIA: Marco Bellocchio. SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio. INTERPRETI: Maya Sansa, Luigi Lo Cascio, Pier Giorgio Bellocchio, Giovanni Calcagno, PaoloBriguglia, Roberto Herlitzka. DURATA: 105’

In apparenza la storia raccontata nel film è quella che nel 1978vide il sequestro da parte delle Brigate Rosse di Aldo Moro eil conseguente suo assassinio. In realtà quest’opera non inten-de fare la cronaca di quei giorni (aveva già provveduto in talsenso nel 1986 il regista Giuseppe Ferrara col suo Il casoMoro) e, soprattutto, non si tratta di una storia, almeno nelsenso che non si tratta di un film d’azione. Il fulcro è infattiuna situazione statica, il nascere di un rapporto psicologico trai brigatisti carcerieri e lo statista prigioniero, rapporto cheingenera in una delle brigatiste, Chiara, una profonda crisiinteriore (il soggetto del film è tratto dal libro Il prigioniero, dicui è autrice una ex-brigatista del commando che rapì Moro,Anna Laura Braghetti).

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7Alla fine degli anni Settanta, Chiara è dunque una giovane terrori-sta, coinvolta nel sequestro del leader della Democrazia CristianaAldo Moro. Vive con molto disagio la sua doppia vita, fatta da unlato di normalità (lavoro, colleghi, il suo ragazzo), dall’altro diappartenenza a una “cellula armata”. Attraverso i suoi occhi riviveil clima degli “anni di piombo” e il travaglio dei brigatisti, stretti frala fiducia nell’avvento della rivoluzione e la realtà quotidiana fatta

di clandestinità e di piccole e grandi tragedie. Legati alla loro missione ideologica, i carcerieri di Moro ne sono accecati, fino a divenirneprigionieri loro stessi: di se stessi e di un sistema che vogliono rivoluzionare, ma che li“usa”. Un sequestro che è affare di Stato, ma che, dalla prospettiva del tetro appartamen-to di via Gradoli dove i brigatisti detengono lo statista, è più piccolo e umano: la quotidia-nità della doppia vita dei carcerieri, attraversata dal sonno, il cibo, Raffaella Carrà alla tv.Lo statista, uomo sereno e rassegnato, che riconosce nel gruppo dei brigatisti, che gli si pre-sentano incappucciati, una donna (“l’ho capito da come sono piegati i calzini”), fa breccianel tormento di Chiara, che sul comodino tiene, accanto a Marx edEngels, le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. LaResistenza è infatti il movimento ideale di cui i brigatisti voglionosentirsi continuatori, senza rendersi conto che la loro assoluta man-canza di prospettiva storica e politica rende la loro azione sempli-cemente una forma di azione violenta, che si giustifica solo in sestessa, slegata oramai da una qualunque credibile tensione ideale. Èinsomma una voglia di cambiare il mondo che invece di confron-tarsi con l’azione quotidiana, lenta forse, ma realistica, incisiva, finisce per invocare unadistruzione del mondo, nella convinzione che solo una catarsi nata dalle sue ceneri possacondurre alla giustizia e alla libertà. È un atteggiamento che oggi diremmo “fondamentali-sta”, che è comune a tutte le forme di terrorismo che si sono verificate nella storia umana.In Chiara si insinua lentamente il sospetto circa la giustezza di questa prospettiva così asso-luta: la vediamo dunque sulla tomba del padre, poi in una bicchierata campestre con gli expartigiani al canto di Fischia il vento e Bella Ciao, quindi in una commossa rievocazionedelle lettere dei condannati a morte della Resistenza. Ma quelle scene paiono insinuare l’e-quivalenza del loro sacrificio con quello di Moro, che Chiara spia, e che sogna libero a pas-

seggiare per casa. Gli occhi della brigatista vedono Moro che scri-ve lettere d’addio “alla dolcissima Noretta”, che pensa al nipoteLuca di due anni che non capirà il perché, che scrive a tutti, com-preso a papa Paolo VI, per “colpire” al cuore e invitare a trattarecon il Governo, che però risponde con un “liberate Moro incondi-zionatamente”. Questo dubbio di fondo, questa crisi della brigatista si traduce nellaconclusione del film in un duplice finale: quello reale, coi brigatisti

che si fanno il segno della croce nell’ultima cena prima dell’esecuzione (una scena simboli-ca che accomuna il fanatismo politico a quello religioso, avendo ambedue come unico sboc-co la morte) e col ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. Ma Chiara intanto ha un altrosogno: Moro esce di casa, passeggia per le strade, si riprende la vita, la vita trionfa.

• Questo film, dunque, non ha nulla di indagatorio e politico, ma è un film d’atmosfera, senti-mento, partecipazione emotiva a una tragedia personale. Lo ribadisce lo stesso regista, MarcoBellocchio: “Ma non volevo fare un film politico o storico, non cercavo le motivazioni e leragioni del sequestro dello statista democristiano. Mi interessava piuttosto la vicendaumana, di Moro ma anche dei suoi carcerieri, in particolare la lotta interiore vissuta dalpersonaggio di Chiara, che pur credendo nelle ragioni della lotta armata si scopre a‘sognare’ la liberazione di un leader che sente anche persona e uomo e che tiene segre-

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8 gato in casa”. Secondo te, alla luce di queste parole, è possibileavere anche nei confronti del proprio nemico un atteggiamentodi comprensione, di partecipazione umana? Oppure pensi checon il proprio nemico non si possa avere alcun punto di incon-tro?

• Ricordi che cosa dice Gesù a proposito del dover amare anche ipropri nemici?

• Secondo te, la distruzione fisica dell’avversario è manifestazione di forza o di debolezza?Perché?

Essere felici è possibile?Abbiamo visto la soluzione di chi tenta di modificare la realtà in cui vive ricorrendo allaviolenza. Ma vi è anche chi, alla fine della sua ricerca, conclude che la realtà non è modifi-cabile, che i grandi ideali non servono a nulla e che alla fine conviene accontentarsi di cer-care non la grande Felicità, ma la piccola felicità, quella delle cose di tutti i giorni. È unasoluzione un po’ rassegnata e intimista (oggi si direbbe “minimalista”) alla quale pervieneil protagonista del prossimo film che andiamo a esaminare: La felicità non costa niente.

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LA FELICITÀ NON COSTA NIENTEPRODUZIONE: Francia, Italia, Svizzera 2002. REGIA: Mimmo Calopresti. SCENEGGIATURA: Mimmo Calopresti, Francesco Bruni, Heidrun Schleef. INTERPRETI: Mimmo Calopresti, Vincent Perez, Francesca Neri, Fabrizia Sacchi, Valeria BruniTedeschi, Peppe Servillo, Laura Betti, Luisa De Santis, Valeria Solarino, Edoardo Minciotti,Francesco Siciliano. DURATA: 95’

Sergio ha quarant’anni, è un brillante architetto, sua moglie loama, ha una bella e giovane amante, molti amici, un’avviataimpresa di costruzioni e una vita agiata e invidiabile in senoall’alta borghesia romana: quindi non può che essere un uomofelice. Ma le cose cambiano quando una notte, durante unacorsa in macchina, rimane vittima di un grave incidente. Iltrauma e la sosta forzosa dopo una conseguente operazionechirurgica lo portano a riflettere sull’inutilità di tutto quelloche ha, a rendersi conto che quanto lo circonda è solo appa-renza e ipocrisia. Abbandona la sua vita frenetica (“Correvo

perché mi annoiavo”), lascia la moglie, l’amante, gli amici, il lavoro e resta solo, in silenzio,dipingendo, vagando per la città, per sentire quel qualcosa che ha dentro da tanto tempo,ma con cui non è riuscito a fare i conti. Ripensa alla sua giovi-nezza a Torino, quando era pervaso di ideali rivoluzionari chesi sono infranti contro l’agiatezza romana, contro la corsa auna vita frenetica che maschera un delirio di onnipotenza. Elo tormenta soprattutto il ricordo dell’incidente di lavoro incui è morto schiacciato da una betoniera un suo operaio, chelui aveva convinto a lavorare anche in condizioni di non sicu-rezza, pur di non fermare il cantiere. Sergio cerca risposte in esperienze diverse. Nel ritorno dai

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9genitori, nella psicanalisi, nell’amore improvviso che si accende quando una notte, nel suovagare tra sogno e realtà, che si dipana dal suo appartamento ormai semivuoto alle stradedi Roma, il suo percorso incontra quello di Sara, donna bellissima, ma anche lei sola, fra-gile, vittima di un matrimonio infelice, senza figli, che Sergio salva dal tentativo di suicidio.Sergio scambia per vero amore un sentimento intenso ma fugace, che lo lascerà nuova-mente solo e prigioniero della sua inquieta ricerca. Così lo deluderà anche il percorso versola trascendenza, verso la religione portata dalla testimonianza immobile del crocifisso e daquella molto umana e sanguigna di una suora.Rimasto nuovamente solo, Sergio troverà l’aiuto necessario a rinascere in Gianni, propriol’amico operaio morto nel cantiere, che accompagnerà come una visione i suoi sogni a occhiaperti e che gli mostrerà come trovare la felicità attraverso le cose più semplici, quelle ditutti i giorni. Alla fine il Paradiso appare, come un grande prato verde, in cui si ha moltotempo per se stessi, e come una grande mangiata di pane e salame.

• Qual è la tua opinione sulla “felicità delle piccole cose”? Credi che queste bastino a riem-pire l’esistenza, a darle un senso?

• Ritieni giusto, di fronte ai problemi del mondo, ritirarsi in sestessi, nella ricerca esclusiva del proprio piacere personale?Ritieni che siano più etici altri tipi di scelte?

• Pensi che una vita dedicata a grandi ideali impedisca digustare i sapori, i piccoli piaceri della quotidianità?

• In riferimento a quanto abbiamo detto parlando del concettocristiano di libertà, ritieni più libero chi si rifugia in un atteg-giamento simile a quello del protagonista del film o quello dichi si impegna anche per la felicità degli altri?

La lotta contro l’ingiustiziaPassiamo ora a esaminare, prendendo in considerazione un altro film, I cento passi, la solu-zione esistenziale abbracciata da una figura che potremmo definire come un martire moder-no: lottare contro le ingiustizie, anche a rischio della propria vita. Certo non a tutti si puòchiedere il martirio, ma anche nella nostra piccola dimensione quotidiana possiamo impe-gnarci, con la sola forza delle parole, delle convinzioni, degli argomenti (e perché no: anchedell’umorismo) affinché la violenza e il sopruso dei più forti non annientino i più deboli.

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I CENTO PASSIPRODUZIONE: Italia 2000. REGIA: Marco Tullio Giordana. SCENEGGIATURA: Claudio Fava, Monica Zapelli, Marco Tullio Giordana.INTERPRETI: Luigi Lo Cascio, Luigi Maria Burruano, Lucia Sardo, Paolo Briguglia, TonySperandeo, Andrea Tidona, Antonio (Ninni) Bruschetta.DURATA: 114’

L’azione si svolge a Cinisi, un paesino siciliano tra mare e roccia, a pochi passi dall’aeroportodi Punta Raisi, punto focale per il traffico della droga e per gli interessi mafiosi locali ingenere. Qui il piccolo Peppino viene introdotto nella “onorata società” dal padre Luigi, chegestisce un bar, e che aspira per lui al destino di capo (il nonno di Peppino era stato neglianni Sessanta il capomafia che regnava incontrastato su Cinisi, caduto poi in un agguato

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10 mafioso ordinato da don Tano, il boss dei boss, uscito vincitore dal-l’ultima guerra tra le diverse cosche, e pure lui vivente a Cinisi). Maqualcosa di quel mondo, istintivamente, non convince il bambino:vediamo, ad esempio, i suoi occhi scrutare le esequie dello “zio”Cesare con l’arguzia innocente dell’infanzia che istintivamente fiutal’inganno. Peppino continua a far domande, senza ricevere rispo-ste, continuamente raggiunto, però, dall’ammonimento che è ilprimo e più importante comandamento per gli uomini di Cinisi. “Onora tuo padre” è lafrase che Luigi ripete a Peppino prendendolo per il collo e implorandolo di ripeterla, ascol-tarla, seguirla. Ma non si tratta del comandamento cristiano, non si tratta di amare il geni-tore, quanto di rispettare quel senso dell’onore che riguarda un “padre” più grande, lasocietà mafiosa, e in nome del quale si commettono omicidi e ogni sorta di efferatezze,coperte da un silenzio colpevole quanto quello degli esecutori. Uno, due, tre, quattro... novantotto, novantanove, cento. Sono i cento passi che, nel vialeprincipale di Cinisi, separano la casa degli Impastato, la famiglia del protagonista, da quel-la dei Badalamenti, la famiglia del boss mafioso. Ma oltre che una distanza misurata sonoanche un simbolo: quello del percorso interiore ed esteriore che occorre fare per diveni-re “uomini d’onore” in dipendenza cieca dal boss. Quei cento passi Peppino diviene sem-pre più cosciente di non volerli fare. Di non voler partecipare a quell’esistenza in cui tuttodeve sembrare normale (il bar all’angolo, un matrimonio, la scuola e una pizza), nono-stante una “Giulietta” che esplode con l’ennesima vittima. Quell’esistenza che pare immo-bile è sottoposta però a regole (della vita e della morte, del lavoro e della famiglia) nondichiarate ma accettate da tutti, che si comportano con l’ipocrisia dei “sepolcri imbianca-ti” contro cui si scagliava Gesù. Le inquietudini di Peppino prendono corpo quando egli diventa adolescente intorno al’68, l’anno della grande rivolta generazionale che scuote l’Europa. Ma a Cinisi ribellarsi allecertezze dei padri significa ribellarsi alle regole imposte dalla mafia. La rivolta di Peppinodiventa sfida, al fianco dei contadini che si battono contro l’esproprio delle loro terre perampliare l’aeroporto. Si avvicina al Partito Comunista, ma si accorge che anche lì c’è neidirigenti troppa cautela, troppa prudenza, che nasconde in realtà il timore di sfidare trop-po apertamente il potere mafioso.

Adesso, come grida Peppino al fratello minore, i “cento passi”sono soltanto la distanza fisica che separa la loro casa da quella didon Tano: non si deve aver paura di percorrerli per andare a gri-da re sotto le finestre del boss la propria indignazione e la propriarabbia.Le azioni di Peppino costituiscono un esempio troppo pericolo-so per i giovani del luogo. Il padre tenta di fermarlo, con l’aiutodi quegli stessi “zii” di mafia che da piccolo lo tenevano sulle

ginocchia, tentando di instradarlo da subito verso la carriera di “uomo d’onore”, e oggilo blandiscono e minacciano insieme. Il conflitto investe tutta la famiglia di Peppino, chesi spacca: la madre e il fratello finiscono per sostenere la battaglia di Peppino, mentre ilpadre lo ripudia.Allora insieme ad altri Peppino fonda un giornale, che fa opera di denuncia senza mezzemisure, e dà vita a nuove iniziative: il circolo “Musica e cultura”, le mostre fotografiche inpiazza per denunciare malaffare e speculazioni. Conosce le prime sconfitte ma scopre l’or-goglio di una vocazione. Fonda “Radio aut”, un’emittente che diventa famosa in tutta laSicilia e che infrange il tabù dell’omertà e con l’arma del ridicolo distrugge il clima riveren-ziale attorno alla mafia. Tano Badalamenti diventa “Tano Seduto” e Cinisi è “Mafiopoli”.Pur avvisato e minacciato, Peppino cerca forme di impegno sempre più incisive. Nel 1978,in vista delle elezioni comunali, decide di candidarsi nelle liste di uno dei partiti di estre-

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11ma sinistra che allora proliferavano sulla scena politica; ma due giorni prima del voto saltain aria sui binari della ferrovia. La morte viene rubricata come “incidente sul lavoro”, dap-prima, poi, dopo che gli amici mettono a disposizione degli inquirenti molti indizi dell’e-secuzione, diventa addirittura “suicidio”. Solo vent’anni dopo la Procura di Palermo rin-vierà a giudizio Tano Badalamenti come mandante dell’assassinio.

• Dalle note di regia: “Questo non è un film sulla mafia, non appartiene al genere. Èpiuttosto un film sull’energia, sulla voglia di costruire, sull’immaginazione e la felicitàdi un gruppo di ragazzi che hanno osato guardare il cielo e sfidare il mondo nell’il-lusione di cambiarlo. È un film sul conflitto familiare, sull’amore e la disillusione”. Èvero: I cento passi non è un film sulla mafia anche se parla quasi esclusivamente di mafia:è un film sulle scelte di vita, sulla libertà dai condizionamenti che l’ambiente ci impone. Checosa pensi a questo proposito: occorre lasciarsi trasportare dall’atteggiamento comune,conformista, del quieto vivere (nel caso del film, piuttosto, del quieto morire) oppure biso-gna lottare per le proprie idee?

• Abbiamo parlato nel testo delle Beatitudini: quali credi dipoter riscontrare nell’atteggiamento del protagonista?

• Gesù sosteneva di essere venuto a portare non la pace, ma laguerra. Che cosa intendeva secondo te? A quale tipo di guerrasi riferiva? La guerra delle armi o quella dei cuori? Pensi che que-sto messaggio sia riscontrabile nel comportamento del protago-nista del film?

Quale amore?È importante amare anche i propri nemici. L’amore è infatti per il cristianesimo la veraforza rivoluzionaria, l’unico mezzo realmente efficace per far trionfare la giustizia. Nel testoabbiamo anche preso in esame i vari tipi di amore possibili (amore come amicizia, comeeros, come carità). Ma che cosa ne pensa un regista dichiaratamente non credente? Cirisponde Nanni Moretti col suo film La Messa è finita.

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Don Giulio, dopo aver trascorso qualche anno su un’isola, faritorno a Roma, dove diventa parroco in una chiesa di bor-gata. Il soggiorno romano turba profondamente il prete, alleprese con parrocchiani del tutto indifferenti, con gli amici diun tempo profondamente cambiati e con la sua famiglia chelentamente si disgrega. La reazione di don Giulio è un sensodi scontentezza sempre più acuto che lo porta a isolarsi e avolersi esiliare in una chiesa della Terra del Fuoco dove –spera – riuscirà ad aiutare chi ha bisogno di lui.

LA MESSA È FINITAPRODUZIONE: Italia 1985. REGIA: Nanni Moretti. SCENEGGIATURA: Nanni Moretti, Sandro Petraglia. INTERPRETI: Nanni Moretti, Ferruccio De Ceresa, Enrica MariaModugno, Marco Messeri, Roberto Vezzosi, Vincenzo Salemme,Eugenio Masciari.DURATA: 95’

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12 “Esiste l’amore universale? Secondo voi preti c’è l’amore universale?”“Secondo noi preti sì e anche secondo me.”Questo breve scambio di battute tra il protagonista de La Messa è finita, don Giulio, e suopadre esprime il nodo centrale del film di cui è regista e protagonista Nanni Moretti.A quale nozione di amore si fa riferimento? Il film ne passa in rassegna manifestazioni diver-se: c’è l’amore del prete che rinuncia al suo voto, quello del padre adultero, quello diValentina, la sorella del protagonista, quello dell’omosessuale, quello dell’amico deluso che sirifugia nella solitudine, quello dell’ex politicizzato sessantottino, quello del giovane adeptoalla lotta armata. ln tutte le sue specie terrene l’amore sviscerato dal film si presenta come unsentimento tormentoso e distruttivo: è un amore esposto al fallimento e all’infedeltà, che pro-duce amarezza e un senso di desolazione che emerge dai comportamenti e dai discorsi di tuttii personaggi del film.È tale innanzitutto l’amore che si esprime come eros: lo spretato si compiace vanagloriosamen-te delle sue esperienze erotiche, l’allievo del corso prematrimoniale se ne prende gioco,Valentina ne teme le conseguenze, l’omosessuale ne paventa le ritorsioni. L’amore come erosnella parabola amara di Moretti semplicemente non è amore: non è il tramite per congiungeredue esseri, non è la tensione positiva che dovrebbe permettere la realizzazione di sé attraversol’altro, insomma, è un fallimento. Sul piano del rapporto tra esseri umani, qualunque sia la situa-zione, l’amore è precario e ingannevole, sicuramente non tale da dare un senso all’esistenza e damotivare scelte radicali (infatti il prete non è capace di essere fedele alla sua vocazione e rinun-cia al sacerdozio, il padre abbandona la propria casa). E non si presenta neppure come unarisposta all’ansia esistenziale che pervade i protagonisti, tutti alla ricerca di certezze, di stabilità,di una completezza di cui la loro vita appare dolorosamente priva.E l’amore come agápe, quell’amore universale che dovrebbe ricondurre gli uomini a Dio, attra-verso la condivisione comunitaria? Neppure questo tipo di amore nel film offre esiti migliori.Don Giulio, che nella sua funzione di prete dovrebbe fare da tramite tra il piano degli uomi-ni e quello di Dio, non riesce a portare a compimento la sua missione, nonostante compia unosforzo costante e doloroso per aggregare uomini smarriti nell’unità del corpo mistico diCristo. Il suo è un fallimento clamoroso: lascerà la sua parrocchia verso una meta indefinita,ai confini del mondo. Indizio evidente del fallimento dell’amore comunitario è il fatto che delsacramento che rappresenta il fulcro della liturgia cristiana, l’eucaristia, nel film non c’è trac-cia: tante sono le celebrazioni liturgiche rappresentate (battesimo, confessione, ordine, matri-monio, unzione), ma la comunione mai. Del resto nessuno dei rapporti che gli altri sacra-menti dovrebbero istituire ha un esito felice, perché nessuno permette di partecipare all’a-more divino. La Messa finisce dunque senza la celebrazione dell’eucaristia, cioè senza che nelbanchetto eucaristico si manifesti, nel segno del sacramento fondamentale per i cristiani, l’a-more universale. L’unico legame che resta a unire gli uomini è quelloesteriore della danza che costituisce la scena finale del film, perché l’a-more autentico, di cui il prete avrebbe dovuto essere portatore, restaincompiuto.

