PER NUOVE TIPOLOGIE EDILIZIE PENITENZIARIE E LA …

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1 L’ULTIMO CONCORSO PER NUOVE TIPOLOGIE EDILIZIE PENITENZIARIE E LA FORMA URBANA di Cesare Burdese* “Une societé n’est forte que lorsqu’elle met la vérité sous la grande lumière du soleil” Émile Zola «Les murailles aussi sont appelées à administrer » Jean-Baptiste Harou-Romain PREMESSA Nel 2001 il Dipartimento dell‟Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.) bandì un concorso di idee per la elaborazione di un prototipo di istituto penitenziario di media sicurezza a trattamento penitenziario qualificato, con l‟obiettivo di acquisire spunti per le future progettazioni.(1) All‟Amministrazione pervennero ventidue progetti, quindici dei quali furono ammessi all‟esame della Commissione giudicatrice che stabilì, a conclusione dei propri lavori, svolti dal giugno al settembre 2004, due vincitori ex aequo e due menzioni. (2) Furono in tutto assegnati quattro premi, per duecento milioni complessivi delle vecchie lire. Nel 2005, il D.A.P. allestì, presso il complesso del San Michele a Roma, la mostra dei progetti ammessi, intitolata “Le Città dell‟attesa, progettare il carcere”. Un catalogo della mostra non è mai stato prodotto e non risulta che quei progetti siano mai stati ulteriormente, in qualche modo, utilizzati. Può essere comunque utile, nell‟ambito di un seminario che intende riflettere sulla forma del carcere della Riforma penitenziaria, soffermarsi su una vicenda come questa, oggettivamente poco significativa dal punto di vista dei contributi architettonici forniti, per fare luce

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L’ULTIMO CONCORSO

PER NUOVE TIPOLOGIE EDILIZIE PENITENZIARIE

E LA FORMA URBANA

di Cesare Burdese*

“Une societé n’est forte que lorsqu’elle met

la vérité sous la grande lumière du soleil”

Émile Zola

«Les murailles aussi sont appelées à administrer »

Jean-Baptiste Harou-Romain

PREMESSA

Nel 2001 il Dipartimento dell‟Amministrazione

Penitenziaria (D.A.P.) bandì un concorso di idee per la

elaborazione di un prototipo di istituto penitenziario di

media sicurezza a trattamento penitenziario qualificato,

con l‟obiettivo di acquisire spunti per le future

progettazioni.(1)

All‟Amministrazione pervennero ventidue progetti,

quindici dei quali furono ammessi all‟esame della

Commissione giudicatrice che stabilì, a conclusione dei

propri lavori, svolti dal giugno al settembre 2004, due

vincitori ex aequo e due menzioni. (2)

Furono in tutto assegnati quattro premi, per duecento

milioni complessivi delle vecchie lire.

Nel 2005, il D.A.P. allestì, presso il complesso del

San Michele a Roma, la mostra dei progetti ammessi,

intitolata “Le Città dell‟attesa, progettare il carcere”.

Un catalogo della mostra non è mai stato prodotto e

non risulta che quei progetti siano mai stati

ulteriormente, in qualche modo, utilizzati.

Può essere comunque utile, nell‟ambito di un seminario

che intende riflettere sulla forma del carcere della

Riforma penitenziaria, soffermarsi su una vicenda come

questa, oggettivamente poco significativa dal punto di

vista dei contributi architettonici forniti, per fare luce

2

su di una realtà in ombra del nostro sistema penitenziario

e cioè quella della progettazione degli istituti

penitenziari.

Oltre l‟argomento che mi è stato affidato, che ha per

titolo: l’ultimo concorso per nuove tipologie edilizie

penitenziarie e la forma urbana, attraverso l‟esposizione

dei criteri progettuali per la realizzazione degli istituti

penitenziari, via via adottati dall‟Amministrazione a

partire dal primo programma di edilizia penitenziaria

datato 1971, intendo esporre come e sino a che punto il

carcere costruito sia venuto adeguandosi ai principi della

Riforma e in che cosa, in realtà, sia consistito lo sforzo

istituzionale di dare coerenza spaziale agli istituti

penitenziari esistenti ed a quelli di nuova realizzazione.

Chiarisco che è mia intenzione, attraverso quanto

trattato qui brevemente, fornire ulteriori elementi al

seppur limitato dibattito in corso sull‟edilizia

penitenziaria nostrana.

Il racconto di questa vicenda concorsuale, mi consente

inoltre, ancora una volta, di denunciare i limiti del ruolo

che la nostra cultura architettonica riveste in materia di

carcere.

Per quanto riguarda l‟illustrazione del concorso ho

attinto ai resoconti giornalistici dell‟epoca, alla

documentazione progettuale che per l‟occasione mi è stata

messa a disposizione dall‟Amministrazione penitenziaria e

da alcuni degli stessi autori.

Per dovere di cronaca, a questo riguardo, va detto

che, presso la sede romana del D.A.P., mi è stato possibile

visionare solamente alcuni di quei progetti sullo schermo

di un PC.

Personalmente, ho potuto acquisire, direttamente dai

rispettivi autori, una sintetica documentazione dei due

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progetti vincitori e di quello dell‟architetto Ruggero

Lenci, non classificato.

Per i restanti argomenti mi sono avvalso dei documenti

ministeriali, delle fonti normative, della pubblicistica

specializzata e dell‟esperienza che ho maturata, nel corso

di alcuni decenni, come ricercatore ed architetto

progettista, in questo settore.

IL CARCERE ORFANO DI ARCHITETTURA

Non si possono comprendere a fondo le vicende che mi

appresto ad esporre, relative alla nostra edilizia

penitenziaria che è orfana di qualità architettonica, se

non si tiene conto che in Italia:

- Non è normalmente possibile, per gli studiosi, avere

accesso ai progetti delle nostre carceri, in quanto

sottoposti a misure di sicurezza e pertanto segretati.

- Non esistono, nel vasto panorama dell‟offerta

saggistica nazionale di architettura , testi specifici

sull‟edilizia penitenziaria, a differenza invece di quanto

accade all‟estero.

- Le realizzazioni degli istituti penitenziari –

nostrani e stranieri - non sono reperibili sulle riviste

di Architettura nazionali.

- La tipologia carceraria non viene abitualmente

insegnata nelle scuole di Architettura e di Ingegneria,

con il risultato che mancano studi e ricerche sulla materia

e che i tecnici non sono formati sull‟argomento.(3)

- I protagonisti del dibattito architettonico e

urbanistico più qualificato, non affrontano il tema

progettuale del carcere, dando così l‟impressione di non

essere interessati a far progredire la riflessione critica

sull‟argomento e di essere privi della dovuta sensibilità

sociale, che il loro ruolo imporrebbe.

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- Le migliori professionalità architettoniche, non

sono chiamate in causa dall‟Amministrazione penitenziaria

nella progettazione degli istituti penitenziari.

Certamente anche per questi aspetti, il nostro carcere

resta relegato al semplice rango di edilizia, “in mano a

tecnici ministeriali, precisi applicatori di norme,

convinti che un edificio, tanto legato a leggi, non possa

essere che dominio dell‟utile”, privo inesorabilmente

delle qualità e dei valori dell‟Architettura.

ARCHITETTURA E RIFORMA PENITENZIARIA

Lo stato di cose, sopra descritto, ci pone di fronte

alla questione del ruolo dell‟Architettura, intesa come

disciplina per dare qualità agli spazi carcerari, ma anche

per dare concretezza ai principi espressi dalla Riforma

dell‟Ordinamento penitenziario del 1975.

Le istanze della Riforma, rimandano al concetto di

coerenza dell‟organizzazione del sistema penitenziario con

le finalità della pena privativa della libertà e per quanto

ci riguarda, dell‟organizzazione spaziale dentro e fuori il

recinto penitenziario.

