Per una storia di sopravvivenze. Contadini italiani e ... · le testimonianze immediate della...

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« Italia Contemporanea » settembre 1980 , n. 140 Per una storia di sopravvivenze. Contadini italiani e prigionieri evasi britannici Premessa Non dobbiamo dimenticare i contadini. Que- sta comunità fornisce non solo viveri e ri- fugio ai partigiani ma anche gli ostaggi e i beni alle rappresaglie tedesche. La mia esperienza dell’ospitalità, della bontà e del coraggio di questa gente è rimasta un ri- cordo vivissimo essendo tali qualità tanto più sorprendenti in quanto i contadini vi- vono in un’atmosfera di costante tensione aggravata di giorno in giorno dalla circola- zione di dicerie fantastiche. Queste parole, in un rapporto redatto da un ufficiale britannico del No. 1 Special Force 1 sintetizzano efficacemente l’impressione creatasi, tra i militari britannici, in gran parte prigionieri di guerra evasi all’indomani della resa italiana dell’8 set- tembre 1943, sui contadini italiani con i quali erano venuti in contatto nel terri- torio occupato dal nemico nel periodo tra questa data e la fine della campagna in Italia. Un numero limitato, ma cionondimeno significativo, delle migliaia di militari alleati che si trovarono costretti a cercare aiuto presso la popolazione rurale dell’Italia settentrionale e centrale per potere scampare al pericolo e per sopravvivere, finì anche col collaborare a varie forme di attività resistenziale, acquistando in tal modo un’esperienza eccezionale dei processi attraverso i quali il potenziale storico-politico delle popolazioni rurali veniva realizzato non solo in rapporto all’occupante tedesco e ai suoi fiancheggiatori italiani ma anche a quei fattori di lunga durata nella società politica e civile italiana i quali avevano gene- rato il fascismo ed erano concorsi a consolidarlo. L’obiettivo della presente comunicazione non può essere quello di raccontare in Nei riferimenti alle fonti archivistiche anglo-americane vengono adoperate le seguenti sigle: ASC, Allied Screening Commission; PRO, Public Record Office, London; PWB, Psychological Warfare Branch; WO, War Office; FO, Foreign Office; NAW, National Archive, Washington; RG, Record Group. 1 Rapporto, non firmato, datato 27 novembre 1944, in NAW RG 331 10000/125/4. Il rapporto venne indirizzato a certi ufficiali superiori della Commissione alleata di controllo dal màgg. E.L. Tulloch, capo di stato maggiore del comandante la No 1 Special Force con un pro-memoria di accompagnamento datato 3 dicembre 1944 nei seguenti termini: « Si inoltrano a titolo d’infor- mazione gli allegati estratti dal rapporto di un ufficiale medico di questa unità il quale passò il periodo luglio-novembre (1944) nella zona Parma-Piacenza-Lunense ».

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« Italia Contemporanea » settembre 1 9 8 0 , n. 1 4 0

Per una storia di sopravvivenze. Contadini italiani e prigionieri evasi britannici

Premessa

Non dobbiamo dimenticare i contadini. Que­sta comunità fornisce non solo viveri e ri­fugio ai partigiani ma anche gli ostaggi e i beni alle rappresaglie tedesche. La mia esperienza dell’ospitalità, della bontà e del coraggio di questa gente è rimasta un ri­cordo vivissimo essendo tali qualità tanto più sorprendenti in quanto i contadini vi­vono in un’atmosfera di costante tensione aggravata di giorno in giorno dalla circola­zione di dicerie fantastiche.

Queste parole, in un rapporto redatto da un ufficiale britannico del No. 1 Special Force1 sintetizzano efficacemente l’impressione creatasi, tra i militari britannici, in gran parte prigionieri di guerra evasi all’indomani della resa italiana dell’8 set­tembre 1943, sui contadini italiani con i quali erano venuti in contatto nel terri­torio occupato dal nemico nel periodo tra questa data e la fine della campagna in Italia. Un numero limitato, ma cionondimeno significativo, delle migliaia di militari alleati che si trovarono costretti a cercare aiuto presso la popolazione rurale dell’Italia settentrionale e centrale per potere scampare al pericolo e per sopravvivere, finì anche col collaborare a varie forme di attività resistenziale, acquistando in tal modo un’esperienza eccezionale dei processi attraverso i quali il potenziale storico-politico delle popolazioni rurali veniva realizzato non solo in rapporto all’occupante tedesco e ai suoi fiancheggiatori italiani ma anche a quei fattori di lunga durata nella società politica e civile italiana i quali avevano gene­rato il fascismo ed erano concorsi a consolidarlo.L’obiettivo della presente comunicazione non può essere quello di raccontare in

Nei riferimenti alle fonti archivistiche anglo-americane vengono adoperate le seguenti sigle: ASC, Allied Screening Commission; PRO, Public Record Office, London; PWB, Psychological Warfare Branch; WO, War Office; FO, Foreign Office; NAW, National Archive, Washington; RG, Record Group.1 Rapporto, non firmato, datato 27 novembre 1944, in NAW RG 331 10000/125/4. Il rapporto venne indirizzato a certi ufficiali superiori della Commissione alleata di controllo dal màgg. E.L. Tulloch, capo di stato maggiore del comandante la No 1 Special Force con un pro-memoria di accompagnamento datato 3 dicembre 1944 nei seguenti termini: « Si inoltrano a titolo d’infor­mazione gli allegati estratti dal rapporto di un ufficiale medico di questa unità il quale passò il periodo luglio-novembre (1944) nella zona Parma-Piacenza-Lunense ».

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tutti i particolari questo capitolo della storia italiana e nemmeno di darne un sunto sistematico. Lo si capirà facilmente tenendo conto che, secondo una cor­rispondenza stampata sul « Manchester Guardian » il 22 aprile 1946 ([Italians who helped Allied War Prisoners) « oltre centomila famiglie erano impegnate in questo lavoro » e si erano controllate già più di 34.000 richieste di riconosci­mento e di rimborso spese. Nel suo Final Re pori on thè Work of thè Allied Screening Commission (Italy) il magg. P.A. Hewitt dà la cifra di 85.000 reclami ricevuti fino al 16 maggio 1947, con un resto di 4-5.000 « reclami morosi » ancora da vagliare2. Oltre alla documentazione della Allied Screening Commission da noi reperita, compilata tra il 1944 e il 1947, esistono numerosi volumi di memorie di militari britannici inclini alla letteratura autobiografica; anche molti resistenti italiani accennano nelle proprie memorie ad episodi della lotta clandestina cui presero parte militari alleati fuggiaschi, alcuni dei quali organizzarono e capeg­giarono bande partigiane3. Inevitabilmente, però, non vi figurano quasi per nulla le testimonianze immediate della categoria ben più ampia di coloro, tra gli italiani, che aiutarono gli ex prigionieri, cioè i contadini e i montanari, che di solito erano analfabeti o quasi e spesso sapevano esprimersi solo in dialetti impenetrabili sia ai militari alleati, che a fatica avevano imparato un po’ d’italiano scolastico du­rante la loro prigionia, sia ai propri compatrioti italiani di origine cittadina4.

: Sfortunatamente negli archivi britannici è stato conservato ben poco della documentazionedella ASC. Il Final Report citato è di tre pagine cui sono allegati alcuni documenti scelti tra le schede delia commissione (compresa una descrizione del celebre caso della famiglia Cervi). Nella stessa filza è conservata un’altra Relazione finale, indirizzata questa al Deputy Director of Military Intelligence, che era stata preparata il 1° agosto 1947 dal ten. col. H.G. De Burgh (di 10 pp.). Da questa relazione è facile capire che i documenti operativi della commissione andarono o dispersi o distrutti. Commenta De Burgh che, al momento di assumere il comando della ASC nell’ottobre 1945, già rilevò « la grande difficoltà di rintracciare la corrispondenza dato che la maggior parte dei documenti ufficiali è mescolata con quelli privati e personali e poca corrispon­denza strettamente definibile ufficiale era reperibile » (PRO WO 208/3397). È triste constatare che al momento del passaggio dal WO al FO dei residui reclami nel novembre 1947 si decise, sentito il parere dello « storico della presidenza di consiglio » (Cabinet Historian) che giudicava di nessun interesse storico la documentazione della ASC (di un milione e mezzo di carte), di bruciare l’intero archivio dato che non erano stati stanziati i fondi né per affittare una cantina a Roma né per microfilmare anche solo parte dei documenti. Quelli che riguardavano i prigionieri americani invece (contenuti in una sola cassa) sono forse finiti a Washington al NAW ma finora non si è potuto verificare ciò. La corrispondenza tra FO e WO sulla sorte della documentazione ASC, con l’elenco per sommi capi del contenuto dei vari contenitori (casse, schedari, ecc.), si trova in PRO FO 371 67771 e 73/68 (Un’indagine più recente ha rivelato invece che gran parte della documentazione è finita al NAW. Ci si riserva di illustrarne la notevole importanza alla fine di ulteriori ricerche ancora in corso).3 s. d e r r y , The Rome Escape Line, London, 1960, è di notevole interesse storico. Le memorie più interessanti scritte da evasi e membri delle Special Forces che nel dopoguerra sono divenuti letterati di professione sono: E. n e w b y , Love and War in thè Appenines, London, 1971; r . f a r r a n , Operation Tombola, London, 1960; G. l e t t , Rossano, London, 1956 (trad. it., Milano, ELI, 1958); H.w. t i l m a n , When Men and Mountains Meet, Cambridge, 1946; s. h o o d , Pebbles in My Skull, London, 1971. Un contrasto interessante viene fornito da J. v e r n e y , Going to thè Wars, London, 1955, il quale venne paracadutato in Sardegna quindici giorni prima del 25 luglio 1943 con la missione di sabotare l’aviazione militare tedesca. Pochi giorni dopo il Verney e gli uomini del commando vennero catturati dall’esercito italiano dietro segnalazioni fornite da pastori e conta­dini sardi. Una descrizione commovente del tentativo su larga scala compiuto nel pientino di organizzare soccorsi e rifugio per moltissimi evasi alleati si trova in i r i s o r ig o , War in Val d ’Orcia, Edinburgh, 1952 (trad. it., Firenze, Vallecchi, 1968). Questo volume è di un particolare interesse a causa della situazione atipica dell’autrice, studiosa inglese di storia italiana sposata con un aristocratico toscano. Sebbene contenga molti episodi illuminanti e indimenticabili, il volume non offre nessun’impostazione interpretativa oltre a riferimenti ad una solidarietà umana generalizzata. Altre illuminanti allusioni alla complessa soggettività dei partigiani nei rapporti sia con i conta­dini che con agenti alleati abbondano in n u t o r e v e l l i , La guerra dei poveri, Torino, Einaudi, 1962.4 Cfr. E. n e w b y , Love and War, cit., pp. 75, 98, 101.

