PERCHÈ SENZA MEMORIA NON C’È FUTURO · 2018-05-24 · c’è amore...”. Ogni anno, il 23 ......

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SCUOLA SECONDARIA DI 1° GRADO “ZAPPA” VIA DI SALICETO, 74 40128 BOLOGNA NUMERO 3 MAGGIO 2018 Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola. Giovanni Falcone LA VIGNETTA DEL MESE di Francesco Bozzoli 3 a D Caro lettore, questo terzo numero del giornalino Zappa News è interamente dedicato al ricordo di Falcone, Bor- sellino, degli uomini delle loro scorte e a tutte le vit- time innocenti della mafia e della criminalità. A 26 anni della stragi di Capaci e via D’Amelio, il prossimo 23 maggio 70mila studen- e studentesse si uniran- no nelle piazze di tua Italia per ‘#PalermoChia- maItalia e l’Italia rispon- de’, un appuntamento che ha assunto rilevanza nazionale nel nome dei giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Pa- olo Borsellino e degli oo agen delle loro scorta, Agosno Catalano, Wal- ter Eddie Cosina, Rocco Dicillo, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Antonio Monnaro, Vito Schifani, Claudio Traina. Oltre al numero di questo gior- nalino, noi studen delle Zappa, faremo “memo- ria” anche con la rassegna “Raccontare Palermo”, due incontri e due mo- stre con il fotogiornalista Franco Lannino e con il giornalista Giuseppe Bal- dessarro. Iniziave pro- mosse e organizzate dal nostro Istuto in collabo- razione con l’Associazione Witness Journal, Arci Bo- logna e Libera Bologna. PER NON DIMENTICARE... PERCHÈ SENZA MEMORIA NON C’È FUTURO Editoriale “Se voi avete dirio di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il dirio di dividere il mondo in disereda e oppressi da un lato, privilegia e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.” Don Lorenzo Milani 23 MAGGIO 2018: 26° ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI CAPACI RACCONTARE PALERMO, DALLA MAFIA ALLE PERIFERIE Mercoledì 23 maggio ore 17.30 L’informazione come barriera contro le mafie Incontro con Franco Lannino, con la partecipazione degli alunni dell’Istuto Comprensivo 15 di Bologna Circolo Arci Caserme Rosse Giovedì 24 maggio ore 19.30 Raccontare le mafie. Come cambiano i linguaggi dell’informazione Incontro con Franco Lannino e Giusep- pe Baldessarro Senape Vivaio Urbano

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SCUOLA SECONDARIA DI 1° GRADO “ZAPPA” VIA DI SALICETO, 7440128 BOLOGNA

NUMERO 3MAGGIO 2018

Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.

Giovanni Falcone

LA VIGNETTA DEL MESE di Francesco Bozzoli 3a D

Caro lettore,questo terzo numero del giornalino Zappa News è interamente dedicato al ricordo di Falcone, Bor-sellino, degli uomini delle loro scorte e a tutte le vit-time innocenti della mafia e della criminalità. A 26 anni della stragi di Capaci e via D’Amelio, il prossimo 23 maggio 70mila studen-ti e studentesse si uniran-no nelle piazze di tutta Italia per ‘#PalermoChia-maItalia e l’Italia rispon-de’, un appuntamento che ha assunto rilevanza nazionale nel nome dei giudici Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Pa-olo Borsellino e degli otto agenti delle loro scorta, Agostino Catalano, Wal-ter Eddie Cosina, Rocco Dicillo, Vincenzo Li Muli, Emanuela Loi, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Claudio Traina. Oltre al numero di questo gior-nalino, noi studenti delle Zappa, faremo “memo-ria” anche con la rassegna “Raccontare Palermo”, due incontri e due mo-stre con il fotogiornalista Franco Lannino e con il giornalista Giuseppe Bal-dessarro. Iniziative pro-mosse e organizzate dal nostro Istituto in collabo-razione con l’Associazione Witness Journal, Arci Bo-logna e Libera Bologna.