L‟argomento è vasto e complesso e richiederebbe molto

tempo per essere trattato in modo esauriente.

Accenno brevemente, a questo riguardo, agli aspetti

relativi alla qualità architettonica degli edifici

penitenziari ed alle dotazioni spaziali per il trattamento

riabilitativo, rimandando ad altra occasione questioni come

quelle legate alla diversificazione delle strutture

penitenziarie, secondo il livello di sicurezza, al loro

rapporto con il territorio, etc.

Se ci riferiamo ai carceri attualmente in funzione nel

nostro Paese, un tipo edilizio capace di conciliare fino in

fondo le esigenze della detenzione con quelle della qualità

degli ambienti di vita e di lavoro in chiave riabilitativa:

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dalla cella individuale agli spazi collettivi, laboratori,

biblioteche, aule scolastiche, spazi per gli incontri con

l‟esterno, aree a verde, etc., ancora non esiste.

La progettazione delle ristrutturazioni e delle nuove

edificazioni degli istituti penitenziari degli ultimi

decenni, al di là di avere, in linea di massima,

ottemperato alle prescrizioni minime normative, in termini

di igiene e di spazi per le pratiche trattamentali e

risocializzative, non ha contemplato – salvo alcune rare

eccezioni (4) - soluzioni edilizie portatrici di valori

architettonici e attente a soddisfare i bisogni psico-

fisici dell‟individuo in condizione di vita segregata

detenuto e operatore carcerario in generale) o

semplicemente nella condizione di visitatore/frequentatore.

Per chiarire, queste mancate soluzioni corrispondono,

tra le altre, alla necessità di ambienti luminosi, aerati,

facilmente pulibili, acusticamente e termicamente

controllati, alla necessità di creare ambienti interni ed

esterni cromaticamente e materialmente variati e

stimolanti, alla necessità di vegetazione a contatto con

gli edifici che riduca il tutto murato e pavimentato dello

spazio esterno, per mantenere un forte inserimento degli

edifici nella natura, alla necessità di aree verdi,

veramente tali, attrezzate per lo sport, gli incontri e la

permanenza all‟esterno, alla necessità di aumentare la

distanza tra gli affacci degli edifici per impedire

l‟abituale adozione di sistemi anti-introspezione davanti

alle finestre, alla necessità degli affacci degli ambienti

di vita dei detenuti verso le aree libere con orizzonti

lontani, alla necessità di conferire agli edifici una

valenza non oppressiva e, in ultimo, alla necessità di

concepire l‟edificio carcerario permeabile e non una

fortezza, in considerazione del significato che il Carcere,

come edificio, può acquisire, non solo nel paesaggio ma

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anche nell‟immaginario collettivo, la dove lo si debba

intendere alla stregua di qualsiasi altro edificio

pubblico.

CRITERI PROGETTUALI ISTITUZIONALI

In Italia l‟artefice incontrastato della ideazione

concettuale degli istituti penitenziari da sempre - a parte

il periodo, dal 1950 al 1970, degli incarichi di

progettazione affidata a liberi professionisti(5) - è il

Ministero della Giustizia che, attraverso i suoi uffici

tecnici, definisce, di volta in volta, i criteri di

edilizia penitenziaria e gli schemi progettuali relativi,

da porre alla base della progettazione esecutiva per la

realizzazione degli istituti penitenziari.

Quel concorso di idee costituiva pertanto una

eccezione, anche perché il ricorso al concorso di idee, in

materia di edilizia penitenziaria, da parte di una pubblica

amministrazione, nel nostro Paese rappresentava, anche

allora, una prassi inusuale; bisogna risalire al periodo

pre-unitario, per trovarne traccia nelle realizzazioni dei

primi penitenziari. (5)

Venendo alle vicende edificatorie ed ai criteri

progettuali sottesi, nel 1971 viene avviato, per la prima

volta in Italia, un programma organico di edilizia

penitenziaria, finalizzato alla realizzazione di nuovi

istituti ed al miglioramento della funzionalità di quelli

in uso.

Inizialmente due sono gli elementi fondamentali che ne

hanno determinato l‟avvio:

-la necessità di sopperire alla scarsa ricettività

delle strutture esistenti, molto spesso vetuste, inadeguate

ai tempi ed igienicamente inaccettabili;

-la necessità di disporre di strutture adatte alla

nuova criminalità - derivata dall‟eversione prima e

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successivamente dalla criminalità organizzata – ed

edificate con criteri tali da garantire la sicurezza

interna ed esterna.

Dopo qualche tempo, una attenta analisi dei primi

risultati prodotti con l‟attuazione di quel programma,

sollecitò l‟Amministrazione penitenziaria, sulla base delle

esperienze acquisite, a formulare nuovi criteri ed

indirizzi, da porre a base della realizzazione di un nuovo

programma di interventi.

Essa, in particolare, ritenne preminente determinare

criteri di uniformità , che garantissero l‟organica

attuazione dei nuovi piani di edilizia penitenziaria, sia

sul piano dell‟organizzazione funzionale, sia su quello

costruttivo finanziario.

Gli obiettivi che l‟Amministrazione penitenziaria si

poneva erano i seguenti:

- Elaborare schemi tipologici funzionali e di progetti

tipo - sia per quanto concerne l‟organizzazione

complessiva, che la struttura dei singoli elementi (cella

tipo, blocco colloqui, sezione infermeria, ecc.)- da porre

a base delle progettazioni, al fine di ridurre al minimo i

margini di discrezionalità che prima erano concessi ai

progettisti, nella determinazione delle nuove strutture

penitenziarie e garantire su tutto il territorio nazionale,

a parità di istituti, l‟omogeneità anche nel trattamento

del detenuto e nello svolgimento dei servizi.

- Elaborare una normativa tecnica, che unitamente

all‟adozione di uniformi schemi tipologici, garantisse

l‟esecuzione di manufatti edilizi improntati a criteri di

sicurezza, intesa questa ultima come prevenzione delle

fughe, funzionalità ed economia di gestione.

- Determinare parametri medi di costo cui commisurare e

condizionare la realizzazione dei nuovi istituti.

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Gli strumenti da utilizzare, che dovevano costituire

il termine di confronto e verifica delle successive

ipotesi, dovevano essere, da un lato le sempre

imprescindibili esigenze determinate dall‟Ordinamento

penitenziario del 1975 e dall‟altro le tecnologie

costruttive più avanzate, con riferimento soprattutto alle

tecniche di prefabbricazione.

Si ritenne opportuno, pertanto, procedere

all‟elaborazione di modelli tipologici che tenessero conto

delle varie esigenze e consentissero l‟attuazione di un

sistema penitenziario organizzato su una più netta

differenziazione degli istituti, in base sia al trattamento

riabilitativo operato, che al grado di controllo esercitato

all‟interno degli istituti penitenziari (sicurezza

attenuata, sicurezza ordinaria, massima sicurezza).

Nella attuazione di quel programma edilizio, si diede

la priorità alle realizzazioni più centrate sui problemi

della sicurezza e che consentissero comunque, ad un tempo,

condizioni di habitat sufficientemente elevate e possibili

aperture verso avanzati trattamenti penitenziari.

Tale scelta, come già accennato, fu imposta anche

dalla situazione di particolare emergenza, del tutto nuova

nella storia politica e sociale del Paese , rappresentata

dal duplice attacco condotto, nei confronti delle

istituzioni civili e sociali, sia dal terrorismo politico,

che dalla nuova delinquenza organizzata.