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Eppure tali testimonianze dirette sarebbero le uniche a poter offrire allo storico una base autenticamente empirica su cui imbastire un discorso analitico e inter­pretativo 5.Tuttavia, è convinzione di chi scrive che esista materiale sufficiente a giustificare la proposta di una ipotesi preliminare, da suffragare con citazioni tratte da un certo numero di documenti originali di cui si è venuti in possesso nel corso di una indagine di alcuni anni condotta negli archivi britannici e americani. Anche se non è proponibile un lavoro generale e scientifico, non solo per la mole degli scritti già apparsi sulla Resistenza italiana che bisognerebbe esaminare in merito agli accenni che fanno alle vicende degli ex prigionieri e di chi li aiutò, ma anche per il carattere molto incompleto delle fonti alleate, ci sembra legittimo il tentativo di dare una svolta all’impostazione data finora al dibattito in sede storica, arric­chendolo di qualche documento inedito.

Le interpretazioni del rapporto contadini-ex prigionieri

Tutto il materiale, sia fonti di prima mano che tentativi di analisi, finora control­lato da chi scrive sembra difettare di una adeguata dimensione esplicativa. I mo­venti degli attori nei numerosi drammi di evasione sfuggono sempre ad una precisa indagine analitica, imperniandosi su riferimenti, commoventi ma ingenui, alla solidarietà umana in mezzo alle avversità, venati spesso di nostalgia per un’età dell’oro di valori «puri», o di un tentativo di stabilire meccanicisticamente un rapporto immediato con il momento ideologico resistenziale. Troviamo, ad esem­pio, la Origo che cita con approvazione la definizione data da Roberto Battaglia del rapporto tra contadino ed ex prigioniero: « Il legame più semplice fra uomo e uomo: quello di chi ha bisogno e chiede, e di chi lo aiuta come può, senza gesti superflui o pose » 6.La stessa scrittrice sintetizza l’evoluzione di questo rapporto citando Calamandrei: « La solidarietà tra i perseguitati è diventata resistenza contro i persecutori » 7. Da parte alleata i commenti commemorativi battono gli stessi tasti: « Coloro che davano soccorso e aiuto a questi uomini correvano senz’altro notevoli rischi per­sonali. È indubbio che vi fossero stimolati soprattutto dal desiderio di contribuire alla riconquista della libertà del proprio paese, pure è vero che (e ciò è incontesta­bile) fossero spinti da un sentimento di umanità verso altri uomini in pericolo » 8.

s II metodo più sicuro per raccogliere tali dati comporterebbe l’uso delle tecniche di storia orale: è sorprendente che in Italia, a quanto pare, poco si sia fatto in questo senso nonostante il forte impegno politico di molti giovani storici italiani. Può darsi che si tratti di problemi lin­guistici. In Toscana tali problemi avrebbero un peso minore e sarebbe raccomandabile un’inda­gine collettiva del tipo già sperimentato dal gruppo di ricerca i cui risultati sono stati presentati da R. Cianferoni in un contributo al Convegno di Foiano della Chiana il 15 marzo 1975 (Mondo contadino e Resistenza, Firenze, Parretti, 1975) il quale, però, si è limitato ad interrogare ex­partigiani contadini, rappresentanti cioè delia minoranza che passò dalla resistenza passiva a quella politicizzata e politicizzante della lotta armata organizzata. Del resto, non furono solo i contadini a soccorrere gli evasi alleati: ottimo esempio di un cittadino di ceto medio che fece la « sua » resistenza aiutando gli evasi si trova nel diario del col. Sforza Ruspoli, dal quale sono tratte lunghe citazioni da C. Gabrielli Rosi nel suo intervento ai Convegno di Bagni di Lucca del 1976 (Italia e Gran Bretagna nella lotta di liberazione, Firenze, 1977, pp. 51-65). Ora è stata pubblicata un’utile antologia di saggi tradotti dall’inglese a cura di l u i s a p a s s e r i n i , Storia orale, vita quotidiano e cultura materiale delle classi subalterne, Torino, Rosenberg Sellier, 1978.4 In Italia e Gran Bretagna, cit., intervento di I. Origo, p. 30.1 Ibid., p. 28.8 Fa parte del saluto inviato da Sir Christopher Soames al Convegno di Bagni di Lucca del 1976 trasmesso dall’ambasciatore britannico Sir Guy Miilard (in Italia e Gran Bretagna, cit., p. 9).

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Un ex prigioniero alleato soccorso da contadini toscani scrive: « I contadini erano animati da uno spirito di umanità, vedendo in noi (evasi) altrettanti esseri umani bisognosi di aiuto. Credo che sentissero anche una naturale simpatia per degli uomini perseguitati dalle autorità » 9. Un altro ufficiale britannico raccontò al­la Origo: « Per tutta l’Italia si è ripetuto questo miracolo: la dignità e il senso pro­fondo di solidarietà umana di gente modesta che non vedeva nei prigionieri fug­giaschi i rappresentanti di una potenza da propiziare o da contrastare, ma soltanto uomini bisognosi di aiuto » 10 11. E per fare il punto di queste testimonianze la scrit­trice conclude: « Durante quei mesi, nei quali le strutture sociali avevano perso la loro importanza, gli uomini tornarono alle più antiche tradizioni di ospitalità e fratellanza spontanea [...] Tutt’al più qualche massaia che aveva il figlio in qual­che lontano campo di prigionieri [...] può aver pensato [...] < Forse laggiù qual­cuno sarà buono col citto mio > » u.Tutto ciò lascia profondamente insoddisfatto lo storico, per il quale i fenomeni « miracolosi » necessitano di una spiegazione razionale: se ammette l’autenticità e il valore etico di indicatori emotivi quali quelli citati, non riesce però a scorgervi un mezzo per chiarire, e quindi per ricuperare storicamente, « quello che successe ». Né viene assecondato nel suo compito da tentativi di spiegazione ispirati più alla metodologia letteraria che non a quella storica:

Una [...] associazione del passato e del presente [...] è tipica della mentalità contadina che considera la vita umana come una continua lotta contro le forze della distruzione i cui effetti, quali essi siano, guerra, povertà e malattia sono difficilmente distinguibili: la vita è una lunga lotta per strappare il sostentamento da un suolo avaro, e dietro a quella lotta le forze omeriche del bene e del male sono impegnate in una partita mortale le cui regole non sono accessibili alla filosofia contadina. Perciò ne viene fuori un incrollabile stoicismo, una fede semplice nelle gentilezze umana e una sorprendente saggezza di fondo quando sono in gioco i rapporti umani12.La « tipica mentalità contadina » costituisce una categoria di limitato utilizzo allo storico che cerca di dare ai fenomeni un collocamento preciso e concreto in una prospettiva d’inchiesta obiettiva e viene giustamente respinta, assieme alle sopracitate interpretazioni « sentimentalistico-umanitarie », in materiali recente­mente pubblicati da studiosi italiani13. D’altra parte, però, esiste una tendenza (forse inevitabile nella caldaia in continua ebollizione della storiografia resistenziale italiana) che porta a cercare un nesso troppo immediato tra le percezioni e la retorica delle élites emergenti partigiane e ciellennistiche da una parte e i termini ed il contenuto della reazione contadina di fronte alla situazione in Italia tra l’8 settembre 1943 e la liberazione dall’altra.Un giusto avvertimento contro i pericoli inerenti alla tendenza di dare troppo peso

9 Jo h n M i l l e r , How thè Italiane helped me, i n Italia e Gran Bretagna, c i t . , p . 18.10 Lettera del magg. Patrick Gibson, citata dalla Origo nell’intervento cit., p. 40.11 lbid„ p. 40.12 n e v i l l e r o g e r s , Gordon Leti a Rossano, in Italia e Gran Bretagna, cit., p . 227.13 Secondo Canova « il momento decisivo del passaggio dell’antifascismo ad una fase di resi­stenza attiva [è] il periodo che va dalla metà di settembre alla metà di novembre 1943: l’attività che abbiamo definito < assistenziale > rappresentò infatti [...] la prima forma di ribellione al ne­mico in una estensione popolare » ( f . c a n o v a , o . g e l m i n i , a . M a t t i o l i , La Resistenza nella Bassa modenese, Modena, Poligrafica emiliana, 1974, p. 71); « una palese e grande manifestazione di ostilità e di odio contro la guerra e il nazifascismo » (a . f e r r e t t i , Ricordi e lotte antifasciste, Reggio Emilia, Edizioni libreria Rinascita, 1971); secondo L. Arbizzani ci fu uno stretto legame tra la presa di coscienza dei contadini che aiutarono evasi alleati e renitenti alla leva fascista italiani ed il loro ammutinamento contro gli ammassi ed il saccheggio dei granai emiliani ( l . a r b iz z a n i , Azione operaia, contadina, di massa. L ’Emilia Romagna nella guerra di liberazione, voi. Ili, Bari, De Donato, 1976, cap. 4, passim).

