Pastiche #29 online

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versicontroversi n.29 mensile gratuito Claudia Escalona aka Pikkuy - Poster PASTICHE stuzzica l’arte e la poesia 03/2014

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C’è del coraggio, sì, e c’è anche paura, pianto, lealtà, rabbia, impegno, nell’arte del nostro tempo, ma non l’arte che ci propina il mainstream da decenni, quella che viene dal basso, quella che sfida gli eccessi, quella che lecca per terra e dopo ci beve sopra, quella che sa come funziona perché ci è cresciuta dentro, quella che ci ha spinto ad essere quello che siamo; si perché l’arte del nostro tempo è fatta di persone, di facce, di cuori, di gambe e di sesso, persone che hanno deciso di mettersi in gioco e di fare la propria parte - fottersi la propria arte! – E’ a queste persone ( e a tutte quelle che verrano ) che dedico questo numero ( e tutti quelli che verranno! )

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versicontroversi

n.29

mensile gratuito

Claudia Escalona aka Pikkuy - Poster

PASTICHEstuzzica l’arte e la poesia03/2014

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Collaboratori: Chiara Fornesi, Fara Peluso.

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Chi collabora con Pastiche lo fa senza ricevere compensi. La proprietà intellettuale resta chiaramente agli autori.

PASTICHE pensata e redatta da Paolo Battista.

Grafica e impaginazione a cura di Moodifwww.facebook.com/pasticherivista

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Intuii allora il coraggio dell’umanità e fui contento di farne parte.c’è del coraggio, sì, e c’è anche paura, pianto, lealtà, rabbia, impegno, nell’arte del nostro tempo, ma non l’arte che ci propina il mainstream da decenni, quella che viene dal bas-so, quella che sfida gli eccessi, quella che lecca per terra e dopo ci beve sopra, quella che sa come funziona perché ci è cresciuta dentro, quella che ci ha spinto ad essere quello che siamo; si perché l’arte del nostro tempo è fatta di persone, di facce, di cuori, di gambe e di sesso, persone che hanno deciso di mettersi in gioco e di fare la propria parte - fottersi la propria arte! –E’ a queste persone ( e a tutte quelle che verrano ) che dedi-co questo numero ( e tutti quelli che verranno! )

John Fante///Chiedi alla polvere

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“ Ieri “ blatera Serafino stringendo i denti, “ ho visto una de settantanni che portava li tacchi a spillo rossi...che ve devo dì, a me nun me piaciono pe gnente “, mostrando tutto il suo disappunto con i suoi tre amici di sempre: Wal-ter, Cesare e Dino. “ Cioè “ continua agitando le braccia come un mago, “ me piaciono le donne de tutte l’età ma forse quanno rag-giungi la vecchiaja te devi sapè sistemà e nun mostratte ‘n giro come ‘na battona...ma ar de fori de questo ‘na botta je l’avrebbe data senza problemi “. Da qualche mese Serafino, settantenne dai capelli bianchi con la riga, naso a patata e faccia tonda rossa e butterata, si sposta solo per sedersi al bar Giglio, proprio sotto casa, che da poco ha cambiato gestione ma resta sempre il bar del quartiere. Da qual-che mese per spostarsi c’ha pure bisogno di una stampella ma non si sa bene qual è stato il problema e gli amici non osano chiederglielo per non beccarsi qualche “ fateve li cazzi vostri “ in piena regola, perché si sa quando uno è malato si vergogna di mostrarsi debole e Sera-fino di certo non è tipo da mostrarsi abbattuto e debilitato, anche se lo è. “ Io ‘nvece me la farei de brutto con o senza li tacchi “ risponde Cesare, magro, brizzolato e occhialuto che ormai da quando qualche anno fa è andato in pensione, non riesce a non

