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Tre uomini paradossali di Girolamo De Michele Copyleft Cose Einaudi-te

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Tre uomini

paradossali

di

Girolamo De Michele

Copyleft Cose Einaudi-te

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Cosa avrà il sapiente più dell’idiota?

(immagine copyleft di copertina: “che giornale è oggi?” di malos mannaja)

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Nota dell’autore I fatti qui di seguito narrati hanno luogo fra il 3 e il 19 settembre 1993. Al settembre 1993 risale

altresì la prima stesura di questo romanzo: l’autore non ha ritenuto di modificare la cronologia nel corso delle successive riscritture.

Per una migliore intelligenza del testo si fa presente che: – successivamente agli eventi narrati le scarpe scozzesi George Hogg sono tornate in commercio a

Bologna, seppure con modelli di qualità inferiore alle originali degli anni Ottanta; – i personaggi di questo romanzo sono forzatamente ignari, per ragioni cronologiche, di Pulp Fiction

e Natural Born Killers; – nella Borsa valori di Milano non era ancora stato introdotto il listino telematico; – il Lance Haffner’s TKO Professional Boxing Game è un programma computerizzato esclusivo della

rivista sportiva «The Ring», che simula incontri di boxe; – l’autore, non abitando più nel quartiere Bolognina, non è in grado di dare altre informazioni sulla

donna che agli inizi degli anni Novanta viveva in una macchina in piazza dell’Unità, e che effettivamente esisteva, a dispetto del fatto che più volte le telecamere (con annessi e aggiunti giornalisti e commentatori) delle televisioni le siano passate accanto senza notarla.

La menzione dell’apprezzato lavoro storico e letterario di Nanni Balestrini e Corrado Stajano è frutto della fantasia dell’autore; parimenti immaginario è l’articolo a firma Alberoni qui presente.

Il riferimento a una nota trasmissione televisiva è artificioso nel suo montaggio, benché reale nelle singole parti qui assemblate; l’autore deve doverosamente ricordare che nessuno degli ignari cittadini a loro insaputa tirati in ballo in diretta nel corso del detto programma ha poi deciso di commettere suicidio: il noto conduttore qui fittiziamente citato non è dunque, suo malgrado, responsabile della perdita di alcuna vita umana.

L’autore si scusa con l’amico Claudio Lolli per la paranoica percezione della sua persona che alberga nella mente del narratore.

Le poesie di Danilo «Crespo» Bonvicini sono state raccolte dopo la sua morte nel volume Sottili come la polvere (Bologna 1988, fuori commercio).

La citazione in esergo è tratta da Qohélet, VI, 8 (tr. G. Ceronetti). I diversi capitoli sono introdotti da parole di D. Bonvicini, G. Flaubert, C.E. Gadda, J. Prévert, E.

Ruggeri. Lo studio di Francis Bacon presente nel romanzo è un’invenzione dell’autore. Il disco che compare nelle pagine finali è Tea for the Tillerman (Freshwater Music/Island Rec., 1972)

di Cat Stevens, che è anche autore dell’immagine di copertina dell’album L’autore desidera amichevolmente ringraziare il gruppo di lettori-giapsters I Quindici e i Wu Ming

per aver segnalato alla casa editrice il manoscritto di questo romanzo.

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Ai vecchi amici Forever Young

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0. Nebbie

Siamo rimasti soli ora che Dio se n’è andato

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1. 17 aprile 1980, alba

Sveglia. Luce. Filtra dalle tapparelle semichiuse. C’è luce perché è primavera. Stavo sognando l’inverno. È primavera. Aprile. Caffè. La moka è già pronta, basta accendere. Aprile è il mese più crudele… C’è silenzio. Accendo la radio.

Oh, and I guess that I just don’t know Oh, and I guess that I just don’t know

Lou Reed. No, c’è la viola di John Cale. I Velvet.

Heroin, be the death of me Heroin, it’s my wife and it’s my life

La moka gorgoglia. Una goccia bollente mi schizza sulla mano. Ho dimenticato il filtrino interno. Verso il caffè e lo butto

giù per svegliarmi. C’è Crespo in radio, stamattina: è la sua musica. Dev’essere rimasto su tutta la notte. Mi piacerebbe restare ad ascoltarlo, ma ho da fare.

Suonano. È il Cina. – Sali su, c’è del caffè anche per te. –

And all the politicians makin’ crazy sounds And everybody puttin’ everybody else down And all the dead bodies piled up in mounds

– Tutto bene? – Tutto bene. Le nostre biciclette sono nel portone, gli altri ci aspettano davanti alla Feltrinelli. – Com’è questa idea delle biciclette? – Volevi rubare cinque moto? In bici si taglia la zona universitaria, e ci si disperde in via Zamboni. – Il Comandante? – Marco ci aspetta sul posto. Resta di retroguardia, in copertura. – Perché resta indietro? – Perché abbiamo deciso così. Dice che ha lavorato all’inchiesta, e l’autista potrebbe riconoscerlo. – E a te va bene?

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– A me va bene. Siamo in cinque, il Pedro fa il palo più avanti per ogni evenienza, voi tre restate a coprire la strada, io ammazzo il maiale. Marco resta accanto alle biciclette. Liscio come l’olio, se nessuno fa cazzate.

Ci alziamo col sapore del caffè ancora in bocca. Avrei voglia di un caffè fatto come si deve, ma non posso andare a berlo stamattina.

Fuori, in strada, un cielo basso e grigio come non si era mai visto, l’aria fredda immobile come

cemento, poche voci spente e forme cariche di solitudine. Una noia pesante riga le cose e la gente come fili di saliva. Impiccano i poeti alle torri più alte. Restano i guerrieri a festeggiare la vittoria.

Non mi nascondo. Non cerco aiuto. Entro in una farmacia a cercare la vita. – Cazzo stai ascoltando? – Crespo. – Perché ascolti quello sfigato? – Perché mi piace. – Come fa a piacerti? I tuoi nichilisti sono solo dei controrivoluzionari, te lo vuoi mettere in testa? – Allora sono un controrivoluzionario anch’io. E comunque ha delle cose da dire. – Quello lì? Quello finisce male, tal dig mé. (Perché, noi come finiamo?)

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2. Arriviamo in piazza Ravegnana in un quarto d’ora, scendendo da via Matteotti e via Indipendenza.

Gli altri tre sono lì. Ripassiamo i movimenti, poi in silenzio ci infiliamo nelle stradine, verso le Sette Chiese. Marco è dall’altra parte del portico. Scendiamo dalle bici fingendo di non vederlo, e aspettiamo. Pedro tira dritto, con un sacchetto di granaglie in mano.

– Ma ti pare il momento? – Sì, perché? C’è foschia a quest’ora, meglio così. Arriva puntuale. Scende dalla macchina senza salutare l’autista, e si avvia verso il portone senza

accorgersi del Pedro, mentre la Mercedes si allontana. Ci muoviamo, chiacchierando con indifferenza. Attraversiamo la piazza in parata. Gli altri tre si fermano. Io proseguo. Ho la pistola in pugno, il braccio steso lungo il corpo. La manica dell’impermeabile mi copre

parzialmente la mano. – Mi scusi, dottore… – Prego? – Il dottor Varisi, se non sono in errore? – Sono io. Desidera? – Volevo solo dirle questo, dottore: chi è lupo per l’uomo, merita di essere trattato da lupo. Il primo colpo lo coglie in pieno petto, con ancora in volto lo stupore per una citazione di cui non

saprà mai l’autore. Aspetto con calma che si accasci, mi piego leggermente in avanti e gli sparo un secondo colpo in fronte.

Mi giro con indifferenza, e senza correre raggiungo le biciclette. Marco è già partito.

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3. Ci sono stati testimoni, ma non sono serviti a molto. Un geometra ha sentito i due colpi mentre si radeva, si è affacciato alla finestra del bagno e ha

scorto delle biciclette infilarsi nel vicoletto a destra. Quante, non sa dire: tre, forse quattro. Un passante, troppo distante per aggiungere nuovi particolari, conferma, e ricorda un ragazzo molto alto, che è andato via dall’altra parte dopo aver gettato del becchime ai colombi. Infine, un’anziana signora già sveglia da un’ora, che dagli scuri semiaperti ha visto passare prima un giovane alto, poi gli altri quattro, dei quali dà una sommaria descrizione.

Il primo era castano biondo, robusto, con occhiali e un bel paltò. Il secondo era più piccolo, bruno, con basette, l’aria furbetta. Il terzo aveva l’aria nervosa, ha detto qualcosa in napoletano, o almeno così le è sembrato. Il quarto era biondo, alto, baffetti e basette sottili e accurati. Hanno superato la finestra, e sono andati oltre la sua visuale. Il primo colpo le è sembrato il botto di

una lavatrice che inizia a centrifugare, il secondo non lo ha sentito. Ha rivisto passare uno dei quattro, poi altri due, mentre sentiva uno rimasto un po’ più indietro (quello castano e robusto) dire, con un accento bolognese un po’ sporco: – Va ban a fer dal pugnatt, padrone.

Ne rimane un altro nascosto dalla foschia, avvolto dalle sottili nebbie del mattino. Le nebbie di

aprile lo avvolgono, le nebbie della storia avvolgeranno le idee, i fatti e gli individui che hanno creduto di esserne protagonisti.

I segni verranno cancellati, le ragioni dimenticate. Resteranno solo le nebbie.

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1. Notturno

Disémela kí intra de nün: ona volta l’eva minga come al dí d’inkoéu…

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1. … me ne sono accorto un pomeriggio, alla Casa dello Studente di Pisa. Si aspettava il Gran Premio di

automobilismo, e il telegiornale aveva parlato di un grosso incendio che divampava a Todi. Interruzione del programma, tigì speciale, e nel silenzio sospeso un mormorio di apprensione: – Todi… Todi… – ed era invece la prima nave argentina colpita dai siluri britannici che affondava nell’oceano: boato di giubilo, pugni di esultanza a fendere l’aria, VITTORIA! VITTORIA!, tutti in piedi… E le Ferrari via a vincere sportello contro sportello, i polmoni dei marinai argentini a gonfiarsi d’acqua salsa…

… ’cause the Times, They Are a Changing

… insensibilmente, gli autunni cessarono di essere caldi e le primavere fondamentali. Gli inverni li

scoprimmo sempre più freddi, sempre più lunghi. L’estate, come prima, ci rimase buona per andare in vacanza…

… durante quegli anni furono venduti e acquistati titoli e azioni vaporosi come gas leggeri, finché il

grande Zeppelin, sollevatosi da terra, urtò contro le punte di cristallo del lampadario, ed esplose. Qualcuno si spazzò i detriti dalla giacca con un gesto della mano, altri rimasero sepolti, altri ancora pulirono il pavimento. Il gioco fu così divertente da essere replicato molte volte…

… per Natale la televisione regalò una rivoluzione in mondovisione, con divertimento e

soddisfazione quasi unanimi. Un vecchio dittatore pietrificato in una smorfia di stupore scoprì che, anche nella televisione, non tutto è finzione…

… ragazzini troppo a lungo cresciuti nella bambagia smisero di mirare al cuore dello Stato colpendo

il questurino, il portaborse o l’usciere di Montecitorio, mentre uomini senza volto, seri e maturi, passavano dalle canne mozze alle autobomba. In uno degli ultimi scampoli di asilo infantile un industriale morì durante un gioco più grande di lui, e di quasi tutti i partecipanti. Anni dopo il gioco fu ripreso per caso e concluso da un omicidio per interposta persona. L’esecuzione fu affidata a me, ma non ne fui informato. Sono sempre stato troppo buono, uno di quelli che si fidano…

… alcuni cantanti continuarono a morire, come negli anni Sessanta, ma con meno clamore, in genere.

Ian Curtis si impiccò, John Lennon fu ucciso a revolverate, David Crosby si convinse di essere la prossima vittima e fu arrestato con una pistola nella tasca della giacca (e centoventi chili di ciccia, più o meno), e quando si disse che Cat Stevens, convertitosi al partito degli dei ingiusti e sanguinari, aveva inneggiato all’assassinio di Salman Rushdie nessuno gli mandò a dire just relax, take it easy… Qualcun altro morì di cancro, ma i suoi amici non glielo dissero per non guastare lo show-business, il libro-remember, il film-reliquia e l’album già pronto per le esequie: finiti gli anni ruggenti e gli anni di piombo, anche la musica si adattò (non sempre) ai ritornanti anni di merda…

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… qualcuno scolpì Modigliani falsi col Black’n’Decker, e Salvator Dalì morì mentre il suo segretario

firmava decine di Dalì autentici. Tre tele di Bacon furono rubate, e solo due furono ritrovate prima della sua morte…

… le guerre divennero sempre più banali, e qualcuna fu trasmessa per televisione, ma il grande scoop

della Guerra Definitiva fu annullato per l’insolvenza di uno dei partecipanti. I biglietti già venduti non sono ancora stati rimborsati…

… solo gli operai continuarono, imperterriti, a scivolare giù da impalcature, ponteggi, passerelle prive

di corrimano, pensili senza parapetto, cercando invano di librarsi in aria come uccelli dalle ali sottili. Ministri, capi del governo e generali avevano purtroppo finito la scorta di medaglie al valore e onorificenze al merito – di strette di mano, unta di grasso e calce, fangosa o polverosa, neanche a parlarne! L’impasto di ossa, carne, sangue, tute, fango, grasso, vite, passioni che continuano a lasciare nelle fabbriche e sui selciati contribuisce ancora, per fortuna, a fornire quell’indispensabile senso di continuità alle umane vicende, altrimenti condannate a un indescrivibile caos di soluzioni di continuità…

… da un’intervista a Pino C., romanziere italiano: – Perché il mio personaggio vomita sempre? Perché credo che vomitare sia l’unico atteggiamento etico

possibile nei confronti degli anni Ottanta… Istantanee dal catalogo dell’Esposizione permanente: Migliaia di ragazzi inerpicati sopra un muro sbrecciato. Un piccolo uomo fermo al centro della strada blocca quattro carri armati. Un calciatore con la maglietta azzurra le braccia aperte la faccia felice e un sorriso da bambino. Un uomo soffoca sommerso da una valanga di corpi ammassati con colori e sciarpe della propria

squadra. La Bastiglia invasa da bandiere rosse in un giorno di vittoria. Roma invasa da bandiere rosse in un giorno di lutto. Una navicella spaziale esplosa traccia una biforcazione di fumo bianco nel cielo. Autobus urbani drappeggiati con lenzuola pieni di corpi straziati via dalla stazione di Bologna… (di questi non ci sono foto, ma io li ho visti, ve lo giuro, giù per via Indipendenza, quel pomeriggio…)

… e ancora presidenti e first-lady, attori e atleti, uomini comuni e non, bambini sazi e affamati,

vecchi… … Il Lance Haffner’s TKO Professional Boxing Game («The Ring», nov. 1991, $ 2.50, pp. 48-49) ha

stabilito che Muhammad Ali è stato il più grande pugile di tutti i tempi, ai punti su Joe Louis il bombardiere nero – che sino alla penultima ripresa era in vantaggio, ma l’ultima ripresa di Cassius, quel destro-gancio-destro…

KNOCKDOWN!

… Ali dances and shouts and smiles to the fans, Louis takes command in the championship rounds, pinning

Ali against the ropes and punching strongly to the mid-section. Ali recovers in the 14th, and, at the start of the 15th, waves Louis toward him. Ali then hammers Louis with a right-hook-rught combo and scores the bout’s only knockdown. It is enough to secure him the decision.

Scoring: 144-142, 144-141, and 144-142.

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(Joe Louis morto in miseria nutre i vermi al Cimitero degli Eroi, mentre Muhammad Ali seduto scruta

la sua mano galleggiare silenziosamente fra sé e il tavolo centimetro dopo centimetro verso il bicchiere…

… ed entrambi avrebbero battuto Mike Tyson con una sola mano) Verso la fine in molti si sono lavati la coscienza con detergenti ecologici, e per essere più credibili

hanno cominciato a frequentare i sagrati delle chiese, alla ricerca di qualche bara su cui sputare. Io ho vissuto…

Braves gens écoutez ma complainte écoutez l’histoire de ma vie…

… ho vissuto per molto tempo con una ragazza che amavo, anche se non ha mai saputo fare un caffè

decente … una ragazza che aveva amato la pittura, la boxe e la radio – e per qualche tempo anche me, credo … una ragazza che una volta aveva anche amato la politica, come tutti noi; e che era poi riuscita a

scivolare via da quello spettacolo assurdo e sanguinoso che chiamano Storia, come quasi tutti noi … una ragazza che un mattino mi sono alzato, che ho messo i miei vestiti in una borsa, che le ho

rimesso il cucchiaino nel barattolo del caffè e sono andato via. Una ragazza che per sei mesi ogni mattino ho continuato ad ascoltare la sua voce per radio. Che ogni mattino, per sei mesi, ho riempito la moka di caffè ho messo la caffettiera sul fuoco ho acceso il fuoco ho aspettato l’emersione del caffè ho respirato il suo aroma esplodere nella stanza ho bevuto il caffè (continuando ad ascoltare la sua voce per radio) senza avere il coraggio di maledirla. Poi, una sera di settembre, è volata giù dalla balconata di una discoteca, con una strana porcheria che

le girava nelle vene. Iddio raccoglie tutto ciò che cade con le sue grandi mani, mentiva un suo poeta: ma non quella sera…

Da allora, per molto tempo, sono andato a letto sbronzo. Tutto questo è successo prima.

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2.

E mi ricordo chi voleva al potere la fantasia erano giorni di grandi sogni, sai, eran vere anche le utopie ma non ricordo se chi c’era aveva queste facce qui non mi dire che è proprio così non mi dire che son quelli lì…

– Ecco qui, guardi mo’: suola, cucitura, sopratacchi. Può andar bene? Guardi che è tutto lavoro fatto a

mano, eh… – Sì,va benissimo. Quanto le devo? – Eh, ban ban … Qui c’è il lavoro, il materiale… poi il tempo, sa… Quegli attrezzi, son quelli che mi

ha lasciato mio marito, puverin… Sarebbero più di ventzencmil franc… facciamo, guardi mo’, venti… diciannovemila…

(… dalla radio, scampoli di canzoni e parole in libertà preannunciano l’avvicinarsi del mitico Vascodèi)

La pago in fretta, prima che sia lei a pagare me. Le raccolgo un ferro caduto per terra… (per l’amor di Dio, valgono un patrimonio…) … ed esco dal bugigattolo in cui la vecchina ciabatta tra una scarpa e l’altra, in attesa di misurare i

piedi del vecchio falegname ai cancelli del Cielo. È una delle mie fissazioni, attraversare mezza Bologna per farmi restaurare le scarpe dalla vecchia

ciabattina di piazza dell’Unità. Ogni tanto adotto un vecchio mendicante, un pensionato, un avanzo smozzicato della vecchia Bologna, solo per il gusto amaro di sentire una voce proveniente da un passato così lontano da sembrare finto. Del resto a queste Hogg ci sono affezionato: sono scozzesi, comode, calde, eterne, le cambierei solo con un paio identico, ma da un paio d’anni a Bologna non se ne trovano, solo imitazioni…

Piazza dell’Unità è immersa nella nebbia serale. La nebbia, a Bologna, ha una sua particolarità: non ha il carattere forte del nebbione che cela alla vista la Bassa, non è la spessa zuppa biancastra che odora di salume ferrarese. È una nebbiolina sgocciolante, umidiccia, che non nasconde, ma si accontenta di avvolgere: non comanda, le basta esserci, sdrucciolare sul marciapiede, luccicare acqua sull’asfalto. Afferra le cose, le priva della loro consistenza, e le restituisce tremule, oscillanti: lascia intendere che potrebbe cancellarle, ma si accontenta di accennare il movimento. La sua vittoria non è nello scacciare gli uomini, ma nel trasformarli in fantasmi, in spettri semitrasparenti. Forse nella nebbia i fantasmi di quei sette ragazzi immortalati sulla lapide ritornano in questa piazza, e riprendono a vigilare sulla Bolognina, in attesa dei tedeschi che verranno ad ammazzarli. Più in là, la barbona che da due anni abita nella macchina parcheggiata all’angolo sotto il bar dispiega i giornali per coprire i vetri, e si prepara al cambio d’abito serale. Via Matteotti balugina tra i fasci di luce delle auto che fendono la pioggerellina

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nebbiosa. Ora che ci penso, dev’essere la prima serata di nebbia della stagione. Mi avvio verso il centro, alla ricerca del primo Margarita della serata.

Così, con la mente già immersa nella schiuma bianca e salata del cocktail, non faccio caso al passante che incrociandomi si volta silenzioso a guardarmi per un istante. Se mi voltassi anch’io, riconoscerei un mio vecchio amico, forse l’ultimo che mi sia rimasto, sempre che si ricordi ancora di me. È diretto verso piazza dell’Unità.

Non ha autunni da inaugurare né scarpe da risuolare, non ha amici da consolare né vecchini con cui

ciacolare. Si fermerà davanti a un vecchio palazzo, fisso a scrutarne la stinta facciata da edilizia popolare…

Vai, vai pure, Andrea Vannini. Vai a sfamare la tenia sottile che ti coltivi dentro, aggiungi un pelo,

una scaglia, qualche goccia dei tuoi peggiori umori, qualche brandello di te al fibroma che ti cresci dentro con amore, come fosse un figlio.

E continua a credere che questa tua ossessione sia vita… … uno di quegli appartamenti dove, anni fa, è successo qualcosa. Un qualcosa nascosto fra le

tapparelle verdastre e l’intonaco scalcinato, che continua a ossessionarlo. Come se i muri potessero parlargli, fargli capire il perché, raccontargli cosa manca alla sua storia per essere finalmente compresa e accettata.

Suturargli le ferite, e spiegargli che lui non ne ha colpa. Restano così, lui e il caseggiato, l’uno di fronte all’altro. Pietra contro pietra, muti.

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2. Esterno

Un jour un général

ou bien, c’était une nuit un général eut donc…

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1.

3 settembre 1993. Alba Il corpo giace sulla poltrona, innaturalmente piegato attorno al bracciolo. La giacca da camera si apre

sopra il nodo allentato della cintura. Il petto, cosparso di radi peluzzi bianchi, urta contro il granata della stoffa. La giacca è di ottima fattura. Sul perlato di Sicilia, una macchia quasi nera si sta rassodando: sarebbe rossa, in un fumetto o un film. L’uomo che osserva la scena riuscirà ad abituarsi, prima o poi. La scrivania in mogano scuro, intonata al colore della notte che filtra dalla grande vetrata non schermata dalle pesanti tende

(avrebbe dovuto tirarle, prima? e se non lo ha fatto, è perché non gli importava, o perché aveva altri pensieri? e se ne aveva, erano ricorrenti, o sono apparsi all’improvviso? da quanto tempo si stavano facendo strada verso la tempia destra, verso il pavimento, gorgoglianti dentro quella piccola pozza?)

Sul caminetto un po’ tetro un busto (di chi?), giocattoli rari, una scatola vuota (cofanetto Sperlari), l’orologio a cucù, una sedia in damasco. E il gran lampadario in mezzo alla sala, che specchia e moltiplica il pessimo gusto.

Le carte sulla scrivania non sembrano scompigliate; nel loro ordine sommario, lasciano intendere che

l’ultimo foglio è quello di carta intestata, bianco crema, col monogramma in rilievo dorato in alto nell’angolo, e null’altro. Bianco crema: niente ultime parole famose.

Nel resto della stanza c’è tutto quanto ci si aspetterebbe di trovare in una signorile villa sui colli: una villa con un passato ben più nobile e raccomandabile di quello del suo ultimo proprietario, e un presente abitato, sino ad ora, da un uomo che se potesse ancora parlare si definirebbe, con orgoglio, fatto da sé. Probabilmente sarà felice di parlare di lui qualcuno di quelli che per farsi da sé ha dovuto, non sempre metaforicamente, disfare, cancellare, annientare. Quadri d’autore alle pareti, accostati con gusto dozzinale; libreria di rappresentanza, imponente come una piazza d’armi che schiera un reggimento di libri intonsi; un inginocchiatoio d’epoca, inatteso come la posizione assunta dal suo proprietario, che del resto non lo ha mai usato. In una cornicetta d’argento, la foto di un monastero orientale, o qualcosa che gli somiglia, con un cerchietto in rosso attorno a una finestra.

«Che diavolo sta a significare», pensa il funzionario di polizia mentre si gira con la foto in mano, quasi avesse dimenticato a chi sta rivolgendo la sua domanda. È con questa buffa espressione, a metà fra lo stupito e il sentimento di essere un idiota, che vede per la prima volta la mano destra spuntare appena, schiacciata contro il pesante bracciolo della poltrona, di sotto il corpo. Nella mano destra, la pistola.

Quella pistola è fuori posto. L’uomo avvolto dall’impermeabile chiaro, la faccia stanca per la sveglia indesiderata, la fissa con una

strana espressione, come se quella mano stringesse un ferro da stiro o l’ombrello di Mary Poppins. Quella pistola non deve essere in quella mano, tutto qui. Anche se, ovviamente, è chiaro che è sempre stata in uno dei suoi cassetti.

Ci sono investigatori che grazie al loro quoziente di intelligenza non sbagliano mai; altri che sono immancabilmente informati da una fitta lombare o un reumatismo che si presentano, puntuali come a un pranzo importante, nei momenti topici; altri ancora che sono baciati dalla fortuna proprio quando ti

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aspetti che debba succedere, in genere verso il penultimo capitolo. Poi, fuori dai libri, ci sono quelli che vengono dalla gavetta e si limitano a ricordarsi alcune delle cose accadute negli anni, magari perché hanno un buon metodo di archiviazione, o semplicemente una buona memoria. Come quello che, quindici anni prima, era dattilografo alla sezione balistica, presso la questura di Milano, e ha battuto il rapporto sulle armi che spararono, durante una manifestazione, contro la sede dell’Assolombarda. Armi quasi tutte assenti dai normali schedari, e soprattutto da quelli politici, a eccezione di quella stupida Smith & Wesson a tamburo, puntualmente registrata e protetta da regolare porto d’armi, che l’anno precedente aveva quasi paralizzato un vagabondo a cavalcioni del muro di recinzione di Villa Dondi. Così quel bossolo era stato archiviato, ed era rispuntato fuori quindici mesi dopo, partito dalle mani di uno di quelli del Comitato della Solferina e recapitato contro una finestra, e da lì in una porta in legno, dove si era infine arrestato. Due stanze più in là, il proprietario della Smith & Wesson guardava in basso, protetto da un vetro antiproiettile, assieme ad alcuni colleghi d’affari.

Alberoni gli avrebbe dedicato il suo fondo, due giorni dopo:

EDIPO A MILANO

Una generazione che non ha saputo far dono ai propri figli di amore e felicità, scopre ora che il benessere non lenisce i conflitti fra padri e figli, ma anzi li ripropone su scala sociale: non più attorno al tavolo, all’ora di cena, ma nelle strade, sul lavoro, nel mondo. Quella di due giorni fa è non stata una manifestazione politica, ma una rappresentazione edipica. Due generazioni che, separate da un muro, non hanno altro da dirsi se non inviarsi messaggi di…

… eccetera eccetera eccetera Per alcuni di loro, giù in basso, c’erano forse Edipo, col suo carro sporco di sangue, il suo incombente

destino e il suo piedone rigonfio. Per altri, c’erano i propri figli in carne, ossa e revolver. Che non avevano bisogno di ricorrere ai consueti mercanti per procurarsi le armi: bastava il cassetto della scrivania di papà. O la cassaforte di Villa Dondi, dalla quale la Smith & Wesson risultava misteriosamente scomparsa. Quel giovane agente che batteva il rapporto balistico aveva poi cambiato ufficio, e tempo dopo materialmente timbrato l’archiviazione della denuncia contro ignoti per il furto della pistola. Del resto, anche i ragazzacci della Solferina erano rimasti ignoti, ed erano stati quasi tutti archiviati negli uffici contro cui, in quel nebbioso giorno di marzo, scaricavano una selva di proiettili, vanamente ostacolati dall’attonito servizio d’ordine. Avevano smesso di votare nelle assemblee levando in alto la pistola, e avevano imparato a votare sollevando la delega e contandosi per pacchetti azionari: così va il mondo, cosa ci vuoi fare? Poi, una notte di settembre, quella Smith & Wesson ricompare, si appoggia sulla tempia destra di un facoltoso industriale e lascia uscire un proiettile che si fa strada attraverso due pareti ossee e un agglomerato di tessuto spugnoso e molliccio sino alla porta del bagno privato, dove resta conficcato. Se non è un’abitudine, ci manca poco.

Naturalmente il mondo è pieno di Smith & Wesson, e Andrea Vannini, rinchiuso dentro un impermeabile senza fodera, non potrebbe giurare che si tratti della stessa pistola; ma quando incontrerà il perito balistico, gli consiglierà di fare immediatamente un certo raffronto.

Il giorno dopo, nessuna sorpresa: la pistola è quella. Nel frattempo l’ispettore Vannini appoggia sul suo tavolo, accanto a un bicchierino di carta pieno di

caffè bollente e una sigaretta spenta dopo un paio di boccate, il fascicolo di Alberto Dondi, figlio di Gian Maria Dondi. Sono le 9.24 del 4 settembre. Ventotto ore prima, il sangue di Gian Maria Dondi si raffreddava sul pavimento, mentre il personale di servizio veniva sommariamente interrogato.

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Angelo Romboli, cuoco, cinquantatre anni, in servizio nella villa da tre. Faccia da macellaio toscano,

amichevole ma severa. Il cadavere lo ha trovato lui, poco dopo le quattro del mattino. La sua stanza è al piano terra, accanto alla cucina, e andando in bagno ho notato la luce che filtrava sotto la porta dello studio in fondo al corridoio: pensando che il signor Dondi si fosse addormentato sulla poltrona, ho aperto la porta. Sì, accadeva a volte che il signor Dondi lavorasse sino all’alba, per inviare via fax agli agenti di borsa, o ai suoi più stretti collaboratori, le istruzioni per la giornata a venire: il signor Dondi preferiva così, piuttosto che svegliarsi prima dell’apertura dei mercati e degli uffici, ma no, non ho notato nulla di insolito negli ultimi tempi, e no, il signor Dondi non dava confidenza al personale, e no, non ho alcuna idea, né alcun sospetto, sulle cause del suo gesto, e certo che mi sono rivestito mentre attendevo che arrivassero gli agenti, non amo farmi vedere in pigiama.

Giulia Baracca, responsabile del personale, trentasei anni, in servizio da due come responsabile, e in

precedenza per altri due come cameriera. Lei, a differenza del cuoco, si è limitata a gettarsi addosso una vestaglia da camera, che tiene stretta con le mani, mi scusi, ma non sono riuscita a trovare la cintura (in compenso si è infilata le calze scure, per abitudine: erano sul letto, e meccanicamente, sa…), no, sono l’unico membro della servitù a dimorare in villa, a parte il cameriere, certo, è stato lui a svegliarmi, e ho chiamato immediatamente i carabinieri (come continuerà a dire all’ispettore di polizia che smetterà, dopo la seconda volta, di correggerla). Guarda spesso in terra, arrossisce leggermente ogni volta che risponde, e veramente no, non ho controllato se il signor Dondi fosse già morto, o ancora in vita, ma sembrava così… così… così morto, capisce, il mio compito specifico è di dirigere il personale, che arriva in villa in parte alle sette del mattino (l’autista, la prima cameriera, l’addetta alla lavanderia), in parte a mezzogiorno (la seconda cameriera, l’aiuto cuoco, l’autista per la signora Dondi, che però in questi giorni è in congedo, perché la signora è in Svizzera, in villeggiatura). Probabilmente, nel dirigere il personale, fa uso di quell’autoritarismo un po’ stridulo, ma efficiente, tipico delle persone insicure. Ha un quasi impercettibile sbafo di rossetto poco sopra il labbro superiore, che non si noterebbe se non avesse una leggerissima peluria bianca.

Donato Vinciguerra, custode e giardiniere, trentasei anni, in servizio da nove. Tracagnotto, capelli

corti e arricciati, con un principio di stempiatura, sbarbato con molta cura, in divisa, l’aria leggermente seccata, come se lo irritasse una piccola imperfezione dovuta al caso, o a una indebita interferenza altrui, che resterà comunque a infastidire il suo senso della perfezione. Abita nel casotto all’inizio del viale, da dove non potevo aver sentito alcunché, il mio compito è sorvegliare l’ingresso della villa, attraverso un sistema di telecamere a circuito chiuso, e no, nello studio privato del signor Dondi non c’è una telecamera, come, del resto, negli altri appartamenti privati, c’è un interfono per comunicare, ma il signor Dondi stasera non lo ha mai usato, da dove ero non potevo sentire un rumore come un colpo di pistola esploso in questa stanza, se posso ritenermi libero, mi perdoni, ho paura che il mio cane stia abbaiando, è molto vecchio, comprenda, il vostro arrivo lo ha svegliato, e sarà certamente inquieto, la ringrazio.

Otto ore dopo Andrea Vannini tira giù due righe di appunti, prima del rapporto ufficiale. Gian Maria Dondi, industriale e uomo d’affari, sessantadue anni, sposato, un figlio. Azionista di maggioranza

della FederFin, società di importanza nazionale con interessi prevalentemente nel campo chimico. Arriva alla FederFin nel 1980, attraverso una serie di spericolate operazioni borsistiche. In precedenza si era costruito una posizione con la ChemiBrianza (società con sede a Bologna, ma con interessi prevalenti nel nord Italia), di cui è stato co-fondatore e vice-presidente sino all’omicidio, di matrice terroristica, del suo socio, Gilberto Varisi, avvenuto nel 1980 (gruppo responsabile sgominato, esecutori materiali arrestati). Residente a Milano dal 1960. Acquista una villa sui colli bolognesi nel 1976, e vi si trasferisce l’anno successivo, continuando però a fare la

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spola con Milano, dove la famiglia continua a risiedere sino al 1981. La moglie attualmente in Svizzera, ufficialmente in villeggiatura, in realtà in una casa di cura per malattie della psiche. Il primario, Philippe Roche, la ritiene non curabile. Di famiglia borghese, sposa il Dondi nel ’56, quattro mesi prima della nascita dell’unico figlio. Comincia a dare segni di squilibrio all’inizio del 1981. Il figlio è irreperibile da oltre un decennio. Ha avuto qualche problema negli anni settanta (politica), apparentemente niente di serio. Le sue tracce si perdono in Irlanda, nel 1983, da dove forse si imbarca per l’India. Probabilmente recita mantra con una sottana arancione, e si fa chiamare Dolcepetalodiqualchecosa. Patrimonio accertato notevole, in buona parte consolidato in immobili. Rapporti con la famiglia d’origine, inesistenti. Il Consiglio di Amministrazione della FederFin resta convocato per domattina. Ipotesi sulle cause: nessuna, per ora.

PS. La pistola usata compare nell’assalto all’Assolombarda. La cosa fu messa a tacere con una denuncia per

furto contro ignoti, probabilmente per coprire il figlio. Chiedere una scheda informativa sul figlio. NOTA BENE: La ChemiBrianza riempì di sostanze cancerogene una fetta della provincia di Cuneo, dove

aveva uno stabilimento, nel 1974. Una piccola Seveso, passata inosservata, o quasi. Rivedere anche quel fascicolo.

Mentre Renzo Tramaglino usciva dal lazzaretto, si scatenava su Milano un temporale dall’inusitata

violenza, che il giovane tessitore lombardo, ebbro di felicità, avrebbe bevuto senza riparo, come un Gene Kelly inciampato in una sfasatura temporale e riemerso nella Lombardia del XVII secolo. Dicono le cronache dell’epoca che quel benefico diluvio abbia lavato via la peste da Milano. È a questo che pensa, in piedi davanti alla finestra, l’ispettore Vannini. Un simile nubifragio, all’inizio di settembre, non capitava da tempo immemorabile a Bologna. In silenzio, mentre osserva un vaso di rose che, strappato dalle raffiche di vento dal suo sottovaso, precipita tonfando sul marciapiede sottostante, Vannini pensa a tre persone ossessionate, direttamente o indirettamente dai Promessi sposi.

Una di queste lo legge da anni. Ininterrottamente. Gli altri due pensano a lui da anni. Ininterrottamente. Non è la buona pioggia che spazza via la peste, è la pioggia radioattiva, uno scampolo tardato di

Cernobyl che porta giù la peste, che irradierà le coscienze e farà grondare sangue dai tetti delle case: è il quarto cavaliere che suona la tromba, e chiama a sé le sue armate…

Questo diluvio gli fa salire un brivido lungo la schiena. Mentre impugna la fiaschetta dove residua un ultimo sorso di Bushmills. spegne la sigaretta appena

accesa, lascia scendere il whisky giù per la gola, e compone un numero di telefono a memoria. Risponde una segreteria telefonica. Andrea Vannini lascia un messaggio, ne lascerà altri, sino alla

mezzanotte, nel corso del giorno, maledicendo il sabato. Quando mette giù il ricevitore ha lo sguardo fisso verso un punto imprecisamente al di là delle mura

del suo ufficio. Pensa alla sua Irlanda, alla baia di Galway, all’erba che cresce sul filo del mare, nel Connemare, e ai pony che la brucano, mentre rialza la cornetta, revoca i quindici giorni di congedo che aveva chiesto da tempo, e annulla la prenotazione per Dublino.

Tutto ha sotto il cielo una sua ora, un suo tempo. Il tempo di uccidere, e il tempo di curare.

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2. … è mentre giro la chiave nella serratura che sento gli ultimi rintocchi dell’orologio. Secondo lui è

mezzanotte. Da qualche parte, nella mia testa, la mia voce (versione sarcastica) cantilena che l’orologio è indietro di un quarto d’ora. Sono così scemo da ascoltarmi mentre schiaccio l’interruttore e avanzo. Quando lo sgabello m’illividisce lo stinco lo riconosco, e penso che non dovrebbe suonare come un vaso che va in pezzi. Poi il tappeto mi urta con violenza la faccia, riempiendomi la bocca di polvere. Fossi Paul Newman, farei perno con un piede ruotando su me stesso, e userei l’altra gamba come una forbice per colpire chiunque mi stia attorno nel raggio di un metro. Invece sono solo un povero investigatore privato, per di più bruno, ubriaco come ogni fine settimana da quando ho smesso di bere nei giorni feriali, che avrebbe dovuto comperare la lampadina nuova.

La mia vita è piena di se… non…: se avessi cambiato la lampadina non sarei entrato in una stanza buia, se non avessi giocato a chi beve più tequila alla messicana mi sarei accorto che la luce era rimasta spenta nonostante l’interruttore premuto, se fossi capace di riassettare questo fottuto soggiorno all’americana (o, se preferite, questo delizioso monolocale con spazio cucina e bagno-con-doccia, cioè senza vasca) non avrei lasciato uno sgabello nel mezzo della stanza, se lavassi i piatti non avrei il lavabo pieno e non sarei costretto a usare uno sgabello poggia-piedi come reggi-piatti-da-lavare (quando i piatti raggiungono lo sgabello è segno che vanno lavati: in genere funziona così). Forse l’ordine dei se… non… non è logicamente inattaccabile, ma dà un senso all’insieme.

Inoltre ho scoperto cos’è quel rumore di vaso rotto, e la cosa mi rassicura (l’ultima volta che è successo sono rimasto per mezz’ora per terra, con la testa che dava un party a cui era invitato tutto il quartiere Fuorigrotta nella notte di Capodanno, a chiedermi da dove spuntasse fuori quel vaso che avevo rotto senza averlo mai posseduto).

Così, rassicurato dal rumore che le rotelle fanno dentro la mia testa mentre compongo poemi logici riservati a pochi spettatori non paganti (i piatti e il bicchiere che ho rotto), posso rialzarmi e cercare con circospezione la scrivania, prima che la catena dei se… non… si srotoli da sola verso terreni delimitati da minacciosi cartelli…

(Hic sunt leones!) In quel momento la lampadina sovrastante la scrivania, sollecitata da un impulso proveniente dal suo

interruttore, si accende, per un attimo gli occhi mi si riempiono di luce (quante probabilità ci sono di riuscire ad accendere un’alogena al buio mentre i tuoi occhi non le sono accanto?), e resto un attimo imbambolato, mentre la vocina rassegnata mi dice, col suono di un corpo che cade su una poltrona (il mio, credo) che è troppo tardi.

Dovrei trovare il modo di togliermi dalla testa questa maledetta concatenazione di se… non… O quanto meno, dovrei trovare il modo di disattivarla.

Se fossi rimasto, forse non sarebbe finito tutto. Forse avremmo trovato una soluzione. Forse Barbara sarebbe ancora viva. Forse…

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(ormai è troppo tardi, tanto vale lasciar libero corso ai miei pensieri) La vocina ipocrita dice, con tono sicuro, che è l’ultima volta, ma questa volta per davvero. Da domani

niente più alcol, neanche di sabato sera. Lo squillo che la mette a tacere dev’essere un nuovo programma, una specie di salvaschermo, qualcosa di simile al tostapane con le ali che ti attraversa il monitor quando è un po’ che non batti un tasto. Non ricordo di averlo inserito, ma sono contento che ci sia. L’altra voce non ha smesso di tormentarmi, per lei non ci sono sistemi di sicurezza. Se fossi stato con lei, Barbara non sarebbe volata dal tetto della discoteca Caribeña, sorretta da una purpurea nube di ecstasy. Anche se non ha senso ripetermelo, continuo a pensare che l’unica cosa che Barbara detestava più delle droghe era la musica sudamericana, in tutte le sue varianti. E, in ogni caso, non aveva più l’età per l’ecstasy.

Sto per imbarcarmi in una caterva di recriminazioni, quando lo scatto meccanico della segreteria telefonica mi fa capire cos’era quello squillo.

(e io avrei pensato tutto questo nello spazio di quattro squilli del telefono?) Se non altro, i cattivi pensieri fuggono spaventati nell’udire un: – È da oggi pomeriggio che ti cerco –

gracchiante dal registratore. Quanto a capire chi mi cerca, è un altro paio di maniche. Ci penserò domani, come diceva sempre la mia eroina preferita. L’ultima immagine che ricordo mentre mi addormento sulla poltrona è di me, in abito da Magnifico

Rettore, mentre consegno la laurea honoris causa a Scarlet O’Hara per il suo contributo dato alla soluzione dei problemi dell’umanità.

Andrea Vannini è sempre stato un tipo fuori dal comune. Non ci ha mai detto perché, un bel mattino,

ha lasciato Università e collettivo per entrare in Polizia. E nessuno di noi glielo ha mai chiesto. Ai funerali di Barbara mandò un mazzo di fiori, e a me un biglietto: «Scusami, non posso venire. Mi spiace, Andrea».

L’ultima volta che si è fatto vivo è stato, credo, più di due anni fa. Anche allora una telefonata, come

non ci si vedesse da due o tre giorni, un appuntamento al solito pub irlandese (l’unico che abbia la Guinness alla spina, quasi vera, come fosse Donegal), una serata di chiacchiere, come tra amici che si vedono abitualmente (quella volta lì, erano solo due anni che non si faceva vivo: i tempi si allungano, dev’essere stato molto impegnato), senza mai nominare I quattro gatti, come ci chiamavano con sarcasmo quelli più impegnati, quelli più organizzati, quelli più armati, quelli più fedeli alla linea. Quelli più stronzi.

Noi quattro cani sciolti, sempre insieme sin dai tempi del liceo, anzi, ancor prima, sin dai tempi di

quel baretto dove giocavamo al calcio balilla, e Andrea aveva quel tiro secco, potente, con cui segnava dalla difesa…

… ancora? Al bar, a calcetto, quando ancora non sapevamo niente di politica, da ragazzini insomma. Ma

eravamo in cinque, c’era anche quel ragazzo taciturno dalla testa grossa, e lo chiamavamo Giovannino Testagrossa, e un pomeriggio, in piscina, sbagliò il tuffo, così come si può sbagliare un congiuntivo per troppa enfasi, e continuando a sorridere piombò in acqua, scomposto come una frase sgrammaticata, e lo recuperarono i bagnini, e tu eri lì, presente, ma ogni volta che parli del circolo del calcetto ridiventiamo quattro, possibile? Ed era lui a tirare secco, di prima, Andrea aveva quel tiro obliquo, carezzava la palla e la effettava dolcemente, e non capivi se era un tiro o un passaggio, e gli altri pupazzetti giravano a vuoto come marionette dislessiche, mentre la palla rotolante varcava sempre più lenta la soglia della porta avversaria, talmente lenta che a volte la si recuperava con la mano prima che andasse giù, e si giocava con una palla in più…

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… e noi da sempre impegnati a litigare sui western, a dividerci in fazioni organizzate, con statuti,

documenti, comunicati che venivano stampati e volantinati nelle assemblee, affissi all’università: da sinistra (all’estrema, ovviamente) la Colonna Clint Eastwood accusava John Wayne di essere un compagno che sbaglia, un elemento propulsivo del movimento ormai oggettivamente trasformatosi in ostacolo alla dialettica interna alla classe; da destra, il Nucleo John Wayne rivendicava l’ortodossia di linea dura e senza cedimenti contro lo spericolato soggettivismo dei Peckinpah e degli Aldrich, che utilizzavano poche citazioni di John Ford tirate e allungate come il chewing-gum per affermare una linea avventuristica, oggettivamente al servizio delle forze della controguerriglia psicologica.

Quando arrestarono Cristiano smettemmo di ridere quasi di colpo. Pochi giorni prima si era alzato all’alba per volantinare davanti ai cancelli della Weber, assieme ad

Andrea (che aveva da poco ottenuto il trasferimento a Bologna, e smontava proprio allora dal servizio, pensa te se lo riconoscevano che casino) un duro volantino (Le discese ardite e le risalite) contro l’ultimo film di Walter Hill, I cavalieri dalle lunghe ombre,

… opera di un agente della controguerriglia reazionaria, una fastidiosa zanzara estiva che svolazza

sulla fanghiglia ai bordi dell’inarrestabile fiume in piena della rivoluzione… Da allora con Andrea è così: ci si vede solo quando vuole lui, si parla di niente, e ciascuno dei due

(con Andrea, anche quando Barbara era ancora viva, mai più uscite di gruppo) sa che dietro quel muro di niente c’è il non aver capito che, mentre noi ci limitavamo a giocare ai cow-boy, Cristiano sparava per davvero.

E ammazzava. – È da oggi pomeriggio che ti cerco. Chiamami a casa quando rientri, oppure domattina in ufficio. In quale momento, ieri sera, ho inserito nel registratore una delle vecchie registrazioni delle

trasmissioni di Barbara? In ogni caso, durante la notte devo avere abbassato il volume (ci metterò due giorni a ritrovare il comando a distanza dello stereo sotto il cuscino della poltrona). Così, mentre sgranocchio fiocchi d’avena e latte freddo, mi riascolto il pezzo dei Residents con cui terminava ogni volta Il tè del contadino. Mentre la moka gorgoglia (ecco un’altra cosa da fare: devo comperare un nuovo filtro), sento la voce bassa di Barbara che sussurra, dietro la voce profonda del cantante:

– E anche per oggi è tutto. E, mi raccomando, non dimenticate di offrire il té all’uomo dell’aratro, una bistecca al sole splendente, e un bicchiere di vino alla fatina della buona pioggia.

Dopo esserci lasciati, iniziò quella trasmissione musicale, lei che possedeva sì e no venti dischi. Mai saputo cosa diavolo volesse dire, con quelle frasi finali. Barbara aveva i suoi segreti. La sigla di chiusura si intitolava Pain & Pleasure. Almeno questo so perché lo aveva scelto. Paura e piacere ci girano intorno, sinché non comprendiamo che sono una cosa sola. Così diceva, più o meno, quella canzone, appena arrivatale dall’America. Aveva amici a San Francisco, che ogni tanto la aggiornavano sugli ultimi scampoli della declinante scena Californiana.

Mentre aggancio il casco alla ruota anteriore della mia Vespa mi sovviene che è la prima volta che

metto piede nell’ufficio di Andrea. Dell’ispettore Vannini, mi correggo davanti al giovane poliziotto al quale, soprappensiero, ho chiesto: – Dove posso trovare Andrea?

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3. – Fammi capire. Ti fai vivo dopo due anni, di domenica (ieri era sabato, ma fa lo stesso), e la prima

cosa che mi dici, come fossi il tuo commercialista, è: raccontami tutto della scalata alla FederFin del 1980. Ho capito bene, o mi sono perso qualcosa di essenziale, come scusa se non mi sono fatto vivo per tutti questi anni, oppure ti è poi passata l’asma?

– Hai capito male. Non voglio che mi racconti tutto. Ho già letto il dossier, e non ci ho capito niente. O meglio, ho annusato una gran puzza. Voglio che tu me lo racconti saltando le fasi intermedie, le finanziarie d’appoggio, i giri fasulli di azioni, i prestanome, e così via. In trenta righe: una cartella secca. Sei tu che capisci l’economia: io mi fermo al modello 101. Le scuse te le faccio dopo. Uno pari, palla a te. Fammi sognare.

In un mondo in frenetica trasformazione, è consolante scoprire che non tutto cambia. Negli anni del liceo circolavano leggende sul tatto e la sensibilità di Andrea Vannini. Visto che alla fine vincerà lui, rinuncio a combattere. Mi guardo intorno, tanto per far sbollire l’irritazione.

Le pareti sono bianche, o almeno lo erano quando c’era Scelba. A parte il crocefisso e il presidente, non c’è nulla che ravvivi, per così dire, il muro. Mentre mi giro verso Andrea, scopro una piccola foto sul mobiletto in legno, fissata con una puntina colorata. Sandro Pertini, col braccio sinistro sul fianco e il braccio destro imperiosamente levato in aria, elegantissimo come sempre, circondato da giovani armati e impolverati.

Milano 1945. Andrea Vannini, non cambierai mai. L’unico, nell’occupazione del ’74, a intervenire in una

tumultuosa assemblea, gelando il frastuono, i fischi, il marasma citando il compagno Sandro Pertini. – Chi? – Il compagno Sandro Pertini. E l’assemblea tace, nello sconcerto di quasi tutti i capetti abituati a citare nome improbabili come

Cenpotà, Tròschi, Rudidùsc-che, ai quali proprio non sovviene quale linea, quale tendenza di destra o di sinistra, spontaneista ovvero operaista faccia capo al compagno Sandro Pertini.

Sotto la foto di Pertini, un ritaglio di giornale:

RITROVATE A PARMA LE TELE DI BACON Bacon lo conosco. Barbara era stata in Svizzera a vedere una collezione privata, e mi aveva mandato

una cartolina con un suo quadro. Una specie di pugile, una via di mezzo fra Picasso e un piatto di fegatelli, con dietro un saluto: «È la mia ultima scoperta. Te ne parlerò, quando ci rivedremo». Timbro postale, 29 agosto. Non ci vedevamo da sei mesi. L’ho rivista sotto un lenzuolo, col collo spezzato, quando mi hanno cercato per il riconoscimento.

L’articolo racconta della brillante operazione condotta dal giovane neo-ispettore Andrea Vannini, che si è spacciato per un acquirente interessato per sgominare una centrale specializzata nella compravendita

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di opere d’arte trafugate. Oltre alle due tele, rubate a Londra nell’82, ritrovati numerosi vasi etruschi, monete d’oro di epoca romana, degli acquerelli del…

– Il tuo primo successo? – Così c’è scritto. Quando risponde così, vuol dire che qualcosa non funziona. – Cosa c’è che non va in questo articolo? – Le tele rubate a Londra erano tre. Ne abbiamo recuperate solo due. Mancava la tela centrale. E di

quella non ne ho trovato neanche le tracce. Svanita nel nulla. Mai immessa sul mercato. Qualcuno, da qualche parte, si sveglia al mattino e se la guarda. Io al mattino posso al massimo contemplare l’immondezzaio comunale.

Poetica e retorica degli appartamenti Iacp. Sul suo tavolo, in una carpetta di cartone giallo-ittero, l’affare FederFin. Una pagina gloriosa della

finanza italiana. La prendo in mano, e sollevandola scopro che sotto c’è n’è un’altra, dello stesso colore, ma con meno documenti all’interno. Sopra c’è scritto: «Alberto Dondi».

Il nome mi dice qualcosa, ma non ricordo le circostanze. Anche la foto non mi dice niente. Dietro la carpetta, il volto inespressivo di Andrea.

– Quando avrai finito di studiare il panorama, ricordati di me… Continuo a leggere, come non lo avessi sentito. «Alberto Dondi, di Gian Maria e Andreina Pagnin, nato a Fiesole (FI) nel 1956. Segnalato in

numerose manifestazioni dell’ultrasinistra, senza fissa collocazione. Nel ’78 una nota informativa lo segnala attivo nel Comitato della Solferina (vedi fascicolo), organizzazione la cui pericolosità è emersa nella primavera dello stesso anno. Iscritto a giurisprudenza, otto esami sostenuti in cinque anni. Irreperibile dalla fine del ’79. Sospettato di contatti con Prima Linea. Nel settembre 1982 viene fermato a Londra, con documenti propri. Estradizione non concessa per mancanza di riscontri alle accuse. L’anno successivo si imbarca su un volo Dublino-Ankara-Bombay».

Quelli della Solferina me li ricordo. Figli di papà che hanno giocato ai soldatini per un paio d’anni,

per poi scomparire nel nulla. Non avevano certo problemi a procurarsi le armi: in genere, sfoggiavano quelle di famiglia. Una volta uno di loro, dimentico di cambiarsi le scarpe, scoperto in assemblea con le Peter Flower ai piedi aveva tirato fuori un revolver spropositato, mancando di un niente uno di quelli che gli stavano sputando addosso. Anni affollati, gente…

– Cosa c’entrano quei fighetti della Solferina? – Probabilmente niente. Parlami delle gesta del padre di quel campione. – Gian Maria Dondi, lo squalo che si è fatto da sé? – Prego? – È così che lo chiamano, nei salotti buoni. – Non credo che lo chiameranno ancora. E se lo faranno, non credo che risponderà. Dev’essere successo qualcosa. Forse dovrei ascoltare i notiziari, prima di uscire di casa. Forse dovrei

addirittura comprarmi un televisore. (dovrei farlo, ma in questo caso non sarebbe servito a niente. La notizia del suicidio non è ancora in

mano alla stampa) Inizio a raccontare. Sono sempre stato bravo, nelle sintesi. Sono le analisi a fregarmi. È per questo

che mi sono specializzato nelle investigazioni finanziarie: al livello a cui opero io, in genere vengono a cercarmi con già tutti i dati in mano, e io devo solo compiere quelle piccole correzioni alle vigenti normative per scoprire dov’è che i fili si sono annodati.

– L’affare ChemiBrianza-Federfin. Tragedia in cinque atti e un intermezzo.

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– Atto primo. La FederFin, azienda chimica di peso nazionale, numero due nel settore concimi, decide di accrescere il proprio peso sul mercato acquisendo la ChemiBrianza, spregiudicata azienda staccatasi da una costola dell’Icmesa, specializzata nei materiali plastici. Obiettivo della fusione, la creazione a medio termine del terzo polo nazionale nel settore chimico, meno grosso ma più agile di Eni e Montedison. Con un accordo fra le due società, la Federfin acquisisce il pacchetto di maggioranza della ChemiBrianza, di proprietà dei fondatori Gilberto Varisi e Gian Maria Dondi, a un prezzo rivalutato. Parte delle quote viene scambiato col sette per cento delle azioni FederFin, quattro per cento al Varisi e tre per cento al Dondi. Per finanziare l’operazione, il dieci per cento delle azioni FederFin viene immesso sul mercato, mentre un altro dodici per cento viene acquistato da una finanziaria canadese, la Logan Ent. Incom., apparentemente interessata a farsi spazio sul mercato nordamericano con l’apertura di un ramo canadese della Federfin. L’operazione è pulita, apparentemente senza problemi: la FederFin si espande, Varisi e Dondi rivendono le proprie azioni realizzando una plusvalenza impensata, e per soprammercato entrano, come soci di minoranza, nel salotto buono della chimica, nel giro che conta. La Logan Ent. Incom. garantisce una presenza su un mercato dove i concorrenti europei non sono ancora presenti. Infine, il dieci per cento delle azioni, polverizzato sul mercato, non preoccupa nessuno. Chiaro, fin qui?

– Più o meno. Spiegami perché la FederFin mette in vendita qualcosa come il ventinove per cento complessivo delle proprie azioni.

– Per due ragioni. Primo, ma questo non lo dovrebbe sapere quasi nessuno, ha nei piedi più argilla di quanto sembri: non ha liquidità necessaria per un boccone come la ChemiBrianza, e non può correre il rischio che qualcun altro ci arrivi per primo. Secondo, il quarantatre per cento delle azioni FederFin è in mano alla famiglia Cabacci…

Cabacci. Nella chimica italiana da tre generazioni. L’esperienza al servizio del mercato … e con una quota di maggioranza così robusta i Cabacci si sentono al sicuro. Dopo tutto, il dodici

per cento che parte per il Canada è meno di quanto partì da Torino in direzione Tripoli ai tempi dell’intesa Agnelli-Gheddafi.

– Forte e chiaro. Atto secondo? Sono soddisfatto di come riesco a dipanare quel groviglio di serpi con poche frasi, eliminando tutti i

passaggi intermedi, soprattutto quelli fatti apposta per depistare non solo un povero ignorante come Andrea Vannini, ma soprattutto le commissioni di controllo. Che, del resto, non chiedono che di essere prese per il naso in modo credibile, senza che la cosa appaia troppo evidente. Mi servo da solo un caffè dalla macchinetta automatica, per coprire quel retrogusto di tequila che mi tormenta il palato.

– Atto secondo. Al momento della collocazione… (Dio, che schifo! Con cosa lo fanno il caffè qui, coi ceci tostati?) … della collocazione del dieci per cento sul mercato, qualcuno è già pronto, con capitali liquidi

freschissimi e ben oliati. Le azioni FederFin vengono rastrellate nel giro di quarantotto ore. Nel giro grosso cominciano a guardarsi l’un l’altro di traverso. I canadesi fanno la voce forte: se questa è la credibilità e la riservatezza del mercato italiano, grazie tanto, non ci stiamo. I Cabacci sudano sette camicie per convincerli a rimanere nell’accordo.

– Intermezzo. Un dirigente dell’Icmesa viene ucciso, a Monza. Seveso, tanto per capirci. Qualcuno di quelli che sparano pensa che sia una buona idea. Malauguratamente per Varisi, questo qualcuno si ricorda anche di quella nuvoletta che sorvolò Cuneo una mattina di qualche anno prima. Morale, Varisi viene ucciso il 17 aprile 1980.

(quando dico la data esatta, io che di solito non sono capace di ricordare la data di morte di Napoleone, Andrea mi fulmina. Non muove un muscolo, un sopracciglio, un labbro. Si limita a incenerirmi con lo sguardo e aspetta che io ricomponga misericordiosamente le mie ceneri. Cristiano Malavasi, che cazzo hai combinato?)

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– Atto terzo. Nel mese di luglio, mentre l’Italia parte per le vacanze, Gian Maria Dondi, che ha acquisito le azioni del suo socio e ha dichiarato, in una commovente commemorazione pubblica, che «il programma di questa azienda, che noi abbiamo creato iniziando a lavorare con le toppe sotto i pantaloni e le maniche di camicie rivoltate, continuerà immutato, perché alla sua testa saremo sempre in due, come lo siamo stati per trent’anni», rileva le azioni dei canadesi. Si scoprirà in seguito che la Logan è stata creata da un gruppo di finanzieri per svolgere operazioni sporche come questa. Dondi e Varisi erano evidentemente della ballotta. Nel giro di due anni la Logan si scioglierà nel nulla. A metà agosto, nuovo colpo di scena: il dieci per cento immesso sul mercato lo ha in mano Dondi, che ha utilizzato, per rastrellarlo, i soldi con cui la FederFin ha acquistato la sua baracca velenosa.

– Fermo un attimo. Vuoi dire che la FederFin ha pagato in anticipo le azioni della ChemiBrianza? Non imparerà mai. Scommetto che continua ad avere un conto in banca con interesse del due per

cento, e paga più interessi passivi di quanto non guadagni col deposito. – Voglio dire che Dondi e Varisi si erano fatti anticipare, da qualche finanziaria lussemburghese o

svizzera, i soldi per l’operazione, utilizzando come garanzia e copertura i futuri introiti. – A questo punto, Dondi ha in mano il ventinove per cento delle azioni della FederFin, e con piccoli

azionisti di minoranza dalle comuni frequentazioni politiche costruisce una cordata che arriva al trentotto per cento.

– Così, la situazione è pericolosamente in stallo. I Cabacci hanno ancora il quarantatre per cento, ma una cordata rivale del trentotto per cento fa paura. Ciascuno dei due partiti sarebbe costretto a sorvegliare il mercato in un’opera di costante accaparramento delle azioni disponibili, e la cosa non conviene a nessuno dei due. Per di più, i Cabacci, ad agosto, hanno la cassa vuota. Dondi lo intuisce, e propone un accordo.

– Atto quarto. La Carbofibre, società controllata dal maggior polo chimico nazionale, che possiede un simbolico due per cento della Federfin, acquista il tre per cento dai Cabacci, il cinque per cento dal Dondi e il tre per cento dai suoi soci di cordata. Situazione: Cabacci, quaranta per cento e due lire in cassa, per buona misura; Dondi, ventiquattro per cento; i suoi amichetti, sei per cento; a far da arbitro, col tredici per cento, la Carbofibre, che afferma di temere una guerra interna che dissangui il mercato e apra la porta principale ai gruppi chimici tedeschi e svizzeri. È estate, l’Italia suda, e quando non suda pensa a una stazione ferroviaria saltata in aria, e nessuno ha voglia di scavare sotto questa tregua.

(credo di avere un pezzo di cicoria bruciata al posto della lingua: peggio per me, perché ho bisogno di un altro caffè)

– Atto quinto, il gran finale. All’anno nuovo, Dondi acquista l’intero pacchetto Carbofibre, e diventa il socio di maggioranza della FederFin.

– Dondi aveva una tale liquidità? Cosa posso fare? Eppure ha studiato, e il suo quoziente intellettuale è nella norma… – Dondi li trova, i liquidi. Appesi al caminetto, nella calza della befana, se preferisci. E diventa il

padrone della FederFin. Ai Cabacci, cornuti e mazziati, non resta che vendere parte delle loro azioni, per reperire un po’ di fondi con i quali andare a nascondersi da qualche parte.

– E adesso, indovina il buon Dondi, il gran prestigiatore che fa comparire capitali dal cappello come fossero conigli, cosa fa, per prima cosa? Cede alla Carbofibre il controllo della ChemiBrianza.

– Adesso, se hai studiato bene, dovresti sapermi dire la morale della storia. Schiaccia nel posacenere la sigaretta fumata a metà e abbozza un sorriso. – Fammi indovinare. Dondi era un piccolo padroncino, e ora possiede una società dieci volte più

grande. I Cabacci, che con la loro debolezza rischiavano di essere scalati da altri gruppi, sono stati spazzati via dal mercato senza che i grossi calibri si sporcassero le mani. E la Carbofibre, stando a questo dossier, diventa (legge sul dossier) «azienda leader nel settore delle plastiche chimiche».

Li scrivono così, i dossier, i nostri tutori dell’ordine: copiandoli dalle inserzioni pubblicitarie sui giornali. Azienda leader nel settore delle plastiche chimiche…

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È ora di pranzo (o di cena, per chi non ha fatto colazione a mezzogiorno inoltrato con caffelatte e

fiocchi d’avena), e ho una tribù di vermi solitari nello stomaco. Andrea mi guarda, e abbozza un sorriso. Sento le labbra che gli si screpolano per l’inusualità del gesto, mentre mi dice: – Vieni da me, ti racconto il resto a casa. Devi farmi un altro favore.

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4. L’ultima volta che ho visto quel manifesto di Ombre rosse era sulla parete del nostro covo, un paio di

piccole stanze, una delle quali foderata con i contenitori delle uova, che si dice assorbano i suoni (non hanno mai assorbito alcunché se non gli albumi delle uova rotte nel trasporto, ma del resto neanche noi ci abbiamo mai suonato). Adesso ha qualche strappo, ma è protetto da una cornice a giorno. Su una mensola, alcuni libri familiari, una vecchia sveglia, di quelle che fanno tic-tac e suonano col martelletto sulle campanelle, un Monopoli e una foto di gruppo. Quattro ragazzi sorridenti, destinati a un brillante avvenire. Due sono in questa stanza, con un bicchiere in mano, mentre nel forno si scaldano due pizze surgelate. Ci metto un po’ a riconoscere i Quicksilver nell’aria.

– Hai dimenticato John Cipollina? Credo di sì. Adesso che la musica va mi ritorna in mente qualcosa. Una classifica, che non è mai stata

definitiva. Primo, a seconda degli umori, Eric o Jimi. Dietro, John Cipollina: è sempre stato terzo, in ogni classifica. Forse mi piaceva per questo.

– Cos’è che ti rode, in questo caso? Un riccone si spara: e allora? Niente messaggio? Probabilmente non ha mai saputo scrivere. Forse voleva scrivere un addio, ma non sapeva quante d usare… Hai controllato se nella stanza aveva un vocabolario?

– Non è questo. Tra l’altro, uno che la famiglia l’ha dispersa fra manicomi svizzeri, conventi tibetani e case popolari nella bassa magari non sa neanche a chi scriverlo, il biglietto d’addio. Ma non mi va a genio lo stesso. A cominciare da quella pistola.

Adesso, probabilmente, sono io a sembrare lo scemo del villaggio. Il fatto è che in quella pistola non ci trovo niente di strano: quelli della Solferina, lo sapevamo che gente era. Adesso sappiamo che il figlio di Dondi era uno di loro – o meglio, c’è anche un indizio, perché lo sapevamo già. E allora?

– Non è il figlio. Quel coglione adesso sarà diventato un arancione… (lo ha detto sottintendendo un coglione arancione) – … chi se ne frega. Al massimo, posso usare la pistola come pretesto per tenere la faccenda aperta

per qualche giorno. È il quadro d’insieme, o forse lo sfondo, che non mi convince. Immaginati Dondi: parte dal nulla, si fa strada a gomitate negli occhi degli amici, e ogni singolo successo deve sembrargli un brandello strappato con i denti dalla bocca di un mondo ostile. Come credi che funzioni la testa di un uomo così?

Quando parte per la tangente, è inutile provare a rispondergli. Non sta dialogando: monologa ad alta voce. Mentre continua per conto suo, sforno le pizze, prima che si carbonizzino. Cerco dei piatti che non siano di plastica, invano. Io, anche se non li lavo di frequente, almeno mangio in piatti veri. Avrei voglia di chiedergli quando ha smesso di mangiare decentemente, ma non credo di voler ascoltare la risposta.

– Come uno che vive nel lusso, ma non butta via niente. Ho dato un’occhiata nelle stanze: ci sono vecchi mobili che sono stati sostituiti nell’uso da mobili nuovi, più belli e confortevoli, ma sono rimasti al loro posto. Persino quella stupida pistola, che poteva creargli qualche grattacapo, è rimasta conservata da qualche parte. È stata la sua prima arma, comperata quando gli si è manifestato per la prima volta il timore di essere derubato. È uno status-symbol: possono derubarmi, dunque sono ricco. Invece la servitù

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non resta in servizio per più di quattro-cinque anni, durante i quali frequenta la villa lo stretto indispensabile per svolgere le proprie mansioni. Un uomo così, soprattutto dopo che la moglie è andata fuori dai coppi, dovrebbe aver piacere ad avere qualche vecchio servitore attorno: anche loro sono uno status-symbol, e lo aiuterebbero a sentirsi meno solo. E invece no. Tranne il custode. Che però non può sorvegliare l’interno della villa. Forse non si fida del tutto, o forse non vuole essere osservato. Ma allora, perché non rivolgersi a una sorveglianza privata? Così è uno spreco di denaro, paga come custode un giardiniere. Ti sembra il tipo?

(no, non mi sembra, ma se il vecchio pirata aveva qualche mania cosa posso farci?) – Poi un’altra cosa, anche questa quasi insignificante. Ho parlato con i suoi soci d’affari. I quali, visto

il modo in cui ha conquistato la società, lo tenevano d’occhio, tanto per non farsi sorprendere con le braghe calate. Per farla breve, il Dondi ha dato disposizioni, due mesi fa, di trasferire una quota del suo pacchetto in affidamento a una finanziaria britannica, di cui si sa quasi niente, e che mantiene le labbra cucite. Però sembra che tra le disposizioni testamentarie ci sia qualcosa che riguarda un eventuale decesso.

– Stai dicendo che questa società fantasma potrebbe essere divenuta proprietaria delle azioni ricevute in custodia?

– Esatto. Una quota non molto rilevante ai fini di un’eventuale scalata, anche se convertibile in un gruzzolo cospicuo. Però ammetterai che la cosa ha poco senso.

Già. Non si lascia qualche miliardo in eredità a una scatola di cartone buona per tutte le stagioni. La puntina gratta sull’ultimo solco del disco. Andrea si alza, e comincia a scartabellare fra i dischi.

– Sei ancora convinto che i Cream siano stati il più grande gruppo di tutti i tempi? – mi chiede perplesso. Ho paura di non ricordarmi più neanche chi fossero, i Cream, ma non faccio in tempo a dirglielo. Quando parte White Room crollano giù interi muri di oblio. Questo mondo fa un po’ meno schifo quando riesci a renderlo più vivibile.

– È questo il favore che devi chiedermi? – No, c’è dell’altro. Nelle ultime settimane sono stati vendute piccolissime quote azionarie della

FederFin. Niente di serio, e se gli amministratori della FederFin non avessero tenuto gli occhi ben aperti probabilmente non se ne sarebbe accorto nessuno. Ma a operare sembrano essere uno o due di quei barracuda del mercato che non lavorano mai con materiale di proprietà, ma sempre per conto terzi. E i signori in questione sono convinti che quelle azioni provenissero proprio dalle mani del Dondi. Ora, perché uno che ha molti soldi fa vendere di nascosto, attraverso dei personaggi inaffidabili, le proprie azioni? Perché ha bisogno di contante senza passare dalle banche?

– Ridicolo. Chissà quanti conti in nero avrà avuto. Per non parlare delle possibilità di lavare tutto il contante che voleva…

– Lo penso anch’io. A meno che non fosse qualcun altro a non fidarsi di lui. Prova a pensare: qualcuno deve incassare dei soldi, ma vuol essere sicuro che non risultino da nessuna parte. E non si fida del Dondi. E non è uno di quelli che ha le mani in pasta con finanziarie bidone, conti in nero e cose simili. Tanto è vero che si rivolge, come intermediario, a uno che, a quanto ne so, venderebbe sua sorella a una banda di stupratori.

Comincio a capire. – E allora voglio che tu domani mi vai a tenere d’occhio il mercato azionario, per vedere cosa

succede. Così capisco subito se è il caso di andare avanti o no. – E come ci arrivo a Milano per le otto del mattino? È domenica sera, e non ho mai posseduto

un’automobile. E anche se la possedessi, non ho la patente… Quando si rimette in moto la fabbrica del se… non… è segno che ho già perso. È per questo che

quando lo sento dire: – Non ti chiedo di andarci in Vespa. Ti faccio dare un passaggio da una macchina che a Milano, per servizio, ci va tra un poco, – non reagisco neanche. Lo so che quella macchina casualmente è già sotto casa, che aspetta.

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Sarà una lunga notte, penso mentre salgo sul sedile posteriore e guardo le facce dei miei compagni di viaggio. Sicuramente la serata sarà allietata da barzellette sui carabinieri, l’opera omnia di Mino Reitano e birra nazionale. Certe cose si leggono sulle pieghe del viso, come fossero scritte col neon fosforescente.

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5. Mi sbagliavo: Mino Reitano è roba passata. Toto Cotugno devo essermelo perso, nascosto fra le

pieghe temporali che separano il periodo in cui ascoltavo musica, ma non quella italiana, da quello in cui sono rimasto senza radio, e per qualche anno non l’ho più ricomprata. Oltretutto, all’epoca ascoltavo musica in case di amici, e compravo non più di due-tre dischi l’anno. Adesso sono abituato ad accendere su un canale, e a dimenticarmelo acceso mentre faccio altre cose, e magari esco senza spegnere. Ci penso mentre faccio colazione vicino alla centrale di polizia, in un bar (… cara el me Cavenagh…) chiassosissimo, affollato da credibilissimi hippy, spacciatori, ruffiani (… ona volta l’eva minga come al dí d’inkoéu…) e quant’altro il catalogo del perfetto poliziotto-infiltrato-ma-riconoscibile prescrive. Dalla radio del bar (… disémela kí intra de nün…) sento l’Enzo cantare Lui era dritto che scrutava nella nebbia…, e mi sembra giustissimo come inno di questo circolo privato.

Magari sono io a essere prevenuto. Essere passato dalla politica alle investigazioni private, restando sempre ai gradini più bassi (è da due-tre anni che mi sono specializzato nelle indagini economiche e finanziarie, e riesco a dir di no ai tradimenti coniugali, pedinamenti dei figli per conto dei padri, mariti che mentono alle proprie mogli sui debiti di gioco mentre si ipotecano la casa, e via degradando), mi dà una certa competenza, che al delinquente medio dovrebbe essere negata. Magari un travestimento così serve da specchietto per le allodole, mentre il vero infiltrato passa inosservato. Magari sono semplicemente di cattivo umore, e cerco un pretesto per non cominciare a pensare male di Milano.

Il fatto è che odio Milano, l’ho sempre odiata. Non so che farci, io a Milano vorrei starci il meno possibile. Mai combinato alcunché di utile, e spesso litigato con tutti (e specialmente con Barbara): una depressione, sempre… È una città che mi dice male, ha niente da dirmi, non mi importa alcunché, perciò trovo inutile venirci. Non so che farmene del Campari in Galleria e del retaggio asburgico e della Madünina e delle cotolette e dei risottini allo zafferano e del burro. Amaro Ramazzotti, per me, no grazie, e la nebbia che belesa, la va giù per i pulmún, figuriamoci. Basta gettare uno sguardo lungo corso Buenos Aires e vedere la gente andar di fretta e i panni firmati Fiorucci, e subito mi viene una gran voglia di pizza come la sanno fare a Napoli, da Michele ai Tribunali, olio d’oliva e vino primitivo e zuppe di pesce. Lo so, ormai, che faccio uno sbaglio tutte le volte che ci vengo, forse perché era milanese tutto ciò che non mi è mai andato giù di Barbara, compreso il suo orribile caffè allungato che lasciava nello stomaco un rigurgito d’acqua calda e predisponeva a una pessima mattinata. Forse, semplicemente, sto diventando paranoico. Ho pensato a lei ieri, in questura e poi a casa di Andrea, e adesso sono solo le sei e tre quarti. In genere, quando non bevo, riesco a non pensarla. Talvolta riesco (persino) a uscire con altre ragazze, e ogni tanto mi capita (addirittura) di non dormire a casa mia. Provo a concentrarmi sul mio personale, privatissimo odio verso Milano, per togliermela di testa. Brutto segno: per riuscirci, devo arrivare a prospettare l’idea di una destinazione di Milano quale poligono di prova per la bomba al neutrone (l’architettura della vecchia Milano, devo essere sincero, non è male, e il Duomo mi è sempre piaciuto). Così, solleticato dalla visione di una Milano deserta, penso a don Abbondio, al suo auspicio di una peste ricorrente, che ogni tanto ripulisca e sgomberi le strade del mondo dal fango e dal sudiciume, e distrattamente faccio l’errore di ordinare un secondo caffè. Mentre bevo la porcheria,

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penso a qualche tortura da infliggere al barista, finché la mia stupida mente, lasciata troppo libera, mi punisce con un’altra feroce associazione di idee. Cristiano, che passa le sue giornate a leggere e rileggere Manzoni. Cristiano, conosciuto come fra’ Cristoforo in quel di San Vittore, dove attualmente risiede. Non è colpa di Milano, in fondo. Milano è solo brutta. È questo mondo che è peggio. Esco dal bar.

Milano mia, portami via ho tanto freddo, schifo, non ne posso più…

È lunedì, ho dormito da schifo in una macchina della polizia mentre percorrevo l’autostrada di notte,

mi sono ripulito al diurno della stazione, ho fatto colazione con una pasta risalente ai tempi in cui la linea più breve fra due punti era sempre un lancio di Michel Platini… (cosa ti aspetti, all’alba di lunedì: croissant appena sfornati per te?)

… e sono pronto per una radiosa missione: entrare nel tempio della finanza e vedere cosa succede. Facile: centinaia di persone agitate, un listino di cui conosco a mala pena la metà dei titoli, una confusione inenarrabile, e io lì in mezzo che cerco di capire se qualcuno ha l’aria di aver saputo della piccola tempesta in un bicchier d’acqua che verrà annunciata alla stampa solo alla chiusura delle trattative. E ovviamente scoprire cosa sta trattando questo fantomatico veggente, e prendere mentalmente nota di tutto.

Sono mesi che non metto piede qui dentro. Come sempre, scelgo a caso quale tesserino usare. Quello di operatore l’ho lasciato a casa, per cui sfodero la tessera verde scuro dell’Ordine dei giornalisti (bei tempi, quelli in cui Stampa Alternativa la regalava a chiunque), poi vedo che l’usciere è di quelli che conosco, ed entro con un sorriso radioso, sfoggiando ottimismo da ogni poro.

(«Oggi Li Spacco In Quattro», dovrebbe essere la traduzione letterale della mia smorfia) Una volta dentro inspiro, più che altro per il bisogno d’un gesto che dia inizio alla ricerca, mi guardo

intorno un paio di volte, poi comincio a fissare un codino unto che penzola sopra un Ermenegildo Zegna sicuramente sopra le righe. Giampiero Lamanna, una delle prove viventi che l’Aids non è stato mandato da Dio per punire gli ingiusti e i malvagi, è ancora sulla piazza, purtroppo in ottima salute. Non so se si riferivano a lui, gli amministratori della FederFin, quando hanno usato il termine «barracuda»: se è così, sono stati benevoli.

Giampiero Lamanna è un piccolo predatore della società, passato attraverso un’esistenza nomade non per vocazione, ma per necessità. Per anni ha pendolato fra quattro o cinque città, ogni volta scomparendo dall’oggi al domani, ogni volta lasciandosi dietro un refolo di sospetti su un magazzino di vestiti svaligiato, un Tir rubato e ritrovato vuoto, un ricco turista austriaco derubato di tutto. Tutto questo vagare, sfuggendo come un’anguilla già unta ma che non si riesce a mettere in padella, fra le maglie della giustizia penale lo ha temprato. Il Lama, come lo chiamano qui a Milano, è morto molte volte, e ogni volta è rinato più forte, più infido, più repellente. Due anni fa l’ho incrociato, proprio qui. Annusai qualcosa, ma non era implicato nelle indagini che svolgevo, e lo lasciai al suo destino. Che evidentemente è quello di incrociarmi ogni volta che passo di qui.

Il Lamanna non è, propriamente parlando, un operatore di borsa. Ma può capitare che lo faccia. Così, quando compare, quasi sempre all’apertura (il Lamanna si muove sempre per conto terzi, e dunque tendenzialmente sa già in partenza cosa fare), viene quasi sempre circondato da una piccola folla di mini-speculatori, pesci-pattumiera che nuotano al seguito dello squalo per cibarsi dei suoi scarti. Se il Lamanna vende, si può esser certi che probabilmente venderà sottocosto. Se compra, è per rastrellare, e dunque comprerà sovrapprezzo. Il Lamanna fa pagare a caro prezzo l’incompetenza di chi si rivolge a lui. Del resto, rivolgersi a lui significa non solo incompetenza, ma soprattutto mancanza di alternative. In definitiva, un elemento tipico, come ce ne sono molti, né meglio né peggio di lui. Ma dal momento che

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ho piena libertà di movimento, tanto vale scoprire cosa è venuto a fare qui. Così mi accodo alla torma di giovani unti che si guadagneranno la giornata sul grasso che gli cola dai capelli tirati all’indietro. Oltretutto il Lamanna deve avere un solo incarico da espletare, perché butta un’occhiata distratta sul listino d’apertura (d’accordo, può esserselo studiato sul televideo), rilegge un paio di volte un appunto su un taccuino quadrettato, e va a piazzarsi in pole-position.

Oggi dev’essere la mia giornata fortunata, penso quando lo vedo alzare la mano e cominciare a

vendere FederFin una sull’altra, sempre dando l’impressione di non conoscere le quotazioni del titolo che, anche se di pochissimo, iniziano a calare in apertura. Me lo mangio con gli occhi, pensando che è tutto troppo facile. Intorno, infarti precoci acquistano non appena il titolo comincia a scendere, qualcuno butta ogni tanto due conti su un foglietto, molti guardano ansiosamente il tabellone, in attesa del momento più conveniente per rivendere. Usciranno di qui tutti alla stessa ora, andranno a riempirsi di colesterolo e grassi ultraveloci nello stesso posto, guadagneranno tutti le stesse quattro lire (oggi è giornata facile), a rimorchio su una piccola speculazione altrui, ma è fondamentale per ciascuno di loro che quelle quattro lire entrino entro le dieci e mezza. Dopo quel limite, iniziano le palpitazioni, le ansie, i sudori, le azioni delle coramine fluttuano in alto, gli ansiolitici dilagano, le toilette cominciano ad affollarsi e le narici a sgocciolare, il tutto esattamente in questa sequenza.

Io odio i miei se… non… per vari motivi. Uno di questi è che hanno sempre ragione. Ad esempio, se qualche minuto fa non mi fossi fatto fregare dalla mia vena moralisteggiante…

(solo per pochi minuti, il Seneca di piazza Affari, signori e signori!) … non mi sarei inavvertitamente avvicinato troppo al Lamanna. Quando mi accorgo che mi sta

fissando, resto imbambolato, stupito dall’espressione inattesa del suo volto. L’istintiva vampata d’odio che dilaga dai suoi occhi sfuma immediatamente in un irritato stupore, poi

si scioglie in un lago di disprezzo che si accartoccia attorno alla piega delle labbra, come una ruga di troppo. Nel momento in cui distolgo lo sguardo da quegli occhi sottili, appiccicati a zampe di gallina eccessive per la sua età, ma non certo per la suo tenore di vita, il Lamanna chiude di scatto il taccuino, si tuffa nella calca e scompare. Per un attimo mi chiedo se seguirlo, poi desisto. A che fine? Vendere non è un reato, e quello che dovevo fare l’ho fatto. Vado a cercare un telefono, e compongo lo 051. Se mi va bene, sono sull’Intercity di mezzogiorno.

Quando nel pomeriggio passo a trovare Andrea, resto deluso. Mi aspettavo un’espressione più aperta,

sollevata. Invece è rabbuiato come ieri, se non di più. Evitiamo il solito bar di servizio, e andiamo a prendere un aperitivo in centro, dal mio barman.

– Il mio solito, per due! – gli grido oltre la gente al bancone. – E tramezzini. Quattro. Anzi, sei, aggiunge Andrea. Anche stasera la sua cena è servita. In dispensa,

se non ricordo male, ha sempre un paio di scatolette di tonno, se rincasando dovesse avere ancora fame. – Allora? – Allora, se di mezzo c’è uno come Lamanna, – mi dice con la bocca impastata di maionese, mentre i

tramezzini scompaiono uno alla volta nelle sue fauci, – la cosa mi piace poco. Ho fatto fare un paio di accertamenti da quelli di Milano. Lamanna non è rincasato, almeno sino a mezz’ora fa. E la cifra che ha realizzato oggi non è indifferente, quanto a denaro. Però poteva aspettare, senza dare nell’occhio. E invece sembra aver venduto tutto, e in una volta sola. Cosa ne dici?

Il cameriere arriva con i due cocktail, le olive e i salatini. Aspetto che appoggi il tutto sul tavolo e si allontani.

– Dico che domani, quando la morte di Dondi sarà di pubblico dominio, i titoli FederFin caleranno, almeno per un paio di giorni. E se quello che mi hai detto sulla finanziaria londinese è vero, ci sarà da ballare. Ma, nell’incertezza, è probabile che i soci di maggioranza del Dondi rastrellino il mercato, per

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coprirsi le spalle: e quindi sarebbe stato più conveniente vendere fra qualche giorno, anche se forse più rischioso.

– In conclusione, se tutto ciò significa qualcosa, forse Lamanna sapeva della morte di Dondi. Ma non sa altro. E quindi…

– … E quindi ha senso, ma non quadra. O non basta. Lamanna è solo un pupazzo, ma dietro di lui c’è qualcuno che forse si sta servendo anche di lui. Come se volesse farsi notare da noi, o da altri tramite noi. In ogni caso c’è stato movimento di denaro, e questo è già qualcosa. Tu hai qualche informatore che non collabora anche con noi? Uno che sappia se c’è del movimento, in questo momento, in altri ambiti?

– Credo di sì. Lo vado a trovare stasera, e ti faccio sapere. – Bene. A proposito, cos’è questa roba? – Southern Comfort, angostura e succo d’arancia. Ti piace? – No. Troppo dolce. Almeno in questo non è cambiato.

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6. È qualche anno che non vado al luna-park. Adesso che ci sono, so anche perché: questo posto è triste,

a partire dalla polvere sino alla sommità delle giostre, che a me danno il mal di mare solo a guardarle. Quand’ero piccolo ci venivo, e mi sembrava divertente. In questo momento non riesco a ricordarmi, a parte il tunnel dell’orrore, cosa mi piacesse tanto, ma dal momento che otto volante e cose simili mi davano il voltastomaco sin da allora (non è vero: adesso mi danno il voltastomaco, allora era una sacrosanta paura infantile), devono esserci delle giostre che col tempo sono venute a mancare, e che mi sono dimenticato. Do una rapida occhiata in giro, so chi cercare, e naturalmente non c’è. La mostra dei serpenti (ORRIBILI RETTILI VIVI!, minaccia l’insegna luminosa, lasciando immaginare iguane, cobra, piccoli coccodrilli, e quant’altro potrebbe rovinarmi la digestione per un paio di sere) è al suo posto, ma Ruggero non l’hanno neanche sentito nominare.

Figurarsi. Ci metto dieci minuti a entrare nel Festival dell’Unità e a trovare il capannone-libreria. Ormai non

hanno neanche più il pudore di tenere separati luna-park e festival. Chissà come faranno, a fine festival, a impedire che il popolo della sinistra vada a cercare il comizio del Segretario generale al banco dei pupazzi giganti in peluche («tre centri si vince l’orsetto, cinque e si vince il tricheco!») E non è solo questo: anche se l’estate è finita, si sente ancora del tanfo, come (per dire) lo scarico di una porcilaia che parte dall’Arena Parco Nord e arriva (sempre per dire) fino in Costarica. Sfoglio le cartoline, alla ricerca di un Togliatti purchessia. Eccolo lì, il Migliore, con una bambina vestita alla marinara (anche a Yalta, evidentemente) che gli regala dei fiori, pochi giorni prima della fine. Potrebbe bastare, se non mi sentissi osservato da un’altra cartolina, leggermente più piccola. Peppone Stalin aveva un modo tutto suo di sorridere, come fosse il vecchio nonno partigiano che ti racconta a mo’ di favola le storie dell’inverno del ’44 davanti a una fumante scodella di latte e caffè. Scommetto che, nonostante tutto, è la più venduta. Ne prendo una anch’io, so a chi darla.

– Le ho già detto che questo Ruggero neanche lo conosco. Poi non sono neanche di qui: giro per le

feste, e dove c’è una fiera vengo con i miei serpenti. Vuole un biglietto? – No, grazie, mai serpenti dopo il tramonto. Anche se non sa neanche chi è, gli dia questa, e gli dica

che lo aspetto laggiù, dietro quella giostra, per i prossimi quindici minuti. Prende la cartolina come fosse una carta da salame unta, con la faccia di chi è intenzionato a buttarla

via appena volto le spalle. Probabilmente neanche sa chi c’è sopra. In fondo, neanch’io. So soltanto che Ruggero Passarini, ex topo d’appartamento, attualmente di professione incerta persino fra la vecchia malavita bolognese, nel ’48, scalando un terzo piano, si prese un colpo di fucile (a salve, per fortuna) nelle gambe. E siccome quel giorno, a Roma, attentarono alla vita di Togliatti, la voce «Hanno sparato a Togliatti» si sovrappose, nella gente delle case fuori porta, alla voce che voleva Ruggero colpito a morte. Sopravvissero tutti e due, mentre Bartali andava a vincere il Tour. Chissà cosa sarebbe stato del suo vecchio soprannome, l’acrobata, se la fucilata lo avesse mancato e fosse fuggito in bicicletta. Ma da allora Ruggero, per la sua gente, è Togliatti. Gente ormai scomparsa, scacciata dalla periferia agricola

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dalla crescita della città, emigrata con i figli in centro, o nella cintura di paesini circostanti. Che ha smesso di arrangiarsi, perché l’età si fa sentire, e una notte sue tetti è bella a vent’anni, ma non a cinquanta. E perché il vecchio coltello non fa più paura a nessuno, e in compenso fanno paura quelli che ci sono adesso. Non perché siano armati di pistole, non per i giubbotti antiproiettile che sfoggiano di tanto in tanto, non per la loro arroganza. Da queste parti i tedeschi non sono passati, ci si sono fermati, ci vuol altro. Fanno paura per l’aura di morte che li circonda, per l’aspetto di chi non arriverà alla pensione. E per lo sguardo di chi tutto questo lo sa, e non gli frega niente.

Mentre aspetto Ruggero, mi guardo intorno. L’unico posto più triste di un luna-park è un luna-park semivuoto. Oltre, c’è solo un concerto di Claudio Lolli al Parco Nord, di mercoledì. Lolli l’ho incrociato una domenica sera, in via Mascarella, solo, con un cane al guinzaglio, come quel tipo lì in fondo. Chissà se quelli che si sentono soli portano a spasso i loro cani sperando di condividere la loro solitudine con altri solitari cinomuniti. Magari prima o poi Lolli scriverà una canzone sulla solitudine dei cani da guinzaglio in un luna-park desolato. O magari sui mangiatori di crescentine che vanno a fare il giro a trecentosessanta gradi su queste giostre, per vomitare la crescentina e ricominciare a mangiarne.

Di sicuro Ruggero si dev’essere chiesto chi si ricorda ancora del suo vecchio soprannome. Di solito quando lo cerco non ho mai molta fretta, e non ho bisogno di farlo correre. Ma mio zio, il Togliatti lo conosceva bene, e me ne parlava spesso. Tutti e due soldati in Grecia, poi prigionieri, poi, sempre insieme, evasi, e, sempre insieme, partigiani. Mio zio tornò nel ’45, Ruggero si concesse l’illusione di una rivoluzione, un altro inverno fra i monti, e ancora prigioniero. Il primo soprannome se lo guadagnò raccontando la sua seconda evasione, e il suo imbarco clandestino su una nave inglese in rotta verso Brindisi. Il Togliatti mi ha cresciuto sulle ginocchia, per certi versi. E quando, trent’anni dopo, ho avuto bisogno di lui, sono stato contento di saperlo ancora in attività.

– Così, adesso hai un’officina poco fuori Bentivoglio. Ma con i rettili hai ancora a che fare, vedo. – Non ce n’è poi molta di gente in grado di acchiappare una vipera con le mani. Così, quando questo

baraccone è a Bologna, tiro su qualche lira in più come guardiano dei rettili, se così posso dire. Di solito, se qualche ragazzotto non ha alzato troppo il gomito, vengo pagato per nulla. Ma sai che preferisco guardare le serpi, invece che altri animali, magari a due gambe. Negli occhi di un serpente ci leggi una cosa sola, ed è quella. Fosse tutto così semplice…

Potrebbe essere l’inizio di un lungo sproloquio sull’uomo d’oggi (prospettive e problemi), ma a Ruggero per fortuna non è mai piaciuto troppo parlare. Neanche farsi notare, se è per questo. Così, anche se nessuno ha conti in sospeso con lui, preferisce far dire che non c’è.

– Movimenti di denaro, di questi tempi… Droga, armi, donnine venute dall’est? – Devi dirmelo tu, Togliatti. Qualsiasi cosa. Non lo so neanche io cosa cercare. Ci pensa un po’ su. – Ti dirò. Te lo ricordi lo Strabico? È diventato di colpo popolare. Giovanotti con i capelli

impomatati, abbronzatissimi, col telefonino in tasca, hai presente? Be’, sembra che trovino interessante la compagnia dello Strabico, ultimamente.

Così lo Strabico si è messo nel giro della polvere bianca. E in un giro impegnativo, a quanto pare. – Quanto, ultimamente? – Oh, sai, diciamo una ventina di giorni? – E in giro cosa si dice, in quel ramo? – Nulla di nuovo. In qualche baretto di quartiere sono finite le scorte, ma sembra che il rifornimento

arriverà puntuale. – E lo Strabico è in mezzo? – Non credo, – mi dice grattandosi la testa sotto il berretto di lana. – Forse sta cercando una toccata e

fuga. Ma, attento, senza far torto a nessuno! Anzi, si dice in giro che è a posto. Il che vuol dire che sta comprando da quelli giusti, e venderà a gente altrettanto giusta. Insomma, gli vogliono tutti quanti un gran bene.

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Prima di salutarlo, gli faccio un regalo. La foto del Piccolo Padre, sorridente accanto a una rubizza compagna russa. La prende senza dir nulla, con gli occhi che brillano.

– Questa qui, quando passo da quel semaforo dove ci sono i russi a lavare i vetri, la tiro fuori e ci dico: lava mo’ questa!

Certi inverni sui monti non si dimenticano facilmente. Quando faccio per allontanarmi, mi chiama. – Di’ mo’, non è mica questo il tuo lavoro, vero? – No, in effetti non è per lavoro. Sto dando la mano a un vecchio amico, che forse non avresti piacere

a incontrare. Si fruga nelle tasche, cava fuori un mozzicone di matita, tira fuori dal taschino del giubbotto un

foglietto e ci scrive sopra dei numeri, sbuffando. – Se hai bisogno, cercami qui. E fai attenzione. Gli uomini, per certe cose, sono per niente diversi dai

serpenti. Mettili insieme, e si mangiano tra di loro. Sembra preoccupato. Marcello Caracciolo è uno di quei soggetti che fanno preferire a Ruggero i serpenti. Beninteso, ci

vede benissimo. Anche troppo, se è per questo. Ma non ha mai guardato qualcuno dritto negli occhi: la prima volta che guardò di sbieco qualcuno, dev’essere stato quando la puerpera lo sculacciò per farlo piangere (e c’è chi sostiene che quel giorno, dalla sala parto, mancò un forcipe). Così, tutti lo conoscono come lo Strabico. E tutti, in questo caso, è l’espressione giusta. Lo Strabico ha frequentato innumerevoli ambienti, compreso i miei. Era uno di quelli che andava ai campeggi alternativi, e tornava con una tenda o uno zaino in più. Una volta, si prese un sacco di legnate, per aver quasi violentato una ragazzina coi capelli ricci, la gonna a fiori e le polacchine ai piedi…

(se non ho rimosso qualcosa, è stata l’unica volta che ho picchiato qualcuno. Raccolsi da terra un manico di piccone, e gli andai a cercare il setto nasale con violenta intenzione. Lo trovai al primo colpo)

… e cambiò aria. Per un po’ galleggiò dalle parti di Lotta Continua, poi, dopo un paio di aggressioni notturne, si attirò addosso il sospetto di fare il doppio gioco, e sparì. C’è chi disse di averlo visto in un bar di fascisti, tempo dopo, con i capelli tinti. Tutto questo senza aspettare i famigerati anni Ottanta. Se vi dicono che negli anni Settanta era tutto latte e miele, mostrategli una foto dello Strabico. Poi sparì per davvero, almeno dalla mia vista. Due o tre volte si è fatto una vacanza in S. Giovanni in Monte: una volta per un carico di vasellame etrusco, un’altra per aver bucato un semaforo con un furgone rubato, la terza per una carta d’identità falsa con cui aveva cercato di incassare un assegno contraffatto.

Adesso è in fondo al luna-park, dietro un bancone del tiro a segno. Abitualmente, quando ci incrociamo, ciascuno dei due fa finta di non riconoscerlo. Il silenzio è il modo più educato e meno chiassoso che abbiamo per scambiarci il reciproco disprezzo. Vedo che gli è rimasto il naso alla Blueberry.

Mi sfilo l’impermeabile e lo appoggio al bancone, per essere più libero. Compro dieci proiettili, e scelgo la carabina.

In genere sono bravo, con questi affari. Sono quelli veri a darmi dei problemi. Ho provato ad andare a un poligono di tiro, ma continuo ad avere le mani troppo piccole, e ogni volta il rinculo mi sposta la pistola. È per questo che, anche se ho il porto d’armi, non ho una pistola. Dopotutto, anche se fosse vera, potrei solo usarla per scena: a quel punto, meglio non averla del tutto. Quando punti una pistola contro uno, poi quello è capace di incazzarsi per davvero. In genere, ripeto, sono bravo. Non sbaglio mai di tanto come questa volta. È per questo che mi sento preso per i fondelli. Tipico dello Strabico, deviare l’allineamento del mirino per non pagare troppi premi. Per capire di quanto ha deviato il mirino mi ci vuole un altro colpo. Poi comincio a fargliela pagare.

La paperotta gialla. L’orsetto. Un’altra paperotta. Non so cosa farmene, non ho nessuno a cui fare dei regalini, ma visto che vuole la guerra, l’avrà. Per Duffy Duck servono due centri. Prima buco il cuoricino

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di sopra, poi quello di sotto. Ne ho ancora tre. Bugs Bunny ha sulla testa un cartoncino con tre cuoricini. Centro prima quello in basso, poi quello in alto, infine quello al centro. Mi sembra di sentire una sirena. Mi giro. Non è una sirena. È una bocca spalancata, che urla. Appartiene a una signora bionda, con un guinzaglio nella mano. Attaccato al guinzaglio, un botolo che, sentendola urlare, inizia ad abbaiare. Continuo a guardarli senza capire, mentre il tripudio di strepiti cresce. Lei continua a guardare me.

Non me. La carabina ad aria compressa che ho ancora in mano. Lo Strabico è ancora seduto sul suo sgabello, con la testa leggermente inclinata e un piccolo tondino

rosso al centro della fronte, da cui scivola un rivoletto di sangue, giù giù sino al colletto della camicia. Due colpi sbagliati, ma pur sempre sul cartellino segnapunti. Tre pupazzetti da uno, e fanno cinque. E lo Strabico era ancora lì, seduto dietro il bancone, me lo ricordo che incitava distrattamente i possibili, improbabili clienti. Due su Duffy Duck. Tre su Bugs Bunny, tutti a centro. Fanno dieci.

Non posso essere stato io. Poi mi accorgo dell’impermeabile che avevo appoggiato sul bancone accanto a me, strappato. È allora

che la carabina ad aria compressa mi scivola di mano. La seguo con gli occhi per un attimo, sino ad accorgermi del bordo scheggiato del bancone, fra me e l’impermeabile, a un niente da dov’ero appoggiato.

Non è una scheggiatura. È un proiettile dall’aria sottile che ci si è conficcato dentro. Istintivamente provo a estirparlo con la punta delle dita. È ancora caldo.

Che ci faccio qui io, investigatore privato di seconda scelta, al luna-park, a mezzanotte circa, nel Parco Nord di Bologna, sulla frontiera meridionale della ventura Repubblica del Nord, al margine estremo del prossimo immondezzaio materiale e culturale dell’impero nippo-americano, mentre stanno per cedere le dighe sotto la pressione dei nuovi mongoli e gli alieni di Betelgeuse, delusi dall’averci studiati senza costrutto per qualche millennio, si stanno allontanando in silenzio, avendo già deciso che non vale la pena di scendere a bere un grappino insieme?

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7. – Adesso mi spieghi per filo e per segno cosa cazzo mi hai mandato a fare! Per davvero, intendo!

Cazzo, ci godo un mondo, io, a farmi sparare così, per sport! È notte inoltrata, non so neanche dove ho messo l’orologio, e quello da camera si è fermato.

Probabilmente sbraito per non attaccarmi a canna alla bottiglia. Mai più in casa, ho promesso a me stesso. Andrea, neanche a dirlo, mi guarda impassibile, come fossi un pupazzo di pelo, di quelli che si regalano al luna-park. O che fanno da bersaglio.

– Ricapitoliamo, con calma. Agitarsi non serve a niente. Il tuo informatore ti mette sulle piste dello Strabico, che sta per fare un certo acquisto, a quanto pare. Quindi apparentemente è la gallina dalle uova d’oro. Per sua sfortuna, proprio quando tutti sembrano volergli bene qualcuno gli apre il terzo occhio con un proiettile di piccolo calibro destinato a te. Un proiettile sparato da una pistola piuttosto piccola, di quelle da borsetta. Hai notato qualcuno che ti seguiva?

– No, nessuna signorina. Se l’avessi notata, le avrei offerto in dono i pupazzetti vinti. – Chi ti dice che fosse una donna? – Chi va in giro ad ammazzare la gente con una pistola nella borsetta, secondo te? La gang dei

travestiti? La nonnina che trasforma i poliziotti in fiori? – Prego? (dimenticavo che Andrea non legge romanzi gialli) – Non è detto che una pistola da borsetta debba necessariamente presupporre una borsetta. Sta

comoda anche in una tasca d’impermeabile, senza farsi notare. O nelle mani di un uomo dalle mani piccole, come le tue. In ogni caso, c’è qualcuno che ce l’ha con te. E non riesco a capire perché. Hai fatto movimenti strani, ultimamente?

Adesso esagera. Un miliardario solitario decide di privare il mondo della sua presenza, ma a lui non basta, vuole sapere il perché. Mi viene a cercare, e mi manda a Milano, dove scopro quello che chiunque avrebbe scoperto. E anche se i movimenti del Lamanna non sono un mistero per nessuno, qualcuno decide di farmi fuori.

– Nel frattempo, il Lamanna è scomparso. Bella giornata… Un mio vecchio amico, signori e signore. In futuro, cercate di spararmi in un giorno tranquillo,

altrimenti sarà troppo impegnato per venire alle mie esequie. – Lo so che questa mia fissazione sul suicidio del Dondi non la capisci. Allora, prova a metterti nei

miei panni. Ci provo. E, dal momento che lui non ha mai promesso di non bere a casa mia… – Tu credi che un fatto sia qualcosa di reale, di oggettivo e indiscutibile, vero? Che le cose accadano,

e quando accadono noi ci sbattiamo contro il muso, e reagiamo. Be’, non è così, non nel mio mestiere, e neanche in questo schifo di mondo, per quel che ne so. Un fatto è reale solo se e quando riesci a ricostruirlo, a spiegare i come e i perché. In un universo ubriaco, il mio è l’unico atollo su cui continua a regnare la legge di causa ed effetto. Così un corpo diventa un cadavere solo quando ho scoperto chi, e

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perché, ha estinto le sue amabili funzione neurovegetative. Sino ad allora, è solo una macchia informe sotto un lenzuolo bianco.

Affascinante. Pensare che quello che ha studiato filosofia, dei due, sono io. – Così, per ora ho in obitorio un industriale congelato, con al pollice un cartellino che mi dice che

quell’ammasso di ossa, muscoli inflacciditi e carne in via di putrefazione appartiene a un signore sulla cui carta d’identità c’è scritto Gian Maria Dondi. Quando avrò scoperto una pena d’amore, un debito di gioco, un crack finanziario, allora – e solo allora – avrò il corpo del suicida Gian Maria Dondi.

Tira il fiato. – A te magari tutto questo ti sembrerà campato in aria. (credo proprio di sì) – Allora capovolgi la situazione. È tutto sotto controllo, non c’è niente di strano, Gian Maria Dondi si

è sparato perché non sopportava di vedersi invecchiare, o perché qualcuno gli ha detto che il Bologna non è più lo squadrone che tremare il mondo fa. Zero problema.

– Però il Dondi ha messo in allarme, nel modo più ridicolo possibile, il mercato azionario, così, per gioco. E non venirmi a dire che non sapeva di essere tenuto sotto controllo.

– E qualcun altro si libera in fretta e in furia di un paio di centinaia di milioni in azioni FederFin, come sapesse che Dondi è morto. E lo fa senza preoccuparsi di attirare l’attenzione. O magari in modo da attirarla.

– E tu, che ne sai poco più dell’annunciatore del telegiornale regionale, per questo qualcuno dovresti andare a suonare l’arpa assieme a Brian Jones. E ci si mette anche il caso, facendomi inciampare nella morte accidentale di un balordo a cui stavo dietro da almeno cinque anni. Liscio come l’olio, non trovi?

Trovo. A parte il fatto che ho sempre detestato gli Stones. Quando mi sono iscritto a filosofia coltivavo la segreta speranza di riuscire un giorno ad aver ragione,

almeno una volta, in una discussione con Andrea Vannini. Dalla finestra aperta filtra la luce dell’alba. Non mi ero accorto di quanto fosse tardi. Scendiamo al

bar a far colazione, assieme alle lavoratrici della notte che smontano e agli ultimi ubriachi che non trovano più la strada di casa.

– Allora, vediamo se ho imparato io la lezione, questa volta. Dondi ha un cuoco che ha l’abitudine di svegliarsi in piena notte. Una cameriera che dorme con calze sexy di prima qualità sul bordo del letto. E un guardiano che non può guardare all’interno della casa. Ho dimenticato di sospettare di qualcuno?

– No, impari in fretta, – risponde Andrea mentre il suo cappuccino scompare sotto la polvere del cacao amaro.

– Come comunicava Dondi col guardiano, in caso di urgenza? – Con un interfono unidirezionale. Un interfono. Unidirezionale. Il barista mi allunga il pezzo di crescente che ho fatto scaldare. Mentre

lo assaggio mi torna in mente Mario, l’addetto al laboratorio di fisica del liceo. Un tipo strano. A modo suo, un anarchico. Era disposto ad accettare l’autorità solo quando questa era rappresentata da una persona degna. E i criteri di giudizio di Mario erano assolutamente personali. In ogni caso, il preside del liceo non era degno di rappresentare l’autorità.

– E così, ricordi, Mario aveva reso bidirezionale l’interfono con cui il preside comunicava con i bidelli ai vari piani. Quando era nel suo laboratorio, al piano interrato, apriva l’interfono e ascoltava quello che succedeva nell’ufficio del preside. E lo stronzone che non riusciva a capire come facevamo a essere sempre informati dei nominativi che passava alla polizia, dei professori e degli studenti che gli facevano le spiate, e così via. Era Mario che ci teneva sempre informati. Mica perché fosse in accordo con noi: semplicemente, noi meritavamo la sua amicizia, il preside il suo disprezzo.

Andrea mi guarda, con gli occhi leggermente socchiusi. C’è una morale in questa storia. Mai fidarsi di un interfono unidirezionale.

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3. Interno

Il programma è di Suo gradimento? Ps: esattezza e mistero!

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1.

7 settembre 1993. Pomeriggio Sono le cinque di pomeriggio, quando ci inerpichiamo su per i colli di Bologna in direzione Villa

Dondi. Andrea Vannini conosce la maggior parte degli abitanti delle ville che superiamo, e di tanto in tanto me li nomina. Una volta ha pattugliato la zona per mesi, tutte le notti. Pensavano che il mostro di Firenze potesse essere un camionista, o comunque un pendolare di professione, e avevano supposto che potesse estendere il suo raggio d’azione lungo l’intero arco dei suoi percorsi abituali. Finirono col fermare un camionista pervertito, che dopo aver avuto il suo quarto d’ora di gloria sui giornali e a Telefono giallo…

… sono una sensitiva, e devo testimoniare una cosa importante, perché io quello lì l’ho conosciuto, vivevamo

insieme, poi una sensazione interiore, sa, una di quelle che mi dicono i fatti veri, è così che io riesco a vedere il futuro e il passato, se vuole fissare un appuntamento posso dimostrarglielo, sa, sì, insomma, una di quelle sensazioni che non mentono mi ha detto che, guardi, io non posso fare affermazioni senza prove perché anch’io sono una garantista che paga le tasse, anche sulle mie fatture, però ho sentito qualcosa, diciamo, qualcosa di brutto, ma voglio dire veramente brutto, sa, e allora sono andata via…

… risultò del tutto estraneo. Quando andarono a dirglielo, mentre lo stimato conduttore rettificava

con sentite e doverose scuse nella puntata successiva, lo trovarono appeso a un chiodo. Non so perché, ma mi viene in mente che sono secoli che non ci si vedeva per tre giorni di fila. Vorrei

chiedergli se sa qualcosa di Cristiano, ma non me la sento. Lui non è così delicato. – Mi è dispiaciuto davvero per non esserci stato, al funerale di Barbara. Non vado mai ai funerali, lo

sai. Pensare che l’avevo rivista circa un mese prima. – Non lo sapevo. Come mai? – Mi chiamò lei. È stato quando ritrovammo quelle tele di Bacon. Lei voleva vederle, ma rimase

delusa: sperava di vedere soprattutto quella che mancava. Mi disse che stava studiando qualcosa che riguardava Bacon, ma non so cosa.

– Non Bacon. Flaubert. Stava scrivendo un libro su Flaubert. Aveva un incarico in letteratura francese, lo sai.

Andrea sobbalza, e trasmette alla macchina il movimento di scarto. Mi è capitato di rado di vederlo sorpreso.

– Flaubert, certo. Che stupido: Flaubert e Salambô. – Salambô? – Sì, Salambô. Il romanzo di Flaubert su Cartagine. Sembra che Bacon avesse dipinto una delle tre

teste africane ispirandosi a Salambô, la principessa cartaginese. È per questo che rimase delusa. Era proprio la tela mancante. Prova a immaginartela, una specie di ritratto di una Sinead O’Connor nera, su uno sfondo scuro, con la bocca deformata in una specie di urlo. Tipico di Bacon.

Adesso sembra felice come un bambino, per la scoperta appena fatta. – Non sapevo ti fossi fatto una cultura, ultimamente. Ti ho lasciato che rileggevi le opere di Zane

Gray, il Salgari del Far West.

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– Lascia stare Zane Gray. E comunque, per tua informazione, non ho cambiato abitudini: continuo a rileggere ogni anno Shane, il cavaliere della valle solitaria. Ma, dopotutto, anche Salambô è un romanzo western, soprattutto nelle descrizioni delle battaglie. Credo che più di uno sceneggiatore lo abbia saccheggiato a piene mani. Quanto a Bacon, recuperare quelle tele fu come gettare un amo. Nel mese di attesa, mi sono fatto prestare tutti i cataloghi esistenti, e me li sono studiati uno per uno.

Sempre scrupoloso, Andrea. E con una memoria da elefante. Siamo arrivati. Ci fermiamo prima del cancello e scendiamo dalla macchina. Ci viene ad aprire il

guardiano, prima ancora di suonare il campanello. Donato Vinciguerra ha l’aria indefinibilmente distante, come se tutto quello che fa fosse secondario

rispetto a qualcosa di veramente importante. Al tempo stesso ha un’aria affidabile, forse per un non so che di puntiglioso che ispira fiducia nello svolgimento delle mansioni. È estate, è solo in villa, eppure è in divisa. E stava sorvegliando l’esterno, come il soldato giapponese che vigilava da solo sulla sua isoletta, finché quarant’anni dopo non sono venuti a dirgli che la guerra era finita. Un samurai con delle scarpe curatissime, tirate quasi a lucido, nonostante cammini nelle aiuole.

– Prego, si accomodi. L’ho riconosciuta sullo schermo, ispettore. Meglio così. Andrea non deve neanche mentirgli per giustificare la mia presenza: per lui sono

evidentemente un altro poliziotto. – Purtroppo non troverà nessuno, in casa. Ma se gradisce un caffè, lo prenderemo nel mio

appartamento, se così posso ancora dire. Mentre ci fa strada sul vialetto si ferma un attimo, ci fa segno di attendere, si piega verso una rosa

rampicante e strappa via una piccola piantina verde spuntata troppo vicino alle sue radici. – Vede, questa primavera è stata particolarmente ventosa, e così molti semi sono stati portati dal

vento, e ora le piantine infestano qua e là. Ogni tanto me ne sfugge qualcuna, nonostante controlli ogni sera.

– Come Le dicevo, non troverà nessuno nella villa. Si è creata una situazione che se non fosse per la tragedia del signor Dondi, potrei definire curiosa. Il fatto è che in questo momento nessun parente del signor Dondi è in villa, essendo la signora ancora in villeggiatura… – (e il figlio uccel di bosco, sottintende).

– … e poiché la lettura del testamento non avverrà che venerdì prossimo, in questo momento nessuno sa a chi andrà questa proprietà, e soprattutto se gli attuali collaboratori debbono considerarsi ancora in servizio. Così il cuoco è andato in città per annullare le abituali forniture, in attesa di nuove disposizioni, mentre la signorina Baracca ha deciso di prendersi una settimana libera per riprendersi dallo spavento. Le pulizie le faccio io di mattina, almeno per qualche giorno.

– E lei, Vinciguerra, perché continua a lavorare? La domanda dell’ispettore lascia il custode un po’ stupito. Scuote un attimo la testa, prima di

rispondere. – Perché nessuno mi ha ancora detto di smettere. Poi, vede, ispettore, io qui ci abito. Non ho una casa

in città, e tutto quel che ho è qui con me. In fondo, se si vive da soli, due stanze sono più che sufficienti. E questo giardino l’ho mantenuto io per tanti di quegli anni, che è un po’ come fosse il mio. Spero che i nuovi proprietari vorranno apprezzarlo.

Così dicendo, abbassa una mano verso il muso del cane che gli è corso intorno, e lo accarezza. È un cane lupo, piuttosto grande e visibilmente vecchio, di quelli che non hanno più la forza di saltarti intorno, e ti fanno festa con lo sguardo riconoscente. La versione pulciosa dei vecchini con in mano lo spesso bicchiere di vetro pieno di vino primitivo nelle vecchie osterie. Donato Vinciguerra ha l’aria di un Robinson Crusoe volontario, che ha scelto questo giardino come un’isola da modellare a propria immagine. E quel cane dev’essere il suo Venerdì.

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– No, non ha un nome. Gli do del tu, e lui mi capisce. L’ho trovato sotto un cassonetto, li ricorda, ispettore, quelli vecchi, bombati, pesanti?, con una zampa spezzata, che aveva neanche un anno, e da allora è sempre stato qui. Quando mi capita di fare un viaggio è sempre una tragedia, se non posso portarmelo dietro. A volte debbo anticipare il ritorno, perché rischia di morirmi di solitudine. Caffè per tre?

Non usa la moka. Riempie il dosatore, lo pressa sotto l’apposito pomello e lo inserisce nella macchina per espresso da bar. Dev’essere uno che va di fretta, anche se sa quel che vuole.

– Così, il personale oggi è via… – esordisce Andrea, mentre porta alla bocca la tazza in finta ceramica, colma di caffè senza zucchero.

– Ma come Le dicevo in precedenza, ispettore, il cuoco è fuori solo per un impegno. Dovrebbe rientrare in serata.

– È stato via anche nei giorni scorsi? – Solo ieri. Il lunedì è il suo giorno libero. Mi sono permesso io di disdire la giornata all’aiuto, che è

incaricato di sostituirlo al lunedì, appunto. – E dunque ieri sera la villa era vuota… – A parte me, sì. – A parte lei, certo. E il cane, immagino. Poi, quasi soprappensiero, Andrea aguzza leggermente i lineamenti e chiede: – E, se posso, potrei

sapere come abitualmente si veste il personale quando esce la sera, in libertà? La domanda è talmente balorda da stupire il Vinciguerra. – In questa stagione, intende? – In questi giorni. – Be’, il cuoco, lo avrà notato, ha un fisico un po’ appesantito, e quindi veste sempre molto classico.

È raro che manchi della giacca, e che io abbia notato non ha giacche sfoderate. Ha sempre la cravatta al collo, spesso dei papillon, ma di quelli da poco, quelli già annodati, con l’elastico dietro.

– La signorina Baracca, invece, veste piuttosto sportiva, e talvolta un po’ alla maschietto, come si sarebbe detto una volta. Jeans, o comunque pantaloni comodi, e maglietta. Quasi sempre uno spolverino estivo, color crema. Non ricordo di averle mai visto una borsetta. Preferisce tenere tutto nelle tasche del soprabito. Secondo me, è per questo che lo porta anche quando non piove. Credo usi avere un piccolo necessaire da trucco nel cruscotto della macchina.

Andrea sembra del tutto disinteressato alle risposte. Fissa con lo sguardo assente le stampe appese al muro. Poi guarda l’ora. Segno che tocca a me.

– Scusi, ispettore, se permette io darei un’occhiata al giardino. Sa, qui all’interno devono esserci di peli di cane, e il mio raffreddore allergico…

La mia uscita sembra passare inosservata. Faccio un giro panoramico seguendo il viale alberato, poi

taglio per un cespuglio, facendo attenzione a non calpestare un’aiuola, e raggiungo l’ingresso di servizio della villa. Non devo neanche usare il mio passepartout, la porta è chiusa, ma senza giro di chiave. Mancano cinque minuti alle sei. Sbaglio un paio di volte, a dispetto della pianta mnemonica della villa che Andrea ha vanamente cercato di farmi memorizzare, poi vedo nella penombra del corridoio la porta dello studio personale di Dondi. Col pretesto della conferma del suicidio dopo l’autopsia, Andrea ha disposto la rimozione dei sigilli in mattinata, prima di appisolarsi sulla sedia per tutta la mattinata.

Lo studio è in realtà un salone, grande più o meno come il mio monolocale. Sto soppesando l’eventualità di includere anche il mio bagno nella metratura complessiva del raffronto, quando la voce di Andrea mi richiama al dovere.

– Uno due tre prova. Vinciguerra è via. Aspetta trenta secondi, poi di’ qualcosa, magari al telefono. Sono le sei in punto. Puntuale come non mai, una volante deve aver raggiunto l’ingresso della villa,

distogliendo il custode e permettendo ad Andrea di pistolare sull’interfono.

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Mi siedo sulla poltrona, afferro un immaginario telefono accanto a quello vero, e imitando la voce di Mike Bongiorno domando: – Chi era l’attrice che affiancava John Wayne in Un uomo tranquillo?

– Era Maureen O’Hara, somaro. Ci sono stato, in quel cottage. Vieni via. Invece mi trattengo per qualche minuto, e mi siedo sul grande seggiolone a braccioli che troneggia da

una parte del tavolo, rivolto verso la libreria. Dev’essere del Seicento, probabilmente lombardo, con la spalliera alta e quadrata che termina con due ornamenti in legno vagamente a mo’ di corna, e qualche grossa borchia: una poltrona da Azzeccagarbugli, si direbbe. E in petto, i libri schierati sui piani di ciliegio. Librerie come questa mi hanno sempre fatto rabbia, soprattutto se l’unica fatica fatta dal proprietario è quella di togliere il cellophane dai libri. Ho sempre desiderato possedere l’intera collezione Ricciardi dei classici della letteratura italiana, ad esempio. Ed eccola lì, pressoché intonsa, giusto al di sopra dello scomparto Plèiade. Forse li acquistava in abbonamento, o magari il suo libraio di fiducia glieli inviava a pacchi di dieci.

Sto per uscire, quando lo vedo. È uno dei pochi libri consunti, sicuramente lo ha acquistato usato, magari solo perché gli hanno chiesto un prezzo spropositato. L’angolo inferiore della controcopertina è leggermente lacero, le pagine sono ingiallite, e qua e là il primo proprietario ha leggermente sottolineato a matita qualche verso. Ossi di seppia, edizione Gobetti. Nello scorso giugno da Docet ne hanno venduto un esemplare per otto milioni. Oltretutto è più esile di quanto pensassi, forse per via della carta invecchiata, forse perché, semplicemente, lo pensavo grosso io.

Potrei piangere, e morire contento per averlo avuto, almeno un momento, nelle mie mani. Non sono le mie mani, quelle che si muovono ora. Sono quelle di un giovane studente che

arrotondava la settimana sottraendo qualche libro alla Feltrinelli e rivendendoselo poi sotto i portici dell’Università. Basta allargare di un attimo gli altri libri nello scomparto Poeti Molto Importanti, e l’assenza del Testo Sacro si riduce a un nulla. Un nulla ch’è tutto, mi viene da pensare con ebete felicità, mentre il cuore mi batte forsennatamente all’altezza della tasca interna dell’impermeabile. Per fortuna minacciava di piovere.

Andrea è ancora dentro la casa del custode. Fissa un cavalletto con su una tela dipinta a metà. – Opera sua, Vinciguerra? – Sì, purtroppo. Come vede non valgo molto, come pittore. Chissà qual è il campo, celato dietro quel «come pittore», in cui eccelle. La volante è ancora davanti al cancello. Andrea ne approfitta per impartire ordini alla radio interna,

poi mi fa cenno di salire sulla sua macchina. Non penso sia il caso di dirgli perché ho tardato. Piuttosto, ho qualche domanda da fargli. Ma aspetto che cominci lui.

– E così, il nostro custode ascoltava ciò che avveniva nella stanza dei bottoni. Non poteva guardarci dentro, ma si arrangiava con le orecchie. Ti ha dato l’idea di essere un ficcanaso?

– Francamente, no. Mi dà l’idea di essere uno che sa quello che vuole. Hai notato come cura la pulizia delle scarpe?

– Sempre con la tua mania di osservare le scarpe alla gente? È vero, è una mania che ho da sempre, o quasi. Dai tempi in cui sbigliettavo ai concerti di

autosovvenzionamento, e avevo elaborato una mia teoria personale sulle scarpe della gente: quando venivano a chiedermi l’ingresso gratuito…

(cioè, compagno, non c’ho una lira) … gli osservavo le scarpe. A quel tempo ci si vestiva tutti allo stesso modo, stile lacero-casual, prima

che Fiorucci avesse l’idea delle boutique finto-punk, ma il figlio di papà che si faceva il viaggio dell’hippy era spesso identificato da un paio di scarpe casual, ma costose. Magari non era vero, ma l’importante era avere un criterio personale.

– Sì, infatti. Prima di Nanni Moretti… – Comunque avete lo stesso tipo di scarpe, a quel che vedo. A proposito, significa qualcosa il righino

verde nel tacco?

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– No… no, è solo il segno di riconoscimento delle Hogg. Sono scarpe scozzesi importate qui in Italia sei-sette anni fa. Devono essere nuove, a giudicare da come spicca quella striscia verde: a me è quasi scomparsa… – (cosa c’è di particolare in un paio di mocassini Hogg nuovi e puliti?)

– Cosa pensi? – Non lo so… a qualcosa che dovrebbe venirmi in mente, credo. C’è qualcosa di quel custode che non

mi piace: abbarbicato nella vecchia villa, solo con un cane… Non so, ricordi cosa dice Dracula quando compra casa a Londra, e vuole che sia vecchia e isolata? «Non cerco gioia né allegria», mi pare…

– Dice anche qualcos’altro al giovane incaricato che lo va a trovare: «Entri liberamente, di sua spontanea volontà…»

– Già… di sua spontanea volontà… A proposito, perché non hai chiesto anche a lui come si veste la sera?

– Perché per il momento non mi interessa. E, detto fra noi, non è all’abbigliamento serale del personale che sono interessato. È a quello notturno.

– Spiegati meglio. Che nesso c’è fra le cravatte del cuoco e i suoi pigiami? – Ne parliamo giovedì. Domani faccio un salto fuori città, a sentire una persona che forse ha delle

cose da dirmi. Chiamami in ufficio dopodomani, entro il primo pomeriggio. Ha staccato i contatti. Tra un po’ li riaccenderà, ma scommetto che sarà per parlare ad alta voce con

se stesso. Non è che stia invecchiando, ha sempre fatto così quando non voleva parlare di qualcosa che gli ronzava per la testa.

Perché, questo è certo, c’è qualcosa che di sicuro sta rimuginando. – Sai, in realtà il cottage che ho visitato non è quello originale. È una copia, costruita in sostituzione

di quello del film, che è praticamente distrutto. Ma anche se è un’attrazione turistica, quando varchi la soglia la vedi lì, Maureen O’Hara, sul punto di darti un ceffone sulla guancia…

È partito per la tangente, ormai. Quando mi fa scendere, sta ancora raccontando della mitica ex-mezzala irlandese del Celtic Glasgow che ha aperto un pub a Donegal. Il miglior mescitore di birra alla spina dell’intera Irlanda. Se capitate da quelle parti, ricordatevi di non chiedergli mai solo una mezza pinta di birra. Si offende, se non ordinate la pinta intera.

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2. È mercoledì sera. Ho dormito fino a mezzogiorno, e ho passato il pomeriggio a fare nulla. Ho religiosamente avvolto la

Reliquia in un panno morbido, e l’ho nascosta in un cassetto, per qualche giorno. Devo ancora decidere se ho fatto bene o no. Poi ho lavato i piatti, le stoviglie, i bicchieri, e ho cambiato il filtro alla macchinetta del caffè. Ho fatto in tempo ad acquistare una bottiglia di tequila, per festeggiare i bicchieri puliti. Sullo sgabello c’è un vassoio, pieno di sale e di scorze di limone smangiucchiate. La bottiglia è quasi finita, il fegato comincia a battere con la scopa sul soffitto. Dovrei cominciare a preoccuparmi: il fegato è poco innervato, e se fa male vuol dire che non se la passa per niente bene. D’altronde, probabilmente è una somatizzazione. – Ti sembra bello, avere delle somatizzazioni a ventiquattro anni? – mi disse all’epoca il mio medico curante. Adesso va meglio: ne ho una dozzina di più, di anni. Più o meno, l’età giusta per qualche legittima somatizzazione.

Andrea è via. Poteva lasciarmi da solo. Invece sono qui, a una tavola rotonda a cui sono invitati il mio fegato e i miei passati ricordi.

Barbara è seduta alla consolle, con un’improbabile cuffia che le copre le orecchie, mentre parla e mixa da sola, come nelle prime, eroiche radio degli anni ruggenti. Nella trasmissione di oggi, addì 30 luglio 1988, il tema è un suo vecchio cavallo di battaglia, i grandi pugili perdenti: quelli che hanno trovato sulla loro strada i maggiori, o che sono arrivati troppo tardi; quelli traditi dalla sorte, o da un manager privo di scrupoli. Quelli che hanno sempre fatto da soli, perché lassù nessuno li ama: quelli come Jack Sharkey, the Boston Gob, che a trentaquattro anni resistette per tre riprese contro Joe Louis, e gli rimase ancora abbastanza senso irlandese dell’humour da rispondere: – Quanto vale Joe Louis? Io ho trentaquattro anni, Joe ventidue, e stasera valeva abbastanza da battermi: ma vorrei solo sapere come si sentirà Joe tra dodici anni…

– E allora, chi ha ucciso Jack Sharkey, indomito fighter nell’epoca di Jack Dempsey, Gene Tunney e Joe

Louis, Jack Sharkey che riuscì a vestire la corona mondiale strappandola a Max Schmeling per perderla poi in una notte sfortunata contro Primo Carnera? Jack Sharkey, icona del pugilatore indomito: a lui nessuno ha dedicato un film che lo rendesse famoso, com’è invece accaduto a pugili meno meritevoli di lui. Eppure le fredde cifre gli danno torto, e di certo non è fra i dieci più grandi, Jack Sharkey che dai più grandi fu sempre battuto, ma che avrebbe potuto, una sola volta, batterli. Jack Sharkey è quel tipo di pugile che si ama col cuore, non con la testa, quel tipo di pugile che ha sempre sperato invano che, per una sola notte nella sua carriera, qualcuno “lassù” lo amasse: perché quella notte anche il più grande sarebbe potrebbe cadere sotto i suoi testardi pugni irlandesi. Questo era il fascino della boxe, nobile arte ormai scomparsa…

Il brano sfuma sui Residents, mentre i discorsi sulla nobile arte si perdono nell’etere, e la

commemorazione sfuma nella solita raccomandazione finale: – E, mi raccomando, non dimenticate di offrire il tè all’uomo dell’aratro, una bistecca al sole splendente, e

un bicchiere di vino alla fatina della buona pioggia. Buona notte.

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Seduto più in là, con un libro in mano, Cristiano ascolta distrattamente. Magari aveva altro da fare,

ma è stato costretto a venire. Il socio di Dondi, quella nebbiosa mattina di aprile, lo ha ammazzato lui. Due colpi, uno al corpo e uno alla testa. Sei anni prima, la sua fabbrichetta in Piemonte aveva giocato d’anticipo sull’Icmesa, sfornando la prima nube chimica di cui si sia accorta la stampa. Mentre la sua vittima agonizzava, a Cuneo crescevano dei bambini su cui nessuno avrebbe fatto le solite battute piemontesi sui nati nella Provincia Granda. Anche perché non era probabile che potessero sentirle, e ancor meno capirle. E in ogni caso, nessuno di loro sarebbe vissuto ancora a lungo. Chissà quale fortuita cabala aveva designato Varisi al posto di Dondi. Magari un appostamento mancato per una sveglia mal puntata.

C’è anche Andrea, appoggiato allo stipite della porta. Sta passando in rassegna le ultime vicende, contando mentalmente. Quando lo fa, muove le dita contando all’inglese, dal mignolo verso l’indice. Per gli inglesi, indice e medio levati insieme sono un insulto.

Cerco di raccogliere le poche idee che fluttuano in mari di tequila salata. Comincio dai fatti. Dondi si spara, così per sport. Il custode ascoltava le sue telefonate (forse). E dipinge. Cose a macchie, da quel che ricordo. Anche Bacon fa cose a macchie, però con più forma. E piaceva a Barbara. Piaceva anche ad Andrea, che però si era lasciato sfuggire il ritratto di Flaubert, mentre Barbara scriveva un libro su Sinead O’Connor. E qualcuno si guarda il ritratto di Sinead O’Connor tutte le mattine, mentre Andrea cerca di sapere come si vestono un cuoco e una cameriera quando escono di sera. E Lamanna vende azioni, e poi non torna a casa. E Vinciguerra ha un cane, e vive da solo, ma dipinge, mentre Claudio Lolli è lì che bacia Anna di Francia che ride e non sarò per te un orologio il lampadario che ti toglie il reggiseno quando è tardi e notte…

Perché per tutto questo io dovevo morire? È mercoledì sera. Andrea Vannini si lascia alle spalle l’uscita per Reggio Emilia, direzione Modena Nord. Guida

tranquillo, per niente infastidito dalla leggera pioggia che spazza via dal parabrezza con un colpo di tergicristalli ogni tanto. Potrebbe essere alla guida di un B-52, con destinazione Hiroshima, nel 1945, a giudicare dall’espressione che ha sul viso. Uno dei motivi per cui ignora le quattro gocce che bagnano l’autostrada è che le nuvole grigiastre che lo sovrastano sono nulla rispetto alla spessa coltre di nubi nere che traspaiono dai suoi occhi.

La prima volta è stata cinque anni prima, quando aveva scoperto quasi per caso due delle tele rubate a Londra nell’82. Quella volta ha rischiato di ammazzarsi, tanto guidava veloce: aveva in mano un capo che poteva portarlo al centro di un bandolo cui dava la caccia da quasi dieci anni. Quel filo gli è sfuggito di mano ed è tornato a mimetizzarsi nel mondo. Ha ricominciato ad aspettare, pazientemente.

Modena Nord. Supera senza rallentare un autostoppista bagnato, con un cartello che invoca un passaggio per Firenze. Tre anni addietro, aveva rifatto quel viaggio. Un altro indizio, più esile ma non abbastanza da essere ignorato. Nel viaggio di ritorno aveva caricato all’altezza di Parma un romano logorroico e invadente. Non stava zitto un minuto, non apprezzava la musica che stava girando nel mangianastri, e a un certo punto aveva tolto la cassetta dall’autoradio:

– Te la do io della musica come si deve, roba nuova, mica da museo come questa. – Rimetti quella cassetta dove l’hai trovata. Invece aveva introdotto una cassetta di fánchirimémbahah, mixata da un evidentemente

moltofamosoddiggei. Nei successivi cento metri d’autostrada Vannini aveva messo la mano sotto la giacca tratto fuori la pistola d’ordinanza fermato l’automobile aperto lo sportello del passeggero. In uno dei passaggi descritti la cassetta doveva essere volata fuori dal finestrino, perché mentre l’ospite sgradito scendeva, pallido e attonito, la lenta mano di Eric Clapton aveva ricominciato a sfiorare le corde della sua chitarra.

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È la terza volta che quel filo gli ricompariva fra le mani. Questa volta ha la sensazione che sia qualcosa di più solido: è per questo che è così silenzioso.

C’è un modo tutto particolare, che Andrea Vannini conosce bene, di essere silenziosi quando si è soli con se stessi. La mente sgombra da pensieri, libera da concatenazioni logiche, ragionamenti, previsioni, ogni singolo pensiero appare e scompare sulla tavola bianca della mente come i cartelli pubblicitari ai bordi dell’autostrada.

Ai margini di questo schermi bianco, il bordo nero di un pensiero scacciato via, che si è rintanato in una lontana estremità, e da lì, di tanto in tanto, balugina e inquieta. Amicizie vecchie di vent’anni, vent’anni di storia, di passioni, di condivisioni, che gli ultimi anni di solitudine non hanno scalfito. Vent’anni che stanno per finire, fatalmente, dolorosamente, inevitabilmente.

Modena Sud è alle spalle. Andrea Vannini si accende una sigaretta. Come sempre quando sta per giungere a casa, la chitarra di Alvin Lee comincia la sua interminabile suite.

Dopo due boccate, la sigaretta finisce nel posacenere. L’amicizia è un concetto astratto, gli amici sono concreti, carne, ossa, passioni, sentimenti, lacrime, sorrisi, e un pizzico di qualcosa che nessuno riuscirà mai a definire, e che, a dispetto della sua inesprimibilità, è lì, saldo come un muro, bronzeo e duraturo come una scultura. È per questo che non si può usare un amico come mezzo, qualunque sia il fine.

Di solito. Questa volta invece non c’è via d’uscita. L’uno o l’altro, senza possibilità di riconciliazione. Come in

una partita di biliardo, tutto è già deciso dall’apertura. Una volta smazzato il triangolo delle bocce, ogni sfera ha un posto, e dal suo posto detta i colpi possibili, secondo delle leggi già scritte nel grande libro della geometria. Qualcuno ha aperto, più di dieci anni prima, dividendo quattro amici. Da allora le regole sono già date, gli angoli che le palle descrivono sulle sponde sono immutabili, come immutabili sono i ruoli: il pallino, le bocce, la stecca, la mano che stringe la stecca.

Anche questo è già scritto. Solo, alcuni lo sanno, altri no. Uscita Borgo Panigale. Andrea Vannini è quasi arrivato a casa.

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3. Giovedì pomeriggio, al solito bar. Andrea è più scuro del solito. Mi verrebbe da scherzare dicendo

che è dal giorno della morte di John Wayne che non lo vedevo così, ma capisco che questa volta è qualcosa di veramente serio. Così evito di scherzare.

– Novità? – Il Lamanna è uccel di bosco. Non posso imputargli niente, ma lo sto facendo cercare. Sembra

dissolto nella Brianza. – Cosa pensi? – Ai jeans della signorina Baracca. Voglio dire, una che gira vestita da ragazzo per stare comoda ti

pare che si infila meccanicamente un paio di calze nere da quarantamila lire? E ti pare che dorma truccata, una che non si porta in giro neanche rossetto e specchietto per rifarsi il trucco in bagno?

– Perché dici che dormiva truccata? – Perché quello sbafo che le ho visto sul volto era l’ultima traccia di un rossetto che si era tirato via

con un fazzoletto subito prima. Cavolo, non sarò un esperto, ma qualcosa ne so anch’io di trucchi e belletti.

Andrea è uno che di solito sa sempre dove arrivare, quando parte. Io no. Così aspetto che mi faccia sentire un imbecille, rivelandomi un segreto da due lire.

– Insomma, secondo te cosa ci fa una in calze nere e rossetto, in piena notte? O è uscita così, ed è appena rientrata, oppure…

– Oppure si è vestita e truccata per la notte? – No, non proprio. Che si fosse agghindata per una notte extra, è certo. Quello che non so è per chi si

era agghindata. Secondo te, fra il Romboli, il Vinciguerra e il Dondi, a chi piaceva questo tipo di erotismo? E dov’era la nostra lady desiderio, al momento del suicidio?

– Potrebbe esserci di mezzo il cuoco. Questo spiegherebbe il fatto che era in piedi alle quattro del mattino. Anche se, di questa stagione, la notte fa un caldo che tiene svegli.

Andrea fa una smorfia di disapprovazione. O non è così, o gli suona troppo banale. Suona banale anche a me, se devo essere sincero. Ma se poi Romboli e la Baracca facevano dei giochetti fra di loro, siamo al punto di partenza.

– Se fossimo in un buon giallo, – azzardo, – adesso dovremmo andare a pescare. Così incontreremmo un ragazzino più sveglio di noi, che inizierebbe a parlarci della pesca, e così facendo ci direbbe sicuramente qualcosa di illuminante su questa indagine.

– Indagine un corno. Ufficialmente non c’è nulla, a parte il tuo tentato omicidio e la morte dello Strabico. Che però può essere inciampato in una guerra fra bande.

Guerra fra bande, con una pistola come quella? Non ci crede nemmeno lui. – Insomma, per fortuna è saltata fuori la Smith & Wesson del ’78, altrimenti facevo fatica anche a

tenere ancora aperto il fascicolo. E comunque, ufficialmente io sto indagando per scoprire se quella pistola è davvero ricomparsa, o magari è sempre stata lì.

– Ma all’epoca gli perquisirono la casa, vero?

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– La casa di Dondi, nel ’78? Starai scherzando… Te lo sei dimenticato, come eravamo disorganizzati e pasticcioni?

(Andrea era entrato in polizia da pochi mesi. Nessuno ha mai capito chi, e perché, gli abbia cancellato la schedatura – perché, compagni, siamo tutti schedati e controllati…)

– Ci abbiamo messo tanto, a capire come si lavora seriamente, che i dietrologi sono ancora lì a scrivere libri per dimostrare che le nostre indagini da operetta erano parte del Grande Complotto. Te lo ricordi lo scandalo del comandante Marco, tanto per dire?

– Il «comandante Marco» era uno di Prima Linea. Uno degli ultimi arrivati, uno feroce, uno di cui si sono perse le tracce prima di sapere il suo vero nome. Aveva cercato di costruire un gruppo di fuoco a Bologna, nonostante l’assemblea del Movimento avesse rotto con i giochi di guerra.

– Be’, quando ancora non si parlava di pentiti, salta fuori da una mezza soffiata di un infiltrato che questo tale era tutte le sere a passeggio in piazza dell’Unità, puntuale come un orologio. Per una settimana quel rapporto restò su una scrivania, coperto da altra roba. Così, quando fu finalmente letto, era troppo tardi. Fermammo un paio di ragazzotti, che erano lì per ritrovo abituale. Per trovare il covo ci è voluta una confessione, mesi dopo. Su questa storia ci hanno ricamato sopra per anni. E tu mi vieni a chiedere se fu perquisita Villa Dondi?

Non dovrebbe prendersela tanto. E soprattutto, non dovrebbe usare il noi. All’epoca, lui era l’ultimo arrivato, e non era mai stato alla sezione politica. Neanche in seguito, se è per questo.

– Tornando a noi, pensi che dovremmo andare a pescare? – Sarai scemo. Lo mangi tu, il pesce del Reno. Però, almeno, possiamo andare a comperarlo fresco, e

farci una cena decente. Per stasera, niente scatolette. Gli vedo negli occhi un lontano baluginìo della luce degli anni d’oro, quando ci sfidavamo a risotti. – Credevo che il pesce arrivasse fresco il venerdì. – Continua a crederlo, se vuoi. Però il pesce fresco del venerdì arriva il giovedì pomeriggio. E non c’è

fila, di giovedì. Infatti sono in pochi anche questo giovedì. Comincio a guardare con interesse qualcosa da friggere,

poi penso che non ho voglia di portarmi dietro l’odore del fritto per giorni (maledetto monolocale)… e decido di far gustare ad Andrea una fetta di tonno al forno. Il pescivendolo è intento a discutere con una vecchina. Parlano di delfini.

– Oh, salve, Professore! Per lui, sono sempre il Professore. Una volta devo avergli detto che sono laureato. – Glielo spieghi Lei, professore, alla signora, perché non bisogna mangiare il tonno in scatola. Con

tutti quei poveri delfini… È uno dei miei cavalli di battaglia, la triste storia dei delfini che vengono catturati, macellati e

inscatolati dai pescatori di tonno. – Vede, signora, il fatto è che i delfini non sono semplici pesci. Anzi, non sono per niente pesci, sono

mammiferi come noi. E sono molto intelligenti: è per questo soffrono più dei pesci. E oltretutto non c’è ragione di non mangiare del tonno fresco, invece di mangiare una scatoletta che viene dal Giappone.

– E sce scono coscì intelligénti, come l’è che sci fanno catturare con i tonni? – Per sfortuna, signora. Loro vanno per i propri mari, e purtroppo le loro strade si incrociano con

quelle dei tonni. E così ci vanno di mezzo, senza saperlo. – Ma sce scono davvero intelligenti… – continua a biascicare la vecchiarda. Guardo con disprezzo la

sporta in cui ha messo l’anguilla appena comperata. È una di quelle che le anguille le compera solo se hanno smesso di muoversi, perché me, le anguille vive le mangia brisa. Quell’anguilla che finirà soffocata dallo strutto sarà morta da quattro giorni. Sto per risponderle a tono, quando sento Andrea che sussurra: – Proprio così. A volte, anche i delfini si comportano da tonni. Come noi…

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Proprio così: siamo due tonni ubriachi. Qualcuno mi segue con cura, trova il momento adatto per sparare senza che il rumore degli spari si oda, coperto dalla musica da balera del tiro a segno, e poi spara così male. Tre colpi, tre errori. A meno che non avesse fatto tre centri, colpendo tutto quello che voleva colpire, compreso lo Strabico. E quei due colpi che mi hanno sfiorato, lì a far credere che dovevo essere io il bersaglio.

Da lontano sento la voce del pescivendolo che mi chiede perché il tonno in scatola viene dal Giappone. Gli rispondo soprappensiero che il tonno mediterraneo viene venduto ai giapponesi, che ci danno in cambio, oltre ai soldi, i loro scadenti tonni con gli occhi a mandorla da mettere in scatola.

Andrea sembra divertito. Mi faccio tagliare due fette di tonno, le pago, intasco il resto senza contarlo. Passando davanti alla sbiascicante vecchiarda infilo la mano nella vasca dei capitoni, e con gesto cortese le chiedo se sa come si riconosce il capitone fresco – e prima che lei capisca cosa le ho detto, gli rispondo: – Se si avvolge tre volte attorno al polso quando lo afferra per la testa, allora è di giornata… – e vado via, aspettando che si accorga dell’umido viscidume di ciò che le ho messo nella mano.

Il suo urlo tracima oltre la pescheria, si rovescia per le strette viuzze dei Pavaglioni e s’infrange su via Rizzoli.

Due ore dopo le fette di tonno sono calde e fumanti in tavola, con prezzemolo, finocchietto, cipolle e olive, come piacciono a me. Andrea continua a scuotere la testa, di tanto in tanto.

– Spiegami una cosa: che ci fanno quelle teste di pesce nel tuo freezer? – Quando compro le alici per spinarle conservo le teste, così se devo farmi un risotto di mare posso

farmi il fumetto di pesce. – Perché, tu le alici le spini e le sali da te? – Perché, tu invece come fai? Compri le scatolette? – Sono comode, le scatolette. Ti fanno risparmiare un sacco di tempo… – E del tempo risparmiato cosa ne hai fatto, in questi anni? – Mettiamola così, – fa Andrea. – Hanno giocato il tutto per tutto, e ci sono riusciti. E noi ci siamo

caduti come polli. Finisco di masticare un boccone di pane per pulirmi la bocca e mi verso da bere. – Non direi che ci siano riusciti. Dopotutto, ci hanno preso in giro solo per poco. – È esattamente quello che volevano. Ammettendo che volessero togliere di mezzo proprio lo

Strabico, hanno cercato di farci credere che l’obiettivo vero potessi essere tu. Ma questa storia non poteva reggere a lungo, siamo seri. Non era detto neanche che funzionasse, ma valeva la pena di provarci. Il Caracciolo andava eliminato in fretta, e tu gli hai dato l’occasione per un piccolo diversivo. Vuol dire che in questi tre giorni in cui noi ci siamo concentrati sullo Strabico, avevano qualcos’altro da fare.

È davvero agitato, adesso. Solleva la cornetta, telefona in centrale, dà ordine di perquisire di nuovo l’appartamento del Caracciolo, lo so che ci avete già trovato cinque grammi di coca, un coltello a serramanico e dei bossoli. Ma questa volta dovete perquisirlo sul serio. Guardate dentro ogni libro, dentro ogni calzino. Niente cani. Non è droga quello che dovete trovare. No, non lo so cosa c’è da cercare. So solo che c’è, ed è in quella casa. E ci passate dentro il fine settimana, se serve.

Lo vedo che continua ad agitarsi, cercando di afferrare qualcosa di impalpabile davanti al suo pugno. – Lo fai ancora, il tuo famoso caffè napoletano? … … … (comprende immediatamente di aver fatto la domanda sbagliata al momento sbagliato) – Te ne faccio uno con la moka. Però la miscela è buona, vedrai. Una volta, facevo un caffè come Cristo comanda (a Napoli: nelle altre città lascia fare…)

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Comperavo il caffè in grani, scegliendo le miscele più dolci. Lo macinavo a mano, con un macinino in legno… … e rimanevi incantato a guardare la teoria di chicchi di caffè che s’incalzavano l’un l’altro, i più grossi

spingendo via i più piccoli, per rotolare giù giù giù nell’imbuto, verso la macina che li sfrangeva spolverizzandoli tutti uguali, i grandi e i piccoli, i giusti e gli ingiusti. Credevi di fare il caffettiere, e facevi er fisolofo caffettiere…

… lo mettevo nella macchinetta napoletana, col mezzo cucchiaino di cacao, la spolverata di caffè

macinato fresco fresco sul fondo, ’o coppitiello ’e carta e tutti i crismi. Lo bevevo nella tazzina a vetro, e mi sembrava di avere accanto Eduardo che mi sorrideva.

Quando andai via da Barbara, macinino e napoletana restarono da lei. Sua madre me li mandò,

assieme alle altre cose che avevo lasciato da lei e i suoi quaderni e appunti, pensando che anche queste cose sarebbero state meglio da me. È ancora tutto negli scatoloni in cantina, non li ho mai aperti.

Mentre bevo il caffè mi ricordo di una cosa che mi ha detto mentre andavamo in Villa Dondi. – Perché stavi dietro lo Strabico? – Non è che ci stessi proprio dietro. L’ho avuto in pugno ai tempi delle tre tele di Bacon: sicuro che

fosse il tramite fra i ladri e i ricettatori che arrestammo, lo lasciai libero, sperando che mi portasse alla terza tela. Invece, niente. O quella tela era già destinata a qualche acquirente, o è all’estero, o non so. Magari a chi le aveva in mano piaceva solo quella centrale, vai a sapere… Fatto sta che non è mai comparsa sul mercato. Però Caracciolo mi è rimasto qui, come una spina in gola. È una soddisfazione che mi sarei voluto togliere volentieri.

Andrea non era presente, mentre gli spaccavo il naso con uno Stalin: è arrivato dopo, a fatti compiuti, e forse lo Strabico gli è rimasto sul gozzo da allora.

Squilla il telefono, risponde direttamente Andrea. Deve aver dato il numero in centrale, perché è per lui. Fa una smorfia indecifrabile, poi ricompone la sua faccia. Quando mette giù si versa direttamente la mezza tazza rimasta sul fondo della caffettiera, poi mi guarda, di nuovo insondabile.

– Ci sono novità. Non belle. – Di che genere? – Giulia Baracca. Sembra che si sia impiccata. Poi, fissando la tazzina ancora piena e dice, più a se stesso che a me: – È come la favola di Pollicino.

Qualcuno ci cammina davanti, sbriciolando perché gli si possa andar dietro. Dove vuole lui.

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4. In canottiera e mutandine, Giulia Baracca doveva essere una bella donna. Benché pallida come il

marmo, vien da pensarlo anche ora. Il segno viola sul collo spicca visibilmente. Per fortuna quando arriviamo noi il medico legale è già sul posto, e il corpo è stato staccato dal lampadario a cui era appeso. Il cappio di nylon resistente è avvolto per terra: un tirante da campeggio, probabilmente. Gli agenti rovistano nei cassetti e negli armadi. Una ragazza bionda molto impallidita accoccolata sul sofà, un plaid indosso e un bicchiere di cognac in mano. Non piange, ma è scossa dai singhiozzi, non trovandola né in casa né in villa sono venuta a cercarla nella sua casa, certo, avevo le chiavi perché quando Giulia dormiva in villa potevo usare queste due stanze in città come pied-à-terre…

Evidentemente aveva anche l’incarico di curare le piante che, nonostante il caldo soffocante, sembrano gli unici esseri viventi in buona salute, stasera.

– Ispettore, venga a dare un’occhiata qui. Da una cassa in legno di quelle vecchie, quelle che si comprano in Montagnola, salta fuori, assieme

ad altre cose in questo momento irrilevanti, l’intero catalogo della seduzione in stile Madonna. Calze a rete, guêpière, reggiseni in pizzo, un corsetto in stecche di balena dall’aria autentica, e un paio di manette, un bavaglio in cuoio, uno staffile in pelle. Tutto il necessario, insomma, per un erotismo alla moda. Il sadomaso da un po’ di tempo è l’ultimo grido.

Andrea continua a fissare quel corpo fragile disteso sul letto. Scambia sottovoce qualche parola col medico, indicando qualcosa in modo vago. Poi scosta leggermente il lenzuolo che copre il corpo per osservare meglio un piccolo livido stretto e sottile sulla natica. Non sembra una di quelle che si limitavano a recitarla, la parte della vittima sottomessa. Sul volto non ci sono segni. Le unghia non sono da manicure, ma nulla di eccessivo: dopotutto le mani le usava per lavorare. Il segno del cappio, subito sotto il mento, sembra quasi voler pulsare, come una innaturale vena disegnata con un rossetto violento. Se fosse più scuro potrebbe essere un nastro a cui appendere un cammeo.

Andrea ci passa sopra un dito. Avanti, indietro. Le mette la mano sotto la nuca. Le solleva la testa. A volte Andrea riesce a dare l’impressione che il tempo si sia arrestato di colpo, cristallizzando tutto

ciò che era in movimento. È il suo modo di afferrare un pensiero e svolgerlo come un rosario, mentre tutto il resto giace in animazione sospesa.

Resta così per qualche interminabile minuto, con la piccola testa esangue nel palmo della mano, gli occhi fissi sul collo.

Poi, con calma, riappoggia la testa sul cuscino e le passa la mano sugli occhi, quasi a voler ripetere il gesto pietoso con cui qualcun altro li ha chiusi. Fa un cenno di intesa al medico legale, che glielo restituisce assentendo con gli occhi.

– Ispettore, venga qui. Guardi nel cassetto, c’è una pistola.

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È una piccola pistola, tanto piccola da far quasi tenerezza. Spesso le pistole sono più grandi di quello che ci si immagina, questa no. Andrea fa una smorfia e si lascia sfuggire un

– … naturalmente… … che resta per un attimo sospeso in aria. Esce come sospinto da un soffio di vento strascicando fra i denti un «andiamo via» che risuona nel

gelo di questa torrida notte.

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5. – C’è modo di togliere un po’ di dolce dal tuo cocktail? Gli faccio segno di sì, chiamo il barman, e gli chiedo: – Due del solito, ma secco. – Canadese? – Bravo. Ha la fronte meno corrugata. Qualcosa deve avergliela distesa, anche se gli occhi sono ancora

plumbei. – Ha fretta… Chiunque sia ha una dannata fretta… E deve improvvisare… Tutto questo non doveva

succedere… – voglio dire, non è stato lui a metterlo in moto, è successo qualcosa che ha scatenato tutto questo. E per quanto bravo sia, comincia a sbagliare.

Arrivano i due bicchieri accompagnati dalle consuete olive e patatine, che resteranno lì. Nessuno ha fame stasera.

– Dove avrebbe sbagliato? Francamente non ci arrivo. Solleva le sopracciglia e sospira: – Vedrai… Spero di poter leggere nell’autopsia quello che penso. – Ammettendo che tu abbia ragione…? – Tanto vale per ora dargli corda e lasciarlo fare. Vediamo cosa vuole farci capire. Sembra sicuro di sé. Mentre lui torna in questura, io vado a casa a dormire. Mi sveglia alle cinque. Va bene ricominciare a vedersi, ma adesso esagera. Oltretutto non è neanche il

mio lavoro. Cosa c’entro, in fondo? – Ti passo a prendere fra mezz’ora, mi servi. Poi ho da farti vedere una cosa. Lui è capace di non dormire per notti e notti, e di recuperare rubacchiando qualche ore di sonno sulla

poltrona dell’ufficio. Io no. È per questo che bevo tanto caffè.

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6. – Dove siamo diretti? – Sei sempre lo stesso. Ci siamo passati tre giorni fa da questa strada, e già non te la ricordi? Magari tre giorni fa ero più sveglio. Comunque, adesso capisco che stiamo di nuovo andando a Villa

Dondi. – Tu sei stato nello studio di Dondi, hai avuto modo di dargli un’occhiata. Magari c’è qualche piccolo

particolare che hai osservato distrattamente, ma che può avere il suo peso. E siccome ho l’impressione che il nostro uomo ci farà trovare qualcosa, voglio che tu sia presente al momento del ritrovamento.

Ormai è partito in quarta: parla di questa misteriosa entità, gli dà quasi del tu, lo personalizza, e scommetto che cerca di immaginarne i tratti somatici, il carattere, i gesti. Quando leggevamo insieme un romanzo, Andrea Vannini non si soffermava mai sulle descrizioni dei personaggi, se li ricreava lui attribuendo loro un volto, designava gli attori che avrebbero dovuto impersonarli sulla pellicola di un suo personalissimo film.

– Ma hai almeno qualche idea su chi sia? – No, purtroppo. Per noi questa storia inizia solo dal suicidio di Dondi. È come entrare al cinema con

un quarto d’ora di ritardo: devi cercare di immaginare cosa ti sei perso, e non è detto che ci riesca. Prima del suicidio c’è qualcosa che deve averlo ha causato, e non ho idea di cosa possa essere. E magari non è neanche il fatto principale. Magari è Dondi che, non volendolo, ha fatto scattare qualcosa con la sua morte. Il fatto è che noi non possiamo non ragionare in termini di causa ed effetto, per non perdere il contatto col poco che abbiamo in pugno. Ma se si sono incrociate storie differenti, c’è qualcosa che fa sballare tutti i calcoli. Chiaro?

– E se provassimo a partire dagli ambienti in cui si muovevano i nostri personaggi? – Troppo complicato. Prendi il Dondi: finanza, grande industria, e magari, vai a sapere, c’è dell’altro

tipo politica o massoneria che ancora non è venuto fuori. C’è la scalata alla FederFin, e più indietro la nube tossica. E questo è ancora il meno. Ma con personaggi come il Lama e lo Strabico, potresti andare a parare ovunque.

– E allora? Siamo arrivati. Scendiamo dalla vettura, e suoniamo all’ingresso. – E allora, è come se qualcuno ci stesse inviando un messaggio di cui non riusciamo a decifrare il

significato. E dobbiamo cercare di capire se ci conviene cominciare a cercare chi ci manda il messaggio, o cercare prima di capire cosa significa.

Il cancello si apre, il Vinciguerra ci guarda, inespressivo. Prende in mano il mandato di perquisizione, ma non lo guarda nemmeno. Ormai per lui l’ispettore Vannini sta diventando un ospite fisso.

– Metto su un caffè, ispettore? Avrei voglia di spiegare ad Andrea che a volte i messaggi si formano da soli, senza che alcuno li

generi. E significano qualcosa a seconda di chi li riceve. Questo, almeno, è quello che ho imparato sui libri. Se è poi vero anche in questo fazzoletto di realtà in cui il suicidio sta diventando un’abitudine, allora Andrea lo sa di certo meglio di me.

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Mentre gli agenti svolgono diligentemente il loro compito, dividendosi per il momento fra la stanza

della Baracca e lo studio di Dondi… – … non credo che ci sarà bisogno di passare ai piani alti. … Andrea Vannini si guarda attorno quasi seccato, apre una carpetta, sfoglia un paio di appunti,

solleva un pesante dizionario. Il non dover far caso a eventuali impronte digitali già rilevate, per scrupolo, dopo il suicidio rende tutto più celere.

Alla fine succede quello che doveva succedere. Un giovane agente rosso in viso porge ad Andrea un libro tratto dallo scaffale accanto a quello dal quale, tre giorni prima, ho sfilato via il Montale d’epoca.

Posso anche sbagliarmi, ma quei libri li avevo lasciati più scostati gli uni dagli altri. Adesso sono di nuovo serrati.

Nel libro ci sono tre foto. Giulia nuda, con le mani legate dietro la schiena, in pugno un grosso vibratore. Giulia indossa la sola guêpière, imbavagliata e oscenamente legata a una sedia rovesciata, con le natiche rigate da segni rossi. Una donna, presumibilmente sempre lei, col volto coperto da un cappuccio di cuoio con una lampo al posto della bocca, ammanettata alla spalliera del letto, indosso solo un paio di calze a rete. L’ambiente sembra essere la stanza della servitù nella quale Giulia Baracca dormiva. In tutte le foto il volto è girato verso il fotografo. Almeno, mi viene da pensare, le piaceva farlo.

Ci scambiamo, io e Andrea, un sorriso amaro. Non posso dimostrarlo, ma quelle foto sono state messe lì dentro negli ultimi due giorni. Prima di andar via, Andrea si ferma davanti alla stanza del cuoco, ancora assente, e dà un altro dei suoi ordini bizzarri: rilevare a tappeto tutte le impronte digitali nella stanza del Romboli.

– Vede, ispettore, – sembra scusarsi il Vinciguerra, – la signorina Baracca non dormiva più qui da domenica. Ma non avevo motivo di preoccuparmi, perché si era presa una settimana di libertà. Del cuoco invece non saprei dirLe alcunché, magari è tornato qualche giorno a Viareggio a godersi un po’ di mare, magari invece, avendo terminato di sistemare le pendenze con i fornitori, si ritiene libero del suo incarico, e prima o poi manderà a prendere le sue cose, magari ritornerà stasera, chi può dirlo. Sta di fatto che da tre giorni qui non si vede nessuno.

E quindi, se qualcuno ha voluto introdursi nella villa, lo ha fatto di mattina, quando il custode cessava la sorveglianza notturna e dormiva. Magari non è stato facile, ma sicuramente possibile.

Il custode, con la mano perennemente sulla testa del suo cane, sembra essere l’unico punto fermo in questa storia. Tutti gli altri si dividono in due categorie: quelli che muoiono, e quelli che scompaiono.

– A proposito di scomparsi: notizie del Lamanna? – Figurarsi. Conoscendolo, adesso può essere a Lisbona, a Bucarest, magari in Baviera. Da quando ha

allargato il suo giro di affari, ha più passaporti lui che peli quel cane lì. Dev’essere vero. Oltretutto quel vecchio cane è decisamente spelacchiato.

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7. – Indovina dove teneva segnati i numeri di telefono, lo Strabico? Stiamo tornando indietro. Andrea ha l’aria pensosa. Io continuo a sentirmi in ritardo di dieci minuti

rispetto a tutto. – Sulle banconote, nel portamonete. Evidentemente quelle da spendere erano nel portafogli. E

indovina chi abbiamo trovato, su questa specie di agenda privata? – Un paio di numeri col telefonino, il capello unto e le tasche piene di banconote sporche, immagino. – A parte quelli, voglio dire. Il numero del telefono sulla scrivania del Suicida Numero Uno. E quello

del Lamanna, con accanto un altro numero. Probabilmente una cassetta di sicurezza. Stiamo controllando tutte le filiali in città e provincia. Se non troviamo niente, proveremo con quelle della regione intera.

– Cosa ti aspetti di trovarci? – Azioni della FederFin. Il pedaggio di un bieco ricatto, suppongo… È scettico, e credo di sapere perché. Ma sento che c’è dell’altro. – Una volta trovato il bandolo, era ovvio che ci saremmo arrivati. E poiché il nostro uomo non ha

fatto nulla per impedircelo, è chiaro che troveremo qualcosa che colleghi Dondi allo Strabico. Ci siamo fermati davanti a un vecchio palazzo nel centro, fra l’Università e la stazione. Andrea ha le

chiavi del portone e della porta. – È l’appartamento dello Strabico. Vieni, ti faccio vedere una cosa. Appartamento è una parola grossa. È un sottoscala umido, con la pavimentazione scoscesa e le scale

scivolose, e l’interno è anche peggio. Il dito di polvere ingrassata sul fondo delle pentole appese alla parete della cucina non dà l’idea di un amante della vita casalinga.

– Te lo ricordi il vecchio lenzuolo con Michelangelo? Lo Strabico aveva una vera passione per i soldi. Così aveva conservato, dentro una cornicetta a

giorno, alcune banconote fuori corso legale. C’è aria di anni Sessanta e Settanta, in quella cornice. – Guarda dietro quelle banconote. Smonta pure la cornice, ci abbiamo già guardato noi. Lo guardo incuriosito, con la vaga sensazione di stare per scoprire qualcosa di cui mi pentirò. Smonto

il vetro, e rivolto una per una le banconote. Su quasi tutte, ci sono dei numeri di telefono. Guardo Andrea, perplesso.

– Abbiamo già controllato quei numeri. Vecchie conoscenze, in buona parte. A parte questa, forse… – mi dice indicando il biglietto da cinquecento lire – 359672.

– Questo numero non dev’essere molto vecchio. – Non preoccuparti. Non sono numeri degli anni Settanta, sono relativamente recenti. Uno di questi

deve averlo scritto pochi mesi or sono, se ho capito a cosa si riferisce. Diciamo che usava la collezione come un’agenda sui generis.

C’è uno stridìo di falso, nel quadro d’insieme, che non mi convince affatto. Ma non riesco a capire che cosa non va, e al tempo stesso questo ronzìo subliminale mi impedisce di concentrarmi sul numero

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di telefono. È come se quei sei numeri fossero sfuocati. Poi, a poco a poco, diventano sempre più chiari. Quando ridiventano perfettamente visibili, capisco perché avrei preferito non saperlo.

359672… 359672… 359672: il numero di telefono di Barbara. Glielo cambiarono pochi giorni dopo che io andai via, e

non l’ho mai usato. Ma l’ho sempre saputo a memoria. – Quando ho avuto fra le mani la strisciata della Sip ci sono rimasto male anch’io. Tra l’altro, non è

detto che l’abbia scritto quando era il numero di Barbara. E, in teoria, il suo nome non dovrebbe dirmi niente, così come i nomi di quelli che hanno avuto questo numero, prima e dopo di lei. Ma …

Ma c’è qualcos’altro. E a questo punto, ci arrivo da solo. (sto diventando bravo?) – Ma c’è quella storia di quadri, vero? Lo Strabico c’era in mezzo, e Barbara ti aveva cercato quando

tu li hai recuperati… – Infatti. Per poco che possa essere, è l’unico legame plausibile che ho trovato fra questo numero e… … e cosa? Lo Strabico? Il furto di tele? La morte di Barbara? L’intera storia? Restiamo a guardarci in silenzio, ciascuno dei due con una possibile risposta che sostituisca quei

puntini sospensivi che puntellano i nostri discorsi. Con una possibile risposta, nella speranza che faccia meno male del dubbio che abbiamo dentro.

– Vediamoci stasera, da me. Abbiamo bisogno di pensarci su. – No, meglio da me, – mi risponde. – Se non mi arrivano certe carte in ufficio, me le faccio portare a

casa.

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8. Sono arrivato fino in centro. C’è una frase che mi ronza nelle orecchie…

Le cose si stanno sfaldando dai bordi… … e non riesco a ricordarmi dove l’ho letta. Ho l’impressione che qualcosa stia lentamente

sbiadendo, che si stia perdendo la nettezza dei contorni. Qualcuno, correndo dietro un autobus, mi urta alle spalle. Sobbalzando, mi accorgo di essere fermo davanti al mio negozio di scarpe.

(mio, per modo di dire. Due paia in otto anni: se i maniaci della cura delle scarpe come me aumentassero, qui dentro dovrebbero vendere formaggi)

Cerco il modello che ho ai piedi, senza trovarlo. Donato Vinciguerra e io abbiamo lo stesso modello, stessa marca, col bordino verde nel tacco… Perché questa coincidenza mi ossessiona? E, soprattutto, quali cose si stanno sfaldando dai bordi?

Immerso in questi pensieri, quasi senza accorgermene sono passato da via Orefici e ho comperato un etto di caffè in grani, miscela dolce. Arrivato a casa, sono sceso in cantina a recuperare uno degli scatoloni che ho archiviato laggiù da cinque anni. Fuor di metafora, se non è il mio inconscio ci manca poco.

Dentro lo scatolone, scatole più piccole. In una, avvolti nel cellophane, il vecchio macinino in legno chiaro, la napoletana da due tazze, i bicchierini da caffè in vetro. Uno purtroppo si è scheggiato, ma gli altri sono intatti. Mani amorevoli li hanno riempiti di carta, prima di imballarli.

Macino un pugno di chicchi, tanto per ridare l’odore del caffè al macinino. La macchinetta è pulita, la faccio andare con del caffè che avevo in casa, tanto per rinfrancare anche lei. Lavo i bicchieri. Poi macino il caffè, con calma. Riempio il filtro della napoletana, intercalando un pizzico di cacao in polvere, di quello che ho.

(domani ne comprerò di migliore) Riempio la macchinetta con acqua minerale (nell’acqua di Bologna c’è troppo calcare) … e lascio un mezzo cucchiaino di polvere di caffè sul fondo per rafforzare l’aroma. Mentre aspetto

che l’acqua bolla preparo un coppino di carta, che infilo sul beccuccio prima di voltare la macchinetta. Aspetto. Devo anche ricordarmi di ricomprare i cremini Majani. L’unico piacere superiore a una tazza di caffè

è una tazza di caffè dopo un cremino Majani. Barbara non ha mai capito questa mia passione per il caffè. Lei lo comperava già macinato, e lasciava sempre il cucchiaino dentro il barattolo. Era l’unica cosa che non avevamo in comune, il caffè. Per lei era un’abitudine senza finalità recondite, per me un momento di meditazione. Qualunque cosa io stessi facendo poteva aspettare, qualunque cosa il mondo volesse da me doveva attendere il lento sgocciolare del caffè verso il fondo della napoletana. Nel corso di questi anni il

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caffè è diventato un medicinale per lenire il cerchio alla testa del primo mattino, un sapore forte in grado di coprire il gusto di Campari nel periodo dei quattro Negroni a sera, una droga per star sveglio, uno stupefacente che sostituisse la voglia di alcol quando ho smesso di bere (nei giorni di lavoro).

In questi cinque anni ho perso molte cose. Dopo il caffè, comincio a guardare cos’altro c’è nello scatolone. Alcuni maglioni, qualche poster, le

cartoline dei musei. L’ultima cartolina non è mia. È la riproduzione della tela centrale del trittico Studio per una testa

africana di Bacon. Mi piacerebbe conoscere questa Sinead O’Connor alla quale questa tela dovrebbe assomigliare, dev’essere una bella ragazza. Alla cartolina è fissato, con una graffetta, un foglio scritto a stilo.

Bologna, 15 settembre

Spett. etc. etc. Il solenne evento avrà luogo lunedì. Se l’influenza non sarà passata, tanto peggio, cazzo! Le mie sincere scuse per averLa fatta attendere così a lungo. Ecco il programma: 1 – Comincerò a urlare esattamente alle 4. Venite dunque verso le 3. 2 – Alle 7, cena all’orientale. Sarà servita della carne umana, delle cervella di borghese e clitoridi di tigre

saltati nel burro di rinoceronte. 3 – Dopo il caffè, ripresa della piazzata, sino alla deflagrazione dell’uditore. Il programma è di Suo gradimento?

PS: esattezza e mistero!

15 settembre. Quattro giorni prima della sua morte – ed è morta di lunedì, ne sono sicuro. Non può essere vero. Cerco un’agenda, un calendario, trovo solo un ritaglio di giornale, lo stesso che ho visto nell’ufficio

di Andrea, rifaccio i conti due, tre volte, fra la data dell’articolo e il 19 settembre. Che è un lunedì. Il solenne evento avrà luogo lunedì… Cosa vuol dire? Quale evento? Sfoglio gli altri appunti dattiloscritti, ma è tutta roba di lavoro, sono

una quarantina di pagine. Sull’ultima, il titolo di un articolo del 1912 sul Misticismo poetico in Flaubert. Non sono appunti, è un abbozzo di traduzione. Sua madre non deve aver guardato, si è limitata a mettere tutto in una scatola.

A parte questo, non c’è altro. È tutto quello che mi resta di Barbara: la traduzione di un articolo vecchio di ottant’anni, e una lettera delirante in cui fissa un appuntamento per il giorno della sua morte.

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9. Ci conosciamo da anni, ormai. O meglio, sono io a conoscerti, anche se non so che faccia hai. Devi essertela fatta nuova in qualche

clinica privata, o magari a casa tua. Lo so che sei qui intorno. Ti diverti un mondo a osservarmi, nascosto nella tua ombra, e probabilmente non ti passa per la testa che qualcuno possa aver capito cosa nascondi nel tuo cono d’ombra. Pensare di aver commesso un errore non fa parte del tuo modo di vedere le cose. Eppure questa volta ne hai già commesso più d’uno. La fretta non è il tuo forte, vero? O magari pensi che sia anche più interessante, un gioco con qualche inevitabile errore. Ma già!, di certo non te li attribuisci. Non sono colpa tua, è il caso che li fa accadere, questi cosiddetti errori, vero?

Così, solo il caso può rendere vulnerabile la tua innata perfezione. E per quello hai un rimedio sempre pronto. Hai cambiato molte armi, ma è come se ne usassi sempre e solo una: tu non lo sai, ma io conosco la tua firma, lo scarabocchio che lasci su ogni cadavere. Ogni volta che uccidi, ti lasci dietro un segno contorto, come una lumaca che sbava inchiostro, e ogni volta, prima o poi, arrivo io. Non importa se arrivo in ritardo, mi basta la bava nera che ti lasci dietro. Sono anni che la studio, che sono l’esperto calligrafo di un uomo che non ho mai visto.

Non m’importa se arrivo sempre dopo di te. È solo una questione di tempo. E di tempo ne ho quanto me ne serve. Ho tutta la vita, se occorre. Ti

sono sempre più vicino, e prima o poi ti troverò, forse prima di quanto tu possa pensare. Credi di essere invincibile, vero? Di poter prevedere, calcolare ogni cosa? Allora sappi che hai già

perso. Se anche questa volta sei di nuovo tu, se sei quello che penso, hai perso. Ti manderò contro qualcuno che non puoi prevedere, che non potrai anticipare. Una variabile impazzita, la mia arma segreta.

Anche se mi costerà caro. Molto, molto caro.

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10. Sul tavolo di Andrea i resti di un’insalata di pomodori e delfini in scatola. In compenso, il whisky è

buono – anzi, il whiskey, un Paddy’s del sud dell’Irlanda. Per aria, un altro di quei brani che una volta conoscevo bene.

– In-A-Gadda-Da-Vida. L’assolo di batteria più lungo della storia del rock. Nessuno dei due ha voglia di cominciare a parlare di cose serie. Ci lasciamo trascinare dalla musica

negli anni beati in cui mescolavamo biliardino e rivoluzione nella stessa casa, in un turbinìo di coinquilini di cui restano solo brandelli di nomi, piccoli episodi, frammenti di storie…

… il geloso di sinistra, te lo ricordi? quello che le storie sono così, e le coppie aperte, naturalmente quelle degli altri, le sue no, e la gelosia è roba passata, e infatti scenate da vergognarsi come ladri per la tromba delle scale, e alla fine gli abbiamo dovuto spiegare, non è che il preserva ti si sfila in ragione della tua priapica mascolinità, ma è perché va infilato sull’ammiraglio già eretto sull’attenti, non prima…

… il meneghino che gettò del cavolo nelle pere alla bella Elena, perché era in dispensa, ed era un peccato andasse a male, cavolo e pere, buon dio…

(si scade nel picaresco, ma non dura) … e quel mezzo mafioso, talmente analfabeta che doveva farsi correggere anche le cartoline, tutto un

cchi spacchiu vui, piccio’ e ’i cose dd’a casa ’un s’anna ccuntari all’istranei, come si chiamava, Clemente Armerina Cammarota, figgjhiu ’i Aldo Armerina Cammarota minchia ’u figghiu d’u Sinnaco! che gli chiedemmo una volta ma come hai fatto a farti promuovere se non spiccichi due parole d’italiano, e lui tutto fiero ci dice del padre avvocato che gli aveva passato il compito da sotto la porta del cesso della scuola e ppoi – minchia! – io a quattordici anni ggià fficcavo, aah!…

… perché quando passi la tua vita a fare da tappeto a Salvo Lima che si struscia le scarpe sulla tua

faccia quando viene a visitare il tuo paese, e magari fai anche finta di non vedere la sua mano che si allunga sul culo di tua moglie, di tempo per educare i figli te ne resta ben poco, e se te ne viene fuori uno minchione è più facile decidere che sono cose che capitano, e ne fai un altro sperando che cresca su meglio…

… perché cosa se ne fa del periodo ipotetico un minchione educato a pensare che tutto resta immobile

e niente può cambiare, se l’unica cosa che ha letto e si ricorda è quella pagina del Gattopardo, non tutto il libro, solo quella pagina con l’angolo piegato per poterla leggere ad alta voce ogni volta che serve, perché senza leggere non lo sa dire da solo che bisogna cambiare tutto perché niente cambi…

… perché la vera struttura portante, la macchina riproduttiva della mafia sono i piglianculo come

l’avvocato Armerina Cammarota, che vivono per mettere al mondo dei quaqquaraqquà…

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… perché la vita è un cassonetto che ogni tanto vomita topi come quello, e ti fa rabbia che siano talmente meschini da non aver voglia di riaprire il cassonetto per ributtarcelo dentro, che ci guadagneresti solo una giacca sporcata…

… perché in fondo, se ci pensi, ce ne sono tanti così: e a volte capita che il cassonetto si riapre, ed

esce fuori un altro topo di fogna, magari al femminile minchia t’a pozzu cuntari ’na cosa porca assai ca ci piaci fari a ma’ fimmina?, che si prende a mano il primo minchia meschino, avi truvari ’a fimmina ricca, e aggiu truvato chista, cca teni i milioni du patre (come suonano nella bocca, quei venticinque milioni del padre) cuciti intr’u materassu (e si segna con un mozzicone di matita sull’agendina le diecimila lire prestate, e il pacco di zucchero già a mezzo, e le mortadelline in offerta tre-per-due) – e il cassonetto si riapre di nuovo, e scompaiono tutti e due, rintanati davanti alla televisione perché uscire la sera costa, diamine, éppoi non è vééro che non usciaamo maai, Cléém, siamo giàà usciti giovédì sééraa, e il mondo sembra un po’ più pulito se non li incontri più…

Quando il disco termina, Andrea si alza. – L’altra facciata non è proprio il caso. Quest’altro, invece, dovresti proprio ricordartelo. L’aria si riempie di una musica zuccherosa, ma accattivante. Una specie di canzoncina per bambini,

caro vecchio Robert Sinclair, con il suo confettoso mondo grigio-rosa. – Ho trovato un appunto di Barbara. Ti dice qualcosa? Nel ricopiarlo non ho messo la data. Lo vedo annuire, mentre legge. – Sì. Glielo sentii recitare l’ultima volta che trasmise per radio. Sai, quando salutava con quei consigli

strani? Le ultime trasmissioni me le persi, ero in Jugoslavia, ai tempi in cui la Jugoslavia esisteva ancora.

Anche Barbara, se è per questo. Domani faccio un salto in radio, chissà che non l’abbiano registrata e conservata loro. Andrea si accende una sigaretta.

– Novità? – Conferme, più che altro. Lamanna e Romboli sembrano essersi fatti di nebbia. – E il resto? Stringe leggermente gli occhi. Sa cosa voglio sapere. – Nella stanza del cuoco quasi non abbiamo

trovato impronte. Neanche le sue. O Vinciguerra fa le pulizie meglio della cameriera, o Romboli girava con i guanti. Scegli tu.

La risposta, se lo conosco bene, non è né l’una né l’altra. – L’autopsia? – Niente droghe. Niente lividi. Morte per strangolamento. Ma non è suicidio. Lo dice come se fosse la cosa più ovvia di questo mondo. – Vuoi dire che si è fatta impiccare? Prima di rispondermi, schiaccia la cicca nel posacenere. – No. Voglio dire che qualcuno l’ha strangolata con quel tirante, poi l’ha appesa al lampadario per

simulare un suicidio. Ti ricordi il segno del cappio, dritto come fosse un nastro? Il segno di un’impiccagione non è dritto, è diagonale, perché il nodo dietro la nuca è più in alto rispetto al punto in cui la corda stringe sotto il mento. Sembra una stronzata, ma è quasi sempre per cose del genere che finiamo col prendere tutti quei cervelloni che credono di essere capaci di compiere il delitto perfetto.

Mi sembra troppo. Continuo a pensare a quel corpo. È stata la seconda volta che ho visto un cadavere livido e irrigidito, è così che ho capito la differenza fra morire e crepare. E dopo averla strangolata, hanno messo in scena la farsa del suicidio, e quell’altra pagliacciata delle foto…

– Niente segni di scasso alla serratura, pochissime possibili tracce di resistenza. Si fidava di lui, gli ha aperto, girava in canottiera e non aveva motivo per non voltargli le spalle.

– Con chi abbiamo a che fare, Andrea?

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– Continuo a non saperlo. A non sapere che tipo di gente è. Anche se per me non sono in molti, forse è uno solo. Uno che non ha alcuno scrupolo a servirsi degli altri, sino ad usare le loro vite, magari semplicemente per respirare un momento. Ma è furbo, nonostante tutto. Potrebbe inventarsi qualche depistaggio apparentemente più credibile, ma non lo fa. Anche se è costretto a correre dei rischi, vuole restare su un terreno che conosce bene, in cui si sente sicuro. Per lui tutto questo serve solo a prendere tempo. Il che vuol dire che sta per succedere qualcosa, dopo di che non sarà più in pericolo. Oppure, che far succedere questo qualcosa è il suo scopo. E non so neanche se fra questi morti, Dondi, lo Strabico, la Baracca, qualcuno era estraneo a questo gioco, o se erano coinvolti tutti quanti. Ho fatto interrogare per quattro ore il custode oggi, dal momento che, fra morti e scomparsi, era l’unico che potesse dirci qualcosa. Non è emerso alcunché: è uno che vive in un suo piccolo mondo, col suo cane e i suoi pennelli. Il massimo dello svago è una vecchia Harley Davidson che tiene sempre a punto. Viaggia poco. Uno così da tutta questa vicenda ha solo da rimetterci. Se i nuovi proprietari della villa non volessero tenerlo, non saprebbe cosa fare. Fa parte del paesaggio, è un elemento del giardino.

– Oggi c’era l’apertura del testamento, se non ricordo male. – Infatti. Niente di straordinario. Ha elemosinato ai parenti briciole del suo patrimonio, tanto per non

farsi maledire. Ha lasciato cifre simboliche (dal suo punto di vista, naturalmente), ai membri del personale, e al figlio. La stessa cifra che ha lasciato al cuoco, in un conto intestato a lui, se mai dovesse ritornare. Hai notato la foto del monastero, sulla scrivania? Comunque, praticamente un’elemosina.

Peggio di un’elemosina, mi viene da pensare. Lasciargli gli stessi soldi che si lascia a un cameriere, per quella gente è peggio che lasciargli niente.

– Alla clinica che cura la moglie ha lasciato di che mantenere la poveraccia alloggiata in una suite privata per i prossimo cinquant’anni. E alla moglie, a ogni buon conto, vanno tutti i beni immobili. Inoltre, una notevole elargizione ai due figli del suo vecchio socio, probabilmente per sdebitarsi di essere morto da solo per le colpe di tutti e due. Chi avrebbe mai detto che avesse un cuore, da qualche parte…

– Il resto? – Sarà amministrato dalla sua società. Compreso il pacchetto di maggioranza. Tranne quelle azioni

regalate alla finanziaria londinese di cui sai. Il disco ricomincia da solo. Non c’è ragione di cambiarlo, per il momento. – Come l’hanno presa, i suoi soci? – Contenti di non aver avuto sorprese. Ho sentito uno degli amministratori della FederFin. Hanno già

un contatto con i londinesi, che sono pronti a vendergli quel blocchetto di azioni, senza passare dalla borsa.

Quella delle finanziarie misteriose era una mania del Dondi. Mi servo da solo un altro Paddy’s, e ne verso anche per lui.

– C’è modo di sapere perché ha inviato a Londra qualche miliardo, mentre il figlio piange miseria? – Non credo che pianga. Sarà dura persino farglielo sapere, della morte del padre. Mi sono preso la

briga di contattare i consolati italiani in India e Nepal, nel caso lo rintracciassero, per informarlo. Comunque, no: non c’è modo di sapere chi c’è dietro i londinesi, né perché aveva fatto vendere azioni prima della morte.

– La cassetta di sicurezza? – Ancora niente. Domani passiamo alle altre provincie. Adesso non c’è davvero altro. Abbiamo sfogliato il carciofo, e siamo arrivati al cuore. Tanto vale

togliersi subito il dente. Andrea lo capisce, e si alza per cambiare musica. – Anche questa è roba che ho dimenticato? – No, direi di no. I dischi della 4AD sono degli anni Ottanta… (gli anni Ottanta, musicalmente parlando, li ho cancellati all’origine, a parte, chissà perché, i Bauhaus

e gli Wire) – … però questo è un pezzo di Terry Riley…

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(Terry Riley?) – Secondo te, cosa ci fa quel numero di telefono su quel biglietto da cinquecento? – Non lo so. Forse Barbara aveva saputo, non certo da me, che Caracciolo era implicato nelle tele di

Bacon, e ha cercato di contattarlo per cercare la terza tela. Chiedendo in giro, poteva arrivare a sapere che il biondino era nella storia.

Sbuffa via un filo di fumo, da una sigaretta che si dev’essere acceso mentre versavo da bere. – Non mi sembra probabile. Barbara era capace di mettersi a cercare un quadro rubato solo per

poterlo vedere. Sarebbe stata capace di fotografarlo e di tenersi la foto sul letto, senza pensare alle conseguenze. Ma era lo Strabico a tenere quel numero nella sua agenda segreta, insieme ai numeri di spacciatori, strozzini, mercanti di armi e simile gente. Perché era importante, per lui, tenere presente il suo numero di telefono? Perché non segnarselo su una normale agendina, visto che non aveva niente da temere? O doveva avere dei motivi che a noi sfuggono?

Continua a esserci qualcosa che mi disturba. Una mosca nell’insalata, o giù di lì. Poi ho un’altra impressione, che non so neanche come esprimere.

– … come se qualcuno stia stringendo una rete nella quale senza saperlo siamo impigliati tutti noi. Come i delfini con i tonni. E la tonnara si sta avvicinando. Prendi questa storia, un pezzo alla volta. Lo Strabico smercia delle tele, e ci siete di mezzo tu e Barbara. Dondi muore, e c’è di mezzo lo Strabico. Lo Strabico muore, e ci siamo dentro tu e io.

– Dimentichi qualcosa. Questo tono di voce lo avrà usato non più di due-tre volte, da quando lo conosco. Quando uccisero

Pasolini mi zittì con quello stesso tono di voce: – Non è stato quel ricciolino. Non da solo. Lo hanno voluto ammazzare.

È un tono assolutamente normale, se non fosse quella nota leggermente bassa che ti stringe il cuore come in un pugno di ghiaccio.

– Dondi e Varisi fanno un affare, e Varisi muore. C’è di mezzo Cristiano. E fanno quattro: io, te, Barbara e Cristiano.

È la prima volta che lo nomina, in questi tredici anni. Non dev’essere passato giorno in cui che Andrea abbia ripercorso un qualche momento della nostra amicizia, alla ricerca del momento in cui avremmo dovuto capire che Cristiano aveva una seconda vita, clandestina, nascosta, della quale non aveva mai parlato. Il cuore di Andrea è un impasto di risentimento per un’amicizia tradita, e senso di colpa per quello che gli è passato sopra la testa senza che lui se ne accorgesse.

– Tu che hai studiato, cosa faresti? – Perché lo chiedi a me? – Perché sono io lo sbirro. E se lo sbirro non ci arriva, vuol dire che non bisogna pensare da sbirri. È

esattamente quello che si aspetta da me: che io pensi da sbirro. E, anche se riesco ad arrivargli vicino, a lui basta tenermi indietro di una pagina. Così, è il momento di partire in contropiede. E visto che lo sbirro sono io, la palla passa a te.

Questa musica è bella, ma adesso comincia ad angosciarmi. Chissà se c’è chi scrive musica per dialoghi come questi…

– Fammi ascoltare qualcos’altro di nuovo. Prende su una cassetta, e la fa partire. È una sua antologia personale. – Ti stupirà, scoprire che in questi anni c’è stato anche un gruppo punk-folk irlandese… (infatti) Cerco di farmi un quadro della situazione, inutilmente. Ogni volta che ci provo, finisco col ragionare

come lui. Ci sono troppe cose che mi sfuggono: informazioni, soprattutto. – … e quando le informazioni mancano, bisogna procurarsele. E per procurarsele, bisogna andarle a

cercare da chi le ha. O da chi ne ha di diverse, o le manipola in modo diverso da noi. Uscire dal sistema. (bravo, trenta e lode! E adesso?)

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– Hai un’idea più precisa? – L’altro giorno hai elencato tutta una serie di ambienti specifici. Borsa, finanza, politica. Lì ci sono

informazioni, ma noi non possiamo entrarci. Allora dobbiamo cercarle altrove. Dove ne hanno di meno precise, ma in compenso ne hanno di più. In un posto dove passano molte persone diverse fra loro, e ciascuna di loro lascia qualche informazione. In carcere. Sei davvero convinto che debba essere io a fare la prossima mossa?

Andrea annuisce, con lo sguardo interessato. Se non lo conoscessi, direi che pende dalle mie labbra. – Allora trova il modo di farmi parlare con Cristiano. Dalla piastra, la stereofonia rimasterizzata di un vecchio interrogativo che mi stupiva ogni volta

and I wander, yes I wander, Who’ll stop the Rain?

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4. Chiostro

… polvere, troppi ricordi, è meglio esser sordi, e forse è già tardi…

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1.

12 settembre 1993. Mezzogiorno

Sapessi amore mio come mi piace partire mentre Milano dorme ancora vederla sonnecchiare, e scoprire quanto è bella prima che cominci a correre e a urlare

Ci sono uomini che fanno quello che fanno per scaricarsi la coscienza da un peso eccessivo. Altri

fanno le stesse cose per farsi perdonare qualcosa di ingiusto che hanno commesso. Altri ancora le fanno perché devono, punto e basta. Andrea Vannini è uno di questi ultimi.

Inginocchiato nel reparto sotterraneo del grande negozio di dischi usati, dopo aver scartabellato invano le casse contenenti i dischi corrispondenti alla lettera S, sta ora scorrendo con l’occhio i dischi riposti, all’impiedi nello scaffale in basso. In un’altra giornata si lascerebbe andare alla suggestione delle assonanze, dei casuali accoppiamenti che si creano in un quarto di secolo di musica rock iniziante per S, da Sly & the Family Stones ai Soundgarden, da Sting a Stephen Stills, passando attraverso i Sugar Cubes e i Supertramp, mentre il locale rimbomba delle stronzate di un ibrido yuppi-Fiorucci… no, no, briansole: delle parti nostre, sigüra, della Briansa, porca l’Eva… le friulane son tutte infingarde, le modenesi, poi… e le reggiane… con la montatura degli occhiali alla Augusto Daolio e il saffi ancora odorante di paciùli avvolto attorno al cellulare, sventolante un disco che al confronto con quelli di una volta, en podi propi pü, ona volta sì che… oggi invece… ’nlokir cûn sti’ stinchigrüve…

… Limbomaniacs, mentecatto. Stinky Grooves è il titolo dell’album

Ma oggi Andrea Vannini non ha voglia di acculturare gli incolti: si limita ad augurargli un prossimo,

e possibilmente lentissimo, cancro, tale quale il portatore originale della sua montatura d’occhiale. Oggi cerca un solo disco, e sa già che lo troverà qui, da qualche parte…

… e un bicchiere di vino alla fatina della buona pioggia

Un colpo da maestro, pensa fra sé e sé. In certi detti popolari il colpo da maestro non è il virtuosismo del campione, ma l’ultimo colpo di

ferro da stiro che il sarto dà sul vestito già stirato dall’apprendista, per allisciare l’ultima pieghetta e completare il lavoro. Sarebbe bello, se alla fine di questo sporco lavoro non ci fosse che una piega o una stropicciatura da appianare con un colpo da maestro.

Ci sono pieghe che non si lasciano stirare, increspature che non torneranno mai più liscie, macchie che ormai fanno parte del tessuto, strappi i cui orli recalcitrano a ogni accomodamento, lacerazioni talmente profonde da preesistere al vestito.

È nelle piccole cose quotidiane che si sperimenta il senso dell’irrimediabile.

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Ed è da qui che nasce il senso del dovere. Ci sono cose che devono esser fatte, anche se non riparano ciò che non è più riparabile: devono esser fatte, tutto qui.

Andrea Vannini sfila il disco a lungo cercato, lo paga e si avvia all’uscita. Il nebbioso squallore di via Padova lo avvolge come un paltò.

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2. Riassunto degli ultimi tre giorni. Nessuna notizia del Romboli. I familiari hanno sporto denuncia per la sua scomparsa. Sono molto

preoccupati. Anche il Lamanna resta introvabile, e nessuno sembra preoccuparsene. Andrea ha cominciato a esaminare i rapporti sui ritrovamenti di cadaveri non identificati avvenuti nel centro-nord nell’ultima settimana.

La cassetta di sicurezza dello Strabico era a Reggio Emilia. C’erano dentro azioni FederFin, denaro, un po’ di oro, qualche orologio, un paio di agende. Alcuni dei numeri di telefono, scritti da destra verso sinistra, corrispondono a numeri trovati sulle banconote. Qua e là alcuni conti, e qualche sigla: tutta roba risalente agli ultimi due anni, che non ha prodotto sconvolgimenti nel sottobosco padano. Comunque, qualche ladro di polli ha pensato bene di sparire dalla circolazione per un po’. Niente di preoccupante: tutti segnalati in casa di amici o parenti, in altre città.

Ho trovato una registrazione dell’ultima trasmissione di Barbara, negli archivi della radio. Le sue ultime parole sono state la lettura, senza alcuna premessa, dell’enigmatica lettera che ho trovato. Poi i consueti saluti all’uomo dell’aratro, alla fatina della buona pioggia, eccetera.

In teoria avrei dovuto riaprire la mia agenzia e ricominciare a lavorare. Ma ho prolungato di una settimana le mie ferie, e ho detto alla mia segretaria di fare altrettanto. Ho controllato il mio conto in banca, tanto per essere certo di potermi permettere, per una volta, di lavorare per conto di una persona di cui mi fido: me stesso.

Il Togliatti mi ha fatto sapere che una grossa partita di eroina è improvvisamente comparsa sul mercato, in vendita in blocco a prezzo d’occasione. E che, nel giro di 48 ore, un acquirente venuto da fuori ha fatto sapere di essere in cerca di una partita più o meno equivalente, che era sul punto di acquistare quando lo Strabico si è fatto uccidere. Morale della storia: lo Strabico stava per acquistare una grossa partita di eroina, da rivendere a stretto giro di posta. Questi acquisti si fanno in contanti, evidentemente da qualche parte dev’esserci una grossa quantità di denaro che era sul punto di giungere, o forse era appena giunta, nelle tasche del fu Caracciolo.

Cristiano ha accettato di parlarmi. È un onore, dopotutto: in tredici anni non ci sono riusciti né Nanni Balestrini, alla ricerca di un soggetto per un romanzo sugli anni Settanta…

Caro Nanni, ti ringrazio per la cortesia, ma debbo declinare la tua offerta. Ho troppa stima per te e per i tuoi libri da

permetterti di scriverne uno su di un soggetto balordo come me… … né Corrado Stajano, impegnato in una riedizione del suo L’Italia nichilista poi non più

effettuata…

Spett. dott. Stajano,

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debbo confessarmi sinceramente stupito per l’interessamento da Lei mostrato alle mie vicende. Dette vicende sono purtuttavia private, e tali hanno da restare, oltre che dimenticate dai più, e, in futuro, anche dai ricercatori seri e scrupolosi come Lei.

Se aggiornerà il libro, me ne mandi cortesemente una copia, che leggerò con interesse: credo di avere ancora molto da capire, su questo argomento. Quanto a noi, nessuno ha mai pensato di andare a trovarlo: Andrea fece capire sin dall’inizio che non

ci avrebbe concesso udienza. A me ha scritto tre lettere nell’arco di dodici anni (l’ultima nel ’91), in ciascuna delle quali ignorava deliberatamente tutte quelle che gli avevo scritto, e che non ho neanche modo di sapere se sono giunte a destinazione.

In compenso si è messo a studiare Manzoni. Sembra lo conosca a memoria. Anni addietro suscitò scalpore la pubblicazione di un suo saggio sulle Ricorrenze manzoniane nel primo Montale, pubblicato sull’autorevolissima «Rivista di Filologia e Storia della Lingua Italiana», con un intervento (nientemeno) di Gianfranco Contini che ne illustrava l’innovativo apporto agli studi montaliani. In seguito alle vibrate proteste di illustri professori e studiosi, Cristiano fece sapere che avrebbe rinunciato a pubblicare ulteriori scritti, riservandosi di raccogliere le future fatiche dei suoi studi in un volume da pubblicarsi alla data della sua scarcerazione, all’incirca nell’agosto 2011, mese più mese meno…

… non essendo ciò che scrivo in alcun modo connesso alle cronache presenti, e dunque rivolto unicamente a un lontano passato, dal cui punto di vista pochi decenni appaiono un’accettabile proroga…

Prima di uscire di casa, ho riletto quel saggio. … La comparsa del verbo «abbattersi», riflessivamente usato, deve intendersi un richiamo alla

ricorrenza manzoniana, nei cui Promessi Sposi ha significato di «imbattersi», quasi sempre connesso con un moto di sorpresa (e una variante dall’accezione festosa in Arbasino, Fratelli d’Italia, 1963), talvolta di timore. Così l’incontro dell’adolescente col proprio amante si concerta in quell’abbattersi che, recuperando una significazione desueta, ne rafforza un sommovimento emotivo che non può essere negato all’adolescente, per la quale ogni futuro è salvaguardato con un crollar di spalle, e dunque anche l’appuntamento prefissato giunge inatteso. In quell’abbattersi nelle braccia dell’amante la giovinetta esperisce…

Nove anni prima, in uno scritto dal tono molto meno aulico, Cristiano aveva per la prima volta usato il verbo «abbattere» in modo maledettamente transitivo.

Comunicato n. 1

A tutte le avanguardie di massa del proletariato metropolitano Un nucleo combattente per il comunismo ha abbattuto ieri Gilberto Varisi, boia al servizio delle

multinazionali imperialistiche, colpevole della produzione illegale di armi chimiche yankee usate nello sterminio del popolo del Vietnam, principale responsabile della nube tossica che… Due mesi dopo, l’arresto in un covo, come si diceva allora. Al processo non ha detto una parola. Non si è dichiarato prigioniero politico, non ha confessato, non si è pentito, non ha risposto né alle

domande del giudice né a quelle dei giornalisti. Non ha mai commentato la condanna. Semplicemente, iniziava nell’aula del tribunale un silenzio pressoché ininterrotto. Degli altri del suo

nucleo combattente, quello arrestato con lui si è pentito, ha ricostruito, almeno in parte, l’omicidio Varisi, e in questo momento dovrebbe essere in Provenza dietro il bancone di una pizzeria. Gli altri due dovrebbero essere in Australia, dopo aver causato una rissa con piccoli malavitosi milanesi conclusasi con tre morti ammazzati.

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In tutti questi anni Cristiano non ha mai chiesto riduzioni di pena, affidamenti esterni o altro. Vista la sua condotta ne avrebbe più che diritto: il fatto è che non sembra intenzionato a far altro, se non continuare a studiare per i prossimi vent’anni circa. In carcere, a San Vittore, il suo silenzio è oggetto di rispetto persino fra i più incalliti soggiornanti. Si dice che una volta in sua difesa, contro un catanese di peso che aveva interpretato la sua indifferenza per mancanza di rispetto, sia intervenuto il bel René, uno dei nomi più noti nelle cronache della Milano anni Settanta. Così, un po’ per la voce che lo vuole convertito, un po’ per il suo aspetto vagamente pretesco – la barba sale e pepe, la chierica, già accennata durante il processo, ora decisamente aperta sulla sua testa – è diventato per tutti fra’ Cristoforo.

Che io sappia, anche Barbara gli ha scritto, senza ottenere risposta. Quanto ad Andrea, il nome di

Cristiano Malavasi era semplicemente impronunciabile in sua presenza, sino a tre giorni addietro. Adesso guida in silenzio l’auto di servizio con cui mi accompagna nell’ex carcere speciale (attuale carcere ordinario), poco fuori città, dove Cristiano è stato trasferito, col suo consenso, per una settimana.

Quando vedo Andrea rimanere seduto nell’ufficio del direttore del carcere, capisco che il nostro colloquio non avrà testimoni.

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3. Ci ritroviamo in una stanzetta spoglia, un tavolo senza cassetti e due sedie, come due amanti che si

reincontrano dopo un decennio di separazione. Così, per rompere il ghiaccio, Cristiano sorridente mi apostrofa con un

– O animal grazïoso e benigno, che visitando vai per l’aere perso! Una volta, al liceo, discusse a lungo col professore di italiano sul quinto canto dell’Inferno,

sostenendo che la chiave dell’intero dialogo fra Dante e Francesca non erano i versi d’amore, ma quel Se fosse amico il re de l’universo che sottintendeva ed evidenziava l’inimicizia di Dio verso i peccatori, inimicizia che rende impossibile ogni sentimento di postuma pietà o compassione. Me lo ricordo ancora, asserire con sicurezza che quelli erano versi che potrebbero essere pronunciati da ogni dannato della terra, da ogni prigioniero di questo carcere che è la vita su questa terra ingiusta.

In quegli anni ingiusto era un aggettivo che implicava sempre un elemento di provvisorietà, di transitorietà. Oggi la vita ci appare ingiusta, senza sensi reconditi. Semplicemente, ineluttabilmente ingiusta.

Non ci saranno discussioni. Non sta a noi rievocare, recriminare, riesumare. Niente spiegazioni, chiarimenti, delucidazioni, i

dubbi resteranno dubbi, le domande sospese resteranno nell’aria, le nostre vite riprenderanno a marciare faticosamente sopra i fangosi sentieri che percorriamo, ciascuno per conto suo, anche dopo il nostro incontro.

Non abbiamo niente da saldare, non ci sono conti in sospeso, fra noi. Solo, vorrei averlo saputo prima di vedere la sua faccia da francescano, vorrei esser stato capace di questa leggerezza stamattina, mentre in silenzio facevo colazione, a radio spenta, dopo aver riesumato il vecchio rasoio a mano libera ed essermi rasato, il più lentamente possibile, col leccasapone di tanti anni fa.

– Fammi vedere se sei ancora il più bravo a riassumere in poche parole. Ma non omettere niente: da quanto mi ha fatto sapere per telefono Andrea, dev’essere un maledetto guazzabuglio.

Così ha preferito telefonargli. Chissà perché, ero convinto che Andrea sarebbe andato sino a Milano, a incontrarlo per preparare il nostro colloquio.

– Su cosa debbo soffermarmi, in particolare? – Sulle domande. E sui volti. Cerca di farmi capire come sono i volti di quelli che sono coinvolti. Dev’essere stata una regola del Nucleo John Wayne, quello di esprimersi per enigmi che io capisco

solo il giorno dopo. O forse sono io a essere sempre in ritardo, come i meloni in aprile. Così gli racconto tutto, per filo e per segno. Senza essere sintetico, per una volta. Ci metto quasi

un’ora. Quando smetto, Cristiano ha l’aria di star sgranando un invisibile rosario. Mi piacerebbe sapere cosa c’è al posto dei grani.

Si alza, bussa alla porta, chiede al piantone se è possibile avere due caffè. Arrivano quasi subito. Siamo trattati con i guanti, sembra dire il volto del piantone.

– