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Capitolo 3-Tecniche costruttive
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CAPITOLO 3-
TECNICHE COSTRUTTIVE
Nella storia della civiltà i ponti ad arco in muratura rappresentano, sotto il profilo
storico, la categoria più importante per la quantità di realizzazioni e la diffusione
in varie zone geografiche, testimoniano ai posteri i sistemi di progettazione
adottati dai vari popoli, le tecnologie in uso all’epoca della costruzione, i metodi
di trasporto e di comunicazione, la storia e la cultura e, comunque, tramandano
sempre un capolavoro del genio creativo umano.
3.1 Ponti romani
I primi ponti ad arco in muratura si ebbero in Mesopotamia (verso il IV millennio
a.C.) e successivamente in Egitto e in Persia. Anche in Grecia furono costruiti
ponti ad arco in pietra, in genere di modeste dimensioni ed ad arcata unica.
I Romani furono i veri maestri dell’esecuzione dei ponti ad arco, anche se i loro
primi ponti furono in legno, come il Ponte Sublicio sul Tevere il quale oltre a
garantire il collegamento con la sponda destra del fiume, costituiva un valido
elemento di difesa in quanto poteva essere smontato in condizioni di pericolo.
Il primo ponte in pietra attribuito ai Romani è l’Emilio. Questo subì numerose
peripezie e venne ricostruito l’ultima volta da Gregorio XIII nel 1575, che volle
mantenere la severità e le grandiosità primitive. La ricostruzione non ebbe molta
fortuna perché già nel 1598 due archi caddero, da allora il ponte fu detto “Rotto”.
Figura 3.1.1- Ponte Rotto, Roma.
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L’unico arco oggi superstite è quello in figura 3.1.1, sufficiente a dare visione di
quella che fu la forza e la bellezza del ponte.163
I ponti murari romani sono caratterizzati dall’uso quasi esclusivo dell’arco a tutto
sesto, probabilmente perché questa era la forma costruttiva più semplice da
realizzare (Figura 3.1.1): infatti, per un arco di spessore costante, ogni concio in
pietra o in mattoni è delimitato da due cerchi concentrici e da due raggi contigui,
tutti uscenti da un unico centro, cosicché tutti i conci risultano uguali fra loro.
La costruzione della volta richiede una centina circolare (di raggio uguale a quello
dell’intradosso dell’arco), facilmente costruibile e regolabile in opera dai
carpentieri. La centina poteva essere appoggiata direttamente a terra, o fissata sul
punto d’innesto della volta (Figura 3.1.2); quest’ultima soluzione, utile per
risparmiare legno fu ampiamente adottata dai Romani, che a tal fine preparavano
delle sporgenze a livello dell’ultimo filare orizzontale (Figura 3.1.1), sulle quali si
installavano le centine.
Figura 3.1.2- Tipologie di centine aeree (tratta da Jean Mesqui, Le pont en France avant le temps
des ingenieur, Picard, Paris, 1986, p.258.)
163
Ing. Prof. Luigi Santarella, Arte e tecniche dell’evoluzione dei ponti, Hoepli, Milano, 1933.
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Sempre per razionalizzare il lavoro e risparmiare materiale, i costruttori pensarono
di montare le volte per mezzo di file parallele di conci, disposte senza che i giunti
si incrociassero, in modo che ogni ordine fosse indipendente. La stessa centina
veniva spostata lateralmente per costruire la seconda volta (Figura 3.1.3).
Figura 3.1.3- Centina mobile (tratta da Jean Mesqui, 1986, p.262.)
Queste tecniche rimasero pressoché immutate nel corso dei secoli fino
all’introduzione dei tubi d’acciaio.164
Montata la centina, l’arco veniva realizzato con la semplice giustapposizione dei
conci l’uno sull’altro a partire dalle due estremità, cioè dalle imposte orizzontali,
sino ad arrivare alla posa dell’ultimo concio di sommità, che viene detto concio di
chiave ( o anche semplicemente chiave dell’arco).165
Il ponte in muratura si presenta come una struttura di notevole peso, che grava su
una superficie limitata di terreno. Per garantirne la stabilita era perciò
164
Jean-Pierre Adam, L’arte di costruire presso i romani, Longanesi, Milano, 1988.165
Antonio Migliacci, L’architettura dell’equilibrio e della deformazione volume II, Masson,
1997.
