“La vecchiaia è bella, peccato che duri poco”. - unife.it mio primo incarico fu quello di...
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“La vecchiaia è bella, peccato che duri poco”.
(Giovanni Brera)
NOME E COGNOME: GERUNDA MARGHERITA
MATRICOLA: 099226
ANNO ACCADEMICO: 2010/2012
STRUTTURA OSPITANTE: CMR – CENTRO MEDICO DI
RIABILITAZIONE
SETTORE: SANITARIO
Descrizione della struttura
Ho svolto il mio tirocinio formativo presso il CMR, Centro Medico di Riabilitazione, struttura
situata nella località balneare di Marina di Ginosa in provincia di Taranto. Il CMR è una
clinica ad indirizzo riabilitativo facente parte della Federazione Europea Riabilitazione e
Sport(FERS). E’ strutturata su quattro piani, tre dei quali occupati dai reparti di degenza e il
restante piano da una grande palestra, una piscina riabilitativa e gli ambulatori specialistici e
diagnostici, che forniscono consulenze ed esami ad ampio spettro, sia in campo ortopedico e
neurologico, sia in campo cardio-respiratorio. Le due unità operative principali sono quelle di
recupero e riabilitazione funzionale e pneumologia per acuti e riabilitazione pneumologia.
“E’ difficile cominciare dall’inizio”(1)
Il primo giorno ho avuto paura. Non avevo mai operato all’interno di questo settore ed ero
timorosa di non essere all’altezza della situazione, in seguito a quanto mi avevano raccontato
circa il lavoro che si svolgeva all’interno della clinica. Il mio tutor, una persona stupenda,
disponibilissima e gentilissima, mi ha subito affiancata ad un ausiliario socio-sanitario che mi
ha mostrato ogni singola zona della struttura e il reparto in cui avrei trascorso praticamente
tutta l’estate. Terzo piano. Reparto di pneumologia. Venti posti letto, tutti occupati. Facemmo
un giro generale delle stanze in modo tale che potessi associare i volti dei pazienti ai nomi
scritti sulle cartelle cliniche. Prima stanza: un uomo costretto a letto, pieno di piaghe su
gambe e braccia, il signor Giovanni, che due infermieri stavano cambiando in quel preciso
momento. Non era certo un’immagine che si vedeva tutti i giorni, ma ho fatto finta di non
essere impressionata e ho proseguito. Seconda stanza: una donna obesa, la signora Felicetta,
che non riusciva nemmeno a girarsi sul fianco. Muoveva a malapena la testa e giratasi verso
di me mi disse “Buongiorno dottoressa”. Terza stanza: la signora Giorgini, che tutti
chiamavano Giorgi, tracheostomizzata. E così via per tutte le altre camere. Finito il giro
l’ausiliario, notando la mia faccia un po’ spaventata mi disse di stare tranquilla, che non avrei
dovuto fare prelievi o cambiare cateteri. Dovevo stabilire un contatto con quelle persone,
regalare loro un sorriso, perché quel posto non era solo medicine e punture ma soprattutto
amore e voglia di aiutare le persone in difficoltà. “Sei qui per imparare” disse, e così mi infilai
il camice ed iniziai quella nuova avventura.
Il mio primo incarico fu quello di assistere il signor Giovanni, praticamente il primo paziente
che avevo conosciuto. Dovevo farlo mangiare e stare con lui nel caso avesse avuto bisogno di
qualcosa. Col passare dei giorni, grazie all’aiuto degli infermieri, imparai a lavarlo e
cambiarlo. Quel lavoro mi iniziava a piacere. Se lavoro poteva definirsi. Era un piacere, non
un obbligo, aiutare quell’uomo, contrariamente alle mie aspettative e a quelle di tutti coloro i
quali mi avevano detto che non avrei sopportato a lungo la permanenza in quell’ambiente. E
mi piaceva perché non solo stavo imparando a fare cose che non avrei nemmeno
lontanamente pensato di poter fare, ma soprattutto perché ero felice del rapporto che si stava
instaurando col paziente. Quando i suoi problemi respiratori glielo permettevano e non era
troppo affaticato, il signor Giovanni mi raccontava tantissime cose: mi parlava della sua vita,
di quando era al militare, dei suoi nipotini e di quello che sarebbe nato a breve. E quando
finiva di parlare porgeva mille domande sulla mia. E io rispondevo, terminando ogni frase con
un sorriso, ma non perché mi era stato detto di farlo, semplicemente perché era un piacere
parlare mentre dall’altra parte c’era un interlocutore davvero interessato a quello che dicevo.