Il modello tipologico che fu definito, tendeva a

garantire soluzioni che consentissero di realizzare, da un

lato la omogeneità del trattamento del detenuto e della

gestione dei servizi a parità di tipologia di istituto, e

dall‟altro la differenziazione in rapporto alla posizione

giuridica di ciascun detenuto.

Le sopraddette esigenze, apparentemente inconciliabili

nell‟ambito di una stessa struttura penitenziaria, sono

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state affrontate proponendo una organizzazione di istituto

che garantisce la netta separazione, e quindi la

possibilità di un diverso trattamento, per i seguenti

soggetti:

- detenuti in attesa di giudizio adulti;

- detenuti in attesa di giudizio giovani adulti;

- detenuti condannati adulti;

- detenuti condannati giovani adulti.

Secondo l‟Amministrazione, la struttura organizzativa

che ne conseguiva, pur se dimensionata in base ad

ipotetiche percentuali di utenti, era in grado di

consentire comunque una sua adattabilità in relazione alle

particolari esigenze che si sarebbero poste, di possedere

il pregio di una proposta che, senza disperdere l‟istituto

in tanti momenti organizzativi ed edilizi, riusciva a

contemperare l‟esigenza di una organizzazione compatta e

controllabile con quella della più puntuale

differenziazione e separazione all‟interno.

L‟Amministrazione giudicava che tale struttura potesse

garantire, fermo restando la sua impostazione, vari livelli

di sicurezza semplicemente attuando o meno certe misure,

oppure trasferendo dall‟uomo alle tecnologie e viceversa

compiti di sorveglianza e di organizzazione; quel modello

tipologico, a suo dire, consentiva di poter operare la

suddetta scelta in funzione delle generali condizioni in

cui la struttura penitenziaria si sarebbe venuta ad

ubicarsi.

Nel 1981, sulla base di quel modello tipologico, viene

avviata la realizzazione di un numero di interventi assai

consistente, dei quali, ancora alla fine di quel decennio,

solo alcuni erano stati ultimati, mentre molti erano ancora

in corso di costruzione ed altri ancora in fase di

progettazione.

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I limiti di quel modello tipologico sono stati

descritti dell‟Architetto Sergio Lenci, in un suo documento

dattiloscritto ove, a riguardo, si esprimeva così: “ (…)

dopo aver attentamente esaminato lo schema tipologico e

dopo molta riflessione ho ritenuto mio dovere esporre per

iscritto le osservazioni critiche che tale fascicolo -

riproducente due progetti di nuovi istituti penitenziari

concepiti secondo quello schema – mi ha sollecitato. Mio

dovere perché la regressione che, attraverso questi schemi

tipologici, l‟edilizia penitenziaria italiana è portata a

fare, in totale assenza di attenzione da parte di chi di

architettura si occupa, non può rimanere senza commento.

(…)Quegli schemi corrispondono ad uno Stato dispotico ed

assolutista, pre-costituzionale, indifferente ai problemi

della detenzione e preoccupato solo della custodia di un

detenuto reso al massimo grado inerme. (…)Quello schema e

la procedura di realizzazione delle nuove opere con esso

instaurate non sembrano appartenere ad una repubblica

democratica faticosamente in cammino verso un aumento delle

garanzie civili, una riduzione dell‟intrusione del potere

pubblico sulla persona, un‟estensione della fiducia”.

Infatti, anche se nel 1975 aveva visto la luce la

legge di riforma dell‟Ordinamento Penitenziario -

portatrice di una nuova concezione nel modo di concepire la

funzione penale, che si riassume nella funzione

rieducativia e risocializzativa attribuita alla pena del

carcere - sostanzialmente quelle prigioni, come si è potuto

apprendere, rispondevano ancora a caratteristiche

progettuali ispirate esclusivamente o prevalentemente ad

esigenze custodiali e di sicurezza, risultando in questo

modo incoerenti con le nuove esigenze trattamentali.

Un gioco determinante in tal senso l‟ha svolto

inoltre l‟aumento imponente del numero dei detenuti, che ha

frustrato in gran parte, oltretutto, gli orientamenti della

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riforma del 1975 tendenti a favorire più confortevoli

condizioni di vita all‟interno degli istituti.

E‟ solo alla fine degli anni ‟80 del XX° secolo, che i

principi del nuovo Ordinamento vengono recepiti più

marcatamente dall‟Amministrazione nei criteri di

progettazione carceraria, allorchè essa, prendendo atto

che lo imponevano le nuove progredite innovazioni

giuridiche in materia di trattamento penitenziario (legge

Gozzini del 1986), ritenne di adottarli, sia per gli

istituti di nuova costruzione, sia per l‟adeguamento di

quelli in funzione.

Il superamento delle circostanze, che nel recente

passato avevano determinato l‟esigenza di raggiungere

elevati livelli di sicurezza, sembravano consentire di

diminuire gli accorgimenti restrittivi e di aumentare

l‟attenzione per gli spazi di socialità e trattamento, al

punto che la stessa Amministrazione penitenziaria, allora,

poteva esprimersi così:

“(…) sembra inopportuno ed inutile procedere alla

progettazione e costruzione di nuove carceri – in aggiunta

a quelle già progettate o in corso di costruzione -, è

invece necessario migliorare quelle esistenti, ed in

particolare è necessario apportare modifiche strutturali

migliorative sugli istituti di recente edificazione e da

poco in uso, sugli istituti in corso di edificazione e su

quelli i cui progetti sono ancora in fase di elaborazione”.

I criteri di progettazione carceraria allora assunti

dall‟Amministrazione penitenziaria e che erano alla base

delle tendenze evolutive di tutti i paesi civili del mondo,

possono essere sintetizzati nei risultati di una ricerca

condotta nel 1974 dall‟U.N.S.D.R. (United Nations Social

Defence Research)(oggi U.N.IC.R.I.), sulle architetture

penitenziarie del mondo.

Essi sono sinteticamente i seguenti:

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- Riduzione della capienza degli istituti;

- fornitura di servizi che sottolineano modelli di

comportamento che conducano alla reintegrazione nella

comunità;

- migliorare attraverso la ricerca e la conoscenza dei

problemi dei detenuti più difficili;

- disporre strutture di servizi vicino ai centri urbani

che sono all‟origine della delinquenza;

- localizzare eventuali strutture di servizio entro

sistemi aventi possibilità di programmi diversi;

- incoraggiare la partecipazione della comunità nella

reintegrazione dei soggetti;

- inserire criteri progettuali che prevedano

l‟occupazione e dividere i luoghi di lavoro dagli ambienti

residenziali;

- suddividere i detenuti in gruppi, in modo da poter

effettuale più facilmente programmazioni differenziate;

- utilizzare tecnologie di controllo che non inficino il

trattamento riabilitativo;

- assumere come caratteristica principale della

progettazione la flessibilità, in modo che i servizi

forniti siano adattabili alle esigenze di un sistema

suscettibile di modificazioni;

- fornire gli istituti di spazi disponibili per varie

attività, colloqui, ecc. per gruppi piccoli e grandi;

- progettare le aree per il personale vicine a quelle

per i detenuti, per incrementare i contatti;

- organizzare gli spazi ed il movimento interni, in modo

che l‟individuo possa facilmente partecipare ai programmi;

- situare gli spazi destinati ai programmi vicini alle

unità residenziali, in modo da ridurre il più possibile la

sorveglianza dei movimenti e da aumentare l‟accessibilità

ai programmi;

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- stabilire zone differenziate per la sicurezza interna,

per non assoggettare tutta la popolazione carceraria alle

misure di sorveglianza e di controllo necessarie per alcuni

e non per altri.

I nuovi orientamenti progettuali dell‟Amministrazione

penitenziaria, vennero riassunti nel 1989 in una circolare

ministeriale intitolata: “Criteri per una moderna edilizia

penitenziaria”.

