Pasqua 2014 web

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NOTIZIARIO PASTORALE PASQUA 2014 UNITA’ PASTORALE “S.ARCANGELO TADINI“ PARROCCHIE DI BOTTICINO VOCE per la COMUNITA’

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N OT I Z I A R I O PA STO R A L EPA S Q UA 2 014

UNITA’ PASTORALE “S.ARCANGELO TADINI“PARROCCHIE DI BOTTICINO

VOCE per la COMUNITA’

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PASQUA 2014

Incredibile!Sant’Agostino nella sua opera “La città di Dio” scrive: “Tre sono le cose incredibili e tuttavia avvenute: è

incredibile che Cristo sia Risuscitato nella sua carne, è incredibile che il mondo abbia creduto ad una cosa tanto incredibile, è incredibile che pochi uomini, sconosciuti, inermi senza cultura, abbiano potuto far cre-dere con tanto successo al mondo, e in esso anche ai dotti, una cosa tanto incredibile!”.

Eppure questa notizia fuori dal comune e da ogni logica del pensiero umano continua a interpellare il mondo, i popoli, gli uomini tutti. Essere cristiani oggi significa confrontarsi con l’avvenimento della Pasqua, ovvero della Risurrezione di Cristo. Si può essere cristiani abitudinari, magari anche un po’ tiepidi, ma basta fermarsi un attimo a riflettere che subito ci si scontra con questo fatto che non è poi tanto facile da digerire. Gli stessi apostoli di fronte al sepolcro vuoto restarono sconcertati senza riuscire bene a capire che cosa fosse successo. Anche l’uomo d’oggi prova le stesse inquietudini, gli stessi dubbi, lo stesso sconcerto di fronte a quello che è il cardine, l’asse portante della fede cristiana.

La Risurrezione è un qualcosa di straordinario che cambia radicalmente la vita! Gli apostoli, di fronte allo scandalo di vedere il loro Maestro appeso ad una croce, schernito ed umiliato dai poteri forti del suo tempo, se la diedero a gambe nascondendosi per evitare di confrontarsi col mistero della morte in croce. Ma quando faranno l’esperienza di rivedere Gesù risorto, la loro vita verrà radicalmente trasformata: da uomini pavidi e codardi diventeranno araldi coraggiosi del messaggio di amore e fraternità che Cristo ave-va portato.

Ma oggi cosa significa celebrare la Pasqua, cosa significa vivere la Risurrezione di Cristo? Per i credenti è senza dubbio un momento forte per affermare che si crede nella vittoria di Cristo sulla

morte, della luce sulle tenebre e dell’avvio di quel Regno di giustizia e di pace che proprio Lui aveva inau-gurato con la Sua presenza nella storia umana.

Ma anche per chi non crede in Cristo la Pasqua è rottura di catene, apertura di sepolcri, vita nuova per ogni persona, specialmente per chi vive in situazioni di ingiustizia e di povertà. Attraverso la Pasqua ogni uomo può affermare che l’amore è più forte della morte, in quanto viene ristabilito il diritto del debole e dell’innocente e la Risurrezione diventa speranza storica, tangibile e concreta per ogni uomo.

Così la Pasqua viene a spiegare il senso della nostra speranza. La Risurrezione di Cristo è l’avvenimento più significativo della storia dell’uomo, perchè dimostra che è la Vita e non la morte a dire l’ultima paro-la. Colui che risorge è un vinto, è quel Gesù di Nazareth che si è fatto ultimo con gli ultimi, disprezzato e condannato per aver osato annunciare un messaggio d’amore e di tenerezza sconfinata, nel quale si affer-mava che ogni uomo è figlio di Dio e che pertanto esiste una reale fraternità che ci ingloba tutti e ci rende uguali di fronte al Padre. Una cosa dura da digerire a quei tempi e per certi versi ancora oggi difficile da accettare. Con la Risurrezione di Gesù i carnefici non hanno partita vinta, la morte che essi procurano vie-ne “inghiottita” dalla Risurrezione. San Paolo qualche anno più tardi dirà: “dov’è o morte la tua vittoria?”

Con la Pasqua un’energia nuova è entrata nel mondo e i cristiani ne sono i testimoni e gli annunciatori. La Pasqua diventa così non un ricordo di un evento lontano ma la linfa vitale che trasforma continuamente la realtà della storia umana. Cristo infatti risorge nuovamente ogni volta che nel mondo cresce una vita autenticamente umana, ogni volta che trionfa la Giustizia sull’istinto di dominazione, ogni volta che la Grazia vince la forza del peccato, ogni volta che la Speranza resiste alla disperazione, ogni volta che l’amore supera l’odio. La Pasqua di Cristo può diventare la Pasqua di ciascuno, di ogni uomo e di ogni donna che in qualunque tempo o luogo essi vivano, sappiano dare testimonianza che la morte può essere sconfitta e che la vita può sempre trionfare.

don Raffaele

La busta per l’offerta in occasione della PasquaDa tradizione, anche in occasione della Pasqua

viene rivolto ad ogni famiglia l’invito a contribuireai bisogni della parrocchia mediante

un’ offerta strordinaria.Anche questo è un modo per esprimere

la propria appartenenza alla comunità parrocchiale.Gli impegni economici non sono pochi.

Il parroco e i Consigli Parrocchialidelle tre parrocchie colgono l’occasione per ringraziare

anticipatamente quanti vorranno cogliere questo appelloe per esprimere l’augurio per le prossime festività.

UNITA’ PASTORALE “S.ARCANGELO TADINI”

PARROCCHIE DI BOTTICINOORARI S.MESSE FEsTIvE DEl sABATO E vIgIlIA FEsTE

SERA VILLAGGIO ore 16,00MATTINA PARROCCHIALE ore 17,30

SAN GALLO PARROCCHIALE ore 17,30SERA PARROCCHIALE ore 18,45

FEsTIvE DOmENICA E FEsTIvITA’SERA PARROCCHIALE ore 8,00

MATTINA PARROCCHIALE ore 9,30SAN GALLO PARROCCHIALE ore 10,00

SERA PARROCCHIALE ore 10,45MATTINA PARROCCHIALE ore 17,30

SERA PARROCCHIALE ore 18,45lUNEDI’

CASA RIPOSO ore 17,00MATTINA PARROCCHIALE ore 18,00

SERA PARROCCHIALE ore 20,00mARTEDI’

MATTINA SAN NICOLA ore 18,00SAN GALLO PARROCCHIALE ore 17,30

SERA PARROCCHIALE ore 17,30mERCOlEDI’

MATTINA MOLVINA ore 18,00SAN GALLO PARROCCHIALE ore 17,30

SERA PARROCCHIALE ore 18,30gIOvEDI’

SAN GALLO PARROCCHIALE ore 17,30MATTINA S.NICOLA ore 18,00

SERA PARROCCHIALE ore 20,00vENERDI’

SAN GALLO TRINITA’ ore 17,30MATTINA PARROCCHIALE ore 18,00

SERA PARROCCHIALE ore 18,30

RECAPITO DEI SACERDOTI E ISTITUTILicini don Raffaele, parroco

cell. 3283108944 e-mail parrocchia:

[email protected] Unità Pastorale tel. 0302692094 Segreteria Unità Pastorale fax 0302193343

Salvetti don Luigi tel. 0303756648Loda don Bruno tel. 0302199768

Pietro Oprandi, diacono tel 0302199881Scuola don Orione tel. 0302691141

sito web : www.parrocchiebotticino.itSuore Operaie abit. villaggio 0302693689Suore Operaie Casa Madre tel. 0302691138

BATTESIMI BOTTICINO MATTINA e SERA

sabato 26 e domenica 27 aprile 2014sabato 7 e domenica 8 giugno 2014

SAN GALLO domenica 22 giugno 2014I genitori che intendono chiedere il Battesimo

per i figli sono invitati a contattare, per tempo, per accordarsi sulla preparazione

e sulla data della celebrazione, il parroco personalmente o tel.3283108944

sito web delle parrocchie di Botticino:

www.parrocchiebotticino.it

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Mercoledì 14 maggio CENTRI DI ASCOLTOin preparazione alla festa

Venerdì 16 maggio ore 20,00PENITENZIALE

CON CONFESSIONI

PER L’INCONTRO DI DOMENICA 18

dalle ore 11,00 alle 12,00i genitori si trovano in sala Tadini,

i ragazzi e adolescenti presso l’oratorio

PER IL PRANZO DOMENICA 18 MAGGIOalle ore 12,30 presso il grande salo-ne dell’oratorio. I tavoli saranno pre-parati a gruppi di catechesi e attività ... I volontari preparano polenta e spiedo. Occorre segnarsi presso la segreteria (0302692094). Per il dol-ce e altro ci pensa ogni famiglia.

FESTA UNITA’ PASTORALEparrocchie botticino

sabato 17 maggio - pellegrinaggio dal convento di Rezzato al Santuario S.Arcangelo Tadini di Botticino Sera.

INAUGURAZIONE E BENEDIZIONE STATUA S.ARCANGELO TADINI

DOMENICA 18 MAGGIO

FAMIGLIE IN FESTATADINIFESTIl 26 aprile 2009, giorno della Canoniz-

zazione di S.Arcangelo Tadini a Roma, ve-niva istituita l’Unità Pastorale delle Parrocchie di Botticino. Il seme gettato 5 anni fa è germogliato! Grazie alla passione, alla pazienza e alla cura di buoni contadini e agricoltori ne è nata una giovane pianta, superando a volte le resistenze del terreno e intem-perie di ogni genere. Essendo il seme di ottima qualità, fiori e frutti non saranno da meno. Solo occhi e cuore di profeta possono già intuire e vedere all’orizzonte ‘cieli nuovi e terra nuova’. Nonostante tanti limiti, incoerenze, fragilità e soste, le comunità di Botticino hanno fatto grossi passi di comunione in iniziative, gene-rosità e vita di fede.

Ringraziamo il Signore. E’ Lui che ci ha voluti e ci tiene insieme e in particolare tramite S.Arcangelo ci accompagna quotidianamente.

Sono questi i motivi che fanno da invito a celebrare nel prossimo maggio la 5^ Festa dell’Unità Pastorale.

Un invito a partecipare alla nostra festa, la festa delle tre parrocchie di Botti-cino insieme, la festa di tutti quanti si riconoscono parte viva di queste comunità cristiane, nel loro costruirsi sempre più in unità.

Non semplici fruitori, ma tutti protagonisti. A tavola insieme: chi prepara luoghi accoglienti, chi lo spiedo, chi porta il dol-

ce da condividere, gli adolescenti che servono, Il parlarsi fraternamente... Nella gioia del divertirsi insieme piccoli e grandi, giovani, adulti e anziani.

Insieme nell’incontro con il Signore e nell’accogliere la grazia di Dio nel segno della rosa blu di S. Arcangelo Tadini.

Anche quest’anno la ricorrenza liturgica di S. Arcangelo Tadini (pa-trono dell’Unità Pastorale e di tutto il Comune di Botticino) ci coinvolge tutti, associazioni e movi-menti... perchè ci riscopriamo appartenenti ad un’unica famiglia

L’appuntamento della festa delle parrocchie di Botticino vuole quindi continuare ad essere e diventare sempre più la festa di tutto quanto di bello, di ricco, di fecondo può generare quel “mi-

stero grande” che è la famiglia cristiana che si fonda sull’unità, nella comunione e nella fraternità.

- ore 11,00- 12,00 incontro per le famiglie - ore 12,30 Pranzo in oratorio e festa- ore 15,00 Festa e giochi per le famiglie- ore 18,00 CELEBRAZIONE EUCARISTICA CON LE FAMIGLIE INIZIAZIONE CRISTIANA

lunedì 19 maggioore 20,30

BANDA G.FORTI di Botticino in concerto

martedì 20 maggio(giorno della morte di S.Arcangelo Tadini)

- ore 16,00 in Basilica-Santuario

CELEBRAZIONE EUCARISTICA PER GLI AMMALATI E SOFFERENTI

con preghiera di guarigione ore 20,30 in sala-teatro Tadini

INCONTRO “Nella prova il dono di Dio.

Arcangelo Tadini tra successi e fallimenti”MERCOLEDI’ 21 MAGGIO

festa liturgica di S. Arcangelo Tadini giornata dedicata alle confessioni,

alla preghiera personale e incontri comunitari ore 20,00

CELEBRAZIONE EUCARISTICA PER LE PARROCCHIE DI BOTTICINO

(benedizione e distribuzione delle rose blu)

Si invita la cittadinanza ad addobbare le proprie abitazioni con segni di festa.

FESTA UNITA’ PASTORALE PARROCCHIE DI BOTTICINO 17-18-19-20-21 maggio 2014

La nuova statua di S.Arcangelo, che verra collocata sul sagrato

della Basilica-Santuario. Opera di Giuseppe Tregambe

PARTECIPA ALLA

PRIMA LOTTERIA

DELL’UNITA’ PASTORALE

DI BOTTICINO

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Il Cero PasqualeIl solenne rito della Veglia Pasquale inizia in un luogo buio, illuminato

solo dal fuoco, dal quale si accende il Cero Pasquale, simbolo di Cristo. Per i cristiani esso è il segno del Cristo risorto luce vera del mondo che illumina ogni uomo; è la luce della vita che impedisce di camminare nelle tenebre, è il segno della vita nuova in Cristo che, strappandoci dalle tene-bre, ci ha trasferito con i santi nel regno della luce; Cristo brillò su di noi che eravamo tenebre, ma ora siamo luce nel Signore (Ef 5, 14). E’ il segno che ci permette di vivere come figli della luce (Ef 5, 8), di rigettare le opere delle tenebre (Rm 13,12), di restare in comunione con Dio (1 Gv 1,5), di conservare l’amore con i fratelli (1Gv 2,8-11) ed è segno di fedeltà a Dio e vigilanza nella preghiera e nell’attesa. Per la ricchezza di significato il cero pasquale è l’espressione più forte fra tutti i simboli derivati dalla luce e dal fuoco.

Prima dell’accensione che avviene con una fiamma attinta dal fuoco nuovo appena benedetto, il celebrante segna su di esso una croce collocata al centro per significare che il cero è simbolo di Cristo, poi tocca la prima lettera dell’alfabeto greco collocata sulla parte superiore -alfa- e l’ultima lettera dell’alfabeto greco -omega- col-locata nella parte inferiore per indicare che Cristo è il principio e la fine di tutte le cose. Infine a simboleggiare le piaghe gloriose del costato, delle mani e dei piedi, inserisce al centro e alle estremità della croce cinque capselle contenenti incenso.nenti dell’incenso.

Accendendo il cero il celebrante dice: “ La luce di Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito.” Nel compiere tali riti il sacerdote proclama:

“Il Cristo ieri e oggi:Principio e Fine, Alfa e Omega.

A lui appartengono il tempo e i secoli:a lui la gloria e il potere per tutti i secoli in eterno. Amen.

Per mezzo delle sue sante piaghe gloriose,ci protegga e ci custodisca il Cristo Signore.

Amen.”Subito dopo inizia la processione con il cero acceso verso l’altare, con la triplice proclamazione solennemente

cantata in tono crescente : “Lumen Christi o Cristo luce del mondo!” L’assemblea risponde. “Deo gratias” op-pure: “Rendiamo grazie a Dio.” A poco a poco l’illuminazione si diffonde sull’assemblea dei partecipanti, i quali ricevono successivamente dal Cero Pasquale la fiamma della loro candela, simboleggiando così la diffusione della salvezza che viene da Cristo risorto.

Il canto dell’Exultet o Preconio pasquale conclude la prima parte della Veglia, come ringraziamento a Cristo risorto per la luce che ha donato alla nostra vita spirituale e pregando che: “…questo cero, o Signore, offerto in onore del tuo nome

per illuminare l’oscurità di questa notte,risplenda di luce che mai si spegne.

Salga a te come profumo soave,si confonda con le stelle del cielo.

Lo trovi acceso la stella del mattino,quella stella che non conosce tramonto:

Cristo tuo Figlio che,risuscitato dai morti,

fa risplendere sugli uominila sua luce serena

e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.”

La Veglia Pasquale è una cerimonia tanto unica du-rante l’anno quanto suggestiva; il Cero Pasquale reste-rà poi esposto fino a Pentecoste, ma tornerà sull’altare

ogni volta che la comunità dei credenti celebrerà l’inizio o la fine di una vita cristiana. In mezzo a questi due estre-mi dell’esistenza terrena, la luce della fede accompagna tutta la vita del credente e la stesa cera che si consuma per ardere nella fiamma è un richiamo alla vita che passa, irradiando però luce e dispensando calore al prossimo.

I nuovi Ceri Pasquali per le chiese parrocchiali

dell’Unità pastorale di BotticinoCorreva l’anno 2013 quando l’amico e compagno di Ordinazione Sacerdotale, il

vostro Parroco don Raffaele, in una telefonata mi propone il suo desiderio di realiz-zare tre nuovi Ceri Pasquali per le chiese di Botticino Sera, Botticino Mattina e San Gallo. Mi dice che li desidera in armonia con l’architettura e il cromatismo delle chiese.In seguito ad un sopraluogo decido di procedere su uno schema cromatico di fondo che, intonandosi con quello delle chiese, faccia risaltare anche tre aspetti complementari del Mistero Pasquale.

Il primo dovrà avere come fondo l’azzurro, simbolo di quel cielo che Cristo Risorto apre ai suoi fratelli.

Il secondo dovrà avere come fondo il rosso, simbolo dell’estremo atto d’amore del Cristo che sul legno della croce ha effuso tutto il suo sangue per la redenzione del mondo.

Il terzo dovrà avere come fondo un giallo aureo, segno della nuova dignità sacerdotale, regale e profetica del popolo che Cristo si è acqui-stato.Su queste basi cromatiche ho poi sviluppato le forme e il simbolismo che possono dialogare meglio con le singole architetture di ogni chiesa.

(1) Nella Basilica di Santa Maria Assunta – Santuario S. Arcangelo Tadini, l’armoniosa fusione tra gli elementi decorativi tipici del sette-cento e l’intervento contemporaneo dell’artista Federico Severino in un rincorrersi di azzurre tonalità, mi hanno portato a produrre una decora-zione che potesse coniugare queste due anime: classica e moderna. Così il disegno moderno dell’uva e delle spighe di grano (segno di quel pane spezzato e di quel calice donato) è stato racchiuso in elementi classici in uno sfondo azzurro con una preziosa cornice in oro.

(2) Nella chiesa dei santi Faustino e Giovita di Botticino Mattina ho cercato di coniugare l’idea del martirio dei due Santi Patroni con il sacrificio di Cristo che sul legno della croce ha effuso fino all’ultima goccia del suo preziosissimo sangue. In una stola purpurea con bordo aureo, eleganti elementi decorativi di ispirazione classica concorrono a testimoniare e a sottolineare la straordinaria preziosità del mistero d’amore che si è consumato sul legno della croce e dei santi martiri che dal protomartire Stefano ai giorni nostri seguono festanti il loro Signore vincitore della morte.

(3) Nella chiesa di San Bartolomeo di San Gallo, mettendo in dialo-go il significato del Cero Pasquale che è Cristo Risorto e qui sottolineato dal monogramma presente al centro della croce: I H S, con l’Apostolo Bartolomeo, ho voluto sottolineare la dimensione sacerdotale, profetica e regale di Cristo Signore con i suoi Apostoli ed amici in uno sfondo luminoso reso palpitante da fiamme guizzanti che da un lato propon-gono la generosità di Cristo nella moltiplicazione dei pani e dei pesci e dall’altra ricordano il saluto del Risorto agli Apostoli tra i quali vi era Bartolomeo: Eirene umin ossia: Pace a Voi.

don Angelo Pavesi

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Siamo arrivati. Auguri! Quaranta giorni dovrebbero

essere bastati a ‘lavorarci’ e a farci esorcizzare la morte che si diverte sempre a terrorizzare e a influen-zarci anche nel parlare comune, nel cosiddetto buon senso.

Con un po’ di segni e mi-racoli (Samaritana>>>acqua per estinguere la sete; cie-co nato>>>luce per vedere; Lazzaro>>>resurrezione…) Gesù dovrebbe averci istruito per bene ed essere riuscito a convincerci che:

* Lui è l’acqua, la luce, la re-surrezione;

* Lui è la via, la verità, la vita; * Lui la morte, in tutte le sue

espressioni di sete-buio-tomba…l’ha dominata, soggiogata, scon-fitta definitivamente.

Quando qualcuno sta per mo-rire cambiamo tono e chiacchiere.

Chi va alla morte è per rinasce-re. Morte = nascita al cielo, diceva-no gli antichi cristiani.

Non si dica “poverino!” (in dialetto).

Non si compianga più il defunto chiamandolo il “po-vero tale”!

Non facciamo le corna con le dita!

Non diciamo “tocca fer-ro!”, “il più tardi possibile!” ecc. ecc.

Che fede è mai questa?!E piangere fino a disperar-

si…E’ proprio un lasciare che

la morte influenzare il nostro modo di pensare, parlare, operare ed essere, in anticipo. Viene alla fine, ma ci dirige.

Alla faccia di un Dio che chiamiamo Padre e da cui vo-gliamo stare alla larga o che vogliamo raggiungere il più

tardi possibile!No, non ci siamo! Voler bene è

un’altra cosa.Gesù è risorto! …e ci tirerà con

Lui. Facciamo festa! Salutiamoci dicendocelo.

Seguirlo adesso con la vita è vi-vere da risorti, perché quello che facciamo seguendolo/ascoltan-dolo non muore, non viene dalla carne, ma dallo Spirito, e quindi rimane per sempre.

Alleluja!La Pasqua è questo.Arrivederci in Paradiso. Chi ci

va prima sia invidiato, e diciamo-gli di aspettarci.

Se irritiamo o scandalizziamo i benpensanti e quelli di buon sen-so, tanto meglio!

Chissà se ce la facciamo! Pro-viamoci un po’, da cristiani.

don Isidoro Apostoli, salesiano

PA R O L A D I F R A N C E S C O

Udienza generale

PREOCCUPARSI DELL’ALTROMA NON DI COME E’ VESTITO

Nell'Udienza del 12 febbraio Francesco si è soffermato ancora sull'Eucaristia, ponendo in partico-lare l'accento sul modo in cui essa viene vissuta: «È solo un momento di festa, è una tradizione consolida-ta, è un'occasione per ritrovarsi o per sentirsi a posto, oppure è qual-cosa di più?».

Alcuni segnali, ha spiegato, ce lo fanno comprendere. Il primo «è il nostro modo di guardare e con-siderare gli altri». Di qui la do-manda: «L'Eucaristia che celebro mi porta a sentirli tutti davvero come fratelli e sorelle?». O, al contrario, «mi preoccupo di chiac-chierare: "Hai visto com'è vestita quella?" A volte si fa questo, dopo la Messa, e non si deve fare!».

Un secondo indizio «è la gra-zia di sentirsi perdonati e pron-ti a perdonare». Addirittura, ha sottolineato il Papa, «se ognuno di noi non si sente bisognoso del-la misericordia di Dio, non si sente peccatore, è meglio che non vada a Messa!».

Infine, un ultimo indizio «ci vie-ne offerto dal rapporto tra la cele-brazione eucaristica e la vita delle nostre comunità cristiane: «Una celebrazione può risultare anche impeccabile dal punto di vista esteriore, bellissima, ma se non ci conduce all’incontro con Gesù Cristo, rischia di non portare al-cun nutrimento al nostro cuore e alla nostra vita».

Incontro con i fidanzati

LITIGATE QUANTO VOLETE MA FATE PACE ENTRO SERA

Incontrando oltre ventimila fi-danzati in procinto di sposarsi, il 14 febbraio in piazza San Pietro, papa Bergoglio ha dialogato con loro ri-spondendo a tre domande. La prima è stata sulla promessa di fedeltà per tutta la vita e sul fatto che molti sen-tono che la sfida di vivere insieme per sempre è bella, affascinante, ma troppo esigente, quasi impossibile.

Francesco ha confermato che «questa mentalità porta tanti che si preparano al matrimonio a dire: “Stiamo insieme finché dura l’amo-re” e poi? Tanti saluti e ci vediamo... E finisce così il matrimonio». Ma tutto dipende da cosa intendiamo per “amore”. Di qui il suo invito: «Per favore, non dobbiamo la-sciarci vincere dalla “cultura del provvisorio”!». La paura del “per sempre” ha spiegato, «si cura gior-no per giorno affidandosi al Signo-re Gesù in una vita che diventa un cammino spirituale quotidiano, fatto di impegno a diventare donne e uo-mini maturi nella fede».

Il secondo quesito ha riguardato lo “stile” della vita di coppia e la spi-ritualità del quotidiano. E il Papa ha ribadito le regole che aveva già ci-tato altre volte, «che si possono riassumere in queste tre parole: permesso, grazie, scusa». Con un sorriso, ha anche detto che «è abi-tuale litigare tra gli sposi, ma per favore ricordate questo: mai finire la giornata senza fare la pace!».

La terza richiesta è stata su come celebrare bene il matrimonio. Per Francesco la cosa importan-te è «fare in modo che sia una vera festa, una festa cristiana, non una festa mondana!». Quin-di ha concluso: «II matrimonio è anche un lavoro di tutti i giorni, un lavoro artigianale, perché il marito ha il compito di fare più donna la moglie e la moglie ha il compito di fare più

uomo il marito. Questo si chiama crescere insieme. E i figli avranno questa eredità».

Udienza generale

L’UNZIONE DEGLI INFERMI NON PORTA SFORTUNA

«C’è un po’ l’idea che, dopo il sa-cerdote, arrivano le pompe funebri. E questo non è vero». Con una delle sue consuete battute, Francesco ha affrontato il sacramento dell’Unzio-ne degli infermi, nell’Udienza gene-rale del 26 febbraio, sottolineando che «il sacerdote viene per aiutare il malato o l’anziano». Perciò non si deve rinunciare a questo beneficio spirituale pensando che chiamare il sacerdote «porta malafortuna», oppure «si spaventa l’ammalato».

Ha spiegato il Papa: «È Gesù stes-so che arriva per sollevare il malato, per dargli forza, per dargli speranza, per aiutarlo; anche per perdonargli i peccati. E questo è bellissimo! E non bisogna pensare che questo sia un tabù, perché è sempre bello sa-pere che nel momento del dolore e della malattia noi non siamo soli: il sacerdote e coloro che sono presenti durante l’Unzione degli infermi rap-presentano infatti tutta la comunità cristiana che, come un unico corpo si stringe attorno a chi soffre e ai fami-liari, alimentando in essi la fede e la speranza, e sostenendoli con la pre-ghiera e il calore fraterno».

L’Unzione degli infermi «per-mette di toccare con mano la compassione di Dio per l’uomo», ha aggiunto il Pontefice, e l’icona

biblica «che esprime in tutta la sua profondità il mistero che traspa-re nell’Unzione degli infermi è la parabola del Buon samaritano», in quanto «ogni volta che celebriamo tale sacramento il Signore Gesù, nella persona del sacerdote, si fa vi-cino a chi soffre».

Quindi papa Bergoglio ha pre-cisato che «questo non ci deve fare scadere nella ricerca ossessiva del miracolo o nella presunzione di po-ter ottenere sempre e comunque la guarigione. Ma è la sicurezza della vicinanza di Gesù al malato e an-che all’anziano, perché ogni anzia-no può ricevere questo sacramento, mediante il quale è Gesù stesso che ci avvicina».

Messaggio per la 29a Gmg

LA FORZA RIVOLUZIONARIA DELLE BEATITUDINI

In vista della 29a Giornata mon-diale della Gioventù, che si svolge-rà a livello diocesano il prossimo 13 aprile, Francesco ha reso noto il 6 febbraio il messaggio incentrato su una frase del Vangelo di Matteo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei deli».

Le beatitudini, ha infatti sot-tolineato, hanno «una forza rivo-luzionaria» e Gesù, nel proclamar-le, «ci invita a seguirlo, a percorrere con Lui la via dell’amore, la sola che conduce alla vita eterna: non è una strada facile, ma il Signore ci assi-cura la sua grazia e non ci lascia mai soli».

«Beati vuol dire felici», ha spie-gato lanciando un invito ai giovani di tutto il mondo: «Aspirate a cose grandi! Allargate i vostri cuori! Se veramente fate emergere le aspira-zioni più profonde del vostro cuore, vi renderete conto che in voi c’è un desiderio inestinguibile di fe-licità, e questo vi permetterà di smascherare e respingere le tan-te offerte “a basso prezzo” che trovate intorno a voi».

Per far sì che la povertà in spiri-to si trasformi in stile di vita, papa Bergoglio ha indicato tre punti: essere «liberi nei confronti delle cose», vivere «la conversione per quanto riguarda i poveri», com-prendere che «anche i poveri hanno tanto da offrirci e da insegnarci».

Siamo arrivati:

AUGURI

Antica Icona Etiope che riporta la Resurrezione di Gesù con in mano

lo stendardo della vittoria

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Con l’Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium, papa Francesco ha riportato in auge il dibattito sul ruo-lo della donna all’interno del mondo ecclesiastico e, dopo aver genericamente affermato che la Chiesa rico-nosce l’indispensabile apporto della donna nella società, azzarda l’invito ad allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva nella Chiesa, spazi riconosciuti anche nell’ambito della riflessione teologica, come egli stesso afferma solo poco sopra. Nel medesimo docu-mento, il fatto che tutto questo sia visto come una “sfi-da”, la dice lunga sulla strada che resta da percorrere per quanti – uomini – ancora ritengono la riflessione teo-rica un puro appannaggio maschile, amando relegare entro l’ambigua definizione del servizio quale espres-sione del genio femminile, la presenza delle donne nella Chiesa. Tutto un mondo che si esprime attraverso la tenerezza, la cura, la prossimità, e che si declina in gesti concreti di accoglienza, di servizio, di ospitalità per il vivente: le donne non lo rinnegano. È vero, esso si nu-tre della particolare propensione femminile al dare la vita, si coniuga con la familiarità che le donne hanno con il nascere e con il morire. Ma tutto questo, credo, dovrebbe a maggior ragione vedere allargati i confini della pensabilità di Dio, attraverso la riflessione teolo-gica delle donne stesse. Dovrebbe renderci consapevoli dell’apporto “altro” del loro approccio teorico. Un ap-proccio che, partito dalla consapevolezza dell’assoluta parzialità del proprio percorso (pensare e dire l’Altro essendo altre, questa la sintesi offerta da Stella Morra), chiede solo di essere incluso, accostato a quello istitu-zionale, così da arricchirne la visione, da renderla più complessa, più atta a ospitare la pluralità delle tante di-verse voci, delle mille diverse storie, dell’incontenibile eccedenza della Grazia.

Una dimensione nuova, fecondaÈ, del resto, la parzialità stessa una dimensione feconda

di novità, capace di immaginare un modo nuovo di entra-re in relazione con noi stessi, con gli altri, con Dio. Dimen-sione che dà senso al quotidiano, concreto vivere, come luogo teologico che chiede di essere abitato, nell’attesa che da esso si liberi l’epifania di una Presenza. Vivere immersi nel nostro finito, marginale, insignificante, sapendo che da esso può disprigionarsi l’Immenso (Alda Merini). Dio c’è – scrive Luisa Muraro per le mistiche del ‘300 – nella forma di un capitare sempre possibile. E sempre margina-le, aggiungiamo. Così da consentire a tutte e a tutti di abi-tare come preziosi i giorni e i cammini, con la consapevo-lezza insegnataci per prima da Maria, e con lei dalle molte che hanno avuto l’ardire di scommetterci, che il reale, così com’è, contiene anche la possibilità di trascendersi, che è come andare incontro al mondo e vedere che esso è incinto del suo meglio (L. Muraro, Il Dio delle donne).

Ascoltare il racconto delle donne. Ascoltare il racconto delle donne su Dio potrebbe

consentirci di dar voce a un dialogo fecondo, che pro-ceda lungo i binari del quaerere più che su quelli dell’af-firmare, che accolga i dubbi, le ferite, le domande, tra-sformando esse pure in aperture verso l’incontro. Che impari l’attesa, che apprenda l’arte, tutta femminile per natura, del fare spazio all’altro che viene, dello spor-gersi fuori di sé, verso l’aperto. Impari a custodire la promessa della presenza, nel vuoto della partenza, nel segno di Maddalena alla quale il suo Signore dice: Non toccarmi, non trattenermi, non pensare di prendermi né di raggiungermi, perché io parto verso il Padre. […]. Tu non tieni niente, non puoi tenere né trattenere niente, ecco ciò che devi amare e sapere. Ecco cosa ne è di un sapere di amore. Ama ciò che ti sfugge, ama colui che se ne va. Ama che se ne vada (J. Luc Nancy, Noli me tangere).

A proposito di donne

Papa Francescoinvita tutti

ad allargaregli spazi

per una presenzafemminile

più incisivanella Chiesa.

Che cosa comporta questo?

Come si puòconfigurare? Si è svolto nei giorni scorsi il XIII Capitolo generale della Congre-

gazione delle Suore Operaie della Santa casa di Nazareth.Il solenne inizio ha avuto luogo Domenica 23 marzo nella Basili-

ca-Santuario di S. Arcangelo Tadini a Botticino Sera, con la Celebra-zione presieduta dal Vescovo Luciano Monari. I lavori capitolari si sono conclusi l’8 aprile.

Per la nostra Famiglia religiosa è stato un momento di forte comu-nione, un'occasione preziosa per cercare insieme la Volontà di Dio.

Il tema scelto, “Donne della Casa di Nazareth, grembo del Van-gelo per la vita del mondo”, vuole esprimere, per le Suore Operaie, l’irrinunciabilità di essere presenza significativa oggi nel mondo del lavoro, da donne consacrate.

Siamo chiamate ad inventare strade nuove e curare nuovi germo-gli di vita, convinte che seguire la nostra vocazione di Suore Operaie della S. Casa di Nazareth è fare un viaggio instancabile verso la quo-tidianità, la pasta in cui immettere il lievito del Vangelo.

Sabato 29 marzo è stata eletta la nostra nuova madre generale, suor Sabrina Pianta, e domenica 30 marzo sono state elette le sorelle che affiancheranno la madre nella guida della nostra Congrega-zione: suor Elena Faletti, suor Enza Frignani, Suor Susanna Bukuru e suor Raffaella Falco.

Con grande gioia abbiamo accolto il soffio dello Spirito che ha affidato a queste “donne della Casa di Nazareth” la cura della nostra Famiglia, a servizio dei fratelli lavoratori.

La nostra gioia diventa ringraziamento sia per suor Sabrina, per la sua disponibilità e il suo esem-pio di fede, sia per la nostra carissima madre Emma che per 18 anni ha custodito e guidato la nostra Famiglia con grande cura, tenerezza e saggezza.

A suor Sabrina e alle sorelle del Consiglio auguriamo un cammino nello Spirito, per essere, come Maria nel Magnificat, capaci di sentire in grande, di pensare in grande, con i piedi ben appoggiati sul pavimento della nostra quotidianità e con le finestre delle nostre comunità sempre spalancate sulla grande storia. Così scopriremo che il tempo che il Signore ci dona da vivere è carico della sua Pre-

senza, è un tempo che lancia sfide e offre segnali ed appelli. Lo Spirito ci donerà luce e capacità di rispondere alle urgenze del nostro mondo, se-condo quella vocazione della quale Egli stesso ci riveste.