PER NON DIMENTICARE... PERCHÈ SENZA MEMORIA NON C’È FUTURO

Editoriale

“Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri.” Don Lorenzo Milani

23 MAGGIO 2018: 26° ANNIVERSARIO DELLA STRAGE DI CAPACI

RACCONTARE PALERMO, DALLA MAFIA ALLE PERIFERIE

Mercoledì 23 maggio ore 17.30 L’informazione come barriera contro le mafieIncontro con Franco Lannino, con la partecipazione degli alunni dell’Istituto Comprensivo 15 di BolognaCircolo Arci Caserme Rosse

Giovedì 24 maggio ore 19.30Raccontare le mafie. Come cambiano i linguaggi dell’informazioneIncontro con Franco Lannino e Giusep-pe BaldessarroSenape Vivaio Urbano

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Il 23 maggio 1992, il giudice Falcone stava tornando a casa da Roma, come faceva solitamente nel fine settimana, insieme alla moglie Francesca. Partito da Ciampino con un jet di servizio in-torno alle 16:45, atterra all’aeroporto Punta Raisi di Palermo dopo un volo di 53 minuti. Qui trova ad attender-lo 3 Fiat Croma blindate con la scor-ta. Falcone si mette alla guida della Croma bianca. In macchina con lui ci sono la moglie e l’autista giudiziario Giuseppe Costanza. La macchina di Falcone è preceduta da una Croma marrone, con gli agenti Vito Schifani, Antonio Montinaro e Rocco Dicillo, e seguita da una Croma azzurra con gli agenti Paolo Capuzzo, Gaspare Cervel-lo e Angelo Corbo. Le auto prendono l’autostrada, dirette verso Palermo. Alle 17:58, al chilometro 5 della A29, nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, il sicario Giovanni Bru-sca aziona una carica di cinque quinta-li di tritolo, che era stata posizionata in una galleria scavata sotto la strada. Pochi istanti prima dello scoppio, Fal-cone aveva rallentato per prendere un mazzo di chiavi dal cruscotto della macchina. Lo scoppio quindi travolge in pieno solo la Croma marrone. I tre

26 anni fa la Strage di CapaciSono passati 26 anni dall’attentato ricordato con il nome di “Strage di Capaci”, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro.

agenti della scorta muoiono sul colpo. La macchina di Falcone si schianta con-tro il muro di cemento e detriti causati dallo scoppio. Il Giudice Falcone muore durante il trasporto in ospedale a causa del trauma cranico, causato dall’impat-to contro il parabrezza, e da varie lesio-ni interne. La moglie Francesca muore invece in ospedale la sera alle 22:00. L’agente Costanza, che si trovava nella macchina con il giudice, rimane illeso. Gli agenti della terza automobile riman-gono feriti, ma non sono in pericolo di vita. Il 25 maggio 1992 si svolgono a Pa-lermo i funerali delle vittime. Le parole pronunciate dalla moglie dell’agente Schifani sono rimaste nella storia: “Io, Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani mio, a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato..., chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c’è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare... Ma loro non cambiano... loro non voglio-no cambiare... Vi chiediamo per la cit-tà di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue, di ope-rare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l’amore per tutti. Non c’è amore...”. Ogni anno, il 23 maggio,

si svolgono diverse manifestazioni per ricordare la morte del magistrato Fal-cone, della moglie e della scorta nella strage di Capaci. Per il 26° anniversario della strage di Capaci circa 70.000 stu-denti manifesteranno contro la mafia e commemoreranno le stragi di Capaci e di via D’Amelio con cortei e cerimonie a Palermo e in altre città d’Italia.