In quella circolare, l‟Amministrazione, dopo aver

descritto lo stato dell‟arte della produzione edilizia

penitenziaria degli ultimi venti anni, deplorava i limiti e

le carenze delle strutture realizzate, dal punto di vista

della funzionalità, dei costi di realizzazione e della

qualità architettonica.

Essa inoltre lamentava la manchevolezza dei contributi

offerti dagli specialisti-progettisti, in quanto, secondo

il suo pensiero, essi si erano limitati ad elaborare

progetti riproducendo in modo semplicistico gli schemi

funzionali-distributivi da lei elaborati, trascurando la

ricerca e la interpretazione personale dell‟elaborato.

Più precisamente in quella circolare, nella quale

venivano definiti i criteri generali secondo i quali si

sarebbero dovute conformare le realizzazioni future,

peraltro in assenza di schemi progettuali esemplificativi,

l‟Amministrazione prescriveva di:

- Concepire strutture alquanto flessibili, tali da poter

essere modificate ed adattate nel tempo facilmente e senza

sconvolgere l‟impostazione originaria dell‟opera;

- privilegiare la funzionalità , gli spazi per il

trattamento, l‟estetica, la cromaticità degli ambienti;

- dotare l‟istituto di adeguati locali per lo svolgimento

delle attività lavorative, didattiche, rieducative,

ricreative, ecc., organizzate secondo uno schema che

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consenta al detenuto l‟impiego di tutta la giornata o quasi

fuori dai dormitori;

- adottare tipologie che consentano al massimo gli

investimenti e razionalizzino le strutture in modo tale da

limitare le spese di gestione, soprattutto per quanto

riguarda l‟impiego del personale di custodia;

- impiegare, per le tecniche costruttive, tecnologie e

materiali che da una parte mirino all‟economicità

dell‟intervento, ma dall‟altra non trascurino la qualità

dei singoli materiali impiegati, la percezione estetica, il

confort abitativo, la flessibilità interna ed esterna.

- privilegiare i processi cantieristici industrializzati, a

scapito della prefabbricazione;

- limitare l‟uso della prefabbricazione alla sola

costruzione di magazzini, laboratori e servizi vari;

- adottare l‟uso di sistemi misti (elementi prefabbricati +

elementi tradizionali) per la costruzione di alloggi di

servizio, caserme e dormitori detenuti che “consentono di

sfruttare le moderne tecnologie, in grado di abbassare

tempi e costi di costruzione e di impiegare materiali

tradizionali più carichi di valori umani e affettivi, in

grado di assicurare risultati cromatici ed estetici

senz‟altro più soddisfacenti”.

Con questo elenco di prescrizioni riferite alle

dotazioni spaziali legate alle esigenze trattamentali ed

alla qualità delle strutture e degli ambienti,

l‟Amministrazione si adeguava a distanza di anni, almeno

nelle intenzioni, a quanto prescritto, in proposito, nella

legge di Riforma dell‟Ordinamento Penitenziario del 1975 e

nel suo Regolamento di attuazione del 1976.

Locali di soggiorno e pernottamento, igiene personale,

permanenza all‟aperto, servizio sanitario, colloqui,

istruzione, lavoro, religione e pratiche di culto, attività

culturali ricreative e sportive e isolamento, venivano a

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costituire gli elementi vecchi e nuovi di una

organizzazione spaziale delle strutture, rinnovata e

riformata.

Quanto poco l‟azione, poc‟anzi descritta,

dell‟Amministrazione penitenziaria, abbia inciso sulla

qualità degli spazi carcerari è rilevabile dalla profonda

discrepanza che ancora esiste, nel nostro sistema

penitenziario , tra l‟elevato livello di civiltà giuridica

raggiunto nei codici e la drammatica arretratezza della

qualità architettonica degli edifici penitenziari.

IL CONCORSO DI IDEE

Motivazioni

Quanto sin qui esposto, rappresenta sinteticamente lo

stato dell‟arte dei principi e delle modalità secondo le

quali l‟Amministrazione penitenziaria era andata

realizzando i suoi istituti penitenziari, nei decenni

precedenti, allorquando si apprestò a redigere il bando del

Concorso in materia.

Quell‟iniziativa, a ben vedere, poteva far sperare in

una nuova stagione di soluzioni spaziali, non solo

coerenti ed adeguate alle finalità della pena riformata, ma

anche, più in generale, attente ai valori universali

dell‟Architettura, finalmente insediati a pieno titolo nel

carcere.

Le motivazioni che hanno indotto l‟Amministrazione

penitenziaria a ricercare nuovi modelli spaziali, almeno

stando all‟analisi prodotta dalla stessa Amministrazione,

in occasione della mostra dei progetti ammessi, vanno

ricercate nel fatto che la progettazione degli istituti

penitenziari si era sostanzialmente fermata ai modelli

tipologici elaborati nel corso degli ultimi tre decenni e

applicati, su scala nazionale, per la costruzione dei nuovi

complessi in base al Regolamento Penitenziario del 1976 e

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con le modificazioni introdotte, per l‟aumento del grado di

sicurezza, durante gli anni del terrorismo e della

recrudescenza mafiosa.

Da un monitoraggio effettuato nel 1997

dall‟Amministrazione penitenziaria, sulle condizioni delle

carceri nell‟intero territorio nazionale, scaturiva

l‟immediata esigenza di aggiornare l‟impostazione

progettuale, per meglio aderire ai requisiti istituzionali

e ai contesti territoriali.

L‟emanazione poi, del nuovo Regolamento Penitenziario

con il D.P.R. 230/2000, che accentuava l‟indirizzo di

struttura “risocializzante” dell‟istituto penitenziario,

imponeva, da parte dell‟Amministrazione penitenziaria, un

momento di riflessione sulle trasformazioni, non solo

funzionali, del carcere.

Non di meno emergeva il bisogno di recepire, da parte

dell‟Amministrazione, l‟evoluzione delle tecnologie, nel

campo dell‟elettronica e dell‟energia, in rapporto alle

parallele e connesse esigenze di aumentare i gradi di

efficienza e di economicità della “macchina penitenziaria”.

Ma anche altri aspetti progettuali, a detta della

stessa Amministrazione, dovevano essere rivalutati quali,

ad esempio, una maggiore attenzione al dimensionamento e

alla qualità architettonica e funzionale delle caserme,

degli alloggi per il personale, degli uffici, degli edifici

per le attività rieducative, sviluppando modelli modulari,

applicabili sull‟intero territorio, ma contemporaneamente

in grado di corrispondere meglio alla varietà di situazioni

oggettivamente riscontrabili nel patrimonio edilizio

consolidato e in quello da costruire.

Da tutto ciò, scaturiva l‟impulso di proiettare la

ricerca di contributi intellettuali anche fuori

dell‟Amministrazione, attraverso il concorso di idee,

aprendo l‟Istituzione penitenziaria “(…)anche ai contributi

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ideali della società civile, ricercando una progettualità a

trecentosessantagradi”.

Quel Concorso fu pertanto presentato dalla stessa

Amministrazione, come la prima iniziativa di una precisa

volontà di un suo aprirsi all‟esterno in materia di

progettazione carceraria.

Contenuti

Ai concorrenti si richiedeva un modello di istituto

penitenziario che, “interpretando i nuovi dettami normativi

regolamentari, consentisse un trattamento qualificato del

detenuto sotto il profilo delle opportunità di istruzione,

lavoro e formazione professionale, attività culturali,

ricreative e sportive. Tutto ciò indirizzato, da una parte,

a migliorare la qualità della vita all'interno

dell'istituto e, dall'altra, ad assicurare l'espletamento

delle attività trattamentali finalizzate al recupero e

reinserimento sociale dei detenuti, senza trascurare la

necessità di realizzare la migliore economia nell'impiego

delle risorse umane nella fase gestionale e il

miglioramento e potenziamento dell'edilizia abitativa e

delle strutture alloggiative per il personale”.