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al contenuto politico di tali manifestazioni (che ricordano stranamente le som­mosse contadine in Emilia contro l’imposta sul macinato neH’800) è stato espresso da M. Legnani: « dovremmo quanto meno far precedere la proposizione della questione da un’indagine su quello che è stato il reale livello delle condizioni eco­nomiche, di vita e di lavoro dei ceti sociali di cui ci occupiamo, e questo a maggior ragione riferendoci ad un universo complesso e contraddittorio come quello agrario. Altrimenti i motivi di carattere oggettivo, strutturale, appaiono come scavalcati di slancio dalle parole d’ordine antifasciste... » 14.Infatti, pare poco convincente cercare di ipotizzare legami immediati tra l’uni­verso politico cittadino (il quale si potrebbe considerare nel presente contesto come sinonimo della vita politica degli stati nazionali nell’epoca contemporanea) e l’in­sieme dei componenti della cultura contadina: ciò non potrebbe non portare a semplificazioni storiche inammissibili. Come ha fatto notare ancora Massimo Legnani in rapporto al venir meno nel dopoguerra del continuum politico-culturale venutosi a stabilire nelle condizioni eccezionali del periodo di guerra civile tra fascismo e antifascismo dal 1943 al 1945:

Inutile dire che qualsiasi significato si attribuisca al dopoguerra 1945-50, qualsiasi spiega­zione si voglia prospettare della progressiva egemonia del partito cattolico e degli interes­si costituiti, non si può non chiedersi se vi sia stato, in che misura e con quali caratteri, un reale collegamento, un collegamento non semplicemente proclamato o auspicato tra lotta operaia e lotta contadina durante la Resistenza. [...] se immergiamo le lotte contadine nel quadro generale della Resistenza italiana, dovremmo parlare, più che di diretta assun­zione di queste lotte economiche a livello politico, di coincidenza di obiettivi, del confluire di fenomeni diversi in un punto comune di incontro 15.Sempre secondo Legnani, anche il governo Parri, nato dalla Resistenza, non fu in grado di convincere i contadini a consegnare i loro prodotti a prezzi controllati e conclude che ciò chiarisce sia il pericolo che si corre attribuendo a spinte econo­miche un significato politico consapevole, sia la necessità di risolvere « storica­mente » le componenti contraddittorie della reazione politico-economica contadina alla situazione italiana tra 1943 e 1950. Tale affermazione ci fornisce una pro­

14 M . l e g n a n i , Intervento, riportato a p. 698 del volume citato di Arbizzani. Per la To­scana, tre analisi di particolare interesse sono state svolte da G. Galloni, da G. Cherubini e da R. Cianferoni (in Mondo contadino e Resistenza, cit.). Queste analisi contribuiscono a chiarire la specificità delle condizioni dei contadini toscani in tutto il periodo fascista e in quello della Resistenza. Lo studio di Cianferoni, in particolare, getta luce nuova su certi aspetti del mondo contadino spesso sottovalutati (la « rete comunicativa » tramite la quale si diffondevano notizie e propaganda nella cultura contadina). D’altra parte, però, ci pare che questi studiosi sottova­lutino notevolmente alcuni fattori di persistenza in quella cultura: risulta poco chiaro, ad esempio, fino a che punto la partecipazione contadina alla Resistenza in Toscana sia spiegabile in base alle aspettative millenaristiche e utopico-anarchiche di carattere pre-politico o almeno pre-anti- fascista. Mentre indubbiamente i contadini toscani diedero un appoggio massiccio alle strategie di non-cooperazione con le autorità nazifasciste promosse dai vertici resistenziali, è altrettanto indubbio, in base alle fonti delTAmministrazione militare alleata, che negassero la loro coopera­zione alle autorità anche dopo la liberazione. (Cfr. r .n .l . a b s a l o m , Il ruolo politico ed economico degli Alleati a Firenze (e provincia) 1944-1946, contributo a L ’Italia negli ultimi X X X anni (in corso di stampa). Cherubini giustamente fa notare che i Cln si astennero dal fare proposte troppo concrete di riforma agricola e descrive la « grande speranza delusa » dei contadini. Resta da chiarire, però, la forma, il contenuto e il segno politico di tali aspettative palingenetiche. Interessante, a tal proposito, il volume di E. d e m a r t i n o , La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Torino, 1977, p. 298 e pp. 417-423. Di grande stimolo, a proposito del retroterra storico-culturale della « mentalità contadina » è il recente volume di c. t u l l i o -a l t a n , Ro b e r t o c a r t o c c i , Modi di produzione e lotta di classe, Milano, Mondadori - ISEDI, 1979.15 M . l e g n a n i , Intervento, cit., pp. 698-700. Secondo il Legnani tale risoluzione dovrebbe basarsi sull’evoluzione del capitalismo italiano durante il fascismo. Occorre certamente affrontare questo problema, anche se, a parere di chi scrive, la risposta verrebbe deformata limitando l’in-

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spettiva promettente, purché i « diversi fenomeni » di cui si tratta vengano intesi come superamento di una compilazione meccanica di episodi di rivolta e di espro­prio dal basso, permettendo il ricupero del mondo contadino quale veniva perce­pito ed interpretato dai contadini stessi. E qui, inevitabilmente, si incontrano, per l’interpretazione storica, gravi problemi metodologici.Confrontando tali problemi, ci pare che una impostazione dell’indagine su cui si potrebbe costruire un’ipotesi non-economicistica per l’approfondimento della que­stione si può ricavare da un passo stimolante dello storico inglese Eric J. Hobs- bawm 16:

Tutti i movimenti sociali hanno uno sviluppo a scatti: la storia di tutti i movimenti com­prende periodi di mobilitazione di masse finora passive, e tempi anormali, spesso rapidissi­mi e facilissimi [...] Il millenarismo, in realtà, non è soltanto una sopravvivenza commo­vente di un passato arcaico ma anche un fenomeno utilissimo di cui i movimenti sociali e politici moderni possono approfittare per allargare lo spettro della propria influenza e per imprimere il proprio insegnamento sui gruppi di uomini e donne che subiscono un’influen­za millenaristica. [...] Quando viene trainato da un movimento moderno il millenarismo può diventare non solo politicamente efficace, ma può diventarlo senza perdere la sua carica di zelo, quella fiducia rovente in un mondo nuovo e quella generosa emotività che lo caratterizza anche nelle sue forme più primitive e perverse 17.

È ovvio che sarebbe storicamente insostenibile ipotizzare la partecipazione con­tadina alla Resistenza nell’Italia centro-settentrionale come semplice oppure uni­voca sopravvivenza di quel millenarismo pietistico e apolitico lazzarettiano che Hobsbawm analizza così acutamente in un suo celebre saggio 18. Né abbiamo la minima intenzione di operare un’ipotesi riduttiva del tipo espresso dall’equazione partigiano = bandito sociale, la quale andrebbe a scontrarsi con il fatto, univer­salmente riconosciuto, che la stragrande maggioranza dei partigiani italiani non erano affatto contadini e che invece le formazioni partigiane comprendevano un forte percentuale di intellettuali « organici » borghesi e piccolo-borghesi. Fatte tali doverose precisazioni, però, pare almeno che valga la pena di esplorare il poten-

daglne al solo ventennio. Bisognerebbe semmai affrontare tutta la storia della non-partecipazione contadina alla vita politica italiana, storia che non pare abbia avuto soluzioni di continuità in tutta l’epoca contemporanea.16 ERIC J. hobsbawm , Primitive Rebels, Manchester, 1959, pp. 105-107 (traduzione italiana I ribelli. Forme primitive di rivolta sociale, Torino, Einaudi, 1966). Si veda anche di ERIC J. hobsbawm , Bandits, London, 1969 (traduzione italiana Banditi. Il banditismo sociale nell'età mo­derna, Torino, Einaudi, 1971). L’ipotesi ventilata nel presente saggio è debitrice particolarmente ai capitoli del primo di questi volumi dedicati al « millenarismo » c a quelli del secondo dedicati ai banditi bulgari (Haiduks) e alla carica rivoluzionaria del banditismo (Bandits and Revolution). Altri stimoli alla riflessione ci sono venuti dalla' lettura di t . shanin , The Awkward Class, Oxford, 1972; Peasants and Peasant Societies, Harmondsworth, 1971; J. berger, Pig Earlh, London, 1979.17 Conviene aggiungere un’osservazione dello Shanin, in risposta alla domanda perché gli ame­ricani non sarebbero stati sconfitti nel Vietnam se i contadini fossero stati esclusi dalla lotta: « Perché la società contadina, in certe condizioni, rende possibile una guerriglia efficace... essendo il contadino capace di azione autonoma, senza rapporto con la città... inoltre, tra i contadini esiste una divisione naturale tra le generazioni: vi è la generazione che possiede e gestisce la terra e quella dei figli, che vi si prepara, ma che nel frattempo deve esprimere in qualche modo la sua fondamentale ribellione contro la monotonia, i terrori e l’oppressione della vita contadina » (In­tervista a Shanin riportata da Berger in « The Listener », 21 giugno 1979, pp. 847-848)." Ibid., pp. 57-73; è chiaro, però, che il millenarismo e il banditismo sociale costituiscono fenomeni persistenti e significativi nel sud, in Sardegna e in Sicilia fino agli anni ’60. Alcuni elementi di una mobilitazione millenaristica si intravvedono anche nei fatti di Reggio Calabria del 1970 (cfr. Mario Caciagli, Alberto spreafico, Un sistema politico alla prova, Bologna, Il Mu­lino, 1975, pp. 253-316) e forse anche in altri episodi di azione di massa rurale in tempi recenti nel sud (ad es. i fatti di Sulmona del 1958 e quelli più recenti di Battipaglia) che vengono di solito attribuiti a residui di campanilismo e/o agitatori neofascisti, cioè a fattori che paiono alquanto privi di potere esplicativo nel contesto del sud ex-borbonico.

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ziale esplicativo, a livello socio-psicologico, dell’ipotesi millenaristica in rapporto all’universalità, ora spesso e giustamente ribadita dagli studiosi italiani della vi­cenda, della partecipazione contadina in certe forme di resistenza nel senso più la to 15 * * * I9. Di pari passo, sembrerebbe giustificabile valutare alcuni resoconti delle gesta sia di ex prigionieri alleati che di partigiani italiani alla luce del paradigma hobsbawmiano del « brigantaggio sociale »: «[...] l’immagine del bandito di cuor nobile la quale determina sia il suo ruolo sociale sia il suo rapporto con i contadini comuni. Il suo ruolo è quello di paladino, di portatore di giustizia ed equità sociali, di rettificatore di torti. Il suo rapporto con i contadini è quello di una solidarietà totale e di una identità completa. L’< immagine > contiene tutt’e due questi mo­menti » 20.