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fondamentale la cura dei sistemi di fondazione. Già Vitruvio, nel suo trattato,
individua come condizione fondamentale la ricerca del “solido” su cui impostare
la fondazione, il cui spessore dovrà essere superiore a quello del muro sovrastante.
Particolare attenzione era posta ai terreni argillosi, non in grado di garantire la
ricercata solidità. In questi casi, si prevedeva l’infissione di pali di quercia per
consolidare il sottosuolo. Le estremità dei pali erano dotate di coni metallici per
proteggere la punta durante l’infissione, mentre l’estremo su cui batteva la mazza
era rinforzato con delle cerchiature.166
Anche questa tecnica non può essere
considerata prettamente romana, sarà infatti riproposta ed applicata in tutte le
epoche successive. (Figura 3.1.4)
Figura 3.1.4- Coni di metallo posti a rinforzo delle punte dei pali (tratta da Jean Mesqui, 1986,
p.229.)
Un altro problema che si pose ai costruttori romani fu quello dell’interazione tra la
corrente dell’acqua e la struttura del ponte. Per limitare l’azione diretta dell’acqua
sulla parte bassa del pilone, questo poteva essere munito di uno sperone che
fungeva da frangiflutti, mentre sulla faccia del pilone rivolta a valle un altro
sperone si opponeva ai mulinelli d’acqua, che si venivano a formare.
166
Jean Mesqui, Le pont en France avant le temps des ingenieur, picard, Paris, 1986, p.229.
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Altro accorgimento fu quello di progettare archi di luce sempre maggiore, con un
conseguente minor numero di pile disposte nell’alveo. Il numero ridotto delle
arcate e l’uso esclusivo dell’arco a tutto sesto determinavano, però, una
considerevole altezza del ponte, pertanto questo veniva, all’occorrenza, dotato di
una rampa, che saliva dalla riva all’altezza della chiave del primo arco (Figura
3.1.5). un’altra soluzione per limitare la spinta dell’acqua fu, l’inserimento nei
piloni di un archetto, che garantiva lo sfogo della piena, come nel ponte Fabricio.
Figura 3.1.5- Ponte Fabricio, Roma.
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3.2 Ponti medioevali
Le prime testimonianze dell’esistenza di una tecnica tradizionale nella costruzione
di opere architettoniche perviene da un documento pressoché ignoto, estratto dalle
Mappae Claviculae, manoscritto dell’822, ricopiato, a varie riprese, fino al X
secolo. Si tratta di un vero formulario, intitolato Dispositivo fabricae de pontibus,
che fornisce un metodo di calcolo per fondazioni superficiali, dove i
dimensionamenti sono dedotti dal riferimento al corpo umano.167
Viene così
fissata una delle prime regole geometriche, che propone di dare alla fondazione
una profondità di un quarto dell’altezza delle pile. Tale trattato pone così le basi
per la razionalizzazione di una tecnica già adottata dai costruttori romani e spesso
ricercata, in questo periodo, per la sua semplicità a scapito della più onerosa
fondazione su pali. Non si hanno perciò innovazioni nei metodi costruttivi, se non
a livello di dettaglio. Si può infatti notare, dall’analisi dei manufatti pervenutici,
come i costruttori medievali, adottando il metodo delle centine aeree,
prediligessero ai sostegni su mensole utilizzati dai romani, l’utilizzo di buche
pontate, probabilmente perché più economiche da realizzare.