In sostanza si richiedeva di superare soluzioni

spaziali ancora troppo condizionate dalla funzione di

neutralizzazione della prigione, consistente unicamente nel

rinchiudere per proteggere la collettività, per approdare

ad un nuovo modello architettonico coerente con le finalità

della pena riformata e capace di soddisfare indistintamente

i bisogni dell‟intera comunità carceraria.

Il bando di gara specificava che i prototipi

presentati dovevano essere necessariamente “originali ed

inediti”.

Essi sarebbero stati valutati dalla commissione

esaminatrice secondo i parametri di rappresentatività,

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originalità della soluzione, funzionalità e fattibilità,

grado di ottimizzazione dell‟impiego del personale di

sorveglianza, cioè secondo una scala di valori,

corrispondente all‟idea che un istituto penitenziario per

funzionare debba essere adeguato alle finalità della pena e

alle risorse dell‟Amministrazione che lo ha in carico.

Progetti

Complessivamente, i progetti che ho visionati,

peraltro quelli presso il D.A.P. in modo affrettato ed

approssimativo, per le circostanze che ho illustrato , ad

esclusione di quello dell‟Architetto Ruggero Lenci , sono

risultati estemporanei e non all‟altezza delle più evolute

realizzazioni carcerarie internazionali contemporanee.

Mettere, in modo acritico, al centro della

progettazione carceraria il rispetto della norma e

l‟eccellenza delle soluzioni architettoniche mediate da

altri contesti , non è sufficiente per sconfiggere la

disumanizzazione della prigione, ne tanto meno per farla

funzionare secondo le aspettative.

Quei progetti, pur riflettendo lo sforzo, da parte dei

loro autori, di realizzare soluzioni architettoniche per la

pena riformata e una migliore qualità di vita e di lavoro

all‟interno del recinto carcerario, non sembrano tenere in

debita considerazione gli aspetti critici e drammatici che

caratterizzano l‟universo carcerario.

Se vogliamo, a discolpa degli autori di quei progetti,

a questo proposito, va rilevato che non venne loro

illustrata preventivamente, da parte dell‟Amministrazione,

la drammatica realtà dell‟universo carcerario, presupposto

questo fondamentale per una progettazione consapevole.

Per un programma di natura penitenziaria, tacere le

“sottoculture della prigione”, il fenomeno della

“prigionizzazione”, l‟inflazione dell‟incarcerazione, le

19

carenze del reinserimento, il sovraffollamento galoppante,

le aggressioni e l‟aumento del numero dei suicidi – tra i

detenuti come tra i sorveglianti – , la carenza del

personale e delle risorse economiche, la burocratizzazione

della gestione, etc., rileva come minimo una miopia

culturale, oltre che una irresponsabilità sociale.

In altre parole, pretendere che si affronti la

progettazione di un carcere, non illustrando e chiarendo

quegli aspetti, significa o non volere che si capisca il

problema o non avere intenzione che lo si risolva.

Una ulteriore considerazione mi induce ad affermare

che, facendo ricorso, attraverso il concorso di idee, ai

contributi ideali ed intellettuali dei professionisti

esterni, l‟Amministrazione abbia sottovalutato, ovvero

abbia trascurato, il fatto che nel nostro Paese – come già

ho avuto modo di illustrare - la cultura architettonica

sostanzialmente non si occupi di carcere e che pertanto i

progettisti non siano adeguatamente attrezzati per

affrontare una siffatta materia.

In quella decisione si coglie in pieno il limite di

una realtà amministrativa che, strutturalmente isolata

nell‟ideazione dell‟edilizia che gli era propria – quella

penitenziaria appunto - si sbagliava, pensando di potersi

avvalere di competenze professionali esterne, per la

soluzione dei suoi problemi.

Le modalità da adottare e le forze da mettere in

campo, per acquisire spunti per nuovi modelli di istituti

penitenziari, più coerenti con le finalità della pena

riformata e capaci di fare proprie le qualità delle

migliori espressioni architettoniche, sarebbero dovute

essere altre.

Penso ad esempio alla realizzazione di un laboratorio

di progettazione interdisciplinare, dove, agli architetti e

agli ingegneri dell‟Amministrazione, affiancare architetti

20

esterni , anche stranieri, selezionati tra quelli più

qualificati e socialmente sensibili.

I vantaggi ed i frutti di una simile operazione sono

evidenti e non richiedono spiegazioni.

Di fronte all‟esito degli eventi , sono purtroppo

costretto a definire fallimentare quell‟esperienza

concorsuale e ritenere vanificata ogni speranza di

riscatto.

Di seguito passo ad illustrare – seppure in forma

schematica – solamente i due progetti vincitori e il

progetto non classificato dell‟arch. Ruggero Lenci.

“La città ristretta 2001”

In questo progetto, che è uno dei due dichiarati

vincitori, viene proposta una soluzione tipologica

derivata dall‟edilizia residenziale urbana.

L‟istituto penitenziario è stato inteso come una sorta

di “villaggio, autosufficiente, munito di propria identità

culturale e sociale”, configurato formalmente come una

sorta di quartiere residenziale, dotato di ampi spazi a

verde urbano attrezzato, aree sportive, orti agricoli, uno

specchio d‟acqua, il tutto circondato dal muro di cinta.

Per gli agenti della Polizia Penitenziaria, è previsto

un complesso residenziale esterno con case a schiera e

piscina.

Reputo la soluzione proposta di difficile gestione,

dal punto di vista strettamente penitenziario e

velleitaria, per il fatto di fondarsi sull‟assunto che

considera la forma urbana e l‟elemento naturale come

rimedi certi, per sconfiggere e scongiurare la consueta

disumanità del carcere.

Il concetto di recupero della città nell‟ambiente

carcerario, come strumento di stimolo e di qualificazione

della vita comunitaria dei detenuti, nella prospettiva di

21

un ricongiungimento della situazione carceraria con quella

esterna, presenta alcuni precedenti storici.

Già in passato era stato adottato dalla stessa

Amministrazione penitenziaria – che lo aveva assunto come

paradigma della Riforma dell‟Ordinamento Penitenziario del

1975 per la progettazione di alcuni istituti, affidata a

professionisti esterni (vedasi ad esempio il Carcere di

Solliciano).

Nel volume intitolato “La Prigione in Italia: storia,

evoluzione, prospettive”, prodotto dal Ministero di Grazie

e Giustizia nel 1990, in merito a questo specifico tema si

esprimevano questi concetti: “(…)L‟asse viario di

comunicazione tra i vari settori , costituisce l‟elemento

portante della viabilità pedonale, collegante le sezioni di

detenzione con tutti quegli organismi polifunzionali in cui

si esplicano il trattamento, l‟istruzione, le attività

lavorative e di svago, nonché gli incontri con le famiglie,

gli avvocati e i magistrati e tutta la comunità libera, che

corrispondono a vere e proprie zone attrezzate che nel

loro insieme sono di gran lunga più estese ed importanti

dei blocchi di detenzione. Rilevante importanza assume, dal

punto di vista psicologico, la diversità degli ambienti a

seconda della loro specifica destinazione d‟uso, evitando

l‟uniformità morfologica delle strutture ed integrando gli

edifici in ampi spazi verdi in modo da costituire una certa

varietà di esperienza visiva”.

Sempre sull‟argomento, è doveroso ricordare che fu

l‟architetto Sergio Lenci ad introdurre per primo in

Italia, nella progettazione carceraria, il tema della

metafora urbana, quando negli anni ‟60 progettò il carcere

romano di Rebibbia.

