Pensieri a partire da "The project of autonomy", February 2015 copia.pdf

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Pensieri a partire da “ e Project of Autonomy” Chiara Buccolini Anna Sanga

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Pensieri a partire da “The Project of

Autonomy”Chiara Buccolini

Anna Sanga

INDICE

9. CONTINUITÀ e DISCONTINUITÀ

15. LA CITTÀ-TERRITORIO E IL FATTO URBANO

25. NO-STOP-CITY E MONUMENTO CONTINUO

35. POST-OPERAISMO E RADICALI

42. ROSSI E BAUKUH

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CONTINUITÀ E DISCONTINUITÀ

Analizziamo di seguito le posizioni discordanti di Tronti e Tafuri riguardo alla Socialdemocrazia Te-desca.A proposito di Tronti, che dal 1964 dirige il gior-nale Classe Operaia, leggiamo Aureli:

In the conflict between German Social Democracy and the cap-italist state there was, according to Tronti, such a radical avoid-ance of ideology that the system was able to undergo an ex-traordinarily lucid development, even if one that was politically not so appealing. Even without a political theory, and perhaps because of this, Social Democracy was able, in a highly realistic way, to take the content of the workers’ struggle and translate it immediately into politics at the level of State institutions. As such, it constituted its party politics in a manner that went be-yond Marx’s critique of ideology, self-consciously adopting a tactical posture of compromise with its rival. For Tronti, this attitude paradoxically represented the highest and most effective form of autonomous political decision-making, leaving its mark not only on the workers’ movement but also on the State, where the conflict between the workers and capitalists was institution-

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alized.1

Come leggiamo, Tronti indica la Socialdemocra-zia Tedesca come esempio di autonomia della po-litica dall’economia. Egli sostiene che la storia del capitalismo sia fat-ta di continuità e discontinuità: continuità eco-nomica e discontinuità politica. La discontinuità politica è determinata dalla dialettica operai/cap-italismo che, nei momenti di maggiore tensione, obbliga il capitalismo ad azioni politiche slegate dagli interessi economici. Tronti sostiene che la classe operaia deve negoziare direttamente con le istituzioni capitaliste e solo entrando all’interno di esse può acquisire potere.Vediamo dunque come Tronti abbandoni la rif-lessione di natura politico-economica di Marx, spostando l’attenzione su un piano esclusivamente politico.Ed è proprio sul piano della continuità economica

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capitalista, accettata dagli intellettuali di sinistra tedeschi che si inserisce la critica di Tafuri:

Le coincidenze tra le proposte degli intellettuali di sinistra te-deschi, dopo la prima guerra mondiale, e la Nuova Economia di Walter Rathenau sono al proposito significative. “L’ordinamento cui perverremo - scrive Rathenau nel 1918 - sarà un sistema di economia privata, come l’attuale, ma non di economia privata senza freni. Dovrà penetrarla una volontà collettiva, la stessa volontà che penetra oggi ogni opera umana solidale”. Le basi del “capitalismo democratico” sono così gettate.2

Continua poi con una dura critica circa i risulta-ti della politica autonoma: le Siedlungen gestite dalle organizzazioni operaie. Leggiamo:

[Gli architetti tedeschi] Strettamente integrati in precise polit-iche di piano a livello urbano e regionale, elaborano modelli di intervento generalizzabili: il modello della Siedlung ne è la pro-va. Ma tale costante teorica riproduce nella città la forma disgre-gata della catena di montaggio paleocentrica. La città rimane un aggregato di parti, unificate funzionalmente a livello minimo; e anche all’interno del singolo “pezzo” - il quartiere operaio -

l’unificazione dei metodi si rivela presto strumento aleatorio.[…] In quanto tentativo di controllo dei movimenti di classe, essa si rivela immediatamente controproducente; in quanto tentativo di dimostrare la superiorità di un’edilizia direttamente gestita dalle organizzazioni operaie e sindacali, la città delle Siedlungen rimane estranea ai processi di organizzazione comp-lessiva del territorio produttivo. La Siedlung sarà quindi un’oasi di ordine, un esempio di come sia possibile, per le organizzazioni della classe operaia proporre un modello alternativo di sviluppo urbano, un’utopia realizzata. Ma quella stessa Siedlung contrappone dichiaratamente il mod-ello del “paese” a quello della grande città. […] Anzi, in quei quartieri è leggibile l’intento di unire solidamente lo sviluppo dei nuovi sistemi di produzione nell’edilizia a una organizzazi-one frammentata e statica della città. Il che, non è dato. la città dello sviluppo non accetta “equilibri” al suo interno: l’ideologia dell’equilibrio si rivela, anch’essa, politicamente fallimentare.3

L’architettura, scrive Tafuri, assume all’interno dell’amministrazione un ruolo di dipendenza:

L’esperienza mitteleuropea degli architetti socialdemocratici ha come propria condizione da rispettare l’unificazione di potere amministrativo e proposta intellettuale. In tal senso, che May,

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Wagner o Taut assumano cariche politiche nell’amministrazione delle città socialdemocratiche non è casuale.[…] La scienza architettonica si integra totalmente nell’ideo-logia del piano e le stesse scelte formali non sono che variabili dipendenti da essa.4