acchi a spi opensare ad altro che al sesso, ma c’ha una certa età e quindi probabilmente abbisogna di qualche pilloletta di quelle blu, insomma di Viagra per vedere ancora la sua bandiera raggrinzita alzarsi e sventolare.“ Ma che stai addì “ sbotta Walterino, “ nun è mejo fassene una de quelle giovani che batteno sull’Appia, se proprio uno deve fasse quarcuna? “. “ Si “ dice Dino, “ ma pe quelle ce vonno li sordi e la salute, e qui me pare che avemo tutti superato l’età giusta pe scopasse quarche regazzina, no? “.“ Pensa pe te “ risbotta Cesare sfogliando il Corriere dello Sport lercio di caffè che qual-cuno a fatto cadere, “ io ancora ce do dentro come ‘n pischello “ e sghignazza mostrando la sua dentiera perfetta e bianchiccia.“ Mah! Nun lo so, forse c’hai ragione “ sbotta Dino, “la vita è troppo breve e qua me sa che nun ce resta troppo da vive “ ordinando il suo secondo caffè alla biondissima Cinzia che ulula: “ caffè per il signor Dino...arriva! “. Dino Fresi è un vecchietto arzillo e simpatico, tifoso sfegatato della Roma, come del resto i suoi compari ( tranne Walter che è della Lazio ), pelato, con le orecchie a punta e un mento allungato. Prima di andare in pensione faceva il rappresentante della Folletto, e non c’è casa

Paolo Battista

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nel quartiere a cui non abbia venduto quel mo-stro verde che aspira polvere e piedi. Di statura è bassino ma bello pienotto a differenza di Walter che è secco come un manico di scopa. C’ha la faccia scavata e due occhi blu come i cartelli stradali del senso unico. Da giovane deve avere avuto un sacco di donne ai suoi piedi e non manca di sbandierarlo ai suoi amici e non solo, che ormai conoscono a memoria tutte le sue storielle erotiche. Una volta c’aveva un Tabacchi che oggi è passato al suo unico figlio, Carletto, costretto a non realizzare i suoi sogni per portare avanti quelli del padre.“ A me “ bela Walterino, “ nun me dispiace-rebbe ‘na bella donna de quelle mature, che te capisce e sa come movese...e me piaciono pure li tacchi a spillo, che tra l’artro mi moje nun ha mai messo ‘n vita sua, e anzi se devo dilla tutta ancora ancora quanno vedo ‘na don-na conciata perbbene, me sento de formicolà er cavallo e l’artro giorno, nun te dico, stavo a casa, mi’ moje era scesa ‘nciabattata pe com-prà du’ verdure, e ‘n televisione ce stava quella bella gnocca de Barbara D’Urso...avete capito de chi sto a parlà?...beh! ‘nsomma, pe favvela breve, me so’ ritrovato cor coso bello dritto e le mutande bagnate, tanto che quanno mi moje è rientrata ho dovuto da cambià canale pe nun faje capì gnente...ormai me conosce bene ed è mejo nun faje capì come stanno le cose...sennò dopo chi la sente! ”.“ Pe la madonna “ abbaia Serafino, “ la D’Urso è ‘n ber pezzo de gnocca seria che a stacce vicino me verebbe la tremarella, nun solo er culo ma c’ha pure du’ bocce che a succhiajele tornerebbi bambino “.“ E si...c’avete proprio ragione “ spara Dino che non manca di fare apprezzamenti anche sul culo della Cinzia. “ Quello si che è ‘n ber culo “ blatera Cesare ma senza alzare troppo la voce chè dentro ci sta Nerone, il marito di Cinzia, un gorilla bar-buto geloso e inkazzato con due mani grosse quanto due padelle.

“ Ecco “ continua Serafino, “ nun diteme che a una così nun je fareste er servizietto pecchè nun ce credo...”.“ Io je farebbi de tutto co li tacchi e senza li tacchi “ sottolinea Cesare; “ beh, se proprio se deve anch’io je darebbe quarche bottarella, e tu? “ chiede Dino guar-dando Walter nei suoi occhi blu senso unico. “ E che m’avete preso pe uno de quelli? Che cazzo, certo che ce starei mica so ‘n frocio demmerda “.“ Vabbè, vabbè, nun t’enkazza, chi t’ha detto gnente! “ farfuglia Dino strappando il Corriere dalle mani di Cesare che comunque stava per posarlo.“ Insomma “ spara Serafino “ semo tutti d’ac-cordo su ‘na cosa: er pelo è pelo e quinni nun c’entra n’ cazzo l’età ma solo la voja che c’hai de scopatte ‘na bella donna, semo d’accordo? “.“ Certo che semo d’accordo “ sbottano in coro e al passaggio della signora Assunta, anziana quanto loro ma ancora con un bel portamen-to, i quattro s’azzittiscono spostando le loro teste canute e argentate sul bel culo maturo dell’ennessima passante ( con o senza tacchi a spillo ).