Lenci, avendo a disposizione un‟area abbastanza vasta

– come egli stesso descrive - cercò di “(…) articolare gli

spazi così da collegare alla struttura dei servizi

22

comunitari (accettazione, colloqui – molto importanti -,

cucina, scuola, infermeria, assistenti sociali, specialisti

di vario genere, chiesa cinema, biblioteca ecc.) il sistema

dei padiglioni, diciamo residenziali, smistati da un

sistema di gallerie concepite come strade interne.

Attraverso prospettive variate, esse vengono caratterizzate

in alcuni punti così da riproporre – in un certo senso –

per chi vive dentro e per chi le percorre, quella varietà,

quella diversificazione di spazi, di tessitura e di vincoli

che la città offre a chi la percorra dal centro alla

periferia”.

Oltre un decennio dopo, altri architetti (Campani,

Inghirani, Mariotti ) pensarono ad un carcere inteso come

un “brano di città”, quando progettarono il nuovo carcere

di Sollicciano.

In occasione di una intervista fatta loro da Giovanni

Michelucci – a proposito del progetto – essi dissero che il

maggior rischio, che a loro sembrava, fosse quello di farne

una cittadina autosufficiente che ripetesse, al suo

interno, la struttura urbana, ma risultasse poi avulsa

dalla città reale.

Portavano come esempio di un possibile coinvolgimento

della città da parte del carcere, il fatto che in quel

progetto, la chiesa e il cinema potevano e dovevano essere

usufruiti anche dall‟esterno, perché, appena il regolamento

lo avesse permesso, il carcere potesse gravitare nella

stessa orbita culturale della città.

Soluzioni spaziali queste, che si sono scontrate, tra

il resto, con le svariate e croniche emergenze

penitenziarie (sovraffollamento, mancanza di personale,

ecc.), che ne hanno vanificato le modalità di utilizzo

originarie.

Il progetto “La città ristretta 2001” è stato premiato

per le seguenti motivazioni:

23

per aver proposto un prototipo di carcere che

interpreta appieno le finalità della rieducazione

dell‟individuo attraverso un ambiente costruito in grado di

trasmettere valori positivi, propri degli spazi urbani;

per aver interpretato un‟idea di continuità spaziale

ed organizzativa tra il “dentro” e il “fuori” incentivando

le relazioni con la società civile;

per il concetto di modularità ed adattabilità del

modello alle diverse realtà geografiche, ipotizzando una

progettualità di dettaglio degli elementi di fabbrica

coerente con le specificità culturali ed architettoniche

dei luoghi;

per aver riportato all‟interno del carcere la

configurazione degli spazi aperti e la cultura

dell‟elemento naturale: l‟acqua e il verde;

per la completezza della trattazione di tutti gli

aspetti di funzionalità e la qualità degli spazi per la

vita e la residenza del personale;

per la qualità architettonica complessiva della

proposta in grado di offrire spunti di forte innovazione

all‟Amministrazione.

“Comb 2”

Nel secondo progetto vincitore, la proposta appare più

facilmente riconducibile alle tipologie carcerarie

consuete, in quanto – per la zona detentiva – essa evoca

soluzioni spaziali consolidate dell‟architettura

penitenziaria anglosassone del secondo dopoguerra, la dove

si è abbandonata la tradizionale configurazione delle celle

contrapposte lungo un corridoio centrale, per far posto per

lo più a due ordini di celle, servite da ballatoio,

prospicienti ad una sala centrale a tutta altezza, dotata

di posto di guardia su galleria sopraelevata.

24

La tipologia adottata può essere definita “a palo

telegrafico compatto”.

Il complesso è concepito come una struttura autonoma,

incentrato su unità di base disposte intorno ad un grande

spazio aperto, prospicienti i cortili che distribuiscono

alle funzioni quotidiane, della didattica, dei laboratori,

delle attività sportive e ricreative.

Disposte secondo il programma , la struttura proposta

vede la presenza di tutte quelle funzioni che ne completano

l‟articolazione, come il reparto nuovi giunti, il reparto

di isolamento, gli uffici amministrativi, ed all‟esterno

del muro di cinta il reparto dei semiliberi e gli alloggi

degli ufficiali e sottoufficiali di servizio.

L‟immagine architettonica e di landscape della

costruzione, la definiscono come un fatto architettonico

fisicamente estraneo ad ogni contesto localizzativo.

A questo riguardo, osservo che le soluzioni formali

adottate per il muro di cinta e per gli edifici che lo

compongono, sono portatrici dei valori estetici di una

architettura minimalista e high-tech, che tendono a

trasformare l‟edificio in un oggetto scultoreo e che se

applicati all‟edificio carcerario, rischia l‟effetto

“bunkerizzazione” , a scapito di ogni possibilità di un suo

riscatto umanizzante.

Questo progetto è stato premiato per le seguenti

motivazioni:

per aver proposto un prototipo di carcere che

interpreta sapientemente l‟organizzazione degli spazi

abitativi e la complessità delle relazioni tra i detenuti e

tutti gli operatori di controllo, di rieducazione e di

servizio che costituiscono la “comunità carceraria”;

per aver proposto una struttura formale che permette

di rispecchiare una concezione dinamico-evolutiva del

recupero del detenuto.

25

La serie di motivazioni, riferite ai due progetti

vincitori, si configura, a mio avviso, come retorica

elencazione di requisiti, peraltro irraggiungibili stando

le cose come stavano, ad opera di una Amministrazione che,

di fronte al problema reale di affrontare e di gestire, sul

piano dell‟organizzazione spaziale del Carcere, la

difficile attuazione delle istanze riformatrici, preferiva

autocelebrarsi, piuttosto che mettere in chiaro gli aspetti

drammatici del problema.

“L’ombra verde dell’attesa 3210”

Un capitolo a parte, come già accennato, è costituito

dal progetto dell‟Architetto Ruggero Lenci, in quanto si

pone – in particolare per quanto concerne la soluzione

proposta per l‟”unità di vita” (leggi sezione detentiva) -

come l‟evoluzione delle idee progettuali che erano alla

base del progetto del padre Sergio, per il carcere di

Rebibbia.

La soluzione proposta che si configura, a mio parere,

come espressione matura delle tecniche penitenziarie e

conscia delle problematiche del vivere in cattività, è

collocabile a pieno titolo nel solco dell‟innovazione

architettonica penitenziaria nazionale.

Il prototipo presentato mira a realizzare un

padiglione detentivo ibrido, nel quale possa avere luogo

sia la custodia che il trattamento e dove “i gruppi di

detenuti trovino un rapporto di tipo familiare con la casa

che li dovrà ospitare con gli altri individui”.

A tal fine il progetto evita schemi aggregativi

seriali nei quali il detenuto potrebbe smarrire la propria

identità, basandosi invece sull‟idea di uno stellare

irregolare, innovativo, che produce un impianto

architettonicamente qualitativo, che sia funzionale,

fattibile e tale da richiedere un esiguo numero di guardie

penitenziarie per la sorveglianza.

26

Venendo agli aspetti della fruibilità e della

vivibilità, l‟obiettivo dell‟autore è stato quello di

accorpare le diverse parti che compongono l‟istituto così

da formare entità autonome, totalmente vivibili e

autosufficienti.

Le funzioni contenute all‟interno del prototipo sono

state distribuite in modo da risultare perfettamente

fruibili sia dai detenuti che dalle guardie penitenziarie

nei modi richiesti dalla normativa, nonché vivibili in modo

ottimale sia per la qualità che per la quantità degli

spazi, nonché per le caratteristiche di illuminazione

naturale e per la varietà delle visuali esterne delle

superfici a verde.