La Santa Famiglia di Nazareth e S. Arcangelo Tadini ci accompagnino con la loro benedizione!

Le Suore Operaie

Sr. Sabrina Pianta nuova Madre Generale

eletta il 29 marzo

Donne della Casa di Nazareth, grembo del Vangelo per la vita del mondo.

Il nuovo Consiglio Generale eletto il 30 marzo

XIII CAPITOLO GENERALE

DELLE SUORE OPERAIE

DELLA SANTA

CASA DI NAZARETH

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Casali PietroChemi ChiaraChemi FrancescoCiollaro MartaCocchetti CristinaCocchetti MaurizioCoppola SamueleCordovani GiuliaCremonesi GiacomoDamioli MattiaDora AliceDusi NadiaFantini JacopoGadaldi GabrieleGentile AngeloGilberti MartinaGilberti StefaniaGiuradeo NicolaGorni EmanueleLaffranchi MatteoLocatelli Alessandra

Andreoletti FrancescaAndreoletti GiuliaAndreoli LorenzoArici CristianArici GiadaArrighetti CorinneBertulli ViolaBianchetti AlessioBiscardi AlessandroBonetti NicolaBonometti EmanueleBonometti GabrieleBorghini GabrieleBulgari ClaudiaBusi FilippoBusi MarcoBusi MatiasCapoferri AlessandroCarbone LorenzoCasali AlessioCasali Federico

CRESIME

Rabaioli LorenzoRomano SiriaRossetti Carlo AlbertoRossetti CaterinaRossetti FrancescaRossi BeatriceScarpari DavideSimonini RobertoSoldi AlessandroTognazzi MatteoTomasello Maria RitaTornello LucaTosoni GiorgioVenturini RobertoZani AlessioZani Nicolas

PRIME COMUNIONIdomenica 23 febbraio 2014nelle chiese parrocchiali di Botticino Sera e Mattina

sabato 22 febbraio 2014Basilica/Santuario S.Arcangelo Tadini

Botticino Sera

Locatelli LorenzoLonati AlessandroManinetti PaoloMazza FabrizioNoventa GiuliaOlivari ElisaOndelli LorenzoOngarelli ChiaraOrlini VittoriaParmeggiani FrancescaParmeggiani VeronicaPasquetti SilviaPaxia SofiaPiccinotti AndreaPluda BeatricePompili LorenzoPortesi MartinaPrandstraller RossellaPrevicini MartaPrevidi DanieleQuecchia Alice

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Per l’intero mese di dicembre 2013, i fari della opinione pubblica restano fissati sulla Repubblica sudafricana. Perché? Si spegne Nelson Mandela il 7 dicembre. I

grandi della terra accorrono per rendergli omaggio. Per 11 giorni la sua gente gli sta attorno e lo accompagna poi alla tomba. Sembra che non pianga perché la morte lo ha rapi-to, ma che gioisca perché il Signore lo ha loro concesso.

Un mito?Nelson Mandela merita questo trattamento del tipo

“santo subito”? La nostra prassi cattolica ci rende molto diffidenti di fronte a canonizzazioni precoci. In realtà Nelson Mandela è un uomo pieno di difetti. Queste le accuse che alcuni gli muovono: ha abbandonato le tre mogli; non si è mai curato dei suoi numerosi figli; ha trattato con il governo della Apartheid con l’esito di averescluso i neri dal potere economico. Eppure ci sono degli aspetti per cui la sua figura emerge nella storia. Anzitutto si è persuaso della inopportunità della lotta violenta, che pure ha praticato. Ha ritenuto più fecondala via pacifica. Ha provato la prigione per 27 anni. Nel 1992 viene arrestato e condannato all’ergastolo. Resta nelle carceri sino al 1990.Tratta con i bianchi e dà fiducia a Frederick de Clerk, ultimo presidente bianco della Apartheid. Insieme a lui nel 1993 riceve il premio Nobel per la pace. Viene elet-to nel 1994 presidente della Repubblica. A conclusione del mandato, nel 1999, si ritira a vita privata. Una volta persuaso, intraprende in modo deciso, la via della ricon-ciliazione: “I bianchi sono nostri concittadini; chi rifiutala apartheid sarà accolto”. Dopo giorni in cui i bianchi spargevano sangue afferma:“Siamo una forza discipli-nata per la pace”.Tanti colori

Il suo è il paese arcobaleno. La definizione è del pre-mio Nobel Desmond Tutu. La superficie è di 1.220.813 kmq. La popolazione raggiunge quasi i 50 milioni. I gruppi etnici sono assai variegati: 79,4% bantu; 9,2% bianchi; 8,8% sono meticci; 2,6% sono asiatici.

Le lingue sono 11. Anche a livello religioso appaiono i vari colori: i protestanti sono il 31,8%, i cattolici sono il 7%; gli anglicani sono il 3,6%; altre Confessioni cri-stiane raggiungono il 17%; non religiosi si dichiarano il 15,1%; altri gruppi restano al 23,6%.

La Chiesa cattolicaI missionari cattolici arrivano agli inizi del XVI se-

colo. Nel 1501, a Mossel Bay, viene costruita la prima chiesa. C’è poi il periodo in cui i protestanti emergono; assumono il potere, impediscono ad altri di entrare. È del 1804 la concessione della libertà religiosa. Arrivano allora i primi missionari cattolici olandesi.

Attualmente queste sono le cifre: 732 parrocchie; 1088 preti: 2614 suore; 638 istituti scolastici, 323 isti-tuti di beneficenza. A livello di persone: 3.109.832 si dichiarano cattolici. È del 1965 la creazione del primo cardinale sudafricano. Nel 1995 papa Giovanni Paolo II compie la sua visita pastorale.

La pari dignità, causa comuneCiò che il Sudafrica ha ottenuto lo deve a tanti con-

tributi diversificati e convergenti:• lo stesso Mandela. È stato battezzato nella Chiesa me-todista. Lo hanno educato i missionari. Gli hanno mo-strata la fede come orizzonte e forza per la pari dignità. Personalmente, verso le religioni, egli mantiene una po-sizione di prudente distacco.• L’arcivescovo anglicano Tutu. Una volta gli hanno chiesto quale poteva essere, a suo modo di vedere, la soluzione contro la Apartheid; risponde: “Avete provato con la preghiera?”. Egli si ispira al concetto africano di Ubuntu che indica una visione della società senza divi-sioni, in cui ogni persona ha un ruolo.• I cattolici. La Chiesa di Regina Mundi è stata, per anni, punto di riferimento per coloro che si battevano contro la apartheid. Si trova a Soweto, il più famoso complesso di township a Joannesburg. Monsignor Lafont era allo-ra parroco. Ricorda che le Messe venivano spiate e che anche il suo telefono era sotto controllo.

• Le Chiese cristiane hanno cessato di farsi la guerra o di procedere solo lungo la via del proselitismo. Sono diventate estroverse. Le hanno chiamate in causa la lot-ta per i diritti umani, il superamento della povertà, le persecuzioni subite.

Tanti passi sono stati compiuti in Sudafrica. La Co-stituzione è una delle più liberali al mondo. La stampa è libera, il voto garantito. Eppure esiste una disegua-glianza tra i bianchi (abbienti e garantiti) ed i neri, tra i quali c’è un tasso di disoccupazione che sfiora il 25%. Ci sono programmi sociali garantiti dal governo di cui usufruiscono circa 60 milioni di africani. Ma il livello di criminalità è uno dei più alti al mondo. Di fatto la religione Riformata Olandese era la religione di Stato; ora anche gli islamici hanno libertà di fede e di culto: lo stesso vale per i gruppi indiani e cinesi.

Si è riusciti a realizzare la riconciliazione perché lo Stato stesso si è attivato per documentare i fatti, ritrova-re assassini e mandanti. Si è trattato di processare pub-blicamente il proprio passato. Qualcuno, acutamente, ha osservato che in Italia questo non è stato possibile perché deviazioni, silenzi e secretazioni sono venute proprio dallo Stato.

Quando le voci si fondono in un coroC’è un sintomo sicuro del benessere di una nazio-

ne. È questo: I vari gruppi parlano bene gli uni degli altri. Ecco che cosa dicono di Nelson Mandela alcuni missionari cattolici. “È stato un uomo che si è battuto fino in fondo con un genuino senso di umanità per i di-ritti di ogni uomo. Ha insegnato a tutti, bianchi e neri, a liberarsi dalla diabolica convinzione che una razza sia superiore a un’altra, a rispettarsi a vicenda. Aveva gran-di ideali di libertà, una profonda convinzione che ogni uomo, ogni vita umana doveva essere accolta, amata, rispettata, non odiata, oppressa o sfruttata. Ha aiutato i neri a liberarsi dall’odio verso i loro oppressori, ha aiutato i bianchi ad aver fiducia nel diverso e nel nero. Ha cercato in tutti i modi occasioni di incontro e di ri-conciliazione. Profetica la sua intuizione di costituire la Commissione per la verità e la riconciliazione” (P. Gianni Piccolboni).

Così si esprime monsignor Stephen Brislin, arcive-scovo di Capetown e presidente della conferenza Epi-scopale Sudafricana: “Lo ricordo come un uomo di grande dignità, umile, rispettoso di tutti, di ogni perso-

na che incontrava, indipendentemente dal colore o dallo status sociale. Si mostrava interessato sia ai più poveri tra i poveri, sia ai più ricchi. Ascoltava sempre attenta-mente ciò che gli diceva la gente e il suo approccio era sempre gentile. La più grande eredità che ci lascia Man-dela è il perdono e la riconciliazione. La sua leadership ha potuto tirare fuori i sudafricani dalla guerra civile ed evitare maggiori spargimenti di sangue, guidandoci verso la democrazia attraverso una transizione pacifica. Nonostante l’oppressione dell’apartheid abbia distrutto così tante vite, Mandela è stato capace di condurre le persone ad una stabilità che include tutti, oppressi ed oppressori. Lo ha fatto senza prescindere dai suoi prin-cipi: l’ingiustizia e la discriminazione non avrebbero dovuto più esistere nel nuovo Sudafrica. Ha promosso la dignità di ogni persona e i diritti di tutti. Mostrava speciale amore e attenzione soprattutto nei confronti dei bambini, specialmente quelli più vulnerabili, che vive-vano nelle zone povere e rurali e avevano difficoltà ad accedere all’istruzione. Gli siamo grati perché ha porta-to la pace in Sudafrica. Abbiamo ancora tante sfide che ci attendono in futuro perché sia una pace vera e giusta e sia sradicata l’oppressione dalla povertà, dalla crimi-nalità e dalla corruzione. Ma la sua visione ci ispira a proseguire per affrontare queste sfide”.

Desmond Tutu guida la commissione per la verità e la riconciliazione. A proposito della sua opera così si esprime il p. Stefano Senaldi: “Furono esaminati e chiu-si 22.500 casi e questo come un vero miracolo portò ad una profonda guarigione interiore sia delle vittime sia degli autori dei crimini. La popolazione capì che nulla avrebbe potuto risarcire il male subito, quindi bisognava andare oltre, voltare pagina, iniziare un nuovo capitolo.Non bisognava dimenticare, ma far sì che la memoria non fosse più fonte di vendetta”. E per il futuro? “La nazione sarà a lutto per la morte di Mandela ma il Paese continuerà a funzionare. Le nostre istituzioni sono oggi molto stabili e non saranno minacciate dalla morte di Madiba. La visione che ci ha dato, di riconciliazione e diritti umani, continuerà. Il solo fatto che abbia rinun-ciato ad una seconda presidenza e a continuare la vita politica attiva ci ha assicurato la stabilità della pace e della democrazia in Sudafrica”.(Monsignor Bislin).

La Chiesa in Sudafrica

Il paese “arcobaleno” ha superato la

discriminazione razziale, ha realizzato

la riconciliazione. Quali soggetti sonointervenuti? Quale ruolo hanno avuto

le Chiese? Ne parlia-mo dopo la scompar-sa di Nelson Mandela.

DAL MONDO

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E’chiamato ecumenico per prassi e consuetudine, ma il Concilio Vaticano II ecumenico lo è stato

veramente, sia nella sua preparazione che nello svolgi-mento. Basti pensare alla presenza di osservatori non cattolici a tutte le sessioni dell’intensa attività del Se-gretariato per la promozione dell’unità dei cristiani istituito da papa Giovanni e affidato al cardinal Bea già durante la fase preparatoria. Ed ecumenico il Concilio lo è sta-to anche, forse soprattutto, per il cambio di paradigma nel modo di intendere la ricerca dell’unità visibile dei cristiani. Secondo le parole di Giovanni Paolo II nell’en-ciclica Ut unum sint, l’ecumenismo, «il movimento a fa-vore dell’unità dei cristiani, non è soltanto una qualche appendice, che s’aggiunge all’attività tradizionale del-la Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo». Questa convinzione di “apparte-nenza organica” dell’ecumenismo alla vita della Chiesa ha progressivamente operato un grande mutamento nei cristiani comuni, passati da una situazione di ignoranza degli altri a una consapevolezza di doversi “convertire” tutti alla volontà del Signore espressa nella preghiera al Padre durante l’ultima cena: «Siano una cosa sola, per-ché il mondo creda» (Gv 17,21).

Roger Schutz: il cambio di paradigmaII cambio di paradigma è dovuto a papa Giovanni

XXIII e alla sua amicizia con un uomo che ha segnato certamente la storia del cammino ecumenico del Nove-cento: frère Roger Schutz, giovane svizzero, nativo di un villaggio dello Jura, arriva sulla collina di Borgogna nel 1940. Sarà lui stesso, molti anni dopo, a raccontarmelo. «Quando ero giovane, mi stupivo nel vedere dei cristiani che, pur facendo riferimento a un Dio d’amore, sprecava-no tante energie nel tentativo di giustificare le loro op-posizioni. E mi dicevo: “Per comunicare il Cristo, esiste forse una realtà più trasparente di una vita donata, nella

quale, giorno dopo giorno, si concretizza la riconcilia-zione?” Allora ho pensato che era essenziale creare una comunità di uomini decisi a donare tutta la loro vita e che cercano continuamente di riconciliarsi. Nell’estate del 1940 mi sono detto: “La guerra è scoppiata e c’è una grande sofferenza. È il momento di iniziare a realizzare ciò che ho nel cuore da tempo”. Così, da Ginevra, mi sono messo in viaggio per la Francia. Partito in biciclet-ta, sono arrivato a Cluny, dove il notaio mi ha indicato una casa in vendita a Taizé. Era allora un villaggio sen-za strade asfaltate, né telefono, né acqua corrente. Non c’era un prete fin dai tempi della Rivoluzione. Quando sono arrivato, sono rimasto meravigliato dall’accoglien-za cordiale da parte di alcune persone anziane. Una di esse mi invitò a pranzo e mi disse: “Resti qui, siamo così soli e gli inverni sono tanto lunghi...”. E così ho scel-to Taizé. Di lì a poco alcuni amici mi hanno chiesto di nascondere dei rifugiati che fuggivano dalla parte della Francia che era stata occupata dai nazisti. Sapevo che per creare una comunità non dovevo aver paura di essere presente là dove la prova era più dura». Nel piccolo vil-laggio borgognone, Roger comincia ad accogliere pro-fughi, soprattutto ebrei. Alla fine del 1942 è a Ginevra, per un breve soggiorno: la Francia, dall’ll novembre di quell’anno, è sotto l’occupazione totale dei nazisti. La sera stessa, la Gestapo arriva anche nella casa di Taizé. A Roger non è più possibile tornare, fino alla Libera-zione, nell’autunno del 1944. Nel frattempo, a Ginevra, incontra Pierre, Max e Daniel, i primi fratelli - tutti ri-formati - che inizieranno con lui l’avventura monastica e che, il giorno di Pasqua del 1949, accetteranno l’impe-gno per tutta la vita della comunione dei beni, del celi-bato e della vita comune.

L’incontro con Papa Giovanni«Fu il cardinale Gerlier, l’allora arcivescovo di Lio-

ne, che nel 1958 prese l’iniziativa d’introdurci da Gio-vanni XXIII appena eletto papa. Desiderando deporre sul suo cuore la causa della riconciliazione dei cristiani,

IL CONCILIO DAVANTI A NOI

il cardinale domandò a Giovanni XXIII che la sua prima udienza fosse per Taizé. “Perché così in fretta?” “Per-ché si ricordi bene di ciò che gli avremmo detto”, spie-gò il cardinale. Giovanni XXIII accettò “a condizione che non mi facciano delle domande troppo difficili”. Fin da quel primo incontro, Giovanni XXIII impresse su di noi un segno insostituibile». Così, un po’ alla volta, per luterani, riformati, ortodossi e cattolici, la comunità di-venta un punto di riferimento nel cammino dell’ecume-nismo. In particolare, grazie a MaxThurian (che, verso la fine della sua vita, nella metà degli anni ottanta, viene ordinato sacerdote) la ricerca teologica della comunità è intensa e sistematica. Dopo il Vaticano II, a Taizé co-minciano a entrare i primi fratelli cattolici (negli anni cinquanta e sessanta diversi furono gli anglicani) men-tre, nel frattempo, la vocazione dei monaci si precisa: cercare la riconciliazione tra i cristiani e tra gli uomini e i popoli. La risposta di moltissimi giovani di Paesi di tutto il mondo che, in ogni periodo dell’anno, affollano la collina li incoraggia a credere “nell’insperato”. Agli inizi degli anni settanta, la Comunità lancia l’idea del Concilio dei Giovani che viene aperto a Taizé, alla presenza di quarantamila persone, nell’agosto del 1974 e, negli anni seguenti, viene promosso il Pellegrinaggio di fiducia sulla terra, che prende forma visibile negli incontri in tutti i continenti e negli Incontri Europei di fine anno: città e capitali europee che si riempiono per accogliere, per lo più in famiglie, decine di migliaia di giovani.

Il nuovo priorePer capire il senso di questa straordinaria avventura

dello Spirito, incontro frère Alois, priore della comunità di Taizé dal giorno della morte di frère Roger, avvenuta, in modo tragico, il 16 agosto del 2005. Di origine tedesca, cat-tolico, frère Alois è nato nel 1954 in Baviera ed è cresciuto a Stoccarda. Entrato a Taizé nel 1974, quattro anni dopo ha emesso la professione solenne. Appassionato di musica e di liturgia, ha sempre dedicato anche tanto tempo all’ascolto e all’accompagnamento dei giovani. Seguendo la Regola, pub-blicata nel 1953, frère Roger, in accordo con i fratelli, duran-te il capitolo della comunità nel gennaio 1998, l’ha designato come suo successore. La responsabilità del priore è di stimo-lare il cammino in avanti della comunità e di creare unità e comunione tra i fratelli. «Quando frère Roger mi ha chiesto, molto tempo fa, di prepararmi ad assumere la responsabilità della comunità dopo di lui, non mi ha dato istruzioni; non mi ha detto come dovevo esercitare questa responsabilità; ma

mi ha lasciato queste parole: “Per il priore, come per i fra-telli, il discernimento, lo spirito di misericordia, una bontà inesauribile del cuore, sono doni insostituibili”». Frère Alois svolge questo ministero a Taizé e anche visitando i fratelli che vivono in piccoli gruppi in Brasile, Bangladesh, Corea, Senegal e Kenya: «Una ventina di nostri fratelli vivono in piccole fraternità in altri continenti. Grazie a questo, voglia-mo essere vicini ai poveri e creare ponti tra culture diverse.»

Fratello, non rassegnarti allo scandalo della sepa-razione fra cristiani. Abbi la passione dell’unità del corpo di Cristo. Così si chiude la premessa della vo-stra Regola. Che cosa fate oggi per alimentare il dia-logo tra le Chiese e i cristiani?

«Coloro che passano qualche giorno sulla nostra colli-na - ortodossi, protestanti e cattolici - si sentono profonda-mente uniti senza dover ridurre le loro rispettive fedi a un minimo comune denominatore. Al contrario, essi vanno a fondo nella loro fede. Da dove proviene questa fede? Han-no accettato di mettersi sotto lo stesso tetto e di guardare insieme verso Cristo. Allora noi poniamo la domanda: “Se questo è possibile a Taizé, perché non lo potrebbe essere altrove, senza aspettare che tutte le elaborazioni teologiche siano pienamente armonizzate tra di loro?” Mettersi sotto lo stesso tetto significa innanzitutto rendere più intensa la preghiera comune. Essere insieme nella preghiera significa anticipare l’unità. È prima di tutto lo Spirito Santo che ci unisce. Questo potrebbe realizzarsi anche su temi sensibi-li come il risveglio della fede nei bambini, la pastorale dei giovani...»

Frère Roger e frère Max parteciparono al Concilio Vaticano II, su invito di papa Giovanni, come “os-servatori”. Quali sono, a suo avviso, le sfide a cui oggi la Chiesa cattolica è chiamata per realizzare compiutamente quello straordinario avvenimento ecclesiale?

«Essere fedeli al Concilio significa non avere paura dei cambiamenti del mondo nel quale viviamo. Il Con-cilio ha donato al mondo una testimonianza di comu-nione. Essere fedeli al Vaticano II vuol dire inventare delle nuove strade per arrivare alle sorgenti della fede e poterne trarre uno slancio di comunione per l’oggi. La grande sfida è che le nostre Chiese locali, le nostre par-rocchie, le nostre comunità e tutti i nostri gruppi pos-sano essere innanzitutto un luogo di comunione, di bon-tà di cuore e di fiducia; dei luoghi di accoglienza, dove

diamo fiducia ai giovani, dove cerchiamo di sostenerci a vicenda, ma anche dei luoghi dove possiamo essere attenti ai più deboli, a coloro che non condividono le nostre idee o che addirittura mettono in discussione la nostra fede. La speranza può nascere quando esiste un’esperienza di comunione. Se questa comunità diventa più grande attraverso una moltitudine di gesti di solidarietà concreta, noi continueremo ad avanzare sul cammino intrapreso dal Concilio.»

Chi ha sollecitato il cambio di paradigma per cui l’ecumenismo appartiene organica-mente alla vita della Chiesa? Chi ha preparato, in questo senso, il Concilio?

Taizé:la passione per l’unità

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Mille e ottanta pagine per raccontare la sto-ria di tutti i Concili: è l’impresa di Luigi Sandri1 (Dal Gerusalemme I al Vaticano

III, Il Margine, Trento 2013). La vicenda bimillenaria è specchio della vita e dei contrasti della Chiesa catto-lica e delle altre Chiese. A partire dal primo Concilio, quello di Nicea, nel 325. Il libro dà particolare risalto al Tridentino, con tutta l’intricata problematica legata a Riforma e Controriforma. E, naturalmente, al Vaticano II e ai successivi decenni. Si interroga, poi, sull’ipotesi di un futuro Vaticano III e di un Gerusalemme II, che veda convocate tutte le Chiese. Un «manuale» dei Concili, storiograficamente rigoroso, ma scritto come una crona-ca «dal vivo», in modo chiaro e avvincente e scioglien-do con grande abilità i nodi dogmatici, giuridici, ideo-logici, come ad esempio la ricostruzione della politica di Costantino. In questo caso, Sandri racconta i fatti e fa parlare i protagonisti di ieri e di oggi. Mette in questione il «costantinismo» come politica di «protezione» del-la Chiesa, facendone balenare gli effetti negativi: serviva per controllare la Chiesa, per meglio governare e non ha mai significato una limitazione del paganesimo. Si citano poi interpreti di allora e di oggi: Eusebio di Cesarea scri-veva che vedere i vescovi riuniti a Nicea insieme all’im-peratore sembrava un’anticipazione del Regno di Dio; il teologo spagnolo Victor Codina cita invece Ilario di Poitier, per il quale l’imperatore «non ci uccide di spa-da ma ci accarezza il ventre, riesce ad essere persecutore senza far martiri». La commistione tra Chiesa e potere nasce da questo snodo. E la ricostruzione prosegue, ad esempio, con il Lateranense V, a inizio Cinquecento, oc-casione mancata di riforma. Da qui parte l’onda lunga di una scontentezza che verrà sostanziata nella protesta di Lutero e nella Riforma che cambierà l’aspetto del cri-stianesimo in Occidente. Insomma, un testo per capire ciò che è successo ieri, per comprendere quanto sta av-venendo oggi e accadrà domani.

Ecco come il giornalista Sandri ha risposto alle nostre domande.

Perché ha voluto scrivere un’opera così impegnativa?Credo che non si possa capire l’Occidente senza co-

noscere, nel bene e nel male, la storia delle Chiese. La nostra storia, inevitabilmente, si intreccia con essa. Ep-pure, lo sappiamo tutti, tanto nei cristiani (cattolici, in particolare) che in altri credenti, e in agnostici o in “atei devoti”, vi è, salvo eccezioni, una nescienza impressio-nante. Volendo contribuire a migliorare questa situazio-ne, ho pensato di scrivere una storia dei Concili: la qua-le, naturalmente, non esaurisce la vicenda della Chiesa e delle Chiese, ma offre parametri decisivi per inqua-drarla, e dunque per illuminare la vicenda complessa del Cristianesimo. Nel libro parto dal Concilio archetipo di Gerusalemme, come molti oggi denominano la riunio-ne “degli apostoli e degli anziani”, convocata nella Città santa in un anno tra il ‘48 e il ‘51 dell’era volgare. Arri-vo quindi, con Costantino, al primo Concilio “ecume-nico”, convocato dall’imperatore e non dal papa, quello di Nicea del 325. In quel contesto affronto la questione del cosiddetto Editto di Milano e quindi del “costan-tinismo”, sottolineando aspetti inquietanti, sottaciuti dall’apologetica corrente.

Seguono poi tutti gli altri Concili ecumenici celebrati in Oriente e, quindi, i Concili celebrati nel secondo mil-lennio in Occidente, iniziando dai Lateranensi e gli altri medievali, per arrivare al Tridentino, al Vaticano I e al II. Una cavalcata di duemila anni, attraverso ventun Conci-li “ecumenici” e/o “generali”. Volevo mettere nelle mani della gente normale un testo che servisse a capire di più giornali e telegiornali.

E che cosa ha scoperto in questo viaggio?Un sacco di cose! In sintesi, direi così: i Concili non

avvengono in una bolla, o sotto vuoto, estraniati dal loro tempo; la situazione sociale, culturale e geopolitica ha influito moltissimo sulle deliberazioni delle singole as-semblee. La Chiesa vive nel tempo, è inevitabilmente mescolata e gravata dal tempo.

La Chiesa di ieri e la Chiesa di oggi. An-che noi, le nostre pa-role, lo sono. Chissà che cosa diranno di noi tra mille anni! E dunque nella Chiesa c’è sempre la dialetti-ca tra la forza del Van-gelo e la pesantezza della storia. C’è san Francesco e Matteo Ricci, misericordia e tenerezza, ma anche prepotenza e sbagli.

A volte il peso della storia è stato più forte del peso del Vangelo. Questo ha determina-to abusi e misfatti.

Un altro decisivo aspetto da sottolineare è che i primi sette Concili – da Nicea I del 325 a Nicea II del 787 – e tutti svoltisi in Oriente, sono considerati “ecumenici” sia dagli ortodossi che dai latini; invece, quelli celebrati nel secondo millennio in Occidente, ritenuti infine “ecumeni-ci” da Roma, per gli Orientali sono solamente Concili “ge-nerali” della Chiesa latina. Ma, e così veniamo all’attuali-tà, alcuni teologi e storici cattolici hanno contrastato con veemenza questa distinzione, per cui la tesi di chi, come Giuseppe Alberigo, riteneva “generali” i Concili occiden-tali, e dunque anche il Vaticano II, è stata bollata a fuoco.

Ho poi “scoperto” (l’ho capito meglio) la pregnanza dell’“odio teologico” contro i musulmani disseminato per mezzo millennio dai cinque Concili lateranensi, dai due di Lione, e da quello di Vienne. Ovviamente, biso-gna collocare quelle vicende, e in esse le crociate, nel loro contesto storico, senza giudicarle con il senno di poi e con i paradigmi culturali di oggi. È, tuttavia, un fatto che anche “allora” vi erano anime grandi che propone-vano soluzioni pacifiche, respinte dal “potere sacro”: si pensi che il Concilio Lionese I (1245) condanna l’impe-ratore Federico II perché “dialogava” con i musulmani!

Perché dedica pagine scarne ad alcuni Concili medievali e centinaia invece al Vaticano II?

Mi è sembrato che, per il sentire attuale, le proble-matiche dei primi tre Concili lateranensi (1123, 1139, 1179) si potessero riassumere in poche pagine. Invece dedico più spazio al Lateranense IV (1215), soprattut-to per come affronta il problema della violenza: conce-de l’indulgenza plenaria a chi “stermina gli eretici”! Nel contempo metto in evidenza il messaggio profetico di Francesco d’Assisi. Cerco, insomma, di rendere la com-plessità di quel periodo. Molto, poi, mi dilungo sull’As-semblea di Costanza, che nel 1415 definì il Concilio «superiore al papa»; sul Fiorentino, che nel 1439 riuscì a fare la pacificazione con gli Ortodossi, fallita quasi su-bito; e, soprattutto, sul Tridentino, e dunque su Riforma e Controriforma, riportando le ragioni di Lutero e di Calvino e quelle dei papi del tempo. Spero di aver mo-

strato squarci di futuro, insieme a tremende contraddi-zioni.

Per il Vaticano I adduco le argomentazioni dei favore-voli e dei contrari alla definizione del dogma dell’infal-libilità pontificia, raccontando episodi che evidenziano la mentalità reazionaria di Pio IX. Al Vaticano II dedico trecento pagine, un libro nel libro. Era necessario farlo, per raccontare quell’evento decisivo in modo adeguato. Perciò non mi limito ad affermare: “La Lumen gentium, la costituzione sulla Chiesa, proclama…”, ma ricostrui-sco il dibattito, citando decine di interventi dei “padri”, pro o contro una determinata tesi – ad esempio la col-legialità episcopale – in modo che chi legge entri con me, per così dire, nell’aula conciliare, assista a confronti teologicamente drammatici e, infine, veda l’approdo fi-nale dello schema, con luci e ombre. Evidenzio le conso-nanze, e le molte differenze, tra Giovanni XXIII e Paolo VI, e non taccio le scelte con le quali Montini impedì in Concilio un libero dibattito sui metodi contraccettivi e sul celibato del clero latino.

Qual è l’eredità consegnata dal Concilio Vaticano II?Credo anzitutto la libertà di coscienza. È stato un

grandissimo approdo e principio del Vaticano II che al momento non era stato pienamente valutato. Eppure la libertà di coscienza mette in crisi norme e azioni che nei secoli si sono dette “in nome di Dio”, là dove invece Dio non aveva legiferato. Si è spesso obbligato ad assumerle gravando il peso della coscienza di molti credenti. Il tem-po prossimo obbligherà la Chiesa a fare i conti maggior-mente con il sentire del popolo cristiano. E poi la colle-gialità. Quella che il cardinal Martini invocò il 7 ottobre 1999, davanti al sinodo dei vescovi: allora egli espresse il «sogno» di un Concilio e di una forma di espressione conciliare della collegialità nella Chiesa cattolica. Per ri-guardo alle prerogative del pontefice usò delle perifrasi: chiese un «confronto collegiale e autorevole tra tutti i vescovi su alcuni dei temi nodali ». Da questa strada – su cui si è incamminato anche Papa Francesco – credo non si possa più tornare indietro. Verrà il tempo, e credo sia prossimo, in cui le comunità saranno chiamate a porsi di fronte al Signore e a domandarsi qual è la volontà di Dio nel proprio tempo. Una Chiesa collegiale, cattolica nel senso pieno del termine, non più romano-centrica. La pace è un’altra eredità consegnataci dal Concilio. Se le Chiese devono annunciare il Vangelo di Gesù, sono ob-bligate ad assumere la prospettiva di essere per gli altri, a

servizio della giustizia, in difesa degli ultimi e degli impoveriti della storia.

Mille e ottanta pagine per raccontare i concili

IL CONCILIO DAVANTI A NOI

Una cavalcata di 2000 anni.Una “cronaca dal vivo” per

introdurre anche la gente semplice nelle aule conciliari.

Così si presenta l’opera di Luigi Sandri

Luigi Sandri, giornalista,è stato inviato dell’ANSA

nelle sedi di Mosca e poi di Tel Aviv.

È accreditato pressola Sala Stampa della Santa

Sede per l’Ecumenical NewsInternational.

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“Ti prego per Onèsimo, figlio mio, che ho generato nelle catene, lui, che un giorno ti fu inutile, ma che ora è utile a te e a me. Te lo rimando, lui che mi sta tanto a cuore. Avrei voluto tenerlo con me perché mi assistesse al posto tuo, ora che sono in catene per il Vangelo. Ma non ho voluto fare nulla senza il tuo parere, perché il bene che fai non sia forzato, ma volontario. Per questo forse è stato separato da te per un momento: perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, come fratello carissimo, in primo luogo per me, ma ancora più per te, sia come uomo sia come fratello nel Signore.Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso. E se in qualche cosa ti ha offeso o ti è debitore, metti tutto sul mio conto. Io, Paolo, lo scrivo di mio pugno: pagherò io. Per non dirti che anche tu mi sei debitore, e proprio di te stesso! Sì, fratello! Che io possa ottenere questo favore nel Signore; da’ questo sol-lievo al mio cuore, in Cristo!Ti ho scritto fiducioso nella tua docilità, sapendo che farai anche più di quanto ti chiedo.”

Un reincontro breve e appassionato con la Lette-ra a Filemone mi ha intrigato: tempi di crisi, di mancanza di lavoro, di gente drammaticamen-

te “libera” dal lavoro. Senza lavoro. E qui lo schiavo fuggitivo che cade nella grazia di Dio affidata a Paolo che lo seduce verso Gesù. Paolo rimanda lo schiavo fuggitivo al suo padrone, a Filemone appunto. Ma è Filemone il cuore di questa drammatica festa: riceverà non più uno schiavo, ma molto più che uno schiavo, un “fratello”. Questo mi ha portato a ricordare ancora una volta l’articolo primo della nostra Costituzione e il lavo-ro che della cittadinanza dovrebbe essere il principio e la piena espressione. Ricordo anche tempi lontani quando nelle ricche campagne capitava che il grande

proprietario terriero dovesse invitare a cena i suoi ric-chi amici per chiedere a loro un aiuto nella stalla, che lo sciopero dei lavoranti lasciava drammaticamente incompiuto. Tempi lontani. Tempi finiti. È possibile il “regime” di Filemone? Penso di no. Ed è bene così! È bene che non si possa sognare o progettare, magari “da sinistra”, un “regime di cristianità”. Quel regime è finito. Si fa fatica da molte parti anche importanti ad accettarlo, ma è così. Il cristianesimo non è un regi-me, ma un’incessante e incalzante novità. E siccome è perennemente novità, è necessariamente e inevitabil-mente inquietudine. Una sana inquietudine

Nessuno ha raccontato come, di fatto, si sia rea-lizzata la “convivenza” tra Filemone e il suo schiavo. Ma quello che è essenziale è l’inquietudine che la pic-cola Lettera a Filemone, come ogni altra Parola della Scrittura, consegna a ogni generazione cristiana. Cer-tamente è bello e doveroso riconoscere i progressi che le culture e le civiltà compiono nella loro storia: attraverso passaggi spesso molto dolorosi. Talvolta in-coraggiati e sostenuti dalla contestazione evangelica. Ma quella contestazione resta tale sempre. Quello che Paolo chiede resta implacabilmente una provocazione, una speranza e una sfida. Mai un progetto realizzato. Il Vangelo non lo si può realizzare facendone un siste-ma. Da Costantino imperatore all’imperatore France-sco Giuseppe la troppo lunga storia del Sacro Romano Impero ne è umiliata dimostrazione. E così la Lettera a Filemone torna a inquietare anche il nostro tempo.

