L’INGEGNERE CHE HA DATO IL VOLTO ALLA SFINGE parentesi, Joseph Davidovits è diventato un uomo...

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1 L’INGEGNERE CHE HA DATO IL VOLTO ALLA SFINGE di Stefano Busana Basta bazzicare, anche solo di sguincio, la cosiddetta comunità scientifico-accademica per comprendere come basti poco per entrare nel limbo degli eretici, quello, per capirci, frequentato in altri tempi dai Copernico, dai Galilei, financo dagli Einstein. Lo scienziato ortodosso non tollera teorie stravaganti, men che meno se sono formulate da “dilettanti”. Ciò, si badi bene, non è di per sé un male: cani e porci blaterano h 24 di idraulica, di sostenibilità ambientale, di clima, di tutto e di più, senza possedere adeguata preparazione, relegando nell’isolamento la comunità scientifica ortodossa. Questa reagisce, quando reagisce, talora con piccato sussiego, ampliando sempre più il solco che la separa dalla complessità del mondo “reale”. Se tale stato d’animo alberga negli scienziati di tutte le discipline, è forse nell’archeologia che l’ortodossia è divenuta un Verbo, soprattutto da trent’anni a questa parte. L’archeologo accademico è solitamente di formazione umanistica, la qual cosa, soprattutto nel nostro sistema scolastico crociano, implica un supponente distacco da tutto ciò che è tecnico, matematico, fisico. La ricerca filologica, l’analisi linguistica, culturale e religiosa di un’antica civiltà richiedono, ovviamente, strumenti peculiari, tipici di quella formazione, che però spesso trasfigurano l’archeologo in un guru onnisciente, in grado di comprendere e interpretare tutto lo scibile, anche quello che, a un comune mortale, sembra inesplicabile, come la funzione delle piramidi e della Sfinge di Giza, nonché delle strutture megalitiche di tutto il pianeta. Sorprende la sicumera degli egittologi accademici, di ogni provenienza ed epoca, nel datare tali opere, nell’individuarne le tecniche costruttive, nell’attribuire loro l’immancabile funzione cultuale e/o di sepolcri. Quando non sanno dove parare, infatti, gli egittologi ricorrono a quella mitologia simil-religiosa spesso visibilmente imbarazzante, anche all’occhio profano. Raffigurano, nella migliore delle ipotesi, popoli pressochè selvaggi, succubi di viziose divinità, sedotti da consunti miti solari o lunari, quand’anche non gli affibbiano difettini come l’antropofagia o i sacrifici umani. Popoli che, al contempo, sarebbero in grado di generare abilissimi progettisti e costruttori di opere monumentali, prima fra tutte la Grande Piramide, detta di Cheope. Tranquilli: gli egittologi ortodossi non hanno dubbi su chi la costruì, sulle tecniche di realizzazione, sulla sua funzione di tomba del Faraone, anche se mai sono stati trovati segni tangibili di sepoltura. Sollevare blocchi perfettamente squadrati da 20 tonnellate, a 140 m di altezza, con connessure precisissime, non è pratica agevole nemmeno oggi. Perché le dimensioni dei blocchi crescono con la quota di posa? Non sarebbe più logico il contrario? Perché i cunicoli dai quali sarebbe fluita l’anima del Faraone (sempre secondo gli accademici) sono stati “tagliati” nei blocchi calcarei come fossero burro, anziché formarsi traslando i corsi? Piero Angela ci ha mostrato un campionario di utensili di rame, di argani, di rilevati in terra, di funi di canapa, per spiegare, a suo modo, tali arcani. E la Grande Galleria, con i suoi costoloni aggettanti? Perché tanta complicazione, quasi che gli antichi volessero stupirci con le loro virtù ingegneristiche? Per non parlare dei due templi nei pressi della Sfinge di Giza, realizzati con monoliti di centinaia di tonnellate: solo qualche gru moderna riuscirebbe a movimentarli!