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Zeitgeist /\/ Paola Verde

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L'impianto metallico cadenzava sulle bottiglie come un blues di Elmore James. Mani. Mani che suona-vano il metallo, sotto rotelle, gomma che scivolava a tempo. Una e due e poi tre. Fotocopie alcoliche da fabbrica che pagava i ricambi cinesi del corpo. Accanto alla mia postazione ci lasciavo sempre una tua foto, per ricordarmi che ogni movimento era ad un passo dal tuo alito stappato. Stelle di ferro dentellate da metter sopra alla brodaglia frizzante, che poi da qualche parte, in un qualche dove sotto terra, le donne come te potevano aprirle con gli accendini e mettersi a ballare fino a rilasciar malumore dalle punte dei capelli. Le mie mani su quei tappi, non compresi da baristi, da magazzinieri, da trasportatori, che un uomo al centesimo di euro minorato stava concentrato ad inserire un piccolo disco alla volta, mentre sottovalutava la pazzia dei tempi suoi e gli scatti dei fotogrammi tuoi al cadenzar come in Dust my broom. Potevo fallire come lavoratore in una fabbrica di bottiglie di birra ma non come uomo, non come musicista dalla chitarra slide e non come compagno di bevute. Finire a maneggiare l'acciaio per cambiare le corde con le mani già sporche di ruggine mentre tu ingollavi un'intera generazione di musi-cisti rock. I turni finivano ma le macchine continuavano ad andare con altri ricambi cinesi di carne, altri bluesman con donne alcolizzate, altre mani. Altra pazzia su quelle stelle di ferro, i tappi trasmessi da un'energia insoddisfatta di altri corpi via via più metallizzanti, foto piegate due volte ad emanare la croce di una faccia rigata dall'odio. Amori così folli da fluire dentro alle bottiglie per contagiare altri sotterranei, medesimi spunti per litigi e tavolate sbagliate. All'epoca passava tutto per il lavoro e non molti riuscivano a capirlo. L'arte era una merda. Potevi farci impazzire le donne se volevi, potevi portarle a desiderare il metodo più veloce per annullarsi, colonne di francobolli di LSD per annichilimento rapido e potevi buttar giù con quelle bottiglie già maneggiate da artisti che ripetevano “la vita fa schifo, è tutto una merda”. Critici che scrivevano di noi, substrato di perdizione e di noia nei pub e prima ancora nelle case abban-donate. Pranzi infiniti, con bottiglie di Chianti e balconi illuminati. La pazzia che stava già in tutte le cose. Su di un lato al buio di una stanza fredda con manufatti cristiani a studiarsi la sbronza tua, poi un cesso popolare e ad un certo punto ti sentivi sempre così male da prendere ed andar via. Tu lo sapevi quanti tappi avevo applicato fino a quel giorno? Quante stelle di ferro sulla tua faccia? I compositori avevano bisogno di aprirsi, non di poggiare la testa al vetro di una finestra appannata per convincerti a tornare via telefono. Nemmeno una nota così. Tanti silenzi su apparecchi sempre più tecnologici e tu, come quella donna coi capelli più biondi e più corti, quale cazzo di musica avreste ascoltato se non ci fossero stati i tappi. Le stelle di ferro sulle vostre facce.