• Don Giulio, come persona e come ministro di Dio, crede all’esistenza diun amore universale, ma non sa istituire una comunione che risollevi ilsuo prossimo dalle miserie di un eros avvilente e creatore di solitudine.Questa è la visione offerta dal regista del film, dichiaratamente agno-stico. Tu che cosa ne pensi? Ti riconosci maggiormente nella visione cri-stiana dell’eros che abbiamo illustrato nel volume a p. 505 oppure inquella espressa nel film?

• La parte finale del film, con il sottofondo di un sonoro assordante, riprende la celebrazione del-l’amore espressa da san Paolo: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, manon avessi la carità, sono come un bronzo che risuona e che tintinna” (1 Cor 1). Che signi-ficato ha, secondo te, questa citazione?

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13La guerra si può evitare?Se l’amore è la vera arma del cristiano, questi (lo abbiamo visto a proposito dei primi cri-stiani, che si rifiutavano di servire nell’esercito romano) non può che rifiutare la guerra. Glistudiosi del comportamento umano vedono nel gioco una preparazione alla guerra, unmodo di scaricare quegli istinti aggressivi che, se repressi, scatenerebbero davvero unaguerra senza regole (mentre il gioco ha sempre delle regole, o almeno dovrebbe averle, perimpedirgli di trascendere). Nel prossimo film che illustreremo, La vita è bella, guerra egioco si intrecciano, a fare da sfondo a un altro grande problema, quello della verità.Davvero bisogna sempre dire la verità? In situazioni estreme non si può forse amaremascherando una realtà troppo cruda e ostile?

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LA VITA È BELLAPRODUZIONE: Italia 1997. REGIA: Roberto Benigni. SCENEGGIATURA: Roberto Benigni, Vincenzo Cerami. INTERPRETI: Roberto Benigni, Nicoletta Braschi, Sergio Bustric, Giustino Durano, GiorgioCantarini. DURATA: 120’

Verso la fine degli anni Trenta in Toscana, due giovanottelli lasciano la campagna per tra-sferirsi in città. Guido, il più vivace, vuole aprire una libreria nel centro storico, l’altro,Ferruccio, fa il tappezziere ma si diletta a scrivere versi comici e irriverenti. In attesa di rea-lizzare le loro speranze, il primo trova lavoro come cameriere al Grand Hotel e il secondosi arrangia come commesso in un negozio di stoffe. Guido si innamora di una maestrina,Dora, e per conquistarla inventa l’impossibile. Le appare continuamente davanti, si trave-ste da ispettore di scuola, la rapisce con la Balilla. Ma Dora si deve sposare con un vecchiocompagno di scuola e tuttavia non è soddisfatta perché vede molto cambiato il caratteredell’uomo. Quando al Grand Hotel viene annunciato il matrimonio, Guido irrompe nellasala in groppa a un puledro e porta via Dora. I due si sposano e hanno un bambino, Giosuè.Arrivano le leggi razziali, arriva la guerra. Guido, di religione ebraica, viene deportato insie-me al figlioletto. Dora va da un’altra parte. Nel campo di concentramento, per tenere ilfiglio al riparo dai crimini che vengono perpetrati, Guido fa credere che loro fanno partedi un gioco a punti, in cui bisogna superare delle prove per vincere. Così va avanti, fino algiorno in cui Guido viene allontanato ed eliminato. Ma la guerra nel frattempo è finita,Giosuè esce, incontra la madre e le va incontro contento, dicendo “abbiamo vinto”.Pur nella tragicità della vicenda sono diversi gli spunti comici: una comicità tragica cheinquieta (Roberto Benigni, regista e protagonista, lo ha definito un film “sdrammatico” incui le risate sgorgano dalle lacrime). Il sorriso è usato per preservare un bambino dagliorrori di un campo di concentramento, perché si possa pensare che nonostante tutto, pro-prio come pensava Primo Levi rinchiuso ad Auschwitz, “la vita è bella”.Guido è un personaggio stravagante, un clown che, grazie alle risorse del suo carattere, rie-sce a sopravvivere in una situazione estrema. A lui è affidato un ruolo specifico, quello divittima innocente, di capro espiatorio che con il suo sacrificio (rifiuta di rispondere a unindovinello propostogli da un tedesco del campo e per questo viene mandato a morte) rie-sce a salvare i suoi compagni di sventura che in lui hanno riposto fiducia. Le sequenze conclusive del film ricalcano quasi quelle della Passione: quello di Guido è unCalvario personale e la sua immolazione assume valore di redenzione per i suoi cari. Guido, pur nell’estrema tragicità della vicenda, è anche un personaggio comico nel sensopiù alto del termine: infatti il suo sacrificio consente uno scioglimento felice (la vita conti-nua a essere bella) del dramma rappresentato nella trama del film. La comicità adombra

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14 infatti un tema terribile, quello della guerra e l’intreccio del film è funzionale a dimostrareche guerra e gioco non sono due poli opposti, anzi in fondo si somigliano. Infatti sonogovernati dalla stessa logica: né l’uno né l’altra si svolgono in maniera sregolata, non sonoil gioco la manifestazione spontanea della fantasia creativa e la guerra un’espressione libe-ra dell’aggressività umana. Al contrario, entrambi sottostanno a regole ben precise e hannotali affinità che nel film si traducono l’una nel linguaggio dell’altro senza che il significatodi nessuno dei due ne risulti minimamente alterato.La vita è bella è un film che concentra diversi argomenti di riflessione. In primo luogo icampi di concentramento, e quindi il razzismo, programmato a fini politici. Quindi la neces-sità, a volte, di non dichiarare la verità, per evitare un’ulteriore produzione di male, di dolo-re. E poi, benché le politiche razziali naziste e fasciste siano anteriori agli eventi bellici, equindi in un certo senso indipendenti da essi, il film può anche essere visto come una rifles-sione sulla guerra. Se è possibile analizzare la guerra come un gioco, decade la sua interpre-tazione (diffusa) come evento inevitabile della storia umana, come calamità ineluttabile,quasi iscritta nel destino degli uomini e sottratta alla loro volontà. Si tratta infatti di una pra-tica razionalmente organizzata e dunque evitabile: questa è infatti la possibilità adombratadalla vicenda di Guido che può diventare una prospettiva generale. Guido addomestica laguerra, la rende meno inquietante e la riporta a quello che essa in sostanza è, ovvero un’at-tività umana assolutamente razionale, le cui regole possono essere individuate e quindi sov-vertite: se la guerra è un gioco si può decidere tutti insieme di non giocarci più.

• L’immolazione dell’innocente Guido serve a redimerci dalla funesta necessità della guerra.Che cosa ne pensi? Sapresti citare altre opere cinematografiche in cui, al contrario di que-sta, la guerra è presentata solo come un fenomeno irrazionale?

• Comunque la si consideri, la guerra è comunque fonte di atrocità ed evento terribile, asso-lutamente contraria al comandamento dell’amore universale e all’esaltazione della mitez-za lasciatoci da Gesù nelle Beatitudini. Pensi che la guerra sia inevitabile, o credi che gliuomini possano vivere realmente in pace?

• Guido nasconde, o meglio maschera, la realtà effettiva al figlioletto. Secondo te agiscebene o agisce male?

• Vi sono nella vita quotidiana altre occasioni in cui dire la verità costituisce un grosso pro-blema. È il caso, ad esempio, dei “malati terminali”, cioè di quei malati (di cancro, di AIDS)per i quali non vi è alcuna possibilità di sopravvivenza. Secondo te è giusto informarli del-l’ineluttabilità della loro morte, o è meglio coltivare in loro ancora la fiammella della spe-ranza e per rendere meno dolorosi i loro ultimi giorni?

• Che cosa pensi a proposito delle politiche razziali? Conoscirealtà attuali in cui ancora adesso vengono praticate a livellopolitico (pensa, ad esempio, agli ultimi avvenimenti nell’ex-Jugo slavia…)? Pensi che esista un razzismo “spicciolo” anchea livello personale, quotidiano? Conosci gruppi etnici, socialiecc. che a tuo giudizio vengono discriminati?

• Alla luce di quanto visto a pp. 106sgg. del libro di testo, secondo te sipuò parlare di una “razza ebraica”?

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Esprimere un’ideaNon aspettatevi un laboratorio teatrale da queste pagine. Come si potrebbe condensare l’e-sperienza del teatro in pochi appunti e qualche suggerimento…? In più, il lavoro che si puòfare in classe non è quello che si fa quando si entra in palcoscenico; quindi, in questo dos-sier si prenderà contatto con un’esperienza che prende spunto dal teatro, ma non intenderaggiungere la qualità di un vero e proprio lavoro teatrale. Che cosa sarà allora? Un modo per esprimere un pensiero o dei dati di fatto, con un certomontaggio scenico, ma senza lavorare troppo sulla recitazione. Non si tratterà di essere “bravi” a interpretare qualcosa, ma piuttosto di essere capaci aesprimere un’idea e proporla a un pubblico di coetanei o di adulti.Una drammatizzazione è infatti sia un punto di arrivo di un lavoro di documentazione o diriflessione su un qualche argomento, sia espressione ad altri di quello stesso lavoro, inmodo da innescare anche negli “spettatori” una riflessione. Il mezzo espressivo sarà costruito dal montaggio di letture interpretative, filmati, testi musi-cali, interviste ecc.Per realizzare quindi il lavoro proposto da questo dossier sarà necessario:a. scegliere un tema di interesse comune per la classe (di carattere sociale, etico, esistenzia-le, religioso ecc.);b. raccogliere materiale utile a svilupparlo (testi, opinioni, articoli, immagini, musica e così via);c. elaborare attraverso il dibattito comune (tra voi, con gli insegnanti, con esperti in mate-ria) un contenuto intorno al tema scelto;d. offrire il risultato della propria ricerca ad altri attraverso una forma partecipativa, un“modo” coinvolgente, così da far pensare altri, adulti o coetanei, su quello stesso argomento.

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16 Gli spunti possibiliCertamente una modalità di lavoro come questa può prendere spunto da molte e diversesituazioni: l’esperienza lo insegna. Qui intendiamo proporre tre diversi punti di partenza,come esempio tra quelli possibili:a. la realtà: o meglio, un aspetto della vita che vi interessi, come ad esempio che cosa fa lagente della vostra età in giro la sera, che cosa succede quando si incomincia a lavorare e sidiventa indipendenti, che cosa significa la fedeltà o l’infedeltà nei rapporti umani, in checosa credono le persone, che cosa vuol dire essere “straniero”: insomma, i temi possibilisono tanti, è ovvio e di alcuni tra questi abbiamo avuto modo di parlare in questo libro. Sitratterà di raccogliere materiale utile, attraverso modalità diverse, come l’intervista sulcampo, la documentazione fotografica o filmica, la raccolta di dati statistici, articoli inte-ressanti, passi significativi tratti da qualche saggio critico ecc. In seguito, dopo la riflessio-ne sui dati raccolti, verrà la proposta scenica;b. la letteratura: non esiste solo la voce della gente, quella che si registra in un’intervistavorace, ma ci sono uomini e donne che nel corso del tempo hanno espresso, fissandoli neitesti della letteratura, idee, stati d’animo, situazioni umane in cui è possibile ritrovarsi.Scelto un tema, anche in questo caso, si può cercare che cosa hanno detto gli autori dellaletteratura in proposito e raccogliere qualche pagina interessante. Fatto ciò, si può darneuna lettura espressiva o si può tentarne una riscrittura teatrale (vedi oltre), per proporli alpubblico;c. il cinema: accade spesso che un film proponga dialoghi interessanti che sfuggono perchél’intreccio della storia scorre veloce e restano in mente solo pochi frammenti, qualche frasedi un dialogo, che potrebbe invece valere la pena di riascoltare, perché esprime in modosignificativo un certo tema. Anche in questo caso, come negli altri, si tratta di fissare unargomento e di cercare di conseguenza dialoghi significativi tratti dai film. “Cucirli” insie-me in un montaggio che risulti significativo può, di nuovo, costituire un modo piacevole einteressante per riflettere sul mondo.

Qualche suggerimento tecnicoOvviamente la difficoltà di un tipo di lavoro come questo non sta tanto nel documentarsio nel riflettere – cosa che fai già in molte altre occasioni – quanto piuttosto nel proporrecon un montaggio scenico efficace quello che avete raccolto. Innanzitutto va chiarito, comegià detto in apertura, che non deve esserci alcuna pretesa teatrale; ma altrettanto va dettoche quanto si propone deve essere ben fruibile dal pubblico. Qualche suggerimento allora:a. l’idea che si comunica deve essere chiara. Bisogna capire, vedendo il lavoro proposto, diquale idea si tratta, quali sono i dati, i pensieri, gli aspetti critici che si intendono comuni-care. Questo implica uno sforzo a monte, nell’organizzazione di una scaletta rigorosa (dache cosa si parte, ovvero qual è il tema proposto; quali sono le voci in merito, ovvero leinterviste, le fotografie, gli articoli, i passi letterari che si sono usati; quali le conclusioni,anche aperte, cui si è arrivati, ovvero il congedo dalla drammatizzazione con la consegna alpubblico di un pensiero su cui riflettere);b. non avere la pretesa di recitare (questo implica un lavoro molto complesso) ma renderecomprensibili i testi attraverso una buona lettura interpretativa:

• bisogna lavorare sui testi scelti rileggendoli molte volte. La rilettura, fatta con atten-zione, permette di sentire in modo chiaro il significato del testo;

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17• dare un ritmo alla lettura del testo, leggendo con calma, senza fretta, ma anche senzaeccessiva lentezza. Il ritmo della lettura deve rispecchiare un poco il ritmo del testo: piùveloce se si sta raccontando qualche episodio con un “crescendo” di tensione, più lentose si sta enunciando un concetto, e così via;• dare evidenza a qualche parola, a quelle più importanti in quel testo. Per capire qualisono le parole chiave, bisogna avere chiaro qual è il senso del messaggio del testo stesso,così da dare con il timbro di voce maggiore risalto a quei passaggi che sono effettiva-mente più significativi;• fare delle pause, ovvero creare dei piccoli spazi di silenzio nella lettura, quando c’è uncambio evidente di tema, quando c’è un poco di suspense da creare, quando c’è un lungoelenco di parole per staccarle tra di loro, quando c’è una battuta ironica ecc., quandocioè c’è bisogno di dare all’ascoltatore il segnale che sta cambiando qualcosa di quantosi dice;• dare alla frase una costante comprensibilità, superando l’abitudine di fare calare iltono di voce in chiusura, cosicché spesso non si percepiscono le ultime parole del perio-do. Tutto deve essere comprensibile, sempre.

c. usare le immagini, ad esempio raccolte attraverso un reportage fotografico o filmico, fattoda voi sul tema. Attenzione a usare l’immagine più in modo documentaristico che evocati-vo: solo così si ottiene di passare un messaggio. Un’immagine può essere scelta perché siaccorda con le parole che si stanno dicendo o perché anzi ne costituisce una disconferma,una critica. Ricordate che l’uso di una foto può essere molto incisivo nella trasmissione delpensiero;d. usare la musica: non solo come sottofondo – non si tratta di costruire una pubblicità –ma per rafforzare il messaggio. Sono tanti i testi di canzoni, ad esempio, sia italiane sia stra-niere, che toccano temi importanti. L’ascolto di un testo musicale in mezzo a letture, imma-gini, filmati, può costituire una parte del discorso esattamente alla pari di altre.

Il montaggio di tutte queste sezioni che ora abbiamo enunciato costituisce ovviamente laregia definitiva del lavoro, dando un collegamento intelligente tra il lavoro di ricerca e ilmomento nel quale il pubblico riceverà il vostro pensiero e lo farà proprio. È un lavoroimpegnativo questo, perché tutto quanto è stato raccolto possa apparire ben concatenato,comprensibile e leggero. Dovrete decidere in questa fase quale ordine dare alle singoleparti, perché tutte possano manifestare il loro significato in sé e nel contempo possanoacquisirne uno più intenso perché in forte relazione con ciò che le precede e ciò che leseguirà. Curate infine in modo particolare i raccordi tra parti e la chiusura. Un buon lavoro, allora. Qui di seguito tre esempi, per trarre spunto.

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18 1. Rifarsi alla realtàNel cuore della notteL’argomento che abbiamo scelto come esempio per questa sezione è la vita della notte omeglio del sabato notte, nei suoi modi più diversi di intenderla e viverla in città. Per rea-lizzarlo, però, abbiamo usato dati generali che si fondano su inchieste di carattere naziona-le; s’intende che, nel caso di un lavoro che venga realizzato direttamente, le interviste, i testimusicali, gli articoli di riflessione ecc. vanno cercati di prima mano. Si tratta di rappresen-tare la propria realtà, non una situazione generica.Abbiamo scelto questo argomento perché può costituire un tema di indagine e di riflessio-ne importante per le persone che hanno oggi più di quindici anni. Lo spazio della notte èun tempo “libero” nel quale si cerca autonomia, espressione, aggregazione, ricreatività.Spazio conteso tra genitori e figli, è tuttavia spazio di esperienza, di trasgressione, forse, didialogo, di metamorfosi. Rappresentarlo e osservarlo che effetto fa? La fonte che abbiamo utilizzato qui è in gran parte Mai prima di Mezzanotte, testo curatodal Gruppo Abele per il Dipartimento degli Affari Sociali del Consiglio dei Ministri, nel2000. Da qui sono state tratte testimonianze, pagine di romanzi, articoli e riflessioni. A que-ste sono stati aggiunti suggerimenti di testi musicali che riguardano la notte. Nell’ipotesi di rappresentare proprio questo lavoro, adesso verrebbe la parte più creativa eimpegnativa a un tempo, ovvero quella della regia, cosa che qui non compare, volutamente.

Andare in discoteca: testimonianzePerché andare in discoteca?Che cosa fa spostare di più gli adolescenti verso una discoteca o verso l'altra?Per quanto mi riguarda, quando mi muovo da cliente vado verso la musica che mi piace. In un loca-le vado non perché è bello, ma perché c’è la musica giusta. Per me andare in discoteca vuol dire anda-re a ballare. Ok, i ragazzini vanno spesso dove ci sono più ragazze, più “mossa”. Io, come tante altreragazze, vado dove c’è il Dj e la musica che mi piace.

È quindi il tipo di musica che si suona in un locale che attrae chi lo frequenta? Questo vale anche per i gio-vanissimi?

Anche loro vanno a ballare dove c’è la musica che piace.

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19La discoteca è anche un punto d’incontro. Che ne pensi?

Sì, certo, è un luogo di ritrovi dei giovani e mi dispiace che adesso sia un po’ screditata. La gente lavede come il posto in cui i drogati si incontrano, però, alla fine, la droga esiste, quindi, in discotecao fuori, se uno se la vuole fare se la fa. E non è che il punto di ritrovo di tutto questo sia la discoteca.

Frequentare questi locali ha ancora una componente di trasgressione, almeno per i più piccoli?

Per i giovanissimi sicuramente sì. Chi ha dai venticinque anni in su ricerca non tanto la musica, maun bell’ambiente. Ai più piccoli interessa ancora il locale dove c’è casino e divertimento assicurato.

Perché i ragazzi più giovani vogliono la discoteca?

Probabilmente perché da piccoli si esce con la compagnia, con chi si conosce e magari i genitori ladiscoteca non la permettono o magari ci si può andare solo di pomeriggio. Così, quando si cresce, cisi va il sabato sera. E ci si va per forza: se si è con la compagnia, è difficile che si decida di non anda-re fuori a ballare, anche se c’è qualcuno a cui piace andare al pub o al disco-pub, locali un po’ piùtranquilli dove si può chiacchierare un po’ meglio.

(V. CASTELLI - P. PACODA, Se mi tingo i capelli di verde è solo perché ne ho voglia, Castelvecchi, Roma 1999, p. 105.Intervista a cura di Liliana Ricci a Robertina e Vanussia, di professione cubiste)

Concerto degli Skunk Anansie,Parcheggio Palasport, Treviso, h. 20.00 p.m.

Queste interviste sono state raccolte nell’autunno-inverno 1999 dagli operatori del Gruppo Abele e altre asso-ciazioni e SerT [Servizi Tossicodipendenza dipendenti dalle A.S.L.] italiani nel corso di un progetto di azioni infor-mative sulle nuove droghe finanziato dal Dipartimento per gli Affari sociali. I nomi dei ragazzi sono di fantasia,corrispondono invece età, professione o percorso di studi.

Di sabato sera io vado spesso in discoteca, perché mi piace ballare e mi piaceva anche la techno,anche se, quando non ballo, ascolto più volentieri la musica suonata: i Nirvana, i Pearl Jam, gli SkunkAnansie…L'altro sabato sono andata al New York Jazz con gli amici, poi siamo usciti, siamo andati versoConegliano, alle cinque abbiamo fatto colazione in autogrill e alle sette del mattino siamo poi finiti acasa di un amico a vedere il Gran Premio. Abbiamo retto per i primi dodici giri e poi siamo crollati:tutti addormentati, chi sul divano, chi sul tappeto, chi sui cuscini […]Se potessi, vivrei di notte. Ho preso il giro quest’estate, che ho lavorato tre mesi a Jesolo come bar-man in un locale: si andava a letto alle otto del mattino. […]La notte è bella perché ci si sente più liberi di comportarsi senza essere giudicati. Chi gira di nottenon guarda a come sei vestito, a quanto stravagante sei, mentre se di giorno vai in giro conciato danotte, ti fissano tutti come se fossi un alieno. E poi ogni cosa è diversa: le luci, i suoni, i colori.Quando parli con qualcuno, le parole ti arrivano dritte al cuore. Di giorno, invece, sono filtrate dallatesta, dal cervello che ragiona e che non ti permette di lasciarti andare, di abbandonarli un po’ alleemozioni…

(Ileana, 21 anni, poco dopo aver baciato il bassista degli Skunk Anansie e in attesa dell’avvio del concerto.Studia pedagogia all’università)

Discoteca, Ai lati della pista,Torino, h. 3.00 a.m.La notte per me è vita e nella notte la cosa più bella sono le discoteche, i locali, la musica che mi fastare bene perché mi piace da morire: tutta la musica, anche se preferisco la techno. Di notte cono-sco gente nuova, posti nuovi, mi diverto ballando: posso ballare anche cinque ore di fila senza pren-dermi niente, né droghe né altro, perché mi piace la musica e ballo finché se la faccio. Ti chiederaicom'è possibile reggere fisicamente. Qualcuno “mangia” pastiglie,1 per me, invece, è un po’ comequando sei piccolo e giochi a pallone fino allo sfinimento. Non prendi mica niente, eppure vai avan-ti come un treno: quando ti diverti ti rendi meno conto della fatica che fai.

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1 L'espressione “mangiare pastiglie o mangiare paste” ha sostituito di recente, nel gergo giovanile l'ormai universale “calare”o “prendere cale”. Chicca, palletta, gettone, giuggiola sono altrettanti modi per dire “pastiglia di ecstasy”.

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20 La discoteca è un posto in cui puoi essere te stessosenza problemi. Non ci sono costrizioni, non ci sonoinibizioni, c’è tanta gente come te che ha voglia dirilassarsi e se, come me, sei curioso e ti diverte guar-dare gli altri, è lì che devi andare: c’è di tutto e pertutti i gusti. Il tipo con i capelli verdi, la tipa con itatuaggi in vista, l'omosessuale trendy e la drug queenmodello Ru Paul…2

(Marco, 20 anni, studente di economia,mentre ascolta il suo Dj preferito)

Discoteca, Zona bar, Taormina,h. 2.30 a.m.Faccio danza da quando avevo sei anni e ora ballo la techno sul cubo. Non potrei vivere senza bal-lare è una cosa che mi riempie di gioia e mi ricarica per tutta la settimana perché la danza libera

la mia energia. Per me non è solo diverti-mento, ma un modo di comunicare. Infatti,penso che non sia assolutamente vero quel-lo che dice la gente, cioè che nelle discote-che è impossibile parlare: mica si parla solocon le parole, si parla anche con il corpo.Sul cubo io sto bene: mi posso travestire,sembrare un’altra persona senza che qual-cuno abbia da ridire perché è un gioco chein discoteca si può fare. E poi mi sentoguardata e ammirata e la cosa mi piace. Inpiù, guadagno qualche soldo che metto daparte per le mie vacanze.

(Cristina, 18 anni, ultimo anno di istituto tecnico,in una pausa di lavoro)

Viale Ceccarini, Riccione,h. 22 p.m.Io faccio il pescatore. Lavoro tutte le nottifino al venerdì sera, che è l'ultima. Il sabatomi voglio divertire, voglio staccare un po’ laspina e non pensare più a niente. Allora micapita di andare in discoteca, anche se noncosì spesso. Ci vado con gli amici quando hovoglia di ballare e di scaricarmi un po’, diascoltare techno. Ma spesso capita che sipassi la notte in un disco-pub a chiacchiera-re, dopo una cena tutti insieme. A volte si va

a un concerto. A me piace parecchio il rock, che è la musica che ascolto di più di giorno. Sai, i vec-chi gruppi inglesi: Rolling Stones, Pink Floyd, i Queen. Me li ha fatti conoscere mio fratello, che hatrent’anni. Quella, per la musica, deve essere stata una grande stagione. […] La techno l’ascolto, manon mi fa impazzire. Diciamo che funziona per la discoteca, ma in altri momenti meglio il rock e i can-tautori. […] Comunque, la domenica non torno mai a casa prima che faccia giorno. Non sono abi-tuato a dormire la notte, con il lavoro che faccio…

(Ivano, 18 anni, pescatore, passeggiando per viale Ceccarini e aspettando l'ora per andare al Cocoricò 3)

2 L’espressione “drug queen” si riferisce alla definizione inglese di omosessuali che si vestono come attrici del cinema deglianni Cinquanta e comunque in maniera marcatamente femminile e che lavorano nel mondo dello spettacolo e delle disco-teche. Ru Paul è fra le famose.

3 La più grande e più famosa discoteca d’Italia.

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21Street Style e tatuaggiCome ti vesti quando vai in discoteca?

Ora è un periodo che mi metto cose un po’ street, scarponi da ginnastica e, tutt’al più, qualchecorpetto corto in vita. Non mi baso sulle marche e sulle riviste. E guardo molto al trucco. Solo chetruccarmi mi fa un po’ fatica. Allora sai cosa faccio? Invece dei pennelli uso le dita. Mi piace l'ef-fetto. Ah, un’altra cosa: ormai il mio mezzo di locomozione sono i rollerblade. Se vedi sfrecciare perle strade una che va come una pazza, quella sono io.

E questa storia delle firme giapponesi?

Io mi sono fatta questa spiegazione: ormai siamo in pieno trip tecnologico e l’abbigliamento risente ditutto questo. Il taglio degli abiti inventati da stilisti giapponesi è quanto di più hi-tech possa esserci, sonopratici, chessò, come un telefonino di quelli minuscoli, e hanno questa linearità che ricorda il design deinuovi computer. Però prova a vedere anche i vestiti tradizionali come il kimono. Guarda se non hannoqualcosa di tecnologico, di fantascientifico: sarà per questo che i costumi di Guerre stellari sono rivisita-

zioni del kimono. Insomma, mi sembra che in discoteca cisiano questi tre fronti: da una parte l’abbigliamento vinta-ge, anni Settanta, leggermente in calo; dall’altra la massimapulizia, il rigore; in mezzo lo street style, in continua ascesa.

Si dice che l’abito in discoteca non conti più di ogni altracosa; che i ragazzi curino la preparazione per ore.

Probabilmente è così, ma secondo me è una puntigliositàdestinata a scomparire. Perché i veri belli possono met-tersi anche in maglietta e jeans, tanto sono fichi lo stesso.Guarda Brad Pitt: qualunque cosa gli piazzi addosso, famorire. Gli altri capiranno che è importante essere bellidentro e intelligenti, per il resto ci si veste come ci va,come ci fa comodo: per questo l’alternativa al minimali-smo è l’abbigliamento street, comodo comodo.

Anche il tatuaggio è un’arte vecchia quanto l’uomo. Cosac’entra con la discoteca, regno della supermodernità?

Io il mio primo tatuaggio me lo sono fatto a 15 anni, dinascosto dai miei genitori, che non volevano. Sapevo chesarebbe rimasto sulla mia pelle per tutta la vita, però mi anda-va bene così. Dopo me ne sono fatti altri: tutte le volte che lamia vita ha subito cambiamenti importanti. Ora su di me c’èscritta una sorta di biografia per immagini, e questo è uno deimotivi validi, credo, per farsi i tatuaggi e per tenerseli. Indiscoteca è tutta un’altra cosa. Prima sono tutti corsi a farse-li, perché fa tanto bello, perché ce l’hanno tutti. Ora ci sonoi primi pentimenti: ma che ho fatto? Chi me lo ha fatto fare?La stabilità non fa parte della mentalità discotecara; la disco-

teca è il luogo per eccellenza della mutazione, un flusso che cambia velocità a seconda dei tempi ma chenon si arresta mai: per questo si sono diffusi i tatuaggi temporanei, quelli all’henné. Però c’è chi ha volutoessere modaiolo fino in fondo e si è detto “macché, robaccia, io mi faccio quello vero” e ora se ne pente.

(F. PALOSCIA - L. SCARLINI, Mode. Guida agli stili di strada e in movimento, Adn-kronos libri, Roma 2000, pp. 81-85. Intervista a Isa B.)

Discoteca, Parcheggio, Roma, h. 4.00 p.m.Io vengo qui perché si suona la musica che mi piace di più, la trance elettronica. È roba carina, i pezzisono lunghi e il ritmo non ti batte in testa, ma ti accompagna mentre balli. E ti sembra di viaggiarecon la musica, anche se non ti sei preso niente, né pasticche, né acidi. Balli tranquillo, seguendo ilflusso. C’è gente intorno che balla come me e che sente la musica come te. La trance non è come lagabber, quella sì che ti si infila nel cervello come un martello pneumatico. BUM-BUM-BUM, i battitiper minuto sono velocissimi e devi andare come un treno. Una musica per sballarsi, quella.

(Mario, 17 anni, IV istituto tecnico)

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22 Discoteca, Zona bar, Pisa, h. 3.00 a.m.Ho fatto un po’ il Dj per una radio, a Napoli. Mettevo pezzi house e techno, cose che si possono sen-tire anche mentre si guida o mentre si sta in casa. Qui si suona progressive, e devo dire che l'ascolto,anche se non mi fa impazzire. La progressive è più una musica da ballare che da ascoltare, è una robada pista notturna, è buona per il sabato sera… Praticamente io vivo con la musica e ogni momentodella mia giornata ha un suo genere particolare, più morbido per la mattina, più tosto per la notte.Mi faccio io dei mix che mi porto sempre dietro e che ascolto in macchina o con il walkman. Ci mettosoprattutto house, perché ha più anima…

(Antoni, 22 anni, barista, venuto da Napoli a Pisa per l'inaugurazione del locale)

Discoteca, Zona bar, h. 2.30 a.m.A me piace la progressive perché la progressive mi fa ballare e per me ballare è il massimo: mi piacemuovermi bene e farmi guardare perché ballo bene… La musica è energia, una cosa che mi sentonello stomaco e che mi fa stare sulla pista per ore e ore. Ballo e ballo e scarico tutta la tensione cheho accumulato durante la settimana. Per farlo non ho bisogno delle “paste”, come fanno gli altri, iouso l’energia del mio corpo e vado avanti finché ce la faccio. Quando non ce la faccio più dico bastae ne ne vado vado a dormire. [...]La notte più bella l'ho passata in questa discoteca, ad Halloween. C’era uno dei migliori Dj progressi-ve italiani, era pieno di gente e non si riusciva quasi a entrare tanto era pieno il locale. L'ambiente eradi quelli giusti, quelli in cui tutti hanno voglia di far festa e basta, senza far casino. E la musica eraeccezionale…Io da quella sera sono diventato progressista.

(Luca, 19 anni, carrozziere)

Le persone della notteA chi somigliare?A chi vorrebbero assomigliare i ragazzi, tra i personaggi proposti dalla discoteca: Dj, pierre, cubiste?

Il più seguito è il Dj.

È in assoluto il sacerdote?

La cosa più importante nella discoteca è lui.[…]

Quindi è molto importante il modo in cui si muove o incui si veste il Dj. È molto imitato?

Anche l’art-director ha seguito. Per esempio al Matis,Ricky Fornì è anche vocalist e se i ragazzini del saba-to lo vedono indossare pantaloncini catarifrangenti,il sabato dopo è sicuro che alcuni di loro avrannoaddosso lo stesso modello.

E le ragazze chi emulano?

Secondo me, le ragazze sono sempre un po’ piùmature.

Guardano la cubista? Propone un’immagine anche lei?

Sì, la cubista ha un’immagine tutta sua, è esaltataperché magari lavora nel locale più particolare, peròè sempre sulle sue.

(CASTELLI - PACODA, op. cit., p. 106. Intervista a una cubista)

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23Perché ballare?A te piace ballare?

Mi diverte molto, è un modo per incontrare amici che ho ormai da molto tempo.

Stai parlando dei tuoi datori di lavoro?Sì. Conosco da anni le persone con cui lavoro ogni sabato. Con loro si è creato un bel rapporto di ami-cizia, così, spesso ci inventiamo le serate per far divertire la clientela, ma anche per divertire noi stessi.

Ti senti un’artista?In un certo senso sì. Tutti quelli che lavorano nella discoteca in fondo sono un po’ artisti e non solo iDj. Alla fine della fiera, anche un pierre ha il suo look e la sua personalità e ti propone situazioni piùo meno particolari. All’Echoes, che è senza dubbio una discoteca di tendenza, si accontenta anche laclientela più adulta, il pubblico più tranquillo. Si organizzano anche situazioni centrate sull’elettroni-ca, in cui si invitano ospiti stranieri.

Si tratta di serate differenti o accade tutto nella stessa notte?Tutto in una notte. L’Echoes tiene tremila o quattromila persone a sera e ha più di una sala. D’estatec’è la parte all’aperto dove si suona l'underground. All’interno, invece, si esplora tutto il sound elettro-nico, la techno, la hard core, la house. Roba più tosta.

Balli per soldi, perché ti piace esibirti, perché è un mestiere…?Perché mi piace. Per me non è né un lavoro, né un divertimento; è una via di mezzo, perché andarein discoteca ogni sabato sera è diventata un’abitudine. Non riuscirei a stare senza: il fine settimanacon l’Echoes in estate e il Matis d’inverno per me è un punto fermo. Il venerdì magari, lo passo congli amici o il fidanzato, ma il sabato è il mio spazio libero. Vado lì e mi diverto.

Se ne avessi l'opportunità, lo vorresti fare per mestiere?No. Io penso che non debba essere un mestiere, ma un hobby, un divertimento momentaneo. Più di tantonon può andare, puoi ballare per qualche anno, per arrotondare, per guadagnare un po’ di soldi in più.[…]

Tu balli da sola sul cubo?Sì, da sola. Siamo in tante, localizzate in un angolo tutto per noi.

Per quante ore la stessa sera?Di solito dall’una fino alle quattro del mattino. In media due o tre ore. Con pause, naturalmente.

(CASTELLI - PACODA, op. cit., p. 105. Intervista a una cubista)

Il Dj e i riti da discotecaNel mio peregrinare con i Dj mi accorgo che quando questi ragazzi si incontrano con i loro idoli, si salu-tano e si abbracciano, come se fossero reciprocamente noti, mentre noti sono i loro idoli e non loro. Ei ragazzini domandano sempre: “Dove ci vedremo?”, e la risposta è quasi sempre: “In giro”. Questo miha sempre dato la sensazione di un vagare nella notte con la certezza di un ritrovarsi e quindi del ritro-vare una ritualità comune, condivisa. Vagando nella notte, discoteche e Dj diventano dei punti fermi. Iragazzi si trovano in questi moderni santuari dove si vive secondo un determinato rituale e si celebranodeterminati riti. A un Dj spiegavo come, a mio parere, quelli della sua categoria oggi abbiano una

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24 responsabilità morale enorme, lui mi ha risposto: “Ha perfettamente ragione, sapesse che paura che fa,quando suonando una data musica o lanciando una determinata provocazione dalla consolle si vedonocentinaia di mani che si alzano e dicono di sì all’unisono”. Ecco perché parlo di participation mystique,perché parlo di un gruppo, sia pur indeterminato, che risponde a una provocazione allo stesso modo.Questa risposta univoca è essenziale.

(R. BRICOLO, Con Adam nel cuore della tribù, in F. BAGOZZI, Generazione in ectasy, Ed. Gruppo Abele, Torino 1996, p. 153. Intervista a Renato Bricolo, psichiatra)

Gira droga in discoteca?Perché e dove la droga?“Se non ti cali non ti diverti” alcuni lo sostengono da convinti. È vero per i fruitori delle discoteche e per chifa animazione?Dipende dalle abitudini personali che si hanno: se c’è qualcuno che ha preso l’abitudine di divertirsisolo quando si droga, purtroppo mi dispiace per lui, perché avrà bisogno di drogarsi tutte le volteche esce. Io non condivido questo comportamento: quando fai quello che vuoi e che ti piace non haibisogno della droga, anzi la droga non aiuta mai.

In base alla tua esperienza quanto ci si cala? Tutti tanto, tutti poco, alcuni tanto e molti poco…?Di questi tempi credo che alla gente piaccia provare un po’ di tutto. Quello più giovane prova la pasti-glia, quello più grande tira coca. Però tutto questo lo farebbero anche se non ci fosse la discoteca…

Però viene bene uno va a ballare, e poi…Se venga bene o meno devi chiederlo a chi ha questa abitudine. Secondo me, quello della discotecaè solo un pretesto: drogarsi è una scelta personale, l'ambiente in cui ci si trova non dovrebbe incide-re più di tanto, anche se a volte in discoteca, attraverso la musica, o determinate situazioni, l'effettodella droga si sente alla grande ed è molto diverso dal riprenderla in casa da soli. Ci tengo comun-que a difendere la discoteca, luogo in cui mi trovo bene.

C’è qualcosa di vero nell’abbinata discoteca-droga?Il fatto è che, anche chi la spaccia, la va a vendere in discoteca dove trova molti clienti potenziali tantigiovani, tanti consumatori.

Fanno più fatica ad andare fuori dalle scuole?La droga c’è anche fuori dalle scuole, meno che in discoteca però. Poi c’è da dire che nelle scuolepuoi andare a prendere del fumo mentre in discoteca non ti offrono hascisch, ma ecstasy o coca.

In discoteca ci sono anche meno controlli che nelle scuole?No, si controlla anche nei locali. Dove lavoro io, nel sevizio d’ordine c’è anche un poliziotto che sor-veglia non tanto chi ha voglia di farsi, perché la vita è la sua, ma soprattutto chi spaccia. Lo spaccia-tore lo fa a scopo di lucro e mi dà più fastidio. Vai dentro una discoteca e ce ne sono tantissimi, c’èmolto spaccio irregolare nel senso che ti danno anche delle schifezze, è sempre meglio non andareda chi non si conosce, dentro le pastiglie ci può essere di tutto o magari niente. Anche per questecose, sempre meglio rivolgersi a un amico.

(CASTELLI - PACODA, op. cit., p. 108. Intervista a una cubista)

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25Il rave: testimonianzeAll’ingresso di un capannone, Milano, h. 3.40: a.m.È la prima volta che viene a un rave?4

No, li frequento spesso, mi ci diverto parecchio.

Che tipo di ambiente è?Bello. C’è un sacco di gente che ha voglia di stare bene, di divertirsi. E poi c’è la musica e si balla tuttala notte.

C’è molta gente che prende ectasy?C’è chi lo fa e chi non lo fa.

E tu?Io l’ho provata una volta sola e mi è bastato. A me la droga non interessa un granché, per me lamiglior droga è farsi due risate con gli amici.

Quanta ne hai presa?Subito una mezza e poi, nel corso della serata un’altra mezza.

Perché l'hai provata?Ero con amici, qualcuno l’aveva e me l'ha offerta. L'ho fatto per curiosità, per capire come funziona-va la cosa. Se ne fa un gran parlare…

E l’effetto, com’è?Bellissimo. E penso che sia questo il motivo per cui si “mangiano” le pasticche: perché stai benissimo.Almeno, la prima volta. Poi, a lungo andare credo che faccia schifo, perché non ti dà più lo stesso effetto.

Lo riesci a descrivere?Ti senti potentissimo. Inarrestabile. A te piace ballare e il tuo problema è la stanchezza? Te la prendie sei un fenomeno, non ti fermi più. Stai bene.

E dopo?E dopo ti senti molto giù di corda. Sei stanco, depresso, nervoso, irritabile. Io però lo sapevo già chemi sarebbe scesa una stanchezza pazzesca e non mi è partita la paranoia del tipo: oddio me ne serveun’altra, sennò come faccio ad andare avanti. Mi sono fermata, ho fatto smaltire la botta.

Ma non è così per tutti…No, non è così per tutti, anche perché la paranoia ti viene e di certo ti viene più forte se “mangi” incontinuazione.

Ma è vero quel che si dice, cioè che chi "mangia" è senza carattere?No. Anche se dopo un po’ lo diventa, perché si lasciaandare; dopo aver “mangiato” si sente giù e alloracontinua a farlo: si intrippa,5 questo è proprio il ter-mine giusto…

È una specie di cortocircuito?Esattamente. Anche se poi una cosa del genere capi-ta anche se non prendi droga. Magari sei depressoper i fatti tuoi, ti senti giù, sai quello che dovresti fareper sentirti meglio, però, non lo fai e continui a sen-tirti giù di corda.