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L’INGEGNERE CHE HA DATO IL VOLTO ALLA SFINGE

di Stefano Busana Basta bazzicare, anche solo di sguincio, la cosiddetta comunità scientifico-accademica per comprendere come basti poco per entrare nel limbo degli eretici, quello, per capirci, frequentato in altri tempi dai Copernico, dai Galilei, financo dagli Einstein. Lo scienziato ortodosso non tollera teorie stravaganti, men che meno se sono formulate da “dilettanti”. Ciò, si badi bene, non è di per sé un male: cani e porci blaterano h 24 di idraulica, di sostenibilità ambientale, di clima, di tutto e di più, senza possedere adeguata preparazione, relegando nell’isolamento la comunità scientifica ortodossa. Questa reagisce, quando reagisce, talora con piccato sussiego, ampliando sempre più il solco che la separa dalla complessità del mondo “reale”. Se tale stato d’animo alberga negli scienziati di tutte le discipline, è forse nell’archeologia che l’ortodossia è divenuta un Verbo, soprattutto da trent’anni a questa parte. L’archeologo accademico è solitamente di formazione umanistica, la qual cosa, soprattutto nel nostro sistema scolastico crociano, implica un supponente distacco da tutto ciò che è tecnico, matematico, fisico. La ricerca filologica, l’analisi linguistica, culturale e religiosa di un’antica civiltà richiedono, ovviamente, strumenti peculiari, tipici di quella formazione, che però spesso trasfigurano l’archeologo in un guru onnisciente, in grado di comprendere e interpretare tutto lo scibile, anche quello che, a un comune mortale, sembra inesplicabile, come la funzione delle piramidi e della Sfinge di Giza, nonché delle strutture megalitiche di tutto il pianeta. Sorprende la sicumera degli egittologi accademici, di ogni provenienza ed epoca, nel datare tali opere, nell’individuarne le tecniche costruttive, nell’attribuire loro l’immancabile funzione cultuale e/o di sepolcri. Quando non sanno dove parare, infatti, gli egittologi ricorrono a quella mitologia simil-religiosa spesso visibilmente imbarazzante, anche all’occhio profano. Raffigurano, nella migliore delle ipotesi, popoli pressochè selvaggi, succubi di viziose divinità, sedotti da consunti miti solari o lunari, quand’anche non gli affibbiano difettini come l’antropofagia o i sacrifici umani. Popoli che, al contempo, sarebbero in grado di generare abilissimi progettisti e costruttori di opere monumentali, prima fra tutte la Grande Piramide, detta di Cheope. Tranquilli: gli egittologi ortodossi non hanno dubbi su chi la costruì, sulle tecniche di realizzazione, sulla sua funzione di tomba del Faraone, anche se mai sono stati trovati segni tangibili di sepoltura. Sollevare blocchi perfettamente squadrati da 20 tonnellate, a 140 m di altezza, con connessure precisissime, non è pratica agevole nemmeno oggi. Perché le dimensioni dei blocchi crescono con la quota di posa? Non sarebbe più logico il contrario? Perché i cunicoli dai quali sarebbe fluita l’anima del Faraone (sempre secondo gli accademici) sono stati “tagliati” nei blocchi calcarei come fossero burro, anziché formarsi traslando i corsi? Piero Angela ci ha mostrato un campionario di utensili di rame, di argani, di rilevati in terra, di funi di canapa, per spiegare, a suo modo, tali arcani. E la Grande Galleria, con i suoi costoloni aggettanti? Perché tanta complicazione, quasi che gli antichi volessero stupirci con le loro virtù ingegneristiche? Per non parlare dei due templi nei pressi della Sfinge di Giza, realizzati con monoliti di centinaia di tonnellate: solo qualche gru moderna riuscirebbe a movimentarli!

