Partendo dunque dallo studio dei primi socialisti utopisti ...socialismo utopistico antistatalista....
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Partendo dunque dallo studio dei primi socialisti utopisti come C. Fourier, R. Owen, C.H. de Saint-
Simon e passando per il pensiero libertario di P.J. Proudhon, P. Kropotkin e G. Landauer e la critica
marxiana ed engelsiana della società capitalistica, Buber arriva ad analizzare nel dettaglio la società
centralizzata portata avanti sulle basi già presenti nel pensiero di Marx nell'esperienza di governo di
Lenin in Russia dopo la presa del potere.
Mettendo in luce gli elementi del fallimento sovietico già intrinsecamente presenti sin dall'inizio
della rivoluzione, che volutamente trascurò il potenziale ricostruttivo societario delle comuni rurali
agricole e dei soviet, passa poi ad analizzare le possibilità che il movimento di rioccupazione della
Palestina da parte di idealisti pionieri ebrei provenienti dal mondo intero apre all'umanità tutta in
senso utopistico ma pragmatico allo stesso tempo.
Quindi, pur accogliendo la critica già presente nel Manifesto, per cui nella società capitalistica il
valore dell'uomo è ridotto a mercato, sposta l'accento dalla prospettiva economica a quella etico-
politica chiarendo che sono l'assenza di relazioni che possono manifestarsi nella reciprocità e
l'assenza di spazio di dialogo tra l'io e il tu che rendono disorganica la società attuale, proprio al
contrario di quanto accadeva nell'epoca comunale medievale.
Nel processo di atomizzazione inarrestabile della società, e funzionale al sistema fondamentalmente
totalitario per un più facile dominio e consumismo, la coercizione economica crea un corpo sociale
senz'anima e lascia ovunque «un tessuto in decomposizione» (p. 56).
Di fronte al fallimento del socialismo reale quale percorso alternativo alla società dei consumi
Buber rilancia l'utopia in perfetto tono profetico, rivalutando, integrando e aggiornando nella sua
visione anche il pensiero di un suo caro amico, l'ebreo anarchico, Gustav Landauer.
Impostando il cammino di evoluzione umana sull'utopia, Buber mira a tener desta l'aspirazione alla
felicità che è intrinseca all'essere umano. L'immaginazione utopica svolge cioè il ruolo di suscitare
quello che egli definisce «la nostalgia per ciò che è giusto», nostalgia che sale dal dolore per un
ordine insensato dello stato del mondo. Anzi, Buber distingue due diverse forme di nostalgia del
giusto: quella escatologica, che proietta un'immagine di tempo perfetto, compimento della
creazione; e quella utopica, spazio perfetto della vita comunitaria basata sulla giustizia. Se
nell'escatologia l'avvento del Regno è affidato a Dio, nell'utopia tutto è assegnato al lavoro
dell'uomo.
Ma anche l'escatologia si può suddividere in due diverse sfumature: in quella profetica (che viene
da Israele) ogni individuo è chiamato a partecipare alla redenzione, e in quella apocalittica (che
viene dall'antico Iran) il processo redentivo è invece prefissato sin nei minimi particolari e utilizza
gli uomini come strumenti (p. 51). L'uomo disincantato dell'epoca dei Lumi non ha più la capacità
di credere nella redenzione futura. Ciononostante, l'escatologia non è scomparsa e l'erede della
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profezia di Israele è il socialismo utopistico, un'utopia messianica che nell'idea di Buber si
riaggancia al passato contenendo però il germe del futuro. Dunque, aspirazione al radicalmente
nuovo ma come riparazione, compimento del tiqqun,1 il ritorno all'unificazione con Dio, la
redenzione, termine molto utilizzato appunto anche nella letteratura anarchica e socialista di
Landauer.
Buber contesta la visione illuministica della storia come progresso e contrappone alla visione
scientifica la visione utopica. Dalla visione marxista che inneggia al progresso industriale Buber
prende le distanze con cura, dato che chi pensa al progresso non aspetta l'arrivo del Messia. Come
chiarisce bene Donatella Di Cesare nell'introduzione, non si può essere riformisti e messianici allo
stesso tempo. Il rinnovamento dello spirito, e dunque della società, non è un movimento graduale
ma un moto improvviso. Buber fa suo il motto di Landauer «fare il possibile e desiderare
l'impossibile» (p. 96), con il quale intende affermare la necessità di rilanciare il desiderio di
irruzione messianica, pur senza sottostare all'inazione o alla passività. L'essere umano quindi
ricostruisce una società equa attivandosi e partecipando fattivamente alla redenzione, proprio in
sintonia con il concetto di recupero delle scintille di luce divina nel mondo previsto
nell'insegnamento chassidico.