Nel passaggio fra periodo romano e medioevale non si hanno perciò sostanziali
innovazioni a livello tecnico, ma le variazioni vanno ricercate in una nuova
concezione del manufatto. Col frammentarsi dell’impero romano e con le
conseguenti lotte, invasioni e scontri in ogni parte dell’Europa occidentale, il
ponte perde la sua caratteristica di scorrevole agibilità: la necessità di controllo e
di difesa, insomma la “mentalità del castello”, finisce allora per trasformarsi nella
struttura dei ponti. Questi, anche se ancora di costruzione romana, soprattutto se si
trovano in zona di confine o in territorio di rilevante interesse strategico, oppure
se stanno ai limiti di impianti di difesa, come castelli, mura urbane, fortezze e via
dicendo, finiscono spesso per essere fortificati con porte o torri e talora virne
interrotto il passaggio con la distruzione di una o più arcate, che vengono poi
sostituite da strutture lignee sollevabili.168
Esempio di queste fortificazioni è
167
Jean Mesqui, Le pont en France avant le temps des ingenieur, Picard, Paris, 1986, p.162.168
Galiazzo Vittorio, I ponti romani, Canova, Treviso, 1994, p.100.
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riscontrabile nel Ponte della Pietra a Verona, anche se, delle due torri scaligere
erette a mo’ di porte, è rimasta in opera soltanto quella fatta costruire sulla spalla
destra da Alberto della Scala nel 1298, unitamente al riattamento dell’arcata sulla
medesima sponda.
Altro fenomeno che va ad offuscare il significato di artefatto destinato al solo
attraversamento è l’espandersi, sotto la pressione demografica, di molti centri
urbani anche fuori le mura cittadine, che finisce per trasformare il ponte in una
prosecuzione degli spazi urbani, sicché esso giunge a sostenere strutture
architettoniche di ogni genere (case, chiese, mercati, portici ecc.). Questa
espansione interessò anche il citato Ponte della Pietra a Verona le cui casette,
abbattute nel secolo scorso, hanno lasciato sui muri di timpano degli intacchi a
cuneo, creati appunto dai puntoni di sostegno delle strutture medioevali
sovrapposte.169
Nel XIV secolo si verificano progressi nella costruzione dei ponti, che si
discostano dal modello romano attraverso la frequente introduzione di linee
ribassate, non mai però geometricamente diverse dal segmento di cerchio. Si
tende inoltre ad aumentare la luce, mentre viene ridotto lo spessore in chiave. Da
ricordare, a questo proposito, il ponte di Castel Vecchio a Verona (1354-1356)
che presenta un ribassamento circa ¼ della luce170
.
Sempre in questo periodo numerosi sono poi i ponti ad un solo arco, con linea
estradossale che segue la curvatura, con il caratteristico andamento a schiena
d’asino. Tra gli esempi più notevoli non si può dimenticare il ponte di Trezzo
d’Adda, costruito nell’anno 1370, a proposito del quale il milanese Bernardino
Casio scrive: “et Barnabò diede principio alla riedificazione del Castello di
Trezzo. Similmente fece fare il ponte sopra il fiume Adda: questo fu fabbricato in
un solo arco, che parve mirabile cosa; da ogni banda edificò due Torri, et si
grande edificio fu compiuto in sette anni, et tre mesi”. Il ponte era costituito da
un'unica grande volta di 72 m. di corda e 21m. di freccia, con un ribassamento di
circa 1/3,5 e uno spessore in chiave di circa 9 m., tutto in conci d’arenaria.
169
Jean-pierre Adam, L’arte di costruire presso i romani, Longanesi, Milano, 1988.
170 Giorgio Fabbri Colabich, Ponti in muratura, Antonio, Milano, 1950, p.3.
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Fig. 3.2.1: Ricostruzione del ponte di Trezzo d’Adda (tratto da Aruberto Crivelli, Gli avanzi del
castello di Trezzo: l’antico e il nuovo ponte sull’Adda, Litografia degli ingegneri, Milano, 1886.)
Si trattava di un’opera eminentemente militare, con torri di difesa alle teste e,
probabilmente, con alte merlature su tutto l’impalcato. Nel 1416 il castello, a cui il
ponte conduceva, fu assediato dal Carmagnola, il quale fece lesionare dai suoi la
spalla sinistra e l’opera grandiosa rovinò tutta nel fiume.171
Infine, tra i ponti medioevali si deve menzionare il Ponte Vecchio sull’Arno a
Firenze, del quale giunge a noi la ricostruzione del 1345, attribuita a Taddeo
Gaddi. Il ponte è costituito da tre archi. Quello centrale presenta un’ampiezza
maggiore: le dimensioni della luce (m. 29,2) e della freccia (m. 4,50) si
avvicinano a quelle degli archi ribassati.