C'è tanta gente, fra chi conosci, che "mangia"?Alcuni sì, altri no. Qualcuno la prova soltanto, c'èanche chi esagera…

E come sta?Secondo me, non bene.

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4 Il rave è innanzitutto un raduno collettivo, sotto il segno della musica e della danza. I suoi partecipanti, però, dicono di farlo nonsolo o non tanto per ballare, ma per perseguire collettivamente uno stato modificato di coscienza, che definiscono – senza per-plessità – come una trance. È anche, per definizione, un raduno “illegale”, cioè volutamente non autorizzato – e non autorizzabile– da nessuna autorità costituita. Si tratta dunque di un evento differente, almeno sotto questo aspetto, da una serata in discoteca.

5 Il termine proviene da trip, che in inglese vuol dire “viaggio” e indica, nel gergo internazionale dei consumatori di droghe, il viag-gio lisergico indotto dall’Lsd e, in senso lato, droghe in genere. Quindi intripparsi qui è inteso nel doppio senso, di prendere trop-pa ecstasy e di farsi prendere dalla sostanza e dalla consuetudine all’uso, nonché dagli effetti desiderati della medesima.

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26 L'ectasy è una moda?Forse sì, forse no. Succede che ti piace andare in un posto, vedi tutti fare la stessa cosa e lo fai anchetu, ti piace vedere quella gente in quel modo, vestita in quel modo, che ti ride in quel modo, che tiguarda in quel modo e allora lo fai anche tu.

Ma allora è colpa degli altri?Uno può sempre scegliere che cosa fare, naturalmente.

Questa sera che farai?Questa sera mi diverto.

Ma l'ecstasy?Ti ho detto che l’ho provata una volta sola. Stop.

Hai un sogno?Sì, anche se più che di sogno si deve parlare di speranza: una persona da amare davvero e un lavoroche mi piaccia e che non sia una semplice ripetizione di gesti, un qualcosa che mi faccia usare la testa.

La tua notte più bella?L’ho passata a chiacchierare con un ragazzo sul divano di casa di un’amica, a una festa. Chiacchiera tu chechiacchiero io, a un certo punto ho girato gli occhi, ho guardato fuori ed era l’alba. È stato bellissimo.

Come l’ectasy?Di più.

(Claudia, 21 anni, studia scienze della comunicazione)

Lasciarsi andareDopo lunghe ore di un percorso infernale per arrivare all’appuntamento, precipitarsi nella “navetta”poi fare ancora un’ora di strada, eccoci arrivati, davanti a un sinistro hangar sperduto, lontano dalleabitazioni. Avvicinandoci, il capannone ha in definitiva l’aria di un’enorme scatola di lamiera vibran-te da dove filtrano luci e suoni. In mezzo alla fila d’attesa, circondata di gente strana che ha l’aria di sapere perché sono lì, mi pren-de la paura di perdere la gente con cui sono venuta e che ho visto appena due o tre volte. Ho anchepaura, una volta entrata, di trovarmi schiacciata da questa folla come nei concerti. Aspetto. Dopo laperquisa6 e i cento franchi, attraverso la porta per entrare nell’hangar bagnato di luci colorate masoprattutto pieno di musica. Delle grandi tele fosforescenti sono tese sui muri, alcune rappresentanodelle divinità hindù. Dei frattali volteggiano su degli schermi, sincronizzati alla musica. Seguo timida-mente gli altri, i quali sono già tutti sorridenti, fino in fondo all’hangar. Uno di loro mi offre solenne-mente una pillola e una bottiglia d’acqua. Mi “calo”7 e faccio passare la bottiglia. Ridono e si metto-no a ballare in mezzo alla gente. Io resto al mio cantuccio con le mani in tasca. Mi sento imbarazza-ta a non ballare, ma apparentemente ciò non disturba nessuno. Sono le due e mezza e mi dico cheè meglio che mi faccia una ragione visto che non si ripartirà prima di altre sei ore.Chi mi ha dato la pillola mi scruta, smette di ballare e mi chiede se tutto va bene. In effetti comincioad avere caldo e mi suggerisce di lasciare la giacca sul guardaroba. Comincio a camminare e le miegambe mi sembrano di botto leggere e cotonose. Mi fermo un po’ ai guardaroba, alzo la testa eosservo la gente. Finalmente passa questo malore e la musica non è poi neppure tanto aggressiva.Ecco la musica a un ragionevole volume, ho sempre più desiderio di sbarazzarmi dei vestiti e di tornareverso le casse acustiche. Cammino sempre più leggera e la musica m’attira e le braccia decollano dalcorpo. Ritrovo i miei tre compagni. Abbiamo tutti e quattro lo stesso sorriso sulle labbra, non sento altroche una nuova energia che ha spazzato via il mio desiderio di dormire. Senza deciderlo davvero mi mettoa ballare, senza riflettere, lasciandomi guidare dalla musica che mi trascina. Sono stata anni senza ballaree di colpo incredibilmente, eccomi qua! Saltare, scuotere la testa, le braccia, le gambe, tutto il corpo inmovimento, seguire un ritmo e poi un altro, correre e soprattutto respirare, respirare a pieni polmoni. Inmezzo a una folla danzante ho l’impressione di avere a disposizione uno spazio infinito per ballare.Di tanto in tanto sento chiaramente l’effetto della droga che sembra seguire la musica nelle sue spi-rali, nelle tue salite, nei suoi tunnels. Penetro sempre di più il ritmo e l’evoluzione di questa musica.È come se non ne avessi ascoltate altre prima d’ora, come se non fossi mai stata così vicina ai suoni.Gioco con le mani, le guardo ondulare, carezzare l’aria, aprirsi allo spazio, mentre le mie gambe nonsono altro che la manifestazione di questo ritmo che sembra fuoriuscire dalle viscere della terra. Senzarendermene conto mi avvicino alle casse e il suono mi penetra ancora di più.

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6 Controllo, selezione.7 Prendo l’ecstasy.

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Nel momento culminante il mio corpo è come sollevato dalla musica. Il mio spirito non lo controllapiù. È una specie di lasciarsi andare, di abbandono del corpo alle vibrazioni provocate soprattutto daibassi. Tutti si agitano, marcano il ritmo e sembrano provare la stessa cosa che provo io. Sono untutt’uno con gli altri ed è una meraviglia guardarli ballare. I colori, i vestiti sottolineano i loro movi-menti anarchici, robotici o slegati. Sento dei fischi, delle urla giubilanti, vedo braccia che si alzano,corpi tesi che sussultano.Ritrovo i miei amici. Ci guardiamo sorridenti, ci scambiamo qualche parola per dirci quanto siamocontenti di essere insieme e l’alchimia delle nostre presenze esplode. La profondità dei loro occhi creain me una vertigine a spirale, una grande ventata di benessere che mi impedisce di parlare e micostringe a comunicar loro, danzando, la mia beatitudine per la loro presenza, la loro esistenza. Horipulito la mia testa, lasciandomi solo la voglia di essere qui ora e da nessuna altra parte, perché quisuccede qualcosa.Un po’ più tardi qualcuno viene spontaneamente a ballare con noi. Lo guardiamo, soggiogati, loguardiamo salire8 e saliamo con lui. Si avvicina, ci tocca, ci augura una bella serata, lo rivedremo pro-babilmente più tardi. Accadono così tante piccole cose con degli sconosciuti, che in realtà non losono e con i miei accompagnatori. Improvvisamente c’è meno gente, si apre una porta e fuori è giàmattino. Ho un po’ freddo, continuo a ballare e non voglio che la musica si fermi. Ho l’impressionedi essere tornata da un meraviglioso viaggio nel tempo. Qualcuno ci dice che sono le nove del mat-tino, ma come fare a credergli? Imbacuccati, sì stretti gli uni agli altri, sempre sorridenti e con gli occhiancora spalancati, riprendiamo la navetta. Alcuni dormono, altri ridono, altri sussurrano, tutti sem-brano felici, tranne forse l’autista. Ho già voglia di rifare rave, ed è necessario che mi prestino qual-che cassetta. Si potrebbe andare all’after,9 ma stiamo ritornando a parlare e si ha piuttosto il deside-rio di trascorrere la giornata insieme, perché non tutta la vita?

(X, 19 anni, inverno 1993, testimonianza scrittain A. FONTAINE - C. FONTANA, Raver, Sensibili alle foglie, Roma 1997, pp. 16-17)

Che cosa ne pensano gli adultiAlle voci dei ragazzi intervistati per strada, dei Dj e delle cubiste, di chi “gira” tra discote-che e raves, accostiamo quelle di Umberto Galimberti, psicoanalista, e Alessandro Baricco,scrittore, intervistati da Roberto Camarlinghi, redattore della rivista “Animazione Sociale”del Gruppo Abele. Ben diverso è naturalmente il contenuto di questi due tipi di intervista:i ragazzi hanno espresso che cosa fanno, come si trovano e con chi, con quali sentimenti;Galimberti e Baricco cercheranno invece di proporre un’interpretazione di questi dati, per-ché insomma a loro giudizio si vive così nella notte di sabato.A partire dalla domanda sull’uso della droga in discoteca, il discorso si amplia per propor-re una riflessione sulle cause, sul senso di questa prassi: di che cosa è sintomo l’uso della

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8 Nell’assunzione dell’ecstasy indica il momento in cui esplode l’effetto della sostanza stupefacente.9 Abbreviazione di afterhours, feste che cominciano alle tre del mattino del sabato per finire nel tardo pomeriggio di domeni-

ca. Il termine in sé significa “fuori orario”.

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28 droga? Quale significato ha strutturare il proprio tempo tra scuola o lavoro (con le richie-ste che questi ambienti hanno) e la discoteca o i giri delle notti nei week end? Quale esi-stenza giustifica questo montaggio?

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Umberto Galimberti insegna Filosofia della storia all’università di Venezia ed è psicoanalista. Hapubblicato numerosi saggi intorno ad argomenti importanti della nostra cultura, quali il tema delsacro, la relazione tra corpo e anima, la relazione tra cultura umanistica e tecnologica, la concezio-ne dell’argomento morale tra passato e presente. Scrive come opinionista su alcuni quotidiani,come “la Repubblica” e “Il Sole 24ore”.

Gettare la maschera

Dalle droghe leggere fumate in compagnia all’ecstasy presa in discoteca, gli stupefacenti stanno entran-do nello stile di vita di molti giovani.Che cosa ne pensa?

Io vado vedendo che ci muoviamo in una società iper-razionale, una società cioè che non concedepiù quei margini di trasgressioni che le società meno razionali ospitano. Viviamo in un regime di iper-razionalità e, soprattutto, di soppressione della soggettività: una soppressione che inizia ogni lunedìmattina, quando mi devo vestire per apparire in pubblico e devo cominciare a produrmi linguistica-mente secondo i linguaggi degli apparati: se faccio il bancario dovrò prendere a parlare il linguaggiodella banca, se il professore il linguaggio dell’istituzione, e così via.La maschera che ciascuno indossa al mattino non è solo nel trucco e nell’abbigliamento, ma anchenel linguaggio, nell’impassibilità – perché il controllo delle emozioni sul lavoro è molto apprezzato,– nell’impostazione della voce che è conforme alla funzione, in modo che nella sua impersonalità tra-spaia lo stile dell’azienda, dell’ufficio, dell’organizzazione, dell’apparato. Marx chiamava tutto ciò“alienazione”. Ma non ci si fece gran caso, e oggi ancor meno di ieri.Quando entro nel pubblico, io chiudo con la mia soggettività: non posso portare all’ufficio i miei pro-blemi. […]Questo deficit di soggettività e di possibilità di espressione non è senza conseguenze. Perché se ioesercito poco la mia soggettività, se nei cinque giorni della settimana non sono mai io a parlare mal’apparato, io a mia volta perdo i contatti con me stesso, la soggettività subisce cioè un deficit per ilfatto di non avere più un tempo in cui dirsi, un terreno dove modularsi. Al deficit di comunicazionecon gli altri si aggiunge così un deficit di rapporto di me con me stesso.[…] Di qui il nostro disagio attuale: la soggettività c’è ancora, ma non ha modo di esprimersi, nonha più dove dirsi – l’apparato richiede agli uomini di funzionare, non di essere – e resta quindi disal-lenata anche nell’esercizio quotidiano con se stessa. Io infatti posso parlare con me se ho una decen-te comunicazione con gli altri, ma se questa avviene solo attraverso i linguaggi degli apparati quellapossibilità mi è tolta. Tuttavia, poiché non è ancora estinta, la soggettività deve avere degli sbocchi;quali però? Dov’è oggi l’interiore homine?L’interiore homine – rispondo tranquillamente – non potendo esercitarsi con continuità si manifestaoggi in forme esplosive, nel tempo concentrato e programmato per la soggettività, che diventa cosìuna soggettività esasperata, e nei luoghi deputati a tale espressione; per i ragazzi, allora, una buonacatastrofe musicale, dove il ballo sostituisce la parola – chi è disallenato a parlare lo può fare con ilcorpo, con gli elementi elementari dell’espressione – e lo sballo costituisce l’esagerazione di quel cheè stato eccessivamente compresso. Leggerei allora la droga, queste droghe, come quel tempo con-tingentato in cui non può essere completamente se stesso senza però esercizio di un rapporto consé – per cui è costretto ad “andar fuori”.

Nella nostra intervista (1/1996) lei ha detto che: “droga, bevute, discoteche, il privilegiare la notte al gior-no sono tutti sintomi di una non-appartenenza a questa cultura dell’apparato, dove io esisto solo se fun-ziono. Loro, i giovani, siccome non funzionano, hanno scandito i tempi anche diversi di vita rispetto aquelli dell’apparato, da cui sono esclusi e in cui non danno l'impressione di avere una gran voglia di entra-re”. Sembra esserci uno scollamento netto tra tempo feriale e tempo festivo, più ancora, tra tempo diur-no e tempo notturno…

Il tempo diurno è il tempo dell’apparato, il tempo notturno è il tempo della soggettività. E c’è unrifiuto da parte dei ragazzi del tempo diurno: alla mattina si alzano tardi, prolungano gli studi all’in-

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29finito; non vogliono uscire nel mondo, perché sanno che è un mondo non accogliente. In questiragazzi vedo come sintomo di base una grande depressione, perché quando uno non vuole affron-tare il giorno lo status è appunto la depressione, l’impossibilità di dire qualcosa nella vita. La drogaallora la inserirei come caso limite di questi rifiuti del tempo diurno, che viene dai ragazzi rifiutato per-ché è stato loro espropriato. O diventano funzionali, cioè autonegatori della loro soggettività, oppu-re il giorno è tempo vuoto, tempo che non li conferma né li autentica, che non li chiama per nome.C’è come una perdita di umanità. E quando l’uomo dentro di noi non è morto, dove lo mettiamo?Lo facciamo fuori, lo esprimiamo in una forma non costruttiva, perché la vita non ci riconosce, nonci chiama per nome.La vita dell’apparato non è la mia. Il lavoro, per come nel nostro tempo è organizzato, comporta lanecessità di dissociarsi da se stessi. All’organizzazione – qualunque essa sia, dal supermercato agli uffi-ci di più alto rango – che ci ospita esclusivamente come suoi “funzionari” non interessa la nostra per-sonalità, la nostra creatività, le nostre emozioni e passioni, tanto meno gli umori del giorno, le gioieo i dispiaceri della nostra anima, le sue sfumature. Prova ne è che l’apparato non ospita più creativi:una volta la società cercava gli uomini di genio, adesso i creativi sono elementi di disturbo perchéall’apparato tecnico, il più razionale di tutti, interessa la nostra efficienza e la nostra sostituibilità: tudevi saper fare quest’operazione esattamente come la fa un altro. Interessa di più l’intercambiabili-tà dei soggetti umani che non la loro genialità, perché le azioni che sono loro richieste sono comun-que azioni già scritte e prescritte.Mentre nel mondo umanistico, per sapere chi è un uomo, si guardano le sue azioni, oggi non valepiù questa regola, perché le azioni sono conformi per tutti; sei tu che ti devi inserire in quelle azioni,se vuoi essere un soggetto riconosciuto socialmente.

E il discorso della flessibilità? Sembrerebbe che in questa fase storica, in cui si è sempre meno garantiti, unonon possa che fare appello alla propria “soggettività”, alla propria capacità di declinare creativamente leproprie capacità.

Non è così. La flessibilità sai cosa vuol dire? Questi sono i giochi; briscola, scopa, poker ecc., tu seiuna carta che, a seconda del gioco, assume valori diversi e deve quindi saper funzionare secondo leregole del gioco in questione. La flessibilità è la mia adattabilità ai giochi già predisposti, all’impian-to di azioni già previste, perché l’apparato non può permettersi che la carta giochi per suo conto.Flessibilità significa conoscere i linguaggi dei vari giochi, dei vari sottoapparati, saper fare il barista, ilmetalmeccanico, l’animatore sociale…; essere insomma ciò che quel gioco prevede ch’io sia. E lalibertà consiste in questa conoscenza. Non mi devo inventare nulla, non devo essere io come io-sog-getto. I corsi di formazione sono corsi di formazione alle regole di quel gioco lì: sto formandomi almio fare funzionale all’apparato, non al mio essere.Il centro del mio discorso è insomma questo; è interesse dell’apparato l’estinzione delle soggettivitàindividuali. Società di massa significa che io devo funzionare sostanzialmente come ingranaggio del-l’apparato, non come soggetto individuale, i nostri apparati razionali prevedono la soggettività solocome elemento di disturbo e consegnano a essa la riserva del privato, del week end. I giovani, peri quali comunicare è molto importante, vivono con molta angoscia questa situazione, in cui l’appa-rato razionale-tecnico coincide col sociale e dunque chi non entra nell’apparato tecnico non entranella società. Nel consumo di droga c’è la ricerca di anestesia rispetto all’insopportabilità del tasso di angoscia cheproviene dalla mancanza di comunicazione – per comunicazione intendo comunicazione della miasoggettività –, perché non c’è dubbio che poi possiamo parlare, ma se parliamo di calcio o di quelche abbiamo visto in televisione, diciamo le cose che abbiamo sentito, sentiamo le cose che potrem-mo tranquillamente dire ed è un monologo collettivo dove “io” non sto parlando ancora.

Ma non c'è il rischio di legittimare questi comportamenti? Se davvero questo apparato è così escludente eanonimizzante, allora ha senso impasticcarsi e basta…

Ma io non posso correggere un errore che è la conseguenza di un sistema. Pensiamo a tutte le leggibiologiche che abbiamo infranto: un ragazzo a 14 anni ha istinti sessuali, per natura deve generare aquell’età. Non lo può fare fino ai 35-40; botta biologica di quelle robuste. Poi dovrebbe uscire dallafamiglia e invece ci sta dentro, in quella forma strana del reattivo-depresso, perché la famiglia è l’u-nico luogo che lo ospita, ma è anche l’unico luogo dal quale dovrebbe separarsi in fretta, biologica-mente e psicologicamente. Allora si creano quei rapporti strani, un po’ stanchi, un po’ indifferenti, tragenitori e figli. […]Soffermiamoci in chiusura sugli effetti psicologici dell’ecstasy. L’ecstasy dissolve le insicurezze perso-nali e permette di relazionarsi meglio con gli altri. Ricordo di essere stato colpito scoprendo che l’ec-stasy non è un potenziamento della sessualità. L’ecstasy diminuisce la paura e l’aggressività, il che

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30 riduce nei maschi la possibilità di rapporti sessuali e rassicura le ragazze che possono celebrare il loronarcisismo senza timore di essere aggredite, perché il clima che si crea è quello di un appassionatoinnamoramento. L’ecstasy pone così la condizione di un coccolume generale: stare insieme ma senzal’aggressività biologica di far l’amore col mio vicino o la mia vicina. E proprio la coccola regressiva nelgrembo della madre/gruppo; dove la donna è più concessiva perché è sicura di non essere violenta-ta e il ragazzo può star lì, a farsi coccolare e a coccolare, senza nessuna pretesa di azioni che non sononé desiderate né attese.Dalla qualità dei piaceri attesi o comunque promessi sembra che i consumatori di ecstasy siano allaricerca di una riduzione delle barriere che nella nostra cultura rendono così difficile la comunicazio-ne: artificiale in pubblico, noiosa e ripetitiva in privato. Hanno scelto come strada la chimica, e comeeffetto la sua azione sul proprio cervello e quindi sul proprio corpo. Dell’anima non si fidano, con lesue possibilità non hanno consuetudine. E allora quel che nella nostra cultura non si riesce più a farecon l’anima, lo si fa con la chimica, pur di riuscire a raggiungere quello scopo che è la comunica-zione e il contatto al di là di tutte le barriere che ci costringono nel recinto stretto della nostra soli-tudine di massa.Ricapitolando, allora, direi che la droga va vista non nei termini di una malattia ormai diffusa su largascala nel mondo giovanile e non, ma come un sintomo, se non addirittura un tentativo disperato dirimedio, a un disagio che pare impossibile poter sopportare. Come posso reggere allo spettacolo di un mondo che funziona senza di me e che, se mi riconosce esistente, è interessato solo alla miaefficienza e funzionalità?