Nella foto: il Monumento alla strage di Capaci

Nella foto: il Monumento alla strage di Capaci (autostrada A29, nei pressi dello svincolo di Capaci, Palermo)

Strage di Capaci, foto di Franco Lannino

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Le vite di Giovanni Falcone e Paolo Bor-sellino risultano intrecciate fin dall’inizio. Entrambi nacquero a Palermo: Giovan-ni il 20 maggio 1939, Paolo 8 mesi dopo, il 19 gennaio. Ed entrambi crebbero nella Kalsa, l’antico quartiere di origi-ne araba di Palermo, zona di professori, commercianti ed esponenti della me-dia borghesia. Abitavano a poche deci-ne di metri di distanza l’uno dall’altro e furono amici fin da bambini: si ritrova-vano a giocare in piazza della Magione. Giovanni e Paolo frequentaro-no tutti e due il liceo classico, poi l’università e annni dopo si ritrovara-no ancora insieme in magistratura, uniti nella lotta alla mafia. 57 giorni separa-no la morte dei due amici. Il 19 luglio 1992, Paolo Borsellino va a trovare la madre in via Mariano D’Amelio, a Pa-lermo, sapeva di andare incontro alla morte. Forse non quel giorno, forse non in quella via D’Amelio nella quale si re-cava quasi ogni domenica per andare a

Strage di Via D’Amelio, foto di Franco Lannino

Paolo Borsellino e la strage di via D’AmelioFalcone e Borsellino: due vite intrecciate, uno stesso destino. Affrontato a testa alta.

trovare la madre. Ma sarebbe accaduto di lì a poco. Assieme a Giovanni Falcone, amico e collega nel pool antimafia voluto dal giudice Antonino Caponnetto, era ar-rivato troppo vicino alla “cupola”, il verti-ce della catena di comando della mafia. E si era spinto fino ad indagare sui legami tessuti dai boss con il mondo della politi-ca, degli affari, della stessa magistratura. “Devo sbrigarmi, non ho più tempo”, ripeteva dal 23 maggio di quell’anno. Ovvero dal giorno in cui, sull’autostra-da A29 che collega l’aeroporto di Pun-ta Raisi a Palermo, Falcone venne fatto saltare in aria assieme alla moglie Fran-cesca Morvillo, agli agenti Vito Schifani, Rocco Dicilio e Antonino Montinaro, agli altri membri della scorta Paolo Capuz-za, Angelo Corbo e Gaspare Cervello, e all’autista giudiziario Giuseppe Costanza.Nel suo ultimo giorno di vita Paolo Borsel-lino decide di pranzare a Villagrazia di Cari-ni con la moglie, Agnese, e i figli Manfredi e Lucia. Quindi li saluta, raccoglie la scorta e chiede di passare dalla madre. Alle 16:58 il corteo arriva in via D’Amelio, una strada senza uscita. Il giudice scende dall’auto e si muove verso il citofono. Farà appena in tempo a suonare: una Fiat 126 imbot-tita di tritolo esplode uccidendolo sul col-po, assieme ai cinque agenti della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincen-zo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Si salva per miracolo solo un poli-ziotto, Antonino Vullo che descrisse così

Strage di Via D’Amelio, foto di Franco Lannino

l’esplosione: «Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rima-sto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assoluta-mente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’on-da d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla mac-china. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto...».Lo scenario descritto da personale della locale Squadra Mobile giunto sul posto parlò di «decine di auto distrutte dalle fiamme, altre che continuano a brucia-re, proiettili che a causa del calore esplo-dono da soli, gente che urla chiedendo aiuto, nonché alcuni corpi orrendamen-te dilaniati». L’esplosione causò inoltre, collateralmente, danni gravissimi agli edifici ed esercizi commerciali della via, danni che ricaddero sugli abitanti. Seguono giorni convulsi. La famiglia Borsellino, in polemica con le autori-tà, non accetta i funerali di Stato. Non vuole la rituale parata dei politici. E alle esequie degli agenti di scorta una dura contestazione accoglie i verti-ci istituzionali. Il neo-presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, è tra-scinato a stento fuori dalla Cattedra-le di Palermo, con il capo della polizia Vincenzo Parisi che gli fa da scudo.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, foto di Tony Gentile