Elemento interessante, se pure poco diffuso sul nostro territorio, è l’applicazione
dell’arco acuto, giustificata dal punto di vista statico dalla costruzione di una
cappella sul vertice dell’arco, non sempre però realizzata.
Secondo Viollet le Duc, i costruttori medioevali possedevano già una notevole
abilità tecnica: a loro si deve la seguente regola empirica, a lungo sopravvissuta
nell’epoca moderna, per la determinazione dello spessore dei piedritti: con
171
Aruberto Crivelli, Gli avanzi del castello di Trezzo: l’antico e il nuovo ponte sull’Adda,
Litografia degli ingegneri, Milano, 1886.
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riferimento alla figura 3.2.2 si divida l’arco, sia esso a tutto sesto o a sesto acuto,
in tre parti uguali; con centro in D e raggio DC si descriva una semicirconferenza.
Il punto E, intersezione di detta circonferenza con la verticale, determina lo
spessore del piedritto. Tale regola costituiva un’importante innovazione in quanto,
come si può notare nella figura, consentiva di determinare in modo ottimale lo
spessore del piedritto dell’arco a tutto sesto, che risultava maggiore di quello
dell’arco a sesto acuto.172
Figura 3.2.2: Metodo grafico per il dimensionamento dei piedritti (tratto da Benvenuto Edoardo,
La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico, Sansoni, Firenze, 1981, p.323.)
172
Benvenuto Edoardo, La scienza delle costruzioni e il suo sviluppo storico, Sansoni, Firenze,
1981, p.323.
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3.3 Secoli XVI e XVII
Per valutare le tecniche costruttive utilizzate in questo periodo si può far
riferimento al De re aedificatoria, famoso trattato redatto da Leon Battista
Alberti, probabilmente già compiuto nel 1452, ma pubblicato postumo nel 1485.
L’Alberti, dopo aver constatato che la stabilità dell’arco è garantita dal corretto
dimensionamento delle sue parti principali, quali fondazioni, pile e volta, propone
delle regole pratiche e geometriche per un corretto funzionamento della struttura.
Per le fondazioni, che dovranno essere “ben salde e ferme” 173
, ripropone le due
ormai note tipologie di fondazione diretta e fondazione palificata, prediligendo
però la seconda, la cui superficie d’imposta dovrà avere una larghezza doppia di
quella delle pile. Le pile che poggiano sulla fondazione dovranno avere uno
spessore di 1/3 della luce. Per la volta egli propone uno spessore di 1/10 della
luce, riducendo tale valore ad 1/15 per i ponti urbani. Si ripropongono così quei
principi di solidità e robustezza, dedotti dallo studio dei ponti romani.
Figura 3.3.1-Regole geometriche di Leon Battista Alberti per il dimensionamento degli archi
(tratto da Jean Mesqui, 1986, p.178.)
173
Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, testo latino tradotto a cura di Giovanni Orlando,
Polifilo, Milano, 1966, p.314.
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Si dovrà attendere la specifica ricerca di Leonardo da Vinci in materia di acque e
ponti, perché inizino ad essere accantonati tali principi che, nella Roma
frequentata dall’Alberti, avevano caratterizzato il restauro e il consolidamento di
ponte Sant’Angelo, privilegiando i saldi contrafforti addossati ai pilastri.
Le osservazioni di Leonardo conducono verso forme di piloni sempre più
sistematizzate, capaci a prua di fendere l’acqua con rostri appuntiti e allungati,
mentre a poppa angoli meno acuti, smussati, offrono una migliore resistenza ai
dannosi e corrosivi vortici di ritorno delle acque.174
Nel Cinquecento inoltrato si osserva come l’interesse per i ponti romani si faccia
sempre più vivo, articolato ed attento, come dimostrano anche gli studi, le
ricerche e i disegni realizzati con la massima cura dal Palladio, il quale rivolge la
sua attenzione verso i ponti romani presenti nell’Italia settentrionale, soprattutto
verso quelli di Rimini, Padova e Vicenza, città a lui ben note. Il Palladio si
sofferma in particolar modo sul Ponte di Tiberio a Rimini, perché, egli dice, “di
quanti ponti io abbia veduto, mi pare il più bello et il più degno di
considerazione”.
