Per una visione d’insieme dell’Evangelo di Matteo · intenzionalmente reare un’in lusione on...

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LECTIO DIVINA 2013/2014 GUIDATA DAL VESCOVO MAURO MARIA MORFINO PRIMO INCONTRO 18 Novembre|Alghero 19 Novembre|Bosa 20 Novembre|Macomer Per una visione d’insieme dell’Evangelo di Matteo

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LECTIO DIVINA 2013/2014

GUIDATA DAL VESCOVO MAURO MARIA MORFINO

PRIMO INCONTRO 18 Novembre|Alghero

19 Novembre|Bosa 20 Novembre|Macomer

Per una visione d’insieme dell’Evangelo di Matteo

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1. La figura di Gesù

Il Figlio di Dio – Dio con noi In Mt 1, 22-23 abbiamo una citazione di compimento riguardante l’Emmanuele predetto da Is 7,14. Con l’esplicitazione del significato – meth’hemon ho Theos, “Dio con noi” (1,23) – l’evangelista ha voluto intenzionalmente creare un’inclusione con la parola che chiude il Vangelo ego meth’hymon eim:i “Io sono con voi” (28,20). Per Matteo, dunque, Gesù è l’Emmanuele, il Dio-con-noi, la Shekinah di JHWH, la sua Presenza sulla terra. In questo modo, però, non si vuole accentuare tanto una presenza cultica ma piuttosto l’intervento del Signore Gesù nella storia della comunità, che si trova a vivere le vicissitudini dei tempi escatologici (cf Mt 8, 23-27). In Gesù, dunque, si manifesta Dio stesso, perché lui è il Figlio (3,17; 16,16; 28,19), al quale tutto è stato rivelato (11,25-27) e nelle cui mani è stato posto ogni potere nei cieli e sulla terra (28,18). Il Messia d’Israele Mt 1,1 presenta Gesù come “Messia, figlio di Davide, figlio di Abramo”. Nella linea Davidica è colui che porta a compimento la storia d’Israele iniziata con Abramo (1, 1-17); colui che deve venire (cf. 3,11; 11,3) per ricostituire nell’unità il popolo disperso di Israele (15,24). Nel complesso del primo Vangelo, infatti, il teatro dell’attività di Gesù è la terra d’Israele. A partire da Mt 4, 23 fino alla fine del capitolo 18, la sua azione resta circoscritta al territorio della Galilea israelitica. In seguito (Mt 19,1) si sposta nella Giudea. Mt 4,25 tralascia di menzionare le città pagane citate da Mc 3, 8, e Mt 15,29 elimina l’accenno alle Decapoli presente in Mc 7,31. In modo assai più esplicito ed evidente Mt 15,24 e 10,5b-6 hanno la funzione di dimostrare che, nell’opera del Messia Gesù e della comunità messianica, Israele ha occupato il posto che le Scritture avevano preannunciato. Anche la menzione della “Galilea delle genti” che, in 4,15 (cf Is 8,23), giustifica il ritorno di Gesù nella regione, ha solo una funzione anticipativa; il coinvolgimento dei pagani nella salvezza appartiene a un tempo successivo, nel quale il Regno abbraccerà le genti (cf Mt 21,43;