Ritornando ad Aureli, confrontiamo ciò che è stato appena detto con quello che scrive riguardo alla posizione degli intellettuali all’interno del-la Olivetti Raniero Panzieri, che dal 1961 dirige il giornale operaista “Quaderni Rossi” (in cui scriveva anche Tronti):

Panzieri viewed Olivetti as bringing together innovation, so-cial welfare and culture. Directed by Adriano Olivetti, an “en-lightened” entrepreneur and reformer, the Olivetti factory was intended to be a model community of workers, a center of “humanistic” production, focused not just on the development of information technology but on its social and cultura conse-quences. […] Panzieri, however, saw the Olivetti model as the culmination of advanced capitalist ideology, with the culture it-self becoming an essential moment of production.5

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Tronti e Tafuri dal 1968 scrivono sulla rivista “Contropiano”, la quale propone un punto di vista culturale e teorico, più che di intervento, per una strategia realistica a lungo termine contro il capi-talismo. Attorno alla rivista gravitano diversi filo-sofi, architetti e urbanisti che vedono nella cultura un’arma per i lavoratori.Abbiamo addotto Tronti e Tafuri come esempi di due diverse posizioni all’interno della critica al capitalismo.

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LA CITTÀ TERRITORIO E IL FATTO URBANO

Le divergenti posizioni politiche si traducono in una diversa idea del ruolo che l’architettura deve avere all’interno della città. A riguardo introduciamo il concetto di città-ter-ritorio, proposto da Tafuri e Piccinato in “Casa-bella” nel 1962 e portato avanti nel seminario di urbanistica di Arezzo nel 1963.La città-territorio rappresenta il tentativo di elab-orare una nuova dimensione urbana nell’Italia del boom economico, colpita dalla massiccia mi-grazione interna proveniente dal Mezzogiorno, immaginando l’integrazione della città e della campagna in un’unica entità, attraverso una nuo-va rete di trasporti e di flussi economici.

Tafuri’s and Piccinato’s position in the Arezzo course therefore emerged within the institutional Left’s consciousness of the

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increasing importance of new planning devices, understood as rigorously “scientific” methods for integrating economic pro-gramming and territorial planning.6

Qui vediamo come la critica che precedentemente aveva fatto Tafuri sulla città Socialdemocratica combaci, sul piano pratico, con quella sulla cit-tà-territorio, intesa come il tentativo di riorganizzazione del ciclo produttivo della città, il cui progetto è necessariamente anche economico. A riguardo citiamo “Progetto e utopia”:

Rimane, comunque, che di fronte all’aggiornamento delle tec-niche di produzione e all’espansione e razionalizzazione del mercato, l’architetto produttore di “oggetti” è ormai figura inade-guata. Ora non si tratta più di dare forma ai singoli elementi del tessuto cittadino né, al limite, a semplici prototipi. Individuando nella città l’unità reale del ciclo di produzione, l’unico compi-to adeguato per l’architetto è quello dell’organizzazione di quel ciclo. […] Per Hilberseimer, l’ ”oggetto” non entra in crisi: esso è già sparito dal suo orizzonte di considerazioni. L’unico impera-tivo emergente è quello dettato dalle leggi dell’organizzazione; in ciò, correttamente, è stato visto il valore maggiore del contributo

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di Hilberseimer.7

Sostenitori della città-territorio sono De Carlo e Quaroni (del quale Tafuri è stato allievo). Aldo Rossi, invece, all’apertura del seminario ad Arez-zo, interviene in opposizione:

One of the explosive elements was Aldo Rossi’s criticism of the very premise of the course on the first day of debates. He claimed that he and his Milanese group were “opposed to the operative movement of the course,” arguing that the architect as “intellectual, thinker, and inventor, a figure projecting towards the invention of new ways” was better able to intervene in the new scales and transformations of the city than the “technician re-educated in several disciplines…[such as] sociology, adminis-trative security and economy.”8

Rossi si oppone alla pianificazione economica della città-territorio, sostenendo che l’architettura ha una propria autonomia disciplinare all’inter-no della città capitalista. Ritorniamo alla Social-democrazia tedesca. Rossi, ne L’architettura della

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città del 1966, sostiene riguardo alle Siedlungen:

In primo luogo considerare l’urbanistica del razionalismo come l’urbanistica del quartiere significa limitare la vastità di ques-ta esperienza all’urbanistica tedesca degli anni ’20. E anche in questo caso, tali e tante sono le soluzioni reali, che la definizione non è valida nemmeno per la storia dell’urbanistica tedesca. […] Risulta così necessario lo studio delle situazioni concrete, la de-scrizione dei fatti; e osservando la morfologia di Berlino, la sua ricchezza delle ville ecc., è lecito pensare che la Siedlung abbia qui una sua coerenza particolare. Tutto ciò che sostengo in proposito è che la Siedlung in una sit-uazione urbana come quella di Berlino e di altre città d’Europa rappresenta un tentativo di mediazione, più o meno cosciente, di due differenti concezioni spaziali della città.9

Rossi insiste sulla concretezza del fatto urbano come strumento di analisi e progettazione, sos-tenendo che termini come mobilità e network sono false rappresentazioni tanto quanto i disegni diagrammatici delle città. Così come non è possi-bile generalizzare l’esperienza delle Siedlungen te-

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desche, non è possibile una generalizzazione della città come paesaggio urbano, ma si deve parlare di geografia urbana e di individualità del locus.