Ci sono ancora gli schiavi?

Chi oserebbe parlare nel nostro tempo di permanenti e crescenti re-gimi di schiavitù? Eppure… Accoglie-te questo solo come provocazione dispettosa. È finita la schiavitù, op-pure nel nostro tempo s’è fatta più dura e crudele? Non penso tanto alla “capanna” dello zio Tom, e all’idillio e al romanticismo di una relazione così importante da rendere impos-sibile la separazione tra lo schiavo e il suo padrone. Questo è tra l’altro previsto anche nella Legge Santa dei nostri padri ebrei. Penso, più cinica-mente, al fatto che lo schiavo anti-co poteva almeno custodire in un angolo del suo cuore la speranza di fuggire dal suo crudele padrone. Lo schiavo di oggi non può. E non vuo-le. Nello stravolgimento dei valori e dei fini, il diritto al lavoro naufraga

in una rivendicazione alla schiavitù. Il padronato di oggi è molto molto più duro e potente del padronato di ieri. Oggi, se il padrone non ti fa lavorare, sei finito! Quando la storia s’indurisce e s’incupisce, si spalanca l’ipotesi di lavorare a ogni condizione. Un tempo, le “prigioni”, molto più leggere delle attuali, erano sale d’aspetto per tre de-stinazioni: “ad patibulum”, cioè alla morte; “ad metalla”, cioè al lavoro forzato nelle miniere; “ad galera”, e quin-di ai remi delle grandi navi degli imperi e dei regni. Oggi lo schiavo è costretto a sperare in qualche “metalla” o in qualche “galera”. Altrimenti c’è il rischio del crepare. È fi-nita la schiavitù? E non è di poco conto che ce lo chiedia-mo anche noi, cittadini ancora privilegiati di questo picco-lo pezzo di mondo. Come stanno le cose in tutto il resto, e non secondariamente nelle terre e nei regimi dei futuri signori del mondo, dalla Cina all’India al Brasile? La Parola di Dio, forse deludente a un primo sguardo superficiale, sembra saper proporre solo un certo buonismo. Ma se si considera fino in fondo la richiesta paolina che lo schia-vo fuggitivo sia ora ricevuto come un fratello, quali con-seguenze questo potrebbe suggerire al nostro moderno terribile schiavismo? Non stanchiamoci dunque mai di la-sciarci disturbare e visitare dall’inquietudine del Vangelo. Di questo meraviglioso “mai finito” Vangelo.

Il Vangelo come cammino aperto

Convertirsi incessantemente al Vangelo è speranza di un cammino dove la bontà e la bellezza del Signore chie-de di essere incessantemente accolta come esigenza di un’incessante ripresa del cammino. Speriamo almeno che al diritto del lavoratore venga più severamente richiamato il dovere del suo padrone.

Il cuore della lettera

4Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia 5a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo, dal primo giorno fino al pre-sente. 6Sono persuaso che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. 7È giusto, del resto, che io provi questi sentimen-ti per tutti voi, perché vi porto nel cuore, sia quando sono in prigionia, sia quando difendo e confermo il Vangelo, voi che con me siete tutti partecipi della grazia. 8Infatti Dio mi è te-stimone del vivo desiderio che nutro per tutti voi nell’amore di Cristo Gesù. 9E perciò pre-go che la vostra carità cresca sempre più in conoscenza e in pieno discernimento, 10per-ché possiate distinguere ciò che è meglio ed essere integri e irreprensibili per il giorno di Cristo, 11ricolmi di quel frutto di giustizia che si ottiene per mezzo di Gesù Cristo, a gloria e lode di Dio. 12Desidero che sappiate, fratelli, come le mie vicende si siano volte piuttosto per il progresso del Vangelo, 13al punto che, in tutto il palazzo del pretorio e dovunque, si sa che io sono prigioniero per Cristo. 14In talmodo la maggior parte dei fratelli nel Signore, incoraggiati dalle mie catene, ancor più ar-discono annunciare senza timore la Parola. 15Alcuni, è vero, predicano Cristo anche per invidia e spirito di contesa, ma altri con buoni sentimenti. 16Questi lo fanno per amore, sa-pendo che io sono stato incaricato della dife-sa del Vangelo; 17quelli invece predicano Cri-sto con spirito di rivalità, con intenzioni non rette, pensando di accrescere dolore alle mie catene. 18Ma questo che importa? Purché in ogni maniera, per convenienza o per sinceri-tà, Cristo venga annunciato, io me ne ralle-gro e continuerò a rallegrarmene.. 19So infatti che questo servirà alla mia salvezza, grazie alla vostra preghiera e all’aiuto dello Spirito di Gesù Cristo, 20secondo la mia ardente atte-sa e la speranza che in nulla rimarrò deluso; anzi nella piena fiducia che, come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio cor-po, sia che io viva sia che io muoia. 21Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guada-gno [Fil 1, 4-21].

Breve, appassionata,intrigante: questo si può

dire della letteradi Paolo a Filemone.

Perché ancora ci scuote?

NELLA CHIESA

Il regime di Filemone

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Lo “scisma sommerso”. Così quindici anni fa in un saggio edito da Garzanti, Pietro Prini, filosofo di provata fede, analizzava

la spaccatura sotterranea, sempre più estesa, tra il magistero ufficiale della Chiesa cattolica e le scelte di vita dei credenti.

Prini partiva da un dato di fatto che la ge-rarchia, a suo dire, fingeva di ignorare: al di là degli apparenti trionfi, dei luoghi di culto affol-lati a Natale e a Pasqua, nella Chiesa è in atto uno “scisma sommerso”, perché si sta creando un divario profondo, forse irrecuperabile, tra la dottrina e le coscienze. I segnali dello scisma sono tanti e arrivano da più parti. Dai molti che decidono oramai di non confessare più alcuni peccati, un tempo rite-nuti importanti; ai troppi che abbandonano e vanno per la loro strada. Un fossato che si allarga sempre più, in parti-colare nel campo della morale. Spesso perce-pita come “insignificante”, non tocca più quelli e quelle ai quali è indirizzata.

Attorno al tema si sono scatenate, nel corso di questi anni, vivaci e animate discussioni. In modo particolare, sostenute da quanti ritengo-no l’attuale crisi imputabile alla mancata pro-clamazione, da parte dei credenti, della verità e della “dottrina”. Occorre – sostengono costo-ro – tornare a proclamarle con chiarezza e for-

za, insieme ai valori connessi. I convinti di que-sta tesi di solito esprimono un giudizio severo sul tempo presente e sulla cultura ma anche sui metodi di evangelizzazione e di catechesi messi in atto fino ad ora.

In gioco la tradizione. Ma quale?

La questione è interessante perché permet-te di chiarire l’idea di “tradizione”. Parola tanto evocata quanto abusata. Per i sostenitori come quelli sopra, questa è da intendersi esclusiva-mente nell’atto di “custodire il deposito” piutto-sto che di svilupparlo. È il problema della pa-rabola dei talenti: secondo il tradizionalismo, il più fedele sarebbe stato quello che li nasconde e non quello che li traffica. Il modello di fedeltà è statico. Se certe istanze non sono recepite all’interno della Chiesa, esse trovano risposte altrove. Questo atteggiamento mette in campo la questione della libertà.

Il problema dell’obbedienza nella libertà. Nella Chiesa la libertà pare non godere di molta fortuna. Quindi si creano due situazioni estre-me: da una parte abbiamo la rottura e dall’al-tra l’integralismo. Sono aspetti antitetici, ma, a ben pensarci, sono anche le due facce della stessa medaglia. Penso a tutto questo men-tre leggo con attenzione le trentotto domande

del questionario sulla famiglia inviato a tutti i vescovi del mondo perché anche le Chiese lo-cali, i parroci e i singoli fedeli partecipino alla preparazione del Sinodo straordinario che si svolgerà in Vaticano dal 5 al 19 ottobre 2014. È la più grande consultazione mai effettuata dalla Chiesa cattolica. Con domande non palu-date, che non si sottraggono ai temi morali più spinosi. Un metodo originale che ha l’obiettivodi avviare una discussione e un confronto per una Chiesa veramente “comunionale”, quella in cui la libertà è vissuta e assunta responsa-bilmente dal credente che percepisce come attesa e auspicata la propria voce.

Una prospettiva

«Se una persona è gay e cerca il Signore – ha detto Papa Francesco ai giornalisti al ritorno dalla GMG di Rio de Janeiro – e ha buona vo-lontà, chi sono io per giudicarla?» E nell’inter-vista a La Civiltà Cattolica ha specificato: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose e que-sto mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il pare-re della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessarioparlarne in continuazione».

Di fronte alle questioni in gioco, complesse e articolate, del tempo presente il Papa sem-bra puntare su una più esplicita centralità del Vangelo rispetto alla morale. Forse non basta, forse non risolve tutti i problemi; certamente ha la forza di indicare un impegno anche alla Chiesa. L’unico per cui ha ragione d’essere: convertirsi al Vangelo.

Le parole dei cristiani non passano nell’at-tuale contesto non perché le persone non ca-piscono o sono più cattive rispetto ad un tempo né perché i metodi di evangelizzazione sono superati (lo sono ma non è la questione princi-pale), ma perché le parole del Vangelo paiono, spesso, non parlare più alla Chiesa stessa.

Solo questa conversione (quella che chie-diamo sempre agli “altri”) “riformula” il volto della Chiesa in modo che diventi icona del Vangelo e ci porti a stare volentieri e in modo dialogale dentro la nostra storia e la nostra cul-tura. Non c’è altra strada.

Mai più“scismi sommersi”

Si è verificato, negli ultimi anni, una spaccatura tra magistero e fedeli cristiani.Ora, su temi scottanti,la parola è data anzitutto alla Chiesa intera.

NELLA CHIESA

“La Chiesa non ha bisogno

di apologeti delle proprie cause nè di crociati

delle proprie battaglie, ma di seminatori umili e

fiduciosi della verità, che sanno che essa

è sempre loro di nuovo consegnata

e si fidano della sua potenza”

Papa Francesco

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Bisogna “vivere in forma, mangiare poco e bene, alternare riposo e attività”: questi gli slogan in forma di comandamenti. Le nostre case sono attrezzatissime farmacie

Salute

Al fine di cogliere un altro elemento distintivo del-la società che siamo diventati, parto da un rilievo di natura domestica: dal fatto, cioè, che nelle case

di ciascuno di noi è ormai praticamente possibile rin-tracciare una sorta di piccola “farmacia”. Acquistiamo, infatti, una quantità e una varietà di medicine davvero impressionante: sono ben 1,8 miliardi le confezioni di farmaci acquistati dagli italiani nell’anno solare 2012, e cioè circa 30 confezioni a testa. Basta allora fare una semplice moltiplicazione per il numero dei componenti della famiglia, senza dimenticare quelle acquistate pro capite negli anni precedenti e nell’anno in corso, ed ecco da dove viene fuori la nostra farmacia familiare!

Un’obbedienza collettivaQuesto semplice dato certamente testimonia quan-

ta importanza abbia acquistato oggi la cura della pro-pria salute, ma offre pure spunto per una riflessione più ampia. Stiamo diventando tutti, in effetti, per così dire, sempre più succubi dell’ideale della “salute ad ogni costo” e il sistema culturale ed economico trasforma questa nostra forma di obbedienza collettiva in nuove e influenti forme di controllo e di potere, producendo significativi slittamenti nella considerazione del nostro destino umano. I continui appelli e allarmi da parte del Ministero della salute o dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nei confronti di questa o di quell’epidemia o infezione, i servizi televisivi dedicati a ciò, le rubri-che specifiche di salute su ogni rotocalco e quotidiano, le numerosissime riviste specializzate, i forum sul web e i tantissimi libri che di continuo ci ricordano coman-damento del “benessere”, del “vivere in forma”, del “mangiare poco e bene”, del “riposare bene”, della cor-retta idratazione e del necessario movimento quotidia-no, dell’importanza del digiuno e dell’indispensabile controllo annuale dopo questa o quest’altra età e via di seguito, ci dicono che siamo appunto dentro l’epoca della “salute ad ogni costo”: nell’epoca della “grande salute”.

Ci dicono in altre parole che abbiamo messo la sa-lute al centro di ogni nostra preoccupazione, e, assolu-tizzandola, non riusciamo più a fare i giusti conti con la realtà della fragilità umana, con l’esperienza della sof-ferenza e della malattia, con una visione integrale della nostra persona, e infine con il (presupposto e spesso presentato come assoluto) sapere e potere degli spe-cialisti.

I nuovi sacerdoti della condizione post-moderna

II risvolto immediato di questa centralità rivolta alla questione della salute è ovviamente l’enorme rilievo assunto oggi dalla medicina e dai tecnici della salute, i nuovi veri sacerdoti della condizione postmoderna. Questi ultimi perciò diventano i nostri referenti privile-giati, in grado di proteggerci, guarirci, metterci sull’av-viso e sorvegliarci, orientarci o, almeno, permetterci di credere che potremo, se saremo obbedienti, non sof-frire troppo. E questo è proprio il punto critico: dietro l’ideale della salute ad ogni costo si cela il rifiuto net-to della fragilità umana, del fatto che l’interruzione, il rallentamento, la sofferenza, la caduta facciano parte normale dell’esistenza umana. In verità, al contrario, nel nostro rivolgerci agli specialisti ci aggrappiamo alla convinzione: “Sono me stesso quando sto bene”. Ogni sofferenza è vissuta come un alterità da esorcizzare, è esperita come patologica, anormale. La fragilità deve essere eliminata. La malattia perde allora lo statuto di sintomo, ovvero di comunicazione da parte del corpo nella sua globalità, in vista di una migliore composizio-ne degli impegni e di attenzione alle proprie energie limitate, e viene considerata quale temporaneo bloc-co di un organo da rimettere subito in funzione grazie a questa o a quella medicina, per riprendere la nostra pazza corsa nel mondo, spesso senza sapere dove an-dare. La sfida posta da tutto ciò all’umanesimo cristia-no è solo all’inizio, ma non per questo è cosa di poco conto.

Care famiglie,mi presento alla soglia della vostra casa per parlarvi di un evento che, come è noto, si svolgerà

nel prossimo mese di ottobre in Vaticano. Si tratta dell’Assemblea generale straordinaria del Si-nodo dei Vescovi, convocata per discutere sul tema “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione”. Oggi, infatti, la Chiesa è chiamata ad annunciare il Vangelo affrontando an-che le nuove urgenze pastorali che riguardano la famiglia.

Questo importante appuntamento coinvolge tutto il Popolo di Dio, Vescovi, sacerdoti, persone consacrate e fedeli laici delle Chiese particolari del mondo intero, che partecipano attivamente alla sua preparazione con suggerimenti concreti e con l’apporto indispensabile della preghiera. Il sostegno della preghiera è quanto mai necessario e significativo specialmente da parte vostra, care famiglie. Infatti, questa Assemblea sinodale è dedicata in modo speciale a voi, alla vostra vocazione e missione nella Chiesa e nella società, ai problemi del matrimonio, della vita familiare, dell’edu-cazione dei figli, e al ruolo delle famiglie nella missione della Chiesa. Pertanto vi chiedo di pregare intensamente lo Spirito Santo, affinché illumini i Padri sinodali e li guidi nel loro impegnativo com-pito. Come sapete, questa Assemblea sinodale straordinaria sarà seguita un anno dopo da quella ordinaria, che porterà avanti lo stesso tema della famiglia. E, in tale contesto, nel settembre 2015 si terrà anche l’Incontro Mondiale delle Famiglie a Philadelphia. Preghiamo dunque tutti insieme perché, attraverso questi eventi, la Chiesa compia un vero cammino di discernimento e adotti i mezzi pastorali adeguati per aiutare le famiglie ad affrontare le sfide attuali con la luce e la forza che vengono dal Vangelo.

Vi scrivo questa lettera nel giorno in cui si celebra la festa della Presentazione di Gesù al tempio. L’evangelista Luca narra che la Madonna e san Giuseppe, secondo la Legge di Mosè, portarono il Bambino al tempio per offrirlo al Signore, e che due anziani, Simeone e Anna, mossi dallo Spirito Santo, andarono loro incontro e riconobbero in Gesù il Messia (cfr Lc 2,22-38). Simeone lo prese tra le braccia e ringraziò Dio perché finalmente aveva “visto” la salvezza; Anna, malgrado l’età avanza-ta, trovò nuovo vigore e si mise a parlare a tutti del Bambino. È un’immagine bella: due giovani ge-nitori e due persone anziane, radunati da Gesù. Davvero Gesù fa incontrare e unisce le generazioni! Egli è la fonte inesauribile di quell’amore che vince ogni chiusura, ogni solitudine, ogni tristezza. Nel vostro cammino familiare, voi condividete tanti momenti belli: i pasti, il riposo, il lavoro in casa, il divertimento, la preghiera, i viaggi e i pellegrinaggi, le azioni di solidarietà… Tuttavia, se manca l’amore manca la gioia, e l’amore autentico ce lo dona Gesù: ci offre la sua Parola, che illumina la nostra strada; ci dà il Pane di vita, che sostiene la fatica quotidiana del nostro cammino.

Care famiglie, la vostra preghiera per il Sinodo dei Vescovi sarà un tesoro prezioso che arricchirà la Chiesa. Vi ringrazio, e vi chiedo di pregare anche per me, perché possa servire il Popolo di Dio nella verità e nella carità. La protezione della Beata Vergine Maria e di san Giuseppe accompagni sempre tutti voi e vi aiuti a camminare uniti nell’amore e nel servizio reciproco. Di cuore invoco su ogni famiglia la benedizione del Signore.

Dal Vaticano, 2 Febbraio 2014 Festa della Presentazione del SignoreFRANCISCUS

Lettera di Papa Francesco alle famiglie

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I santi chi sono?Parliamo delle mille, svariate devozioni ai santi. Si esprimono con pellegrinaggi, venerazioni di immagini e reliquie, novene, processioni, celebrazioni del “patro-no”. Che cosa intendiamo con il termine “santi”? Fac-ciamo riferimento a due aspetti intimamente congiunti:A) La chiamata, l’elezione da parte di Gesù che è il solo santo (Atti 9,13; 1 Corinti 6,1; 16,1; Rom 17; 15,25). Questo è l’elemento oggettivo.B) Una risposta significativa. Questo è l’elemento sog-gettivo. I santi sono cristiani con il marchio di autenti-cità. Sono dei discepoli, solo dei discepoli. Ma si sono dimostrati fedeli, trasparenti, coerenti rispetto alla vo-cazione battesimale. La grazia in loro non è stata vana.Vere e false devozioni Siamo in grado di valutare quando e come le devozioni ai santi sono autentiche o, al contrario, illusorie. Ecco i criteri oggettivi.Uno è devoto quando:• nei santi glorifica il Cristo, va oltre le loro persone. Li venera, non li fa oggetto di culto. Si lascia condurre da Gesù (Giovanni 1,42). Non si isola in un beato Olimpo;• tende all’imitazione. Compie i loro gesti, fa le loro scel-te. Non cerca semplicemente di appropriarsi di una po-tenza numinosa o di grazie speciali;• fa riferimento a personaggi storici. Non si nutre di leg-gende;• vive la Comunione dei Santi. La Chiesa li ha generati tutti alla fede, ha elargito loro lo Spirito, li ha nutriti di Cristo, pane di vita eterna. Il vero devoto comunica con tutti gli altri fratelli. Non pretende privilegi;• è attivo per la soluzione dei problemi. Se ha il figlio ma-lato, lo porta dal medico. Non si affida fideisticamente;• sa cogliere gli aspetti lacunosi del santo. Non lo consi-dera un modello per tutte le dimensioni della vita. Non ne fa un mito. Non lo pone accanto a Dio;• li considera intercessori, non mediatori: questo secondo titolo compete solo al Cristo (1 Timoteo 2,5);• sente che, da una parte, essi vivono già con il Risorto; dall’altra parte, ogni giorno, essi sono partecipi della no-stra storia.

La venerazione, ma come?Il calendario liturgico ci offre i ca-noni precisi:• si fa la festa del santo nel giorno della sua morte. Questo è già in sé un paradosso: quello è il dies Nata-lis, il giorno della nascita, della tota-le loro assimilazione al Risorto;• i santi non hanno un proprio ciclo. Sono dentro l’anno liturgico. Il filo conduttore sono le meraviglie ope-rate da Dio nella storia di salvezza. Essi sono dentro quell’universo luminoso (SC111); • c’è una gerarchia. Non è una questione di posti in paradiso. È semplicemente, per noi, qua, sulla terra, il ritrovare il centro, il cuore (che è il Signore Gesù) e co-glierne tutte le irradiazioni. Ecco allora l’ordine:- Gesù, il Santo dei santi;- la vergine Maria;- San Giuseppe suo sposo;- Giovanni Battista;- gli apostoli;- i martiri;- i fondatori delle Chiese, gli evangelizzatori…

I santi: variazioni sul tema dello spiritoEssere devoti dei santi significa imitarli, esattamente come essi hanno fatto con il Signore Gesù. Ma su quale piano? La potenza miracolosa? No. I santi sono pagine viventi, scritte dallo Spirito dopo e in continuità con ciò che egli aveva espresso nel Primo e Secondo Testa-mento. Ognuno di loro ci porge uno dei doni (sette, cioè innumerevoli):• il coraggio di prendere la parola e svolgere un proprio ruolo nella Chiesa, anche al di là delle consuetudini (Caterina da Siena, Teresa d’Avila…);• la paternità-maternità spirituale (Sant’Antonio del de-serto, San Benedetto da Norcia, Sant’Ignazio)…

Nulla di più antico, nelle religioni, del pellegri-naggio. Nulla di più complesso. A tutte le lati-tudini e in tutti i periodi si ritrova una struttura

stabile: la partenza, il viaggio verso la meta, il ritorno a casa.

Partire è proprio morireIl pellegrino “parte”. Lascia la sua casa, supera le abi-tudini, interrompe il lavoro. È la logica di ogni giornata della vita. Nel pellegrinaggio ci sono tante potenzialità. Ci si ribella alla ciclicità dei ritmi. Si va altrove. Occhi e cuore si concentrano su una meta: qualcosa di inedito, un miracolo, una grazia, la possibilità di ritornare cam-biati.Il rischio è che si tratti di un giro attorno a se stessi. Può darsi che, alla base di tutto, ci sia solo l’immaturità, la voglia di evadere, di non affrontare. Il pellegrinaggio diventa spostamento terra-terra e non un viaggio tra la terra e il cielo. Ruolo della pastorale è quello di provo-care la partenza. Va indicata, specificata, fatta desidera-re la meta. Si tratta di un luogo simbolicamente centrale.Esso rivela qualcosa ma nasconde il più. La meta può essere Gerusalemme, ove il cielo (cioè il Figlio di Dio) ha toccato la terra. Può essere Roma, ove Pietro e Pao-lo sono stati uccisi per la fede. Può essere Santiago di Compostela, che ci rimanda all’apostolo Giacomo. Può essere Lourdes, ove un popolo converge per vivere alcu-ni atteggiamenti evangelici (preghiera e penitenza). C’è una sostanziale differenza tra il turista e il pellegrino.Il primo deve osservare e fotografare tutto. Il secondo si lascia guardare da Dio. Oggi il rischio è che la meta sia “cosificata”: Gerusalemme non è più simbolo del cielo; è la capitale dello Stato di Israele, divisa in zone “ne-miche”. Roma è una metropoli, con tutti i problemi del traffico. Lourdes è uno dei terminali mondiali di percor-si turistici.

Va’ dove ti porta il cuoreL’inquietudine muove il vero pellegrino. Egli ricorda, a chi rimane, che ci portiamo dentro un’ansia che non si acquieta se non si tocca Dio nell’approdo finale. Ora

le distanze si sono avvicinate e le attese rischiano di es-sere abbassate di livello. Si arriva subito, si brucia ogni esperienza. La persona del pellegrino rischia di essere sostituita in tronco: c’è l’agenzia che pensa a tutto. La logica è “soddisfatti o rimborsati”. Non c’è né tempo né spazio per maturare e approfondire i desideri.Nel pellegrinaggio va mantenuta la distanza spaziale. Fa sentire il vuoto, aiuta la ricerca, la purifica. Va man-tenuto e prolungato il tempo. Essa fa passare dai deside-ri più superficiali alla sete di Dio.È meglio, quindi, un percorso fatto a piedi che un itine-rario tutto precostituito dalle agenzie.È meglio un’esperienza su un monte che la frettolosa visita in Palestina, a Roma, a Lourdes. Il pellegrinaggio deve divenire simbolo della precarietà stessa della vita. Si deve provare che cosa significa avere solo l’essen-ziale, dipendere, chiedere. Ottima può essere l’idea di recarsi a svolgere un servizio presso i malati, gli handi-cappati.Ci possono far compagnia, lungo il cammino, le figure dell’attesa (Anna e Simeone, Giovanni Battista, Pao-lo...). Se si va in Palestina, mentre si vedono i luoghi, occorre valorizzare il relativo brano del Vangelo.

Tutto un popolo in camminoPiù di altri fenomeni, il pellegrinaggio aggrega. Per i non-praticanti, per i “cristiani della soglia”, fa sentire, più di tanti gesti liturgici, che procediamo insieme. In tanti casi, però, la ritualità è, di fatto, negata. Gli unici gesti che si ripetono sono quelli legati ai controlli doga-nali, agli imbarchi e sbarchi.Va attivata la grande risorsa del popolo dei pellegrini. Nella liturgia, talvolta, non si vede in faccia l’altro. Qui ci si può riconoscere anzitutto come uomini. Si può no-tare l’abito, l’età, l’affaticamento dell’altro.Si riesce più facilmente a superare gli steccati (sociali, etnici). Si vede ciò che ci unisce (lo spazio che è il co-smo, la terra, l’avventura della vita).

D E VO Z I O N I

Il Pellegrinaggio

Nulla di più coinvolgente diun pellegrinaggio. Nulla di piùcomplesso. Che cosa fare perchéle sue grandi potenzialità fioriscano?

Talora i santi sono venerati per la loro potenza taumaturgica. È questociò che li caratterizza? Quali i criteri oggettivi per un’autentica devozione?.

Le devozioni ai Santi

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Un importante elemento che contraddistin-gue il profilo postmoderno della società attuale riguarda lo statuto immaginario

che in essa ha assunto l’infanzia, cioè il modo in cui i genitori in primis, ma poi tutta la cultura, im-magina l’essere del bambino. A tale proposito, il noto filosofo francese Marcel Gauchet ha parlato di rivoluzione antropologica, sottolineando il pas-saggio epocale dal desiderio del figlio (di ieri) al figlio del desiderio (di oggi).

Con le sue parole: «Il bambino è diventato un figlio del desiderio, del desiderio di un figlio. Era un dono della natura o il frutto della vita attraver-so di noi, certo, ma senza di noi o malgrado noi. D’ora in poi non potrà che essere il risultato di una volontà espressa, di una programmazione, di un progetto». Il cambiamento qui evocato risulta dal fatto che, grazie ai progressi della medicina, l’atto della procreazione è sempre più sganciato dai fat-tori della naturalità e casualità, legati all’esercizio piuttosto immediato della sessualità nel passato. In termini molto semplici, si può dire che il bambi-no al presente non è più un semplice dono della natura, del caso, chiamato alla prosecuzione della specie umana sulla terra. È ora un figlio dei loro genitori, voluto, scelto: è «un’emanazione del loro essere più intimo». È il risultato di un desiderio che lo precede e che lo determina in misura profonda.

Questo cambiamento, come ogni cambiamen-to, va considerato con grande attenzione: da una parte dice di una nuova cura rispetto ai piccoli, dall’altra pone in essere nuove situazioni e nuove domande. Accenno ad entrambe.

Il figlio come meta…Ciò che cambia è in definitiva lo sguardo dei ge-

nitori sul piccolo, come da tempo ha pure segnala-to Gustavo Pietropolli Charmet. Non è più visto, il nuovo arrivato, come un “piccolo selvaggio” da in-trodurre dentro la società civile, ma come una con-quista, una meta (e a volte non mancano le difficol-tà). E perciò, quando arriva, è una sorta di piccolo

“Buddha”, una specie di “gallina dalle uova d’oro”. Non è più un essere in divenire, che dovrà capire il senso della sua chiamata all’esistenza, ma è un essere già individuo, una sorta di piccolo adulto. Non è più l’inizio di un uomo, ma un uomo all’inizio. Non deve pertanto conquistarsi un posto in fami-glia, in società, nella vita. Lo ha già. Quello spazio è stato preparato, immaginato, desiderato per lui, prima di lui, senza di lui. La vita non sarà più la semplice faticosissima occasione di conquistarsi la felicità o più tragicamente di evitare il maggior dolore possibile. Il figlio moderno, il figlio del desi-derio, più radicalmente ha diritto alla felicità.

… e donatore di sensoGauchet sottolinea, tuttavia, che in tal modo viene

fuori una mitologia dell’infanzia. I piccoli non sono più recettori di senso, ma donatori di senso. E quindi me-ritano tutto. Da ciò deriva una prassi educativa fon-damentalmente antitraumatica e iperprotettiva, tutta tesa a favorire nel piccolo la libera espressione di un sé, la quale tuttavia dovrà continuamente fare i conti con il fatto di essere venuto al mondo solo grazie al desiderio dei suoi genitori, a cui in qualche modo si sentirà perennemente legato e di conseguenza fati-cherà non poco a realizzare una piena individuazione di sé, la quale comporta sempre un autentico distac-co da essi. Come si vede, si perpetua qui il gioco di nuove conquiste e di nuove fatiche, che il cammino dell’uomo sulla terra continuamente porta con sé.

Per Gauchet l’approccio più corretto a tutti i risvolti di tale rivoluzione antropologica è quello di una di-scussione aperta e libera. Che abbia soprattutto di mira il rischio concreto che il nuovo culto del bambino comporta: quello che l’infanzia diventi una sorta di prigione dorata, nella quale il figlio del desiderio resti paradossalmente abbandonato a se stesso. È così speciale, è così completo, che di nulla avrebbe bi-sogno. Anche questo mutamento, in ogni caso, non può lasciare indifferenti i credenti veramente interes-sati alla diffusione della vita buona del Vangelo.

Il figlio era un dono, un fruttodella vita. Ora è il risultato diuna programmazione. Che cosacomporta tale cambiamento?infanzia

«I praticanti sono sempre di meno, invece i ‘mes-saroli’ – coloro che frequentano la comunità solo in occasione della messa domenicale – sono in crescita... I ‘messaroli’ in realtà sono il popolo di Dio che, pur non essendo assiduo alle attività della parrocchia, vive una fede a volte semplice, ma capace di sostenere scelte fedeli allo spirito del Vangelo nel quotidiano. È questa fetta di gente che possiamo effetti-vamente educare, a partire dalle sollecitazioni contenute negli Orientamenti Cei per questo de-cennio. Da persone che vengono a messa con motiva-zioni che provengono dall’abitudine, o hanno radici antiche, possono trasformarsi in cristiani convinti.I ‘messaroli’, dunque, sono una risorsa: educhia-mo prima di tutto quelli che abbiamo a disposi-zione tutte le domeniche. Se vengono, vuol dire che le motivazionici sono, e sono abbastanza forti: se però li trattiamocon superficialità, o ad-dirittura con sufficienza, negatività e disatten-zione, il rischio è che si stanchino e se ne vadano. Per questo bisogna coscientizzarli, visto che il senso del dovere oggi non c’è più».

C’è chi va e chi non va, chi la prende, chi assiste e chi la dice… Stiamo parlando della Messa, e queste sono alcune delle espressioni che ne snaturano il significato, perché la indi-

cano come una pratica ripetitiva, stanca e pesante, perciò a rischio abbandono. In questa situazione si trovano tantis-simi cristiani, per i quali la Messa della domenica basta e avanza, cioè i “messaroli”, come li chiamano, con un pizzico di sufficienza, gli “impegnati”: i cristiani dei gruppi, delle associazioni, del volontariato. Si trovano in tutte le parrocchie e sono tanti, tantissimi. Ogni domenica sono lì a Messa, nelle città, nei paesi, nelle frazioni.

Qualcuno dice: “Ma che bisogno c’è di educare questi cristiani della domenica? Questi a Messa ci vengono già”… Sì, ma come ci vengono?

Le pagine che seguono ci aiutano in modo vivace e stimolante a prendere coscienza di ciò che durante la Messa si ascolta, si dice, si canta, si fa, in modo che essa sia veramente il cuore della fede cristiana e della comunità cristiana, l’incontro con il Signore e con i fratelli che fa ardere il cuore, e offra la carica per una fede adulta e consapevole, e per una vita cristiana generosa, impegnata, riconoscibile.

Nelle nostre comunità parrocchiali di Botticino già da tempo stiamo camminando in questa direzione; siamo chia-mati a testimoniare come fratelli l’incontro con il Risorto in modo chiaro e riconoscibile, a diventare “pescatori di uomini” attraverso una testimonianza convinta e gioiosa, a partire proprio dalla celebrazione eucaristica domenicale.

i “messaroli” una

risorsa!?

INSERTODOSSIER

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Purtroppo i doni di Dio, soprattutto i più stra-ordinari come l’eucaristia, messi nelle nostre mani possono essere strapazzati e immiseriti. Ciò che può accadere e spesso è accaduto alla Messa.

Da dono a tassaLa Messa, infatti, è il dono più imprevedibi-

le e alto che Gesù poteva fare ai suoi discepoli e all’umanità, quello che realizza in maniera reale, possiamo dire fisica, la promessa di Gesù: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Nel-le nostre mani, questo dono immenso è stato ro-vesciato, diventando un regalo, un’offerta che noi facciamo a Gesù. Eppure il il vangelo non potrebbe essere più chiaro. Ascoltiamolo!Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spez-zò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me. Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Si-gnore, finché egli venga” (1Cor 11,23-26).

Queste parole sono l’espressione di un dono... E noi, invece di lodare e ringraziare per questo

amore gratuito e senza fine, stiamo lì a pensare: “Gesù, io a Messa ci sono venuto. Perciò vedi un po’ di sistemare mio figlio che non riesce a trovare lavoro. Poi c’è anche mio marito che non sta bene. Non viene a Messa, ma ci vengo io al posto suo. Fallo guarire, sennò come facciamo? Guarda! Se mi aiuti, farò celebrare una Messa per la suocera che, per quante me ne ha fatte passare, starà sicu-ramente in purgatorio”.