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28,19), ma Gesù, secondo le attese primo testamentarie è prima di tutto il Messia che porta il lieto annuncio a Israele (cf Is. 52,7). La sua messianicità si rivela nell’insegnamento e nelle opere (cf Mt 5,7.8-9). Alle opere l’annuncio di un significato; all’annuncio le opere danno esecuzione. In Mt 11,3 la domanda di Giovanni: sy ei ho erchomenos e heteros prosdokomen “sei tu colui che deve venire o ne dobbiamo aspettare un altro^”, ha come sfondo l’attesa messianica formulata a più riprese nel Primo Testamento. La risposta (Mt 11, 4-6) prende spunto dalle azioni salvifiche dell’era messianica descritte dal profeta Isaia (Is 26,19; 29,18-19; 35,5-6; 61,1). L’espressione to ergo tou Christou “le opere del Cristo” (11,2) definisce Gesù come colui che compie le attese primo testamentarie, il Messia che ha l’exousis (l’autorità) di insegnare (7,29), di perdonare i peccati (9,6) e di guarire gli uomini dalle loro malattie e l’infermità (8,17). Il Maestro e Signore Marco accentua fortemente il motivo di Gesù “maestro”. D’altro avviso sembrerebbe Matteo, che non permette mai ai discepoli di rivolgersi a Gesù chiamandolo didaskale “maestro”, ma sempre e solo Kyrie “Signore” (cf. ad es. Mc 4,38 //Mt 8,25), mentre Rabbì è proferito solo due volte da Giuda, il traditore (Mt 26, 25.49; cf. invece, Mc 9,5; 11,21). È considerevole, tuttavia, che Gesù stesso parli di sé in terza persona, usando l’espressione ho didaskalos, Maestro (Mt 23,8). Egli è dunque “Il Maestro”. Non un semplice rabbino che guida i suoi discepoli alla Torah, ma l’interprete autorizzato. In Mt 5, 17-48, Gesù dopo aver sentenziato di non essere venuto ad abolire la legge (5, 17-20), mediante lo schema antitetico “vi è stato detto…, e ora Io vi dico”, ripetuto sei volte, mostra chiaramente di essere stato inviato, in qualità di interprete escatologico, a conferire alla legge la sua validità piena e definitiva. Sotto questa luce, il suo magistero terreno, nel tempo post-pasquale, diventa il “comandamento” del Kyrios alla sua Chiesa (28,19).

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Gesù compie la legge Le cosiddette “citazioni di compimento” sparse in tutto il Vangelo (Mt 1,22-23; 2,15.17-18.23; 4,14-16; 8, 17; 12,18-21; 13, 35; 21, 4-5; 27, 9), hanno la funzione di dimostrare che Gesù realizza quanto era stato preannunciato dalla legge e dai profeti. Mt 5, 17-48 contiene il nucleo di questa concezione. Nel testo viene presentata la combinazione di due unità letterarie ben identificabili: 5, 17-20 e 5,21-48. Nell’argomentazione Mt 5, 17-20 – con l’affermazione che Gesù non è venuto ad abolire la legge, ma a compierla (5, 17) – ha una funzione “programmatica”. Lo schema sintetico – ekousate hoti errethe… ego da lego hymin: “vi è stato detto… e ora Io vi dico” – ripetuto sei volte in Mt 5, 21-48, porta il marchio di quella sentenza iniziale . Con 5, 17-20 Matteo preserva i suoi lettori da una falsa comprensione del testo che segue in 5, 21-48. “E ora Io vi dico” non costituisce un annullamento della Torah/Istruzione/Rivelazione/Legge sinaitica, ma un suo compimento, nel senso che se ne riconosce Gesù come l’interprete autorizzato. Nel tempo nuovo inaugurato dalla sua venuta è lui che conferisce alla volontà di Dio espressa nella legge il suo valore normativo. Da una parte, dunque, Matteo condivide con la tradizione primo testamentaria che la volontà divina è iscritta nella legge; dall’altra riconosce solo nei comandamenti di Gesù la sua interpretazione autentica. Mediante la tensione tra passato e presente Matteo porta i suoi lettori ad identificarsi nel presente di Gesù, inviato escatologico, venuto a dare alla legge la sua validità piena e definitiva.

2. I lineamenti della Chiesa La Chiesa dei discepoli Negli scritti evangelici ekkleìia, “chiesa” ricorre soltanto due volte, in Mt 16,18 e 18,17. Mathetes “discepolo” compare 73 volte in Mt, 46 volte in Mc e 37 in Lc. Connesso all’uso del sostantivo mathetes esiste – soltanto in Matteo – l’impiego del verbo matheteuo, “fare discepoli”: 13,52; 27,57; 28,19. In 28,19 matheteuo definisce la missione de “gli undici discepoli” (28,16). E’ l’unica volta in cui il verbo si trova all’imperativo attivo. Il mandato evangelizzatore per tutti i tempi e tutte le genti è caratterizzato da Lc 24,47