Fig. 3.3.2: Ponte di Augusto sulla Marecchia, Rimini
Il dettagliato studio eseguito dal Palladio su questo ponte ha notevolmente
contribuito a creare il radicato luogo comune (vivo ancor oggi) che quasi tutti i
ponti romani siano pesanti, solenni, perfettamente simmetrici nelle strutture,
174
Maurizio Gargano, Note sul gettar ponti a Roma nel XV secolo, in “Rassegna di architettura e
urbanistica”, n° 84-85, Settembre 94-Aprile 95, p.18.
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insomma più “ponti-monumenti” che svelti artefatti di attraversamento, come è in
realtà in moltissimi casi.
Ma quando Palladio vuole indicare un modello ideale, fa riferimento a due ponti
di Vicenza: il Ponte degli Angeli sul fiume Bacchiglione e il Ponte di San Paolo
sul fiume Rettone. Essi appaiono, ancor oggi, di concezione ed impianto del tutto
moderni, perché ambedue sono a tre arcate con sesto fortemente ribassato e con
prevalenza della centrale sulle laterali, e mostrano pile assai slanciate ed esili. Da
queste analisi sarà dedotta la regola comune di costruire ponti con pile dello
spessore di 1/5 delle luci delle arcate laterali.175
In questo periodo, oltre all’introduzione di nuovi modelli geometrici ideali, si
diffondono anche nuove tecniche costruttive, dedotte spesso dalla pratica di
cantiere. La costruzione del Ponte Nuovo di Parigi (1578-1600), ad esempio,
introduce l’uso di un graticcio di travi, inserito alla base dello scavo, al fine di
garantire una distribuzione uniforme delle forze trasmesse dalla muratura. Questa
innovazione, che riguarda la fondazione superficiale, diventerà una tipologia
classica di questo periodo.(Figura 3.3.3)
A conferma di come queste tecniche costruttive, una volta adottate, si tramandino
nei secoli, si può far riferimento all’analizzato ponte di Noboli: durante la
costruzione della fondazione per l’aggiunta della nuova arcata, eseguita nel 1850,
venne previsto a fondo scavo “un graticolato di grossi legni di quercia verdi ed
inchiodati sugli opportuni travetti”.176
175
Galiazzo Vittorio, I ponti romani, Canova, Treviso, 1994, p.110.
176 ACSar, Acque e strade, 101bis , Ponte di Noboli, 13 maggio 1852.
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Figura 3.3.3- Graticcio di travi posto alla base dello fondazione (tratto da Jean Mesqui, 1986,
p.233.)
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3.4 Secolo XVIII
Nel ‘700, con la nascita dell’ingegneria “moderna”, la costruzione dei ponti
diventa una disciplina scientifica: il primo trattato è del 1714, ad opera del
francese Gautier; sempre in Francia nel 1716, nascono i Corps des Ponts et
Chaussées e nel 1747 l’Ecole des Ponts et Chaussées, ritenuta la prima scuola di
ingegneria. I ponti in muratura raggiungono il loro apogeo grazie alle innovazioni
studiate e proposte dall’ingegnere francese Giovanni Rodolfo Perronet. Egli aveva
infatti intuito che il criterio, sino ad allora considerato di massima sicurezza, di
costruire delle pile con spessore pari a 1/5 dell’apertura dell’arco rappresentava in
realtà una scelta progettuale assolutamente errata, sia per l’eccessivo
appesantimento dell’intera struttura, sia per le alterazioni causate al sistema
idraulico del fiume. La soluzione consisteva nell’adozione di pile sottili,
sfruttando i vantaggi offerti dalla mutua elisione delle spinte laterali degli archi; in
tal modo le pile potevano essere ritenute sottoposte solo a sforzi normali. Una
volta dimostrata l’infondatezza delle tradizionali regole costruttive, Perronet ebbe
quindi modo di sostenere le sue due principali innovazioni:
a) Assottigliamento delle pile: lo spessore delle pile veniva ridotto
esclusivamente a quello necessario ad assorbire le spinte verticali degli
archi, lasciando che le opposte spinte orizzontali degli archi contigui si
bilanciassero, rafforzando invece le spalle del ponte.
b) Ribassamento delle volte: in modo da offrire alla corrente il flusso più
libero possibile e di proteggere le volte dall’azione distruttiva delle acque.