Rubens Lanzillotti

diS elle f rro

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Mi chiamo Anna. Anna è il mio nome. Sono Anna. Tutto quello che mi sta intorno non è Anna, perché Anna sono solo io, e sono stanca di viaggiare in treno. Dicono che stare seduti dalla parte opposta alla direzione in cui il treno viaggia sia stressante e faticoso, ma questa è una delle tante leggende urbane sui treni. A parte la scorte-sia dei bigliettai, l’unica altra cosa fondata è che i treni sono il posto più azzeccato per incontrare strana gente.Lui, per esempio. L’ho osservato parecchio. Mai visto scendere né salire (c’è già quando io prendo il treno a Cremona e resta su quando scendo a Milano Rogoredo). Molte volte ho pensato di seguirlo, vedere dove anda-va, scoprire chi era. Non sono una ficcanaso. Mi sono messa nei guai diverse volte perché mi piace buttarmi nelle cose, ma non sono un’impicciona. E’ solo che quest’uomo misterioso mi intrigava. Invidiavo il suo essere imperscrutabile, il suo distacco, quel modo un po’ inquietante di sbirciare il mondo intorno a lui.Quando decisi di sedergli accanto mi aspettavo un qualche tipo di reazione. Niente, a parte un leggero al-lontanamento delle sue gambe dalle mie. Avevo due teorie. Quell’uomo voleva suicidarsi. Forse è perché mi sembrava triste, ma in fondo non significa niente.Avevo un amico una volta. Sorrideva sempre, e aveva sempre cose divertenti da raccontare a tutti. Nessuno pensava che si sarebbe mai appeso alla ringhiera di casa sua.L’altra teoria era che l’uomo misterioso non volesse avere contatti con il mondo.

Il suoDavid Chance Fregale

Camminava tra noi, magari ci viaggiava accanto, ma stava nel suo “fuori”. Il suo “fuori”…Un giorno mi decisi…Volevo chiedergli se andava tutto bene, se aveva bisogno di qualcosa…di me?...parole imprudenti in bocca a una perfetta sconosciuta…Lo toccai. FRRR…Come vento nei suoi vestiti, carta che si increspa, cose che guizzano sotto pelle. Io non sono qui.Oh, no.Non lo vidi mai più. Il mio tocco aveva infranto la sua sicurezza, la sua estraneità, l’aveva reso vulnerabile. A me, al mondo. Piansi molto, nei giorni seguenti, dalla maledetta città del violino alla maledetta città della moda. Poi…Non so se, comunque, da quel giorno si è instaurato un rapporto fra di noi. Ma trovo delle cose sul sedile dove stava di solito…vecchi orologi senza lancette, pergamene indecifrabili, orsetti di peluche pieni di cavallette morte, libri che non credo siano mai stati scritti, semplici caramelle incartate che odorano di luoghi lontani, un vasetto con un po’ di terra e al centro una mimosa pudica, che si chiude, come fece lui, al mio tocco..…e oggi…oggi la cosa più strana. Piccola, quadrata, una polaroid che non può esistere: due figure, una bassa e una alta, che si stringono come vecchi amici, sullo sfondo di una città che non riconosco. Io e lui. Altrove.

Fuori

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Il Carico /\/ Simone Angelini ( I parte )

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( II parte )

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Il mio braccio sta tremando, mentre una sigaretta si consuma nel posacenere in ceramica. Il mio braccio trema visibilmente e ti fa sussultare, ma non voglio lasciarti cadere a terra, devi morire in piedi, devono essere i miei occhi l’ultima cosa che ricorderai di questa vita. Ora anche le gambe iniziano a cedere, ma non posso ancora lasciarti finché tu non ti lascerai morire. Avanti, non manca molto. Avverto il sangue scorrere caldo fra le mie dita, è piacevole e per qualche secondo mi lascio cullare dal suo flusso, ma non voglio distrarmi perché coi tuoi occhi ho sempre avuto poco a che fare.Fai strane smorfie forse vorresti parlarmi, ma il respiro ti si spezza in gola. Deve proprio far male questo fottuto pugnale. Ti ricordi, lo avevamo preso alla Fiera del Fungo, avevi tanto insistito per farti fare lo sconto. Quindici coltelli in acciaio di tutte le misure e per tutti i generi di cibo. Non sapevano però che una lama per il pane poteva affondare egregiamente anche il tuo ventre. Guardo il manico in legno che spunta dalla tua pancia e mi fa sorri-dere, non ricordo perché siamo arrivate a questo. Di chi era la sigaretta che ora si sta spegnendo nel posacenere? E’ buffo che proprio ora che sei fra le mie braccia non riesco a dirti nulla, proprio ora che finalmente potresti ascoltare tua figlia è lei che non vuole farsi ascoltare.Sono caduta nei tuoi occhi e tu sei come rapita dai miei. E questo basta. Mi stai facendo male, sai.Le tue unghie sono artigli appesi sulle mie spalle.Vorrei poter avere la tua forza, ma non sono come te e questo non me l’hai mai perdonato. Tu sei sempre riuscita meglio di me a sopportare tuo marito “ .. bisogna avere pazienza ..” dicevi “..