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VIVISono vivi Giovanni Falcone, Paolo Bor-sellino, è viva Francesca Morvillo, sono vivi gli uomini delle scorte Vito Schifa-ni, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro, Emanuela Loi, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina, è vivo Peppino Impa-stato. Come vivi sono le centinaia di vittime innocenti uccise dalle mafie. Li ricordiamo vivi, perché siamo con-vinti che è necessario, che è un nostro dovere. “Le storie sono carne che ci insegnano che la memoria è una cosa viva e che ci sfida tutti all’impegno”: è questa la frase che Libera premet-te alle storie delle 937 vittime inno-centi delle mafie. Storie da ricordare.

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono stati uccisi a Palermo, sei anni dopo l’inizio del maxiprocesso il 10 feb-braio 1986: 476 imputati, l’atto finale della più grande offensiva contro la ma-fia, un pool coordinato prima da Rocco Chinnici e poi da Antonino Caponnetto e composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Leonardo Guarnotta e Giu-seppe Di Lello. Proprio pochi mesi pri-ma di quel 23 maggio 1992, a gennaio, era arrivata la sentenza finale che ave-va stabilito la fondatezza dell’impianto accusatorio dei giudici, mettendo fine al mito dell’impunibilità della mafia. “Quel 10 febbraio 1986 – ha scritto Lo-renzo Frigerio, coordinatore di Libera Informazione – prese avvio la storia moderna della lotta alla mafia. Di quel giorno dobbiamo ricordare le fatiche e

le speranze che lo precedettero, soprat-tutto non dobbiamo dimenticare il san-gue versato da tanti servitori dello Stato per dimostrare che la legge è davvero uguale per tutti, boss mafiosi compresi.Dall’azione del primo pool di magi-strati, prese avvio l’intuizione che porterà nel 1991 alla creazione della Procura Nazionale Antimafia e all’i-stituzione delle Direzioni Distrettuali Antimafia che, nei decenni successi-

vi, infliggeranno duri colpi alle ma-fie nelle diverse regioni del Paese.Crediamo però che la lezione più im-portante che ci viene dal maxiprocesso sia che lo Stato funziona nella sua ope-ra di constrasto al crimine organizzato, se gli uomini chiamati a incarnare le istituzioni si mettono in gioco, anche oltre le proprie competenze, i propri li-miti, sentendo fino in fondo il gravoso ma indispensabile dovere di rappresen-tare la domanda di verità e di giustizia. In fondo, quel 10 febbraio del 1986 ci insegna quanto le leggi e le strut-ture siano importanti, ma quanto gli uomini siano ancora più importanti”.Ed è forse questo l’insegnamento più importante che ci lasciano Giovan-ni Falcone e Paolo Borsellino, grazie a una memoria che va avanti da 26 anni: mettersi in gioco, oltre i propri limiti, con un impegno che parte dal proprio ruolo nella società – di stu-dente, di insegnante, di professionista – e va oltre, attraverso la scelta delle strade da prendere, quotidianamente. Scelte di impegno, attenzione, onestà. Scelte spesso difficili, ma che sono il modo più bello per ricordare coloro che sono caduti per mano mafiosa.

di Sofia Nardacchione (Libera Bologna)

Campi Antimafia 2017 - Via D’Amelio, Palermo

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Da Palermo all’Emilia Romagna ci sono 1000 km di distanza, ma molti collegamenti, che intrecciano e scoprono vicende di mafia.