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con un termine che sembrerebbe più appropriato :Kerysso “proclamare”. L’uso di matheteuo in Mt 28,19 pone in forte risalto il carattere paradigmatico e la stilizzazione della figura del matheteuo perche il verbo partecipa dell’esemplarità del sostantivo corrispondente. A differenza del modello rabbinico, al cui centro è la Torah, il modello cristiano scorge nel rapporto con Gesù e il suo Regno l’elemento decisivo della sequela (cf Mt 13,52; 27,57). La vita dei mathetai è contrassegnata dal Battesimo e dall’osservanza dei comandamenti (28,18-20). Analogamente alla circoncisione, che era il rito dell’antica alleanza, il Battesimo è il segno dell’alleanza nuova. Ma, a differenza della circoncisione, il Battesimo immette i discepoli in un rapporto interpersonale e dinamico (cfr. eis to onoma in 28,19) con la Trinità. I battezzati sono “figli” del Padre (5,9.45; 6,9), “fratelli” di Gesù (cfr. 28,10), su cui è disceso lo Spirito di Dio (cfr. 3,11.16). L’osservanza dei comandamenti è il distintivo etico della comunità dei battezzati. In Mt 28,20 gli insegnamenti e le opere di Gesù non sono presentati come una “tradizione” (paradosis) da trasmettere, ma come un “comandamento” (entolé) che possiede l’autorevolezza del Kyrios (28,20). “Fare la volontà del Padre”, così come l’ha interpretata Gesù, definisce la “giustizia” superiore dei cristiani (Mt 5,20; 6,1; 12, 49-50). E il costante richiamo ad una vita più matura (cf oligopistoi “di una fede solo” di poca fede)! In Mt 6,30; 8,26, 14,31;16,8 e anche in 17,20) non vuole essere altro che un pressante appello a vivere in pieno la propria condizione di mathetai. Connesso al sostantivo mathetes è il verbo akoloutheo, che, in maniera appropriata, definisce la visuale di Matteo sulla sequela. Nel suo uso si può riconoscere una duplice intenzionalità: il discepolato come rapporto personale con Gesù e come luogo dell’adempimento della “giustizia”. a) Matteo tiene a sottolineare più di Marco la funzione che akoloutheo- seguire ha nel definire il legame del discepolo con il suo Signore. Infatti, due versi in cui marco usa il verbo scindendolo dal rapporto con Gesù (Mc 9,38; 14,13), non trovano riscontro in Matteo. Gli unici luoghi che presentano akoloutheo senza pronomi personali riferiti a Gesù sono Mt 21,9 (cf Mc 11,9) e Mt 8,10 (cf Lc 7,9). L’eliminazione, però, nell’uno e nell’altro caso, si spiega con l’esistenza di un collegamento alle costruzioni

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precedenti, che rende superflua l’inserzione di un altro pronome, Un’evidente concentrazione di akolouthein si ha nella raccolta dei miracoli di Mt 8,9, dove il verbo ricorre 8 volte (8,1.10.19.22.23;9,9.19.27). Viene usato in senso letterale in 9,19 e in 8,1.10, riferito alle folle. Le altre ricorrenze fanno della sequela uno dei termini dominanti di questa sezione. Il contesto comunitario del passo traspare dall’invocazione Kyrie, rivolta a Gesù in 8,2.6.8.21.25. Il discepolato viene presentato come il luogo della presenza e dell’azione del Kyrios. Per i lettori del testo, seguire Gesù significa essere-legati-a lui (cf 8,22) e riconoscerlo nella sua opera di salvezza (cf soprattutto 8,25-26). b) Nell’uso del verbo akolouthein, Matteo manifesta una seconda intenzione: prospettare il discepolato come il luogo adeguato in cui “la giustizia superiore”può essere adempiuta (Mt 5,20). La chiamata del giovane ricco (Mt 19,16-22) ne è uno splendido esempio. Il giovane chiede che cosa devo fare per avere la vita eterna, e Gesù risponde con la lista dei comandamenti, tra cui il solo Matteo inserisce Lv 19,18: agapeseis ton pleison sou hos seauton: ama il prossimo tuo come te stesso (19,19b). La richiesta seguente: ti eti hystero/ cosa allora manca? Suona incongruente in bocca d un Giudeo, ma per i lettori cristiani sono di fondamentale importanza, perché dalla risposta di Gesù aspettano il “di più, che specifica la loro esistenza. E difatti, la risposta introduce l’elemento della “perfezione” (cf teleios in 19,21) che si manifesta in una duplice pretesa: dare tutto ai poveri e seguire Gesù (19,21). In queste esigenze, però, non è in gioco un di più “quantitativo”. Gesù non parla di una “perfezione” incarnata nella sequela itinerante e nell’assoluta povertà. Teleios (19,21) è in rapporto con il compimento della Torah/Istruzione (cf 19,17), che si identifica con il comandamento dell’amore (19,19; -24,12, cf anche 22,34.40. Difatti, in Mt 5,43-48, l’essere telaio si esprime nell’esercizio del comandamento dell’amore in maniera illuminata e incondizionata, come lo esercita Dio stesso, e come lo ha rivelato Gesù. Perciò, quando Gesù chiede al giovane ricco di fare tutto ai poveri e di seguirlo, presenta l’appropriata contestualizzazione in cui è possibile comprendere e adempiere, in modo autentico e radicale, le esigenze della legge. In altre parole, i lettori