Contadini e prigionieri evasi: strategie della sopravvivenza

Tra il settembre 1943 e l’aprile 1945 i contadini italiani e i prigionieri evasi alleati condividevano un unico obiettivo supremo: uscire incolumi dalla guerra. Per il contadino la sopravvivenza implicava non solo salvare se stesso ma anche difen­dere i mezzi per continuare la propria esistenza: la terra, il bestiame, gli attrezzi e le forniture essenziali alla produzione agricola, ivi compreso il gruppo familiare di lavoro. Per l’ex prigioniero, invece, sopravvivere significava trovare rifugio, viveri e protezione da chi voleva ricatturarlo. Il contadino era per forza statico, dato che, qualora fosse distaccato dai mezzi di sostentamento, avrebbe pratica- mente abbandonato il suo obiettivo principale di sopravvivenza; teoricamente l’ex prigioniero aveva una mobilità maggiore, ma in realtà qualunque spostamento comportava maggiore rischio di venire ricatturato. Per entrambi, l’unica speranza di porre fine alla paura e al rischio era passare le linee per anticipare la liberazione da parte degli eserciti alleati, oppure attenderla laddove ci si trovava. Sin dal­l’inizio, tra contadini ed ex prigionieri, si trovavano minoranze disposte, o co­strette dalle circostanze, ad andare oltre l’obiettivo minimo attendistico rappre­sentato dal non cacciarsi nei guai sfidando le autorità oppure, nel caso degli evasi, dal non farsi riacchiappare. Con il sempre più diffuso estendersi della guerriglia

15 Cfr. particolarmente i già citati contributi di Arbizzani e Cianferoni. Per dirla con quest’ul­timo: « affermare che intorno alla Resistenza vi fu l’adesione totale dei contadini toscani, non èretorico ma risponde alla verità, anche se occorre precisare il significato che, in questo caso, as­sume la parola adesione ». (reginaldo cianferoni, Particolarità della resistenza contadina in To­scana, in Mondo contadino e Resistenza, cit., p. 52).20 e .j . hobsbawm , Bandits, cit., pp. 42-43 (edizione del 1972). Hobsbawm elenca nove carat­teristiche dell’immagine (la quale è anche la « autoimmagine »): il ladro di cuor nobile è la vittima della ingiustizia delle autorità che lo perseguitano; « rettifica i torti »; « ruba ai ricchi per dare ai poveri»; uccide solo per difendersi o per giustificata vendetta; è membro onorato della comunità contadina; il popolo lo ammira, lo aiuta e lo appoggia; teoricamente almeno è invulnerabile; è nemico non del re o deH’imperatore, fonti di giustizia, ma solo della gentry locale, del clero o di altri oppressori. Certi passi di Revelli sembrano confermare che le strategie par- tigiane più riuscite erano basate su un’impostazione psicologica del genere. Naturalmente, il « paradigma » hobsbawmiano non poteva da solo bastare come struttura di valori morali per il partigiano « politico »; d’altra parte, la distinzione tra forme « politiche » e forme « tradizio­nali » di guerriglia (cioè, tra Resistenza e banditismo) non è sempre facile da cogliere, e ancora meno facile da operare nella prassi quotidiana: « Questa gente di montagna che vive nella mi­seria, che non vuole e non può scendere in pianura a cercare un lavoro, rischia a volte il plotone di esecuzione, perché interpreta il < ribellismo > a modo suo... Il più ingenuo confessò che il <colpo» era per il consumo della famiglia, per l’inverno. Con il tempo bello sarebbe poi andato a fare il patriota sul serio » (n. revelli, La guerra dei poveri, cit., p. 184).

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partigiana, con il tentativo della Rsi di affermare la propria autorità politica ed economica, con l’estensione a nuove zone di rastrellamenti e rappresaglie, la par­tecipazione a forma di resistenza attiva dei contadini e degli ex prigionieri cresceva anch’essa; in alcuni casi ciò portò sia i contadini che gli evasi ad unirsi a gruppi partigiani combattenti già costituiti o perfino a formare gruppi propri. Gli evasi alleati che presero l’iniziativa nel formare bande armate per resistere ai nazifa­scisti erano pochi, sebbene siano altamente significativi per quanto riguarda l’ipo­tesi sul «banditismo sociale». Uno di questi «Robin Hood » scrisse nell’aprile 1944: « ...vorrei che la nostra gente a casa sapesse che ci sono stati almeno alcuni inglesi che non consideravano finito il loro compito quando saltarono giù dai treni che li portavano in Germania ma che volevano, come George, Jock, Tony, i due australiani ed io, dare un altro colpo agli eserciti che tanta angoscia hanno causato nel mondo » 21.Per la stragrande maggioranza, però, la partecipazione alla lotta di liberazione restò sempre in funzione della « continuata sopravvivenza » come l’abbiamo definita. La logica inerente alla situazione sia dei contadini che degli evasi comportava che, ad ogni fase delle rispettive strategie di sopravvivenza, la fase successiva li costringesse a scelte sempre più impegnative. Era la reazione nemica, però, a far scattare tali meccanismi di superamento, in quanto chi riusciva a sopravvivere indisturbato dal nemico di solito non sceglieva spontaneamente di aumentare l’elemento di rischio nella propria situazione. Nonostante la ferocia delle rappre­saglie nazifasciste scatenate in determinati momenti in risposta alle azioni par- tigiane, non mancano le prove che in alcune zone, soprattutto in montagna, lon­tane dal fronte e dalle linee di comunicazione, il nemico sia rimasto sostanzial­mente assente per lunghi periodi di tempo22. Erano queste le zone, appunto, in cui la maggior parte degli ex prigionieri aveva cercato rifugio e dove i contadini non disponevano di scorte di viveri e possibilità di produzione agricola tali da ripagare il costo di un controllo capillare amministrativo-economico. Solo così si può spiegare il fatto che più della metà dei prigionieri britannici evasi all’indo­mani dell’armistizio poterono restare nascosti al sicuro per molti mesi (alcuni fino all’aprile 1945), che solo un terzo di quelli non ricatturati raggiunge la fron­

21 In una conferenza regolarmente fatta ad ufficiali e soldati britannici in procinto di lasciare la madre patria per andare a combattere in terra straniera si impartivano precise istruzioni che solo come ultima risorsa si unissero a formazioni partigiane o guerrigliere, in circostanze in cui non avessero altra possibilità di scampare al nemico e fosse bloccata la via di ritorno alle proprie linee. Dovevano mantenere la divisa e le proprie armi il più a lungo possibile per evitare di essere fucilati dal nemico come franchi tiratori in caso di cattura (Special Lecture for Army Units on Conduci if cut off from Unii, or Captured, Appendice « C », datata aprile 1944, allegata alla Storia di MI 9, in PRO WO 208/3242). Per il « Robin Hood » citato si veda la lettera a « le auto­rità britanniche » datata 16 aprile 1944, firmata da Private John Morris 6021252, in NAW RG 331 10000/125/286. È chiaramente implicito che la maggior parte degli evasi alleati non provavano sentimenti analoghi e la conferma di ciò sta nel fatto che solo poche decine di ufficiali e soldati alleati, sui 35.000 che non vennero subito ripresi dai tedeschi, collaborarono attivamente alla Resistenza italiana. La breve epopea di Morris, invece, raccontata da lui stesso, rivela un puntuale riscontro dell’autoimmagine con le caratteristiche elencate da Hobsbawm. Alla fine del 1944 la cifra globale di ex prigionieri evasi l’8 settembre che erano riusciti a passare il fronte alleato era 5.231 (War Diaries oj MI 9 in PRO WO 165/39).22 Sono abbastanza noti gli episodi di quasi-tregua tra zone controllate dai partigiani e quelle saldamente in mano ai nazifascisti. I tedeschi in particolare erano spesso disposti a « lasciar fare » a partigiani che non li disturbassero troppo. Cfr. guido quazza, Resistenza e storia d’Italia, Mi­lano, Feltrinelli, 1976, pp. 124-141, per utili commenti sull’attendismo e sullo sfondo politicamente ambiguo della cultura contadina, puntellata anche in certe sue propensioni dall’atteggiamento pa­cifista del clero.

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tiera svizzera o le linee alleate, che pochissimi si unirono alle formazioni parti- giane e che relativamente poche delle famiglie contadine che li ospitarono in quel periodo richiesero agli Alleati il risarcimento di importanti danni subiti in conse­guenza dell’aiuto fornito agli evasi23.

I moventi degli << aiutanti » contadini

A questo punto non si può più evitare, nonostante i pericoli ben noti connessi a tentativi di fare della psicostoria, il progetto di ricostruire lo stato d’animo della « maggioranza silenziosa » dei contadini italiani che aiutavano gli ex prigionieri alleati nel periodo cruciale dell’autunno del 1943. La domanda posta è questa: quali furono le componenti fondamentali di quello stato d’animo che portò tanti contadini che fino ad allora non avevano mai conosciuto uno straniero (a parte, forse, 1’incontro sul campo di battaglia con un nemico impersonale) e che non possedevano nessuna informazione degna di fiducia circa il mondo che stava al di là del proprio paese o al massimo la propria provincia, ad assumersi il compito rischioso di ospitare gente totalmente sconosciuta con la quale non erano in grado di comunicare?Sulla scorta delle limitate testimonianze di cui disponiamo, pare probabile che fossero in gioco tre principali moventi: quello economico, quello ideologico e quello psicologico. Occorre dare una accurata definizione di ciascuna di queste categorie in rapporto al contesto che ci interessa premettendovi subito che esse, prese separatamente, non possano essere considerate che come modelli euristici, dato che al livello percettivo individuale confluivano in una sola visione indiffe­renziata del mondo, un « senso comune » collettivo, una « cultura » omogenea la quale, a parere di chi scrive, si può qualificare come portatrice di importanti caratteristiche del millenarismo.II millenarismo qui si intende come fenomeno « passivo », per dirla con Glauco Sanga:In una fase precapitalistica e di transizione al capitalismo, i movimenti millenaristici han­no un carattere prevalentemente rivoluzionario e attivo, mentre nella società capitalistica assumono un carattere conservativo e passivo, la protesta sociale non si esprime più in forma religiosa ma in forma politica laica. [...] I movimenti millenaristici passivi hanno un carattere conservatore, consolatorio ed evasivo poiché il mondo nuovo da una parte è allontanato in un’epoca metastorica, dall’altra è interiorizzato dal fedele [...] La classe operaia [...] non è stata neppure in grado di trasmettere organicamente alle altre classi subalterne, con cui si vanno stabilendo legami di alleanza politica, la propria visione del mondo laica e progressiva, la propria fiducia in una trasformazione sociale politica e mon­dana 24