LASCIATI MORIREUnoduetrequattrocin-

que colpi.Prima di ve-dermi inondare le mani dal tuo sangue adorato, lasciati morire come io mi sono lasciata vivere. Senti un dolore lanci-nante al ventre spezzarti il respiro, proprio come quando mi mettesti al mondo carne da pulire sfamare e inscatolare. Ed ora questa tua stes-sa carne a cui quel gior-no donasti la vita, deci-de di togliertela. Niente di nuovo. Muori Madre, mentre una lama lucen-te giace ancora nel tuo stomaco, lo affonda.Muori. dentro i miei oc-chi spalancati sul tuo viso Muori. su questa donna che ti ama Muori. perché tutto è stato fat-to e niente è stato detto.Solo questo è il modo per poterti adorare senza la frustrazione di vedere il tuo sguardo sprezzante su di me.

Alessandra Piccolo

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perché lui è fatto così”. Ma io non sono mai stata paziente e nemmeno indulgente. Persino con me stessa. Ho sempre preferito spezzarmi, mai piegare la testa era il mio motto e tu soffrivi per questo, lo so ti sentivo pian-gere di nascosto in camera tua e non facevo niente, rimanevo dietro alla porta in silenzio a vegliare sul tuo dolore. Poi fluttuavo leggera in bagno e sai bene cosa facevo. Una sola volta mi medicasti.Con rabbia sfregavi il batuffolo di cotone sui tagli che mi ero provocata la sera prima, mi facevi un gran male ma non fiatavo. Ero lì nelle tue mani, come non capitava da anni e ti guardavo prenderti cura di me. Non me la sarei più scordata quell’immagine di noi, una di fronte all’altra, tu che snocciolavi parole orribili su quello che facevo ma intanto pulivi il mio sangue, e per me non ci fu mai più nulla di così meraviglioso.Per te ho sopportato ciò che era contro la mia natura, ma tu non hai mai visto oltre questo corpo martoriato. Questo mio corpo, che racchiude qualcosa di ben più grande ma che era più semplice non guardare. Sento delle macchine passare sotto una pioggia leggera che ricopre la città, è come se la tua anima non volesse staccarsi dal corpo, perché là fuori, sotto l’acqua, le sue ali si bagnerebbero e forse non potrebbero volare fino al cielo. Non c’è problema mamma, starò qui a farti compa-gnia, non ho più fretta, il nostro destino ormai si è già compiuto e ora non ho più paura.La Paura. Unica costante della mia vita.La Paura che muove il mondo.La Grande Signora dal volto poliedrico che ora avvolge la tua mente. La riconosco, si è già sciolta sulla tua faccia deformandola orrendamente, ma tutto questo durerà solo un attimo, poi tornerà in me come siero avvelenato perché Lei ama questa mia anima, ormai sua devota schiava.Sfilo lentamente e a fatica il coltello dal tuo corpo ormai inanime. Avverto le tue dita schiudersi dalle mie spalle, come freschi boccioli aperti ad una nuova vita. Osservo le pieghe del tuo viso disten-dersi magicamente, i tuoi occhi vedere un mondo fatato, vedere la morte e la vita confondersi. Sei una Monnalisa piangente e ti bacio sulle labbra come capitava a volte quando ancora ero bambi-na. Ti accompagno a terra scivolando sul muro della cucina macchiato di umidità ma la tua testa penzola all’indietro e in un millesimo di secondo comprendo che mia madre non esiste più. Il tuo corpo pesante più del piombo soffoca il mio, le tue braccia molli sembrano tentacoli che m’im-prigionano in una trappola mortale.