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sentono inverarsi la nell’esperienza del discepolato la perfetta obbedienza ai comandamenti di Dio e il precetto dell’amore. La chiesa i dodici e Pietro In Mt 10,1 si trova per la prima volta l’espressione hoi dodekùa mathetai, “i dodici discepoli”. La peculiarità di Matteo consiste proprio nel designare “i dodici” come mathetai. In 10,1 e 11,1 Matteo integra il marciano hoi dodeka (MC 6,7; cf anche 3,14) con l’aggiunta mathetai. In 13.10 (cf Mc 4,10) elimina il primo termine menzionando solo il secondo. Inoltre, l’uso di matheteuo in Mt 28,19 pone in forte risalto il carattere paradigmatico e la stilizzazione della figura del discepolo. Agli 11 mathetai viene consegnata la missione di coinvolgere uomini di tutte le nazioni in quella stessa dinamica che aveva caratterizzato il loro rapporto con Cristo. Le persone, che al tempo del Gesù storico avevano costituito il gruppo “i suoi dodici discepoli” (10,1) vengono proposte come “modello” e “paradigma” a tutti coloro che scelgono la sequela del Cristo. I destinatari dello scritto di Matteo si riconoscono nella situazione de “ i dodici”. La distanza storica non è comunque cancellata. Le situazioni non si riproducono “semplicemente”. Ma quel gruppo è diventato “esemplare” nella loro storia passata, in qualche modo traspare l’oggi comunitario. Forse l’artefice primo di questa associazione non è stato Matteo. Anche Marco propende a fondare il significato dei dodici sul loro discepolato, rendendo cosi trasparenti le loro figure. Matteo rende eminente questo aspetto, fino a presentarlo come il cammino di tutti coloro che accolgono la predicazione del Vangelo( 28,19). Pur avendo lineamenti di “esemplarità”, i dodici non hanno perso la peculiarità che proviene dalla loro collocazione storica: sono “i dodici apostoli” (10,2). In Mt 28,16-20 essi ricevono l’investitura di “delegati plenipotenziari”, che operano con “l’autorità” dell’ kyrios rivestito di ogni potenza dal padre ( 28,18; cf 10,40). Proprio grazie a questa investitura, gli inviati di tutti i tempi sono deputati a fare discepoli “fino alla fine dell’evo”. L’exousia/autorità del collegio dei dodici si estende dunque nell’attività dei missionari. All’interno di questo gruppo viene riconosciuto un posto di particolare preminenza a Pietro. Matteo enfatizza il ruolo di Pietro più degli altri