L’idea di queste volte ribassate, quasi assimilabili a delle travi orizzontali,
appoggiate su pile estremamente sottili, è alla base dei ponti moderni e ha
richiesto sostanziali modifiche a livello di cantiere. La contemporanea
realizzazione di tutte le centine di un ponte, condizione necessaria per ottenere
delle pile sottili, richiedeva infatti un investimento economico nettamente
superiore a quello effettuato quando le volte venivano costruite una per volta,
spesso riutilizzando il legname delle centine. Il primo ponte che Perronet realizzò
applicando queste soluzioni innovative fu il Pont de Neuilly, cominciato nel 1767.
Il ponte demolito nel 1939, aveva una larghezza complessiva di 195 metri e
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attraversava la Senna in 5 arcate di 39 metri di luce ribassate di 1/4 , appoggiate
su delle pile spesse 4,22 metri: il rapporto tra lo spessore delle pile e l’apertura
degli archi passava dal tradizionale valore di 1/5 a 1/9,23 dimezzandosi.
Dopo il Pont de Neuilly, Perronet progetto altri quindici ponti, dei quali solo sette
furono realizzati; oggi rimangono soltanto il Pont de la Concorde, ampliato tra il
1929 e il 1931, e il Pont de Nomours.177
177
Alessandra di Stefano, Il ponte come “luogo del costruire”: una lettura attraverso il caso
francese, Politecnico di Milano, 1995/96, Fac. di Architettura.
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CAPITOLO 4-
ANALISI DIRETTA SUL MANUFATTO
Ad integrazione della ricerca storica viene eseguita un’operazione di rilevamento
e registrazione dei dati ricavati dall’indagine diretta (Appendice A). Segue un
momento di integrazione delle informazioni, teso a comprendere il manufatto
attraverso lo studio delle trasformazioni più significative avvenute sul piano dei
cambiamenti formali.
Il processo di integrazione delle informazioni richiede come supporto base il
rilievo della geometria, dei materiali e delle pratiche costruttive.
I rilievi mirano ad una restituzione precisa delle evidenze tecniche (esempio
orditura dell’apparato murario), sono stati eseguiti in scala 1:200 per quanto
riguarda l’intera struttura e in scala 1:50 per l’analisi delle singole arcate, in modo
da garantire un miglior livello di definizione.
I risultati dell’integrazione fra rilevazione diretta e indiretta vengono rappresentati
in schede stratigrafiche, che sintetizzano lo sviluppo e la dinamica delle
trasformazioni avvenute sul manufatto, attraverso una campitura ordinata in
funzione del tempo.
Per una migliore integrazione con la ricerca storica viene introdotta una scheda di
fase, che consente di individuare un’ipotesi evolutiva del manufatto che tenga
conto non solo della rigorosa interpretazione stratigrafica, ma anche delle molte
fonti, spesso di natura indiretta, che convergono sul costruito. Le schede elaborate
per fase esibiscono, con la dovuta differenziazione determinata dal tipo di fonte
utilizzata (in sostanza dato oggettivamente ricavato o dato presunto), ipotesi
grafiche sullo sviluppo architettonico e funzionale del manufatto.
Nell’elaborazione grafica vengono inoltre indicate soltanto le parti, ancora
esistenti, che appartengono alla fase considerata; le immagini si fondano quindi su
reali presenze materiali e non su generiche ricostruzioni, prive di riferimenti
concreti sul contesto architettonico. Sono state inoltre completate le
rappresentazioni con parti ipotizzate, differenziate graficamente, necessarie per
dare un’interpretazione funzionale, compositiva e strutturale delle parti esistenti