Questi contorni riguardano l’individualità dei monumenti, della città, dove delle costruzioni, e quindi il concetto di individualità e i suoi limiti, dove essa comincia e dove essa finisce; riguardano il rapporto locale dell’architettura, il luogo di un’arte. E quindi i legami e la precisazione stessa del locus come fatto singolare determinato dallo spazio e dal tempo, dalla sua dimensione topografica e dalla sua forma, dall’essere sede di vicende antiche e nuove, dalla sua memoria.10

La struttura della città per Rossi è fatta di con-tinuità geografiche e discontinuità storiche: le prime sono gli elementi strutturali della città, mentre le seconde gli eventi che determinano l’evoluzione della città. Compito dell’architettura è produrre fatti urbani, che, con la loro forma limitata, si oppongano alle logiche di pianifica-zione capitalista. In questo sta la valenza politica

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dell’architettura rossiana. Il discorso che abbiamo riportato sopra ricorda molto quello di Tronti: l’autonomia politica di Tronti diventa qui autono-mia della teoria dell’architettura, che rifiuta di elaborare strutture aperte e flessibili le quali, sec-ondo Rossi, sono strumento dell’economia capi-talista.È questa la risposta di Rossi alla città-territorio e all’ancor più preoccupante immenso diagramma di capsule progettato da Tange nella Tokyo Bay del 1960.Rispondendo con la critica di Tafuri a Tronti, questo tipo di architettura, slegata dall’economia, non può che essere un’azione regressiva all’interno della città capitalistica, nonostante l’architettura rappresenti sempre il potere della classe domi-nante:

Questo rapporto fra il fatto urbano (collettivo) e l’individuo è singolare rispetto a qualsiasi altra tecnica o arte; è infatti da ri-

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levare che perché l’architettura si imponga come un vasto mov-imento culturale e venga discussa e criticata al di fuori da una stretta cerchia di specialisti, bisogna che questa architettura si realizzi, che essa diventi parte della città, diventi “la città”. In un certo senso non esistono edifici “d’opposizione” poiché ciò che si realizza è sempre dovuto alla classe dominante, o almeno deve sorgere una possibilità di conciliare certe nuove esigenze con la specifica realtà urbana.11

Seppur sia possibile sostenere una teoria dell’ar-chitettura autonoma, l’architettura realizzata è sempre un’architettura che ha accettato le logiche dell’economia capitalista (così come per gli intel-lettuali della Socialdemocrazia Tedesca). Confin-are se stessa in una forma limitata è l’unico suo strumento di opposizione. Rossi, dunque, al con-trario di Tafuri, combatte contro la distruzione dell’oggetto di Hilberseimer e anzi

Una concezione di questo tipo, in cui la tensione architettonica prevale imponendosi in primo luogo come forma, risponde alla natura dei fatti urbani come essi realmente sono. […] Ho cer-

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cato di dimostrare come questa teoria nasca dall’analisi urbana, dalla realtà; questa realtà contraddice tutti coloro che credono che funzioni preordinate possano per sé indirizzare i fatti e che credono che il problema sia quello di dare forma a certa funzio-ni; in realtà sono le forme stesse nel loro costituirsi che vanno al di là delle funzioni a cui devono assolvere; esse si pongono come città stessa.[…] Secondo la mia teoria noi non supereremo questi aspetti fino a quando non ci renderemo conto dell’importanza della forma e dei processi logici dell’architettura; vedendo nella stessa forma la capacità di assumere valori, significati e usi diversi.12

In altri termini: per quanto riguarda la costruzione della cit-tà è possibile procedere per fatti urbani definiti, per elementi primari, e questo riguarda l’architettura e la politica; alcuni di questi elementi assurgeranno al valore di monumenti sia per il loro valore intrinseco sia per una particolare situazione storica, e questo riguarda appunto la storia della città.13

Queste idee di Rossi sono realizzate nel progetto di concorso per un centro direzionale a Torino nel 1962, al quale partecipa con Meda e Polesello con una proposta molto diversa dai progetti con-

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correnti. Tafuri e Rossi, come Piccinato e Polesello, in que-gli anni sono allo IUAV:

In distinction to its reputation outside Italy, “Scuola di Venezia” refers specifically to a period at the IUAV when, within the pro-gram directed by Aymonino, the theories of Rossi were domi-nant. Aymonino was invited to teach at the IUAV by Samonà in 1963 and Rossi applied to be his assistant. The class taught by Aymonino and Rossi through 1965 produced two small book-lets under relationship between typology and morphology, and these became the Scuola di Venezia’s methodological incunabu-la. Rossi and Aymonino were quickly joined by young assistant professors in the IUAV like Dardi, Polesello, Mattioni, Semera-ni.14