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evangelisti. Nella lista strutturata dei dodici, contenuta in 10,2-4, “Simone chiamato Pietro” viene qualificato come “ primo” (protos 10,2). E l’evangelista, pur raccontando il conferimento del nuovo nome soltanto in 16,18, fin dall’incontro iniziale con Gesù, accompagna il nome di “Simone” con la locuzione ho legomenos Petros ( “chiamato Pietro” 4,18;cf10,2). Questa appendice ha la funzione di stabilire una linea di continuità, per cui Pietro costituisce “la roccia”, il punto di riferimento, dall’inizio della vita di Gesù (4,18) fino al tempo della chiesa (cfr. 16,18). Egli è pure l’”uomo di poca fede” (14,31), e ciò nonostante, viene prescelto a) come il destinatario di una speciale rivelazione di Dio (16,17), b) come il fondamento dell’edificio formato dai credenti in Cristo (16,18), c) come l’amministratore giuridico plenipotenziario(16,19). L’importanza primaria data alle figure dei “dodici” e a Pietro tradisce una tendenza leggittimatrice di ministeri e funzioni ecclesiali (cfr. 10,41;23,34). I lettori percepiscono che mediante l’istituzione dei ministeri si aderisce al valore e all’attività di Gesù e degli apostoli. Ai loro occhi i dodici svolgono la funzione di garanti della fedele trasmissione del messaggio alle generazioni dei tempi futuri. La Chiesa e Israele Il problema della Chiesa, nel Primo Vangelo, si coniuga con quella di Israele. Mt 21,43 costituisce la “quinta essenza” della parabola dei vignaioli omicidi e il testo chiave tra Chiesa e Israele : “per questo Io vi dico : vi sarà tolto il Regno di Dio e sarà dato a un popolo che lo farà fruttificare”. I destinatari di questo testo sono in prima istanza “i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo”, entrati sulla scena in Mt 21,23 con le due domande sull’autorità di Gesù. Tuttavia, la specificazione che si tratta dei sacerdoti e degli anziani tou laoudel popolo (21,23) sembrerebbe insinuare che essi sono davanti a Gesù come rappresentanti del popolo; supposizione che viene in qualche modo confermata dalla contrapposizione che Gesù stabilisce tra loro e un ethos che porta i frutti del Regno (21,43). Mediante i due passivi arthesetai/verrà sottratto e dothesetai/verrà affidato, viene evocato un tempo di giudizio divino. Il senso del passo è, dunque, il seguente : la basileia tou Theou, ossia, il governo che Dio esercita nel presente e nel futuro, verrà sottratto al popolo dell’antica alleanza e verrà affidato al popolo messianico, fondato su Cristo “pietra

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angolare” (21,42), e qualificato dai frutti della basileia. La ragione di questo giudizio risiede nella storia : dal sangue dei profeti antichi e dei giusti (5,12;23,35), fino a quello di Gesù (27,25) e dei messaggeri cristiani (23,34), la costante di Israele è il rifiuto. Questo elemento “drammatico”, all’interno del racconto, diventa anche un parametro funzionale alla comunicazione con i destinatari dello scritto. La storia del popolo eletto serve a Matteo come un chiaro ammonimento. Israele diviene un contro-modello che alimenta la parenesi. Mt 21,43 mette i lettori cristiani sull’avviso : portino frutti, se non vogliono cadere sotto lo stesso giudizio! La chiesa e le genti La presenza di Mt 10,5b-6 in un Vangelo dalla prospettiva chiaramente universale (cf 28,16-20) ha causato una pesante problematizzazione della teologia e del progetto globale del primo Vangelo. La ricerca di una possibile soluzione si è sviluppata soprattutto alla luce del metodo storico-critico. Sono state ipotizzate varie piste:

a) sia la direttiva di evangelizzare il solo Israele (10,5b-6) sia quella di rivolgersi alle genti (28,16-20) provengono da Gesù e riflettono due stadi della sua attività;

b) Mt 10,5b-6 risale a Gesù e si riferisce all’invio avvenuto durante la sua esistenza; Mt 28,19 è opera della comunità sulla base dell’intenzione di Gesù, o semplicemente a causa dell’espansione missionaria;

c) Entrambe le direttive sono creazione della comunità cristiana primitiva e riflettono le due fasi della prassi missionaria ecclesiale.