Non sono esagerazioni! Lasciate la teoria e ve-rificate le intenzioni di coloro che “stanno” a Mes-sa. Non sarà difficile constatare che molti fedeli non stanno lì per accogliere i frutti del sacrificio di Gesù, ma convinti di essere loro a offrire un sacri-ficio a Dio: aver rinunciato alle faccende domesti-

che, alla passeggiata, alla trasmissione televisiva…Certo, non è più la “Messa di una volta” a cui

quasi tutti si sentivano in dovere di partecipare.Sono sempre di più le celebrazioni eucaristiche partecipate con fede sincera, con gioia, non per precetto o perché non ci sono altri modi per incon-trare la gente, ma per libera scelta.

Sono proprio questi segnali molto positivi che possono e devono spronarci ad andare avanti per fare dell’eucaristia il cuore della comunità. La Mes-sa deve diventare per i cristiani della domenica quello che è stato l’incontro con il Signore risorto per i discepoli di Emmaus.

Noi, come i due, arriviamo alla Messa della domenica un po’ scarichi, un po’ stanchi, un po’ svuotati. La settimana è dura e i nostri propositi di vivere incontri, impegni, situazioni, preoccupa-zioni e gioie secondo la sua parola, hanno perso via via la carica giusta. La Messa ci fa di nuovo ar-dere il cuore. Ci ricarica con la forza della sua vita donata a noi nel pane e nel vino, e ci rilancia con entusiasmo sulle strade della nuova settimana. La Messa domenicale è come il pit stop nelle gare di Formula 1, è la fermata ai box per il cambio gom-me, il rifornimento carburante e la messa a punto di eventuali problemi tecnici.

Ma perché la Messa della domenica sia questo, deve essere quello che è: non una pratica, non una tassa da pagare, non una preghiera per i defunti, nemmeno una bella celebrazione con canti e batti-ti di mano ai quali mi unisco guardando o facendo quello che fanno gli altri, ma l’incontro consapevole e libero con il Signore Risorto e con i fratelli di fede.

Ogni domenica cade in una situazione di vita diversa da quella che la precede e che la seguirà, perché la vita non si ripete mai. Ogni domenica la Parola - che non è un libro da imparare ma il Signo-

re che parla - ci dice cose diverse, perché noi non siamo mai gli stessi della domenica precedente e di quella seguente. Se raccoglie la vita della settimana che si chiude e di quella che si apre, ogni Messa è diversa dalle altre. Ed è vera eucaristia. Quando è sempre uguale a se stessa, come certi liturgisti vor-rebbero, rischia di diventare qualcosa che con la vita non c’entra. E allora a cosa serve?

Dobbiamo passare dallo “stare a Messa”, dal “prendere la Messa”, al partecipare alla Messa, per arrivare a celebrare la Messa. Non è il prete che celebra e gli altri che vi partecipano, ma tutti celebrano con il sacerdote che presiede, e che, grazie al suo sacramento specifico, rende possibile la celebrazione.

La Messa è il sacrificio di Gesù e nessun sano di mente può affermare il contrario. Ma il sacrifico di Gesù non è quello dei tori e degli agnelli, dei quali Dio non sa cosa farsene. Non offre animali o cose, ma se stesso, come Figlio pronto a fare la volontà del Padre. Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: “Tu non hai voluto né sacrifìcio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà “(Eb 10,5-7). Partecipare al sacrificio di Gesù, partecipare alla Messa, è dire con lui: «Ecco, io vengo, o Dio, per fare la tua volontà».

Offrirsi per fare la volontà del Padre. Questo è il vero sacrificio. Anche perché è immensamente più impegnativo che offrire qualsiasi altra cosa: candele, pellegrinaggi, digiuni, preghiere…

Celebrata così, la Messa diventa davvero il cuore di una comunità viva, consapevole, capace di ren-dere presente il suo Signore nella vita e nella storia, e in grado di testimoniarlo in modo limpido e rico-noscibile.

Ogni celebrazione richiede un luogo, uno spazio. La Messa non fa eccezione. essa viene celebrata in un luogo-spazio che chiamiamo comunemente chiesa con la c minuscola, perché la Chiesa con la C maiu-scola è un’altra cosa.

Cosa intendiamo per celebrazioneSe io vado a Messa e sto lì impalato e disinteressato, tanto per fare presenza, come succede soprat-

tutto, ma non solo, nelle Messe dei funerali, non celebro. Perché celebrare non è stare lì.Se io vado a Messa e sto lì perché mi piacciono: la chiesa, i vestiti del sacerdote, i canti, la disposizione dei fiori, i bambini che dialogano con il prete durante l’omelia..., ma io non rispondo, non canto, non

mi sento coinvolto se non come spettatore anche attento, non celebro. Perché celebrare non è assistere a una rappresentazione.

Se io vado a Messa e prego per conto mio, nel modo che piace a me, anche intensamen-te, magari cercando un angolino dove mi arri-vino attenuati i canti e le preghiere degli altri, non celebro. Perché celebrare non è pregare da solo.«Ma, allora, cosa è celebrare?».

Celebrare è essere coinvolti, essere protago-nisti, partecipare attivamente a un fatto che si realizza, che si vive, che si compie in quel mo-mento, in una comunità piccola o grande che sia, dove tutti si attivano per funzioni e compiti diversi. La Messa, perciò, è celebrazione perché non è assistere, per dovere di firma, a qualcosa che fanno gli altri; perché non è rappresentazio-ne alla quale io assisto interessato o annoiato, fischiando o applaudendo come a teatro; per-ché non è preghiera personale che io vivo da solo anche se sto in mezzo a una folla; perché, tantomeno, è una “cosa”, un “prodotto” già confezionato e impacchettato che si va a pren-dere e portare via.

LA MESSA, CUORE DELLA COMUNITA’?

LA CHIESA-TEMPIO, LUOGO DELLA CELEBRAZIONE

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La celebrazione è vita, quindi sempre nuova, perché la vita non si ripete. Essa è azione, perciò non soltanto è sempre nuova, ma rende sempre nuovi coloro che la vivono; li cambia, non li fa mai andare via come sono arrivati.

La Messa è come il giorno. Inizia sempre con l’alba e si chiude con il tramonto, ma non è mai come il giorno prima e quello dopo, anche se ab-biamo incontrato le stesse persone, frequentato gli stessi luoghi, compiuto le stesse attività. Chi vive i giorni come se fossero tutti uguali cade nella noia e nel non senso.

La chiesa-tempioÈ molto importante, anzi fondamentale, che que-

sto luogo-spazio venga riconosciuto e rispettato come tempio, cioè come luogo “altro” da tutti gli altri, non per fuggire dal quotidiano, o per dimenticarlo, ma per spingerlo verso un orizzonte più alto, verso un re-spiro diverso. Verso Dio.

Anche in un camposcuola o durante la gita è ne-cessaria la presa di coscienza, magari con una piccola aggiustatina, che con la Messa si entra nel “tempio”. Purtroppo, però, camposcuola e gite a parte, anche nelle parrocchie non sempre questa sensibilità ab-bonda. Strano, però! Chissà perché gli ambienti ec-clesiastici e religiosi vanno sempre in controtendenza rispetto a valori e norme che la società civile dà per conquiste assodate. La commessa del supermarket, l’impiegato di banca o di qualsiasi ufficio, l’infermie-ra, il frequentatore della palestra sanno che luoghi e attività diverse richiedono atteggiamenti e compor-tamenti diversi, a cominciare dal vestito. Non si va in ufficio con la tuta, né al teatro con gli stivali da pesca...

È necessario educarci ed educare questo spazio “altro”. Non si entra a celebrare l’Eucarestia , anche se la chiesa fosse un prato, come si entra in un bar, o al centro commerciale, o sulla spiaggia, o sulla piaz-za della fiera. Questa attenzione non va osservata in negativo, come una proibizione, come un “no”, ma come un “si”, come un segno di intelligenza e consa-pevolezza.

L’azione educativa, però, non sarà efficace se sarà affidata soltanto alle parole. Serve qualcosa che ci costringa a fermarci, a pensare, a riflettere, a di-scutere, a protestare. Servono cioè i segni concreti.

Inviti e divietiSpesso all’ingresso della chiesa troviamo alcuni

divieti che, normalmente, si riferiscono all’abito, al cellulare, al chewingum. E non mancano le reazioni da parte di chi afferma che la Chiesa ha paura del corpo, mentre non ci sarebbe niente di scandaloso nel farlo vedere.

Queste reazioni vanno prese sul serio, perché ri-velano, a chi vuol capire, che i divieti servono a poco se non sono preceduti e accompagnati da interventi educativi. Spiegare, ragionare, educare è molto me-glio che proibire, anche se richiede tempo e pazien-

za. Ciò che va pazientemente fatto capire è la necessi-tà di saper distinguere i tempi e i luoghi della vita. La volgarità e l’arroganza, due sorelle che vanno sempre d’accordo, consistono nel non rispettare la presenza, la sensibilità, l’attività degli altri, le cose che richiedo-no delicatezza e intimità.

Si entra in chiesa per pregare e per celebrare. Tutto ciò che disturba perché distoglie l’attenzione da ciò che si sta facendo in quel luogo e in quel momento è arroganza e volgarità. Una donna con l’abito “appena accennato”, sia a nord che a sud, sia nel lato A che B, è arrogante e volgare perché, attirando gli occhi su di sé - dei maschi per attrazio-ne istintiva, delle femmine per confronto - distoglie l’attenzione da ciò che si sta celebrando. La stessa cosa vale per un uomo con la canottiera che mostra muscoli palestrati, o con bermuda che espongono i suoi polpacci pelosi. «Che male c’è?». Ecco la do-manda che abbonda, più del proverbiale riso, sulla bocca degli stolti. Il male sta nel non rispettare quel momento, quel luogo, quella azione. Che male c’è se una vedova cammina dietro al carro funebre, che trasporta al cimitero il suo povero marito, de-ceduto in agosto, nel picco del solleone, in bikini? «Quella è matta! È da neuro!». E perché mai? Se quell’abbigliamento lo indossava due giorni prima sulla spiaggia e nessuno aveva niente da ridire?

Attraverso l’abito che indossiamo, noi mandia-mo dei segnali sociali. Anche quanti pretendono di non badare all’abbigliamento e si vestono con la maggiore praticità possibile, con ciò stesso ci dan-no precise informazioni sui loro ruoli sociali e sui loro atteggiamenti verso la cultura in cui vivono. Ciò vuol dire che il proverbio «l’abito non fa il mo-naco» è vero fino a un certo punto.

Il chewingum e il telefonino Lo stesso ragionamento vale per il telefonino e

il chewingum. Anzi! A maggior ragione, perché se il vestito comunica, i gesti del corpo, del volto in modo particolare, comunicano molto di più.

Per quanto il livello della buona educazione sia fortemente in ribasso, è difficile immaginare una persona presentarsi al sindaco, o al capoufficio, o al dottore o a qualsiasi altro individuo che non sia suo amico, masticando la gomma.

Beh, in chiesa c’è ben più del sindaco o di qual-siasi altra persona rispettabile.

L’anima della chiesa-tempioSpento il cellulare, messa via la gomma (non

sugli scalini, ma nel fazzolettino di carta, nascosto nella borsa o in tasca!), sicuri che il nostro abito sia adeguato (se abbiamo le maniche della ca-micia arrotolate, ce le tiriamo giù; se la giacca la portiamo dietro le spalle appesa a un dito, la in-dossiamo; se il maglioncino è avvolto intorno alla vita tipo passeggiata in montagna, lo mettiamo oppure lo sistemiamo ben bene sul braccio...), entriamo in chiesa, che, se è chiesa-tempio, darà senso e motivazioni alle nostre attenzioni.

Le chiese antiche (romaniche, gotiche o rina-scimentali), costruite con una sensibilità impre-gnata di senso del sacro e con rapporto armonio-so con lo spazio e il tempo, avvertivano con la loro stessa struttura che si entrava in un luogo diverso. Le chiese moderne, forse fatta salva qualche ra-rissima eccezione non hanno più questo fascino e questo potere. Sono edifìci come gli altri, sol-tanto un po’ più grandi e un po’ più strani.

Per favorire quindi uno stacco con il fuori po-trebbero bastare, immediatamente prima della

celebrazione, alcune piccole indicazioni. Lettori, ministranti, animatori dei canti o gli incaricati di qualche servizio liturgico abbiano l’accortezza di parlare almeno sottovoce perchè non venga meno il clima di raccoglimento in preparazione alla Messa. Nelle nostre parrocchie di Botticino in particolare si è cercato di valorizzare il momento dell’accoglienza qualche minuto prima dell’inizio della celebrazione eucaristica. Il Signore ci atten-de anche attraverso il saluto, il sorriso, l’interes-samento o l‘abbraccio dei nostri fratelli. Sarebbe bello che almeno tutti gli animatori pastorali sen-tissero l’importanza di questo servizio, fatto col cuore, sul sagrato o all’ingresso della chiesa.

La presenza reale di Gesù EucaristiaQuanto detto fin qui acquista maggior valore,

perché la chiesa-tempio non è solo il luogo dove si celebra la Messa, ma anche quello dove è conserva-ta la presenza reale di Gesù nelle ostie consacrate.

L’uso di conservare l’eucaristia è antichissimo, ma nei primi secoli del cristianesimo non vi erano regole fisse per indicare il luogo in cui venivano custodite le sacre specie. Le testimonianze sto-riche dei primi secoli riferiscono che l’eucaristia veniva conservata nelle case per la comunione quotidiana dei fedeli, e nelle chiese per la comu-nione ai malati e agli infermi. Vi era, inoltre, l’uso di portare con sé l’eucaristia nei viaggi lunghi e difficoltosi. L’uso della custodia in casa è confer-mato fino al IV secolo. Nel V secolo, si inizia a conservare l’eucaristia in un locale adiacente alla chiesa, praticamene la nostra sacrestia. Solo dalla metà del XVI viene stabilito che l’eucaristia sia cu-stodita dentro il tabernacolo, collocato sull’altare

o a muro, in una parete accanto all’altare. Nel 1863, la Sacra Congregazione dei Riti impone che il tabernacolo venga collocato sull’altare, e vieta ogni altra forma di sistemazione. Quando la riforma liturgica del Concilio Ecumenico Va-ticano II ha reintrodotto l’altare rivolto verso il popolo, il tabernacolo è stato spostato o dietro l’altare, o molto più spesso in una cappella la-terale.

Questo ha comportato in coloro che entra-no in chiesa un forte calo di attenzione verso il tabernacolo e, di conseguenza, di consapevo-lezza nei confronti della presenza eucaristica. Per rendersene conto, basta osservare: quanti, entrando in chiesa, - lasciando da parte i bambi-ni e i ragazzi che non ci pensano minimamente - compiono un segno, anche sbrigativo o appe-na accennato, di saluto e adorazione al taber-nacolo?

È vero, infatti, che Dio è presente in cielo, in terra e in ogni luogo, perché lo spirito del Signo-re riempie la terra. Ma Gesù che abita con la sua umanità risorta in mezzo a noi, tra le nostre case, è un dono unico che sarebbe gravissimo trascurare.

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LA CHIESA,COMUNITA’

DI CREDENTI

IL SEGNO, DELLA CROCEGesto di fede, testimonianza, impegno

Prima di entrare nel vivo della comunità che celebra, ci fermiamo un attimo sul segno “carta d’identità” del cristiano, e con il quale la comu-nità cristiana dà inizio a tutte le sue celebrazioni, a tutti i suoi riti, e anche ai momenti importanti della vita: il segno della croce. Questa sosta è ne-cessaria, perché questo segno così importante va “rieducato”, altrimenti rischia di non essere più ciò che dovrebbe essere.

Anni 60 d.C. Un viandante entra in Roma, la capitale del mondo. Avanza circospetto per le vie dell’urbe. Quando incontra un capannello di per-sone, si ferma, finge di partecipare alla conversa-zione, ma intanto, giocherellando con la punta del bastone sulla polvere, disegna una piccola croce. Se nessuno reagisce, saluta e riprende il cammino. Finalmente, un uomo nota quel segno e anche lui con noncuranza, traccia sulla polvere una croce. I due si allontanano dagli altri e, appena rimasti soli, si abbracciano. Non si conoscono, ma sono fratelli di fede: sono cristiani. E’ la scena di un film sui pri-mi cristiani a Roma.

Il segno della croce dovrebbe essere l’identikit del cristiano. Dovrebbe essere così, perché pur-troppo non lo è più. Vai a sapere se il calciatore che, uscendo dagli spogliatoi, si piega a toccare

con la mano il campo da gioco e poi si segna con la croce è un cristiano oppure uno scaramantico. E la donna che, avendo ricevuto la notizia che una sua coetanea è morta di cancro, si produce in un velo-cissimo segno di croce è una credente che racco-manda la sua conoscente alla misericordia di Dio, oppure è una superstiziosa che prova a evitare con quel segno l’eventualità che tocchi anche a lei? E coloro che durante la Messa fanno continuamente segni della croce che senso danno a questo segno?

Qualcuno potrebbe dire: «Che male c’è? Mica il segno di croce è una cosa cattiva. Quindi meglio ab-bondare che lesinare!». Invece il male c’è, perché, per le regole della comunicazione, un segno ripe-tuto troppo spesso diventa scarico, insignificante, non esprime e non comunica più niente. E questo non è un male da poco. Per convincersene, basta osservare chi non è devoto come la signora di cui sopra: non registriamo che mezzi segni di croce, o semplici accenni, quando entrano, segnandosi con l’acqua santa e poi durante la celebrazione, in ordine sparso, quando serve e quando non serve. All’uscita no, perché l’unica preoccupazione è scap-pare.

Ma perché il segno della croce è così importante?Perché è il segno di riconoscimento del cristiano. In una società che sta diventando multireligiosa e mul-tietnica noi dichiariamo di essere discepoli di Gesù di Nazareth. Dobbiamo assolutamente rieducarci e rieducare a questo atto di fede, da ripetere nei mo-menti in cui la vita ci chiama a riconfermare la fede. Pensiamo al mattino, quando la giornata riparte, e alla sera, quando si chiude. Pensiamo a quando ini-ziamo il lavoro con il quale ci guadagniamo il pane. Pensiamo a quando ci troviamo ad affrontare situa-

zioni di vita complesse e difficili che richiedono il superamento della logica umana a favore di quella del vangelo: la gratuità, la generosità, l’altruismo, la mi-sericordia, il perdono, la pace, la lealtà, la giustizia. E perché no prima di iniziare il pranzo, come ringraziamento al Signore e come impegno a evitare ogni spreco.

Un segno di croce, fatto con calma, con consapevolezza, con la partecipazione dell’interez-za del nostro io: corpo e spirito, oltre ad ottenerci l’aiuto divino, chiama a raccolta e ricarica tutte le nostre energie.

Fatto in pubblico è un gesto che ci impegna a testimoniare con coerenza ciò che crediamo e in chi confidiamo e speriamo. E’ con la croce che Gesù ha vinto la morte, ed è con la croce che noi vinciamo.

LA CHIESA, COMUNITA’ DI CREDENTIChi troviamo dentro la chiesa-tempio?

Troviamo persone che una volta chiamavamo i fedeli. Dopo il Concilio siamo passati a chiamarli assemblea. Nella realtà molto spesso i partecipanti alla celebrazione sono rimasti folla, cioè gente che si ritrova gomito a gomito, meglio se a debita distanza gli uni dagli altri, sparsa un po’ qua un po’ là, prefe-ribilmente vicino all’uscita, senza relazioni interper-sonali esplicite. E’ onesto e inevitabile ammettere che il cammino verso la trasformazione della folla

in assemblea (dal vocabolario: riunione di persone convocate per discutere affari di interesse comu-ne) è ancora lungo. E va ripreso con forza e intel-ligenza, perché, di per sé, la celebrazione eucari-stica è più che un’assemblea. Infatti, si dovrebbe parlare di comunità di fratelli e sorelle, convocati non per discutere o decidere, ma per accogliere in mezzo a loro e in loro il Cristo Risorto, il Vivente.

Ciò esige non solo che i partecipanti abbiano tra loro relazioni interpersonali esplicite, cioè rap-porti consapevoli di conoscenza, amicizia, colla-borazione, unità di intenti e di vita, ma che ce le abbiano alte, più profonde di quelle richieste da una comunità a orizzonte semplicemente umano.

Nella realtà, però, queste relazioni esplicite sono presenti soltanto quando l’assemblea è composta di persone che si conoscono perché si incontrano per la catechesi, per i centri di ascolto o il servizio liturgico, per la carità della parrocchia, per le inizia-tive di servizio ai più poveri, per l’oratorio.

Dobbiamo tendere a far diventare comunità di fratelli e sorelle tutti coloro che partecipano alla

Messa. Soltanto allora la Messa sarà il cuore pulsante di una comunità adulta, consapevo-le, riconoscibile.

Questo traguardo è talmente alto da far tremare le ginocchia. Però non possiamo non proporcelo, trovando il coraggio nella convin-zione, avvalorata dall’esperienza, che i grandi traguardi vengono raggiunti con i piccoli passi.

Dovunque davanti, ma in chiesa dietro

Osservare come i fedeli scelgono il po-sto in chiesa è molto interessante e anche divertente. Normalmente chi partecipa a una conferenza, a uno spettacolo, a una ini-ziativa che ritiene importante cerca di gua-dagnare i primi posti. Ci si mette in fondo (soprattutto per le conferenze) se si va con l’intenzione di squagliarsela prima, o per mancanza di tempo, o perché si prevede che sarà una lagna. In chiesa, chissà perché, una maggioranza molto alta di fedeli tende a occupare gli ultimi posti; qualcuno addi-rittura si offre costantemente come soste-gno al portone d’ingresso… Probabilmente se durante una celebrazione entrasse una persona che non è mai entrata in una chie-sa, che non ha mai sentito parlare della Messa, e ci chiedesse: - Cosa state a fare qua dentro? -, noi cosa gli risponderem-mo? Dovremmo dirgli: “ Stiamo celebran-do la cena del Signore”. Quel malcapitato strabuzzerebbe gli occhi ed esclamerebbe: “Che cena sarebbe quella del vostro Signo-re? A casa mia, quando si cena, si sta tutti vicini, e succede così anche quando ci ritro-viamo a cena tra amici. Voi sembrate gente che ha litigato…”.

Un vero e proprio rebus! In Italia, tutti cercano di scavalcare la fila per arrivare davanti. In chiesa no: tutti preferiscono gli ultimi posti e non si schiodano nonostante appelli accorati a venire davanti. Sarà per mettere in pratica le parole di Gesù: «Quando sei invitato a nozze, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro in-vitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: Cedigli il posto!» (Lc 14,8)? Magari fosse! Purtroppo è perché la Messa è sentita come una pratica da sbrigare in fretta.

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I ritardatari sono una piaga dovunque, perciò anche in chiesa, soprattutto quelli abitudinari e quelli che, incuranti dello svolgimento della celebrazione, gironzolano in cerca di posto, salutando amici e conoscenti, o addirittura an-dando tranquillamente ad accendere candele alla Madonna e ai santi.

Nelle nostre parrocchie stiamo cominciando a maturare questa consapevolezza; alcuni piccoli passi sono stati fatti, soprattutto da parte degli ani-matori pastorali e ministri della Comunione, invitati a occupare i banchi davanti e a mettersi vicini, qua-le segno e testimonianza di comunione.

Ma perché non provare tutti a lasciare ogni tanto il “posto fisso” per andare a sedersi qualche banco più avanti, oppure proprio vicino a quella persona che non conosciamo?

I ritardatariUn altro problema non di poco conto è costitui-

to dai ritardatari: un certo numero di fedeli che en-tra in chiesa, più o meno sistematicamente, a cele-brazione iniziata. Questi non sono tutti della stessa specie.

Ci sono i ritardatari per necessità. Sono quelli, in genere mamme, che fanno fatica a mettere insieme tutte le incombenze che gravano sulle loro spalle: bambini, genitori anziani o malati, i lavori domesti-ci... Con costoro è necessaria una grande misericor-dia, anche perché sono discreti, entrano in punta di piedi e fanno di tutto per non farsi notare.

Ci sono poi i ritardatari per DNA. Sono coloro che arrivano tardi per costituzione. Puoi cambiare l’orario come vuoi, anche come te l’hanno chiesto loro, tanto arrivano in ritardo. Questi sono abba-stanza fastidiosi, perché sono abitudinari anche per il posto, perciò sono capaci di attraversare tutta la chiesa per raggiungerlo, e magari di volersi mettere per forza lì anche se non c’è più lo spazio sufficien-te. E non finisce qui! Perché, raggiunto e riconqui-stato il posto, salutano tranquillamente le amiche lì intorno (spesso a voce alta perché sono sorda-

stre...) anche se è in corso la proclamazione della parola di Dio.

La terza categoria di ritardatari, la più fastidiosa, è quella di coloro che arrivano in ritardo per “fare vetrina”, per sfilare, per farsi vedere, spesso segna-landosi con il ritmo dei tacchi. In genere è compo-sta da donne di una certa età che si credono belle o ancora belle. Queste ritardatarie sono particolar-mente fastidiose soprattutto nelle occasioni extra, come i matrimoni e i funerali.

I bimbetti urlatori e i bambini “sciolti”A questo punto forse non è inutile aggiungere

due parole sui bimbetti che il papà e la mamma por-tano in chiesa in braccio o sulla carrozzina, e che non sanno quando è il momento di strillare o stare zitti.

La prima cosa da dire è che niente è più com-movente di queste presenze, che perciò vanno apprezzate e incoraggiate. Se i bimbi si esprimono con qualche strillo o pianto, li si lasci fare. Che male fanno? Anzi, contribuiscono a creare un clima di fa-miglia. Ad esempio durante i battesimi, che in par-rocchia vengono celebrati in forma comunitaria du-rante una delle messe della domenica, è inevitabile che i bambini o i loro fratellini si facciano sentire… Ma nessun problema. Genitori e parenti sapranno intervenire al meglio se il piccoletto “esagera”.

I genitori, però, dovranno essere sensibilizzati a controllare i bambini un po’ più grandi. Lasciarli liberi di girare per la chiesa, di giocare con le mac-chinine sul banco, di sgranocchiare merendine, di distruggere i libretti di canto senza provare nem-meno a farli rendere conto di trovarsi in un ambien-te che esige comportamenti diversi non è prova di

grande attenzione educativa.E poi stà agli adulti non lasciarsi distrarre!

Ma testimoniare con l’attenzione e la parteci-pazione attiva e interessata alla celebrazione.

I GESTI DEL CORPO PER CELEBRARE

Ogni celebrazione per essere tale esige che i partecipanti siano coinvolti pienamente: pen-sieri, sentimenti, corpo. Anima e corpo, si dice-

va una volta. Assistere a qualcosa che accade, sen-za sapere cosa sta succedendo o pensando ad altro, senza provare alcuna reazione emotiva né di sim-patia né di rifiuto, immobili come i pali della luce non è celebrare. Partecipare alla Messa così non è celebrare l’eucaristia.

I sacramenti non sono atti magici, ma incontri con il Signóre risorto, che fa la sua parte (e quella la conosce soltanto lui, e soltanto lui ne conosce gli effetti), ma richiede anche la nostra. E questo vuol dire che la Messa richiede la partecipazione di tutta la persona: pensieri, sentimenti, corpo.

Noi viviamo con il corpoTutto ciò che facciamo, possiamo farlo soltanto

con il corpo. Anche pensare le cose più spirituali. Anche provare i sentimenti più celestiali. Anche se non ci facciamo caso, il corpo c’è sempre. A Messa partecipiamo con il corpo. Su questo non ci piove. Altrimenti perché dovremmo preoccuparci di come siamo vestiti? D’altra parte, come potremmo cele-brare l’eucaristia senza il corpo, dal momento che il Signore risorto, misteriosamente ma realmente, ri-torna corpo nel pane e nel vino per renderci possi-bile l’incontro con lui? Però, affinché il nostro corpo partecipi in pienezza, cioè con il coinvolgimento dei pensieri e dei sentimenti, i suoi gesti devono esse-re compiuti consapevolmente. Cosa che purtroppo non sempre avviene. E di solito la non consapevo-lezza porta alla superficialità, al nonsenso e infine all’abbandono. Capita spesso ai funerali che i familia-ri del defunto, sistemati nei primi banchi, non sanno come muoversi se non guardano ciò che fanno quelli dietro. E’ necessario portare i “messaroli” alla cono-scenza del perché e del quando dei gesti.

La posizione seduti La posizione “seduti” è indicata per l’ascolto, la

riflessione, la meditazione, l’attesa. Nella celebra-zione eucaristica, la posizione “seduti” è indicata: - per ascoltare la prima e la seconda lettura, salmo compreso;- durante la presentazione delle offerte, quando queste vengano portate all’altare e il sacerdote le prepara;- dopo aver ricevuto la comunione, per aspetta-re che la distribuzione sia terminata, se non c’è la possibilità di mettersi in ginocchio, o non si riesce a rimanere così troppo a lungo.In questi tre momenti, chi rimane in piedi non dà segno di maggiore devozione o fede. Dimostra di non partecipare in maniera consapevole.

La posizione in piedi Perchè la prima e la seconda lettura vengono ascol-

tate seduti, mentre il vangelo lo si accoglie “in piedi”? Perché il vangelo merita più rispetto. Ogni riga della

Scrittura è parola di Dio, ma il vangelo ne è il pieno com-pimento. Quando qualcuno viene a farci visita, a meno di non essere stesi a letto con la febbre, o adagiati in pol-trona con una gamba ingessata, lo accogliamo alzandoci in piedi. Ci comportiamo così anche quando qualcuno arriva nel nostro ufficio, o quando un superiore (l’inse-gnante, il preside, il direttore, il sindaco...) entra nel no-stro luogo di lavoro. Ci mettiamo in piedi quando assi-stiamo a un avvenimento inusuale, solenne, importante.

Il vangelo è il Signore che viene a incontrarci con la sua Parola, per chiederci di metterla in pratica. Niente di più giusto e significativo che accoglierlo in piedi, sull’at-tenti, come soldati i pronti a eseguire. Così come è natu-rale stare in piedi per rinnovare la professione di fede, il Credo, la risposta al vangelo.

La posizione “in piedi” è idonea e richiesta, oltre che ovviamente per l’inizio e la fine della celebrazione, anche per i momenti di preghiera, sia quelli riservati al sacerdo-te, che quelli condivisi. Le preghiere del sacerdote sono: la colletta, la preghiera sulle offerte, il “dopo comunio-ne”, il prefazio, la consacrazione.

I momenti di preghiera più importanti che il sacerdo-te condivide con i fedeli sono il Gloria (è un inno, ma è comunque preghiera), quando è previsto, e il Padre no-stro. In piedi ovviamente viene proclamato il Credo, la professione di fede.

Pregare “in piedi” è uno dei gesti più importanti e più antichi della preghiera cristiana, come dimostra l’icono-grafia. Mettersi in piedi per pregare è cosa molto diversa dallo stare in piedi perché non c’è la possibilità di sedersi; perché “sto meglio in piedi”; perché “ci vedo meglio”.

La Messa, come tutte le celebrazioni, vive di segni (in piedi, seduti, in ginocchio, con le mani alzate...) con-sapevoli e condivisi. Se i partecipanti seguono ciò che fanno gli altri senza conoscerne il motivo, come alzarsi in piedi perché il primo della fila si alza per motivi suoi, la celebrazione perde di significato, stimola a estraniarsi e alla fine a lasciarla perché: “Non mi dice niente”.

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La posizione “in ginocchio”Stare in ginocchio è la posizione del corpo con la

quale manifestiamo il nostro farci piccoli e umili. Chi si pone in ginocchio dimezza la sua statura, rinunciando a misurarsi con chi gli sta davanti, si dichiara piccolo, scon-fitto, bisognoso. E’ un gesto universale, presente e signi-ficativo in tutte le culture; è profondamente umano e potentemente religioso. Perciò importantissimo.

Però, il motivo più vero va cercato nella mentali-tà prevalente della cultura moderna che rifiuta il farsi piccoli e perciò il mettersi in ginocchio. È un gesto da perdenti, indigesto in una cultura che spinge verso il successo, il diventare primi, l’essere vincenti. E’ molto importante riproporre lo stare in ginocchio durante la consacrazione, quando accade un evento che possia-mo soltanto adorare e davanti al quale possiamo solo farci piccoli.Se mettersi in ginocchio è impossibile si può rimediare con l’inchino, cioè piegando il capo verso il basso, che, pur con minore efficacia, esprime ugualmente il senso dell’adorazione.

I gesti delle maniLe mani non pregano soltanto quando sono “giun-

te”, ma in molteplici altre posizioni. Esse, infatti, sono indispensabili per pregare come per vivere, perché rac-contano la vita del corpo e dello spirito.

Alzate come quelle del soldato che si arrende, in-dicano arrendersi a Dio, affidarsi a lui, rinunciare alla nostra forza.

Alzate come quelle del bambino che chiede di esse-re preso in braccio, riconoscono Dio come papà.

Disposte come quelle del povero che aspetta un pezzo di pane o degli spiccioli, esprimono la fiducia nel-la sua provvidenza.

Pregare il Padre Nostro con le mani del povero è al-trettanto significativo del recitarlo facendo catena con le mani dei vicini, altrettanto bello perché sottolineano il “nostro”, la fratellanza.

Sono gesti di preghiera che non hanno bisogno di parole: parlano un linguaggio che tutti, qualsiasi lingua parlino, capiscono. Purché siano gesti non abitudinari e meccanici, ma coscienti e consapevoli, altrimenti diven-tano coreografie vuote.

La comunione nelle maniNel 1989, i vescovi italiani, dopo non poche resi-

stenze, hanno consentito anche in Italia di ricevere la comunione prendendo l’ostia consacrata dal sacerdote non in bocca ma nel palmo della mano. Non sono stati pochi coloro che hanno gridato - e gridano - al perico-lo della profanazione o della banalizzazione. Rischio in effetti reale, ma né più né meno che nel dare la comu-nione in bocca.

Anche coloro che arrivano davanti al sacerdote a bocca aperta spesso non rispondono niente al sacerdo-te che proclama “il Corpo di Cristo”. Alcuni ricambiano con: «Grazie!»; oppure biascicano: «Amen!», prima che il sacerdote mostri l’ostia.

Alcuni vanno via facendo inchini o genuflessioni

a non si sa chi, dal momento che il Signore ce l’hanno in bocca, o tracciando segni di croce non si sa perché. Come sempre la profanazione o la banalizzazione nasco-no dalla mancanza di educazione e di consapevolezza. Dovremmo essere invece come poveri che, umilmente, chiedono il Pane del Cielo che le nostre mani non sono in grado di produrre, e che possono soltanto ricevere in dono dall’alto.

I gesti comunitariOltre ai gesti descritti, che coinvolgono singolar-

mente i partecipanti alla celebrazione eucaristica, ve ne sono altri che possiamo chiamare gesti comunitari, o perché sono compiuti da alcuni a nome di tutti; o per-ché coinvolgono contemporaneamente tutti i presenti; o perché acquistano significato soltanto se vengono vis-suti insieme. Questi gesti sono:- la presentazione delle offerte;- lo scambio della pace;- la processione per la comunione;- il canto.La presentazione delle offerte

È il momento della celebrazione comunemente chiamata offertorio, durante il quale si rinnova l’of-ferta di Gesù al Padre: l’unica offerta a lui gradita. Il pane, il vino e l’acqua sono simboli della nostra vita.