Sono stata con lui per un mese, tutti i giorni. Ed è stato uno dei momenti più belli di questo
tirocinio quando, entrando un giorno nella sua stanza, era seduto su una poltroncina, e non a
letto, e portandosi il cucchiaio alla bocca mi disse sorridendo che finalmente dopo tanto
tempo era riuscito a mangiare senza che qualcuno lo imboccasse, ma disse anche di sedermi
vicino a lui in modo tale da aiutarlo nel momento in cui ne avesse avuto bisogno. Gli
infermieri mi avevano detto che il signor Giovanni era felice di stare con me, perché gli stavo
vicino in ogni momento e lo aiutavo a fare qualsiasi cosa desiderasse. Ero “confortante”, mi
disse, perché il mio sorriso gli rendeva la giornata più allegra. Era la mia prima piccola grande
vittoria ed ero sempre più convinta del fatto che quella sarebbe stata un’esperienza
meravigliosa.
I giorni passavano, i “nonnini”, come li chiamavo io si affezionavano sempre più a me. E io
sempre più a loro. Ogni mattina, appena arrivavo in clinica, gli infermieri mi dicevano di
andare a far visita ad alcuni pazienti che avevano chiesto di vedermi. Io però puntualmente
facevo il giro di tutte quante le camere, ogni giorno. E mentre il tempo passava io imparavo
sempre più cose di quel mondo. Così lavavo i pazienti, li vestivo, li facevo mangiare, li
massaggiavo, accompagnavo nella palestra riabilitativa sulla sedia a rotelle chi non poteva
camminare, o semplicemente passeggiavamo nella hole o nel giardino della clinica, e ogni
passo era accompagnato da una storia sempre nuova.
“…un’anima grande per una grande passione…”(2)
Ormai quella clinica era diventata la mia seconda casa. Non solo per tutto il tempo che ci
passavo, non solo perché mi sentivo come la “nipotina”di tutti gli anziani in riabilitazione, ma
soprattutto per il fatto che ogni singola persona in quel posto, dottore, ausiliario o addetto alle
pulizie che fosse, mi faceva sentire a mio agio. Personalmente credevo sarebbe stato difficile
conquistare la simpatia e soprattutto la fiducia del personale, ma già dal primo giorno, questa
mia convinzione è stata smentita dal fatto che tutti quanti mi hanno dimostrato di essere delle
persone stupende, non soltanto dal punto di vista professionale, ma soprattutto umano. Dato
che ero la persona più giovane ad operare nella clinica, all’inizio tutti credevano che non ce
l’avrei fatta a sopportare le pressioni che inevitabilmente c’erano in quell’ambiente, e
pensavano anche che non avrei trovato la pazienza necessaria per restarci, ma col passare del
tempo diventai un po’ la mascotte di quella “squadra” tanto unita e tanto orgogliosa del
proprio mestiere. Con gli infermieri e gli ausiliari si è creato fin da subito un rapporto
bellissimo. Mi hanno sempre trattata come una figlia o una sorella più piccola, mi hanno
aiutata a superare qualsiasi difficoltà, mi hanno insegnato qualsiasi cosa si potesse imparare lì
dentro. Ed io, grazie alla loro gentilezza, non mi sono mai sentita “la tirocinante”, ma una di
loro, ed ero felice perché attraverso quello che mi avevano insegnato, ho potuto fornire tutto
l’aiuto che potessi dare, ho cercato in tutti i modi di rendermi utile cosicché che, svolgendo i
miei compiti avrei potuto contemporaneamente aiutare chiunque mi avrebbe chiesto una
mano. Volevo essere brava come quei tenaci lavoratori, perché personalmente non avevo mai
conosciuto delle persone così professionali ma allo stesso tempo stupende e disponibili come
loro. Sicuramente è risaputo che lavorare nel campo di assistenza e cura agli anziani è un
compito abbastanza difficile, ma non si può realmente conoscere questa difficoltà fino a
quando non ci si avventura in questo mondo. Solo chi è costantemente a contatto con questa
realtà può capire quanto in verità sia difficile, delicato ma anche soddisfacente questo lavoro.