Mi dimeno ed eccola tornare la troia.E’ tornata la Grande Signora, è furibonda m’inonda del suo male ed io.Io.

Di chi era la sigaretta nel posacenere?Sotto di me il corpo di un mostro deforme.Chi è questo orrendo abominio che a bocca spalan-cata non emette alcun suono?Indietreggio, lo osservo e mi preparo all’attacco. La Paura raccoglie tutto il mio essere e lo riduce a un piccolo puntino in fondo ai piedi, sotto alla suola delle mie scarpe.

Inspiro e perlustro velocemente la cucina per tro-vare qualcosa con cui difendermi. Sul tavolo c’è un posacenere di ceramica con dentro una sigaretta del tutto consumata. Il gelo. Mi sento bagnata, abbasso lo sguardo. Sangue e puzza di marcio.Sul mostro, su di me, sui muri, sul pavimento.Quell’essere che ora giace a terra immobile ha compiuto un massacro.Tremo e lo fisso.Tremo e sono come ibernata. Ogni mia cellula è impegnata a carpire qualsiasi probabile movimento del mostro. Niente. Rimango ancora per qualche minuto cosi. Appesa con un dito fra disperazione e rabbia.Occhi sbarrati come fari, respiro irregolare, bocca tremante spalancata in cerca di ossigeno, le brac-cia lungo i fianchi rigide e fredde, mani chiuse a pugno. Devo ucciderlo prima che lui finisca me.Afferro il coltello a terra, quello che lui avrà certamente usato per assassinare le sue vittime, e mi avvicino cauta .Un passo dopo l’altro un passo davanti all’altro. Piano. Piano.Mentre il respiro si fa sempre più rumoroso.Mentre il respiro copre il rumore della pioggia.Mentre il mostro è steso sotto di me.Mentre impugno a due mani il grosso manico in legno.E lo sollevo sin sopra la mia testa.M’inginocchio sul suo sangue.E affondo.Unoduetrequattrocinque colpi.

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Le stelle stanno vomitando stanotteed è un cataclisma di desideri al silicone,muovi il bacino a tempo di musicae ti ritroverai in anfetamina nudo al parco.Sono i tempi moderni, ragazzi,un hula hop di neuroni allo specchio,un feticcio d’un mostro strabicoche guarda la tv.Giro giro tondo,tutti giù per terra,c’è un’atomica,c’è la guerra,c’è quell’interessantissima discussione infinitasulla preparazione ideale della carbonara.Io intanto Dio l’ho fregato in terza elementarequando la suora per assodare la presenza divinaci faceva chiudere gli occhiasserendo che non è possibilenon pensare a nientee io nel mio angolinomi annientavo la mentee capivo ancor di piùosservando gli altriconcentrati su chissà cosache è un mondo allo sfascioe che le stellestanno vomitando da sempre.

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Bombe a mano su Stalingradomarciare non marcire

pecore irlandesi che occupano le strade in piccoli paesi che si perdono nella nebbia

Dammi una mano Joeche bisogna dare una mano ai ragazzi

i paesi cuscinetto sono un arsenale nascostopoi tutti a bere birra al Görlitzer Park

che la bandiera rossaha smesso di sventolare

sul Palazzo del Reichstag.Iprite italiano sulle sabbie abissine

Badoglio soffiati il nasoche l’aria è irrespirabile

e poi tutti a sniffare cocainaa Gardone di Riviera

col Vate che dà ordini ai servi in mutande sul balcone

vacche indiane che occupano le strade in piccoli sobborghi a sud di Calcutta

Dammi una mano Joeche bisogna far divertire

le puttane vietnamiteBombe atomiche solitarie

nei cieli di Giapponepoi si dice di stare calmi

che c’è sempre un’occasionecome gruppi di cinghiali

che devastano la floraio mi piego e non vi aspetto

mi sa tuttodi maledetto UN

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BUS.Noi siamo incubi. La scritta sulla panchina della fermata dell’autobus. Sbiadita. Illegibile. Forse c’era scritto altro, ma i miei occhi leggevano questo. Noi siamo incubi. Mentre aspettavo.Aspettavo il mio autobus.