18 novembre 1963, «Paese sera» lancia l’allarme: L’esodo dei do-centi mette in crisi l’Istituto di Architettura di Venezia. Stando all’articolo, il passaggio ad altra sede di alcuni docenti di ruolo avrebbe messo a rischio ben otto cattedre. In realtà saranno “solo” quattro. Ciò non toglie però che si tratti di “esodo” in pie-na regola, vista anche la coincidenza dei trasferimenti. A fare le valigie, dal 1 novembre 1963, sono Bruno Zevi, Luigi Piccinato, Lodovico Barbiano di Belgiojoso. Il Consiglio di facoltà, form-

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ato allora di soli ordinari, è dimezzato: passa da otto membri a cinque e poi a quattro per la partenza anche di Franco Albini.15

When Manfredo Tafuri arrived in the fall 1967, the Roman historian was only thirty-two years old, but was already con-sidered an enfant prodige within his discipline. This reputation was strengthened by the publication of his book, Teorie e storia dell’architettura (Theories and History of Architecture), which challenged the role of “operative criticism”—histories that were biased, Tafuri argued, toward certain architects and architectural ideologies. \\ Shortly after, in 1968, he published the article “Per una critica della ideologia architettonica” (Toward a Critique of Architectural Ideology) in the magazine Contropiano, an essay that was later developed into one of the most brilliant of Tafu-ri’s works: Progetto e Utopia (Architecture and Utopia). At the IUAV, which was “shaken” by almost two years of occupations and “disputes,” Tafuri discussed Benjamin and Adorno, Luckas and Nietzsche, about semiology and psychoanalysis, establishing a dialogue between young students and left wing thinkers like Massimo Cacciari, Alberto Asor Rosa and Mario Tronti.16

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LA NO-STOP-CITY E IL MONUMENTO CONTINUO

In questo capitolo trattiamo alcune teorie dello sviluppo della città che nascono dalle teorie di Tafuri e di Rossi.

Nel 1963, nel terzo numero di “Quaderni Rossi”, Greppi e Pedrolli, operaisti militanti, scrivono riguardo alla città-territorio:

Dalla fase in cui l’urbanistica è utilizzata come strumento neg-ativo di frantumazione della classe operaia, si passa alla fase in cui l’urbanistica e la pianificazione territoriale in genere diventano tecniche per l’integrazione del territorio nel piano del capitale. […] In questi casi il rapporto tra piano territoriale e piano eco-nomico è immediato. Già adesso certi tentativi di pianificazione intercomunale in zone prevalentemente agricole hanno il car-attere di piani economici veri e propri, anche se non ancora del tutto operativi.[…] Però anche per le abitazioni operaie esiste la possibilità di

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scegliere una tipologia edilizia piuttosto che un’altra: oggi si può riconoscere che gli unici esperimenti di urbanistica realmente rivoluzionari sono stati quelli dei quartieri fortezza per gli op-erai costruiti sulla scia del movimento rivoluzionario europeo degli anni ’20. […] la risposta non può essere cercata altro che nella riaffermazione dell’abitazione collettiva come strumento di resistenza operaia contro la disgregazione.17

Greppi e Pedrolli vedono le tipologie come l’occa-sione per una scelta politica dove la classe operaia può continuare a resistere al capitalismo e si op-pongono ad una pianificazione di tipo scientifico, mirata all’integrazione sociale.Greppi è uno studente di architettura di Firen-ze e nel 1965 si laurea con una tesi sulla Piana di Firenze, che nel suo progetto diventa un’unica grande industria.

Greppi’s project was thus not so much a denunciation of capi-talist exploitation of the urban territory as a plan that conceived the workers as potentially taking control of it. For Greppi the Piana di Firenze represented a diffuse and sophisticated system

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of the territorial exploitation that, theorized in militant terms, could become a counterproject: the city of contemporary work-ers, the place where workers would acquired consciousness of their decisive political power.18

Ci sembra molto lontano, seppure Aureli affer-mi il contrario, dalla critica di due anni prima pubblicata su “Quaderni Rossi”. Nonostante la premessa sia la proletarizzazione della società (Tronti), il progetto, intendendo liberarsi dalle tradizionali ideologie borghesi sulla città, teorizza uno scenario molto diverso da quello prospettato su “Quaderni Rossi” da Tronti, e molto più vicino a quello di una riorganizzazione economica del territorio.

In those years Greppi was circulating Friederich Engels’s tract “The Housing Question” among the students in Florence. This thesis was taken up by students to combat the naive illusion that the bourgeois city could be reformed and ameliorated demo-cratically.19

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Nel territorio completamente industrializzato la classe operaia, per Greppi, acquisisce un potere sulla città molto diverso da quello che ha nelle tipologie residenziali collettive. Negli stessi anni, alcuni corsi a Firenze portano avanti delle sperimentazioni sulla città.

In 1966-67, Savioli’s course Spazio di coinvolgimento (Space of involvement) criticized the existing contemporaneous city as a psychological space responsible for producing rigid patterns of behavior, Gestures and movements were limited by an urban structure organized precisely to produce economical profit. Following Savioli’s ideas, the architect’s objective was to design spaces for free behavior: rescue zones from uniform and fixed urban scenery. Similarly, Ricci suggested the abolition of the piano regolatore as a collection of legislative rules regulating the inhabitants’ living patterns. As an oppositional play on words he proposed instead the piano creatore based on the flexibility of its parameters, it proposed adaptable factors that followed the mutability of human necessities.20

I corsi di Savioli venivano frequentati da alcuni esponenti di quella che sarà chiama da Celant

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“architettura radicale”. Il nostro discorso si con-centra su Archizoom e Superstudio, i cui compo-nenti sono rispettivamente Branzi, Corretti e Mo-rosi e Natalini e Toraldo di Francia.