Quando vengono portati all’altare, essi significa-no la nostra vita offerta al Padre non come i capri e i vitelli dei sacrifici pagani e dell’Antico Testamen-to, ma affinché con la consacrazione del pane e del vino inseriscano la nostra vita in quella di Gesù e, per mezzo di lui, con lui e in lui in quella del Padre. Sarebbe bello soprattutto in avvento e quaresima, o in altre circostanze della vita civile (arrivo di ex-tracomunitari, cassa integrazione, perdita di lavoro, famiglie in gravi difficoltà economiche...), rinnovare l’uso antichissimo di portare all’altare generi ali-mentari per i poveri, sostituito da secoli dalla rac-colta di offerte, compiuta da alcune persone che

passano con dei cestini tra la gente. Dare vita a questo gesto antico significa educa-

re a riscoprire il vero senso della Messa: spezzare il pane dell’altare ci impegna a spezzare quello del-la tavola, perché non si può mangiare Gesù, pane spezzato per tutti, senza spezzare la nostra vita per tutti.

Lo scambio della paceLo scambio della pace è un’altra novità della

riforma liturgica che, essendo un gesto profonda-mente umano, ha trovato larghissima risonanza e accoglienza nel popolo cristiano. Meno che in mol-ti sacerdoti e nei soliti liturgisti DOC, timorosi di uscire dalla fredda compostezza, richiesta dal loro modo di intendere la liturgia. Previsione puntual-mente verificatasi: il momento dello scambio della pace è diventato coinvolgente.È ovviamente opportuno evitare le esagerazioni.

L’invito del sacerdote o del diacono (nelle par-rocchie che hanno il lusso di averlo) Scambiatevi un segno di pace, oppure Come figli del Dio della pace, scambiatevi un gesto di comunione frater-na (ma si possono aggiungere altre formule dello stesso tenore e significato), non è un’esortazione a salutarsi come è stato fatto fuori della chiesa, o comunque quando ci si incontra per strada, ma un impegno a creare la pace tra i fratelli, necessaria per accedere al banchetto del Signore della pace.

Se è così - ed è così - la pace che ci si scambia non può che essere quella di Cristo, precisata dalla pre-ghiera che precede l’invito: Signore Gesù Cristo, che hai detto ai tuoi apostoli: Vi lascio la pace, vi do la mia pace. La “mia”, cioè la pace di Gesù. Che non è buo-nismo. Non è un generico: “Vogliamoci bene”, non è il sorrisetto di facciata, e nemmeno: “Fermiamoci al buon giorno e alla buona sera sennò litighiamo”.

Ma che è anche spada: Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; sono venuto a portare non pace, ma spada (Mt 10,34); è anche fuoco: Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso (Lc 12,49); cioè impegno quotidiano, coraggioso e faticoso, a crea-re la pace del Signore, cioè armonia con il progetto di Dio rivelato da Gesù nelle Beatitudini: genero-sità, gratuità, misericordia, lealtà, sete e impegno per la giustizia anche a costo di affrontare contrasti e persecuzioni.La processione per la comunione

Prima della riforma liturgica, per ricevere l’ostia consacrata ci si disponeva in ginocchio lungo la ba-laustrata. Molto opportunamente è stata introdot-ta la processione verso l’altare, che rende molto più evidente la risposta all’invito del sacerdote: Beati gli invitati alla cena del Signore, e che richiama for-temente la parabola degli invitati a cena (cfr. Lc 15, 15-24; Mt 22, 1-14), nonché il: Beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello dell’Apocalisse (Ap 19,9). E come non ricordare le straordinarie parole di Gesù: Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da

lui, cenerò con lui ed egli con me (Ap 3,20).Chi invita a cena attende gli ospiti per farli met-

tere a tavola con lui. E gli ospiti vanno verso l’invito con gioia e gratitudine. E più l’ospite è importante più la gioia e la gratitudine sono grandi.

Naturalmente anche questo gesto va “educato”. Si deve andare verso l’altare con ordine, senza ce-dere alla tentazione di scavalcare la fila, o di appro-fittare dell’occasione per salutare i conoscenti che non è stato possibile raggiungere prima, o durante i funerali per toccare la bara del defunto.

Arrivati davanti al sacerdote o al ministro straor-dinario della Comunione, porgere le mani (destra sotto e sinistra sopra, oppure sinistra sotto e destra sopra per i sinistrorsi), aspettare che il ministro dica: il corpo di Cristo e poi rispondere: Amen!, cioè: È così, Ci credo! E non: Grazie! come talvolta succede.

Questo Amen! è molto importante, perché è una professione di fede. Non bisogna dirlo prima che il ministro mostri l’ostia consacrata, né, se si prende l’ostia in bocca, quando si è già con la lingua di fuo-ri. E il ministro, da parte sua, deve dare il tempo di pronunciarlo, facendo le cose con calma, non da di-stributore automatico!

Presa l’ostia sulla mano, spostarsi leggermente dalla fila o a destra o a sinistra, e mettere l’ostia in bocca davanti al ministro. Non andare via con l’ostia sulla mano. L’attenzione vale soprattutto per i bam-bini e i ragazzi che scappano via di corsa.

E durante la processione? Cantare o pregare in silenzio. Invece di gironzolare con gli occhi di qua e di là, è bene guardare dentro se stessi, domandan-dosi se per caso non si è nella situazione scomoda dell’uomo che ha accettato di essere commensale senza indossare l’abito nuziale (Mt 22, 12-14). Pur-

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troppo invece alcuni si mettono ancora in proces-sione perché lo fanno gli altri. Per tornare al posto non bisogna infilarsi in mezzo a coloro che vengono all’altare, anche se occorre, fare un giro più lungo. Dovrebbe essere una decisone logica…

I ministri straordinari della comunioneSono sempre più numerosi i ministri e le mini-

stre straordinari, cioè uomini e donne che a nome della Comunità si rendono disponibili a porta-re l’Eucaristia agli anziani e ammalati delle par-rocchie che non possono recarsi in chiesa. Nelle nostre parrocchie già da diversi anni siamo stati invitati a prendere consapevolezza che non è suffi-ciente portare la comunione alle persone ammala-te solo una volta al mese, magari il primo venerdì, come era consuetudine. Anche loro infatti hanno bisogno, come tutti gli altri cristiani, di essere ali-mentati e sostenuti dalla grazia e dalla forza del Signore, in particolare per affrontare quotidiana-mente la fatica della malattia o della vecchiaia.

Per questo settimanalmente, subito dopo le Messe della domenica, alcune persone che han-no ricevuto il mandato dal Parroco si recano da questi fratelli che sono parte viva della Comunità, anche se nell’impossibilità di muoversi. I ministri che svolgono questo servizio solitamente si met-tono in fila per ricevere la comunione prima degli altri, come segno e testimonianza. Talvolta, se è necessario, il sacerdote li chiama per farsi aiutare a distribuire la Comunione anche in chiesa.

Naturalmente oltre a una fede profonda nell’Eu-caristia (che non è facile valutare) è necessario che i ministri diano testimonianza di carità, di servizio, che siano in pace con tutti…

Ci vuole attenzione anche per il vestito e mani pulite anche da monili ‘vistosi’. L’ideale sarebbe un abito liturgico, ma complicatissimo da fare adottare. Però, chi desidera svolgere questo compito deve accettare l’impegno di un abito serio e decoroso, anche d’estate. Gonne corte, scollature, e trasparenze per le donne, pantaloni corti per gli uomini non sono seri e decorosi per questo compito.

Tutto ciò che si fa con il corpo coinvolge più o meno consapevolmente e più o meno fortemen-te anche lo spirito. C’è però un gesto che unisce in modo particolarissimo le due componenti del no-stro essere e ne svela la profondissima unità; esso è prodotto dal corpo, dalle corde vocali, ma nasce da dentro, dal profondo dei sentimenti. Questo gesto è il canto. Che è speciale e prezioso anche per un altro motivo: unisce le persone tra di loro, crea comunità.

Quando gli amici si trovano insieme, trovano normale affidare al canto i loro sentimenti. Quan-do un gruppo di persone si incontra per una gita, per una festa, per una ricorrenza non c’è di me-glio che cantare insieme per creare affiatamen-to e condivisione. Persino coloro che non si co-

noscono, e che si trovano insieme per un interesse comune, trovano nel canto il mezzo più efficace per fraternizzare e rendere più intenso il loro stare insie-me, almeno per la durata dell’avvenimento. E se non si può dire propriamente che cantano, canticchiano o fischiettano.

IL CANTO PER CREARE COMUNITA’

Perché chi sta a Messa non canta?Chi sta a Messa, stranamente e misteriosamente,

non sente il bisogno di cantare. Semmai saranno gli altri che cantano, ammesso che ci siano altri che can-tano. Eppure chi sta a Messa è più che tra amici. È tra fratelli. Anche se non li conosce. Anche se è la prima volta che si trova accanto a loro. Stranissimo fenome-no, quasi inspiegabile… Perché chi sta a Messa, se è consapevole di dove sta e di cosa sta facendo, non può non vivere sentimenti forti.

Molti cristiani italiani a Messa non cantano, o co-munque non lo sentono come una cosa normale, anzi, come una necessità. Le donne un po’ sì, ma gli uomini no, soprattutto nelle regioni del Centro, e perciò nem-meno i ragazzini che desiderano ovviamente diventa-re uomini, perché si vergognano: «Cantare in chiesa è cosa di donne e di bambini».

Prima della riforma liturgica, le parrocchie che se

le potevano permettere avevano le corali per can-tare in gregoriano. I fedeli (non si parlava ancora di assemblea) ascoltavano. Tutt’al più potevano unirsi per il Kyrie, il Gloria, il Sanctus, il Credo, l’Agnus Dei della Messa gregoriana De angelis con un latino pro-nunciato alla bell’e meglio, e rispondere al Dominus vobiscum e all’Ite Missa est. Ma questo, quando la Messa era cantata, e il sacerdote, il diacono e il sud-diacono (se c’erano) cantavano tutto, anche l’epistola e il vangelo, e anche le risposte. Normalmente però la Messa era “bassa”: il prete faceva tutto per conto suo, mentre i fedeli, con una sosta alla consacrazione segnalata dal campanello, recitavano il rosario.

Gli unici canti veramente corali erano, oltre al Tan-tum Ergo, quelli dedicati alla Madonna: Mira il tuo po-polo, Vergin santa, Dell ‘aurora tu sorgi più bella, Noi vogliamo Dio, Andrò a vederla un dì... che venivano eseguiti a volte alla fine della Messa, ma soprattutto durante la Benedizione eucaristica del pomeriggio e durante le processioni.

È con la riforma liturgica, con l’introduzione del-la Messa in lingua italiana che si scopre l’importanza di far cantare tutta l’assemblea all’inizio, durante la presentazione delle offerte, alla comunione e al con-gedo, con dei testi e delle melodie molto semplici e orecchiabili.

La novità fu accolta con entusiasmo dai ragazzi e dai giovani delle associazioni; nelle parrocchie si dif-fusero i complessini, solitamente accompagnati dalle chitarre. La riforma del Concilio Vaticano II attirò l’in-teresse a la creatività di compositori famosi, ma an-che preti, frati e suore cominciarono a sfornare una produzione abbondantissima di canti religiosi, ricer-catissimi dai gruppi giovanili cattolici.

Dalle corali ai complessiniCon l’arrivo dei nuovi canti, le comunità parroc-

chiali hanno sicuramente ricevuto un forte scosso-ne, che però non è stato sufficiente a conquistare i cristiani della Messa della domenica. I motivi sono molteplici, non ultimo il fatto risaputo che noi italiani amiamo i canti ma non cantare, così come amiamo lo sport, ma non fare sport. Il motivo principale però va ricercato nel fatto che non c’è stata una riflessione adeguata e generalizzata sull’importanza del canto nella liturgia. L’innovazione perciò è arrivata in ma-niera caotica. In alcune parrocchie, i parroci hanno bloccato ogni novità, respingendo tutto ciò che sape-va di musica moderna, di canzonette. In altre, i par-roci hanno lasciato completamente mano libera ai giovani che hanno introdotto i canti che piacevano a loro, senza alcun criterio per la selezione. Come quel-la sposa che a stento si potè convincere che non era possibile far cantare durante il suo matrimonio Con te partirò di Andrea Bocelli...

Pian piano queste commistioni, almeno quelle più ardite, sono state superate dall’arrivo di tantissi-mi canti prodotti appositamente per la Messa o per la preghiera da musicisti, da cantautori, da gruppi di giovani, da movimenti e associazioni liturgicamente

più preparati e accorti.Generalmente possiamo descrivere la situazione

attuale nel modo seguente:-il canto è affidato al gruppo-complessino dei gio-

vani con canzoni molto vicine alla sensibilità musicale giovanile, ma non sempre rispettose, sia nel testo che nella musica, della sacralità dell’eucaristia. L’assem-blea ascolta o canticchia.

-il canto è affidato a corali vecchio tipo, con canti molto più attenti al contenuto e alla sacralità dell’eu-caristia, ma lontani dalla sensibilità musicale attuale. L’assemblea ascolta. Ascolta?

-La corale e il complessino vengono educati a met-tersi a servizio dell’assemblea per stimolarla a canta-re.

La soluzione da scegliere e da impegnarsi a porta-re avanti è la terza. Che non è assolutamente facile, perché spesso la gente, soprattutto gli uomini, è re-stia a cantare.

E necessario poi tenere conto delle difficoltà og-gettive:*normalmente le melodie sono scritte in tonalità troppo alte per chi non è esercitato. Bisogna abbas-sarle di tonalità. *La stessa cosa vale per il ritmo, o comunque per il tempo. L’assemblea non può seguire gli stessi ritmi del complessino, o la precisione del tempo della co-rale. È necessario convincere gli uni e gli altri ad ac-celerare o a rallentare. Operazioni ambedue diffìcili.*L’assemblea per unirsi ha necessità di ripetere spes-so gli stessi canti, ma a lungo andare questo porta alla monotonia e a non cogliere l’importanza di saper adattare i canti alle specifiche celebrazioni o ai tempi liturgici.*Il coro si ritrova per le prove settimanalmente, ma chi viene solo a Messa la domenica non dispone di troppo tempo per memorizzare le melodie. L’intoppo può essere superato sia ripetendo spesso alcuni canti di particolare importanza per il testo e per la bellezza della melodia, sia provando alcuni mi-nuti prima della Messa.

Sarebbe importante e doveroso rispettare anche il testo del canto fatto di ritornelli e strofe; favorire la partecipazione di tutta la assemblea cantando i ritor-nelli e lasciando le strove al solista o al coro/coretto.

Nelle nostre parrocchie di Botticino solitamente si cerca di curare la partecipazione dell’assemblea al canto durante le celebrazioni domenicali. Questo compito viene regolarmente svolto da persone laiche o da suore, sul presbiterio, in modo che possano rivol-gersi direttamente verso l’assemblea e anche vedere l’organista (anche se non sempre è possibile avere l’accompagnamento musicale). Sarebbe necessario però che ci fossero più persone disponibili per que-sto servizio, magari tra coloro che già cantano nella corale. Certo, alcuni passi li abbiamo già compiuti, se pensiamo che in molte parrocchie, anche nel brescia-no, è ancora il sacerdote a dover intonare i canti, oltre a presiedere la celebrazione.

Quasi a tutte le nostre Messe attualmente viene

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cantato il ritornello del salmo responsoriale: questo è un mezzo efficace per approfondire il senso spiri-tuale del salmo stesso e favorirne la meditazione. I salmi infatti hanno la loro origine dal canto di au-tori ispirati dallo Spirito. Il salmo responsoriale è un canto. Quando non lo cantiamo, ci priviamo di una cosa bella. Facciamo un esempio: ad una festa di un amico, possiamo anche solo ipotizzare di augurargli buon compleanno recitando anziché cantando “Tan-ti auguri a te”? Assurdo, perché toglieremmo alle pa-role l’entusiasmo tipico di quei momenti. Questo ac-cade perché la forma è davvero anche sostanza. Ciò è vero anche per il salmo responsoriale, e per tutti gli altri canti della Messa: se alle parole non uniamo la musica, togliamo loro il senso della gioia o della sup-plica, del ringraziamento o dell’invocazione, a favore di un appiattimento su contenuti che diventeranno poco o nulla espressivi. La musica è un potente mez-zo d’espressione, e non un “di più” non essenziale.

Sarebbe bene che alcuni minuti prima della Mes-sa l’animatore proponga di provare i canti o ritornelli; e questi non dovrebbero mai venire scelti “a caso”, ma essere adatti ai vari momenti della celebrazione (canto d’ingresso, offertorio, comunione, finale) e collegati alla liturgia del giorno e alle letture. A volte l’assemblea è invitata a partecipare solo con il ritor-nello, mentre il solista canta le strofe; questo facili-ta anche la memorizzazione dei nuovi canti ed evita strafalcioni.

Naturalmente ci vuole attenzione e partecipazio-ne da parte di tutti, perché il canto possa divenire davvero preghiera e contemplazione. C’è chi se la canterebbe tutta a memoria dall’inizio alla fine sen-za seguire le indicazioni dell’animatore, e chi non fa nemmeno lo sforzo di prendere in mano il libro dopo i ripetuti inviti.

E’ auspicabile che anche le corali, che di solito preparano alcune celebrazioni solenni, abbiano l’ac-cortezza di far partecipare l’assemblea almeno nei ritornelli o nelle acclamazioni, con opportune brevi prove .

Quali sono i “canti belli”?Tanto pe’ canta’ perché me sento un friccico ner

core, cantava il simpaticissimo Nino Manfredi. Que-sta motivazione, ovviamente, non è valida per la Messa, dove bisogna cantare non tanto per cantare, ma per esprimere sentimenti veri, profondi e alti che perciò hanno bisogno di testo e musica adeguati. Cosa che richiede molta attenzione nella scelta e una paziente opera educativa soprattutto nei riguardi dei giovani per i quali basta il criterio del “mi piace!”, “è bello!”. Ma quando un canto è bello per la Messa? Indichiamo brevemente alcuni punti:- Testi che nutrono i pensieri, non il sentimentalismo.- Testi adeguati ai vari momenti e atteggiamenti spi-rituali della Messa.- Testi attenti ai diversi tempi liturgici.- Melodie e musiche che fanno pregare e pensare, non saltellare.

I GESTI DELLO SPIRITO

I gesti del corpo sono importanti e veri se esprimo-no e potenziano quelli dello spirito, se nascono da den-tro. Se così non fosse, essi sarebbero una facciata, una verniciatura, una finzione. Celebrare la Messa met-tendosi seduti o in ginocchio, in piedi o seduti, con le braccia alzate o con le mani giunte, cantare senza fare proprie le parole, stringere meccanicamente e distrat-tamente la mano al vicino senza la consapevolezza di ciò che si vuole esprimere, sarebbe togliere ogni valore vitale a ciò che si fa. Non sarebbero gesti da vivi, ma da manichini. Non sarebbe celebrazione ma finzione. Ecco perché, se è importante curare i gesti del corpo, è fondamentale avere coscienza di quelli dello spirito per coltivarli, affinarli, potenziarli.

I gesti dello spirito richiesti dalla Messa sono tutte le espressioni della preghiera cristiana: la lode, il ringra-ziamento, l’invocazione del perdono, la richiesta di aiu-to, l’ascolto, l ’offerta di sé, l’adorazione, la comunione, la disponibilità alla missione.

1) La lode e il ringraziamentoI cristiani hanno chiamato la cena di Gesù “Eucari-

stia”, che si compone di due parole greche: eu (bene) e charis (grazia, dire bene per un dono). La lode e il rin-graziamento a Gesù che ci dona se stesso sono lo sfon-do sul quale si muovono tutti i momenti della Messa. E mentre il sacerdote, i ministranti e i lettori si dirigono verso l’altare nella processione d’ingresso, l’assemblea si unisce in un canto di gioia e che invita alla comunio-ne con Dio e i fratelli. Questo è il clima spirituale giusto per iniziare la Messa.

Dopo la richiesta di perdono, la lode diventa un inno: il Gloria, per trasformarsi poi in ascolto attento e riconoscente durante la proclamazione della Parola (è il Signore che ci parla!), adorazione meravigliata du-rante la consacrazione (è il Signore che si rende pre-sente!), gratitudine nell’accostarsi alla comunione (è il Signore che si fa nostro cibo e bevanda!), e, alla fine, gioioso ringraziamento per essere stati suoi ospiti.2) Invocazione di perdono

La formula del Confesso a Dio e a voi fratelli, la più antica, non è così triste come sembrerebbe a prima vista. L’invocazione del perdono del Signore non è tri-stezza ma gioia, perché il suo perdono è un dono che ci fa nuovi, che ci mette in condizione, noi poveri, storpi, ciechi, zoppi, di entrare al suo banchetto con l’abito nu-ziale con il solo merito di avere accettato l’invito.

Ma perché bisogna chiedere sempre perdono all’ini-zio di ogni Messa? Non basta una volta ogni tanto?

Dobbiamo chiedere perdono sempre, perché noi siamo usciti dalla Messa di domenica scorsa ricaricati dalla forza del suo corpo e del suo sangue, con il propo-sito di vivere come lui è vissuto, impegnati a spezzare il pane della nostra vita per i fratelli. Purtroppo però la

settimana pian piano ci ha scaricato e il nostro abito nuziale ha subito strappi più o meno pesanti. Tornan-do nuovamente alla sua Cena, abbiamo bisogno che la sua misericordia ce lo rimetta a nuovo.

3) L’ascoltoI convocati alla sua cena ascoltano ciò che il Signo-

re vuole comunicare loro. E’ il momento della liturgia della Parola. Importantissimo in sé, snobbato e bistrat-tato nella pratica. I motivi sono molteplici, per diversa natura e per responsabilità diverse. Partiamo da un dato: ascoltare non è sinonimo di sentire. Limitiamoci al vocabolario italiano.

Sentire: acquisire conoscenze dal mondo esterno attraverso gli organi dei sensi, tranne quello della vista.

Ascoltare: stare a sentire attentamente. Prestare un ascolto attento e partecipe alle parole degli altri, al fine di comprenderne le motivazioni, i bisogni, le ri-chieste.

La differenza tra le due parole, come si vede, è net-ta. Per sentire la parola di Dio basta che ci sia uno che la legga con tono di voce proporzionato alla grandezza dell’ambiente, aiutandosi, se necessario, con il micro-fono. L’ascolto si verifica soltanto quando chi sente re-agisce in maniera attenta e partecipe.

E’ ancor più necessario quindi che i brani proposti vengano “ascoltati”. E qui arrivano i dolori. Lancinan-ti! Perché, se introdurre i lettori laici per proclamare la Parola è stata senza dubbio una grazia per rendere meno clericale e più comunitaria la celebrazione, non è stato chiarito a dovere, e non si è capito, che leggere i brani biblici durante la Messa non significa “leggere” ma proclamare. Proclamare vuol dire “leggere” con le competenze necessarie per farsi ascoltare, cioè se-guire le regole professionali della proclamazione. È chiaro che le parrocchie, per lo meno al novantanove per cento, non potevano ricorrere ad attori di teatro. Bisognava però preparare al meglio, anche con l’aiuto di professionisti, i lettori. Invece ci si è troppo accon-tentati di gente che “legge bene”, cioè in modo scorre-vole senza scambiare fischi per fiaschi.

L’anno scorso la nostra Diocesi ha proposto a que-sto riguardo una serie di incontri per tutti coloro che

nelle parrocchie abitualmente sono impegnati come lettori. Anche un gruppo di Botticino ha partecipato, ed è stato poi conferito dal Vescovo un “mandato” ufficiale che abilita a leggere la Parola di Dio durante le celebrazioni. E’ un compito da non sottovalutare, e non è sufficiente pensare di saper leggere. Ci vuole at-tenzione e la dovuta preparazione. Altrimenti il volen-teroso va all’ambone e legge anche se il microfono è spento o non è sistemato a dovere; i Gàlati diventano Galàti; il Deuteronomio ogni volta un nome strambo eccetto quello giusto; prostrati diventa pròstati, i Tes-salonicesi diventano i Tessalocinesi, Palestina diventa Palestrina… O ancor peggio Gesù, chinato il capo, sparì (invece che spirò), o “Nicodemo portò una mistura di mirra e di aole (invece che aloe). Eppure in quel mo-mento i lettori prestano la loro voce al Signore, e non è cosa da poco! E non è vero che tanto la gente non si accorge, non sta a sentire. Se la Parola è proclamata in maniera professionale la gente ascolta, ma se il lettore legge per sé e non per l’assemblea allora certo l’atten-zione se ne va. E si potrebbero elencare numerosi e interessanti accorgimenti, che gli attori professionisti non mancano di ricordare (tono di voce, espressione, punteggiatura, pause, parole centrali nella frase…). In-somma, non si può improvvisare, e l’obiettivo non è far bella figura, ma svolgere bene un servizio.

Anche l’abbigliamento adeguato ha lo scopo di non distrarre l’attenzione dall’ascolto della Parola di Dio. Un uomo in canottiera, o con le maniche della camicia arrotolate, o con una maglietta con scritto pa-role di ogni tipo, o in tenuta da cacciatore di cinghia-li, o con scarponi da marine; oppure una donna con trucco aggressivo, spalle scoperte, seni in bella vista, difficilmente preparerebbe e aiuterebbe l’assemblea all’ascolto della Parola.

Nelle nostre parrocchie di Botticino i lettori salgono all’altare insieme al sacerdote e ai ministranti durante la processione d’ingresso e portano all’ambone il Le-zionario (alle celebrazioni festive), oppure si prepara-no già sul presbiterio. Questo sottolinea l’importante ministero loro affidato ed evita anche il fastidioso sa-lire e scendere dai gradini al momento di leggere, abi-tudine ancora in uso in alcune parrocchie.

Tutto quanto detto fin qui per il celebrante vale doppio o anche di più, perché l’efficace comunicazione e l’ascolto attento della celebrazione dipendono dalla sua voce e dai suoi gesti. Se legge sempre con lo stesso tono di voce, o troppo veloce o trop-po lento, o trasandato o infervorato, sia le orazioni che il prefazio, sia il van-gelo che la consacrazione, sia l’invito a chiedere perdono che la preghiera di Gesù, sia la predica che gli avvisi...; se si muove male o compie gesti che distraggono o infastidiscono, produr-rà soltanto noia, distrazione, insoffe-renza. Deve anche egli prepararsi e curarsi dal punto di vista della comu-

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nicazione, ricordando che la prima forma di carità e di santità è la professionalità.

I famigerati fogliettiCon astuzia tipicamente italiana, molti parroci

hanno pensato: «Perché faticare tanto per preparare i lettori. Distribuiamo a tutti un foglietto con i brani del-la Messa del giorno e passa la paura. Così (è sempre facile trovare una scusa devota per evitare la fatica!) i fedeli capiscono meglio». E allora: giù foglietti, con grande gioia delle case editrici.

Non ci poteva essere trovata più infelice per non educare all’ascolto, anzi, per danneggiarlo. Infatti ognuno si legge il proprio foglietto — in alcune chiese ho visto che i lettori se lo portano all’ambone e leg-gono da lì invece che dal lezionario -, non sempre in sintonia con il lettore, perché c’è chi legge più svelto, chi più adagio, chi non trova il segno, chi non ritrova gli occhiali, chi si ferma sull’ultima pagina dove c’è la preghiera alla Madonna, chi guarda i disegnini...

Qualcuno si chiederebbe: «Che differenza c’è tra ascoltare con attenzione chi proclama la Parola, op-pure leggersela per conto proprio? Non è la stessa cosa? Anzi, è meglio, perché con il foglietto si capisce meglio».

Ascoltare la parola di Dio nell’assemblea domeni-cale non è per l’istruzione, per conoscere la Bibbia.

Se fosse così, tanti brani del vangelo potremmo fare a meno di leggerli, perché ormai li sanno tutti. Chi non conosce la parabola del buon samaritano, o quella del figlio che lascia la casa del Padre, o quella dei talenti? L’abbiamo sentita centinaia di volte... E’ capitato ancora che un sacerdote, letto il brano della genealogia di Gesù, disse ai fedeli: «Oggi nel vangelo

non c’è niente di nuovo. Vi dico qualcosa io».Non è così! Durante la celebrazione è il Signore

che ci parla. Oggi! E la sua parola è sempre nuova, perché ogni “oggi” è nuovo. Noi non siamo mai quel-li di domenica scorsa, e quelli che saremo domenica prossima. Non ascoltiamo le Scritture per imparare, ma perché illuminino la nostra vita, facendoci ardere il cuore. Immaginiamo che sia Gesù in persona a par-larci: staremmo con la testa china sul nostro foglietto o lo guarderemmo, cercando di non perdere niente di ciò che esce dalla sua bocca?

Il problema della comprensione dei testi è reale. Purtroppo non conosciamo la Bibbia, perché la no-stra educazione alla fede si ferma al catechismo per la Cresima, quando va bene. Ma la soluzione non può essere quella dei foglietti “mi leggo la Messa da me”.

Nelle nostre parrocchie da tempo si cerca di edu-care i fedeli all’ascolto non mettendo di proposito i foglietti sui banchi. Per coloro che desiderano pregare e meditare le letture ogni giorno, il foglio settimanale che viene posto in fondo alla chiesa, oltre a riportare gli appuntamenti della settimana nell’Unità Pastorale e le intenzioni e gli orari delle Messe, indica anche i brani biblici e la ricorrenza liturgica del giorno. Natu-ralmente si presuppone che tutti abbiano a casa la Bibbia e possano cercare i testi da soli. In Avvento e in Quaresima vengono poi forniti alcuni supporti per la meditazione, come i libretti dei centri di ascolto, il Notiziario o il sussidio preparato dalla Diocesi per la Quaresima. Ed è bello che si utilizzino per la preghiera in famiglia.

La predicaLa predica o l’omelia, come preferiscono gli specia-

listi, dovrebbe essere il momento della celebrazione nel quale il sacerdote potenzia l’ascolto della parola di Dio, aiutandola a scendere dentro i solchi della co-scienza, per farla diventare scelta di vita. Essa dovreb-be essere ciò che fu la “predica” di Gesù ai discepoli di Emmaus: spiegazione degli avvenimenti alla luce delle Scritture, fatta in modo da fare “ardere il cuore”, per ridare l’entusiasmo di ritornare “senza indugio” a Gerusalemme. A noi, infatti, capita la stessa cosa dei due discepoli: le difficoltà della settimana pian piano raffreddano i nostri propositi di vivere come Gesù è vissuto, per cui torniamo verso Emmaus, cioè la vita piatta, normale, senza slanci. Alla domenica, la Parola ci fa di nuovo ardere il cuore, la comunione con lui ci ricarica, così possiamo ripartire verso Gerusalemme e vivere secondo le cose di lassù.

Per sapere bene cosa comunicare e come comuni-carlo è necessaria la preparazione. Più la preparazione è lunga, più la comunicazione sarà breve ed efficace. La durata della predica è inversamente proporzionale

a quella della preparazione: più la preparazione è lun-ga, meno la predica sarà lunga, slavata, indigesta.

La predica è per gente che ha bisogno della luce del-la Parola sui problemi di ogni giorno. E’ bene attenersi alle tre letture; solitamente sono state scelte perché collegate tra loro (almeno la prima lettura e il Vangelo). Si scelga il messaggio che entra in sintonia o in con-trapposizione con ciò che è accaduto o sta accadendo, o nella vita concreta, nella Chiesa o nella società, per portare luce su quella fetta di realtà.

4) La richiesta di aiutoNella Messa, la preghiera di richiesta è sempre pre-

sente nelle tre orazioni del sacerdote: all’inizio, sopra le offerte, dopo la comunione. Inoltre, la riforma litur-gica ha introdotto molto opportunamente la preghie-ra dei fedeli (o preghiera universale), da vivere dopo l’omelia e la professione di fede.

E’ importante che questa sia davvero dei fedeli, che nasca cioè dalle loro esigenze e dai loro bisogni. Pur-troppo non sempre è così. Troppo spesso si riduce alla lettura di intenzioni tratte dall’orazionale, oppure dai famigerati foglietti. Nelle nostre parrocchie abitual-mente viene proposto un momento di silenzio, in cui ognuno eleva al Padre la sua preghiera personale come risposta alla parola ascoltata e dopo la professione di fede. Ad essa se ne possono affiancare altre, proposte da alcuni fedeli, ma senza ricorrere al foglietto scritto. Ci sono sempre intenzioni particolari per cui pregare, anche per le necessità delle nostre comunità, ma forse non si ha il coraggio di esprimerle davanti a tutti?

5) L’offerta di séIl Signore con la sua parola ci chiama e ci invita a se-

guirlo. Noi rispondiamo, accettando di mettere la no-stra vita nella sua, affinché diventi, come la sua, “pane spezzato” e “vino versato” per tutti. Questo è il senso della presentazione delle offerte, compresa l’offerta in denaro destinata alle varie necessità della Parrocchia. E’ abitudine che alcune persone in modo spontaneo si alzino e portino all’altare il calice, l’ampollina dell’ac-qua, le particole da consacrare e le teche dei ministri della Comunione. Si possono coinvolgere anche i bam-bini, accompagnandoli con opportune indicazioni. Du-rante questo momento viene generalmente eseguito un canto adatto, che faccia diventare questo gesto preghiera.

6) L’adorazioneL’adorazione è il sentimento con cui riconosciamo

il nostro essere piccoli di fronte alla grandezza di Dio. Una grandezza che non ci spaventa, perché è benevola e misericordiosa; perché non si pone sopra di noi per schiacciarci, ma accanto a noi per prenderci per mano e accompagnarci con tenerezza. È l’atteggiamento spi-rituale che nella Bibbia e anche nella catechesi viene chiamato timore di Dio. Nella Messa, l’adorazione fa da sfondo a tutta la celebrazione. Anzi, inizia prima del-la celebrazione. Questo sentimento deve raggiungere il livello più alto durante la consacrazione. È qui infatti che il Cristo Risorto, colui che siede alla destra di Dio, che con il Padre è una cosa sola, si rende presente re-

almente nel pane e nel vino consacrati, per diventare nostro cibo e nostra bevanda, per nutrire la nostra vita.

Se crediamo che tutto ciò è vero, non possiamo che cadere in adorazione, esprimendola con un profondo sentimento interiore e con un adeguato atteggiamen-to del corpo: o in ginocchio, o con un inchino, o stando in piedi con compostezza, e guardando l’ostia e il calice che il sacerdote mostra, almeno con la trepidazione con cui ammiriamo qualcosa o qualcuno di particolar-mente bello e grande.

Nell’Eucaristia il Signore ci dona il suo corpo glorio-so, ci dà se stesso, entra nel nostro essere uomini. In questo momento non ci sono gesti coinvolgenti. C’è la voce del sacerdote che invoca lo Spirito Santo sul pane e sul vino, e che racconta ciò che ha fatto Gesù nell’ul-tima cena. Sono parole da non pronunciare frettolo-samente. In molte chiese è d’abitudine l’uso del cam-panello: «Così i chierichetti possono fare qualcosa!». Ma la scampanellata, che andava bene per avvertire i fedeli che bisognava interrompere il rosario quando il prete leggeva in latino e sottovoce la formula di con-sacrazione, adesso, se il sacerdote legge nel modo do-vuto, è soltanto un motivo di disturbo e di distrazione.