DA UN MAXIPROCESSO ALL’ALTRO

Quando a Palermo è iniziato il maxi-processo alla mafia siciliana fu costru-ita un’aula bunker di fianco al carcere dell’Ucciardone, con sistemi di prote-zione tali da poter resistere anche a un attacco missilistico. Trent’anni dopo l’inizio della più grande offensiva alla mafia, il 23 marzo del 2016, è iniziato un altro maxiprocesso: Aemilia, il più grande processo per mafia al Nord. Alla sbarra c’è l’associazione ‘ndranghetista emiliana. 239 imputati complessivi, tantissimi per un processo in Emilia Romagna, tanto da dover costruire un’aula bunker che potesse contenere tutti e con un livello di sicurezza ade-guata. La prima aula, per la fase pre-liminare del processo, è stata allestita proprio a Bologna, nel padiglione 19 della Fiera di Bologna. Poi, tra chi ha scelto la via del rito abbreviato, chi il patteggiamento, gli imputati proces-sati secondo il rito ordinario sono 151. Questa importantissima fase del pro-cesso si sta celebrando a Reggio Emi-lia. Nel Tribunale Penale di Reggio dove un tempo c’era il cortile ora c’è un’aula bunker: quando si entra sembra di es-sere in aeroporto, tra controlli di sicu-rezza e dei documenti, invece si è den-tro a un processo di mafia, con le celle ai lati riservate agli imputati con mi-sure di custodia preventiva in carcere. Aemilia è un processo grandissimo, che mette in crisi un sistema crimina-le profondamente radicato nella no-stra regione: una mafia affarista, che si muove e lucra in un territorio do-tato di elevate potenzialità economi-

che, nascondendosi sotto lo schermo di attività imprenditoriali apparante-mente lecite. Alla sbarra ci sono im-putati accusati di associazione mafiosa di stampo ‘ndranghetista, ma ci sono anche tantissimi accusati di concorso esterno in associazione mafiosa: pro-fessionisti che hanno fatto affari con la cosca emiliana per convenienza. Non c’è minaccia, non c’è intimidazione, c’è la convenienza di chi, per un proprio interesse personale, permette il radi-camento delle mafie – in questo caso della ‘ndrangheta – in Emilia Romagna. E’ proprio questa “borghesia mafiosa”che ci mette davanti, di nuovo, alla responsabilità personale di ognuno: se, passaggio dopo passaggio, questi personaggi collusi venissero a mancare, sempre meno le associazioni mafiose ri-uscirebbero a infiltrarsi, a guadagnare, a costruire il loro sistema criminale che

va a scapito di tutti coloro che operano onestamente.

Durante il pro-cesso Aemilia, il 17 gennaio 2017, Miche-le Bolognino, accusato di essere ai ver-tici dell’as-s o c i a z i o n e mafiosa, chie-deva, a nome di tutti gli im-putati, che il

processo procedesse a porte chiuse, con l’esclusione di tutti i giornalisti dall’aula. Secondo gli imputati, i gior-nalisti farebbero un linciaggio media-tico nei loro confronti distorcendo le notizie: “ogni articolo pubblicato - è scritto nella lettera letta da Bologni-no - è sempre in chiave accusatoria anche quando esame e contro-esame hanno dato un quadro diverso”, e an-che le scolaresche le associazioni che partecipano al processo lo fanno “solo per ascoltare la parte accusatoria e vanno via quando c’è il contro-esame”. Alla “inquietante richiesta” - come vie-ne definita dal Pubblico Ministero - i giudici diedero ordine di rigetto, pro-prio nel giorno in cui davanti al Tribu-nale era arrivata la Mehari di Giancarlo Siani, giovane giornalista ucciso dalla Camorra. Il giudice affermò che “la pub-blicità dell’udienza ‘a pena di nullità’ è anzitutto garanzia fondamentale degli imputati”, ricordando poi come la li-bertà di informazione presente nell’ar-ticolo 21 della Costituzione sia “pietra angolare del sistema democratico”.Fa paura, l’informazione, fa paura, la consapevolezza. Ed è proprio l’infor-mazione il primo passaggio per la crea-zione di una consapevolezza più ampia, quell’informazione che faceva Peppino Impastato, quella che facevano Mauro Rostagno, Giuseppe Fava, Giancarlo Sia-ni, Mario Francese: davano fastidio, que-sti giornalisti, e le mafie li hanno uccisi. “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”, diceva Paolo Bor-sellino. E’ un compito di tutti noi.