Corretti and Morozzi of Archizoom and Toraldo di Francia of Superstudio were the most politicized members of the respec-tive groups, and they were in direct contact with members of the Florentine section of the Operaists. The best-known members of both groups, Branzi and Natalini, with whom the identity of these groups is often associated, were less involved in the “polit-ical” content of Archizooms and Superstudio’s work. In a lecture at the Berlage Institute in Rotterdam in 2007, Toraldo di Francia recalled his “friendly divergence” from his comrade Natalini, who at the time was a member of Gioventù Liberale, a center-right student movement. A similar divergence occurred within Archizoom, were Morozzi and Corretti’s political extremism was often at odds with Branzi’s more moderate position.21

I due gruppi rispettivamente propongono due modelli di città: gli Archizoom la No-Stop-City e i Superstudio il Monumento Continuo. La No-Stop-City come Greppi, seguendo Tafu-

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ri, propone una “città” senza architettura e senza qualità, che rappresenta solo il suo valore d’uso.

La Metropoli cessa di essere un “luogo” per divenire una “condizione”; è proprio a tale condizione infatti che viene fatta circolare in maniera omogenea nel fenomeno sociale attraverso i Consumi.La dimensione futura della Metropoli coincide con quella del Mercato stesso.La Metropoli come concentrazione intensiva corrisponde alla fase ormai superata della accumulazione spontanea del capitale.In una società programmata infatti la gestione degli interessi non ha più necessità di urbanizzarsi sul luogo stesso degli scam-bi.La totale disponibilità del territorio e la sua totale penetrabilità elimina la città-capolinea e permette l’organizzazione di una maglia progressiva di organismi di controllo su di esso.[…] La città non “rappresenta” più il sistema, ma “diviene” il sis-tema stesso, programmato ed isotropo, in cui le diverse funzioni sono contenute in maniera omogenea e senza contraddizioni.La Produzione e i Consumi possiedono una identica ideologia, che è quella della Programmazione. Ambedue ipotizzano infatti una realtà sociale e fisica assolutamente continua e indifferenzi-ata. Non esistono realtà autres.La Fabbrica e Supermarket diventano di fatto i veri modelli

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campione della città futura.[…] La tipologia, come figurazione funzionale della società, incerta tra il rilevamento di una realtà sociale come dato certo, e l’assunzione delle aspirazioni di tale realtà come dato probabile, resta impigliata nella restituzione allegorica di tale conflitto, che diviene un coefficiente culturale extra-funzionale. Così in mani-era contraddittoria essa [L’architettura] prefigura in ogni singola occasione un ordine generale delle cose, e contemporaneamente si pone a difesa della parzialità della esperienza individuale nei riguardi delle esperienze collettive.[…] Liberata dalle proprie “armature caratteriali”, l’architettura deve diventare una struttura aperta, disponibile alla produzione intellettuale di massa come unica forza figurante il paesaggio collettivo. Il problema diventa dunque quello di liberare l’uomo dall’architettura come struttura formale.[…] Il linguaggio quantitativo sostituisce quello della qualità, divenendo l’unico medium scientifico per l’approccio alla strat-ificazione indifferenziata della produzione, e quindi della realtà. Scomparendo i quadri generali di riferimento, il comportamen-to diventa una struttura priva di allegorie morali.La libertà, come fine, diventa subito strumento di lotta.22

Non serve aggiungere altro; i richiami teorici a Tafuri e a Hilberseimer ci sembrano evidenti.

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Così come ci sembra chiaro che non si possano paragonare gli Archigram con gli Archizoom, perché per gli Archigram, come per Tange, la tec-nologia è uno strumento politicamente neutrale.

It is in this sense that Branzi may be said to have pushed to its extreme consequences Rossi’s embrace of theory as the role of the architecture project, on the one hand, and Tronti’s idea of sichtbar machen - making things visible - on the other.23

Anche qui, come già abbiamo detto per Greppi, dissentiamo dalla visione di Aureli.I Superstudio, seguendo Rossi, propongono un oggetto architettonico senza città, che non a caso prende il nome di Monumento Continuo.

Crediamo in un futuro di “architettura ritrovata”,in un futuro in cui l’architettura riprende i suoi pieni poteriabbandonando ogni sua ambigua designazionee ponendosi come unica alternativa alla natura.Nel binomio natura naturans e natura naturata scegliamo il sec-ondo termine.