7) La comunioneConsiderare tutti fratelli e sorelle, prima di essere

un sentimento, è una scelta di vita razionale che sca-turisce dalla accoglienza del messaggio di Gesù: Voi siete tutti fratelli; Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri; Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno.

Questa non deve rimanere un’idea astratta, ma si trasforma nel sentire concretamente gli altri come par-te di se stessi, e si manifesta in gesti concreti di benevo-lenza, amicizia, stima, solidarietà, vicinanza. Il sentire gli altri fratelli e sorelle è la condizione indispensabile affinché la Messa sia la Cena del Signore.

Nella Messa, la comunione come momento della celebrazione inizia con il Padre Nostro. E non potrebbe essere diversamente, perché nelle due parole, Padre nostro, c’è la sintesi di tutto ciò che Gesù ci ha rivelato e che ci chiede: un solo Padre e tutti fratelli.

Ed ecco perché la riforma liturgica ha reintrodotto il gesto della pace, che perciò deve assolutamente esse-re salvato dall’abitudine, dalla superficialità e dalla ba-nalità. Esso non è un saluto di cortesia, ma l’impegno a costruire la pace del Signore. La pace di Gesù! Non il sorrisino d’occasione. È facile dare la mano al vicino, anche perché in genere ci si mette accanto a una per-sona che si conosce e con la quale si è in pace. Quel vicino, però, è il segno di tutti coloro che la vita ci pone accanto: la moglie, il marito, i figli, il genitore anziano ormai fuori fase e non più indipendente, i colleghi di la-voro, gli amici... Senza questo impegno a creare la pace di Gesù la comunione con il suo corpo e il suo sangue diventa un rito esteriore senza spessore spirituale.

Forse i pensieri, le parole, le opere, le omissio-ni hanno alzato tra noi e gli altri un muro che non ci siamo impegnati ad abbattere, e ancora non stiamo impegnandoci ad abbattere. Non possiamo fare la

Dopo aver tanto insistito per sradicare l’abitudine di fare le proprie devozioni (il rosario) durante la Messa, ecco la furbata: i famigerati foglietti per leggere parola di Dio e le preghie-re ognuno per conto proprio. Così si distrugge l’atteggiamento dell’ascolto già così difficile nella nostra società, e si riduce il Signore che parla a lettura incolore: «Tanto se la leggono!». È una scorciatoia per evitare la fatica di preparare lettori in grado di farsi ascoltare e capire.

PARLA SIGNORE CHE IL TUO SERVO

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INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

Tutta la Scritturaè ispirata da Dio

Come crescere nella fede? Come nutrire la fede?

Conosciamo la Parola di Dio.

Continuiamo la conoscenza

del testo sacro per cogliere meglio

i tesori contenuti in esso

Dio «autore» e «ispiratore» della Bibbia

La lettura della Bibbia è nutrimento per il creden-te, perché questo libro ha un Autore del tutto eccezionale, Dio stesso: «Le realtà divinamente

rivelate, che sono contenute e presentate nei libri del-la Sacra Scrittura… hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa» (Dei Verbum, 11).All’origine degli avvenimenti, delle parole, dei gesti e dei singoli personaggi della Bibbia c’è la rivelazio-ne del progetto di Dio, della sua «volontà di chiamare gli uomini a sé e renderli partecipi della sua natura divina per mezzo di Gesù Cristo», come ha dichiarato il Concilio Vaticano II nella costituzione Dei Verbum: «Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cf Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cri-sto, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo, hanno ac-cesso al Padre e sono resi partecipi della stessa natura divina» (Dei Verbum, 11).

I libri biblici, infatti, nel loro snodarsi contengono non tanto il semplice racconto della sola storia umana (qual è quella del popolo di Israele), ma il racconto di una «storia di salvezza», che ha la sua origine in Dio e il suo culmine in Cristo, Parola fatta carne. L’Antico e il Nuovo Testamento costituiscono il racconto di que-

sta storia in cui l’agire di Dio e l’agire dell’uomo sono profondamente intrecciati, fino a raggiungere, grazie all’intervento dello Spirito Santo, la piena unità in Cri-sto.

Gli «autori umani» e l’ispirazioneL’ispirazione consiste perciò nell’azione dello Spi-

rito Santo su coloro che furono scelti da Dio (autore «primario») per fissare nello scritto questa storia di salvezza («agì in essi e per mezzo di essi») diventan-done essi stessi «veri autori»: autori nel senso pieno della parola e, in rapporto a Dio, autori «secondari» (ma sempre «veri autori»): «Le realtà divinamente ri-velate, che sono contenute e presentate nei libri della sacra Scrittura furono messe per iscritto sotto ispira-zione dello Spirito Santo… Per la composizione dei libri sacri Dio scelse e si servì di uomini in possesso delle loro facoltà e capacità e agì in essi e per mezzo di essi, affinché scrivessero come veri autori tutte le cose e soltanto quelle che egli voleva» (Dei Verbum, 11).

Gli autori sacri, pur restando condizionati dalla loro cultura (lingua, modi di scrivere e di narrare, conce-zioni scientifiche limitate), pur conservando la loro li-bertà e le loro qualità umane, furono tuttavia guidati dallo Spirito «a insegnare con certezza, con fedeltà e senza errori la verità che Dio volle fosse consegnata nella sacra Scrittura», secondo quanto afferma la Co-stituzione conciliare Dei Verbum: «poiché tutto ciò che gli autori ispirati, cioè gli agiografi, asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve professa-re, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegna-no fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio in vista della nostra salvezza volle fosse messa per iscritto nelle sacre Lettere» (Dei Verbum, 11).

Libri ispirati e libri non ispiratiQuesto spiega perché la Chiesa ha ritenuto alcuni

libri non ispirati, scartandoli dall’attuale raccolta dei libri biblici (cioè dal «canone»). Noi li conosciamo con il nome di libri apocrifi (testi da leggere «di nascosto», dal greco kryptein, «tenere nascosto»).

In questi scritti infatti non appare l’origine divina, ma prevale una concezione di Dio e di Gesù Cristo che

Bisognerebbe che i cristiani conoscessero le Scritture, tutte, e nuotassero in esse! I Vangeli poi li dovrebbero conoscere a me-nadito. Senza le Scritture non conosciamo Gesù, il suo cuore,la sua coscienza e neppure il Padre.

Comunione, cioè mangiare il corpo di Gesù, offerto in sacrificio per tutti, e bere il suo sangue versato per tut-ti, senza nutrire, rafforzare, rinnovare continuamente l’impegno a diventare sempre di più pane spezzato e vino versato per tutti.

8) La missionePerché la Messa si chiama... Messa? Questo nome

infatti non ha alcun riferimento con quanto è avvenu-to nell’ultima cena di Gesù, né con il significato di ciò che è avvenuto.

Agli inizi dell’avventura cristiana, i discepoli di Gesù chiamavano la Messa in due modi: cena del Signore e frazione del pane. Poi si cominciò a parlare di Euca-ristia.

A un certo punto, non si sa bene quando, però sicuramente quando ormai il cristianesimo si era af-fermato, e l’eucaristia veniva celebrata con solennità nelle grandi basiliche, si cominciò a parlare di messa.

Come mai? La parola latina missio (da mittere: mandare), nel linguaggio civile dei Romani significava il momento in cui chi aveva convocato una riunione dava il permesso di sciogliersi o di andare. Siccome alla fine della celebrazione eucaristica era invalso l’uso di prendere impegni concreti per continuare a celebrare l’eucaristia nella vita di ogni giorno, e questo momento era diventato importante e forse pesante la gente cominciò a identificare una parte con il tutto: la missio con l’intera celebrazione. Così venne fuori la Messa ed è rimasto Messa. La cosa però non è grave. Tutt’altro! Infatti questa parola sta incoraggiando a ri-prendere un valore importantissimo dell’Eucaristia: la continuità tra la celebrazione e la vita. Ite Missa est, le parole latine che chiudevano la Messa prima della riforma liturgica andrebbero tradotte con: «Andate, adesso inizia la missione»

La tentazione sarebbe di approfittare della Messa, trasformandola in un’ora di lezione o di catechesi. Ma questo, se è vero quanto è stato detto fin qui, significhe-rebbe snaturare la Messa: l’esatto contrario di ciò che ci siamo proposti. Di più! Sarebbe offrire loro un ottimo (e giustificato!) motivo per farli allontanare dalla Messa.Il problema c’è. Inutile negarlo! E la soluzione?

È una sola: educarli durante la Messa senza snatu-rare la Messa.

La chiesa-tempio deve dare a chi vi entra la sensa-zione di uno spazio “altro” da quelli della sua quoti-dianità. Questa “alterità”, soprattutto se non è offerta dalla architettura della chiesa, dovrà essere costruita con tutto ciò che i sensi percepiscono prima o in con-temporanea con il cervello: un modo diverso di parla-re (un sottovoce vicino al silenzio, se non è possibile il silenzio), la luce, gli addobbi del tabernacolo, dell’alta-re, dell’ambone. Tutto deve dare la sensazione imme-diata di decoro, attenzione, bellezza.

Tuttavia la scenografia della chiesa-tempio richiede una bellezza che nasce da sobrietà, semplicità, elegan-za, non da un ritorno al barocco, come certe tendenze

indurrebbero a pensare.I segni sono efficaci se segnalano una realtà

più grande senza bisogno di ante spiegazioni.Anche lo svolgersi della celebrazione deve

essere pensato e organizzato armoniosamente. Nel caso contrario, i canti non saranno in linea con il messaggio delle letture bibliche e con la ri-flessione della predica; le intenzioni di preghiera non avranno niente a che spartire con la vita rea-le dell’assemblea; i tempi dei vari momenti della celebrazione non saranno equilibrati e il tempo totale della stessa sarà quel che sarà; i segni sa-ranno sempre gli stessi e perciò scarichi o fuori contesto. E sarà venuta meno sia l’attenzione alla celebrazione che alle esigenze dell’assemblea.

Celebrare in questo modo tutte le domeniche non snatura la celebrazione, non la fa diventare un’ora di catechismo, e la fa essere un’educa-re facendo: da sempre il migliore e più effica-ce metodo educativo.

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INTRODUZIONE ALLA BIBBIA INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

non corrisponde al fine che si prefigge la storia della salvezza, come è presentata nello scritto della Bibbia (frutto della sinergia tra la collaborazione divina e quel-la umana), scritto accolto come Parola ispirata dallo Spirito Santo, perché ha le sue origini in Dio: «La Sacra Scrittura è Parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l’ispirazione dello Spirito Santo» (Dei Verbum, 9).

«Perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato»Il fine di tutta la Bibbia è così formulato nel testo

di 2 Tm 3,16-17 (nel quale troviamo per la prima volta la parola «ispirazione» e anche ciò che essa si pre-figge): «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben pre-parato per ogni opera buona».

Non si possono chiedere altre finalità alla Bibbia, se non, come dicevamo più sopra, quella di nutrire, orien-tare e illuminare il credente («l’uomo di Dio») nel suo difficile impegno di camminare con Dio e di vivere ogni giorno secondo la sua volontà (cf Gen 17,1: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro»).

Gli autori biblici non vanno valutati per il loro sapere umano o per le loro conoscenze scientifiche e tecni-che, ma perché si sono aperti all’ispirazione di Dio e all’azione dello Spirito Santo (che ha comunicato loro non tanto le singole parole degli scritti biblici, quanto piuttosto il pensiero di Dio, che essi hanno formulato nelle modalità caratteristiche del loro tempo e delle loro conoscenze).

L’ispirazione nella storia dell’interpretazione biblicaLungo la storia dell’interpretazione biblica sono sta-

te proposte diverse formulazioni del concetto di ispira-zione. Qui vogliamo ripercorrere le tappe fondamentali di questa storia.

1. L’ambiente giudaicoLa convinzione dell’ispirazione dei libri biblici e della

loro origine divina appare nell’ambiente giudaico tra il 400 a.C. e il 100 d.C. (questo è anche l’arco di tempo du-rante il quale si fissarono nello scritto i libri della Bibbia).

I rabbini attribuivano il più alto grado di ispirazione al Pentateuco (cioè l’insieme dei primi cinque libri della Bibbia, che contengono le norme e le regole di vita cui il credente ebreo non può rinunciare). Attribuivano un grado meno elevato ai Libri profetici e collocavano all’ul-timo posto i Libri sapienziali.

Questa distinzione era motivata dai rabbini dal fatto che solo il Pentateuco procedeva direttamente da Dio, mentre gli altri libri della Bibbia contenevano la media-zione dei profeti (i Libri profetici), oppure si limitavano a descrivere l’ordinarietà della vita quotidiana (i Libri sa-pienziali).

Per le scuole rabbiniche l’ispirazione era da intendere come una «dettatura parola per parola» da parte di Dio all’autore del testo sacro.

2. Il Nuovo TestamentoLa convinzione dell’ispirazione divina dei libri biblici

all’epoca del Nuovo Testamento è già fede nell’ispirazio-ne.

Infatti, nel Nuovo Testamento vengono citati circa 350 volte i libri della Bibbia, essendo ormai radicata la consa-pevolezza della loro origine divina.

I testi neotestamentari che parlano dell’ispirazione non ripropongono la teoria della «dettatura parola per parola», propria dei rabbini. Ribadiscono, invece, la con-vinzione dell’origine divina e dell’autorità normativa dei testi sacri per il credente.

L’ispirazione è affermata esplicitamente in due testi:• 2 Tm 3,16: «Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è an-

che utile per insegnare, convincere, correggere ed educa-re nella giustizia». Questo testo contiene il termine greco theòpneustos («ispirata da Dio»), che è alla base della dot-trina sull’ispirazione: ogni parte della sacra Scrittura (que-sto termine appare in 2 Tm 3,15, dove i libri biblici sono

chiamati tà ierà gràmmata, «le sacre Scritture») è ispirata da Dio, cioè è stata fissata nello scritto sotto l’azione dello Spirito Santo.

• 2 Pt 1,20-21: «Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a priva-ta spiegazione, poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio». Questo testo utilizzando l’immagine dei profeti «mossi» dallo Spirito Santo, suggerisce di inter-pretare l’ispirazione non come semplice «detta-tura», ma come movimento o impulso divino. Dio comunica il suo pensiero e, sotto l’influsso dello Spirito Santo, l’autore umano lo «incarna» nel suo linguaggio, nel suo tempo e nel mondo degli uomini tra cui vive, quali primi destinatari della Parola del Signore.

Riguardo a questa «incarnazione», leggiamo

nella Costituzione conciliare Dei Verbum: «Le parole di Dio, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al lin-guaggio degli uomini, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece si-mile agli uomini» (Dei Verbum, 13).

Nel testo di 2 Pt 1,20-21 viene inoltre affermato che la Bibbia, a motivo della sua origine divina, ha bisogno di un’autorità (anch’essa divina) per essere interpretata ret-tamente («nessuna scrittura profetica va soggetta a pri-vata spiegazione», senza con questo scoraggiare la lettura personale e privata della Bibbia).

Non basta la lectio divina sulle letture della domenica o di ogni giorno per imparare la salvezza di Dio stori-ca, occorre frequentare interi libri della Bibbia per trarne frutto. Cominciamo con il leggere tutto il Vangelo secondo Matteo (cf ciclo A del Lezionario delle domeniche in questo anno), poi Marco, Luca, Giovanni e tutta la Bibbia!

I Padri e il MagisteroI Padri della Chiesa

I Padri della Chiesa sono i grandi scrittori e pastori che, con i loro scritti e la loro predicazione, hanno guidato nella fede e nella vita le prime generazioni

cristiane, sia nel mondo occidentale (di lingua latina) sia in quello orientale (di lingua greca). Essi hanno for-mulato il concetto di ispirazione ricorrendo a diverse immagini. Ecco le principali:- L’immagine dello strumento: l’autore sacro è «stru-mento» nelle mani di Dio (simile allo strumento musi-cale nel quale soffia il suonatore o alla cetra toccata dal plettro). Questa immagine (ma soprattutto la dottrina che racchiude) è divenuta classica fino ai nostri giorni, perché rende con plasticità la concezione dell’ispira-zione che vede Dio come autore «principale» e l’uomo come autore «strumentale» (o «secondario»).

S. Tommaso, perciò, potè formulare questa incisiva definizione: «Autore principale della Sacra Scrittura è lo Spirito Santo, mentre l’uomo ne è autore strumen-tale».

II Concilio Vaticano II, tuttavia, ha preferito trala-sciare il termine «strumento» per privilegiare quello di «veri autori» riferendosi a coloro che hanno fissato nello scritto la Bibbia. Non ha però tralasciato l’idea di «strumentalità» applicata agli autori sacri (Dio «agì in essi e per mezzo di essi»), formulandola nel modo se-guente: «Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini in possesso delle loro facoltà e capaci-tà, e agì in essi e per mezzo di essi, affinchè scrivessero come veri autori tutte le cose e soltanto quelle che egli voleva» (Dei Verbum, 11).- L’immagine dell’autore: Dio è autore di tutta la Bibbia.

Questa formula è da ambientare nel contesto delle po-lemiche sorte fin dal II secolo contro l’eretico Marcio-ne (86-160 d.C.) che opponeva l’Antico Testamento al Nuovo Testamento, attribuendo il primo a un Dio puni-tivo e cattivo e il secondo a un Dio buono e misericor-dioso. Di conseguenza egli riteneva normativo il solo Nuovo Testamento, nel quale Dio si rivela «Padre» e non «Giudice» come nell’Antico Testamento.

Al riguardo S. Agostino affermava: «Come l’unico e vero Dio è il creatore dei beni temporali e dei beni eterni, così egli medesimo è l’autore di entrambi i Testa-menti, poiché il Nuovo Testamento è nascosto nell’Anti-co e l’Antico è rivelato nel Nuovo» .

- L’immagine della lettera: la Bibbia è interpretata come una «lettera» che Dio ha indirizzato all’uomo. È un’immagine che vuole esprimere la familiarità di Dio con l’uomo e allo stesso tempo manifestare l’origine divina delle Scritture, come annota S. Agostino: «Da quella città rispetto alla quale noi siamo pellegrini, ci sono venute delle lettere: sono le Scritture» (Agostino, Commento al Salmo 90, Sermone 2,1; PL 37,1159).

A questa immagine s’ispira anche il Concilio Vatica-no II, quando afferma che «nei libri sacri il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro» (Dei Verbum, 21).

- L’immagine del dettato: la Bibbia è considerata come il frutto della «dettatura» (dal verbo latino, dicto) da parte di Dio all’autore umano. Il verbo dicto (da cui «dettato», «dettatura») nella lingua latina dei Padri della Chiesa ha un ampio significato: «comporre», «insegnare», «prescrivere». Essi certamente alludo-no all’ispirazione verbale, secondo la quale Dio appare

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INTRODUZIONE ALLA BIBBIA INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

come l’autore principale che comunica ogni singola pa-rola che l’autore umano fissa nello scritto, ancorato però al suo linguaggio e alle sue conoscenze, alle sue facoltà e alla sua intelligenza. Il Concilio di Trento vi allude quando afferma che le Scritture «sono dettate dalla bocca dello stesso Cristo o dello Spirito Santo» (Enchiridion Biblicum, 57).

Diversa è invece l’ispirazione di dettatura, secondo la quale Dio ha dettato ogni parola che l’autore sacro ha scritto, ma senza che questi ne venga coinvolto o entri in sinergia con lui, limitandosi semplicemente a fissare ogni parola nello scritto meccanicamente e sen-za alcuna partecipazione.

L’immagine del «dettato», a motivo degli equivoci che comporta, non è stata più accolta nella dottrina sull’ispirazione biblica.

Il Magistero della ChiesaL’insegnamento della Chiesa sull’ispirazione si svi-

luppa soprattutto nel secolo XIX, quando si intese chia-rire o correggere o anche perfezionare quelle conce-zioni che non erano conformi alla dottrina tradizionale formulata dalla teologia sull’ispirazione. Qui ci soffer-miamo su alcune tappe del cammino dell’insegnamen-to del Magistero della Chiesa, che culminerà nell’inse-gnamento del Concilio Vaticano II (1962-1965) e in altri Documenti che ad esso si ispireranno.

- Il Concilio Vaticano I: già molto tempo prima (1870) era intervenuto contro le affermazioni di coloro che identificavano l’ispirazione con l’inerranza, oppure la identificavano con l’approvazione dei singoli libri biblici da parte della Chiesa.

Ecco il testo conciliare: «La Chiesa non ritiene i libri dell’Antico e Nuovo Testamento sacri e canonici perché, composti per iniziativa umana, siano poi stati approva-

ti dalla sua autorità; e neppure solo perché contengo-no la rivelazione senza errore, ma perché, scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa» (Enchiri-dion Biblicum, 77).

- L’enciclica Providentissimus Deus (di Leone XIII, pub-blicata nel 1893) conferma il concetto tradizionale di ispirazione, ma ribadisce che Dio è da considerarsi «causa principale» («Dio ha mosso gli autori ispirati») nei confronti di tutto ciò che concorre alla fissazione nello scritto del testo biblico: «Dio ha mosso gli auto-ri ispirati mediante la sua operazione soprannaturale, così da spingerli a scrivere e da assisterli nello scrivere: perciò essi correttamente concepirono, accuratamen-te scrissero e fedelmente espressero tutto ciò che egli intendeva. Soltanto così Dio può essere l’autore della Bibbia» (Enchiridion Biblicum, 125).

- L’enciclica Divino afflante Spiritu (di Pio XII, pubblicata nel 1943) presenta l’ispirazione partendo dal principio che lo scrittore sacro è lo «strumento» (in greco, òrga-non) dello Spirito Santo, ma sottolinea anche l’apporto personale e «attivo» che al testo sacro ha dato lo scrit-tore umano (definito «strumento vivo e dotato di intel-ligenza»): «L’agiografo è l’òrganon, ossia lo strumento dello Spirito Santo, ma strumento vivo e dotato di intel-ligenza. Giustamente i teologi fanno notare che questo strumento, spinto dalla mozione divina, usa talmente delle sue facoltà e delle sue forze che tutti possono fa-cilmente individuare dal libro - che è opera sua - l’indole propria di ciascuno, i suoi lineamenti e le sue singolari caratteristiche» (Enchiridion Biblicum, 556).

L’apporto dello scrittore umano è facilmente indi-viduabile attraverso la conoscenza dei generi letterari (cioè dei modi di narrare e dei mezzi espressivi propri

degli antichi orientali), che questa enciclica esorta a stu-diare e usare nell’esegesi e nell’interpretazione dei testi biblici.

Su questa scia la Costituzione conciliare Dei Verbum afferma: «Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l’interprete della sacra Scrittura... deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi realmente hanno inteso indicare e che cosa a Dio è piaciuto manifestare con le loro paro-le. Per scoprire l’intenzione degli agiografi si deve tener conto tra l’altro dei generi letterari... si deve fare molta attenzione sia ai modi abituali e originari di intendere, di esprimersi e di raccontare in voga ai tempi dell’agio-grafo, sia a quelli che allora si usavano abitualmente nei rapporti umani» (Dei Verbum, 12).

A queste indicazioni si ispirerà in seguito anche il Docu-mento della Pontificia Commissione Biblica L’interpreta-zione della Bibbia nella Chiesa (1993), nel quale vengono tratteggiate le diverse «letture» che si fanno della Bibbia e i diversi «approcci» con cui ci si accosta ad essa.

- La Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II (promulgata il 18 novembre 1965) ha trattato diversi temi (tra l’altro, il rapporto tra Scrittura e Tradizio-ne, la loro qualifica di «fonte» unitaria della Rivelazione, ecc). Ha affrontato anche le varie problematiche lega-te alla dottrina dell’ispirazione, giungendo a una sintesi equilibrata, nella quale confluisce tutto ciò che era stato elaborato dal Magistero della Chiesa fino al Concilio Vati-cano II (come sopra abbiamo presentato).

Per quanto riguarda il concetto d’ispirazione e le te-matiche ad esso collegate (Dio «autore», l’autore umano come «vero autore», la pari dignità dell’Antico e del Nuo-vo Testamento in ogni loro libro e in ogni loro parte), ecco come la Dei Verbum esprime tutto ciò:«Le realtà divina-mente rivelate, che sono contenute ed espresse nei libri della sacra Scrittura, furono scritte per ispirazione dello Spirito Santo (Spiritu Sancto afflante). La santa madre Chiesa, infatti, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione del-lo Spirito Santo (cf Gv 20,31; 2 Tm 3,16), hanno Dio per autore (Spiritu Sancto inspirante conscripti, Deum habent auctorem) e come tali sono stati consegnati alla Chiesa. Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e si servì di uomini nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinchè, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva fossero scritte» (Dei Verbum, 11: testo fondamentale, questo, che abbiamo spesso citato lungo la nostra trattazione e che lascia intravedere, nelle parole riportate in lingua latina, come in esso sia confluito l’insegnamento del Magistero sull’ispirazione prima del Concilio Vaticano II).

La Dei Verbum, inoltre, ribadisce l’unità dei due Testa-menti, affermando che è Dio l’autore di entrambi e che entrambi sono stati da lui ispirati, confermando così la

loro pari uguaglianza nel grado di ispirazione, spesso mes-sa in dubbio o negata.

Veniva così data una risposta anche a quanti sostene-vano ormai l’inattualità dell’Antico Testamento e la sop-pressione dei suoi testi nella liturgia e nella preghiera della Chiesa: «Dio è ispiratore e autore dei libri dell’uno e dell’altro Testamento... Infatti, anche se Cristo ha fon-dato la nuova alleanza nel suo sangue (cf Lc 22,20; 1 Cor 11,25), tuttavia i libri dell’Antico Testamento, integralmen-te assunti nella predicazione evangelica, acquistano e ma-nifestano il loro pieno significato nel Nuovo Testamento (cf Mt 5,17; Lc 24,27; Rm 16,25-26; 2 Cor 3,14-16), e a loro volta lo illuminano e lo spiegano» (Dei Verbum, 16).

Sentiamo qui l’eco delle affermazioni del Concilio di Trento (1545-1563) che dichiarava come la Chiesa «con uguale pietà e venerazione accoglie e venera tutti i libri, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, essendo Dio au-tore di entrambi» (Enchiridion Biblicum, 57).

Comprendiamo pure come la fede nell’ispirazione sia stata sempre nel cuore e nella preoccupazione pastorale della Chiesa di tutti i tempi. Ne è testimonianza l’Esorta-zione apostolica postsinodale Verbum Domini (promul-gata da Benedetto XVI nel 2010), nella quale la Parola di Dio viene nuovamente posta al centro della vita cristiana e idealmente riconsegnata sulle mani e sulla bocca di ogni membro della Chiesa (mani e bocca sulle quali viene an-che posta l’Eucarestia, il corpo di Cristo).

Il buon San Girolamo

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L’«inerranza» della BibbiaL’affermazione dell’inerranza della Bibbia, che di-chiara l’assenza di ogni tipo di errore umano nel-la Sacra Scrittura, è andata man mano e volven-

dosi lungo la storia dell’interpretazione biblica. Già gli antichi ebrei affermavano l’assenza di errori nella Bib-bia (o la sua inerranza), perché attribuivano piena fi-ducia alle sacre Scritture, come opera esclusiva di Dio che aveva «dettato» ogni parola allo scrittore sacro.

Attribuire la scrittura della legge e dei dieci coman-damenti direttamente alle «dita» di Dio (Es 24,12: «II Signore disse a Mosè: Sali verso di me sul monte... io ti darò le tavole di pietra, la legge e i comandamenti che io ho scritto»; Es 31,18: «tavole di pietra, scritte dal dito di Dio» ), come pure attribuire tutto il Pentateuco a Mosè era, per gli antichi ebrei, la garanzia indiscussa per credere nell’assenza di ogni errore umano nella Bibbia.

In seguito, anche ogni epoca cristiana ha cercato di dare il proprio contributo a questa particolare qualità della Bibbia, convinta che la Parola di Dio, come prima educatrice e formatrice dell’«uomo di Dio» (qual è il cristiano), non può sbagliare e non può non raggiun-gere il suo scopo: «Tutta la Scrittura... è utile per in-segnare, convincere, correggere ed educare... perché l’uomo di Dio sia completo» (2 Tm 3,16-17). Questa convinzione sta alla base dell’approfondimento che, lungo la storia dell’interpretazione biblica, ha caratte-rizzato il concetto di inerranza.

La «verità» della BibbiaOggi, in seguito alle affermazioni del Concilio Vati-

cano II, non si parla più di inerranza della Bibbia, ma si preferisce parlare di verità della Bibbia. Quest’ultimo è un modo di esprimersi più positivo e meno restrit-tivo nei confronti della Parola di Dio. Certo, l’autore umano non viene annullato con l’ispirazione da parte di Dio. E con l’autore umano non vengono annullate

né modificate la sua particolare visione del mondo, le sue limitate cognizioni sulla scienza, sulla medi-cina, sulla tecnica e su ogni altro ambito della vita e della cultura. Ma tutto ciò non ha costituito un ostacolo all’insegnamento del Concilio, che dichiara come nella Bibbia bisogna cogliere «la verità in ordi-ne alla nostra salvezza».

La verità della Bibbia, infatti, è quella che riguarda la salvezza dell’uomo.

Ecco come si esprime la Costituzione conciliare Dei Verbum: «Poiché tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono, è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, è da ritenersi anche, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fe-delmente e senza errore la verità che Dio, in vista del-la nostra salvezza, volle fosse messa per iscritto nelle Sacre Lettere» (Dei Verbum, 11).

Non è stato facile arrivare a questa affermazione conciliare, che giustamente vede racchiuse nella Bib-bia «le verità necessarie per la salvezza dell’uomo». Vi si è giunti dopo quattro stesure del testo:

• La prima stesura affermava: «L’ispirazione di-vina per se stessa necessariamente esclude e respinge ogni errore in argomenti religiosi e profani». Il limite di questa affermazione (che non fu accettata) consi-steva nel fatto che si attribuiva alla Bibbia l’infallibilità nei confronti di ogni errore, anche nell’ambito della storia e della scienza (come va inteso il termine «pro-fani»).

• La seconda stesura dichiarava: «Poiché Dio è ritenuto ed è l’autore principale della sacra Scrittura, ne consegue che tutta la Bibbia divinamente ispirata è del tutto immune da ogni errore». La novità di questa affermazione era nella soppressione del riferimento agli «argomenti profani».

• La terza stesura recitava: «Poiché tutto ciò che l’autore ispirato o agiografo asserisce, si deve ri-tenere asserito dallo Spirito Santo, ne consegue che i libri della sacra Scrittura integralmente, con tutte le loro parti, insegnano la verità senza alcun errore». In questa stesura non si precisava qual era l’ambito e la natura della verità (è quella che salva o abbraccia altri ambiti?).

• La quarta stesura proponeva il seguente te-sto: «I libri della sacra Scrittura integralmente, con tutte le loro parti insegnano la verità salutare indiscu-tibilmente e fedelmente, integralmente e senza erro-

INTRODUZIONE ALLA BIBBIA INTRODUZIONE ALLA BIBBIA

La Verità che salva

re». Era, questa, una formulazione che presentava la Bibbia in un significato più proprio, cioè come Parola di Dio che contiene la verità che salva («la verità salu-tare»). Tuttavia questa formulazione non soddisface-va ancora i Padri conciliari, poiché poteva lasciar int endere che la verità della Bibbia si restringesse alle sole cose della fede e della morale. Rimessa, perciò, in discussione, da essa scaturì la formulazione che troviamo ora nella costituzione Dei Verbum e che qui nuovamente riportiamo: «Poiché tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, è da ritenersi anche per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, in vista della nostra salvezza, volle fosse messa per iscritto nella Sacre Lettere» (Dei Verbum, 11).

Ciò che è «attuale» e ciò che è «superato» nella Bibbia

La Bibbia, perciò, non può sbagliare né contenere errori né ingannare sulle verità che sono necessarie all’uomo per la salvezza. Sbaglia, invece, chi si accosta ai libri della Bibbia pretendendo cognizioni scientifiche come le abbiamo noi oggi e, non trovandole, oppone Bibbia e scienza, fede e cultura, religione e progres-so. Come esemplificazione pensiamo a quanti oppong ono i «sei giorni» della creazione alla conoscenza che abbiamo oggi sulla formazione dell’universo, che ab-braccia milioni e milioni di anni; a quanti oppongono la concezione geocentrica (o tolemaica) della Bibbia a quella eliocentrica (o copernicana) del mondo moder-no, come motivo di declassamento della Bibbia stessa.

Nell’accostarsi a questi testi e ad altri che non ri-spondono più alla mentalità del nostro tempo, il Con-cilio ci insegna a non valutarli con il criterio assoluto del passato di verità/errore, ma con quello più ragio-nevole di attuale/superato. Lo stesso Galileo Galilei, scrivendo nel 1615 a Cristina di Lorena, granduches-sa di Toscana, affermava nei confronti di chi operava questo declassamento della Bibbia: «Lo Spirito Santo non ha voluto insegnarci se il cielo si muova o stia fer-mo, né se la sua figura sia in forma di sfera o di disco o distesa in piano, né se la terra sia contenuta nel cen-tro di essa o da una parte... L’intenzione dello Spirito Santo è di insegnarci come si va in cielo e non come va il cielo».

Saper interpretare la BibbiaL’esatta concezione della verità contenuta nella Bib-

bia, ci aiuta non solo a leggere ciò che il testo sacro con-tiene, ma anche a saper interpretare il messaggio che esso intende trasmettere. Interpretare la Bibbia signi-fica saper cogliere il suo vero messaggio, in modo che il testo biblico possa parlar e all’uomo di ogni tempo.

L’interpretazione della Bibbia è molto importante nella Chiesa. A questo tema la Pontificia Commissione

Biblica (l’organo che studia le questioni più complesse in campo biblico) ha dedicato nel 1993 un importante documento dal titolo «L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa», che offre una visione d’insieme dei di-versi metodi relativi all’interpretazione della Bibbia oggi in vigore. Questo documento, perciò, costituirà la base della trattazione che più avanti dedicheremo alle «letture della Bibbia» nel nostro tempo, valutandone metodi e approcci.

Senza una corretta interpretazione, molti rifiutano la Bibbia perché la ritengono un testo superato e dif-ficile (si pensi al libro dell’Apocalisse), ambientato in una civiltà contadina e con un linguaggio ormai senza più interesse. Ma una corretta interpretazione è an-che necessaria per non cadere nell’errore (oggi molto diffuso tra le sette fondamentaliste e gli stessi Testi-moni di Geova) di prendere la Bibbia alla lettera, igno-rando il suo contesto storico, linguistico e culturale.