23 Tra la documentazione della ASC sopravvissuta alla strage del 1948 si trovano alcuni elenchi delle somme rimborsate a « aiutanti » italiani di evasi britannici: il rimborso medio è di 14 sterline. Pochissimi i casi di somme più grosse, anche se gli ufficiali alleati che giravano l’Italia per con­segnare questi premi ed il relativo certificato firmato dal gen. Alexander erano ben consapevoli che con l’inflazione galoppante il contributo era relativamente esiguo. È stato fatto presente a chi scrive che molti contadini aiutarono gli ex prigionieri nella speranza, e perfino dietro la pro­messa, che dopo la guerra li si sarebbe aiutati ad emigrare. Può darsi che fosse così in alcune occasioni, comunque non risulta affatto dai documenti finora consultati.2* Cfr. glauco sanga, Un nuovo millenarismo, in « Rinascita », 1976, n. 3, p. 40. Si potrebbe attribuire alla stessa psicodinamica il sentimento di colpevolezza personale, di inadeguatezza etica, che accompagnò tanti contadini spostatisi in città e il loro successivo rifiuto, irrazional­mente esagerato, di valori e linguaggi tradizionalmente contadini.

Anche se « la grande speranza » dei contadini nei 1943-45 non costituiva preci­samente un « movimento » millenaristico strictu senso ma solo una aspettativa generalizzata nata dalla constatazione che « il vecchio mondo » infatti stava mo­rendo, sono abbastanza evidenti le convergenze tra lo stato d’animo contadino in quel frangente e la forma mentis millenaristica delineata nel passo appena citato. Il giudizio tradizionale sulla classe contadina è che ha sete di terra; nel caso italiano l’ossessione contadina della « roba » è proverbiale. Si ha ben chiaro ormai che già nel 1942 il vantaggio tradizionale della città sul contado in termini econo­mici era stato invertito in almeno due campi importanti e intersecanti: in primo luogo, con il crollo praticamente totale del sistema ufficiale degli ammassi, il contadino che disponeva di un sovrappiù di prodotti agricoli era in grado di pro­curarsi un reddito in contanti molto maggiore di quello di prima; in secondo luogo, il valore della terra, oca dalle uova d’oro in rapporto al mercato nero, se aumentava continuamente non era ancora salito al punto di deprimere la do­manda 25. I contadini medi e poveri che prima non avevano potuto nemmeno so­gnare di comprarsi altre terre o convertire i contratti di mezzadria in proprietà a nome proprio, ora intravvedevano la possibilità di realizzare l’antico desiderio, fattore che senz’altro contribuì alla destabilizzazione delle aspettative contadine nel periodo 1943-50. La spinta ad estendere l’area di coltivazione che ne derivò era notevole, assecondata com’era dalla mancanza di altri sbocchi di investimento che offrissero un sicuro guadagno. Esisteva, però, un fattore critico negativo in questa situazione: la mancanza di manodopera supplementare26.È chiaramente impossibile quantificare il contributo di manodopera (non quali­ficata, s’intende) dato dagli ex prigionieri alleati alla produzione agricola italiana nel 1943-45; non mancano, però, parecchi riferimenti a ex militari alleati che cercavano di compensare in tal modo chi li ospitava. Gli ex prigionieri erano di solito giovani e abili al lavoro pesante e non chiedevano dal contadino datore di lavoro che il solo vitto e alloggio: per la famiglia contadina qualche braccio vo­lenteroso in più poteva benissimo rappresentare un affare da non trascurare27.

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25 Cfr. Nicola gallerano, Il fronte interno attraverso i rapporti delle autorità (1942-1943), in « Il movimento di liberazione in Italia », 1972, n. 109, pp. 4-32.24 Ibid.; cfr. anche Gianfranco bertolo, Roberto cu rti, libertario guerrini, Aspetti della questione agraria e delle lotte contadine nel secondo dopoguerra in Italia: 1944-1948, in « Italia contemporanea », 1974, n. 117, pp. 3-42. C’erano anche critiche mancanze di fertilizzanti, di insetticidi e di anticrittogamici le quali ebbero effetti disastrosi a lungo termine nella diminuita produttività della terra, ma in un mercato dominato dalle acute carenze di prodotti alimentari, la riduzione della produzione agricola veniva prontamente compensata dall’aumento dei prezzi. Mentre gli agricoltori non potevano ottenere i prodotti chimici inesistenti, potevano, però, met­tere a profitto il supplemento di manodopera rappresentato dali’afflusso nelle campagne degli sfollati, dei renitenti alla leva e degli ex prigionieri, la maggior parte dei quali era dispostissima a lavorare per potersi assicurare il vitto e l’alloggio. Che il fenomeno fosse tanto diffuso da sfuggire ad un facile controllo poliziesco è confermato nel rapporto del Prefetto repubblichino di Cuneo citato in appendice al volume del Revelli: « [...] occorre un grande discernimento perché su 7000 giovani solo 800 hanno risposto all’appello, non bisogna riempire le prigioni di poveri diavoli, lavoratori dei campi, col risultato di togliere soltanto delle braccia oggi più che mai indispensabili alla terra » (op. cit., p. 438).27 Eric Newby lavorò per un mese alle dipendenze di un contadino dell’Alto Parmense a ripulire un campo pieno di sassi, dall’alba al tramonto. Benché l’intera famiglia lavorasse pari- menti sodo, non aveva mai prima avuto a disposizione la forza lavoro sufficiente a compiere quella fatica (e . newby, Love and War, cit., pp. 105-119). Anche la Origo accenna a militari alleati evasi che lavoravano nei campi (Intervento cit. in Italia e Gran Bretagna, p. 31). In una delle poche lettere di « aiutanti » italiani conservate nell’archivio FO si legge: « Coloro che hanno veramente senza scopo di lucro aiutato ex prigionieri alleati in questa zona del Canavese che noi conosciamo sono ben pochi ma molti invece sono coloro che ne hanno approfittato per sottoporli a duri lavori [...] se hanno qualche volta dato qualche cosa ai prigionieri è perché li

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Certo è molto improbabile che l’incentivo economico ad ospitare ex prigionieri alleati bastasse da solo ad indurre i contadini a correre i rischi che comportava tale ospitalità, né è probabile che gli ex prigionieri che offrirono un contributo in lavoro avessero altro che un effetto molto marginale in termini economici: ma forse non si tratta tanto di un razionale calcolo di guadagno da parte dei contadini quanto di una « copertura » psicologica che permetteva loro di giusti­ficare a se stessi un primo gesto che aprisse la strada ad una presa di coscienza di tipo molto diverso.Fattore molto più significativo era indubbiamente quello ideologico, sebbene anche qui si debba qualificare accuratamente il senso del termine. Le ideologie ufficiali, sia del fascismo che deH’antifascismo, non esercitarono che scarsa influenza sui contadini, anche a causa del « dislivello » culturale tra le astratte retoriche poli­tiche, di qualunque segno, e il discorso allo stesso tempo concreto e allusivo del mondo contadino28. Molti contadini semplicemente ignoravano anche i grandi avvenimenti bellici o li intendevano soltanto attraverso il filtro di uno sforzo collettivo di fantasia volto a decifrare elementi occasionali di notizie e di propa­ganda che gli pervenivano dalle trasmissioni fasciste ed alleate e dai volantini buttati a casaccio dalla aviazione alleata29. Nelle zone più remote ed « arretrate » questo elemento di « fantasia » era senz’altro predominante ed è precisamente in essa che si può scorgere in che modo funzionasse la « ideologia » contadina. Data la sostanziale mancanza di prove concrete in merito a questo fenomeno l’analisi che ne tenteremo non potrà essere che una forma di speculazione anali­tica. Per portare avanti il nostro discorso, però, non pare esista altra strada che formulare alcuni modelli di interpretazione e di reazione situazionale contadine derivanti da una lunga storia di sfruttamento e di resistenza passiva più o meno riuscita, concretizzatasi in una tecnica di sopravvivenza intorno alla quale si era formato un sistema di valori tendenti a legittimarla.Non è facile cogliere, nel contesto dato, la precisa valenza del termine « millena­rismo » appunto perché, nella visione contadina del mondo, non erano necessa­riamente contradditorie le spinte simultanee sia verso una sempre maggiore poli­ticizzazione che verso il ciclico rinnovamento della « alternativa » fantastica di

hanno fatti lavorare ed anche duramente ». Questa affermazione va valutata alla luce di un commento del Col. De Burgh che in un suo rapporto osserva che quelli che si lamentavano del­l’inadeguatezza del rimborso-spese offerto dalla Asc appartenevano « in gran parte alle classi abbienti, e alla Chiesa, e non costituivano che il 2% di tutti i reclami; nella grande maggioranza dei casi la gente era grata in modo proprio commovente ricevendo un qualunque compenso ». È probabile che la lettera di cui abbiamo citato il passo sopra, dalla scrittura ornata e dallo stile prolisso, sia originata da qualche reclamante della categoria « abbiente », almeno in con­fronto ai contadini che dovevano lavorare i campi (entrambi i documenti in PRO FO 371/60601).28 Sempre secondo Newby, pareva che molti contadini non si interessassero affatto dellaguerra, delle sue origini e delle sue implicazioni. L’unico contadino da lui conosciuto che pro­fessava idee politiche non era disposto a parlargliene oltre a dire che era « anti-tedesco, anti- Mussolini, anti-Re, e anti-Badoglio e che ormai era comunista » (op. cit., p. 76). E Revelli rac­conta: « Un contadino ubriaco arrivò, dopo lunghe soste, a due passi da noi. Incontrò le nostre ombre, fece un salto all’indietro come se avesse visto due serpi. < Cristu, i tedesk >, esclamò. Si riprese subito: < Buona sera, cerea, cerea signori >, disse cantando, e s’inchinava in modo buffo... Cominciò ad allontanarsi camminando a ritroso. Urlammo con voce dura, alla tedesca. Ci rispose con insulti irripetibili » (La guerra dei poveri, cit., p. 147). In vino veritasi29 Anche nelle famiglie in cui qualcuno sapeva leggere e parlare italiano (oltre al dialetto),l’unico materiale di lettura consisteva in almanacchi agrari (« Barbanera ») e in libri per l’inter­pretazione dei sogni (/ miei sogni). I giornali quasi non si leggevano sebbene servissero per in­cartare oggetti (e . newby, op. cit., pp. 105-119). Pare possibile che ciò sia stato il risultato di un rifiuto cosciente dei discorsi delle « autorità »: un rifiuto cioè della politica che in realtà espri­meva un particolare atteggiamento politico o almeno una latenza politica dalle caratteristiche specifiche.