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Eliminando miraggi e fate morgane di architetture spontaneearchitetture della sostenibilità, architetture senza architetti,architetture biologiche e fantastiche,ci dirigiamo verso il “monumento continuo”:un’architettura tutta egualmente emergente in un unico ambiente continuo: la terra resa omogenea dalla tecnica,dalla cultura e da tutti gli altri imperialismi.[…] L’architettura diviene un oggetto chiuso e immobile che non rimanda ad altro se non a se stesso e all’uso della ragione.24

Nelle loro immagini, l’oggetto crea unitarietà piut-tosto che frammenti, come in Rossi. La sua forma riconoscibile rappresenta comunque un limite e differenzia tutto ciò che è esterno ad essa. All’esat-to opposto degli Archizoom, essi parlano di risco-perta degli archetipi e di un’architettura rituale.Anche qui non condividiamo ciò che dice Aureli:

[…] Radical leftist like Greppi, and the members of Archizoom chose to produce neither a project for an alternative city nor even a critic of the existing one, but rather a theory - the theo-ry of the city development into the ascendent capitalist form of urbanity.25

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Queste teorie, seppure parlino dello sviluppo della città capitalistica, sfociano in utopie rappre-sentando città ideali, senza voler dare una soluz-ione operativa. Tafuri e Rossi invece cercano di elaborare delle vere e proprie teorie sulla città reale.

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POST-OPERAISMO E RADICALI

Giunti al punto in cui siamo, secondo noi le città di Archizoom e Superstudio non costituiscono davvero un momento di rottura rispetto alle te-orie interne a scuole di architettura. Tafuri non ha mai riconosciuto alcuna validità alle esperienze degli studenti fiorentini:

Giunti a un’impasse innegabile, l’ideologia architettonica rinun-cia a svolgere un ruolo propulsivo nei confronti della città e delle strutture di produzione, mascherandosi dietro una risco-perta autonomia disciplinare o dietro nevrotici atteggiamenti autodistruttivi.Incapace di analizzare le cause effettive della crisi del design, e concentrando tutta l’attenzione sui problemi interni al design stesso, la critica contemporanea va accumulando sintomatiche invenzione ideologiche, nel tentativo di offrire nuova sostanza all’alleanza fra tecniche di comunicazione visiva e utopie tec-nologiche. Né è causale che il campo individuato per il riscatto di tale alleanza - postulata ora, con inflessioni di ambiguo “ne-oumanesimo”, che ha il grave demerito di mistificare il proprio ruolo di mediatrice tra utopia e sviluppo, - insista precisamente

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sull’immagine della città.26

È innegabile che gran parte della fortuna dei due gruppi è dovuta alla loro produzione di immagini accattivanti, pubblicate su “Domus” e “Casabella”, sempre citate per somiglianza vicino agli Archigram.Nello specifico, gli Archizoom prendono consa-pevolmente il linguaggio del pop inglese, fatto di diagrammi e collages, e lo portano in Italia, cari-candolo di nuovi contenuti.Dopo la prima fase puramente teorica, sia Super-studio e Archizoom decidono di produrre oggetti di design, riscuotendo vivo successo anche all’estero. Vengono chiamati a New York nel 1972 per la prima mostra sul design italiano al Moma. Questa è la recensione che ne fa Franco Raggi su numero 366 di “Casabella”:

Il tema abbastanza ambiguo del “New domestic landscape” e il criterio di scelta dei vari progettisti, “campionati” quasi a di-

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mostrare il ventaglio di tendenze dall’ottimismo all’autodistruzi-one, ha offerto a molti di essi la possibilità di una sorta di “estasi critica” nella quale difficilmente il pubblico americano riconos-cerà gli stessi autori degli oggetti di produzione presentati nella sezione antologica che precede. Questo sembra dar ragione ad Ambasz quando parla di “senso di colpa” dei designers italiani che, operando in una situazione dove l’impegno sociale, a molti livelli e per conseguenza nella progettazione, è carente, vedono, dietro la brillante facciata del “design”, nascondersi l’abdicazione ai veri impegni di gestione del territorio e della città.27

Tornando a “Progetto e utopia”:

Si assiste, in altre parole, a tutto un proliferare di un design un-derground, di “contestazione”. Che, però, al contrario dei film di Warhol o di un Pascali, viene reso istituzionale e propagandato da organismi internazionali, e immesso in un circuito di èlite. Attraverso il design e la progettazione del microambiente, le deflagranti contraddizioni delle strutture metropolitane entrano, sublimate e sottoposte a una caricata ironia, nell’ambiente della vita privata. I “Giochi” - peraltro abili - degli Archizoom, o le angosce sterilizzate di Gaetano Pesce propongono (malgrado ogni dichiarazione verbale in contrario) una “autoliberazione” attraverso l’uso privato dell’immaginazione. I simboli, ancora

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minacciosi, di un Oldenbutg o di un Fahlstrom trovano così una loro utilizzazione in un pacificato Domestic Landscape.28

Avremmo qualche perplessità sul fatto che War-hol sia meno d’élite degli Archizoom e Stuperstu-dio, anche se essi, come dice con ragione Tafuri, si sono istituzionalizzati. Prova di questo è stata l’attribuzione da parte del critico d’arte Celant di un nome che li distingue come gruppo:

Superstudio’s cofouder Cristiano Toraldo di Francia has said recently that when the art critic Germano Celant invented the label architettura radicale in 1972, both Superstudio and Archi-zoom realized that their project had come to an end.29

Ugualmente, sul piano politico, finito il periodo delle riviste operaiste (“Quaderni Rossi”, “Classe Operaia” e “Contropiano”), il movimento in Au-tonomia Operaia perde il sua originalità.

[…] This self-assesment comes very closed to Tronti’s skepticism

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toward the “radical politics” of the Autonomia groups of the 1970s; according to Tronti, the adjective radical before the word politics meant that the politics could no longer stand alone.30

Non si riesce più a elaborare una risposta teorica alle questioni che pone la città capitalista. Liberata l’architettura dall’ideologia, si sono elaborate delle teorie che, diventate delle utopie senza teoria, hanno lasciato spazio ad un atteggiamentopostmoderno.

[…] The idea of postmodernity, as the antithesis of modernity, manifested a pathetic inability to express something positive tout court “leading its self-definition as simply post-something, that is, through a reference to that which was but is not any-more, and to its attempts at self-glorification by means of the bizzarre contention that its meaning is no-meaning and style is no-style.31

This is exemplified by the post-Operaist Autonomia’s ingenious transformation of politics into an enthusiastic celebration of a postmodernity viewed as a cultural liberation from the old-er forms of workers’ struggle. It was, however, with the loss of

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urgency in the 1970s and 1980s of the demand for autonomy and decision-making power that the respective disciplines, from politics and philosophy to architecture and urbanism, fell into specialized disciplinary slots and became autonomous not with respect to contemporary political-economic reality but simply with respect to one another.32

Cacciari nel 1977 ne “Il dispositivo Foucault” scrive riguardo al movimento di Autonomia Op-eraia che, diversamente dagli operaisti, rifiutava sistematicamente qualunque tipo di organizzazi-one e gerarchia.

La figura del gioco, ricorrente ovunque in Deleuze, è la figura della liberazione. Soltanto il desiderio sembra saper giocare. Il Gioco è, assunto nella sua “apparenza”, come caratteristica specifica delle pratiche alternative della “serietà” repressiva del Potere. E’ un pensiero romantico-ingenuo del Gioco. … Se il Gioco indica il nuovo spazio della molteplicità dei linguag-gi, non riducibili ad un piano di reciproca traducibilità - se il Gioco indica la pluralità delle tecniche e la convenzionalità dei loro nomi - la fine della metafisica dell’OggettoSoggetto - in che senso è possibile attribuirlo a una pratica teorica? In che senso

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è possibile ab-solutizzarlo come espressione di un linguaggio, e in modo che renda questo linguaggio quello della “liberazione” dal contesto in cui è venuto ad esistere? … Vi è un linguaggio autonomo del gioco. Esso esprimerebbe, cioè, leaglità-altre, sue proprie, rispetto a quelle della disciplina del Potere e della sua storia. Ciò disincarna, volatizza completamente il pensiero del Gioco. […] Poiché il Gioco è tale solo se confitto in regola che la sua pratica attuale non ha per nulla inventato, bensì assunto. Il Gioco non libera affatto da esse, ma ne parla. Anzi, il gioco può parlare soltanto nella misura in cui si riconosca nei limiti che quelle regole gli impongono. Parlare è possibile soltanto assu-mendo il carico del già-parlato. Il linguaggio non si inventa.[…] Ma praticarlo è possibile soltanto riconoscendone le regole, soltanto non avanzando la “indecente pretesa” di poterlo in-ventare. Non conoscere quanto la convenzione è spietata, questa somma Sofia wittgensteiniana, è invece fiticismo sommo, poichè è proprio questa “ignoranza” che “lascia il Mondo com’è” - che si libera-assolutizza da esso, lasciandone cioè invariate le regole, poichè si rifiuta di praticarle come tali.33

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ROSSI E I BAUKUH

Prendiamo Grassi e i Baukuh dal libro “Due saggi sull’architettura”.I Baukuh danno alla bellezza della forma una grande responsabilità: essa è ciò che unifica la cit-tà, accorda tutti gli uomini e resiste alla storia. Grassi, Baukuh riguardo all’architettura socialista in una città non socialista, e di seguito Tafuri:

Va da sé che, in questa ottica, l’architettura com’era, l’architettura com’è sempre stata finora, diventa un elemento di disturbo nella strategia della nuova città, un elemento di denuncia nel confronto fra la nuova città e la città com’era.

La questione è piuttosto se davvero l’unica cosa che debbano esi-bire gli edifici sia di non essere collocati in una città socialista, se davvero gli edifici debbano sempre essere fatti per sbugiardare le città in cui vengono messi, se davvero la promessa di una città differente possa essere tenuta in vita solamente bruciando in ef-

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fige la città esistente, denunciandone gli obiettivi, mostrandone la miseria. In questo senso, vale anche la pena di chiedersi molto ingenuamente se l’architettura debba davvero essere nemica del-la gioia, se un progetto possa rinunciare ad essere, subito, senza mezzi termini, “il tentativo di una perfezione di una felicità”.34

Ma se l’architetto non lavora nella prospettiva della città social-ista (e oggi nessuno può fingere di farlo), diventa necessario prendere nuovamente in considerazione la domanda di Hans Schmidt, capire chi sta lavorando per chi. Perché comunque si lavora per qualcuno, e se non sembrano esserci rivoluzioni credibili in circolazione, certamente ci sono settori di mercato cui essere assegnati senza troppi complimenti. Quindi, se non si vuole lavorare solamente per il settore assegnato, non sembrano esserci alternative a lavorare per tutti, per quanto ingenuo possa sembrare. E questo è forse anche il valore più generale che può avere l’architettura nelle città contemporanee: costruire ed esi-bire la possibilità di un accordo che valga per tutti, per quanto limitato a faccende piuttosto secondarie, mostrare che l’accordo non è sempre impossibile. In questo senso, l’obiettivo per l’ar-chitettura torna ad essere la produzione di bellezza, di forme che gli uomini possano spontaneamente accogliere e ricordare.35