La figura impegnata in questo campo, infermiere o assistente che sia, oggi è cambiata, sia a
livello di formazione, che di capacità richieste sul lavoro, capacità che devono
necessariamente e costantemente adattarsi a dei bisogni sempre nuovi, soprattutto se si
considera che la popolazione anziana è in continuo aumento e costituisce circa il 18% della
popolazione totale italiana e determina il 37% dei ricoveri ospedalieri ordinari ed il 49% delle
giornate di degenza e dei relativi costi stimati.
Come dimostra il grafico, l’indice di dipendenza degli anziani da altre persone è salito negli ultimi vent’anni, ma tenderà a
raddoppiare entro il 2050. (3)
Per cui, bisogna avere conoscenze basilari non solo in campo medico ma principalmente in
quello psicologico, in modo da carpire quanto più possibile dalla relazione col paziente, al
fine di poter soddisfare i suoi bisogni e non semplicemente assisterlo e curarlo meramente dal
punto di vista medico. Il male, molte volte non è solo fisico. È soprattutto psicologico, per cui
bisogna in tutti i modi cercare di scoprire cosa realmente affligge l’anziano e liberarlo dalle
sue preoccupazioni in modo tale che possa vivere il resto della sua vita nella maniera più
serena possibile. La maggior parte delle volte, il problema principale di questa gente è la
solitudine. Le persone che dovrebbero accudire e stare vicino ai loro cari molto spesso sono
assenti, e questo crea gravi problemi all’anziano già provato dall’età. Per cui si verificano casi
di malattie che sono in realtà psicosomatiche: molte volte anche delle semplici frustrazioni
quotidiane possono avere effetti sulla funzionalità immunitaria. Sono state condotte in Italia
alcune ricerche che dimostrano quanto questo problema sia presente all’interno delle famiglie:
solo una percentuale bassissima (pari a circa il 10%) intrattiene dei rapporti costantemente e
strettamente ravvicinati con i propri parenti anziani. Questi ultimi, dichiarano di sentire più
presenti persone come vicini o amici piuttosto che familiari. È una questione delicata e allo
stesso tempo preoccupante, che dimostra in un certo senso come la società stia mutando in
maniera sempre più egoistica: sembra che le gente, sempre troppo impegnata a percorrere
Indice di dipendenza anziani
21,5 21,3 22,8
0
5
10
15
20
25
1981 1991 2001
strade di successo e seguire i modelli imposti dalla globalizzazione e dalla modernizzazione
della società, stia pian piano dimenticando i veri valori che hanno permesso al mondo di
funzionare fino a questo momento. Bisogna acquisire la consapevolezza del fatto che è grazie
agli anziani se noi oggi siamo quelli che siamo, perché sono stati loro a costruire le
fondamenta su cui ci è stato permesso di poter crescere. “Escluderli è come rifiutare il
passato, in cui affondano le radici del presente, in nome di una modernità senza memoria"(4).
Possiamo soltanto imparare da loro, perché la saggezza è frutto dell’esperienza, e chi ha
vissuto più tempo, sicuramente ne possiede più di noi.
“ Ci si può ammalare anche solo di un ricordo”(5)
In clinica mi sentivo un’altra persona, realizzata, felice. Non mi annoiavo mai, era
impossibile, perché ogni giorno accadeva qualcosa di diverso. Pazienti che si ricoveravano e
di cui bisognava acquistare la fiducia, perché pensavano che fossi troppo piccola e inesperta
per aiutarli, pazienti che si dimettevano e che era difficilissimo lasciare perché ormai ci si
erano affezionati tutti. E ogni persona era diversa: chi brontolava, chi scherzava con tutti, chi
passava l’intera mattinata a spingere i bottoni dell’ascensore; c’era chi si faceva forza e
affrontava la vita a denti stretti e chi invece proprio non ce la faceva. C’era chi non parlava,
ma con uno sguardo riusciva a comunicare tutto, c’era chi non ce l’ha fatta e chi è uscito da
quella clinica completamente guarito. E tutti quanti raccontavano la loro storia, e io ascoltavo.
E ridevo con loro quando mi raccontavano aneddoti sulla loro giovinezza, piangevo con loro
quando mi raccontavano di quanto era stata difficile la loro vita e quanto in certi momenti si
sentissero soli, delle loro malattie che avevano reso quegli “ultimi anni” insopportabili, ma
che in fondo non avevano perso la loro voglia di vivere. E questo mi dava forza.