Per quanto riguarda il rispetto delle normative di

sicurezza e dei regolamenti vigenti il progetto opta per

l‟inserimento di scale di sicurezza sulle testate dei

bracci dei padiglioni, al fine di rendere possibile

l‟evacuazione in caso di un incendio, attraverso l‟adozione

di un ponte mobile incernierato sulla scala che, per mezzo

di martinetti idraulici, si ribalta e chiude la scala

stessa.

CARCERE E FORMA URBANA

L‟esposizione sino ad ora fatta delle vicende

istuzionali legate all‟adeguamento della concezione

spaziale degli istituti penitenziari in chiave umanizzante

e risocializzativa, insieme al racconto ed all‟analisi

della vicenda concorsuale, portano alla ribalta alcune

delle conquiste, ma anche alcuni degli impedimenti sul

fronte dell‟attuazione della Riforma dell‟Ordinamento

penitenziario del 1975.

Limitarsi unicamente agli aspetti edilizi dell‟i

istituto penitenziario della Riforma non è però

sufficiente per avviare qualsivoglia ragionamento sulla

nuova forma che il carcere deve assumere, in quanto bisogna

andare oltre per ragionare su come il Carcere, con una

27

inedita varietà di strutture, possa fisicamente articolarsi

sul territorio.

La presa in carico, all‟interno degli istituti

penitenziari, delle istanze risocializzative della pena,

deve passare anche attraverso una nuova forma di città, il

che significa concretamente realizzare una rete di edifici

a supporto dell‟azione trattamentale finalizzata, la dove

ciò sia possibile, al reinserimento nella società del

detenuto, oltre il recinto carcerario e ad esso connessi e

funzionali.

L‟idea di un tale sistema di edifici si basa

inevitabilmente sul binomio carcere/città.

Il rapporto della forma del carcere con la forma della

città, inteso come lo stretto legame funzionale tra

l‟Istituto penitenziario e la molteplicità delle strutture

a sostegno del trattamento penale, collocate sul territorio

circostante, rimanda alle prospettive offerte dalla

normativa vigente in materia di esecuzione penale e di

assistenza sociale, che a partire dalla Riforma

dell‟Ordinamento Penitenziario del 1975, hanno sancito il

principio di un carcere aperto alla realtà sociale esterna

e che vede affiancato all‟Amministrazione penitenziaria,

nell‟esecuzione penale, l‟Ente locale alle diverse scale

territoriali (Regione, Provincia e Comune).

Sintetizzando, all‟Ente locale si sono offerti tre

distinti settori di intervento, tra loro strettamente

collegati:

funzioni di prevenzione e rimozione delle cause sociali

e individuali della criminalità, cioè la predisposizione

di mezzi e di servizi rivolti soprattutto ai giovani,

per correggere ed eliminare gli squilibri di carattere

economico e ambientale che costituiscono potenti

incentivi alla delinquenza minorile;

28

interventi all‟interno del carcere relativi, da un lato,

all‟assistenza sanitaria e alla formazione artigiana e

professionale, allo studio, dall‟altro, a forme di

collegamento tra comunità carceraria e società libera,

al fine di favorire il reinserimento sociale dei

detenuti;

assistenza all‟esterno del carcere alle famiglie dei

detenuti, ai dimessi dal carcere , ai condannati a

misure alternative alla detenzione.

Secondo queste premesse il concetto di “carcere e

forma urbana” verrebbe a concretizzarsi, sin dalle origini

della Riforma, in una serie di strutture funzionali al

trattamento penitenziario rappresentate dalle strutture

detentive e dalle strutture alternative alla detenziaone,

che collocate sul territorio ne determinano in qualche modo

la forma e la struttura .

Può essere utile a questo proposito, per comprendere

meglio la natura indissolubile del rapporto che esiste tra

carcere e forma urbana, citare quanto Giovanni Michelucci

ebbe a dire a proposito della costruzione di un carcere: “

(…)non lo costruirei, lo farei fare a un altro. In questo

caso la mia vigliaccheria arriverebbe fin qui. A meno che

non mi facessero costruire un intera città”.

Prima di lui, l‟architetto Guido Canella, sulla fine

degli anni ‟60 del „900, nelle sue lezioni alla Facoltà di

architettura del Politecnico di Milano, delineava,

anticipando i contenuti della riforma del ‟75, soluzioni

spaziali che andavano oltre le mura del carcere per

estendersi alla città e alla collettività, come corpo

suscettibile di un effettivo reinserimento del detenuto.

Un esempio in tal senso, fra tutti, fu l‟ipotesi

avanzata di riconversione del Carcere di San Vittore a

Milano quale sede di attrezzature di vita associativa

(culturali, sportive, ecc.) di cui risultavano carenti le

29

scuole secondarie superiori, così che – affermava Canella –

“proprio in forza di un fattore di massima socializzazione,

si offrirebbe la condizione più idonea di reinserimento e

occupazione per i dimessi dalle istituzioni totali”.

Sulla base degli stessi criteri, negli anni ‟90 del

„900, alcuni miei studenti della facoltà di Architettura

del Politecnico di Torino, si sono cimentati nella

progettazione di strutture urbane destinate all‟accoglienza

di detenuti semiliberi e di ex detenuti con problemi di

integrazione sociale.

Si identificarono a questo scopo, in Torino ed in

altre città piemontesi, una serie di edifici comunali

dismessi di media dimensione, quali scuole elementari

periferiche, bagni pubblici, residenze, etc., per

trasformarli in strutture di accoglienza diurne e notturne

e centri di servizio per l‟informazione e l‟orientamento

nel campo del lavoro, della tutela dei diritti, della

consulenza medica e legale.

Purtroppo le modalità secondo le quali nel nostro

Paese si è continuato ad operare in materia di edilizia

penitenziaria, nel corso dei decenni che ci separano dal

varo della legge di Riforma dell‟Ordinamento penitenziario,

non mi consentono di citare esempi concreti.

Sulla questione, ritengo calzante questa

considerazione che alcuni anni or sono fece l‟architetto

Canella, parlando dei nuovi carceri che si andavano

costruendo in Italia: “ (…)si ravvisa la divaricazione tra

la più recente edilizia penitenziaria, rimasta ispirata a

un regime sempre più introverso, bloccato e

territorialmente emarginato, e quel dibatto, pur

frequentato dagli stessi operatori, reso ormai consapevole

delle patologie del sovraffollamento e dell‟impraticabilità

di una riabilitazione attraverso la rieducazione in

cattività, e quindi della necessità di una radicale

30

decarcerizzazione di cui il progredire delle scienze

sociali e della tecnologia fanno intravedere decisive

potenzialità”.

Sin tanto che l‟edificio carcerario continuerà ad

esistere, sono convinto che l‟edificio che deve rinchiudere

uomini, possa comunque contenere in se elementi poetici e

qualità architettonica, come qualsiasi altro edificio, in

aggiunta ai valori tecnici e funzionali richiesti dalla

funzione per la quale è stato progettato.

A sostegno di questa affermazione, fra tutte le

realizzazioni carcerarie dei pochi ma valenti architetti

italiani che nel recente passato si sono cimentati in

questo difficile tema, prendo ad esempio il “Giardino degli

incontri” dell‟architetto Giovanni Michelacci, costruito

nel carcere di Solliciano, anche per le modalità corali

secondo le quali è stato progettato e realizzato.

Concludo dichiarando che ritengo doveroso, che

l‟Architettura, che è tale solo se porta in se i valori

universali dell‟umanità, le qualità e le conoscenze

favorevoli al benessere dell‟individuo, scenda in campo

rivendicando, attraverso i suoi artefici, il suo

diritto/dovere di contribuire, insieme agli altri, a

risolvere i problemi di quanti, “vittime e carnefici”, nei

nostri istituti penitenziari, soffrono a causa di scelte

impoverite ed anacronistiche di altri.