(Intervista a U. GALIMBERTI di R. CAMARLINGHI, Se la soggettività non può dirsi, in “Animazione Sociale”, 1997, n. 4, pp. 29 sgg.).

La vita è emozionante

I libri sono la password per diventare migliori di quel che siamo, ha detto George Steiner al recente Salonedel Libro. Ma nelle biblioteche, come a scuola, rischiano di essere come “quei preziosi e antichi violinichiusi dietro le vetrate della Libreria del Congresso di Washington. Avrebbero bisogno di essere suonati,uno strumento lasciato in silenzio è un’oscenità…”

La mia esperienza è limitata, tuttavia mi sembra che quando, soprattutto i più giovani, vanno a cer-carsi esperienze di confine, per combattere la noia e sconfiggere l’insignificanza della vita, il puntoesatto è che – evidentemente – non credono che la vita sia emozionante. Io penso invece che la vitasia molto emozionante. Naturalmente se tu entri in un luna park bendato, molto stanco, senza chenessuno ti abbia spiegato cos’è e in compagnia di amici pigri, dici “che noia” e vai a cercarti qual-cos’altro. Hai bisogno di gente che ti aiuti a capire quanto la vita possa essere emozionante. Nellamia esperienza di ragazzo non avrei avuto le energie per impasticcarmi, perché la mia vita mi hasempre stressato. Nel bene e nel male, potrei dire che è sempre stata un’emozione molto forte.Penso che abbia contato la famiglia, che mi ha effettivamente trasmesso questo senso che la vita èpiena di cose impegnative, molto belle, scommesse, sfide, prove da superare. Mi ha comunicatoun’idea intensa della vita. Quando guardavo mio padre non vedevo un uomo annoiato oppure insi-gnificante, vedevo un uomo che continuamente combatteva, per questo o per quello. Allora miveniva da imitarlo.

Nel 1976 un ragazzo di 16 anni disponeva di 1400 vocaboli, oggi sembra che non ne abbia in boccapiù di 600. I giovani sono in grado di capire immagini rapide e caotiche, ma una buona metà davanti aun libro tira le parole coi denti. È una deriva?

Secondo me questo è un processo di cui non bisogna avere troppa paura. Sarà perché sono un otti-mista, però penso che nell’energia di una civiltà, e nell’energia è compresa anche la voglia di comu-nicare, la cosa importante è “quanta ce n’è”. Dopodiché i modi in cui questa si esprime sono desti-nati a cambiare, e non bisogna spaventarsi. L’uomo medievale, per dire, non aveva nella parola l’e-lemento forte di comunicazione, eppure è stata, quella, una delle tappe forti della nostra civiltà. Seguardo i più giovani, è vero che hanno meno parole, questo è sicuro, me ne accorgo, però hanno

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Alessandro Baricco scrive romanzi, tra cui ricordiamo Oceano mare, Novecento (da cui è stato trat-to il film La leggenda del pianista sull’oceano di G. Tornatore), City. I suoi testi riflettono spesso tema-tiche della nostra società contemporanea. Da qualche anno ha aperto a Torino una scuola di scrit-tura creativa e di lettura critica del testo letterario.

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31un catalogo mentale di immagini che io alla loro età mi sognavo. Se un quattordicenne di oggi miavesse incontrato allora, probabilmente avrebbe detto: “Ma questo ragazzino non ha nessunaimmagine in testa, ha solo Bonanza, il telegiornale in bianco e nero, e qualche illustrazione di storiadell’arte”. Obiettivamente il mio patrimonio di immagini era poverissimo rispetto a quello di unquattordicenne di oggi.Cosa voglio dire? Che il talento di una civiltà si sposta, è nomade. Adesso veniamo da una stagionedella nostra civiltà che aveva nella parola quasi il cardine della comunicazione. Però non è detto chesia il modello in assoluto vincente. Bisogna essere capaci di interpretare quel che accade, non limi-tarsi a condannare. A me i giovani non sembrano più poveri come voglia di comunicare di quantolo fossimo noi. Soltanto usano strumenti diversi. Non sono convinto, insomma, che sia una perditasecca di civiltà.

Dunque non è cambiato nulla, è l’esperienza umana che si ripete?

In parte. Perché in realtà la nostra civiltà occidentale è molto censurante, molto costrittiva, ci sonomeno oasi di liberazione rispetto al passato. Siamo molto tenuti a bada, molto imbrigliati a com-portamenti civili. Siamo una società igienista, superpulita rispetto a quelle che ci hanno precedu-to. Non uccidiamo, non facciamo le guerre, non picchiamo la moglie. Ed è un compito durissimocomportarsi bene ogni giorno. Il prezzo di tutto questo è che noi cresciamo in un clima mol-to costrittivo, un po’ come i puritani a fine Ottocento. Naturalmente tanto maggiori sono l’op-pressione e l’autocensura, tanto maggiore è la voglia di evadere da tutto questo, appena possibi-le, con metodi naturali oppure con coadiuvanti artificiali. Il mercato delle droghe probabilmenteriesce a soddisfare bene questo tipo di esigenza. Bisogna condannare, è ovvio, però in separatasede, a persiane chiuse, specialmente quelli che riescono a fare a meno di tutto questo, forsedovrebbero riflettere…

In genere chi si occupa di prevenzione pensa a informare sui rischi correlati all’uso di droghe. Oltre adiffondere conoscenza, quali altri discorsi andrebbero incoraggiati con i ragazzi?

Credo si potrebbe ragionare con loro su questo. Sul fatto che nel consumo di droghe va bruciatatutta un’energia di liberazione, di voglia, di desideri, che sarebbe meglio investire nella vita. Mi pia-cerebbe spiegare a questi ragazzi che probabilmente cinque giorni vissuti nell’insignificante, più duein cui, grazie a qualche sostanza chimica, ti senti dio, potrebbero essere convertiti in sette giorni vis-suti da uomo forte, energico, con molti desideri e coraggioso.Il prototipo del giovane italiano che “consuma” immagino sia uno che durante la settimana fa unlavoro orrendo, in cui non crede e dove alla fine l’unica motivazione vera è fare denaro, dopodichériesce a fare quadrare i conti sparandosi due giorni da selvaggio. Saranno giorni anche molto diver-tenti, in cui riuscirà a baciare le ragazze che il lunedì non riesce ad avvicinare, comunicherà tuttoquello che ha da comunicare. Però la vera infamia, la vera umanità offesa, come diceva Adorno, èche si debba fare per cinque giorni un lavoro assolutamente insignificante che porta solo al denaro.Ecco, questo è il vero punto debole. I ragazzi dovrebbero rendersi conto che, accettando questaripartizione del tempo settimanale, diventano complici di un sistema che bene o male li spreme.Certo, non è un compito facile. Evidentemente i giovani adesso hanno dei modelli di adulti abba-stanza poveri. Il fatto che in tutte le classifiche dei valori si trovino sempre il denaro e la famiglia, èuna cosa che mi rattrista. Non perché abbia qualcosa contro il denaro o la famiglia, ma è poco, sonosolo due cose. Vuol dire che hai un padre che ha vissuto per una cosa o due nella vita. Mancanomodelli di esperienza della vita completa. Il nemico è il graduale assottigliamento dei significati dellavita. Oggi poi c’è un’accelerata mostruosa in direzione del consumismo e quindi della ricchezzacome valore assoluto. Un’accelerata bruciante, tanto più se consideriamo che fa seguito a quell’al-tra, operata dai nostri padri. La generazione del boom, uscita da un’indigenza di base, è entrata rapi-damente nel benessere. E queste accelerate il nostro organismo collettivo le patisce.

Difendere i ragazzi da un vivere troppo materiale. È questa la sfida?

Una lenta trasformazione antropologica ci sta trasformando in consumatori. La prima cosa che sem-pre più saremo sarà: consumatori. Poi a scendere, magari, anche individui. È questa la cosa che staaccadendo. Non bisogna demonizzarla, perché tanto non la fermi. Bisogna capirla, bisogna inter-pretarla, e bisogna evitare che si compia un impoverimento vertiginoso.

(Intervista ad A. BARICCO di R. CAMARLINGHI, in “Animazione Sociale”, maggio 2000, pp. 94 sgg.).

Un ultimo suggerimento sui testi musicali cui fare riferimento, italiani e stranieri: Ligabue,Bar Mario, Ci sono notti, Balliamo sul mondo; Jovanotti, L’ombelico del mondo.

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32 2. Richiamarsi alla letteraturaIl tema di questa sezione è la ricerca di un orientamento nella vita. Cercare un luogo dovepoter essere se stessi, dove trovare la propria strada, dove vivere i propri affetti e ricollo-carsi rispetto al passato. È uno sforzo grande, questo, che il tempo dell’adolescenza vive inmodo particolare; ma che non sempre si esaurisce con l’età cosiddetta “adulta”. La dina-mica che guida questo processo della vita è evidente: si lascia ciò che è certo e garantito dal-l’autorità dei propri genitori, dagli ambienti “sicuri” di casa, famiglia, scuola ecc., propridel mondo infantile, e si cerca da soli che cosa vale e che cosa no, che cosa importa davve-ro. Ci si domanda ovviamente dove sta l’autorità che guida una scelta, se fuori da sé – inqualcuno che un tempo era facile identificare con qualche figura precisa – o dentro di sé,perché si è in grado di autorizzarsi da soli a fare ciò che risponde tanto ai propri desideriquanto alle aspettative del mondo. Non andiamo oltre nell’esposizione dei termini di unproblema che certamente avrete già affrontato molte volte. Qui intendiamo proporlosecondo le modalità che abbiamo detto in precedenza, ovvero attraverso passi che deriva-no da testi di letteratura e che possono essere rielaborati in modo da essere proposti inuna drammatizzazione. La raccolta è limitata a voci tratte da romanzi contemporanei, cherispecchiano il mondo giovanile. Certo è una scelta voluta, a fronte di altre possibili, che avrebbero potuto rifarsi a testi di una letteratura più “alta” del passato. Questi testipossono essere base per un lavoro organizzato secondo due piste possibili:a. si può collocare la lettura dei testi letterari in un contesto simile a quello precedente,affiancando alla lettura interpretativa dei passi (magari realizzata a più voci) testi musicali,iconografici, filmici ecc., che ne costituiscano una contestualizzazione, costruendo un con-fronto tra letteratura e realtà;b. si può dare al testo letterario una veste differente da quello della prosa in cui sono scrit-ti, creando una riduzione teatrale del testo, come forse hai imparato a fare in italiano. Unadelle forme previste per l’Esame di stato è infatti la creazione di una sceneggiatura o la ridu-zione teatrale di pagine di prosa. Se, quindi, ti è capitato già di fare esperienza di questotipo di scrittura puoi sperimentarlo anche qui. Certamente questo esercizio, in questo caso,riveste una particolare importanza. La scelta di testi d’autore su un tema e il lavoro sul testoper arrivare a costruire un dialogo permetterà di ragionare sull’argomento che avete scel-to in modo più profondo. Sarà una modalità interessante di avvicinarsi attraverso le paro-le a qualche aspetto di se stessi, della società, della cultura.

Cercare la stradaNella ricerca di una filosofia di vita, di un modo con il quale orientare il proprio agire, cisono momenti nei quali a un grande smarrimento fa seguito la percezione del momentoattuale che si sta vivendo, tra il passato che ci appartiene e il futuro che verrà. In questi atti-mi, un po’ astratti, di percezione di sé si prende atto delmomento particolare che si sta vivendo, si “vede” dovesi è, si coglie con più lucidità quanto ci appartiene. Unodei protagonisti di On the road, così descrive il momen-to in cui si coglie, a metà dell’America e della sua vita.

Mi svegliai che il sole si faceva rosso; e quello fu l’unico, chia-ro momento della mia vita, il momento più strano di tutti, incui non seppi chi ero… Mi trovavo lontano da casa, ossessio-nato e stanco del viaggio, in una misera camera d’albergoche non avevo mai vista, a sentire i sibili di vapore là fuori, elo scricchiolare di vecchio legno della locanda, e dei passi alpiano di sopra, e tutti quei suoni tristi; e guardavo l’alto sof-fitto pieno di crepe e davvero non seppi chi ero per circa

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33quindici strani secondi. Non avevo paura; ero solo qualcun altro, un estraneo, e tutta la mia vita erauna vita stregata, la vita di un fantasma. Mi trovavo a metà strada attraverso l’America, alla linea divi-soria fra l’Est della mia giovinezza e l’Ovest del mio futuro, ed è forse per questo che ciò accadde pro-prio lì e in quel momento, in quello strano pomeriggio rosso.

(J. KEROUAC, Sulla strada, trad. M. Maldini de Cristofaro, prima ed or. 1957, Mondadori, Milano 1995, p. 49)

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Jack Keruac (1922-1969) è uno scrittore americano che ha descritto nei suoi testi lo stile di vitadella beat generation, della gioventù bruciata americana, stile di vita che peraltro condivideva diret-tamente. On the road (Sulla strada) è stato il suo primo romanzo costruito secondo questi ideali,rivoluzionari sia nei contenuti sia nella forma espressiva; altri seguirono e ispirarono un gruppo diartisti che lavorò nella città di San Francisco.

Cercare culturaNella vita di chi passa nelle mura di una scuola è un diritto o una necessità cercare culturae persone che credano nella cultura. Questo significa poter costruire qualcosa che valga nelproprio presente e nel proprio futuro. Zoe Trope è una quindicenne che ottiene a scuolarisultati brillanti (nella scuola angloamericana A è il risultato più alto nelle prove) e checerca nella scuola, pur con il suo carattere ribelle e il suo essere controcorrente, la possibi-lità di incontrare persone e non “professori”, cultura e non “valutazioni”.

28 maggio 2002

Mi sento così staccata da quell’edificio edalle persone che contiene. Io non sonoloro, non sono una parte del tutto. Sonodentro quell’edificio ma non tocco nien-te. Porto guanti di plastica e respiro conuna mascherina bianca sopra la bocca.Non voglio prendermi quella malattia.Non voglio infettarmi. Toccatemi. Entrate.Lasciate andare. Venite.Certe volte odio il modo in cui si vestonogli altri. Sembrano tutti fasciati e strizzati etirati e disgustosi e distorti e mi vengono igiramenti di testa. Uno mette in mostra iboxer sotto un paio di jeans a vita bassa,l’altra ha i fiancotti debordanti dalla cintu-ra dei pantaloni alla pescatora troppostretti. Odio i tanga. Odio la loro dieta deipiedi. Odio lo smalto sulle unghie deipiedi e le borsette. Mamma mia chevoglia di vomitarle sui capelli.Sono stufa del mio armadietto. Stufa dell’idea di essere rinchiusa da qualche parte. Pezzi della miavita chiusi in un contenitore in alto accanto a quelli di tutti gli altri, lo odio. Non mi piace aprirlo echiuderlo, rivelare e nascondere, fidarmi e raccontare sempre bugie ogni giorno continuamente.Gli armadietti dovrebbero essere sempre aperti. Dovrebbero essere tutti vuoti. Dovrebbero esseretutti spogli. Sono stufa delle riunioni. Stufa dei voti, stufa di primeggiare. So benissimo che i miei votisono più alti solo perché ho barrato la casella “Alunno con handicap” sulla prima pagina del compi-to. Pensavano che fossi ritardata. Forse è vero. Sono stufa di ripassare. Stufa di rifare in due giorni ilprogramma di un anno intero. Non mi piace avere le vertigini. Odio le matite.

12 giugno 2002

Dice che c’è una bella differenza tra un B e un A e io sogghigno: “Forza, confessi: chi è stato, chi leha negato il voto che voleva? È successo al liceo? Al college?” Gli si gonfia la vena del collo e un alone

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34 di condensa si forma sui suoi occhiali giganteschi. “Non fare questi giochetti con me!” mi sputa infaccia. Alzo gli occhi al cielo. Io volevo solo un insegnante. Era pretendere troppo? Non volevo micaun distributore automatico di frecciatine o di compiti a casa e nemmeno un frullatore che dispensanorme e regole. Volevo solo un insegnante. Finisco il problema che servirà ad alzarmi la media, glie-lo piazzo sotto il naso e prendo la porta. Ecco perché lo chiamano esame finale.

(ZOE TROPE, Scusate se ho quindici anni, trad. C. Mennella, Einaudi, Torino 2003, pp. 237; 251)

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Zoe Trope è il nome d’arte di una scrittrice americana esordiente. Il libro da cui è tratto il testo èil suo primo romanzo. Cela la sua identità dietro uno pseudonimo e non comunica al pubblico noti-zie della sua vita.

Cercare un amoreChe cosa fare rispetto all’amore? Cercare un legame forte e stabile o vivere storie brevi, conl’emozione dell’innamoramento e del corteggiamento, in una ripetizione senza fine?Riuscire a comprendere quale sia il proprio modo di intendere l’amore e provare la profon-da gioia o sofferenza che l’amore porta con sé è uno dei “luoghi” della vita. Il protagonistadel romanzo da cui è tratto il testo che segue, dopo aver vissuto una lunga storia con Laura,fatta di mille volte nelle quali l’ha lasciata e altrettante in cui ha ripreso la relazione con lei,dopo tanti innamoramenti verso ragazze che occasionalmente attraversavano la sua via (nelpasso si parla di una certa Caroline, cronista di un giornale locale), decide di sposare Laurae di cambiare il suo modo di concepire una relazione a due.

Ma… quando finirà questa storia? Continuerò tutta la vita a cercare di passare il guado saltando dauna pietra all’altra, finché non ce ne saranno più? Sarò sempre costretto a correre ogni volta che misentirò bruciare la terra sotto i piedi? Perché, a conti fatti, questo mi capita, più o meno ogni tre mesi,in contemporanea con l’arrivo delle bollette. E durante la nostra Estate Britannica anche più spesso.È da quando ho quattordici anni che ragiono con le viscere. E per dirla tutta, ma che resti fra voi eme, adesso ho capito che nelle viscere c’è materia fecale, non cerebrale.So cosa non va con Laura. Quello che non va con Laura è che io non la vedrò mai più per la prima,per la seconda, o per la terza volta. Non passerò mai più due o tre giorni in preda all’agitazione, cer-cando di ricordare com’è fatta, mai più arriverò un pub mezz’ora prima dell’appuntamento, e fis-serò il medesimo articolo di una rivista sbirciando l’orologio ogni trenta secondi. Certo, la amo e mipiace e con lei ho delle belle conversazioni, un sesso piacevole e intense discussioni, e lei si occupae si preoccupa per me e organizza la faccenda del Groucho, ma quanto conta tutto questo, quan-do qualcuna con le braccia nude, un sorriso carino e un paio di Doc Martens ai piedi entra in nego-zio e dice che vuole intervistarmi? Conta poco o niente, ecco la verità, ma forse dovrebbe contareun po’ di più.Manderò il nastro a Caroline per posta. Forse.Arriva in ritardo di un quarto d’ora, e questo significa che sono stato nel pub, a guardare lo stessoarticolo per ben quarantacinque minuti. È spiacente del ritardo, anche se, tutto considerato, non èche proprio si profonda in scuse; ma non le dico niente al riguardo. Non è giornata.“Evviva”, dice, e fa tintinnare il suo bicchiere di vino e soda contro la mia bottiglia di Sol. Un po’ deltrucco è venuto via sol sudore, è un’altra giornata calda, e ha le guance tutte rosa; è deliziosa. “Chebella sorpresa.”Io non dico niente. Sono troppo nervoso.“Sei preoccupato per domani sera?”“No.” Mi concentro nel cercare di spingere giù per il collo della bottiglia un pezzetto di limone.“Hai intenzione di dire qualcosa, o devo tirar fuori il mio giornale?”“Ho intenzione di dire qualcosa.”“Bene.”Agito la birra così diventa davvero limonosa.“Di cosa mi devi parlare?”“Vorrei sapere se vuoi sposarti o no. Dico, con me.”

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35Lei ride un sacco. “Ah ah ah. Oooh ooh ohh.”“Guarda che dico sul serio.”“Lo so.”“Oh, beh, tante grazie.”“E vorresti prendere una decisione di questo genere così? A sangue freddo? Se faccio questo, succe-de quest’altro, tac tac, e via? Non sono sicura che le cose vadano così.”“Invece vanno così, vedi. Se anche si tratta di una relazione, cioè di una faccenda sentimentale, nonsignifica che non si possano prendere decisioni razionali. Anzi, certe volte ci si è addirittura costretti,altrimenti non si arriva a niente. Sai qual è stato il mio errore? Ho lasciato che a decidere fossero il fat-tore climatico e i muscoli del mio stomaco e un formidabile giro di accordi in un quarantacinque giridei Pretenders, ma sono stufo e d’ora in poi voglio essere io a decidere.”“Forse.”“Cosa significa forse?”“Significa: forse hai ragione. Ma questo non mi aiuta, o sì? Tu fai sempre così. Arrivi a chissà qualeconclusione, e tutti gli altri devono adeguarsi. Davvero ti aspettavi che ti dicessi sì?”“Non lo so. Non ci ho pensato, davvero. La cosa importante era chiedertelo.”“Beh, me l’hai chiesto.” Ma lo dice dolcemente, come se sapesse che quello che le ho chiesto è unabuona cosa, non priva di un suo significato, anche se non le interessa. “Grazie.”