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un mondo utopico. Anche oggi, il diffuso perdurare di credenze e rituali magici tra contadini e pseudo-contadini « giovani », i quali per tanti altri versi sembrano perfettamente «modernizzati» (votano Pei, posseggono il trattore, il Tv, gli elet­trodomestici, spesso fanno i pendolari tra la cascina natia e la fabbrica in una città vicina), è stato ben documentato negli ultimi anni, dimostrando il potere non sminuito di tali trasmissioni culturali. Quando si chiede loro come conciliano il loro appoggio politico al « materialismo storico » del Pei con una totale ubbe- dienza ai precetti assurdi dello stregone del paese, tali contadini rispondono ostinati che non occorre « conciliare » le due cose in quanto entrambe le credenze sono giustificate. La contraddizione semplicemente non si percepisce. Ciò implica una « ideologia » flessibile, perfettamente capace di ospitare simultaneamente entrambi questi modi di concepire la realtà. È segno, appunto, del « millenarismo » un’ampia tolleranza di fenomeni di contraddittorietà30.È probabile che un meccanismo del genere abbia funzionato in rapporto agli ex prigionieri, i quali venivano percepiti dai contadini in un certo senso come fore­stieri pellegrini (una specie già nota, da aiutare e da sfruttare), ma anche come gli annunziatori del « mondo messo sottosopra » (nella frase dei levellers inglesi del Seicento): i contadini vivevano (e vivono ancora) in un continuum culturale che, nelle loro percezioni, comprende tutto un arco di comportamenti/valori che non sono contraddittori (il senso della « contraddizione » è, in ogni modo, poco diffuso tra i non-borghesi intellettuali), comportamenti/valori che vanno da stra­tegie altamente realistiche per lo sfruttamento di congiunture economiche van­taggiose fino all’apertura verso le potenzialità magiche di certi individui. Tale apertura viene di solito definita dal cittadino razionalisteggiante « semplice super­stizione», «residuo in via di eliminazione». Sarebbe da considerarsi, invece, se i comportamenti/valori di cui si è parlato non siano indici di una forma mentis estremamente duttile, proteiforme nella sua capacità di assorbire e spiegarsi il mutevole flusso degli avvenimenti. Bisognerebbe anche chiedere se le strutture fondamentali di questa coscienza collettiva veramente si trasformino, a causa della mobilitazione politica dall’esterno, in una maggiore « razionalità » collettiva oppure se non riescano invece ad incorporare in sé stesse ogni proposta proiettata dal di fuori, dandole un senso ed un significato che tendono a rafforzare piuttosto che indebolire la propria tolleranza della contraddittorietà.L’ideologia contadina, nel senso che abbiamo cercato di chiarire, comprendeva il riconoscimento realistico sia della immutabile subalternità sia della tecnica ben nota per mitigare i suoi effetti31 ; tale ideologia comprendeva inoltre una « alter­nativa » fantastica ben articolata, ricca di consolazione, in cui i veri rapporti so­

30 Cfr. alfonso M. di nola, Inchiesta sul diavolo, Bari, Laterza, 1979, pp. 86-87 per il contadino di Val di Chiana, che vota Pei da sempre e comunque taglia le cime ai pioppi per impedire alle streghe di sedervisi e per « distruggere il demonio » (intervista del 1973); p. 143: « Famiglie di sinistra, anche di forte tradizione comunista, sono le prime che continuano a mettere fiocchi rossi al collo dei bovini per sottrarli alla stregoneria..., appongono le carline e i pungitopo alle porte dei fienili e delle stalle. In fondo la cultura di prima, quella che precede le lotte contadine, viene ancora accettata e condivisa ».31 Le tecniche adoperate dai contadini per mitigare o frustrare le esazioni delle autorità sono antiche quanto la stessa classe contadina e vanno dalla appropriazione illecita dei prodotti agricoli al non pagamento delle imposte, all’insistenza collettiva sui diritti tradizionali di pascolo, ecc. La coesione sociale della comunità contadina si spiega anch’essa, almeno in parte, in base ad una cospirazione tacita di reciproca difesa contro « quelli di fuori » e veniva rafforzata dall’os­servanza delle feste e dei costumi antichi, puntellando il senso collettivo di identificazione e di solidarietà. Tali meccanismi della cultura contadina sono stati ampiamente studiati e discussi in tutta una letteratura etnologica e non occorre insisterci in questa sede. La tematica è trattata in modo molto stimolante da Hobsbawm e da Shanin, tra gli altri.

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ciali oppressivi venivano trasformati in una visione a segno opposto, l’ineguaglianza diveniva l’eguaglianza, la miseria abbondanza, la concorrenza collaborazione. Que­sta « realtà alternativa » aveva inevitabilmente stretti legami con il sentimento e l’insegnamento religioso, con i valori predicati se non applicati del cristianesimo i cui rappresentanti, almeno al livello del basso clero, si adeguavano facilmente (e molto più aderentemente degli agitatori socialisti) ad essa sia nei suoi aspetti difensivi (magia) che in quelli offensivi (millenaristici). L’universo referen­ziale sia del realismo che dell’alternativa contadini si trovava anche nell’esperienza passata e presente del contadino dei rapporti con il mondo esterno non contadino: il mondo della città, dei padroni, dei gruppi sociali a cui il contadino in un modo o nell’altro viveva subalterno. Le caratteristiche di questo universo referenziale erano concrete e specifiche: si realizzavano in altri uomini che vestivano, parla­vano, mangiavano, bevevano e lavoravano in modo chiaramente diverso da quello suo, ma con i quali doveva pure condividere il mondo della natura e quello della produzione, partendo, però, moralmente sempre svantaggiato32.Gli ex prigionieri alleati non appartenevano a questo universo referenziale eredi­tato dal contadino. In essi tutto era diverso, e più significativo, oltre ad essere chiaramente bisognosi di aiuto, erano pronti a riconoscere la loro dipendenza dal contadino trattandolo non solo da eguale ma anche riconoscendolo come superiore. Eppure rappresentavano le nazioni più ricche e progredite, padrone del mondo33. Ovviamenti gli ex prigionieri alleati non potevano non rappresentare un pericolo mortale per qualunque contadino che li aiutasse, ma in un altro senso forse di pari importanza essi rappresentavano anche la prima esperienza avuta dai conta-

32 Lo « svantaggio » imposto al contadino, almeno nella percezione di quest’ultimo, non de­rivava né interamente né preminentemente dallo sfruttamento economico che subiva; come abbiamo già fatto notare, nel periodo di cui si tratta, l’insieme della popolazione agricola si trovava in una situazione anomala di vantaggio rispetto alla città. All’origine dello « svantaggio » globale del contadino si trova anche il suo status socio-culturale: la distinzione, se si vuole adoperare un’immagine classica, tra « cappelli » e « berretti ». Cfr. e . hobsbawm , Primitive Rebels, cit., pp. 120-125, per una interessante discussione della differenziazione socio-culturale nella « canaglia » cittadina del ’700. Per l’aderenza/tolleranza del clero alle credenze e speranze con­tadine, cfr. di nola, Inchiesta sul diavolo, cit. Anche Newby ha registrato il proprio stupore davanti alla totale e sicura autonomia economica di un vecchio contadino conosciuto nell’alto Appennino che si nutriva, si vestiva, si fabbricava i mobili e gli attrezzi con utensili anch’essi fabbricati da sé: l’unico oggetto che non s’era fatto da sé era la lama dell’ascia (Love and War, cit., pp. 191-197).33 Newby dà una descrizione suggestiva delle ricche fantasie dei suoi ospiti contadini riguardo a Londra, che chiamavano « la cità d’ia fumarassa », ed anche alle caratteristiche semi-magiche attribuite da essi alla sterlina d’oro, che dicevano facesse parte di ogni gruzzolo contadino (op. cit., pp. 116-118). Il sentimento di inaspettato compiacimento provato dai contadini, cui gli ex prigionieri evasi esibivano tale atteggiamento, trova una corrispondenza, a liberazione avvenuta, nella sorpresa e nella gratitudine che i contadini esprimevano quando li vennero a trovare gli ufficiali della ASC, spesso tra notevoli difficoltà, allo scopo di rilasciare certificati di riconoscenza ed offrire un compenso finanziario del tutto simbolico (che spesso veniva rifiu­tato): « Come mai le nazioni vittoriose si dessero la briga di ricercarli semplicemente per ringra­ziarli e per rimborsarli, era un mistero che non riuscivano a capire » (Final report on thè work of ASC (Italy) and thè disbandment oj thè Commission, del 16 maggio 1947, redatto dal magg. P.A. Hewitt per il ten. col. H.G. De Burgh, in PRO WO 208/3397). Gli ufficiali alleati impiegati in questo lavoro, che spesso erano ex prigionieri vissuti tra i contadini, dimostrarono un impegno veramente notevole. È interessante notare che Hewitt riconosce il fatto, per lui sconcertante, che « le autorità (locali) più efficienti, volenterose e cortesi sono state quelle comuniste » (Ibid.). Il De Burgh fa notare che « nei primi tempi vi era un notevole pericolo rappresentato dai banditi che avrebbero potuto facilmente fare un’imboscata agli ufficiali che giravano con grosse somme di denaro contante ed è molto significativo che non venne mai toccato un soldo » (Ibid.), parti­colare che tende a confermare il carattere « sociale » del banditismo del dopoguerra in Italia, fenomeno che non pare sia stato oggetto di uno studio adeguato se si eccettua l’ampio materiale sul separatismo siciliano.