Poiché la Bibbia comunica «la verità che salva» , i credenti, sorretti da questa consapevolezza, vengo-no così invitati a rendere viva e attuale la Parola di Dio che la Bibbia trasmette e che a essi ogni dome-nica viene proclamata e spiegata nella celebrazione eucaristica. È la luce di questa «verità» offerta dalla Parola del Signore che fa della domenica «il giorno del Signore» (il Kyrios è il primo evangelista della verità che salva) e che lo rende «il primo giorno» (perché in esso appare la salvezza che si estende a tutti i giorni che seguiranno). Ma la domenica diventa anche «il giorno della verità che salva», perché la Parola rac-chiusa nel Lezionario spezza - con la mediazione della viva voce del lettore reso «uomo di Dio» - le catene della scrittura che la fissano nel suo tempo lontano e nella sua particolare cultura, per riversarsi sull’assem-blea con la forza inesauribile della sua efficacia e con l’onda inarrestabile della sua salvezza.

LaVerità che salva,necessaria per noi,

s’impara dalle divine Scritturelette con amore

fin da ragazzi.

La Parola di Dio si riversa sull’assemblea

con l’onda inarrestabile della salvezza.

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UNITA’ PASTORALE -PARROCCHIE BOTTICINOCommissione pastorale familiare e coppiaAssociazione PUNTO FAMIGLIA E DINTORNI

pagine per lafamiglia e... dintorni

“Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un esse-re vivente” (Gn 2,7). Per vivere abbiamo bisogno di aria e di polmoni che la pos-sano contenere, accogliere e restituire. E’ significativo che nel secondo raccon-to di creazione, nel Libro della Genesi, l’essere umano possa vivere solo dopo aver ricevuto dentro di sé il soffio divino, il respiro di Dio. Appare chiaro che, pur partendo da un’osservazione elementare dello stretto rapporto tra vivere e respi-rare, il Testo Sacro ci faccia andare su di un livello molto più elevato, quello riferi-to ai significati per cui spendere l’intera esistenza: animati dall’aria divina, vivia-mo solo se rimaniamo con Lui e in Lui. Ora, con la “nuova creazione” nel Nuovo Testamento avviene qualcosa di simile, secondo però le coordinate della pienez-za e della definitività. “(Gesù) soffiò su di loro e disse: ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”. (Gv 20,22). La vita nuova nasce da un nuovo dono di Dio, non solo la traccia del suo respiro, ma addirittura la presenza stabile del suo Spirito, grazie al sacrificio del Figlio. Per realizzare la mis-sione che il Signore Gesù ha dato ai suoi discepoli è necessario vivere della sua

stessa vita, partecipare cioè al suo respiro d’amore, di perdono e di pace. Anche la specifica missione degli sposi cristiani, e con loro dell’intera famiglia, ha bisogno di respirare a pieni polmoni dell’aria nuo-va portata dal Risorto. Questa novità vie-ne a permerare tutte le relazioni di casa, donando significati compiuti e definitivi, aprendo in esse la strada della santità e della vita eterna.

La piena comunione tra gli sposi non potrà più essere, allora, frutto del solo de-siderio di completamento reciproco, ma in questa dinamica d’amore coniugale (unico-totale fedele- fecondo) sarà pos-sibile far emergere la vita stessa di Gesù, il suo cuore donato per la Chiesa, e attra-verso di essa per tutta l’umanità. Così, anche il mettere al mondo dei figli, frutto di amore responsabile, andrà ben oltre l’ottenere soddisfazione per gli adulti e promessa di futuro nelle loro vite, di-ventando i genitori collaboratori di Dio nella creazione, nell’educazione e nella trasmissione della fede. Volendo anda-re ora più nello specifico, ci potremmo lasciar sollecitare da questa domanda: quali sono i polmoni nella vita coniugale degli sposi cristiani? La risposta è davve-ro intrigante e chiede a ciascuno di rive-dere il proprio quotidiano, misurandolo sul caleidoscopio del Vangelo. Con uno

sguardo generale, si potrebbe dire che il respiro di Cristo nella coppia ha bisogno di essere accolto dal polmone della vita spirituale e da quello della vita di carità. Vivere secondo lo spirito per i cristia-ni ha un significato ben preciso tale da prendere subito le distanze da interpreta-zioni intimistiche, sganciate dalla realtà: lo Spirito Santo è anima della vita spiri-tuale, motore attivo di azioni benefiche, potenza di Dio incarnata nell’umanità. Per comprendere meglio, ci vengono in-contro le Scritture, dove lasciano emer-gere i doni e i frutti dello Spirito del Ri-sorto nei fedeli.

Così sappiamo che gli sposi hanno ricevuto nella loro speciale relazione di amore coniugale doni come l’intellet-to, il consiglio, la sapienza, la scienza, la fortezza, la pietà e il timor di Dio; tanto da aspettarsi frutti come l’amore, la gio-ia, la pace, la pazienza, la benevolenza, la bontà, la fedeltà, la mitezza e il dominio di sè. In questa ricchezza di possibilità di vita buona nello Spirito, prendo ad esem-pio il dono del consiglio per cui gli sposi possono chiedere nella sincera e profon-da orazione l’accompagnamento divino nelle scelte più difficili, quelle spesso decisive; come anche, però, il consiglio lascia intendere che nella coppia ci deb-ba essere dialogo, voglia di suggerire la via migliore, e il mettere a disposizione dell’altro/a la propria consulenza a favo-re di tutta la famiglia. Per quanto riguarda i frutti.. quanta pace c’è nelle nostre case?

Bisogna ritornare a respirare col pol-mone della vita spirituale, che trova ali-mento nella preghiera e nell’ascolto pro-fondo della Parola, nei sacramenti e nella vita comunitaria, piena di stupende testi-monianze (i santi). Per un’aria davvero

Il Matrimonio Sacramento: polmoni per la missione

Sempre, e oggi non fa’ certo un’eccezio-ne, ci vuole “fegato” per essere degli auten-tici testimoni del Vangelo, missionari del Risorto!

Se questo, poi, è vero in generale, molto più lo diventa nell’ambito delle relazioni co-niugali e familiari: ci vuole fegato per giurare davanti a Dio di amarsi per sempre e in ma-niera completa, feconda; ci vuole fegato per accogliere qualsiasi figlio che Dio vorrà do-narti, perché dono e perché figlio; ci vuole fegato per fare della propria casa una chiesa viva e reale; ci vuole fegato per vincere tutte le fragilità umane con la medicina del per-dono e della misericordia...

Non è pazzia o illusoria cecità, si tratta di affidamento completo alla grazia divina, alla sua provvidenza, e questo comporta l’im-postare la propria vita su quella di Cristo; insomma, è difficile ma non impossibile,

solo bisogna fissare lo sguardo su di lui.Davanti a molte aridità in ambito coniu-

gale e a tantissime separazioni, la richiesta della Chiesa di essere missionari dell’amo-re di Dio nelle relazioni familiari potrebbe sembrare forse un po’ fuori luogo. Come dire: “Con tutti i problemi che abbiamo e con tutte le defezioni...”. Si tratta invece di mettersi proprio nell’ottica contraria, quella di consapevolezza dei limiti umani e insie-me della loro consegna al Padre misericor-dioso, affinché si possa passare “dalle piaghe alle stigmate”. La carità di Dio non disdegna nessuna casa, tanto più se pensiamo che Gesù è nato in una stalla! La questione però deve andare ancora più in profondità, ri-conoscendo che l’unico modo per vivere i doni di Dio è quello di metterli nella logica del dono, della testimonianza e del rendi-mento di grazie. Lo Spirito Santo è l’atto-re principale con cui interpretare la storia familiare, quella presenza forte e delicata che può “dare fegato”, senza che niente e nessuno lo possa “mangiare o rodere”. Infat-ti, riesce a colorare le giornate più grige e a portare pace nei mari in burrasca; con Lui si ritrova la voglia del futuro e la pazienza di re-sistere in un presente a volte troppo pesante. Però, questo fedele Ospite dell’anima va in-vocato, ascoltato e incontrato; bisogna pas-sare del tempo insieme, in cui ritemprarsi e potersi abbandonare ad un pianto da con-solare. Con lo Spirito Santo il fegato diventa robusto e operoso, capace di trasformare in energia positiva tutto quello che viviamo e così rendere possibile l’incredibile motto della fede: “Tutto è grazia!”.

La rabbia e la stanchezza disperante sono due gravi malattie che spesso limita-no la vita familiare, portando molti a livelli così letali di insostenibilità da non poter far altro che abbandonarsi. Un fegato da solo, senza il Consolatore perfetto intendo, ben presto si fa rodere dalle passioni più nocive e restituisce un’energia negativa, poco incli-ne alla pace e al perdono. Non manca solo una sufficiente capacità comunicativa, un menage casalingo proporziona-to tra momenti per sé e tempi per tutti, un’adulta serietà e responsabilità nelle relazioni, ecc., man-ca a mio avviso molto di più: la vita divina nel corpo coniugale e nelle vene del familiare. In di-verse situazioni, incontro

parecchi sposi o comunque persone che mi presentano la loro situazione nella dimen-sione domestica. Insieme certo a specifiche questioni e a storie originali, appare chiaro un minimo comun denominatore, legato alla pericolosa, lenta e quasi inesorabile stanchezza dei legami. E’ come se le perso-ne fossero “sgonfie” e incapaci di ritrovare la giusta “pressione” per affrontare le diverse sfide che le relazioni fisiologicamente met-tono davanti, con l’aggiunta magari di qual-che “accidente” imprevisto.

Molti arrivano ad un punto che gli fa dire: “Sono stanco/a e non ho più voglia di lottare; vorrei solo chiudere gli occhi e svegliarmi con tutto trasformato, se non fi-nito...”.

No, non è possibile impostare la bella vita matrimoniale e familiare pensando che prima o poi finirà così; non è accettabile immaginare che solo alcuni potranno sal-varsi da questa perdita di slancio, da questo disperante “sgonfiamento” della passione all’amore oblativo. Se è vero che questo può succedere, bisogna anche gridare che que-sto non è il progetto di Dio sul bell’amore tra un uomo e una donna, sull’amore generoso dell’essere genitori! Ma secondo voi, che di famiglia sicuramente vi intendete più di me, che cosa dice il tragico messaggio demogra-fico (crescita sotto zero dagli anni novanta) al nostro essere Chiesa in Italia, popolo del Risorto e della vita? Sembra che anche i le-gittimi sogni di accogliere figli nelle nostre case siano caduti nella stessa malattia del “fegato”: poco ardire, rabbia diffusa e molta paura. Riprendiamo invece speranza nella potenza della misericordia divina e nella forza rinnovatrice dello Spirito Santo, colui che solo può restituirci la passione e la fede nell’amore dentro l’avventura del familiare: allora, si potrà vivere meglio e osare di più nella vita cristiana!

don Giorgio Cominisegretariato diocesano pastorale familiare

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fegato per la missione

fresca e abbondante non basta smuo-vere il mondo della preghiera, bisogna ossigenare il sangue con il secondo mo-vimento, quello della carità, che in fa-miglia trova l’inimitabile declinazione della gratuità totale e pervasiva.

Nel Prefazio della Messa il sacerdo-te dice a nome di tutti: “E’ veramente cosa buona e giusta, nostro dovere e fonte di salvezza rendere grazie sempre e in ogni luogo a te, Dio Padre Onni-potente”. Il gratis sgorga dalla libertà di amare senza egoismi; e per questo San Paolo ci ricorda che Cristo ci ha libe-rati affinché rimanessimo liberi (cfr. Gal 5). Rendere grazie, però, è ancora di più che l’essere gratuiti; infatti, pur sapendo di non poter colmare la di-stanza, rappresenta il modo che ha la creatura di restituirsi al suo Creatore. Si tratta quindi di restituire senza riser-ve la propria vita a Dio, nel donarla al proprio coniuge e a tutti i familiari. Ci rendiamo conto che il bene trattenuto o sciupato è aria inquinata che immet-tiamo nelle relazioni d’amore? Per es-sere sposi e famiglia missionaria è ne-cessario respirare a pieni polmoni, nei due movimenti complementari della vita spirituale e della gratuità liberante, così da partecipare ancor oggi al soffio di Dio nell’umanità.

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Questo è il titolo del terzo grup-po di domande poste dal Que-

stionario. Va letto indue modi com-plementari, cioè la pastorale per la famiglia e il servizio pastorale di evangelizzazione che la famiglia svol-ge nella sua vita ordinaria, essendo ciò che è chiamata ad essere.L’emergenza della situazione attua-le, riferita alla “tenuta” della coppia e le ripercussioni sui figli non aiuta cer-to a vedere la famiglia principalmen-te come una risorsa per la missione evangelizzatrice della chiesa. Ma dobbiamo seriamente chiederci se le

bellissime indicazioni scaturite nel lontano 1975 dal documento “Evangelizzazione e Sacramento del matrimonio” dei Vescovi ita-liani, più volte citate fino ad oggi in altri documenti, hanno avuto una risonanza e progettualità pastorale? E non solo per la sen-sibilità personale di qualcuno su questi temi. Basterebbe citare il n. 108 “ La Chiesa è cosciente di generare nella celebrazione del sacramento del Matrimonio le coppie cristiane come cellule vive e vitali del Corpo mistico di Cristo; per questo chiede a tutti i suoi membri di acco-glierle come sue componenti organiche, dotate di carismi e ministeri propri, per una speci-fica missione nell’annuncio del Vangelo che salva.”Riflettiamo su questa coscienza e su come pastoralmente abbiamo investito negli ultimi trent’anni per la preparazione remota alla vocazione matrimoniale, perché anche di questo si tratta. La pri-ma “struttura” evangelizzatrice della chiesa è quella familiare.Gli sposi cristiani realizzano in modo originale la vocazione ad amare ed essere amati che dal Battesimo, immersa nell’amore di Cristo, è diventata una chia-

mata ad amare in Lui, con Lui e per Lui. Quando abbiamo consegnato al Padre, al Figlio e allo Spirito san-to il nostro legame d’amore con la promessa ’”accolgo te ...”, abbiamo chiesto che esso fosse segno reale del Suo Amore, dell’amore dello Sposo Gesù per ogni uomo. Il nuovo Rito del matrimonio lo sot-tolinea molto. Non solo, ma la pre-parazione al matrimonio cosa signi-fica? Alla celebrazione solo del rito che deve essere ben compresa o al sacramento in atto nel vissuto di cop-

pia e di famiglia da quel momento in poi. Perché questo sono i sacramenti nella chiesa, non cose, ma azioni di Cristo che si rende presente in quel particolare segno efficace. Nel caso degli sposi, si rende presente l’amore trinitario nella loro comunione, nel loro amore e così raggiunge gli uomi-ni ed edifica il tessuto ecclesiale. Al-lora la chiesa può fare a meno di uno dei suoi sette sacramenti? Possiamo limitare la preparazione a quella im-mediata, poco prima delle nozze? E questa che a volte è l’unica occasione di evangelizzazione per queste cop-pie, quanto l’abbiamo curata perché fosse un itinerario di fede? Sono do-mande che dobbiamo porci seria-mente. Se gli sposi in Cristo hanno una missione propria da compiere vanno aiutati a scoprirla e a viverla perché nessuno li può sostituire.

alcune situazioni matrimoniali difficili

Questo quarto gruppo di domande del questionario ci interroga sulla re-altà che pastoralmente incontriamo sia negli Itinerari di fede verso il ma-trimonio, nel cammino dell’ ICFR, nella quotidianità delle relazioni, an-che quelle nella nostra cerchia fami-liare e delle amicizie.Ci interroga sulle convivenze ad ex-perimentum, sulle unioni di fatto, sulla realtà dei fratelli separati, di-vorziati e risposati. I dati che abbia-mo raccolto nella nostra diocesi ci dicono che nei percorsi di fede verso il matrimonio le coppie conviventi sono il 47%, mentre quelle dei “fi-danzati “ sono il 46% e il resto è com-posto da coppie di battezzati sposati civilmente. Un terzo dei genitori che chiedono il battesimo del primo fi-glio sono conviventi. Rispetto ai ma-trimoni celebrati in un anno le sepa-

Siamo Luca e Stefania responsabili della Casa Famiglia Betania di Maria, spo-sati da vent’anni, abbiamo tre mera-

vigliose figlie di 18,16 e 9 anni. Dopo un lungo cammino di fede da circa quattro anni abbiamo aperto la nostra casa all’accoglienza di minori disagiati.La scelta è maturata da un “disagio” interiore, sentivamo infatti il desiderio di vivere in modo più radicale il vangelo all’interno della nostra chiesa domestica familiare, ma non riuscivamo a capire quale strada percorrere.Dopo un anno sabbatico, dedicato esclusiva-mente alla preghiera e al discernimento, abbia-mo maturato la scelta di accogliere e allargare la nostra famiglia anche ad altri bambini che per vari motivi devono essere allontanati da casa. Il primo passo è stato quello di trovare una casa più grande e per la Divina provvi-denza, attraverso una coppia di Bassano Bre-sciano proprietari di un’agenzia immobiliare, abbiamo avuto in concessione una casa gratui-ta di ben 400 mq. a Verolavecchia.Ci siamo perciò trasferiti in un altro paese.Come nella famosa canzone di Sergio Endri-go la casa era “senza soffitto e senza cucina”, senza luci, senza acqua e con un fornellino da campeggio è cominciata la nostra nuova av-ventura! Abbiamo scoperto il valore della soli-darietà. Molte sono state le persone che ci han-no aiutato in questa prima fase. Gli amici ma anche gli ultimi, i disagiati della società sono stati tra i primi volontari di casa Betania di Maria. Abbandonati alla Provvidenza Luca ha lasciato il lavoro, un posto sicuro e ben remu-nerato di infermiere professionale, per dedicarsi in toto all’opera e passo dopo passo abbiamo terminato i lavori di sistemazione.Per il nome della nostra casa il pensiero è an-dato a Betania, quel piccolo villaggio biblico in cui Gesù aveva i suoi amici e che rappresen-tava il nostro desiderio di relazione amicale e forte con Lui. Ma non poteva mancare la figu-ra di Maria, presenza silenziose e protettrice di questa nostra avventura e, dopo un viaggio a Medjugorje, è nato in noi il desiderio di con-sacrare in modo ufficiale a Lei l’opera: “ Casa

Famiglia Betania di Maria”, dove con quel “di” si esprime tutta la nostra appartenenza totale alla Madre di Dio. Diventati associazione ad aprile 2011 abbiamo cominciato ad accogliere i primi ospiti; con tre fratellini è cominciata la nostra avventura!Successivamente anche Stefania ha lasciato il suo lavoro per dedicarsi totalmente alla cura dei nostri 6 figli. Oggi la nostra famiglia è composta da dieci persone, viviamo in armo-nia, anche se a volte con fatica e non man-cano gli alti e bassi, ma crediamo in questo meraviglioso progetto, crediamo di non essere soli e non ci stanchiamo di chiedere a Dio di essere con noi. Ogni volta che riusciamo ad entrare in questa dimensione di abbandono ci rendiamo conto di come Lui ci segua, ci prenda per mano. Molte volte abbiamo speri-mentato la Sua provvidenza, ci siamo trovati in situazioni di forte stress perché improvvi-samente le risorse venivano a mancare o per difficoltà legate all’affido dei bambini e ogni volta un angelo è venuto in nostro soccorso. Quello che noi sperimentiamo nella nostra piccola chiesa domestica è una presenza for-te di Dio che si manifesta in modo mirabile attraverso le persone. La divina Provvidenza infatti non è un ente astratto ma si rivela attraverso gesti concreti di tante persone di buona volontà che capiscono ed approvano questo progetto.Ricevere cibo e vestiti è un segno concreto dell’amore di Dio. Di questo noi viviamo, di atti concreti d’amore. Tutti ne abbiamo bisogno. Come un deserto arido senz’acqua, quando una goccia d’amore scende su di noi ci sentiamo cambiati, trasformati. Il Signore ci tocca il cuore e ci da la forza di andare avanti. Con otto figli non è facile, poi pen-si alle loro storie, a quanto hanno dovuto soffrire e scopri che amare non è impossibi-le, anche se c’è fatica e sofferenza. Con loro condividiamo tutto, difficoltà, gioie e dolori.Il nostro lungo tavolo di 3,5 metri, donato da un artigiano, è sempre molto affollato e chiassoso ma per chi cerca un po’ di compa-gnia il posto c’è sempre.

Luca e Stefania

MISSIONE POSSIBILE

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Il Gruppo Galilea è un cammino di fede per persone che vivono situazioni matrimoniali

difficili o irregolari (es. divorziati-risposati).Gli incontri sono mensili,

al centro la Parola di Dio, con ampispazi di ascolto, riflessione e condivisione.

Ogni primo sabato del mese. Gli incontri si tengono da calendario annuale, presso il Centro Pastorale “Paolo VI”, (situato in via Gezio Calini, 30 - Brescia) un sabato al mese,

dalle ore 17.00 alle ore 19.00.Guida e accompagnatore del Gruppo è don Giorgio Comini, direttore dell’Ufficio Diocesano

di Pastorale Familiare.

“Retrouvaille” propone weekend per coniugi che vivono un

momento di difficoltà, di grave crisi, che pensano alla separazione o sono già separati ma desiderano ritrovare se stessi e una relazione

di coppia chiara e stabile. Per info: [email protected] e www.

retrouvaille.it.

numero verde da numero fisso

800-123958da cellulare3462225896

razioni sono al 40% e i divorzi al 30%.La prima domanda che mi sorge spon-tanea (che non è tra quelle proposte dal questionario) è: come siamo arri-vati a questa realtà “ecclesiale”?La seconda domanda è: siamo coscien-ti che essa ci riguarda come comunità ma ci impegna anche singolarmente?Vorrei anche sottolineare che sotto “situazioni matrimoniali difficili” sono state messe condizioni molto diver-se tra loro, alcune per scelta appunto “non matrimoniali”. Inoltre non si menzionano quei fratelli separati o divorziati che scelgono di non impe-gnarsi in un’altra unione. E bisogna anche riconoscere che non sono tut-te uguali le situazioni che chiamiamo dei conviventi, dei divorziati risposati etc.... Noi che pre-comprensione ab-biamo di queste situazioni?E’ importante che ce lo domandiamo perché esse determinano sia la nostra prima accoglienza, per esempio in par-rocchia, di queste persone, sia il nostro atteggiamento e le risposte che diamo anche come animatori nei percorsi che offriamo.Su questo quarto gruppo di domande il confronto intra ecclesiale è già avvia-to e molto vivace. Non vorrei che però saturasse l’orizzonte, come se tutto il Sinodo dovesse focalizzarsi qui. In diocesi da anni è offerta l’opportunitàdel cammino del Gruppo Galilea e ul-timamente di Sentieri di Stelle. Non sostituiscono però il valore del farsi prossimi dei sacerdoti e degli sposi in Cristo a questi fratelli, a maggior ra-gione quando lo richiedono, dentro la propria comunità.Anche un’adeguata formazione non guasterebbe …

Chiara Pedraccini

Sinodo straordinario dei Vescovi 2014

La pastorale della famiglia nel contesto dell’evangelizzazione

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Ecco due domande molto impegnative, alle quali, tuttavia, è indispensabile saper rispondere se si vuole che il bambino apprenda quella cosa tanto

difficile che è la capacità di sopportare l’autonomia e l’indipendenza.

Rispondere alle domande dei piccoli sulla morte e sul lutto – domande che possiedono un’enorme pre-gnanza filosofico-spirituale – non è cosa facile. Il bam-bino non cerca solo (o non ancora) un senso al morire, quanto piuttosto vuole essere rassicurato e sostenuto in ordine a quella che già abbiamo definito la sua paura fondamentale: quella della separazione.

Che cosa possiamo dire a questo riguardo?Anzitutto che i bambini hanno bisogno di sincerità:

«Io morirò?». «Sì… ma non tanto presto… sei ancora giovane». «Allora tu muori prima? Ma vivrai ancora a lungo, vero? »

Se succede, io sono qui con teI bambini assistono spesso – nella realtà o attra-

verso i media – a catastrofi e disgrazie. E allora pos-sono spontaneamente chiedere: «Può succedere anche a me?». È bene rispondere con sincerità, ma senza far mancare vicinanza e sostegno personale: «Può succe-dere, ma se succede, io sono qui con te».

Se ci si sente insicuri nella risposta, può essere una buona strategia rispondere con altre domande: «Quan-do muoio, fanno anche a me il funerale?». «Come vor-resti che fosse il tuo funerale?». Oppure: «La nonna adesso è in cielo? Com’è lì?». «Secondo te? Come te lo immagini?». In questo modo il bambino si sente anzi-tutto riconosciuto nelle sue domande e, in secondo luo-go, autorizzato e legittimato a esprimere le sue fantasie e le sue paure, che vanno accolte con delicatezza.

Il bambino fa esperienza che le sue domande vengo-no prese sul serio, che non è troppo piccolo per porre certe domande.

Rispondere, come spesso si fa: «Ma che domande fai? Sei troppo piccolo per queste cose!», significa non riconoscere i bisogni del bambino e mantenerlo nella

sua ignoranza e nelle sue paure.D’altra parte, se non è buona cosa sottrarsi alle do-

mande del bambino sulla morte, può essere altrettanto controproducente esagerare nelle risposte, fornendo al bambino più informazioni di quanto egli stesso richie-da e di quanto sia in grado di elaborare.

Alle risposte chiare e sincere si deve sempre accom-pagnare una vicinanza emozionale e fisica, facendogli capire che si rimane sempre a disposizione: «Se vuoi sapere altre cose, vieni pure da me».

Di fronte al luttoCome ormai sappiamo da numerosi studi, il supera-

mento del lutto avviene sempre attraverso alcune fasi ricorrenti – anche se non sempre si susseguono rego-larmente una dopo l’altra.

Vi è anzitutto la fase del rifiuto: il bambino non vuo-le ammettere che qualcuno a lui caro sia morto, evita di affrontare il fatto, evidentemente perché non riesce ancora, emotivamente, a reggerne l’enorme peso.

Una fase successiva può essere l’idealizzazione della persona morta, fino a una sorta di identificazione con il defunto, che sovente si alterna a uno speculare sminui-mento della persona morta, spesso accompagnata dalla rabbia per essere stati abbandonati.

Un’alternanza di emozioni e sentimenti forti e dolo-rosi, che rappresenta il percorso abituale per la cosid-detta elaborazione del lutto. Se questo processo – che è sempre estremamente doloroso e impegnativo – va a buon fine, può avvenire allora una sorta di riavvicina-mento al defunto a un livello qualitativamente nuovo.

La persona morta non c’è più, eppure continua a essere presente, anche se in modo diverso. Restano, ovviamente, delle cicatrici: la perdita non può essere annullata. Ma può essere integrata e accolta come oc-casione per sviluppare altre modalità di relazione.

A questo proposito, la testimonianza degli adulti è fondamentale: sono loro i primi a essere chiamati a ela-borare il lutto, superandolo e tornando ad aprirsi alla vita.

Gli studi di psicologia della religione ci hanno aiutato a comprendere che le prime raffigura-zioni che il bambino si costruisce di Dio sono

segnate da un forte antropomorfismo. Non dobbiamo considerare tutto questo come qualcosa di sbagliato o di negativo. Certo, siamo ancora lontani da una concezio-ne spirituale di Dio, ma proprio nell’aiutare il bambino ad avviarsi verso una progressiva e graduale spiritua-lizzazione di Dio consiste il nostro compito di adulti. Già sapendo, tuttavia, che il bambino comunque non ci potrà arrivare prima dell’adolescenza.

Dio, secondo le esperienze primarieChe cosa intendiamo per antropomorfismo. Inten-

diamo la tendenza generale di tutti i bambini a percepi-re e a raffigurare Dio secondo schemi dedotti dalle pro-prie esperienze umane, specie in dipendenza da schemi immaginativi e affettivi, per lo più inconsci, legati alle esperienze primarie, cioè alla relazione vissuta con i propri genitori. Il bambino tende ad attribuire a Dio qualcosa che rimanda alla qualità della relazione che sta vivendo con i propri genitori. Esempi di antropomorfi-smo sono espressioni di questo tipo: «Dio ha la barba»; «Gesù obbediva alla mamma»; «Gesù vede attraverso i muri». Se poi chiediamo al bambino di disegnarci Dio, ecco che con buona probabilità lo raffigurerà come un vecchio che sta su una nuvoletta nel cielo e così via.

Le ricerche di psicologia della religione hanno mo-strato come questo tratto della religiosità del bambi-no evolva, a sua volta, attraverso varie fasi. Anzitutto emerge un antropomorfismo fisico (attorno ai 3-5 anni): Dio è un vecchio, con una grande barba bianca, e vive in un giardino. Un esempio è il seguente: «Caro Dio, ho vi-sto la chiesa di san Patrizio la settimana scorsa quando siamo stati a New York. Vivi in una bella casa!».

Un supereroe, il puro spiritoUn secondo sottostadio è costituito dal cosiddetto

superantropomorfismo (attorno ai 6-8 anni): Dio è per-cepito come una specie di supereroe, un uomo grande e potente che vede tutto, come un grande mago, anche attraverso i muri. A questo livello, tuttavia, inizia a comparire un’embrionale coscienza di un’alterità. Dio è già, comunque, qualcosa di ‘altro’ rispetto a un semplice uomo.

Il terzo sottostadio è costituito da quello che vie-ne chiamato pseudoantropomorfismo (siamo attorno ai 9-11 anni): Dio non si può disegnare né descrivere con parole; tuttavia Dio rimane ancora ancorato a matrici concrete, anche se negativamente («Dio non muore, non ha età, non ha corpo...»). Il bambino si sta avviando ver-so una progressiva spiritualizzazione dell’idea di Dio. Ecco due esempi significativi: «Caro Dio, ci hanno detto di scrivere alla nostra persona preferita. Io scrivo a te, anche se non puoi rispondermi dato che non sei una per-sona. Ma io volevo scriverti comunque. Con affetto. Ka-ren». Ecco, la bambina sa che Dio non può risponderle, perché non è una persona; ma non sa ancora come raffi-gurarlo e così, alla fine, decide di scrivere ugualmente. «Caro Dio, quando è il momento migliore per parlare con te? So che sei sempre in ascolto, ma quando ascolti con particolare attenzione ad Ann Arbor, nel Michigan? Tuo Allen». Il bambino sa che Dio è sempre in ascolto - così gli hanno detto e insegnato - ma non ha ancora le nuove categorie per pensare questa cosa e così ritorna ai suoi vecchi schemi mentali.

Da tutto ciò emerge come, di fatto, non sia possibile per un bambino avere un concetto di Dio come puro spirito prima degli 11-12 anni. Certamente, anche noi adulti utilizziamo categorie antropomorfe per parlare di Dio: non è possibile infatti parlare di Dio se non con un linguaggio umano. Ma la differenza consiste nel fat-to che l’adulto utilizza il registro simbolico: egli sa che Dio non coincide con l’immagine utilizzata, ma è oltre e al di là. Il bambino non ancora.

Che faccia

ha Dio? Tutte le domande del bambinosono da prendere seriamente.

Soprattutto quelle che riguardanola morte. Come e perché?

Io morirò? Voi morirete?

le domande dei bambini

Di età in età, di domanda in domanda, il bambino arriva a una progressiva spiritualizzazione dell’idea di Dio. Come accompagnarlo?

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- pastorale familiare e di coppia - pastorale familiare e di coppia - pastorale familiare

S tiamo trascorrendo i nostri giorni come in mezzo al guaio. Le certezze e le isti-tuzioni del passato vanno in frantumi. I

nuovi modelli di vita affettiva, familiare e socia-le sollecitati dalla nuova cultura dei diritti sog-gettivi, non hanno ancora la consistenza di un costume riconosciuto e sviluppato. Si diffonde piuttosto l’impressione di essere entrati in un mondo nuovo, in uno spazio aperto e planeta-rio. Tutto è rapidamente cambiato: l’identità personale, il rapporto al corpo, il legame con gli altri, il modo di considerare la società. Si pro-duce un criterio sconosciuto di rappresentare se stessi e di rapportarsi con il prossimo. L’indivi-duo si pone come valore assoluto. Sembra finita l’epoca dell’oggettività dei valori: vale ciò che «conta per me». La scelta è lasciata all’individuo. Ognuno è sollecitato a inventarsi, perché l’iden-tità non è più donata dall’appartenenza sociale ma autocostruita. Si cerca di descrivere ciò che è sotto gli occhi di tutti come individualismo, narci-sismo, edonismo, ma questi concetti non rendo-no piena ragione di un mutamento profondo che sfugge alle definizioni semplici e a senso unico, e non aiutano a uscire dalla confusione e da un diso-rientamento diffuso.

La radicalità dei cambiamenti la osservano soprattutto i genitori alle prese con i loro figli. Mutano le condizioni della procreazione e della nascita, cambiano le età della vita, sta avvenen-do una rivoluzione fondamentale nel rapporto tra i sessi. Venire al mondo voluti e desiderati è un’opportunità straordinaria, una vera conqui-sta della civiltà. Crescere liberi e autonomi è in-vece una fatica, dall’esito sempre più rischioso.

L’identità profonda di ogni persona è data dai suoi legami, dalla sua appartenenza ai mondi vitali delle famiglie. La nuova società definisce

gli individui tutti uguali davanti al diritto-dovere di essere se stessi, mentre diseguale, con ogni evidenza, è la capacità di scegliere le opportu-nità della vita e di costruire la propria persona. Questa diseguaglianza dipende sempre più dalla qualità dei legami, soprattutto dei mondi vitali, e dalle prerogative dell’educazione ricevuta.

L’educazione è da sempre considerata dalla Chiesa tanto importante da richiedere ai genito-ri di accettare un aiuto. Madrine e padrini sono le persone scelte per accompagnare e sostenere l’educazione cristiana.

Se è nuovo lo scenario della nascita, un com-pito nuovo attende anche i padrini. La tradizione della fede guida a scoprire questi significati inediti, così come il cambiamento della famiglia sollecita la catechesi a estrarre «dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).

Compito dei padrini è «presentare al battesimo, con i genitori, il battezzando bambino e parimenti coo-perare affinchè il battezzato conduca una vita cristiana conforme al battesimo e adempia fedelmente gli obblighi a esso inerenti» (CDC 872).

La fede, nella quale si celebra il battesimo, è la fede di tutta la Chiesa. I padrini, se scelti con cri-terio, rappresentano la tradizione della fede che supera l’appartenenza familiare. Essi sono degli accompagnatori. La loro fede sarà di grande aiuto ai piccoli che crescono, se li aiuteranno ad accor-gersi che il Signore abita in loro e che in questo consiste la vita cristiana.

La fede è un dono, ma il suo frutto è condizio-nato dalla risposta umana. I padrini, se credenti e consapevoli, aiutano i genitori nel compito edu-cativo che genera all’autonomia e non solo alla si-curezza affettiva. Sembra, infatti, che il papà non sia più «sufficiente» a liberare dalla simbiosi materna, che è diventata più forte e il padre culturalmente

più debole.Compito dell’educazione (quindi

anche dei padrini) è fondare la virtù dell’obbedienza a un orizzonte tra-scendente di valori e non al mero ade-guamento ai voleri dei genitori.