di Sofia Nardacchione (Libera Bologna)

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Franco Lannino, una vita da reporter

intervista di Francesco Bozzoli e Nicola Travaglini (3a D)

Nel 1979 molla tutto per seguire la sua passione, la fotografia, attraverso cui racconta la vita e il quotidiano di Palermo, le due guerre di mafia e tutte le stragi volute da “Cosa Nostra”.

Com’è iniziata la sua passione per la fotografia? La passione per la fotografia inizia ad 11 anni, quando da bambino il giorno della mia “prima comunione” da una mia zia mi fu regalato una piccolo ap-parecchietto fotografico, una Kodak instamatic modello Hawkeye, formato pellicola “127”.

Da quanto tempo racconta la mafia at-traverso la fotografia?Ho iniziato a lavorare e a scattare foto di cronaca nel 1979, subito dopo es-sermi diplomato. Dopo una pausa di un anno a causa del servizio militare (1980), ho ripreso nel 1981 e da allora non ho mai più smesso. Il primo omici-dio “importante”di mafia documentato è stato quello di un fratello e di un nipo-te di Tommaso Buscetta, il boss pentito di mafia, nel 1982.

Allagamento in via Imera, Palermo - Foto di Franco Lannino

Perché ha iniziato a fare questo lavoro di foto-reporter sapendo di andare in-contro a scene di violenza?Anche se ho visto tante scene raccapric-cianti non ho mai perso di vista la pro-fessionalità e la consapevolezza di far bene il mestiere che mi ero scelto, dan-do il massimo. Devo dire che negli anni e con l’esperienza ti si forma una specie di “corazza” che ti aiuta a non far preva-lere la parte sentimentale di te. Si impa-ra ad avere il giusto distacco puntando

sul fatto che devi tornare in redazione con le foto giuste che il direttore della testata si aspetta da te. Dopo tanti anni e dopo aver visto centinaia di cadaveri non “vedi” più la scena violenta e cruda in se, il tuo cervello e i tuoi occhi vedo-no solamente quello che serve per tirar fuori in uno-due scatti chiave. Smorzare le emozioni personali, velocità, discre-zione e mano ferma, questo è il segreto di un bravo fotografo di cronaca nera.

Come e perché avete deciso di fondare l’agenzia Studio Camera?Nel 1988, lavoravo per conto di un’a-genzia fotografica, la Publifoto. Fui chiamato dal direttore Tito Cortese che allora dirigeva il giornale L’Ora (una gloriosa e storica testata che poi chiuse nel 1992) assieme a due miei colleghi: Salvo Fundarotto e Michele Naccari. Ci chiesero se volevamo lavorare in esclu-siva con loro, accettammo fondando po-chi mesi dopo l’Agenzia Studio Camera.

Ha mai avuto paura del suo lavoro?No, mai!

È mai stato minacciato o ha avuto in-contri ravvicinati con mafiosi?Si, tre o quattro volte

Com’è cambiata la professione del fo-togiornalista rispetto a quando ha ini-ziato a fotografare?La professione di fotogiornalista rispet-to a come io l’ho vissuta è cambiata ra-Metalmeccanici suonano la carica - Foto di Franco Lannino

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dicalmente. Posso affermare che oggi non esiste più la figura pionieristica del fotoreporter singolo che va in giro a cercare fotonotizie e a coprire gli av-venimenti di cronaca. Oggi la capillare diffusione di mezzi atti a prendere foto (leggi Smartphone) ne rende la sua fun-zione marginale.