* Cesare Burdese è un architetto libero professionista. E‟ stato

cofondatore dell‟osservatorio sul carcere a Torino con Angelo

Pezzana, Gianni Vattimo, Sergio Segio, Susanna Ronconi e altri

nel 1986. Già componente della Commissione Tecnico Consultiva di

promozione socio-culturale dei problemi del Carcere presso il

Comune di Torino dal 1991 al 1995, già componente del gruppo

Edilizia penitenziaria della Commissione Tecnico Consultiva

della Regione Piemonte sino dal 1995. Dal 1990 è correlatore di

tesi di laurea in Architettura ed Ingegneria, a Torino e

Venezia, sul tema dell‟edilizia penitenziaria. E‟ invitato a

31

livello universitario a tenere lezioni sul tema dell‟edilizia

penitenziaria; nel corso dell‟anno accademico 2009/2010 ha

tenuto lezione presso: Politecnico di Torino facoltà di

Ingegneria, Politecnico di Torino facoltà di Architettura; nel

maggio 2010 e‟ stato docente al Corso di Perfezionamento “Mario

Oreglia” presso il Politecnico di Torino DISET sul tema

dell‟umanizzazione del

carcere. Ha curato l‟organizzazione del convegno “Umanizzazione

del carcere” tenutosi nel 1995 presso il Politecnico di Torino.

Ha curato la mostra del “ Progetto del Giardino degli incontri”

di Giovanni Michelucci a Torino nel 1995. E‟ stato promotore

dell‟iniziativa e curatore della mostra “Arte Contemporanea al

Ferrante Aporti” all‟Istituto Minorile Ferrante Aporti di

Torino. E‟ stato promotore e relatore del convegno “

Architettura e Carcere” organizzato dalla Fondazione Michelucci

a Fiesole nel 1997. Ha elaborato con l‟Architetto Leonardo

Scarcella e la Dottoressa Assunta Borzacchiello del D.A.P. il

progetto per una “Mostra itinerante della storia del Carcere”.

Ha ideato l‟iniziativa ARTECONTEMPORANEA AL FERRANTE APORTI nel

1996.Regione Piemonte - Un‟esperienza di sensibilizzazione ai

problemi della devianza e della criminalità in alcune Scuole

Medie Superiori – Torino 1993. E‟ l‟ideatore, con l‟Accademia

Albertina di Belle Arti di Torino, del laboratorio

ARTECONTEMPORANEA AL FERRANTE APORTI II in corso di definizione.

E‟ stato relatore al seminario sull‟Architettura Penitenziaria

presso la Fondazione Giovanni Michelucci di Fiesole nel 1998.

E‟ stato relatore al seminario sull‟Architettura Penitenziaria

presso la Casa Circondariale di Solliciano (Fi) nel 2009. In

ambito carcerario ha svoltola seguente attività progettuale:

Centro per la Giustizia Minorile Ferrante Aporti di Torino

Progetto della riorganizzazione e della riqualificazione

spaziale; Casa Circondariale Le Vallette di Torino Progetto del

Giardino delle visite; Casa Circondariale Lorusso e Cutugno (già

Le Vallette) di Torino Nuova sezione detenute/mamme con bambini

(ICAM).

NOTE AL TESTO

(1)L'articolo 30 della Legge 395/1990 ha istituito il

Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.) al

quale, tra gli altri fanno capo, la Direzione generale delle

risorse materiali, dei beni e dei servizi, suddivisa in quattro

Uffici, articolati in servizi, sezioni e settori, in relazione

all‟attribuzione delle varie competenze. Di questi l‟ufficio IV

ha competenze in materia di edilizia penitenziaria e

residenziale di servizio. In particolare: cura la gestione

tecnica degli immobili e di manutenzione dei fabbricati,

collabora con il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti

nelle attività finalizzate alla costruzione di nuovi istituti

penitenziari , gestisce ogni profilo tecnico e di progetto

riguardante le ristrutturazioni e la realizzazioni di nuovi

padiglioni all'interno di strutture detentive già assegnate in

uso governativo all'Amministrazione penitenziaria, fornisce un

supporto tecnico all'ufficio contratti nella predisposizione

delle procedure di gara nei contratti di edilizia.

(2) Il bando è stato pubblicato a cura del DAP sulla Gazzetta

Ufficiale della Repubblica Italiana in data 14-4-2001 fogli

32

delle inserzioni n. 88. Il testo integrale del bando era

disponibile all‟epoca all‟indirizzo internet www.giustizia.it e

presso l‟amministrazione. Dai contatti presi con alcuni dei

partecipanti, ho appreso che essi, al momento della

partecipazione al concorso, o erano all‟inizio della loro

professione o non avevano precedentemente mai affrontato

l‟argomento del carcere e che non hanno successivamente avuto

più occasione di progettarne uno. La commissione esaminatrice

era così composta: Presidente:Giovanni Salamone provveditore

regionale dell'amministrazione penitenziaria della

Liguria;Eugenio Arbizzani docente della facoltà di architettura

dell'università La Sapienza di Roma;Leonardo Acquaviva

rappresentante del Consiglio nazionale degli ingegneri;Luigi

Cotzia rappresentante del Consiglio nazionale degli

architetti;Ettore Barletta funzionario tecnico, architetto, del

Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria. I progetti

premiati ex aequo furono quelli dello Studio Fagnoni &

associati di Firenze con il progetto intitolato “La città

ristretta 2001” e dello Studio Ap+st Architettura di Roma con

il progetto intitolato “Comb 2”; i progetti menzionati furono

quelli dello studio Delfini di Roma con il progetto intitolato

“Sicurezza e vivibilità” e dello studio PLANARCH S.r.l. con il

progetto intitolato “Fortes et firmi carceres construantur

1229”. La mostra è stata curata dall‟architetto Ettore Barletta,

dal geometra Massimo Guglielmi, dal Geometra Giampaolo Robert e

dall‟ingegnere Alessandro Iaquilino in forza al DAP; le

strutture espositive sono state realizzate dalla falegnameria

del carcere romano Rebibbia N.C.; la mostra è stata aperta al

pubblico dal 9 al 22 giugno 2005.

(3) Alla fine degli anni ‟60 del secolo scorso, possiamo

ravvisare traccia di un impegno accademico di breve periodo sul

carcere: quello degli Architetti Guido Canella e Sergio Lenci

oltre a Ernesto Nathan Rogers, protagonisti e anticipatori nel

dibattito culturale nazionale ed internazionale sui temi

dell‟Architettura carceraria. Negli anni ‟90 inizia la mia

attività didattica e di ricera sui temi dell‟edilizia

penitenziaria presso la facoltà di Architettura del Politecnico

di Torino.

(4) Con le leggi di finanziamento emanate dal 1949 e il 1977,

sono stati realizzati 65 complessi; alcuni di essi sono il

frutto di esperienze di una progettazione innovativa che ha

rielaborato criticamente la tipologia tradizionale del

carcere.Tra i progettisti “innovatori” più significativi, che

hanno progettato carceri per conto dell‟Amministrazione

penitenziaria, si citano: Mario Ridolfi, Sergio Lenci, Pasquale

Carbonara, Saul Greco e il gruppo Mariotti.

(5) Al periodo pre-unitario risalgono il Concorso internazionale

per la costruzione del carcere centrale di Alessandria e il

Concorso per le carceri giudiziarie di Torino e Genova.

33

TAVOLE GRAFICHE FUORI TESTO

“La città ristretta 2001”

34

TAVOLE GRAFICHE FUORI TESTO

“ Comb 2”

35

TAVOLE GRAFICHE FUORI TESTO

“L’ombra verde dell’attesa 3210”