L'attesa del Messia è per Buber l'attesa della comunità, già di per sé categoria messianica. Infatti
essa perpetua la rivoluzione senza mai fissarsi su regole e limiti («Neppure la comunità deve
diventare dogma», p. 200). Si ispira alle forme comunitarie del passato, ma supera il mero
aggregarsi di tipo economico, consumistico o produttivo e cerca l'integralità autosufficiente e
autonoma. Tale nuova comunità che si realizza preferibilmente in campagna, si fonda soprattutto su
un cambiamento interno dei rapporti umani e in seguito su un rapporto tra le diverse comunità
federate tra loro. Lo stato vive e prospera dove non c'è coesione interna, dove domina
l'individualismo. Dove invece regna la comunità esso può essere abolito.
La riparazione dell'infranto di tipo chassidico diventa per Buber una condotta di vita capace di
creare comunità sovversive ma organiche, dove la relazione interpersonale libera e costruttiva e il
superamento tra il sacro e il profano costituiscono una vera risposta alla crisi esistenziale dell'uomo
contemporaneo. Tali comunità organiche sono state individuate da Buber nei kibbutz israeliani,
cooperative integrali (p. 185) che lui ritiene esempi non naufragati (perlomeno ai suoi tempi) di
socialismo utopistico antistatalista. E non si tratta per lui dell'emancipazione di un popolo ma della
redenzione del mondo intero.
1 Biagini, Furio, Torà e libertà, I libri di Icaro, Lecce 2008, pp. 111-115.
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Nell'enorme confusione della vita moderna secondo Buber va perso il bene più prezioso «la vita fra
uomo e uomo» (p. 198). In tal modo: «come nella tecnica degenerata l'uomo è sul punto di perdere
il senso dell'opera e il senso della misura, così nella socialità degenerata è sul punto di perdere il
senso della comunità» (p. 198).
L'individuo e la comunità devono sottrarsi al ruolo di piccolo pezzo di ingranaggio della macchina
burocratica ed economica che questa società statalizzata attribuisce loro e smettere di delegare:
«quanto più un gruppo si fa rappresentare nella gestione delle cose comuni, e quanto più si fa
rappresentare dall'esterno, tanto più viene a mancare la vita comunitaria. Perché la comunità […] si
manifesta anzitutto nella cura comune e attiva degli affari comunitari, e senza non può esistere» (pp.
199-200). Il centralismo planetario del potere «divora ogni comunità libera» (p. 199).
Il principio politico e quello economico non devono dominare sulle sorti del pianeta con la
maschera della rappresentanza; invece la comunità è «disposizione interiore a una vita comune […]
è comunanza dello spirito; è comunanza della fatica ed è, a partire da qui, comunanza della
salvezza» (p. 201). Essa si manifesta nella cura comune e attiva degli affari della collettività e senza
non può esistere, fosse anche solo una comunità che si definisce come “religiosa”. Infatti: «Anche
la comunità che chiama lo spirito il suo Signore e chiama la salvezza la sua promessa, la “comunità
religiosa”, è comunità solo se serve il suo Signore nella realtà non scelta, non esaltante, ma
semplice, una realtà che le è stata inviata, è comunità solo se attraverso il groviglio di spine di
questa ora impraticabile apre la via alla sua promessa. Certo quel che conta non sono le “opere”, ma
l'opera della fede. Sarà allora davvero comunità di fede solo quando sarà comunità d'opera» (p.
201).
Tale processo di formazione della comunità (che ricordiamo deve sempre essere su base volontaria,
p. 179) prosegue poi al livello superiore di scala nel rapporto tra le comunità federate. Secondo
Buber quindi la nuova società etica e spirituale allo stesso tempo non scaturirà da una incubazione
di tipo marxiano e nemmeno da una rivoluzione di stampo bakuniniano, ma solo e piuttosto
dall'«incontro tra l'immagine e il destino nell'ora della creazione» (p. 204). È quella che Buber
stesso definisce “teopolitica”, nel senso pieno che la Torah affida a questa prospettiva sin
dall'Israele premonarchico delineato nel libro dei Giudici. E tale società messianica liberata non si
costruisce in un lontano futuro, ma inizia da subito: nei mezzi per conseguirla è già dato il fine e ad
ogni Shabbat (e ancor più a ogni Jovèl, l'anno giubilare che arriva ogni quarantanove anni e che
azzera i debiti2) esso si rinnova facendo rivivere la liberazione e portandola nel presente (p. 103).
2 Levitico, 25, 8.