(N. HORNBY, Alta fedeltà, trad. L. Noulian, Guanda, Parma 1996, pp. 247-251)

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Nick Hornby è nato nel 1957 a Londra dove tuttora vive. Ha scritto numerosi romanzi sulla vita ela mentalità della generazione dei giovani adulti contemporanei.

Cercare libertà e amiciDalla vita completamente dipendente dagli altri si passa nella giovinezza a una vita più libe-ra nell’organizzazione del tempo e nella ricerca degli amici, delle persone con cui percor-rere la propria via. Jack, un liceale diciottenne, descrive in queste pagine il momento in cuisente di avere raggiunto dentro di sé un cambiamento definitivo, guarda alle cose che fannoparte della sua vita quasi con insofferenza (si passa sempre attraverso un rifiuto) e cerca checosa corrisponda di più al suo animo, oggi.

Ascoltate: fino al giro di boa dei sedici anni e mezzo il nostrominorenne attento pettinato passivissimo – un volenterosoassoluto – era rimasto a marcire a un palmo dalla cattedra deiprofili e prendeva gli appunti, il cuoricino! diligente! servizie-vole! consacrato! un cadavere di buoni sentimenti scolasticisotto innumerevoli riguardi e le entrate in classe strategichealla seconda ora? mai! ché i suoi alsaziani sensi di colpa avreb-bero finito con l’ucciderlo altrimenti e le assenze ingiustifica-te? scherziamo?Un devoto da levare il fiato, credete, e un bel momento inve-ce, una mattina di maggio, albeggiava appena, terminata lalettura di Due di due dell’Andrea De Carlo quel matto avevadeciso con una fermezza giovanile di natura febbricitante eapparentemente superumana che nulla sarebbe più statocome prima, ché grazie a Due di due aveva aperto gli occhisulle troppe stronzaggini tipo le tabelle dei verbi irregolari glispecchietti sinottici la democrazia fasulla del consiglio d’isti-tuto e il conformismo e la doppiezza dei profii, il modo bifor-cuto che avevano d’incoraggiare a parole l’indipendenza digiudizio dei ragazzi e la rabbia sottile con cui punivano ogniminimo segnale d’autonomia quei bastardi e in settembre

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36 all’inizio della seconda liceo il nostro redento e l’amico Oscar s’erano precipitati su per le scale intesta al gruppo degli alunni sonnambuli e avevano occupato il banco più imboscato dell’aula guiz-zanti come cani giovani subito a proprio agio nei nuovi panni di neosvogliati e rinselvatichiti, e cosìl’autunno e l’inverno erano trascorsi ottusi e lenti fra i muri giallognoli del liceo Caimani ma elet-trici e veloci via dalla schiffa galera fuori in compagnia di Depression Tony e l’Helios Nardini e quelkranio fosforescente del vecchio Hoge l’unico uomo al mondo persuaso (vi giuro ci vollero mesi perconvincerlo dell’errore) che la dizione esatta di blue-jeans era blugìnx con la inx finale e a iniziomarzo splendeva già il bel tempo in città, e ogni mattina Dio srotolava un cielo talmente azzurrocon certe nuvole d’ovatta candida appese in lontananza che era impossibile non ghignare di feli-cità e affacciarsi al balconcino o uscire in strada e resistere alla tentazione di gridargli: grazie capo,non lo dimenticheremo!E il vecchio Alex si lavava i denti tre volte al giorno e andava a scuola a scaldare il banco [...] e poitornava a casa e mangiava in fretta spaghetti cotoletta mela, migliorava il record di tetris e subitocorreva fuori di nuovo in sella alla bici e via giù a precipizio per la Saragozza avenue ché si potevarientrare il pomeriggio tardi a quel punto e persino la mutter era arcistufa di rinfacciargli che nonfaceva più niente tutto il santo die e ormai l’aveva dato per perso, il suo figliolo.Il vecchio Alex l’amava il pavé di via Collegio di Spagna l’asfalto veloce dei viali la distesa di porfi-do di via Rizzoli e amava anche tutto il resto, i tramonti arancioni dietro San Luca indossare unamaglietta nuova salire a salutare nonna Pina e far merenda da lei parlando fitto delle novità politi-che o televisive.

(E. BRIZZI, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, Mondadori, Milano 1994, pp. 8-10)

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Enrico Brizzi, giovane esordiente bolognese, ha scritto un romanzo, da cui sono tratte questepagine, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, in cui descrive attraverso linguaggio e situazioni verosi-mili l’attuale generazione giovanile.

Cercare il proprio posto

Il luogo da cui si proviene – la propria casa d’origine – e quello dove si andrà costituisco-no poli importanti della propria esistenza: la ricerca del proprio luogo, quello che ci appar-tiene e ci accoglie, da adulti, in cui si viva la piena realizzazione di sé è il tema di questopasso di Kitchen, di Banana Yoshimoto, che identifica curiosamente nella cucina lo spazioin cui si salda il legame con la memoria e la possibilità del futuro.

Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina.Non importa dove si trova, com’è fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, iosto bene. Se possibile le preferisco funzionali e vissute. Magari con tantissimi strofinacci asciutti e puli-ti e le piastrelle bianche che scintillano.Anche le cucine incredibilmente sporche mi piacciono da morire.Mi piacciono col pavimento disseminato di pezzettini di verdura, così sporche che la suola delle pan-tofole diventa subito nera, e grandi, di una grandezza esagerata. Con un frigo enorme pieno di prov-viste che basterebbero tranquillamente per un intero inverno, un frigo imponente, al cui grande spor-tello metallico potermi appoggiare. E se per caso alzo gli occhi dal fornello schizzato di grasso o daicoltelli un po’ arrugginiti, fuori le stesse che splendono tristi.Siamo rimaste solo io e la cucina. Mi sembra un po’ meglio che pensare che sono rimasta proprio sola.Nei momenti in cui sono molto stanca, mi succede spesso di fantasticare. Penso che quando verrà ilmomento di morire, vorrei che fosse in cucina. Che io mi trovi da sola in un posto freddo, o al caldoinsieme a qualcuno, mi piacerebbe poterlo affrontare senza paura. Magari fosse in cucina!Prima che i Tanabe mi prendessero con loro, dormivo sempre in cucina. Non riuscivo mai a prende-re sonno, e una volta che vagavo per le stanze all’alba alla ricerca di un angolino confortevole, sco-prii che il posto migliore per dormire era ai piedi del frigo.Mi chiamo Mikage Sakurai. I miei genitori sono morti tutti e due giovani. Perciò sono stata allevata

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37dai nonni. Il nonno è morto quando ho cominciato le medie. Da allora io e la nonna abbiamo vissu-to da sole.Pochi giorni fa all’improvviso è morta la nonna. Sono rimasta di stucco.Se mi metto a pensare che la mia famiglia – che era lì reale – nel giro di pochi anni è scomparsa così,una persona alla volta, mi sembra di non poter credere più a niente. Essere rimasta io sola in questacasa dove sono cresciuta, mentre il tempo continua a scorrere regolare, mi sconvolge.È pura fantascienza. Le tenebre del cosmo.Tre giorni dopo il funerale ero ancora stordita.Trascinandomi dietro quella vaga sonnolenza che accompagna la tristezza più cupa e senza lacrime,stesi il futon nella cucina silenziosa e splendente. Dormii raggomitolata nella coperta come Linus, colronzio del frigorifero che mi proteggeva da pensieri di solitudine. Così la notte se ne andò abbastan-za tranquillamente, e venne il mattino.Volevo solo dormire alla luce delle stelle.Volevo svegliarmi nella luce del mattino.A parte questo, tutto il resto mi era completamente indifferente.Ma non potevo andare avanti così per sempre. È incredibile, la realtà. […]Din-don. All’improvviso suonò il campanello.Era un pomeriggio un po’ nuvoloso di primavera. Avevo dato solo una sbirciata alla rivista diannunci, ma ne avevo avuto subito abbastanza, ed ero assorbita dall’operazione di legare con lospago alcuni giornali in vista dell’eventuale trasloco. Sorpresa corsi alla porta così com’ero, vesti-ta a metà, e senza chiedere chi fosse girai la chiave e aprii. Per fortuna non era un ladro, era YuichiTanabe.“Ah, salve. Grazie ancora per l’altro giorno,” dissi. Era un ragazzo simpatico, di un anno minore dime. Al funerale era stato di grande aiuto. Mi aveva detto che studiava alla mia stessa università. Io inquei giorni non ci andavo.“Figurati," disse lui. “Già trovato un appartamento?”“Macché. Ancora niente,” risposi io e sorrisi.“Beh, non è facile.”“Vuoi entrare a bere qualcosa?”“No, grazie, vado di fretta,” disse, e sorrise. “Sono salito solo un attimo per dirti una cosa. Ho parla-to con mia madre e… non verresti a stare da noi per un po’?”“Cosa?” feci io.“In ogni caso, vieni da noi stasera verso le sette. Ti ho fatto una mappa per trovare la strada.”“Ah.” Confusa presi il pezzo di carta.“Allora, d’accordo. Mikage, io e mia madre siamo davvero contenti che tu venga. Ti aspettiamo.”Sorrise di nuovo. C'era nel suo sorriso una tale freschezza che non riuscivo a staccare lo sguardo dalui. I suoi occhi mi sembravano vicinissimi mentre stava lì, in quell’ingresso che mi era così familiare.Ma doveva essere anche il fatto di sentirmi chiamare per nome all'improvviso.“Hmm… allora va bene, vengo.” […]Però qui non posso restare in eterno, pensai tornando a guardare la rivista. Anche se solo pensarlo midà le vertigini, devo andarmene.Oppure chissà, un giorno mi ritroverò di nuovo qui, in questa stessa cucina.Comunque ora sono qui, insieme a questa mamma potentissima e a questo ragazzo dallo sguardodolce. E questo adesso per me è tutto.Diventerò grande, accadranno tante cose e toccherò il fondo molte volte. Soffrirò molte volte e moltevolte mi rimetterò in piedi. Non mi lascerò sconfiggere. Non mi lascerò andare.Le cucine dei sogni.Ne avrò infinite.Nell’anima, nella realtà, nei viaggi. Da sola, con tanti altri, in due, in tutti i posti dove vivrò. Sì, neavrò infinite.

(B. YOSHIMOTO, Kitchen, trad. G. Amitrano, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 11-12; 41)

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Banana Yoshimoto, nata nel 1964 in Giappone e figlia di un famoso saggista e critico, hapubblicato ormai numerosi romanzi tradotti in Italia da qualche anno. Attenta al mondo gio-vanile ne descrive gli aspetti esistenziali e le situazioni di vita.

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38 Cercare il divinoAnche i punti di riferimento della propria vita vanno cercati. L’accettazione di ciò che hacostituito la “norma”, religiosa o morale che sia, non può essere passiva. Bisogna sapere –a un dato punto della propria vita – ciò in cui si crede, ciò che si cerca e anche come lo sicrede o lo si cerca. Il giovane Holden, con il cinismo disincantato che lo contraddistingue,spazza via, svalutandoli, i discorsi e le figure della religione che ha incontrato nella sua vitadi adolescente e si ritrova a fare un discorso proprio, non ancora chiaro e definito, ma cer-tamente e finalmente personale.

Però alla fine mi spogliai e mi misi a letto. Avevo voglia di pregare o qualcosa del genere, quando fuia letto, ma non riuscii. Non sempre riesco a pregare quando ne ho voglia. Tanto per cominciare, sonoun po’ ateo. Mi piace Gesù e tutto quanto, ma la maggior parte di tutte quelle altre storie della Bibbiami lasciano un po’ freddo. Prendete gli Apostoli, per esempio. Mi stanno proprio qui, se volete saperlo.Se la cavarono benissimo dopo che Gesù era morto e tutto quanto, ma finché era vivo gli servivano sup-pergiù quanto un buco nella testa. Non facevano che lasciarlo nei pasticci. Per me, nella Bibbia, sonoquasi tutti molto meglio degli Apostoli. Se proprio volete saperlo, quello che mi piace più di tutti nellaBibbia, dopo Gesù, è quel matto eccetera eccetera che viveva nelle tombe e continuava a ferirsi coi sassi.Mi piace dieci volte di più degli Apostoli, quel povero bastardo. Quante discussioni abbiamo fatto, quan-do ero a Whooton, con quel ragazzo che stava in fondo al corridoio, Arthur Childs. Il vecchio Childs eraquacchero e via discorrendo, e non faceva che leggere la Bibbia. Era un ragazzo molto simpatico e mipiaceva, ma c’erano un sacco di cose nella Bibbia su cui non riuscivamo mai a pensarla allo stesso modo,soprattutto gli Apostoli. Lui continuava a dirmi che se non mi piacevano gli Apostoli allora non mi pia-ceva nemmeno Gesù né niente. Diceva che siccome gli Apostoli li aveva scelti Gesù, dovevano piacertiper forza. Io dicevo che va bene che li aveva scelti Gesù, ma che li aveva scelti a caso. Che non aveva iltempo di andare in giro a esaminare tutti quanti, dicevo. Che non c’era mica da criticarlo né niente,dicevo. Non era mica colpa sua se non aveva tempo. Mi ricordo che domandai al vecchio Childs seGiuda, quello che aveva tradito Cristo e via discorrendo, se secondo lui era andato all’inferno dopo chesi era ammazzato. Senz’altro, disse Childs. Questo è proprio il punto sul quale non era d’accordo. Dissiche avrei scommesso mille dollari che Gesù non aveva mai mandato il vecchio Giuda all’inferno. E ciscommetterei ancora, tra l’altro, se avessi mille dollari. Credo che ognuno degli Apostoli l’avrebbe man-dato all’inferno e tutto quanto – e alla svelta, anche – ma scommetto qualunque cosa che Gesù non l’hafatto. Il mio guaio, diceva il vecchio Childs, era che non andavo in chiesa né niente. Su questo puntoaveva ragione, in un certo senso. Non ci vado. Tanto per cominciare, i miei genitori sono di religionediversa, e in famiglia tutti noi figli siamo atei. Se proprio volete saperlo, non posso nemmeno sopporta-re i preti. Di quelli che ho visto in tutte le scuole dove sono andato, non ce n’è uno che quando attac-ca il sermone non tiri fuori quella voce da curato. Dio, quanto m’è odioso. Non capisco perché diavolonon debbano parlare con la loro voce naturale. Hanno un tono così fasullo, basta che aprano bocca.Ad ogni modo, quando fui a letto non mi riuscì di pregare a nessun costo.

(J.D. SALINGER, Il giovane Holden, trad. A. Monti, Einaudi, Torino 1961, pp. 117-118)

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Jerome David Salinger scrittore americano newyorkese (1919), dopo esordi difficili, pubblica nel1951 Il giovane Holden, romanzo assolutamente innovativo sia per il linguaggio sia per i contenuti,fortemente critici verso tutte le istituzioni sociali e culturali americane. Ottiene un successo imme-diato e influenza la scrittura del Novecento americano e non solo. Quasi immediatamente dopo, siritira a vivere in solitudine nel New Hampshire in completo isolamento dal mondo pubblico.

3. Richiamarsi al cinemaDicevamo come il cinema può costituire un punto di partenza per una drammatizzazione,fissando in modo particolare alcune scene, che altrimenti sfuggono, confuse nella trama delfilm, così da fermarsi a ragionare su dialoghi, parole, pensieri. Come già dicevamo, occor-rerà concordare in classe un tema di indagine e su quello dare avvio a una piccola ricerca,selezionando i film che paiono essere attinenti a quell’argomento e fissando, poi, all’inter-no di essi, le parti importanti.

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39Di qui in poi le possibilità di procedere sono due:a. costruire un montaggio di scene che sono state selezionate e proporlo con un commen-to adeguato, non tanto sul piano tecnico filmico – non è questo l’obiettivo del lavoro, ovvia-mente – ma piuttosto sulle frasi chiave, sui termini del problema posto dalla scena, sullareazione dei personaggi;b. leggere in modo interpretativo parti dei dialoghi prescelti in modo da suscitare l’atten-zione del pubblico sul testo della sceneggiatura, facendo vedere a seguire la scena del film;come nel caso precedente si possono strutturare montaggi di testi filmici diversi, commen-tandoli brevemente in modo critico.Nel nostro dossier, proponiamo il tema del “dialogo con Dio”, proprio di tanti testi filmi-ci recanti, attraverso la pubblicazione di parte della sceneggiatura tratta dalla scena delsecondo episodio della trilogia di Matrix in cui il protagonista, Neo, parla in un dialogodrammatico con l’Architetto. A questo testo dovrebbero affiancarsene altri, tratti ad esem-pio da The Truman show (di cui abbiamo parlato nelle pagine precedenti) di P. Weir,L’avvocato del diavolo di T. Hackford, Nirvana di G. Salvatores, Dogville di Von Triar ecc.A voi, ancora una volta, la scelta di argomento e di lavoro.

La scelta di NeoPunto nodale nella trilogia di Matrix è il momento nel quale Neo, l’Eletto, incontral’Architetto, il creatore di Matrix, ovvero del mondo virtuale nel quale la specie umana vive,pensando di essere libera, ma in realtà facendo parte di una programmazione meccanica. Neosta cercando di liberare l’umanità dalla schiavitù di Matrix e con lui lottano altri che vivonoin una società di clandestini, Sion, dal nome uguale a quello della Terra promessa ebraica.Il dialogo tra Neo e l’Architetto è una costruzione complessa, nella quale si manifesta un’an-titesi, quella tra mondo algebrico, meccanico, razionale – anche se complesso –, quello cioèdell’Architetto, e la dimensione opposta a questa, fatta di logica, ma anche di emozione, diforza, di speranza, di amore, di capacità di scelta. Neo replica al discorso dell’Architetto pro-prio facendo leva su questi aspetti. Di più. Se il mondo programmato dall’Architetto è obbli-gato da una necessità logica, Neo invece sceglie non su una base razionale, logica, prevedibi-le perché matematica, ma sulla base dei suoi presupposti che stupiscono l’Architetto e glifanno pronosticare distruzione: la speranza, l’emozione, gli affetti, l’amore, la responsabilitàdella scelta a costo di un sacrificio e di un impegno personale altissimo. Questo è il compitodell’Eletto. Ma dietro a questo si cela un chiaro pensiero teologico, che poggia su temi cri-stiani e buddhisti.

Architetto. Io sono l’Architetto. Ho creato io Matrix estavo aspettando. Tu hai molte domande, sebbene iltuo processo sia alterato, la tua coscienza resta irrever-sibilmente umana. Ergo, alcune delle mie rispostepotrai comprenderle, altre no. Concordemente, mal-grado la tua prima domanda possa essere pertinente,potresti renderti conto o non renderti conto che essa èanche la più irrilevante.Neo. Perché mi trovo qui?Architetto. La tua vita è il prodotto di un residuo noncompensato di un bilanciamento delle equazioni ine-renti alla programmazione di Matrix. Tu sei il risultatofinale di una anomalia che nonostante i miei sforzi sonostato incapace di eliminare da quella che altrimenti èun’armonia di precisione matematica. Sebbene resti unproblema costantemente arginato, essa non è impreve-dibile e pertanto non sfugge a quelle misure di control-lo che hanno condotto inesorabilmente qui.