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I sorprendenti allineamenti con il Nord geografico, la precisione dei giunti, l’infimo errore nelle dimensioni planimetriche testimoniano un sapere tecnologico degno di una civiltà assai più avanzata di quanto ci raccontano. Attenti però: con questa affermazione stiamo ballando pericolosamente sul ciglio dell’eresia, o, peggio, di quelle teorie “new age” che ipotizzano l’azione di antichi astronauti (tanto cari a Zecharia Sitchin e ad Erich von Dänichen) o di precedenti civiltà cancellate da cataclismi. Chi solo osasse citare Atlantide rischierebbe la figura dello “scemo del villaggio”, anche se il primo a parlarne fu nientemeno che Platone nel Timeo e nel Crizia. La radiazione dalla comunità scientifico-accademica e dalle sue carriere, è deterrente più che convincente e molti egittologi inizialmente “scettici”, come Mark Lehner, hanno preferito subitanee conversioni a U sulla via del Cairo alla derisione e all’oblio. Il campione dell’ortodossia piramidologica è l’egiziano Zahi Hawass, responsabile del sito di Giza, furiosamente incazzato con chi solo adombri ipotesi alternative, forse nel timore che un giorno si dimostrasse l’origine non autoctona degli antichi egizi, come molti ragionevoli indizi farebbero presumere. In questo quadro non c’è da meravigliarsi che i più eretici fra gli appassionati di civiltà antiche siano gli ingegneri, probabilmente grazie al loro scetticismo “di default” e all’attitudine a ragionare con la propria testa. Fra questi appassionati ci piace ricordare quello che passerà alla storia come il più grande ingegnere di Francia, quell’Albert Caquot (1881-1976), padre di molte dighe d’oltralpe, che trascinò financo il fido allievo Jean Kerisel (1908-2005) nella sfida di comprendere, dal punto di vista ingegneristico, la Grande Piramide. Chi di noi non ricorda, nei libri di geotecnica, l’accoppiata Caquot-Kerisel? Ebbene, cari amici, ecco due ingegneri egittologi! Ma se il duo francese, nel contribuire a risolvere l’enigma di Giza si è pur sempre mantenuto nel solco della tradizione, l’ingegnere bolognese Mario Pincherle (1919-2012) giunse a teorizzare che all’interno della Grande Piramide vi fosse una “torre” preesistente, denominata “Zed”, dal notevole significato esoterico, costituita da monoliti di granito, trasferita dalla Mesopotamia all'Egitto per essere posta all'interno della piramide di Cheope, o meglio la piramide stessa sarebbe stata costruita attorno allo Zed per proteggerlo. Il passaggio di testimone dalla civiltà sumera a quella egizia pare evidente. La datazione ufficiale della Grande Piramide di Cheope, intorno al 2.500 A.C., seguita dalle altre due, costruite dal figlio Chefren (cui fu attribuita anche la Sfinge) e dal successore Micerino, è stata recentemente messa in discussione dall’ingegnere anglo-belga Robert Bauval (1948), progettista di opere infrastrutturali in Egitto. Questi, osservando nel cielo notturno del deserto l’allineamento della Cintura di Orione e ricostruendone lo spostamento temporale secondo l’inclinazione dell’asse terrestre, ha teorizzato, con argomentazioni stringenti, che il sito di Giza fu concepito nel 10.500 A.C. Ne discende che gli antichi egizi, come i sumeri, avrebbero conosciuto il complesso fenomeno astronomico denominato precessione degli equinozi. Bauval ha tracciato una mappa del sito di Giza che riproduceva, in terra, un segmento della volta celeste stellata, scoprendo l’ubicazione di opere mai rinvenute e postulando un articolato progetto del sito risalente allo “Zep Tepi”, il mitico “Primo Tempo” dell’età dell’oro egizia, narrata nel “Libro dei Morti”. In tale epoca sarebbero state realizzate le piramidi e la Sfinge direttamente per mano degli dei civilizzatori: Osiride, la sorella-consorte Iside, il mitico costruttore Toth. È questo forse il retaggio di un’antica civiltà? La più importante conferma “sperimentale” dell’ipotesi dello “Zep Tepi” è giunta da un altro tecnico, il geofisico americano Robert M. Schoch, professore all’università di Yale. Nei primi anni ’90

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Schoch ha dimostrato che l’erosione della “schiena” della Sfinge non era compatibile con le striature da vento e sabbia, come vuole la tradizione egittologica, bensì sarebbe stata provocata da acque di origine meteorica. Ciò comportava la retrodatazione della realizzazione della Sfinge di almeno 3.000 anni, collocandola non dopo il 5.000 A.C. e presumibilmente prima del 7.000 A.C. Robert Schoch avvalorò sul campo le ipotesi di un celebre ingegnere chimico alsaziano, René Schwaller de Lubicz (1887-1961), secondo cui la civiltà egizia non sorse, come da tradizione, nel 3.000 A.C. con il leggendario Re Menes; prima di Bauval, Schwaller de Lubicz riteneva che l’Egitto fosse stato popolato dai superstiti