Cosa ne pensa la sua famiglia e i suoi amici del suo lavoro?La famiglia, ovviamente, si sacrifica molto e devo dire che non si è mai del tutto rassegnata a vedere pochissimo il proprio marito e padre. Questo duris-simo mestiere non guarda né giorni né orari. Gli amici, al contrario, sono sem-pre stati orgogliosi ed entusiasti del mio lavoro.

Qual è stata la sua prima reazione quando è arrivato sul luogo della stra-ge di Falcone? Essere stati catapultati in una scena di guerra. Stentavo a credere che fosse successo davvero e con quelle modalità. Quando poi seppi che tra glia agenti di scorta morti c’era anche un mio amico (il caposcorta Antonio Montinaro), pro-vai rabbia e impotenza.

Quanto si sente la mafia oggi a Palermo e cos’è cambiato rispetto agli anni della strage di Capaci e di Via d’Amelio?E’ cambiato il fatto che la stagione stra-gistica voluta dal capo clan corleonese Totò Riina, non c’è più e mai più tornerà.La mafia attuale non spara più, se ne sta nascosta e lavora senza fare “rumo-re” o azioni eclatanti. Ma è sempre pe-ricolosa, in quanto più sottile e subdola,

mischiandosi quando può, con elementi politico-affaristici. Ecco si, alla mafia oggi interessa fare affari e soldi.

Qual è la foto a cui è più legato?No, non ce ne una i particolare. Le con-sidero tutte figlie mie, allo stesso livello.

Quotidianamente pubblica foto su fb del degrado di Palermo ma anche scor-ci che raccontano la bellezza della cit-tà. Quanto importante è per lei il ruolo civico e di denuncia della fotografia? Oggi questo tipo di fotografia ha anco-ra una certa influenza e peso? Si, vero, sono molto legato alla mia cit-tà, la amo profondamente e mi ramma-rico sempre a vederla violentata. Tendo a conoscere in Palermo una città “nor-male”, che è quello che alla soglia dei miei sessanta anni, con oltre 40 di pro-fessione, non ho mai conosciuto. Consi-dero molto importante denunciare cosa non funziona in città, per spronare cit-tadini ed Istituzioni ad essere più rispet-tosi e attenti nei confronti di Palermo. Insisto affinché questo tipo di fotografia possa avere l’influenza e il peso giusto. A giudicare dai riscontri e dai lusinghieri risultati, penso sia la strada giusta, an-che se a qualcuno da fastidio.

Quale deve essere il ruolo dell’infor-mazione e della fotografia contro la mafia oggi?Penso che il ruolo debba essere quello di non abbassare la guardia e documenta-re sempre e comunque comportamenti illegali e scorretti, a tutti i livelli, dalla mafia della manovalanza alla mafia dei colletti bianchi.

Bagni alla Bandita Palermo - Foto di Franco Lannino

Franco Lannino Franco Lannino (Francesco Paolo all’a-nagrafe) nasce a Palermo nel 1959, si diploma da perito elettronico nel 1977 e dopo il secondo anno di Geologia molla tutto per seguire la sua passio-ne: la fotografia. A bottega presso una famosa Agenzia fotografica, la Publifoto di Palermo, lascia e si mette in proprio fondando la propria agenzia nel 1989, Studio Camera. Comincia in esclusiva a lavorare per conto del glorioso Giornale “L’Ora” di Palermo. Dopo la chiusura de-finitiva de “L’Ora” lavora per il Giornale di Sicilia, per La Sicilia, per Repubblica e per l’Ansa nazionale.Fa accordi di collaborazione con una importante agenzia di distribuzione mi-lanese, la “Giacominofoto” e sulla piaz-za di Roma con “l’Olympia”. Ha pubbli-cato centinaia di fotografie di qualsiasi genere su famose testate quotidiane (Corsera, Repubblica, La Stampa) e ro-tocalchi nazionali (Epoca, Panorama, l’Espresso, ecc.) ed internazionali (Der Spieghel, Stern, Clarin, Time, New York Times ecc.). Ha documentato dal 1979 due guerre di mafia e tutte le stragi vo-lute da “cosa nostra”. Ha documentato capillarmente sin dagli albori il fenome-no dell’immigrazione clandestina dall’A-frica attraverso quella “porta d’Europa” che è l’isola di Lampedusa. Attualmente la sua agenzia possiede l’archivio visivo di mafia più fornito del mondo, avendo negli anni acquisito i diritti di altri foto-grafi ed agenzie che prima di lui si sono occupati di mafia in Sicilia. Attualmente continua la sua attività di denuncia ed informazione fotografica su altre piatta-forme che non siano prettamente quelle giornalistiche, cercando nuovi spazi per star al passo con l’evolversi della foto-grafia applicata al fotogiornalismo.Spo-sato, due figli vive e lavora a Palermo.