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[…] è il salto all’indietro, è il “coraggio di parlar delle rose”, il naufragio nel “tempo felice” della kultur borghese: l’ideologia come “sublime” inutilità. Ma non è un caso che il destino storico dei formalisti si concluda sempre nell’utilizzazione “pubblicitar-ia” del lavoro sulla forma. 36

Qui si mostra anche il timido significato politico della bellezza. Essa appare come luogo in cui mondi differenti iniziano a non essere più separati: “il punto, nel quale convenissero gli uomini di tutti i tempi e di tutte le religioni, sarebbe indubbiamente quello che fisserebbe per sempre e l’arte e di principi e gli effetti della medesima”. Quel che mostra la bellezza, quel che essa esige, è la possibilità dell’accordo tra gli uomini. … La bellezza non può che essere condivisa: essa vale, inesorabilmente, sia per i ladri che per i derubati.37

Nessun salvezza è più rinvenibile al suo [arte moderna? borgh-esia?] interno: né aggirandosi, inquieti, in labirinti di immagini talmente polivalenti da risultare mute, né chiudendosi nello scontroso silenzio di geometrie paghe della propria perfezione.38

Ci sembra che la bellezza dei Baukuh si possa par-agonare al fatto urbano di Rossi, tuttavia se il fatto urbano può essere definito (e Rossi cerca di farlo

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in tutta L’architettura della città), per la bellezza non si può dire lo stesso. Perseguirla esplicita-mente ci pare una pericolosa ideologia.

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1 P.V. Aureli, The project of autonomy, Princeton Architectural Press, New York, 2008, p.432 M. Tafuri, Progetto e utopia, Editori Laterza, Roma - Bari, 2007, p.643 Ibidem, p.1064 Ibidem, p.1045 P.V. Aureli, The project of autonomy, Princeton Architectural Press, New York, 2008, p.266 P.V. Aureli, The project of autonomy, Princeton Architectural Press, New York, 2008, p.597 M. Tafuri, Progetto e utopia, Editori Laterza, Roma - Bari, 2007, p.998 Princeton University, Radical Pedagogies, dalla 14° Biennale di architettura di Venezia, Venezia 20149 A. Rossi, L’architettura della città, Quodlibet, Macerata, 2011, p.83-8510 Ibidem, p.11911 Ibidem, p.12512 Ibidem, p.13213 Ibidem, p.10914 P.V. Aureli, The project of autonomy, Princeton Architectural Press, New York, 2008, nota 1215 M. Carraro, M. Maguolo, Cronache dai Tolentini, studenti, docenti, luoghi 1963-1975, in Giornale Iuav 110, Iuav, Venezia,

NOTE

201216 Princeton University, Radical Pedagogies, dalla 14° Biennale di architettura di Venezia, Venezia 201417 C.Greppi, Produzione e programmazione territoriale, in Quaderni rossi 3, 1963 pp.94-10018 P.V. Aureli, The project of autonomy, Princeton Architectural Press, New York, 2008, p.7019 Ibidem, p.7020 Princeton University, Radical Pedagogies, dalla 14° Biennale di architettura di Venezia, Venezia 201421 P.V. Aureli, The project of autonomy, Princeton Architectural Press, New York, 2008, nota 1422 Archizoom Associates, No-Stop-City, Residential Parkings, Climatic Universal Sistem, in Domus 496, Milano, 197123 P.V. Aureli, The project of autonomy, Princeton Architectural Press, New York, 2008, p.7224 Superstudio: discorsi per immagini, Domus 481, 196925 P.V. Aureli, The project of autonomy, Princeton Architectural Press, New York, 2008, p.7026 M. Tafuri, Progetto e utopia, Editori Laterza, Roma - Bari, 2007, p.12527 F. Raggi, New Domestic Landscape, in Casabella 366, Milano, 197228 M. Tafuri, Progetto e utopia, Editori Laterza, Roma - Bari, 2007, p.130

29 P.V. Aureli, The project of autonomy, Princeton Architectural Press, New York, 2008, p.8130 Ibidem, p.8131 Ibidem, p.432 Ibidem, p.8133 M. Cacciari, F. Rella, M. Tafuri, G. Teyssot, Il dispositivo Fou-cault, Venezia, Cluva, 1977 p.6834 Baukuh, Due saggi sull’architettura, Sagep Editori, Genova, 2012, p.5535 Baukuh, Due saggi sull’architettura, Sagep Editori, Genova, 2012, p.5736 M. Tafuri, Progetto e utopia, Editori Laterza, Roma - Bari, 2007, p.15337 Baukuh, Due saggi sull’architettura, Sagep Editori, Genova, 2012, p.6038 M. Tafuri, Progetto e utopia, Editori Laterza, Roma - Bari, 2007, p.169