///

La mamma tiene per mano la bambina con le trecce e gli occhi tristi. Ha gli occhi tristi. Come quelli mai ne avevo visti prima. E quell’ aria indifesa che si porta sulle guance mentre stringe al petto una bottiglietta d’acqua come fosse una bambola. Con le mani rotonde. Il viso rotondo. Gli occhi rotondi. E tristi. Cade a terra da ferma. Sul sedere. Rotondo. La mamma la solleva sgarbatamente stringendola per il polso. La scuote. Sembra un pupazzo di stoffa. La sgrida. Parla un’altra lingua. O forse la mia. Ma non capisco. Come se fossimo sott’acqua io non capisco. Non capisco e gli occhi della bambina si riempiono di lacrime.

///

Massì, massì. Dicono tutti di questi cinesi che vengono qui. Ma guarda che loro sono degli sta-canovisti. Cioè, quelli ti lavorano per ore. Per ore! Mica come noi. Loro faranno successo. Eccome. Altrimenti come te lo spieghi?

///

Una coppia siede di fianco a me sulla panchina. Lei è grassa e la pelle è lucida di sudore. Le cosce spiaccicate sul legno. Strette nei pantaloncini. Accavallate. Il piede destro dondola e ogni tanto sbatte contro il polpaccio abbronzato di lui. Lui. Con gli occhi scuri. Lei lo guarda. Gli scatta foto col cellulare e gliele mostra ridendo. La sua risata mi inquieta. Sembra il suono delle civette nella notte. Quando siamo soli tutto fa più paura. Lui guarda il vuoto. Il vuoto della fermata che ti prende per i fianchi e stringe con tutta la forza che ha. Respiran-doti sul viso mentre aspetti per quei minuti che sono ore. Il vuoto delle esistenze che condividono con te l'attesa senza gambe di quei minuti che sono ore. Lui guarda il vuoto. Comincio a guardarlo anch'io. Poi. Lei gli parla.

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UNA STORIA VERA.///

Un uomo con la maglia alzata fino al petto e un cappellino giallo scende da un bus. Cammina aiu-tato da un bastone. Ad ogni passo, dalla sua bocca, esce un suono che non è parola. Taglia il silenzio del pomeriggio in modo così netto che posso vedere il colore di quel suono. Sostanza che leggera si spinge verso il cielo senza nuvole. Per poi scomparire. Sotto il cappellino la sua faccia è piena e rugosa e scura e allora capisco che anche lui, come quel suono ha colore. Sostanza. Capisco che esiste. E che io.

///

Si baciano perchè l'autobus li separerà. Poi si ab-bracciano. Poi si guardano. Poi lui sale. E lei rimane immobile sul marciapiede.

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Cioè, capito no? Io chiamo il proprietario di casa per pagare l'affitto e al suo posto mi risponde una. Io le dico che cerco Saverio per l'affitto di luglio e lei mi dice che è morto la settimana scorsa. Capito? Cioè, chiamo e questa qui. E poi si mette a piangere. Pazzesco! Che dovevo fare? Mica potevo dirle vabbè, grazie arrivederci. Così sono stato al telefono e questa attacca a dire "era una persona meravi-gliosa, l'abbiamo sempre trattato come un principe" e a raccontarmi vita, morte e miracoli. Cioè.

///

Una donna in piedi davanti a me. Anche lei aspetta. Qui aspettano tutti. Mi dà la schiena. Indossa una maglia nera a maniche corte. Il retro è interamente di pizzo. Nero. Quel ricamo sembra una faccia senza carne. Quella donna non mostra mai il suo volto perchè porta la morte sulla schiena.

///

Il mio. Si apre col rumore di uno sbuffo di vento. E mi invita a salire. Un piede dopo l'altro tra le facce sui sedili che si attaccano alla mia. Un piede dopo l'altro e una madre coi bambini e una vecchia ve-stita di grigio e un uomo con la mano fasciata e un altro con le buste della spesa e una ragazza riccia al cellulare e un piede dopo l'altro nel corridoio stretto verso quel sedile che so essere il mio.

Sonia Secchi

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Helbones ArtistMaria Teresa Sarno - Gli amanti