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Neo. Non ha risposto alla mia domanda…Architetto. Giusto. È vero. Interessante, sei stato più veloce degli altri… Matrix è più vecchia di quan-to tu immagini. Io preferisco contare partendo dalla comparsa della prima anomalia fino al manife-starsi della successiva. Questa è la sesta versione.Neo. Ci sono due possibili spiegazioni: o nessuno me lo ha mai detto, o nessuno lo sa.Architetto. Precisamente. Come ora stai senza dubbio intuendo, l’anomalia è sistemica e crea perico-lose fluttuazioni, anche nelle più semplici equazioni.Neo. La scelta, il problema è la scelta.Architetto. La prima Matrix che disegnai era assolutamente perfetta. Un’opera d’arte, impeccabile,sublime. Un trionfo eguagliato solo dal suo monumentale fallimento. L’inevitabilità del suo destino miè ora evidente quale conseguenza della imperfezione intrinseca dell’essere umano. Perciò la ripro-gettai, basandomi sulla vostra storia, per rispecchiare con accuratezza le espressioni grottesche dellavostra natura. Tuttavia venni ancora frustrato dal fallimento. In seguito giunsi alla conclusione che larisposta mi sfuggiva perché esigeva una mente inferiore o, se vogliamo, una mente meno vincolatadella mia a parametri di perfezione. Tant’è che la soluzione fu trovata per caso. Da un altro pro-gramma intuitivo, inizialmente creato per indagare su alcuni aspetti della psiche umana. Se io sono,quindi, il padre di Matrix, lei è senza dubbio alcuno, sua madre.Neo. L’oracolo.Architetto. Ti prego… Come ho detto, lei trovò per caso una soluzione secondo la quale il 99% deisoggetti testati accettò il sistema a condizione di avere una scelta, anche se la consapevolezza di talescelta era quasi a livello inconscio. Benché la trovata funzionasse, era difettosa, dato che di fatto gene-rava quella contraddittoria anomalia sistemica che, se non controllata, poteva minacciare il sistemastesso. Ergo, coloro che la rifiutavano – e parliamo sempre di una minoranza – lasciati senza control-lo, potevano costituire una crescente probabilità di disastro.Neo. E qui sta parlando di Sion.Architetto. Tu ora sei qui perché Sion sta per essere distrutta. Ogni suo abitante sarà sterminato.L’esistenza stessa della città sarà cancellata.Neo. Stronzate.Architetto. Il rifiuto è la più prevedibile delle reazioni umane. Comunque sia, stai tranquillo, questasarà la sesta volta che saremo costretti a distruggerla. E ormai siamo diventati oltremodo efficienti nelfarlo.La funzione dell’Eletto è quella di tornare alla sorgente, permettendo una temporanea ridistribuzionedel codice di cui sei portatore e il ripristino del programma originale. Dopo ti verrà chiesto di sele-zionare dall’interno di Matrix 23 individui, 16 femmine e 7 maschi, per ricostruire Sion.La mancata ottemperanza a questo processo provocherà un cataclismico accrescersi del sistema cheucciderà chiunque sia collegato a Matrix, cosa che, abbinata all’annientamento di Sion, sostanzial-mente causerà l’estinzione dell’intera razza umana.Neo. Non vi conviene, non lo permetterete. Gli esseri umani vi servono per sopravvivere.Architetto. Esistono livelli di sofferenza che siamo preparati ad accettare. Tuttavia la questione più rile-

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41vante è se tu sei pronto ad accettare la responsabilità per la morte di ogni essere umano di questomondo… è interessante osservare le tue reazioni. I tuoi cinque predecessori erano di proposi-to costruiti intorno alla comune attribuzione di sensibilità positiva, allo scopo di creare un profondoattaccamento alla tua specie, per facilitare il compito dell’Eletto. Ma se gli altri vivono questo attac-camento in modo più generico, la tua esperienza al riguardo è più specifica, dato che coinvolge l’a-more.Neo. Trinity…Architetto. A proposito, è entrata in Matrix per salvarti la vita a costo della sua…Neo. No…Architetto. Il che ci riporta infine al momento della verità, in cui la vostra fondamentale imperfezionefinalmente si manifesta e l’anomalia può rivelarsi nella sua doppia veste di inizio e di conclusione.Ci sono due porte. La porta alla tua destra conduce alla sorgente e alla salvezza di Sion.Quella alla tua sinistra riconduce a Matrix, a lei, e alla tragica fine della tua specie. Come tu hai ben riassunto il problema è la scelta.Ma noi sappiamo già quello che farai, non è vero? Già intravedo la reazione a catena. Repulsori chi-mici che segnalano l’insorgenza di un’emozione disegnata appositamente per soffocare logica eragione.Un’emozione che già ti acceca e che ti nasconde la semplice e ovvia verità. Lei è condannata, sta permorire e non c’è niente che tu possa fare per impedirlo…(Neo si avvia verso la porta di sinistra)La speranza, la quintessenziale illusione umana e al tempo stesso la fonte della vostra massima forzae della vostra massima debolezza.Neo. Se fossi in lei, spererei di non dovermi rincontrare.Architetto. Non accadrà.

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Il Cristianesimo e le immagini

Uno dei punti di forza della diffusione del Cristianesimo è stato quello di portare idee ecredenze nuove cercando di usare, per trasmetterle, simboli, miti, credenze, cerimonie,liturgie che erano già ben radicati nel mondo mediterraneo. Insomma, il cristianesimo hacercato di innestarsi su quel complesso di forme culturali che oggi, con espressionemoderna, chiamiamo “immaginario collettivo”. Dentro queste forme antiche ha immessoi propri contenuti nuovi. Qualcosa di simile si ha con l’inculturazione (traduzione dei valo-ri cristiani secondo i modelli culturali e la mentalità delle popolazioni indigene, rispettan-do gli altri, il loro modo di vivere secondo la propria identità culturale, religiosa e socia-le). Ma, in realtà, la prima vera inculturazione compiuta dal Cristianesimo non è stataquella verso le culture extraeuropee, bensì quella strategia elaborata per convertire i popo-li del paganesimo antico dell’area mediterranea. L’immaginario collettivo dell’antichitàmediterranea era naturalmente fatto anche di immagini, di figure. La neonata Chiesa si ètrovata a dover fare i conti quindi anche con la persistenza di immagini antiche. E lo hafatto seguendo degli atteggiamenti contraddittorii: da un lato una sorta di timore delleimmagini; dall’altro la comprensione della loro importanza per diffondere la nuova fede.Anche questo doppio atteggiamento ha radici antiche, e dobbiamo fare un passo indietroper spiegarlo.

Gli ebrei e la rappresentazione di esseri viventiAbbiamo visto come il carattere distintivo delle tribù ebraiche rispetto alle altre popola-zioni semite fosse l’Alleanza con JHWH, sancita dal primo dei Comandamenti “Io sono ilSignore Dio tuo, non avrai altro Dio all’infuori di Me.” Le tentazioni di affidarsi alle formedi idolatria praticate dalle popolazioni circonvicine era comunque sempre forte, se piùvolte nell’Antico Testamento Dio richiama il popolo prediletto a non abbandonarsi all’i-dolatria, come in Dt 4,15-20:

“Poiché non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull’Oreb dal fuoco,non vi corrempete, dunque, e non fatevi l’immagine scolpita di qualche idolo, lafigura di maschio o di femmina, la figura di qualunque animale che è sopra la terra,la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia sulsuolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra.”

Lo dimostra l’episodio dell’adorazione del vitello d’oro, scoppiata improvvisa propriomentre Mosè era sul monte Sinai per farsi consegnare le tavole della Legge. L’episodioè ricostruito nel dipinto del 1635 (custodito alla National Gallery di Londra) del gran-de pittore francese Nicolas Poussin.

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Il divieto veterotestamentario delle immagini, tuttavia, non aveva determinato all’internodel giudaismo una tradizione sempre e totalmente aniconica, cioè priva di immagini, sia dianimali sia di uomini (come peraltro abbiamo visto a proposito della religione islamica). Ildivieto era insomma forte nei periodi in cui il pericolo dell’idolatria si faceva forte, ma erapiù blando in altri periodi, come ci dimostrano recenti scoperte archeologiche riguardantile sinagoghe di Cafarnao e di Dora Europos.

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Nicolas Poussin,L’adorazione del vitellod’oro, 1635, Londra,National Gallery.

Qui accanto vediamo unaffresco del III secolo, ritrovato proprio durantegli scavi archeologici nell’antica sinagoga di DoraEuropos, in Siria, che ciconferma l’uso ebraico diforme di rappresentazionedel divino: qui, in particolare,come in numerose altreimmagini di arte ebraica,l’intervento divino è simbolizzato dalle maniche si protendono dal cielo.

Il vitello d’oro è posto sopra l’alta -re. Vitello e toro simboleggiava-no per le popolazioni del VicinoOriente forza e fecondità.

Mosè ritorna dal monte Sinai con letavole della Legge e le scaglia perterra per l’indignazione davanti allascena che gli si presenta.

Gli ebrei danzano attorno all’idoloe si inginocchiano per adorarlo.

Aronne, fratello di Mosè, invitaad adorare il vitello d’oro.

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44 I primi secoli del cristianesimoNei primi tre secoli i Padri della Chiesa mostrano una netta ostilità verso l’uso delle imma-gini per il culto, arrivando persino a proibire di crearsi nella mente, mentre si prega,immagini di Dio che richiamassero le fattezze degli uomini. È chiaro come questi atteg-giamenti rigidi nascessero dall’esigenza di distinguersi dalle popolazioni pagane che cir-condavano le prime comunità cristiane. Se questo era l’atteggiamento visto dall’alto, cioè dai capi spirituali, diverso era quelloeffettivamente espresso dal basso, dai semplici praticanti, che dall’arte classica preseroquelle immagini che potevano essere trasformate per esprimere simboli cristiani, o chepotevano alludere a specifici episodi del Vangelo. Si tratta di immagini simboliche: lo stes-so imperatore Costantino fece diffondere immagini di questo tipo, evitando rappresenta-zioni del Cristo nella sua natura umana.

Lapide funeraria del II secolo con i pesci e un altro simbolo tipicodel protocristianesimo, l’ancora. In alto a sinistra si legge la scrittaIXyUS (ICHTHÙS).

Il monogramma XP in un rilievomarmoreo.

Tipica dei primi secoli del cristianesimo è l’immagine delpesce, parola che, scritta in greco, ichthùs, formava l’a-cronimo (cioè un termine le cui lettere costituiscono leiniziali delle parole di una frase) dell’espressione “Gesù(I=Iesùs) Cristo (CH=Christos) di Dio (TH=Theoù) figlio(U=uiòs), Salvatore (S=sotér)”.

Cristo veniva indicato anche con la lette-re X (chi) e con la lettera R (ro) posta alcentro della lettera X. Le due lettere sonole iniziali in greco della parola CHRISTÓS.Ai lati venivano poste le lettere alfa (A) eomega (V), prima e ultima lettera dell’al-fabeto greco, per indicare Cristo comeinizio e fine di ogni cosa.

Ma numerose altre furono le immagini simboliche usate dai primi cristiani; la necessità diricorrere a tali immagini, che costituivano una sorta di “linguaggio segreto”, nei primissi-mi tempi del Cristianesimo nasceva anche dalla necessità dei neoconvertiti di riconoscer-si tra loro senza farsi intendere dai pagani che vivevano attorno a loro. Ecco nella paginaa fianco alcune di quelle immagini simboliche:

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L’immagine del pastore èmolto antica e comunenelle letterature del VicinoOriente. Nel suo VangeloGiovanni presenta la comu-nità cristiana come un greg-ge guidato da un pastore,riferendo in Gv 10,11-16, le parole di Gesù “Io sono ilbuon pastore; io conosco lemie pecore; ho altre pecoreche non provengono daquesto recinto; diventeran-no un solo gregge, con unsolo pastore.”

Il buon pastore, mosaico degli inizi del IV secolo, Aquileia, Basilica del patriarca Poppo.

Le colombe, V secolo, Ravenna, Mausoleo di Galla Placidia. Il pavone, mosaico greco del XV secolo.

L’agnello, mosaico protocristiano dallachiesa dei santi Lot e Procopio, Nebo(Palestina).

L’agnello, è simbolo dell’agnus Dei, cioè del Cristo che si sacrifica per l’umanità.Come la vigna è da lavorare per ottenere igrappoli, così bisogna “coltivare” il mondo,convertendolo al cristianesimo.

La colomba è simbolo dell’anima, ma anche delloSpirito Santo, che simboleggerà spesso nelle rap-presentazioni della Trinità medievali e rinascimen-tali (vedi p. 51).

Il pavone simboleggiava l’immortalità, poichépresso gli antichi la sua carne era giudicata in -corruttibile.

La vigna, mosaico protocristiano dalla chiesa dei santi Lot e Procopio, Nebo (Palestina).

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• Leggi in classe con l’insegnante l’episodio del vitello d’oro narrato in Es 32 e riscontra i sin-goli episodi nel dipinto che è stato proposto a p. 43.

• Osserva questo rilievo sopra un sarcofago dei primi secoli. Secondo te è presente qualchesimbolo di quelli presentati sopra?

• L’episodio del vitello d’oro nacquedalla perdita di fiducia da partedegli ebrei in JHWH e in Mosè.Esiste un altro episodio di analogogenere nella Bibbia. È descritto inNm 21,4-9. Leggi in classe con l’in-segnante l’episodio e riscontrane ifatti e i personaggi principali neldipinto che ti proponiamo qui afianco. Per aiutarti abbiamo indi-cato con delle linee dove appunta-re maggiormente la tua attenzio-ne. Tieni a mente la forma del palo:la reincontreremo!

• Nel dipinto che ti abbiamo proposto sopra puoi notare come Mosè abbia sulla fronte due“cornetti” che simboleggiano i raggi di luce che egli emana dopo l’incontro con JHWH sulSinai. Infatti il termine ebraico per indicare tali raggi è qeren, che significa anche, appun-to, corno. C’è una famosa scultura di Michelangelo (terminata nel 1515, e posta a Roma,in San Pietro in Vincoli, sulla tomba del papa Giulio II) che rappresenta Mosè: cercane unariproduzione fotografica e individua i qeren di Mosè.

Fianco di un sarcofago romano col monogramma XP, Roma, Museo Pio Cristiano.

Orazio Riminaldi, Mosè innalza il serpente di bronzo, 1625,Pisa, Tribuna del duomo.

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47Che volto aveva Gesù?Dopo il IV secolo si hanno le prime avvisaglie di un cambiamento di rotta: sappiamo dafonti letterarie che cominciavano a diffondersi immagini di Gesù presentato nella suadimensione fisica, di essere umano, non più come semplice simbolo.Al di là delle testimonianze scritte, la prima immagine rimastaci del volto di Cristo è quel-la che appare su una moneta coniata sotto l’imperatore bizantino Giustiniano II. Si trattadi un’immagine commovente, in quanto il volto di Cristo viene rappresentato come quel-lo di una persona normale, di un uomo qualunque, neppure particolarmente bello: che hapersino il naso tozzo e schiacciato.

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Un solido, moneta bizantina coniata sotto il primo regno dell’imperatore Giustiniano II (685-695).

Beato Angelico, Cristo crocifisso adorato da san Domenico, 1438-1445, Firenze, Convento di San Marco.

Beato Angelico, Cristo crocifisso adorato da san Domenico,particolare del volto del Cristo, 1438-1445, Firenze, Convento di San Marco.

È insomma un Cristo molto vicino agli uomini comuni e ben lontano da quel Gesù bellis-simo, idealizzato, dai lineamenti fini, spesso biondo, che si andrà delineando nell’arte deisecoli successivi, come ci testimonia il particolare del volto del Cristo crocifisso adorato dasan Domenico, affrescato da Beato Angelico intorno alla metà del XV secolo.

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48 La raffigurazione tradizionale del volto di Gesù si fonda in Occidente sull’episodio dellaVeronica, la donna che, secondo la leggenda, porse a Cristo che saliva sul Calvario con lacroce, un panno per tergersi il volto; su quel panno rimase miracolosamente impresso ilvolto del Redentore. La santa reliquia di questo panno è conservata a Roma, in San Pietro,e il nome Veronica significa appunto “vera icona”, cioè “vera immagine”.

Dal VI al XIII secolo, tuttavia, la più nota delle immagini miracolose del volto di Gesù nonritratto da mano umana fu quella del cosiddetto “Mandylion (cioè ‘telo’) di Edessa”, chedal 944 al 1203 fece parte del tesoro imperiale di Costantinopoli.

Rodolfo Ghirlandaio, La salita al Calvario, 1505 ca., Londra,National Gallery.

Icona bizantina col Mandylion di Edessa e dieciscene della Storia di Abgar, XVIII secolo, Hampton Court, Royal Collection.

Veronica tiene in manoil telo col quale ha appe-na asciugato il volto diCristo, che vi è rimastoimpresso.

La riproduzione che vediamo quiaccanto non solo riporta l’immaginedel Mandylion, ma la incornicia conepisodi della relativa leggenda secondocui Abgar, re di Edessa ai tempi diGesù, caduto malato, aveva mandatoun suo servo per ritrarre il Messia, spe-rando che l’immagine lo avrebbe guari-to. Ma il servo non riuscì a ritrarre ilvolto, per l’intensa luce che emanavada esso. Allora Gesù si fece dare la tela,l’applicò al proprio viso e vi lasciò cosìimpressa l’immagine di esso. Le im -magini derivate dalle leggende dellaVeronica e di Abgar vengono dette“acheropite”, parola greca che significa“non fatte da mano umana”.

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Dopo il Mille comincia a introdursi un Dio dai capelli sempre lunghi, sempre con labarba, ma questa volta ambedue bianchi. Nasce così l’immagine moderna di Dio, chevediamo specialmente negli episodi della Genesi, e che avrà nel Rinascimento la sua piùampia diffusione e le sue manifestazioni più famose, a cominciare da quelle forniteci daMichelangelo negli affreschi della Cappella Sistina.

Michelangelo, La creazione del sole, particolare, affresco, 1508-1511, Città del Vaticano, volta della Cappella Sistina.

Osserviamo come in questarappresentazione Dio abbia icapelli e la barba castano scuri,da uomo giovane, così comegiovani sono i lineamenti delvolto, che è inoltre circondatodall’aureola con la croce, attri-buto tipico delle raffigurazionidel Cristo.

La fine del Medioevo vede precisarsi anche latradizionale rappresentazione di Dio creatore,adorno della folta barba bianca. Fino a quei seco-li l’immagine di Dio era risolta con quella diGesù, con i capelli lunghi e la barba scura.Ne abbiamo un esempio in questa miniatura delXIII secolo, dove è rappresentato come il gran-de architetto del creato, mentre misura ilmondo col compasso.

Dio Creatore, miniatura dalla Bibbia moralizzata, 1220 circa, Vienna, Österreischische Nationalbibliothek.

Dalla rappresentazione di Gesùa quella di Dio e della SS. Trinità

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Albrecht Dürer, Adorazione dellaTrinità (Pala di Ognissanti), 1511,Vienna, Kunsthistorisches Museum.

Dio Padre, prima personadella SS. Trinità, con le sem-bianze di un uomo anziano,rappresenta la potenza del -l’Essere supremo.

Gesù Cristo, il Verbo incarnato,rappresenta l’amore divino cheredime l’umanità.

La colomba, emble-ma dello Spirito Santo.

La differenziazione tra l’immagine delCristo e quella del Dio Padre eCreatore, raggiunta al fiorire delRinascimento, consente anche la rap-presentazione moderna del dogma tri-nitario. L’aggiunta della colomba, che,a partire dal X secolo, quando vieneproibita la rappresentazione antropo-morfa dello Spirito Santo, passa a sim-boleggiare la terza persona della SS.Trinità, dà il via a una serie di dipintiche hanno appunto tale soggetto.Nel Medioevo, invece, per rappresen-tare la SS. Trinità si ricorreva a tre per-sone sedute l’una accanto alle altre,oppure a una figura con tre teste sedu-ta in trono, oppure ancora ad altrisimboli, come tre cerchi intrecciati, oun trifoglio.

• Osserva il dipinto di Salvador Dalì riprodotto qui sotto; la rappresentazione che viene datadi Gesù ti sembra realistica o idealizzata? Perché? Secondo te, quale aspetto poteva avererealmente un abitante della Palestina di 2000 anni orsono?

Salvador Dalì, L’ultimaCena, 1955, Washington,National Gallery.

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In questa raffigurazione l’anima, che se -condo il racconto biblico Dio diede adAdamo soffiando nelle sue narici, viene rap-presentata con un piccolo essere alato: sitratta di un altro elemento figurativo che ilCristianesimo ha assunto dalle civiltà prece-denti, in questo caso dalla tradizione figura-tiva egizia.

• Ancora nel dipinto di Salvador Dalì: in alto si vede in trasparenza il busto di uomo con lebraccia aperte e i chiodi alle mani. Secondo te che cosa vuol significare il pittore?

• Osserva questa raffigurazione della creazione dell’uomo: alla luce di quanto detto in pre-cedenza, ti pare che la figura del Creatore sia di tipo moderno o ancora medievale?In base a quali elementi? Noti qualcosa di particolare nel volto del Creatore?

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La creazione dell’uomo, mosaico, 1215-1225, Venezia, San Marco.

In questo affresco vediamo ai piedi della croce la Madonna esan Giovanni, secondo una formula iconografica tradizionaleche deriva dal racconto evangelico della Passione di Cristo.Sotto, al di fuori dell’architettura che contiene la Trinità, vedia-mo ai lati le figure di un uomo e di una donna. Si tratta dei“committenti”, cioè di coloro che, secondo un uso frequentenel Medioevo e nel Rinascimento, offrivano un dipinto, unaffresco o comunque un’opera d’arte a un edificio sacro, rite-nendo che ciò costituisse una sorta di indulgenza per i propripeccati. In cambio ottenevano l’autorizzazione a far inserire ilproprio ritratto all’interno dell’opera d’arte offerta.

• Ti proponiamo qui sotto la rappresentazione più famosa della SS. Trinità, opera di uno deimaestri che “inventarono” il Rinascimento italiano, Masaccio (1401-1428).Ti sembra che manchi qualcosa per comporre correttamente la SS. Trinità? In realtà esiste,ma l’affresco è un po’ rovinato, e questo particolare non si nota molto bene. Mettiamo allaprova il tuo spirito di osservazione! In ogni caso troverai la risposta nel particolare ingran-dito qui sotto.

Ecco la colombabianca, simbolodello Spirito San-to, che nell’affre-sco è posta tra ilcapo di Dio Padree quello del Figlioin croce.

Masaccio, La Trinità, 1426-1428, Firenze, Santa Maria Novella.

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Un’arte cristianaNel V secolo stava nascendo l’arte cri-stiana. E sarà l’edificio sacro il luogoin cui sorgerà un vero e proprio cultodelle immagini, fino a diventare parteintegrante della liturgia. L’occasioneviene data dal culto delle reliquie deisanti, cui si associa via via la rappre-sentazione del santo medesimo nellesue fattezze. Ma il repertorio delleimmagini si arricchisce ben presto didiverse tipologie. Si forma così nelMedioevo una specie di grande enci-clopedia religiosa per immagini, cheesprime il dominio intellettuale daparte della Chiesa sull’immaginariocollettivo e sui modelli culturali.