Affermare che 10,5b-6 è un elemento giudeo-cristiano appartenente alla tradizione, mentre 28,16-20, con la sua visuale universale, appartiene alla redazione, può essere vero, ma lascia insulsa la domanda di fondo: cosa ha voluto suggerire Matteo presentando un Vangelo che contiene ambedue le prospettive? Si potrebbe supporre un puro ruolo compilatorio che lascia il giudizio al lettore. Questa soluzione, però, risulta assai improbabile, dato che Mt 28,16-20, per il tenore del testo e la posizione che occupa, risulta privilegiato. D’altra parte, pensare che il senso venga detto “unitamente” da 28,16-20 in quanto specchio dell’intenzione dell’autore, non risolse

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completamente il problema. Resta da spiegare perché Matteo abbia conservato 10,5b-6 che, nel contesto globale dell’opera introduce un evidente tensione. La presenza simultanea dei due testi, senza l’eliminazione di alcuno, significa che l’autore ha voluto intenzionalmente far emergere una problematica che gli stava a cuore. Fin dall’origine della sua fede, Israele ha inteso la sua relazione come “separazione” delle genti. Anche quei passi anticotestamentari- come i Canti del servo e il libro di Giona- che rappresentano il limite più progredito del concetto di missione non sono riusciti a imporsi sulla concezione sostanzialmente centripeta del giudaismo. In Is 42,6 e 49,6 , la missione del Servo, dopo aver raggiunto il popolo (42,6;49,5), si allarga alle genti. L’Opera di Dio in favore d’ Israele rende costui il testimone privilegiato perché gli altri possono vedere e comprendere. Ma anche in questo caso, si tratta di un’ “irradiazione” dell’azione salvifica di JHWH a favore del suo popolo. Manca un’autentica coscienza missionaria (cf Is 45,14-16;55,3-5;e anche Zc 8,20-23). Allo stesso modo il libro di Giona non vuole tanto convincere Israele ad aprirsi ai pagani, quanto indurlo ad accettare un Dio che perdona. Nonostante tutto, comunque, i profeti erano stati gli annunciatori di un tempo escatologico, in cui la salvezza avrebbe raggiunto tutti i popoli (Is 2,2-5;56,7;Mic 4,1-5;ecc.). Matteo dichiara che il tempo è arrivato. Il vangelo non si chiude con l’ingiunzione contenuta in 10,5b-6. Gli utenti del testo sanno che l’imperativo di rivolgersi unicamente a Israele costituisce solo il primo momento di un processo, il cui compimento è raggiunto al momento finale, con l’invio del risorto a tutti i popoli (28,16-20). La problematica era estremamente seria perché coinvolgeva non solo l’avvenire della chiesa, ma il senso stesso della missione di Gesù. Agli antichi compagni di strada la comunità cristiana primitiva sentiva il dovere e il bisogno di rivolgersi, partendo dalla comune matrice anticotestamentaria. Vari passi degli Atti degli Apostoli testimoniano questa strategia : At 3,13-26; 7,1-53; 13,16-41. Con l’intento di confermare ai suoi lettori in una coscienza saldamente ancorata alla tradizione, Matteo mette in chiaro che Gesù ha preso sul serio il primo testamento. Come non si discute la sua realtà verso Torah e Nebi’Îm (cf 5,17-19), così non si deve neppure dubitare sulla sua fedeltà verso un altro dei capisaldi del

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giudaismo: che il Messia è Messia di Israele. La storia presentata dall’evangelista, infatti, è l’opera di Gesù-Messia in mezzo al suo popolo (come accennato sopra). Detto questo, però, Matteo catechizza i suoi sulla prospettiva nuova annunciata dai profeti : Gesù è il compimento ultimo e definitivo e le genti vengono evangelizzate. Perché si compia la missione come un cammino cosciente e voluto verso gli altri è necessaria la convinzione dell’irrompere del tempo ultimo. La nuova coscienza cristiana, conforme a questo tempo, è manifestata nelle parole finali del risono (28,16-20) che aprono, davanti ai messaggeri cristiani, la via delle nazioni. Mt 28 però, non è un deus ex machina, che risolve in modo inaspettato il problema. Fin dal primo versetto del suo Vangelo, l’autore menziona Davide e Abramo annunciando, così, come tema dominante, la salvezza di Israele e dei pagani. Egli dissemina, poi, questo tema in tutta la sua opera, perfino nei luoghi di stretta visuale giudaica, come Mt 28,16-20. Da una parte, dunque, Matteo condivide con la tradizione primo testamentaria che il progetto di Dio è la ricostruzione di Israele, e lo manifesta in 10,5b-6 (e in 15,24); dall’altra denuncia come inadeguata al tempo escatologico una comprensione che non si apra a un cammino cosciente e voluto verso tutte le nazioni, e lo dichiara solennemente in 28,16-20.

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