di Atlantide che, secondo Platone, scomparve nel 9.500 a.C. in seguito ad un cataclisma. I sopravvissuti avrebbero attraversato l’allora fertile Sahara per insediarsi nella valle del Nilo. I grandi templi e le piramidi dell’Egitto costituirebbero il lascito atlantideo. Comprenderete bene che qui siamo nel pieno dell’eresia pura, che sembra però stimolare i tecnici, gli ingegneri in primis, incuranti dei giudizi dei depositari della Verità accademica. Questi eretici non potevano non accorgersi che in altre parti del pianeta sono riconoscibili monumenti simili, che sembravano loro riconducibili alla medesima cultura, come i siti americani delle civiltà precolombiane, con le loro straordinarie città di pietra. E anche qui gli ingegneri hanno sferrato un colpo mortale alla tradizione, che vuole tali realtà relativamente recenti, sicuramenti posteriori alla nascita di Cristo. L’ingegnere britannico Maurice Cotterell ha recentemente prodotto rivoluzionari studi sui siti maya, in particolare sul Re Pacal di Palenque e sui messaggi in codice celati nei suoi monumenti. Ma su tutti spicca l’affascinante figura di Arthur Posnansky (1873-1946), ingegnere viennese, singolare coacervo di tecnico, esploratore, navigatore, imprenditore, archeologo. Arturo, com’era chiamato quest’Indiana Jones ante litteram, s’innamorò del Sudamerica e fu assessore comunale a La Paz in Bolivia. Il centro dei suoi interessi era però il misterioso Lago Titicaca, con la vicina, antica città di Tiahuanaco. Secondo Posnansky la città andina, posta a 3.844 m s.l.m., sarebbe stata costruita circa 15.000 anni prima di Cristo sulle sponde del lago, che poi, in seguito agli sconvolgimenti di un cataclisma, abbassò il suo livello di circa 34 metri, lasciando Tiahuanaco senza la funzione portuale che aveva ai suoi primordi. Come giunse a queste ardite conclusioni l’ingegnere austriaco? Attraverso complicati calcoli sull’andamento temporale dell’inclinazione della terra, desunto dall’allineamento degli undici pilastri che sostengono la struttura occidentale del tempio Kalasasaya, Posnansky dedusse che lo scenario celeste fosse quello del 15.000 A.C. Posnansky e Bauval hanno ragionato da ingegneri, utilizzando modelli matematici in grado di supportare uno scenario scientificamente coerente, pervenendo al medesimo, sconcertante, risultato: la storia antica va completamente riscritta! Questa non è fantasia “new age” e gli intraprendenti colleghi non sono visionari. Hanno formulato proposte, degne di rispetto, quantomeno lo stesso che si deve a coloro, appartenenti alla comunità accademica, che propongono interpretazioni religiose o mitologiche. L’apparente assurdità delle costruzioni megalitiche, con tutto il succitato armamentario di argani e rampe, è stata approfondita da un altro tecnico, un chimico francese, Joseph Davidovits, già direttore di ricerca e studioso universitario. Nel 1979 presentò due teorie al secondo congresso internazionale di egittologia di Grenoble, l'una sulla fabbricazione di vasi di pietra dura da parte degli antichi egizi, l'altra sulla pietra di costruzione delle piramidi d'Egitto, grazie alla pietra riagglomerata (una sorta di calcestruzzo) e non alla pietra tagliata. La teoria di Davidovits è stata

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presa in seria considerazione dal prof. Hobbs del MIT di Boston, che ha ricostruito una piramide in scala secondo le indicazioni del chimico francese. Non è l’uovo di colombo? Gli enormi blocchi, anziché essere trasportati, come si è sempre pensato, sarebbero stati “formati” direttamente sul posto con una miscela composta da calcare, caolinite, acqua e “natron” (Na2CO3). Una sorta di “cemento antico”, come ha confermato il professor Ken McKenzie della Victoria University di Wellington dall’analisi di campioni della piramide di Cheope. Fra parentesi, Joseph Davidovits è diventato un uomo ricchissimo: il suo brevetto, il Geopolymer, trattato recentemente anche dal Prof. Mario Collepardi, è usato nell'edilizia. Qualcuno, ironizzando ma non troppo, ha affermato che Davidovits ha trovato il vero Tesoro dei Faraoni. Opere faraoniche (nel vero senso del termine), retaggi di civiltà assai evolute nei vari campi della scienza e della tecnica, in cui gli antichi ingegneri esprimevano il loro talento in modo sorprendente. Forse il sumero Enki, l’egizio Thot, il greco-ellenista Ermete Trismegisto, i leggendari costruttori delle “meraviglie del mondo” sono la stessa persona, o, più probabilmente, la personificazione di quel Sapere così venerato da assurgere al “Sacro”. Ci piace credere che il misterioso volto della Sfinge, millantato per quello del Faraone Chefren, rappresenti Thot: l’espressione, consegnata alla pietra da millenni, di tale Sapere, che gli ingegneri moderni hanno saputo rintracciare e portare a nuovo splendore.