Poi c’erano anche pazienti affetti da demenza senile o malati di Alzehimer, che ogni giorno
raccontavano le medesime storie e mi porgevano le stesse domande del giorno prima. Li
ascoltavo. Li ascoltavo interessata e rispondevo loro come se fosse la prima volta che lo
facessi. Le persone con questo tipo di problema erano quelle che mi stavano più a cuore, ma
non perché io facessi distinzioni tra un paziente ed un altro o avessi dei favoritismi,
semplicemente per il fatto che stare con loro mi ricordava il vero motivo per cui avevo scelto
di fare quell’esperienza: il mio tirocinio, se così posso dire, è iniziato un po’ di tempo fa. Mi
sono molto informata circa questi temi, e ho potuto scoprire che malattie degenerative in
questo senso, prima fra tutte l’Alzehimer, vengono diagnosticate con certezza solo dopo
un’ autopsia che dimostri effettivamente la presenza delle placche amiloidi responsabili della
malattia, per cui vengono solitamente somministrati dei test e sottoposti esami che in modo
“quasi” certo dimostrano la presenza del morbo. Quindi non si sa mai quando arriva, se
effettivamente c’è o se la persona coinvolta sfrutti la sua età per “far finta” di esserne affetta
così da ottenere qualsiasi cosa desideri, ed anche se questo modo di pensare è orribile, la
maggior parte della gente si aggrappa a questa convinzione. Per colpa di questo male, così
enigmatico e imperscrutabile, silenzioso e distruttivo, ho perso una persona a me cara, e il mio
rimorso più grande è stato quello di non esserle stata vicina e non essere riuscita a capirla. La
verità è che si tende sempre ad allontanarsi da questo mondo e da queste persone, definite
troppo “problematiche” ma solo perché secondo me siamo incapaci di far fronte ai loro
bisogni e non riusciamo ad ammetterlo. Io so che vuol dire. È paura. Paura di non essere
all’altezza e paura di impazzire. Paura che ogni gesto possa essere lesivo o sbagliato, per cui
molte volte si rimane con le mani in mano a guardare che tutto finisca nella maniera più
dolorosa possibile. Paura di perdere qualcuno e avere il rimorso di non averlo capito a fondo.
Per questo motivo ho preso la decisione di svolgere questo tipo di tirocinio, che all’inizio
vedevo solo come una forma di riscatto, ma poi si è rivelato essere qualcosa di estremamente
istruttivo, gratificante e semplicemente meraviglioso. Non si finisce mai di imparare. E
attraverso quell’esperienza, mi è sembrato di aver dato a quelle persone quello che non ho
potuto dare a chi purtroppo ho perso. Ed essere riuscita nel mio intento ed aver resistito per
tutto il tempo senza mai mollare un attimo è stata sicuramente la mia più grande vittoria.
Dico di essere riuscita nel mio intento non soltanto perché una volta finito il tirocinio tutto
quanto di quel posto mi mancava e non volevo per nessuna ragione andare via, ma soprattutto
perché sentirsi dire da quei nonnini “grazie” mi ha fatto capire quanto senza nessuno sforzo si
possa rendere felice una persona. Ma di cero non è stato tutto merito mio. Ho dato il massimo.
I miei studi universitari e le mie esperienze di vita mi hanno aiutata molto, ma non sarei mai
riuscita a dare il 100% se non ci fossero state le persone giuste ad accompagnarmi lungo
questo cammino. Non smetterò mai di ringraziare il mio tutor e tutti coloro che lavorano
all’interno della struttura per avermi dato questa possibilità, grazie alla quale adesso posso
dire di essere una persona diversa. Migliore.
Qualche tempo dopo la fine del tirocinio sono tornata in clinica per salutare il personale e i
pazienti, anche se con la consapevolezza che non tutti si sarebbero ricordati di me. Con mia
grande sorpresa, e un senso di felicità che mai avevo provato prima, capii invece che il mio
ricordo sarebbe rimasto lì a lungo, perché ormai, anche se qualcuno non ricordava bene il mio
nome ero in ogni caso “la ragazza che sorrideva sempre e aveva le mani d’oro”, che aveva
trascorso tutta l’estate al CMR e che in un modo o nell’altro aveva lasciato a tutti quanto un
pezzo del suo cuore.
Riferimenti:
(1). Cit. Ludwig Wittgenstein
(2). Cit. Alfredo Oriani
(3). www.ministerosalute.it
(4). Giovanni Paolo II, Lettera agli anziani, 1999
(5). Cit. Paolo Giordano