Essi sono presenze importanti e decisive nella vita dei figli, ben oltre l’infanzia. Senza autorevolezza, però, i genitori non costituiscono un punto di

riferimento sicuro. Nella nuova condizione della complessità, il compimento dell’autonomia ri-chiede tempi più lunghi, che la società concede senza restrizioni (l’adolescenza «interminabile»). Esigerebbe anche la presenza di modelli e di punti di riferimento che non costringano, ma facilitino la risposta personale alle domande dell’identità: «Chi voglio essere?», «Per quanto sta a me, quale tipo di mondo intendo costruire?».

I padrini possono costituire per i piccoli dei modelli di come la Parola di Dio possa aiutare le persone a rispondere alle domande grandi e importanti della vita e così «adempiere fedel-mente gli obblighi che derivano» dalle risposte della fede.

Non si può educare «a vuoto», senza regole, valori e tradizioni. Lo snodo delicato e decisivo della crescita si svolge sempre più al di fuori di punti di riferimento condivisi ed è lasciato alle scelte individuali (l’autonomia personale). L’in-dividuo, anche nell’età evolutiva in cui il proces-so di autonomia non è concluso, è lasciato solo. A lui è accordato il potere di decidersi da sé tra possibilità plurali («Puoi fare ciò che vuoi»). Gli è però anche addossata l’intera responsabi-lità («Se sbagli, le conseguenze ricadono su di te»). L’obbedienza è la virtù che suggerisce i comportamenti da tenere come adesione a un ordine di cose ritenute giuste e buone. Presup-pone, quindi, un buon radicamento nella comu-nità territoriale, dove i legami sono riconosciuti come beni essenziali.

L’obbedienza richiesta ai figli è questione di lealtà. È necessario imparare ad accettarsi come figli, persone che raggiungono la libertà attraverso l’interdipendenza, ammettere di avere dell’altro un bisogno non funzionale (se mi serve), ma costitutivo, senza il quale la persona non è.

Meritano particolare cura l’individuazione e la formazione dei padrini.

I bambini non hanno solo bisogno di perso-ne che «spieghino» che cos’è la fede, ma anche di testimoni che la facciano «vedere». I padrini potrebbero assumere così la figura antica del «mistagogo»: educatori nella fede che hanno fatto personalmente l’esperienza del Mistero e, quin-di, sono esperti nell’introdurre a esso.

Molti operatori pastorali si sono scoraggiati nella preparazione dei padrini, perché è davve-ro difficile trovare adulti credenti, capaci di farsi «mistagoghi». I genitori, spesso con convinzioni poco convincenti, continuano in maggioranza a richiedere il battesimo alla nascita dei loro figli. Anche la formazione dei padrini può contribui-re all’evangelizzazione delle nuove generazioni e alla dignità della celebrazione battesimale.

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Il linguaggio religioso immagina Dio in alto, là dove sale l’incenso e dove tende la fiamma.

Il vocabolario mondano, quando descrive l’autore-alizzazione, usa i v erbi «elevarsi», «salire», «cresce-re». Chi è riuscito nella vita è «salito in alto»; chi dev’essere ammirato si mette sul podio. Esiste una scala sociale, dove c’è chi sale e chi scende.

Le parole di Gesù sono molto diverse: «perder-si», «cadere in terra», «marcire», come avviene per il chicco di grano. Così il Maestro parlava della cro-ce, quando si a vvicinò alla passione (Gv 12,24). A pochi è dato capirlo. I discepoli, sconcertati, rispo-sero: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» . Capitava agli apostoli di discutere su chi di loro fosse più in alto. Essi coltivavano, anche dopo i fatti del Golgota, il sogno di stare accanto al trono del loro maestro, finalmente re (At 1,6). Gesù li richiamò con forza: «Perché ve ne state lì, a guardare in alto?» (At 1,11). Non avevano ancora capito che Dio si trova in basso, da quando, nella croce, il Cielo si è inabissato nell’oscurità della morte.

Dio si rivela al mondo nella forma dell’umiltà e della debolezza: questo è il fatto centrale del cristianesimo. La croce di Cristo dice tutto della fede cristiana: ne è il simbolo più completo ed eloquente.

I cristiani tracciano sul loro corpo il segno della croce perché in quel simbolo ricono-scono l’amore infinito di Dio che ha salvato il mondo con il dono del Figlio unigenito.

II Mistero della croce, figura di quest’amo-re, è così diventato fin dall’inizio immagine e storia di ogni atto d’amore perfetto. Che cosa sia l’amore, i cristiani lo osservano concreta-mente nella vicenda di Gesù. Non è data alcu-na possibilità di accedere all’amore che salva, se non dell’offrirsi del Cristo sulla croce.

I cristiani professano la potenza della croce di Cristo a causa della Pasqua: la pietra rotolata via e il sepolcro vuoto. Un amore senza mi-sura e senza confini come il Suo, non poteva soccombere alla morte (At 2,24). L’ora della gloria si è svelata quindi pienamente sul Gol-gota, quando Gesù ha consegnato la sua vita, amando fino all’abbandono (Mc 15,19).

La pazzia della croce (1 Cor. 1.23) raccon-ta la solidarietà totale di Dio con l’umanità, l’amore «sino all’estremo» (Gv 13,1). La croce è l’irrompere della vita dello Spirito nella real-

tà mondana, è l’unica vera novità della storia.

Ci s’immerge nel cammino di Dio attra-verso il battesimo, che abilita chi accoglie la grazia a seguire il co-

mandamento nuovo dell’amore.Dopo le ritualità della responsabilità geni-

toriale, le quali esprimono chiaramente che l’educazione cristiana ha bisogno dell’ordine trascendente della grazia, genitori e padrini, seguendo il gesto del ministro celebrante, tracciano il segno della croce sul loro bam-bino. Questo atto è una chiara professione di fede. Esso significa: «Signore, accetto di entrare nel mistero della tua croce. Intendo accompagnare la cresci-ta di questo bambino nella fede della tua morte e risur-rezione». Nel segno della croce è prefigurata l’immersione nell’acqua battesimale: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me». (Gal 2,20). Le parole che ac-compagnano il gesto esprimono, invece, l’es-senziale della conoscenza della fede: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». Senza le parole della fede, il segno, infatti, rimarrebbe incompleto. La trasmissione della fede avviene nel nome di un Altro. La fede è donazione, è trasmissione di un amore che proviene da al-trove: la comunione trinitaria. Il segno della croce conferisce, così, alla liturgia la dignità di «servizio di Dio», di culto spirituale, dove ciò che è dato in sacrificio è la vita stessa.

La croce tracciata sul corpo del bambino getta un fascio di luce decisivo sul compito educativo che i genitori si assumono, nella cri-si epocale che oggi lo investe. A questo non è sufficiente il dono affettivo che proviene dagli adulti. La guida genitoriale richiede anche il servizio dell’ autorevolezza, che proviene da altrove. L’obbedienza è la virtù che suggerisce i comportamenti da tenere come adesione a un ordine di cose ritenute giuste e buone, alle quali si sottomettono genitori e figli.

L’atteggiamento della pretesa e dell’indi-pendenza, contenuto nel capriccio («Lasciami fare ciò che voglio») dev’essere sma-scherato, perché nasce dal non accet-tare il proprio debito.

È una forma d’arroganza che preclude, insieme alla reciprocità del dono, ogni possibilità di crescita e di cambiamento: «Se basto a me stesso, perché cambiare?». La società

tratta oggi precocemente gli individui secon-do il principio dell’«autonomia personale». A ognuno è accordato il potere di decidersi da sé tra possibilità plurali («Puoi fare ciò che vuoi»). Gli è però anche addossata l’intera re-sponsabilità («Se sbagli, le conseguenze rica-dono su di te»). Nella transizione verso nuovi modelli familiari, le facili vie alternative all’ob-bedienza, che l’individualismo favorisce, ren-dono il cempito educativo dei genitori sem-pre più tormentato, faticoso, senza soluzioni. All’indipendenza dai legami non è subentrata, infatti, la libertà ma la società del controllo. Quando l’autorità non si radica più nella fa-miglia, ci sono altri disposti a sostituire imme-diatamente i genitori: l’allenatore in palestra, il leader del gruppo, la star dello spettacolo, il campione sportivo, le mode, la pressione commerciale.

Nella società del mercato si scambiano beni, ma non si creano legami. La competizio-ne alimenta la diffidenza e l’arroganza. Solo chi accetta di passare a un economia della gratuità e del dono può gradualmente approdare a una logica altra. Il mondo liquido delle relazioni inaffidabili espande la domanda angosciata di sicurezza. La virtù dell’obbedienza promuove una società in cui si coltiva l’attesa di un futuro migliore e rende vivi i motivi della speranza. Dall’obbedienza nascono quindi nuovi rap-porti di umanità, come dal battesimo scatu-risce una nuova filiazione. L’educazione delle famiglie dei battezzati è fondata sul mistero della Croce, che si attualizza quotidianamente nel sacrificio dell’educazione. Non dimentica che l’amore di Dio è sicuro e gratuito, ma è grazia a «caro prezzo». La celebrazione bat-tesimale ha bisogno di tornare all’essenzialità della fede, impedendo che l’azione liturgica si riduca a spettacolo del sacro. La pastorale sta comprendendo che, pur rivolgendosi a tutti, non può limitarsi ai «bisogni» religiosi delle famiglie. Deve continuare a proclamare il pa-radosso dell’umiliazione della croce.

Nel compito di educare, i padrini del battesimo sono presenze importanti e decisive oggi.

Padrini: accompagnatori,

modelli, mistagoghi

Ritualità e famiglia La croce un amore senza misura

Padrini e genitori fanno il segno di croce sulla

fronte del bambino.

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scuola parrocchiale don orione - scuola parrocchiale don orione- scuola parrocchiale don orione- scuola parrocchiale don orione- scuola parrocchiale

3. Collaborazione con le famiglie per stabilire un’alleanza costruttiva tra stirpi diverse (il ragazzo vede il mondo così come vede la sua famiglia).

4. Corretta formazione alla visione di un uomo vitale e solidale.5. Attenzione alla debolezza superando il disprezzo verso chi non ha qualità fisiche e mentali di eccellenza che

portano spesso all’emarginazione. È invece il rapporto con il debole che UMANIZZA.

INTERVENTO DOTTOR MAVIGLIA – Provveditore (U.S.T.)Sembra che la scuola stia vivendo un momento di smarrimento e di marginalità nel suo ruolo in una realtà in cui

i mezzi di comunicazione sono diventati talmente pervasivi da “metterci nel mondo, togliendoci dal mondo” per il venir meno delle relazioni interpersonali. La ridondanza di fonti rischia inoltre di mandare in corto circuito il pro-cesso di formazione.

In tale contesto, la scuola oggi assume una maggior importanza, non è più l’unico “sito” dispensatore di conoscen-za, ma ha la funzione di dare chiavi di lettura interpretativa della realtà.

Ambizione della scuola non è dare ulteriori dati, ma dare criteri per organizzarli e procedure che permettono di “leggere” la realtà. La scuola deve essere palestra formidabile del vivere quotidiano perchè le conoscenze diventino presupposto per la formazione dell’uomo/cittadino, offrendo modelli di vita DEMOCRATICA e SOLIDA-RISTICA. L’educazione sia dunque un processo di UMANIZZAZIONE e gli educatori veicoli di messaggi improntati a OTTIMISMO – SPERANZA E FIDUCIA.

in dialogocon la scuola

INTERVENTO DI ITALO FIORIN (Presidente corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria

UNIVERSITA’ LUMSA – ROMA)La scuola oggi sta sperimentando un senso di inadeguatezza ri-

spetto ai compiti sempre più complessi che si trova a fronteggia-re; superato il modello trasmissivo si rende necessario passare dalla

scuola dell’insegnamento a quella dell’apprendimento. Col passaggio a quella che viene definita post-modernità, l’economia resta il paradigma

culturale dominante, un’economia di mercato che sembra non conoscere limiti nè spaziali nè etici. L’economia della conoscenza ha prodotto una rilevante tra-

sformazione delle richieste nei confronti della formazione scolastica, ripensata tenen-do conto di uno scenario radicalmente trasformato con i tratti delle complessità, del nuovo

modello di produzione, della globalizzazione e dell’incertezza.Nel nuovo scenario l’educazione si trova a fronteggiare nuove sfide, il funzionalismo, il multiculturalismo, l’artifi-

cializzazione, il narcisismo, l’individualismo competitivo.Maritain sosteneva che l’educazione deve aiutare la “persona” a diventare più umana, deve occuparsi della

persona inserita in una comunità attenta al bene comune e con particolare cura della fragilità. È dovere della scuola aiutare ad apprendere, fare, convivere – vivere; sviluppare la motivazione, aiutare a capire e gestire le emozioni, considerare le differenze individuali che sono “normalità” all’interno di una classe. Il problema dell’ado-lescente è nascere socialmente, uscire dal guscio iperprotettivo della famiglia, dall’assistenzialismo domestico, diventare responsabile ed essere sostenuto nel commiato dall’infanzia. Altra sfida, è l’individualismo competitivo, laddove la competizione viene vista come leva per raggiungere l’eccellenza, bisogna però capire che saper com-petere è importante, ma nella vita, a casa e a scuola è meglio imparare a cooperare.

Se l’educazione torna ad essere la bussola della scuola, allora sarà in grado di rispondere alle sfide a cui è sottoposta rilanciando una sfida più alta, nella direzione della costruzione di un nuovo umanesimo. I tratti carat-terizzanti la sfida dell’educazione sono sintetizzabili nelle seguenti parole “chiave”: PERSONA chi educhiamo? A chi stiamo parlando? Diamo centralità alle relazioni interpersonali, alla differenza solidale, all’incontro dove l’ultimo diventa prossimo.

Ciò è possibile in una relazione autorizzante di adulti competenti in ascolto e accompagnamento preparati e capaci di indirizzare verso traguardi importanti le nuove generazioni.

Da superare il pensiero di omologazione e virtualizzazione con ripetizione di verità vuote e trite che impedisco-no il passaggio dalla semplice conoscenza alla saggezza. “Apprendere serve, ma servire insegna” e come diceva San Francesco, non dobbiamo accanirci contro le tenebre, basta accendere la luce! La scuola deve quindi suscitare curiosità, vivere i valori della pace, della solidarietà del volontariato, della consapevolezza facendo sperimen-tare una cittadinanza “attiva”.

INTERVENTO DEL VESCOVO LUCIANO MONARICosa dà la Chiesa alla scuola e cosa si aspetta? Questo il duplice interrogativo sul quale il vescovo ha avviato

il suo intervento.Cosa dà la Chiesa?1. Dà Persone con un bagaglio di esperienza di preghiera, di Vangelo, di Gesù, di comunità cristiana; persone

adulte capaci di amare e di aprirsi alle relazioni.2. Dà Fede, cioè quella fiducia originaria nei confronti di una realtà conoscibile e positiva tale da arricchire la

mia e altrui vita, quella fiducia che mette in movimento il desiderio di conoscere e operare a fin di bene.3. Dà Amore oblativo elemento di trascendenza umana che agisce trasformando la realtà che ha intorno. Signi-

fica donare la vita senza la pretesa di un ritorno. E’ quello che Paolo VI chiamava la “civiltà dell’amore” come capacità di relazione, accoglienza, collaborazione.

4. Dà Valori che si oppongono ai rischi delle dipendenze che diano alla persona la forza di prendere in mano la vita con la capacità di pensare e scegliere ciò che è bene.

Cosa si aspetta la Chiesa dalla scuola?1. Aiuto alle nuove generazioni ad entrare in un mondo UMANO2. l’auto appropriazione delle persone che conoscano, pensino, agiscano creando spazi di dialogo.

NEWS DALLA SCUOLA DON ORIONEGRANDE EVENTO: Lunedì 28 aprile ore 16,00 il vescovo Luciano visiterà la nostra scuola!

CONTIBUTI ALLE FAMIGLIE PER LE ISCRIZIONISicuramente a qualcuno piacerebbe iscrivere il figlio alla scuola pubblica paritaria, ma ritiene di non avere sufficienti risorse economiche. Un grande aiuto viene offerto da :

1.REGIONE LOMBARDIA con la dote scuola suddivisa in due settori: sostegno al reddito e sostegno alla scelta (il 60% delle nostre famiglie ha usufruito quest’anno della dote scuola, con un abbattimento del costo della retta dal 25% al 50%) Sono già aperte le domande, basta procurarsi la dichiarazione ISEE rilasciata dal Comune di appartenenza o da un Caf, quindi effettuare la domanda on line sul sito Dote scuola oppure facendosi aiutare dalla segreteria della nostra scuola.

2. LA DIOCESI DI BRESCIA ha istituito un aiuto alle famiglie erogando due tipi di contributo :a. sostegno alla scelta della scuola cattolicab. riconoscimento del meri-to scolastico (per alunni del-la scuola media con la media dell’8/9/10Anche in questo caso è ne-cessario presentare domanda presso l’Ufficio scolastico dio-cesano, corredata di dichiara-zione Isee.

Anche la scuola parrocchiale è nostra: sosteniamola!

Scuola don OrioneSCUOLA PRIMARIA

E SECONDARIA DI PRIMO GRADO

paritarie via Don Orione 1 Botticino Sera

Parrocchie di Botticino

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GREST 2014Il tema del Grest 2014 è l’abitare.

Esso si pone in continuità con quanto proposto gli anni scorsi, completando per così dire il ritmo di una nuova creazione (quello che ci regala il prologo dell’evangelista Giovanni) in cui la parola prende corpo e “pone la sua tenda” nella vita degli uomini, “viene ad abitare in mezzo a noi” (cfr. Gv 1,14).

Si ha la pretesa di incrociare un’altra dimensione fondamentale dell’esistenza degli uomini qual è quella dell’abitare. Come la vita non può prescindere dal parlare e dal porre gesti, così non può fare a meno di “trovare casa”, di “fare casa” su questa terra in cui Dio ci ha collocato.

In altre parole, per entrare in relazione con sé, con gli altri e con Dio occorrono certamente parole e gesti efficaci, ma se questi non prendono dimora, non si radicano nelle pieghe dell’esistenza umana, rischiano di essere lasciati alla mercé del tempo che passa e di scivolare via come l’acqua sulla roccia. Se si vuole continuità, occorre prendere dimora, occorre abitare e far abitare.

I 4 obiettivi di fondo che vogliamo far emergere partendo dal tema dell’abitare, vengono sbriciolati ognuno in 5 intenzioni edu-cative molto semplici, graduali e vicine all’esperienza di Grest che ogni bambino fa. Nascono però da uno sguardo più ampio, che ha voluto provare a descrivere il progetto di Dio sull’uomo in 4 corrispondenti movimenti legati all’abitare e che esprimono tutti un atteggiamento da assumere. La storia, i giochi, la preghiera, le ambientazioni e le attività saranno lo strumento per raggiungere, nello stile del Grest, questi obiettivi.

grand’estate 2014 - PARROCCHIE DI BOTTICINOIl programma delle parrocchie ricco di inziative estive rivolte ai ragazzi nei nostri oratori con il Grest, le settimane

in montagna per i preadolescenti, adolescenti e le esperienze forti per i giovani.Le parrocchie sono molto attente a valorizzare il tempo estivo promuovendo iniziative che diano la possibilità a chi

vi partecipa di fare esperienze importanti per la propria crescita umana e cristiana.

1 - ENTRARE - “Sono alla tua porta e busso” Inizia una nuova esperienza, il Grest. Per qualcuno è del tutto nuova. Eppure, come ogni cosa nuova, ha la sua parte di

mistero e di fascino. Ogni entrata, ogni ingresso, si gioca tra il timore e l’entusiasmo per ciò che è sconosciuto. Intenzioni educative:

a) Scoprire di essere attesi. Iniziando il Grest ci accorgiamo di una dimensione che ci riguarda tutti: c'è un posto già pronto per noi, il luogo che ci sembrava sconosciuto ci sta invece invitando ad entrare. b) C’è un posto già preparato per te. Per chi era l'invito? Per tutti, anche per te. C'è il tuo nome nei gruppi, c'è il tuo volto di fronte ai sorrisi dei tuoi animatori. Tutto pronto per te. c) Sei ospite. Questo luogo è per te ma non è tuo: impariamo l'atteggiamento dell'ospite che non pretende ma chiede, che non si appropria, ma condivide il poco che ha insieme agli altri. d) Siamo tutti ospiti. L'essere ospiti ci rende fratelli, toglie le nostre pretese superiorità: a volte ci sentiamo stranieri di fronte alle novità eppure sperimentiamo di essere accolti.

e) Imparo ad essere grato. Di fronte all'inattesa scoperta del dono, che è necessario per poter vivere bene, manifestiamo la gratitudine dell'es-sere ospiti.

Al termine di questa settimana esprimiamo la nostra gratitudi-ne per quanto è stato preparato per noi. 2. CUSTODIRE - “È bello per noi essere qui”

Una volta entrati, abitiamo l’esperienza del Grest. Per dirla con i nostri animatori: “ci stiamo dentro”. E l’abitare è costituito essen-zialmente da due dimensioni: il custodire e il coltivare. La prima delle due dimensioni nasce dallo stupore per ciò che si è ricevuto: siamo riconoscenti e per questo ci prendiamo cura delle nostre case, dei nostri Grest, dei nostri ragazzi.

Intenzioni educative: a) Darsi tempo. Siamo al Grest, ci siamo dentro appieno: vale la pena darsi tutto il tempo che serve, con la pazienza, senza il bisogno di scoprire tutto e subito. b) Darsi le regole. Appena abbiamo scoperto che siamo in tanti ecco che ini-ziamo a litigare: alcune regole, alcune attenzioni e atteggiamenti di cura ci aprono alla custodia di quanto ricevuto. c) Starci davvero. Vivo a pieno il luogo in cui siamo, mi sento responsabile di quello che ho ricevuto, ci sono con tutto me stesso. d) Starci insieme. Non sono solo, provo a cogliere, ascoltare e condividere i sen-timenti degli altri, provo a scoprire che è meglio vivere le cose belle insieme ai miei compagni. e) Contemplare. Contempliamo quanto abbiamo ricevuto - attraverso le regole che ci siamo dati scopriamo il valore dello stare insieme - insieme proviamo stupore per tutto il bello che stiamo ricevendo!

Al termine di questa settimana siamo stupiti di fronte alla bellezza...

3. COSTRUIRE - “Frutto della terra e del lavoro dell’uomo” Ciò che ci ha accolto, ciò che abbiamo ricevuto e contemplato non è qualcosa di freddo e intoccabile: ci è dato perché

lo possiamo rendere ancora migliore, con il nostro lavoro. Abitare significa quindi coltivare, costruire, trasformare. Abitare vuol dire lasciare segni. Il Grest diventa più nostro e più umano dopo che ha incontrato le nostre mani.

Intenzioni educative: a) Ci metto le mani. Agire su un luogo dove viviamo vuol dire farlo nostro, non nel senso di appropriarcene, ma nel senso di sentir-cene responsabili . Così è del nostro oratorio che ci sta ospitando. b) Ci metto le mie mani. Io cambio il mio Grest dove vivo, ma il Grest cambia me, mi costringe a dare il meglio, a accettare i miei limiti, ad essere più attento agli altri. c) Ci mettiamo le mani per... Vogliamo rendere la nostra casa, il nostro Cre-grest, il nostro oratorio migliore non solo per me ma per noi: accanto alle case si costruisce la piazza, la chiesa... d) Ci mettiamo le mani pensando a... Non siamo il fine di tutto, non possiamo dimenticare che ci sarà sempre qualcuno dopo di noi: lavoriamo per rendere il nostro oratorio più sicuro, più abitabile, più bello per chi verrà dopo di noi. e) Le mani che ci abbiamo messo diventano storia. Quello che abbiamo ricevuto e quello che consegniamo agli altri, anche nella piccola storia dei nostri Grest, costituisce la storia della nostra comunità.

Al termine di questa settimana abbiamo capito che possiamo fare grandi sogni e progetti ma sono il nostro impegno e la nostra fatica che li rendono concreti e li consegnano agli altri. Ci siamo scoperti intraprendenti. 4. USCIRE - “Andate per le strade di tutto il mondo”

La storia non finisce. Le esperienze che abbiamo fatto non sono uno scrigno dei ricordi da chiudere e da contemplare, ma sono un bagaglio che ci consente di intraprendere nuovi viaggi, nuove avventure, di progettare un futuro più affascinan-te. La terra non è la nostra ultima casa.

Intenzioni educative: a) La storia non finisce. L’esperienza del Grest che abbiamo vissuto, le cose che abbiamo costruito hanno dentro qualcosa di noi che lasciamo agli altri. b) Ora che il Grest sta finendo ho voglia di guardarmi dentro per verificare se davvero sono cambiato? Sono stato disponibile ad accogliere il nuovo che ho incontrato e che mi ha trasformato? c) Sentiamo il richiamo della ripartenza, il nostro essere pellegrini, il nostro voler andare: è il momento di salutare, è il momento di ripartire. d) Le esperienze che abbiamo fatto ci aiutano a non ripartire senza meta: siamo in grado di progettare un nuovo viaggio, una nuova partenza, una nuova entrata, uno stare nuovo e diverso. e) Quello che abbiamo ricevuto, contemplato e costruito diventa occasione ora perchè entriamo in un’ottica di gratuità. Vogliamo essere ospiti ed abbiamo imparato ad ospitare.

Al termine di questo Grest in cui ho provato la gratitudine per i miei animatori, in cui mi sono stupito per la bellezza e la gioia che ho conosciuto, in cui ho sperimentato la mia intraprendenza scopro che donare con gratuità è quello che mi rende davvero in grado di abitare questo mondo che ci è stato donato.

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incontri genitori (1)dei ragazzi 2 media

“ACCOMPAGNARE LA MATURAZIONE PSICO-SESSUALE

DEI FIGLI NELL’OTTICA DELL’AMORE CRISTIANO”

Ultimo incontro sull’importante compito di educare i figli all’amore e alla sessualità.

- giovedì 8 maggio 2014 - ore 20.30 “STILI EDUCATIVI

GENITORIALI EFFICACI”dott.ssa Chiara Sandrini

presso oratorio Botticino Sera

incontri genitori (2)dei ragazzi 3 media e 1 ̂superiore

“NAVIGARE A VISTA?COME AIUTARE

GLI ADOLESCENTI AD AFFRONTARE

IL MARE DELLA VITA”“

Ultimo incontro sull’importante compito di edu-care i figli nell’eta’ dell’adolescenza.

Venerdì 9 maggio 2014 - ore 20,30“L’APPRODO: LA COSTRUZIONE

DELL’IDENTITÀ NELL’ADOLESCENZA”dott.ssa Laura Piccinelli,Psicologa

presso oratorio Bottiicino Sera

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ORATORIO SAN GALLO 9-20 GIUGNO (da lunedì a venerdì - orario 13,30-17.30) Due settimane di giochi e allegria per stare insieme e cominciare alla grande la nostra Estate.

ORATORIO MATTINA 23 GIUGNO - 11 LUGLIO (da lunedì a venerdì - orario 9,00-17.30) Squadre, punteggi e lavori di gruppo, una grande sfida per divertirsi e riflettere,ma soprattutto per crescere insieme. ORATORIO SERA 14 LUGLIO - 1 AGOSTO (da lunedì a venerdì - orario 9,00-17.30) Un nuovo modo di pensare l’estate. Durante le giornate un aiuto per concludere i compiti di scuola. Il pomeriggio non un percorso unico per tutti ma una serie di laboratori durante i giorni della settimana a cui le famiglie potranno iscrivere i figli liberamente. Laboratori Sportivi - Laboratori Artistici - Laboratori Manuali - Laboratori MusicaOgni partecipante quindi frequenterà i laboratori a cui si iscrive e i genitori potranno decidere quanti e quali laboratori vogliono attivare. CAMPUS don Orione 18 AGOSTO - 5 SETTEMBRE (da lunedì a venerdì - orario 8,30-17.30)Attività di recupero scolastico e pre-scuola.

GREST 2014 Venne ad abitare in m

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cregrest 2014

©PARROCCHIE DI BOTTICINO

CAMPI ESTIVI L’estate è alle porte. Per i ragazzi la scuola sta per finire, li attende un ultimo sforzo con gli esami, poi le vacanze … il tempo libero, le giornate con gli amici ... e per i più fortunati il mare o altre lo-

calità di villeggiatura.Nella seconda metà del mese di luglio vengono organizzati dalle parrocchie di Botticino i Campi

Estivi in località montana che coinvolgono in date diverse e luoghi diversi i ragazzi delle scuole fine prima, seconda e terza media, e adolescenti prima e seconda superiore.

I Campi sono un esperienza di “vita vera”. Un insieme di giorni (una settimana) dove si vivono le re-lazioni di amicizia, il gioco, la riflessione, il lavoro di gruppo, la gita ... la bellezza dello stare insie-

me, vivendo in pienezza ogni giornata in un paradiso naturale. Dice un proverbio “Non sprecare tempo perchè il tempo non conosce retromarcia”.

A breve le date, i luoghi e le modalità per le iscrizioni.

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Ogni chiamata spinge ad uscire da se stes-si, ogni vocazione è per un dono da offrire. La Chiesa è convocazione di chiama-ti per andare verso l’altro e verso l’Altro… che si incontra sempre in periferia.E poiché nessuno è lontano dal Cuore di Dio, ogni volta che l’incontro avviene, ritor-niamo al Centro della Vita: esistere per Amore.

DIOCESI - ZONA PASTORALE

Incontro...al limiteitinerario di spiritualità per ado e giovani

dal Convento Frati di Rezzato al Santuario di S.Arcangelo Tadini a Botticino Sera sabato 17 maggio

Giornate di spiritualità per giovani presso l’Eremo di Bienno

VERSO TEmeditazioni del Vescovo Luciano

25-27 aprile 2014

NELLE PARROCCHIE DI BOTTICINOdurante la settimana varie opportunità

di incontro di formazione presso l’oratorioper adolescenti ogni giovedì e venerdì ore 20,30per giovani ogni venerdì ore 20,30

x credere x cercare x condividere

proposte di qualitàper adolescenti e giovan

Progetto Giovani & Comunitàquattro mesi di esperienza per i giovani e le giovani di età

compresa tra i 18 e i 28 anni che, attraverso la vita comunitaria e il servizio, si confrontano sulle proprie scelte di vita

ispirate ai valori cristianiinfo: Ufficio Caritas 030.3757746 Ufficio Vocazioni 030.3722245

Giornata della gioventùsabato 12 aprile Veglia delle Palme

domenica 13 aprile festa in parrocchia

Pellegrinaggi per giovani27-30 giugno 2014 Ti seguo… a ruota (VI edizione)Pellegrinaggio in bicicletta con soste di riflessione, preghiera e testimonianze ORA et… “pedala”

7-14 agosto 2014 sui Tuoi passi (IV edizione) Pellegrinaggio a piedi in Terra Santa sui luoghi di Gesù con soste di riflessione, preghiera, condivisione, testimonianze e servizio

gruppo vocazionale diocesanoper giovani dai 18 anni che non escludono la vocazione sacerdotale

presso il Seminario diocesano una domenica al mese dalle ore 12.30 alle 18.00

il PANE che rimane e la PAROLA che invia

25-27/4 - 25/5 - 22/6/2014

Corsi per animatori oratorio, per chi vuole fare esperienza in missione,

per chi vuole specializzarsi in teatro, animazione e tecniche della comunicazione....informazioni presso le parrocchie

Esperienze di carità, di festa,di fraternità, di divertimento

Emmaus

gruppo vocazionale diocesano per le giovani e i giovani dai 18 anni aperto al discernimento di tutte le vocazioni (vita matrimoniale, consacrata, missionaria, diaconale, presbiterale… ) una domenica al

mese - dalle 9 alle 17.00 il percorso è condiviso con l’Ufficio Missionario

ESTRO-VERSI18 /5/ 2014 UN DONO DA CONDIVIDERE

Comboniani – Limone sul Garda

Sichar

ESPERIENZE ESTIVEDI QUALITA’ PER GIOVANIinformazioni presso l’oratorio

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PARROCCHIE DI BOTTICINO

viaggi-pellegrinaggi 2014ROMA 26 - 27 - 28 MAGGIOANCORA POSTI DISPONIBILI Informazioni e prenotazioni presso:-segreteria Unità Pastorale Tel 030 2692094

TERRASANTA 9-16 GIUGNOANCORA POSTI DISPONIBILI

ROMA 23 - 27 GIUGNOInformazioni e prenotazioni presso:- Sig Benetti Battista Tel 030 2190738-segreteria Unità Pastorale Tel 030 2692094-parroco don Raffaele 3283108944richiesto all’atto dell’ iscrizione un versamento di € 100,00

FESTE NELLE PARROCCHIEUNITA’ PASTORALE A BOTTICINO SERA

17-18-19-20-21 maggio

ORATORIO A BOTTICINO MATTINA

4-7 luglio

PARROCCHIA S.MARIA ASSUNTABOTTICINO SERA

14-15 agosto

SAN BARTOLOMEOPARROCCHIA SAN GALLO

22 - 31 agostoSAN FAUSTINO AL MONTE

5-6-7 settembre

SAN NICOLA9-10 settembre

16 al 22 giugno 2014 6° torneo di STREET SOCCER

presso l’oratorio di SAN GALLO.

L’ormai collaudato torneo si aprira’ anche a donne e

bambini in giorni a loro dedicati. Costo iscrizione euro 25 a squadra.

Donne e bambini iscrizione obbligatoria e gratuita.Per info e iscrizioni

3200430683 Michele.

RACCOLTA FERRO E TAPPI

Le parrocchie di Botticino, attraverso i volontari, riprendono la raccolta di materiali ferrosi. Le fa-miglie o ditte che hanno ferro, alluminio, ottone...ecc. che vogliono eliminare, possono contattare i seguenti numeri telefonici 3338498643 oppure 3283108944, o presso la segreteria dell’Unità Pa-storale 030 2692094 per accordarsi sulla modalità del ritiro che può avvenire tramite le persone inca-ricate o indicare il luogo della raccolta.Si raccolgono anche tappi di plastica che possono essere direttamente consegnati presso gli oratori di Botticino.Il ricavato della vendita servirà per le necessità delle tre parrocchie.

PARROCCHIE DI BOTTICINO USO BOTTICINO

IV° TORNEO NOTTURNO DI CALCIO PRESSO ORATORIO DI BOTTICINO SERA

CATEGORIA PULCINI 2003-200423-26-28-30 MAGGIO 5-7GIUGNO dalle ore 19,15

CATEGORIA PULCINI 2005-200622-24-27-29-31 MAGGIO 6 GIUGNO dalle ore 19,15

II° TORNEO DELL’UNITA’ PASTORALEPRESSO ORATORIO DI BOTTICINO SERA

TRIANGOLARE DI CALCIO OPEN A 7SQUADRE PARTECIPANTI

U.S.O.BOTTICINO-U.S.O.BOTTICINO DUMPER- SAN GALLO

MEMORIAL ANNA DEMETRIO E FAUSTOPRESSO ORATORIO DI BOTTICINO SERA

QUADRANGOLARE CATEGORIA PULCINI 20033-7 GIUGNO

II° TORNEO USO BOTTICINO DUMPERPRESSO ORATORIO DI BOTTICINO MATTINA

TORNEO NOTTURNO DI CALCIOCATEGORIA OPEN A 7

DALL’ 1 AL 6 LUGLIO ALLE ORE 20,30

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