Bambini al campo nomadi - Foto di Franco Lannino

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Mercoledì 23 maggio ore 17.30 Periferie. L’informazione come barriera contro le mafieIncontro con Franco Lannino con la partecipazione degli alunni dell’Istituto Comprensivo 15, di Arci Bologna e Libera Informazione Bologna.Mostra fotografica Visioni periferiche di Franco LanninoCircolo Arci Caserme Rosse – via di Corticella, 147

Giovedì 24 maggio ore 19.30Raccontare le mafie. Come cambiano i linguaggi dell’informazioneIncontro con Franco Lannino e Giuseppe BaldessarroMostra fotografica Palermo fa 90 di Franco LanninoSenape Vivaio Urbano – via Santa Croce 10/abc

40 anni fa l’omicidio di Peppino ImpastatoA Cinisi è stato ricordato il giornalista ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978

Il 9 maggio 1978 la mafia uccideva a Cinisi, vicino Palermo, il 30enne Pep-pino Impastato, militante di Democra-zia proletaria, giornalista, fondatore di Radio Aut. In occasione del 40esimo anniversario dell’omicidio, per il qua-le sono stati condannati i mafiosi Vito Palazzolo e Gaetano Badalamenti, l’Associazione Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato ha organizzato un presidio nel casolare dove Impastato venne ucciso e un corteo lungo il per-corso che unisce la sede di Radio Aut a Terrasini e la Casa memoria Felicia e Peppino Impastato a Cinisi. «Il 2018 è un anno importantissimo – scrive il fratello di Peppino, Giovanni–. Nel qua-rantesimo anniversario dell’uccisione mafiosa di Peppino vogliamo passare il testimone coinvolgendo un’intera generazione con il suo messaggio, che non è stato solo di impegno civile e di lotta politica, ma anche un messaggio educativo per tutti i giovani che voglio-no ancora cambiare il mondo. Per que-sto stiamo lavorando quotidianamente con tantissime scuole raccontando la storia di Peppino e ascoltando la voce di molti allievi e allieve di ogni età.

Per questo incontriamo tanti ragazzi e ragazze a Casa Memoria, come ha vo-luto mamma Felicia, perché saranno loro che, ‘con la cultura e tenendo la schiena dritta’, costruiranno un futuro migliore». «Con questo anniversario – prosegue – daremo a tantissimi gio-vani la possibilità di conoscere i luoghi dove Peppino è stato ucciso, dove si era impegnato contro la mafia e per il cambiamento e dove noi abbiamo con-

tinuato a lottare. Vogliamo coinvolgere la ‘Meglio Gioventù’ con l’impegno, ma anche con l’aggregazione. Tra conve-gni, dibattiti, libri, musica e mostre e mobilitazione. Era questo quello che Peppino faceva, era così che metteva in movimento tanti ragazzi e ragazze della sua generazione e adesso toccherà ad una nuova generazione far sentire la sua voce e la voce di chi spera ancora e si impegna per la giustizia e la libertà».

di Luka Radmanovic (3a D)