La basilica di Sant’Ambrogio a Milano, eretta intornoal 1080 sopra una precedente chiesa paleocristiana. La basilica e la cattedrale erano nel Medioevo anche il centro della vita civile, come dimostra la presenza di ampi portici entro i quali si tenevano le assemblee cittadine e i mercati.

• Che cosa rappresenta secondo te l’immagine a lato?Osserva la figura del Cristo e nota sopra che cosa èriprodotta.Troverai la risposta esatta scritta capovolta quisotto.

Maestro di Santa Veronica, Santa Veronica col sudario, 1420 circa, Londra,National Gallery. Si tratta dunque di una rappresentazione della Veronica col telo sul quale è rimasta l’impronta del volto di Cristo che lei aveva asciugato dal sudoredurante la salita al Calvario.

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Benedetto Antelami,Deposizione, 1178, Parma, Duomo.

Nicola Pisano, Pulpito della cattedrale di Siena, 1265-1268.

Alla creazione di nuove immagini nelle chiese lavorano schie-re di maestranze impegnate in svariate tecniche: nella scultu-ra, nella pittura murale ad affresco, nella decorazione a mo -saico, nelle vetrate dipinte, nei legnami variamente decoratidelle porte e dei cori; negli oggetti liturgici, ricchi di orefice-rie, ceramiche, avori, stoffe, cuoi; nei manoscritti liturgici,quali i rotoli degli Exultet (che l’officiante srotolava dinanzi aifedeli leggendovi le preghiere della liturgia e nel contempomostrando a essi le miniature raffiguranti temi religiosi); neiricchi reliquiari.

Duccio di Buoninsegna,particolare delle vetrate della cattedraledi Siena, 1280-1287.

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Questa grandiosa edificazione medievaledi un’arte cristiana era affidata alla rappre-sentazione di tematiche tratte dalle SacreScritture, in primo luogo; ma anche dallevite di santi e martiri, e da vari testi deipadri della Chiesa per i quali la figurazio-ne doveva essere sia una rappresenta zionerealistica sia un richiamo attraverso imma-gini simboliche, che fornissero una sorta dicatechismo visivo per quella stragrandemaggioranza di popolazione che non sape-va leggere, e che quindi doveva essere col-pita col potere emozionale, diretto ed effi-cace, dell’immagine.

Ugolino da Vieri, Reliquiario del Corporale, in oro, argento e smalti, 1337-1338, Orvieto,Tesoro del Duomo.

Rotolo dell’Exultet, XI secolo, Bari, cattedrale.

L’andata a Betlemme, affresco della metà del IX secolo, Castelseprio(Milano), chiesa di Santa Maria foris portas.

Battesimo di Cristo e figure di apostoli,V secolo, mosaico della cupola delBattistero degli Ariani, Ravenna.

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Giotto, Il presepio di Greccio e Le stimmate, dalle Storie di san Francesco, 1290-1295, Assisi.

Giotto, La cattura di Cristo e il bacio di Giuda e ilCompianto sul Cristo morto, da Le storie di Gesù,1303-1305, Padova, Cappella degli Scrovegni.

I grandi cicli di affeschiNell’ambito di questo “catechismo visivo” enorme importanza avevano sulle pareti degliedifici sacri i grandi cicli di affreschi, dedicati alle Storie di Gesù, oppure a narrare la vitadei santi. Si trattava in ambedue i casi di una successione di quadri, ciascuno dei quali rap-presentava un episodio della vita del Cristo o del santo trattato, secondo un ordine crono-logico che corrispondeva strettamente all’andamento della storia narrato nei testi sacri onelle agiografie (biografie scritte per celebrare i santi e spingere alla loro imitazione). I fede-li seguivano passo passo i vari episodi, che dilettavano e insegnavano: vedevano quindi unsusseguirsi di azioni nel tempo, con una funzione simile a quella del cinematografo oggi.Ricordiamo solo alcuni dei principali cicli di affreschi: Giotto dipinse alla fine delDuecento le Storie di san Francesco sulle pareti della chiesa superiore dell’omonima basi-lica ad Assisi, quindi, nei primi anni del secolo successivo, a Padova, decorò la Cappelladegli Scrovegni con le Le storie di Gesù.

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Un altro importante ciclo di affreschi è quello delle Storie di san Pietro, con cui Masaccioe Masolino da Panicale decorarono la Cappella Brancacci della Chiesa del Carmine inFirenze.

Notiamo come, secon-do un’abitudine diffu-sa nel Medioevo e nelRinascimento, i due ar-tisti abbiano trasposti idue episodi, narratinegli Atti degli aposto-li (rispettivamente in9,36-40 e 3,1-10) inun’am bientazione aloro contemporanea,come possiamo riscon-trare dallo scorcio diFirenze presente sullosfondo e dagli abiti deipersonaggi.

Masolino e Masaccio, Risurrezione di Tabita e guarigione dello storpio, 1424-1425,Firenze, chiesa del Carmine, Cappella Brancacci.

Le MaestàLa chiesa (basilica quando è una chiesa più importante, cattedrale quando è addirittura lasede del vescovo) aveva solitamente la pianta a forma di croce. Il corpo di fabbrica piùlungo terminava dietro l’altare, con una parete concava, l’abside, che era il luogo privile-giato per le raffigurazioni di Cristo e della Madonna.Gesù e la Madonna erano rap-presentati seduti su un trono.Si tratta di immagini simboli-che, che vogliono darci il sensodella maestà di queste duegrandi figure della religionecristiana. E infatti l’espressio-ne con cui si definiscono talitipi di figure è proprio quelladi “Cristo (o Madonna) inmaestà”. Anche qui il cristia-nesimo non ha fatto altro cheutilizzare schemi già antichi: lafigura dell’imperatore romanoseduto in trono.

Cristo in trono (Majestas Domini),1070 ca., affresco dell’abside diSant’Angelo in Formis, Capua.

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57Gli attributi consueti della Majestas Domini sono iquattro Evangelisti, spesso rappresentati secondo i simboli dell’Apocalisse: l’angelo (Matteo), il leo -ne (Marco), il toro (Luca) e l’aquila (Giovanni).L’angelo indica il divenire uomo di Cristo, il leoneil suo essere sovrano, il toro la forza della fede e l’a-quila, che si libra in cielo, l’Ascensione di Cristo.Nella Madonna in trono qui accanto, ai due latidel trono, due angeli con il manto verde porgonouna corona e un cofanetto di mirra. Circondano iltrono alcuni Santi e profeti.

Il Cristo in trono, talvolta, è racchiuso entro unastruttura a forma di mandorla, detta “mandorlamistica”, che rappresentava la nube entro cuiGesù si elevò al cielo, sospinto dagli angeli, nellascena dell’Ascensione.

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Giotto, Madonna in maestà, 1310 ca.,Firenze, Galleria degli Uffizi, provenientedall’altare maggiore della chiesa di Ognissanti a Firenze.

Pietro Cavallini, Il Redentore con Angeli, particolare del Giudizio Universale, 1293 ca.,affresco, Roma, Santa Cecilia in Trastevere,

Nel passare dei secoli la mandorla fu pensatacome una specie di aureola, una luce emanantedall’essere divino, e come tale passò a circondareil Cristo, oltreché nella “Maestà”, anche nellerappresentazioni del Giudizio Universale e dellaTrasfigurazione.Sulle pareti dell’abside il Cristo in maestà puòessere anche sostituito dall’immagine del CristoPantokrator, cioè dal Cristo creatore e dominatoredi tutte le cose, visto in atteggiamento benedicente.

Beato Angelico, Trasfigurazione, 1438-1445,Firenze, Convento di San Marco.

Christus Pantokrator, XII secolo, mosaico dell’abside della cattedrale di Cefalù (Palermo).

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• Recati in una chiesa antica della tua città e prendi nota delle opere d’arte che vi sono con-tenute, facendone un elenco da portare in classe e comunicare ai tuoi compagni.

• Recati ora in una chiesa moderna. Riscontri la stessa ricchezza di opere d’arte? Se no, secondo te, ciò è dovuto solamente a un fatto economico, oppure pensi che siacambiato il modo di esprimere la propria spiritualità da parte dei fedeli di oggi?

• Che cos’è una “Maestà”? Con quali attributi viene raffigurata? Che cosa rappresenta ciascuno di essi? Confrontali conquanto viene detto alla pagina precedente a proposito dei simboli che rappresentano i quat-tro Evangelisti.

• Ricordi qualche importante ciclo di affre-schi?

• Osserva questo mosaico che ti proponia-mo. Ha lo stesso soggetto e lo stesso tito-lo di un altro mosaico che ti abbiamopresentato.Scrivine il titolo nella didascalia accanto al posto dei puntini.

• Eccoti ora un’opera di un artista con-temporaneo.Noti qualcosa di particolare attorno allafigura del Cristo?Come viene chiamato quel tipo di strut-tura?Noti altri simboli? Quali?A quale tipo di raffigurazione dei secoliscorsi puoi quindi paragonarla?

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500 ca., mosaico della cupola, Ravenna,Battistero degli Ariani.

Graham Sutherland, Christ in Glory, 1962,arazzo, Coventry, cattedrale.

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Dalla croce al crocifissoIn tutta questa varietà di immagini sacre quella che più di tutte rappresenta la sintesi, l’es-senza del Cristianesimo è Gesù sulla croce. Si tratta di un’immagine che necessita di uncapitolo particolare, perché in essa meglio si esemplifica il modo in cui la nuova religionesi è inculturata nell’immaginario collettivo dell’antichità. Occorre premettere che la croceva vista sotto due differenti aspetti: la croce come puro simbolo, sia precristiano sia, poi,cristiano, e la croce come testimonianza, rappresentazione e ricordo del sacrificio di Gesù.Ritroviamo il simbolo della croce all’alba della storia culturale dell’uomo, incisa o raffigu-rata in alcuni manufatti del periodo neolitico (circa dal 12 000 al 3000 prima di Cristo),anche se non sappiamo se essa avesse un valore puramente decorativo, o acquistasse già unaqualche valenza simbolica.

Arrivando ai tempi storici, ritroviamo la croce invarie forme pressoché in tutti i popoli europei eanche in Asia. Ad esempio la svastica, o croceuncinata, è presente in tutta l’area del Medi-terraneo a partire dal II millennio a.C.La croce celtica (a sinistra) era un simbolo religio-so già molto diffuso prima del Cristianesimo pres-so le popolazioni del centro Europa. Essa presen-ta decorazioni ornamentali e simboliche sui braccie alla base. Col cristianesimo, diffusosi in Irlan-da e Inghilterra nel IV e V secolo, gli antichi stiliceltici furono conglobati nella tradizione figurati-va e simbolica cristiana.Gli egizi crearono la croce ansata (a destra), in cuiil braccio superiore era sostituito da un’asola.Questa croce, detta ankh, era tenuta in mano sol-tanto da figure di dei, in relazione al culto del sole,o da re e regine. Indicava inoltre che colui che laportava aveva il potere di dare e togliere la vita.

Questo bassorilievo ci mostra molto bene il processo di evoluzione dallarappresentazione del sole al costituirsi del simbolo della croce: vi vediamoinfatti i quattro raggi ortogonali messi in rilievo rispetto agli altri della coro-na solare. Mediante un processo di “essenzializzazione” e di astrazione pro-gressiva dall’immagine del sole, eliminando gli altri raggi e la sfera delcorpo celeste, si giunge al simbolo della croce, il cui significato rimane peròconnesso a quello del volgere dell’astro, che determina nel nostro pianetail susseguirsi delle stagioni.

Croci compaiono anche nell’arte mesopotamica e in altreculture. Quello che emerge in tutte queste forme di crociè il preciso valore simbolico: i bracci della croce simbo-leggiano i raggi del sole, e quindi rimandano allo scorre-re circolare del tempo, suddiviso proprio dal moto appa-rente del sole nelle quattro stagioni. In questo modo ilsimbolo della croce, insieme a quello del cerchio, è dive-nuto il più universale tra quegli usati dagli uomini.

Bassorilievo mesopotamico raffigurante un re babilonese davanti al dio delsole Shamash, XX-XIX secolo.

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Il simbolo della croce è poi già presente nell’A.T. come segno apposto alle porte dellecase degli ebrei al passaggio del Signore. Ma oltre che simbolo, la croce fu anche unatragica realtà: la condanna cui venivano condannati in Oriente, tra i persiani, ad esem-pio, e in Africa, tra i cartaginesi, i rei dei delitti più gravi.I romani non fecero che adottare anch’essiquesta forma di supplizio. La croce dei roma-ni era costituita da un palo verticale, lo stipite,cui veniva sovrapposta una trave orizzontale, ilpatibolo. Si formava così una croce a forma diT maiuscolo (la stessa forma del palo a cui gliebrei dovettero appendere il serpente di bron-zo), detta “croce a tau”. Il condannato dovevatrasportare sulle spalle il patibolo fino al luogodell’esecuzione.

Al di là del divieto, prima dell’Impero di Costantino, di rappresentare immagini cristiane,i cristiani dei primi secoli furono anche in seguito imbarazzati nel raffigurare il Cristo incroce, cioè condannato al supplizio riservato ai delinquenti peggiori. La croce appare quin-di sempre e ancora in funzione puramente simbolica.

Juan de Flanders, Salita al Calvario, 1510 ca.,Valencia, cattedrale.

Berlinghiero, Cristo trionfante, 1228 ca.,Lucca, Pinacoteca.

La crocifissione, rilievo in avorio costituente un lato di un cofanetto porta reliquie, 420-430, Londra, British Museum.

L’immagine della crocifissione quale noi laconosciamo appare soltanto dal V secolo eresta comunque rara fino all’epoca carolin-gia. La placchetta di avorio che vediamoqui accanto, che risale al 420-430, è la piùantica raffigurazione rimastaci della croci-fissione. Occorre notare come il Cristoabbia una postura eretta, come se fosse luia tenere in piedi la croce, e lo sguardo dirit-to e trionfante. Così i primi cristiani inten-devano riscattare l’onta del supplizio piùinfamante: descrivendo una figura cheesprime la certezza della vittoria finale.

Nelle chiese italiane, a partire dal secolo XII, si diffu-se l’usanza di appendere all’arco principale del soffit-to delle chiese dei grandi crocifissi dipinti. Qui a latovediamo il Cristo trionfante dipinto nel 1228 dal pit-tore Berlinghiero.

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Osservandolo, notiamo come il Cristo sia rappresentato con il corpo eretto, calmo, pienodi maestà, gli occhi aperti, le braccia tese. Si tratta insomma di una raffigurazione per nien-te realistica, rispetto a quella che dovette essere la visione del Cristo sofferente sulla croce.Questo tipo di rappresentazione, che predomina in tutta l’arte fino alla metà del secolo XII,è detta del Christus triumphans. Il fatto straordinario è che l’arte, anche quando vuole dareuna rappresentazione riconoscibile, verisimile, del Cristo come uomo, ne dà in realtà unarappresentazione puramente simbolica, così come era quella della semplice croce.

Osserviamo invece quest’altro crocifisso: si tratta del Crocifisso dipinto da Giotto nel 1296-1300.

La rappresentazione qui è completamente diversa:il corpo è abbandonato, il capo reclino, lo sguardosofferente. Si tratta davvero di un uomo che soffrementre sta per morire. Perché questa nuova sensi-bilità verso la rappresentazione naturale, realistica?Si trattava di una nuova spiritualità che si era giàandata manifestando nei secoli XII e XII tra i mona-ci cistercensi (l’ordine fondato da san Bernardo diChiaravalle) e che privilegiava le reazioni naturali,spontanee dell’uomo davanti al mistero di Dio. SanFrancesco avvicinerà ancora di più l’uomo a Dio,ricevendo le stigmate del Figlio, Gesù che vienerecepito in tutta la sua umana sofferenza, e che perquesto è accanto a noi. Sarà questa linea di sensi-bilità a prevalere da allora in poi, nei secoli, nellapittura del crocifisso.

Giotto, Crocifisso, 1296-1300, Firenze, Santa Maria Novella.

La pianta della chiesa come simboloAbbiamo visto come nell’arte la croce, il simbolo, abbia finito per farsi crocifisso, cioèdescrizione veritiera, che stimola il ricordo e il compatimento. Ma la croce come simbolo gioca ancora un ruolo importante nell’architettura: nella piantadella chiesa. Le prime chiese sono state costruite nel IV secolo, in seguito al riconoscimen-to ufficiale del cristianesimo da parte dell’Impero romano. La loro forma è quella di unasala rettangolare con a una delle estremità l’altare, su cui viene celebrato il culto, e lo spa-zio per il clero, mentre l’accesso avviene attraverso l’estremità opposta.

Roma, Basilica di SantaMaria Maggiore,V secolo, piantae veduta dell’interno.

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Ma, all’inizio del VI secolo, si inizia a pensare che la simbologia della croce debba entrarea far parte integrante anche dell’architettura delle chiese, della loro forma. L’architetturadella chiesa presenta già i tipi di pianta che diverranno prevalenti: la pianta a “croce greca”,cosìddetta perché avrà fortuna soprattutto in Oriente, costituita da quattro bracci di gran-dezza uguale (ne abbiamo un esempio a Venezia, città dagli intensi rapporti con l’Oriente,nella basilica di San Marco, iniziata nel X secolo). In Italia, e in generale in Occidente, pre-varrà invece la pianta a “croce latina”, con i due bracci orizzontali più corti, proprio comenella croce con cui fu crocifisso Cristo. Possiamovedere un esempio di questo tipo di pianta qui a lato,nel duomo di Pisa, edificato a partire dall’XI secolo.In ambedue i tipi di pianta dell’edificio sacro il valo-re simbolico era incrementato dal fatto che l’altaredoveva essere posto verso oriente, cioè verso il puntocardinale da cui proviene la luce e, quindi, per analo-gia, la luce di Dio sugli uomini.

Duomo di Pisa, secoli XI-XII, pianta e veduta dall’alto.

• Osserva queste croci e, con l’aiuto di un’enciclopedia, scopri a quale tipo appartiene cia-scuna di esse, accostando a ogni figura una delle definizioni riportate.

a) Croce uncinatab) Croce di sant’Andreac) Croce di Lorenad) Svastica

• A che cosa si riferisce la croce come simbolo culturale non cristiano?

• Osserva la chiesa della tua parrocchia e prova a schizzarne sommariamente la pianta: qualè la sua forma essenziale?

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• Osserva questi tre dipinti.• Descrivine gli aspetti più importanti e in base a essi indica quale secondo te appartiene alla

tipologia del Christus patiens.

• Le placchette d’avorio erano molto dif-fuse nel Medioevo, inserite, anche, nelle“co pertine” dei codici manoscritti. Te nepro poniamo una: la raffigurazione dellacrocifissione in avorio ti ricorda qualcheopera citata in precedenza?

Margheritone d’Arezzo, Crocifisso,metà del XIII secolo, Siena, collezioneChigi Saracini.

Diego Velazquez,Cristo in croce, 1602ca., Madrid, Museodel Prado.

Maestro di Figline, Crocifisso, 1320-1330, Firenze, Santa Croce.

Piatto anteriore della legatura del Codex Aureus di Echternach, (particolare), 985-991, Treviri.

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Una religiosità contemporaneaNell’arte contemporanea la dimensione religiosa si focalizza soprattutto su un’intensa me -ditazione sul dramma della Croce, in particolare sulla figura di Cristo, sentito sempre piùcome fratello dell’uomo, suo compagno nelle sofferenze esistenziali.Questo senso di affratellamento col Cristo, di accomunamento nella sofferenza, forse finisceper privilegiare la natura umana di Gesù su quella divina. Salvador Dalì, in un dipinto del1951, ci dà una rappresentazione sconvolgente della crocifissione, vista dall’alto, col capo diCristo che crolla sul petto.Questa attenzione per la sofferenza di Cristo ha certamente origine col dramma dellaSeconda guerra mondiale, che pare aver messo gli uomini di fronte agli abissi più profondidella loro anima, dinanzi al Male nella sua espressione più palese. Ecco che allora il modelloiconografico della crocifissione viene usato per rappresentare l’esecuzione dei partigiani daparte dei nazisti, col soldato tedesco ai piedi della croce come un nuovo legionario romano.È significativo allora che alla meditazione sul Cristo partecipino degli artisti la cui ideolo-gia è lontana dalla dottrina cattolica, ma che comunque dal dramma della crocifissionecome punto focale del Dolore, della condizione umana, si sentono coinvolti. È come se sipotesse parlare di una religiosità laica.

Giacomo Manzù, Deposizione di Cristo,particolare della Porta della morte,1961-1964, San Pietro in Vaticano.

Salvador Dalì, Il Cristo di San Giovannidella Croce, 1951, Glasgow, Museum of Arts.

inserto Arte

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Giacomo Manzù, Crocifissionecon soldato, 1942, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna.

Renato Guttuso, Crocifissione, 1941.

Bruno Cassinari, Deposizione, 1942,Milano, Galleria d’Arte Moderna.

Fausto Pirandello, Crocifissione, 1963,Brescia, Collezione Paolo VI.