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dini di « forestieri » che non si presentassero alla loro percezione nel ruolo di sfruttatori reali o potenziali. Il contadino che ospitasse o aiutasse un ex prigioniero giocava un ruolo, ed esercitava un potere, che non aveva mai sperimentato prima se non rispetto ad altri contadini bisognosi di aiuto. La possibilità di entrare con­cretamente nel mondo della « alternativa » che aleggiava nella fantasia collettiva contadina si presentava in modo inedito nel semplice gesto di accettare lo scono­sciuto come fratello. L’esperienza era di una dolcezza mai sentita prima appunto perché era senza precedenti, perché non faceva parte di una qualsiasi contratta­zione o rapporto di subalternità. I contadini italiani avevano certamente una lunga tradizione di ospitalità verso il viandante sconosciuto, ma anche se tale tradi­zione poteva essere il punto di partenza (il modello di comportamento) della of­ferta di ospitalità all’ex prigioniero, essa non basta a spiegare il sacrificio di se stessi prolungato in condizioni di estremo pericolo con il quale tanti contadini andarono incontro a questa sfida. Accettarono il sacrificio, corsero i rischi, appunto perché così si aveva l’occasione di entrare nella storia umana su un piede di egua­glianza con gli altri uomini. Non erano la gratitudine e la dipendenza degli ex prigionieri una sicura prova che finalmente era iniziato il regno della giustizia? Il contadino che aiutava aveva trovato finalmente un mezzo concreto di realizzare l’identità umana che fino ad allora non era potuta essere che un sogno consolante per chi non si era mai prima sentito rispettare, in pratica, la propria umanità. Non solo l’ex prigioniero mostrava la sua gratitudine, non solo non cercava di imporre i propri valori ed obiettivi al contadino, ma era perfino disposto a prendere da modello di comportamento e fonte di valori il modo di vivere di chi lo ospitava, accettando senz’esitazione sia il suo modo di stare a tavola che l’ordine di nascon­dersi nel bosco34.Le diverse strategie della sopravvivenza qui si incontrano in una convergenza non più casuale. E per quel che riguardava la sopravvivenza il contadino aveva una esperienza plurisecolare cui attingere atteggiamenti e tecniche di sicuro successo. Quanto all’ex prigioniero, a questa alleanza era in grado di portare la disciplina del militare addestrato e sperimentato e le tecniche di una cultura tecnologica avanzata (sebbene forse meno flessibile di quella contadina nelle condizioni date). Le doti militari erano senz’altro secondarie, del resto, rispetto alla attitudine col­lettiva contadina a sfruttare le risorse locali al servizio della sopravvivenza e del­l’autodifesa 35.Anche se si può scorgere, nei moventi economici e ideologici fin qui discussi e tendenti ad indurre il contadino a prestare aiuto agli ex prigionieri evasi con tanta efficacia e con tanta generosità, una base parziale per spiegare i suoi comporta­menti, non si è ancora chiarito il meccanismo psicologico che spesso trasformò l’interesse economico e l’autoaffermazione contadina in un eroismo altruistico.

34 Arrigo benedetti, In montagna con gli inglesi, in Italia e Gran Bretagna, cit., p. 46: « A tavola notai che, forse per adattarsi a quella che credevano un’abitudine italiana, prima di met­tersi a mangiare riempivano di pane spezzettato la scodella della minestra. < Non si fa? > chiesero i loro occhi azzurri. E quella di adeguarsi immediatamente alle abitudini dei nostri contadini, pastori, boscaioli era, come constatai poi, una virtù degli ex prigionieri britannici ». Nella con­ferenza sull’evasione cui si è già accennato (n. 21) ai militari britannici veniva impartito l’ordine di « obbedire alla lettera » alle istruzioni date loro da « aiutanti ».35 Si dà atto ripetutamente nelle memorie citate al valore della intima conoscenza da parte dei contadini delle località in cui si erano rifugiati gli ex prigionieri. Cfr. anche il Bergeri « I contadini sono la classe più attenta del mondo. Osservano e interpretano ogni giorno più segnali cifrati che non ne osservi ed interpreti in una settimana un agente professionale del servizio informazioni. Ciò li rende tattici brillanti. Ma sono stati raramente in grado di essere strateghi, e la loro filosofia è contraria ad esserlo». J. berger, The Peasant Experience and The Modera World, in « New Society », 17 maggio 1979, p. 377.

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La chiave di tale trasformazione sarebbe da cercarsi nella natura di un complesso processo che si potrebbe definire la formazione di rapporti di identificazione.Non sarebbe arduo dimostrare che lo stato nazionale non era mai stato capace di formare nella grandissima maggioranza dei contadini italiani un autentico attac­camento ai suoi interessi, una identificazione non derivante da calcolo di interesse né da coercizione. Non rientra negli obiettivi del presente saggio approfondire tale tematica. Basta far notare che i contadini, nel periodo 1943-45, nella zona controllata dagli Alleati come in quella sotto il dominio nazifascista, sabotarono in massa il sistema degli ammassi e si rivelarono le reclute più riluttanti di tutta l’Europa. La loro straordinaria capacità di autosacrificio economico, di coraggio e di sopportazione di fronte all’estremo pericolo, la riservarono per coloro, tra le parti coinvolte nel conflitto (qui non parliamo della difesa collettiva della pro­pria comunità, che forse restò per essi il valore più alto), che erano in grado di coinvolgerli in un processo di identificazione del tipo che abbiamo descritto: le bande partigiane (soprattutto se « loro ») e gli ex prigionieri che proteggevano. Il loro appoggio ai primi è già stato oggetto di ampia illustrazione e di viva discus­sione in sede storiografica e si è chiarito, in modo più o meno convincente, il pro­cesso di politicizzazione, se essa fosse provocata dalla simbiosi tra il pesce parti­giano e il mare contadino36.Nel caso, invece, degli ex prigionieri (il cui numero, fino alla primavera del 1944 superava infatti quello dei partigiani attivi e restò, come abbiamo visto, molto rilevante fino all’aprile 1945) sarebbe senz’altro fuorviante parlare della « politi­cizzazione » nel senso normalmente accettato della parola. Sui circa 85.000 pri­gionieri in campi italiani all’8 settembre 1943 quasi la metà non ricompare che nell’aprile 1945. Alcune migliaia raggiunsero le linee alleate o la Svizzera, altret­tante vennero ricatturate dai tedeschi, poche decine si unirono ai partigiani. Ma l’equivalente di tre divisioni militari semplicemente si sommerse nella popolazione contadina per un anno e mezzo e non venne più a galla che a liberazione avvenuta 37. Pare abbastanza chiaro, quindi, che un processo analogo alla identificazione che abbiamo descritto andrebbe ipotizzato per spiegare il diffuso fenomeno di auto­sacrificio prolungato ed eroico da parte dei contadini che aiutavano gli ex prigio­nieri evasi. Tale ipotesi si basa sull’assunto che la ricerca delle sopravvivenze, nei termini con cui l’abbiamo definito in questa comunicazione generò uno specifico

36 Cfr. e . absalom, Il ruolo politico ed economico, cit., per gli insuccessi del programma alleato di ammassi in Toscana; secondo Legnani (Intervento, cit.) era fenomeno generalizzato, anche nel dopoguerra. La renitenza alla leva nel nord è notissima e ampiamente documentata; per quella nel sud vedi Giu se ppe conti, Aspetti della riorganizzazione delle forze armate nel Regno del sud, in « Storia contemporanea », 1975, n. 1, pp. 109-117; per il processo di politicizzazione della massa contadina all’opera delle bande partigiane cfr. R. cianferoni, Particolari della resi­stenza contadina in Toscana, cit. Cfr. anche N. revelli, La guerra dei poveri, cit., p. 164, per gli atteggiamenti contadini davanti alla Resistenza.37 Un rapporto intitolato Resistance Movements, N. Italy, datato 6 maggio 1944, redatto dal col. C.C. Carter, OSS ed indirizzato al quartiere generale delle operazioni sovversive nella zona mediterranea HQ SOM CMF in PRO WO 204/1990, fornisce un totale approssimativo di 26.000 partigiani attivi. II tasso bassissimo di partecipazione alla lotta resistenziale è stato notato anche da v. peniakoff (Popski’s Private Army, London, 1950) durante una delle sue puntate nelle re­trovie nemiche nel 1944: « Decine di ex prigionieri britannici si presentarono nel corso della giornata... nelle sole Marche erano circa 20.000 ma solo poche centinaia si erano lasciati con­vincere dalla < A > Force (organizzazione clandestina alleata preposta al recupero di prigionieri evasi, n.d.a.) a tentare di passare il fronte: gli altri preferivano far una vita pigra da proprietari terrieri, accolti com’erano dai contadini... Cercai di organizzare un gruppo di questi ex prigionieri da far passare il fronte con le nostre guide ma si scusarono con pretesti vari quale la necessità, prima di partire, di mettere in ordine le loro faccende o di salutare gli amici. A quanto pare, molti di essi stanno ancora in Italia » (pp. 497-498).

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ethos capace non solo di ispirare un altruismo eccezionale in quelli che ne veni­vano toccati, ma anche di annullare, per lunghi periodi, le spinte derivanti da altre forme di identificazione in conflitto con esso (con la nazione, con la classe, forse con la comunità), un ethos cioè che legittimò quella ricerca in modo nuovo, esternandolo, realizzandone i valori nel tentativo di garantire la sopravvivenza, appunto, degli ex prigionieri evasi. Trasformando in un bene obiettivo ciò che prima non era stato che una percezione soggettiva e una attività volta a conse­guire un interesse particolare dell’individuo e del gruppo cui era legato partico- laristicamente, il contadino « soccorritore » veniva portato anche ad esplorare e a sfruttare in modo sistematico tutto il potenziale della sua tradizione autodifen­siva, a realizzare coscientemente, e perciò a legittimare, il potenziale del contro­sistema sul quale si era sempre fondata la propria autodifesa38. In tale senso il fenomeno di massa rappresentato dall’aiuto prestato dai contadini agli ex prigio­nieri nel 1943-45 fa parte dell’intero processo storico tramite il quale il millena­rismo latente del contadino italiano si spostò definitivamente tra 1943 e 1950 verso forme « moderne » di coscienza politica e di mobilitazione sociale.Nello stesso tempo, però, non si deve sottovalutare la persistenza e il peso di residui millenaristici, soprattutto dello « impossibilismo » che sottostava a tanta parte della mobilitazione politica contadina nella Resistenza e nel dopoguerra. « La grande speranza delusa » dei contadini non si può attribuire solo alla man­cata volontà politica della nuova classe dirigente di realizzare le riforme agrarie rivendicate dai contadini: la si deve anche alla presa di coscienza « negativa » da parte dei contadini del fatto che, anche in rapporto ai propri « alleati » politici delle classi lavoratrici e medie delle città, il riconoscimento della loro condizione come esseri umani, riconoscimento esplicitamente prefigurato nei rapporti « uto­pici » del periodo bellico con partigiani e con ex prigionieri alleati, venisse logorato e ridimensionato, che ancora una volta li si escludesse dal genere umano.I contadini, sollecitati dalle esperienze di guerra, di crollo istituzionale, di resi­stenza e di « liberazione », non cessarono di sognare « l’alternativa fantastica » di cui si è parlato, anzi la « sognarono » più attivamente. Sarebbe potuto essere, forse, un crinale storico pari almeno a quello del periodo del brigantaggio otto­centesco: non aver ben capito la dinamica di quel « sognare » contadino è stato l’errore irrimediabile di chi voleva, nel periodo 1943-50, convogliare i contadini verso una modernizzazione marxisteggiante, nella convinzione che la « dialettica della storia » dovesse funzionare solo secondo una ricetta già sperimentata nel 1917. In tale prospettiva la « grande speranza » contadina (utopistica quanto si vuole, ma dai contadini già messa in atto nei riguardi di profughi di ogni tipo) andava invece forzosamente incanalata verso una «coscienza politica moderna»: il « millennio » non era che « falsa coscienza », da demolire per mezzo dell’agitprop. Nella autopercezione contadina tale « modernizzazione » facilmente si riduceva ad un ritorno alla solita subalternità nei riguardi della gente e dei valori cittadini, al tentato annientamento della loro identità collettiva39. Dopo il 1950 l’apertura 31

31 Cfr. E. HOBSBAWM, Primitive Rebels, cit., pp. 30-56.39 Cfr. anche giuliano della pergola, La conflittualità urbana, Saggi di sociologia critica, Milano, Feltrinelli, 1972, pp. 126-147. In un recente saggio uno studioso inglese ha scritto: « L’universalità e la continuità relative dell’esperienza contadina è eccezionale nel contesto della storia moderna [cioè nel secondo dopoguerra, n.d.r.]... Che significato ha quest’esperienza ecce­zionale? Come mai la maggior parte degli abitanti del mondo moderno sono diventati eccezionali in esso?... I contadini, mentre scompaiono, provocano ed illustrano una domanda: fino a che punto corrisponde alle speranze popolari del passato l’avvenire che si va ora costruendo? Il ca­pitale, dedito solo alla riproduzione di se stesso, non sa porsi questa domanda. Essa non ha senso neppure per i marxisti dogmatici, perché sfugge alla problematica della illusione ideologica (il

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storica rappresentata dalla marea « millenaristica » nella coscienza contadina si richiuse e si riasserirono le secolari strategie contadine della sopravvivenza in sordina, deH’autoemarginazione dentro l’emarginazione coatta. Solo che, nel se­condo dopoguerra, avvenne il definitivo crollo della quasi-autonomia economico- culturale del contadino italiano, crollo che nel giro di una sola generazione fece urbanizzare la grande maggioranza della popolazione rurale. Ciò spiegherebbe il carattere quasi « apocalittico » della delusione, nel dopoguerra, della « grande speranza », delusione percepita da molta parte della massa contadina come totale e irreversibile, non come semplice sconfitta politica e quindi recuperabile. Venuto meno il « miracolo » tanto atteso, non restava che la diaspora definitiva della migrazione verso la città (ci si riferisce, qui, s’intende, alla percezione soggettiva di chi visse la tragica fuga dalle campagne, non ai fattori oggettivi di carattere economico cui bisogna attribuire il fenomeno in sede storica).La sinistra italiana, invece, nel periodo 1943-50, in gran parte non riuscì a co­gliere il senso della trasformazione della autopercezione contadina generata dalla guerra, né del potenziale rivoluzionario mobilizzante di questa, siccome preferiva, in genere, le facili generalizzazioni derivate dalla marxiana « mediocrità della vita rurale».Lo storico invece ha l’obbligo di vedere chiaro nelle forme reali e non teoriche della partecipazione contadina nel processo storico. In questa partecipazione, l’esperienza mobilitante del tentativo di far sopravvivere gli altri (cioè i non-affini, i non-parenti) è un fatto abbastanza importante e singolare che va affrontato (senza paraocchi ideologico-celebrativi) anche ma non solo perché testimonia di un rapporto tra contadino ed ex prigioniero che sembra essere stato senza prece­denti. Il contadino ha aiutato l’ex prigioniero a sopravvivere. Ma perché? « L ’an­tifascismo contadino » è una risposta che pare non chiarisca completamente questa vicenda. Forse l’ex prigioniero rappresentava, per il contadino, qualcosa che finora è sfuggito alla ricostruzione storica della Resistenza e di quella dei suoi antece­denti nella storia del ventennio fascista: un’occasione inedita di identificazione e di autoidentificazione in quella dimensione storica definita da Hobsbawm « mille­naristica», in un processo di reciproca «appropriazione simbolica».Si potrebbe forse concludere che le forze politiche italiane che nel secondo dopo­guerra asserivano di puntare su una storica rottura col passato post-risorgimentale e fascista —• con quel passato, appunto, che temeva sopra ogni altra cosa la com­parsa nel processo storico-politico italiano delle masse contadine — abbiano com­messo un grande errore strategico sottovalutando il potenziale contributo alla dinamica dell’impulso verso la trasformazione sociale rappresentato dalla « desta­bilizzazione » psicologica di tali masse generatasi nel periodo 1943-45. Di questa « destabilizzazione » il rapporto con gli ex prigionieri sarebbe stato non solo uno dei maggiori indicatori, ma avrebbe agito anche da catalizzatore.Se fosse così, sarebbe diffìcile negare che la mancata comprensione del fenomeno da parte della sinistra italiana sia stata uno dei fattori che più contribuì, para­

passato, cioè, non era in grado di conoscere ciò che volesse!)... [Sebbene] si articolassero diver­samente di volta in volta le speranze contadine restarono immutate ed inseparabili: che si mettesse fine alla fame e che si facesse giustizia economica... Le speranze erano volte a rendere più probabile la sopravvivenza, ad assicurare una continuità, di modo che i loro figli vivessero come loro, ma con meno dolore... Ora che è venuta meno questa continuità delle speranze (col­lettive, non solo personali) la minoranza dirigente sta attuando un tradimento globale e storico della maggioranza di tutti quanti sono mai vissuti nel mondo ». (j. berger, The Peasant Experience and thè Modera World, cit., pp. 376-378).

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dossalmente, alla formazione e al mantenimento della egemonia della De nei de­cenni successivi‘t0.Chi scrive non pretende di aver risolto il problema: nella presente comunicazione si è cercato solo di definirne i termini storici in modo preliminare, in quanto deci­frare per intero la « grande delusione » contadina, come la « grande speranza » che la precedette, e scomporle nei loro elementi a tutti i livelli dell’analisi storica sarebbe stato un compito troppo vasto. La tematica toccherebbe non solo il pe­riodo resistenziale, ma anche quello fascista e forse quello liberale. Ma il nodo da sciogliere, in primo luogo, è quello cui si è qui accennato: il gran « perché? » del comportamento contadino di fronte a quella transumanza degli ex prigionieri che avvenne, appunto, nel 1943-45. Se, sciogliendolo, si gettasse luce anche sulla genesi (anzi, forse, sulla genetica) della « grande speranza », l’ultima marea mille- naristica dei contadini in Italia, si affronterebbe uno degli argomenti più affasci­nanti della storia contemporanea italiana.

ROGER ABSALOM *

* Cfr. E. hobsbawm , op. cit., p. 6: « I movimenti millenaristici [...] sono rivoluzionari, non riformisti e [...] a causa di ciò è più facile modernizzarli o assorbirli in movimenti sociali mo­derni. Qui il problema interessante è quello di come, e con quale successo, avvenga tale moder­nizzazione. Direi che non avviene per niente, oppure avviene solo molto lentamente e parzial­mente, se si lascia la faccenda in mano ai soli contadini. Avviene col massimo di completezza e di successo se il movimento millenaristico viene innestato su un tronco di organizzazione, di teoria e di programma che giunge al contadino dall’esterno ». Il paradigma storico proposto da Hobsbawm non venne realizzato pienamente in Italia nel periodo 1943-50 soprattutto perché la « organizza­zione, la teoria ed il programma dall’esterno » (cioè dalla sinistra, e particolarmente dal Pei) venivano proposti da chi non sapeva o non voleva comprendere la specificità della presa di co­scienza avvenuta tra 1943 e 1945 e perciò non fu in grado di adeguarvisi tatticamente. La sinistra, sulla scorta del dogma marxista sulla « mediocrità della vita rurale », non si rese conto che l’esperienza contadina della sopravvivenza propria e altrui in un rapporto eccezionale aveva costituito un salto qualitativo nei parametri della visione contadina del mondo prefigurando, appunto, un nuovo modo di convivenza sociale, di non-subalternità, vissuta in proprio anche al livello esistenziale. La sinistra, invece, offriva non la prospettiva di sviluppare ed approfondire quella non-subalternità ma solo una alternativa subalternità « alla guida attiva della classe operaia ».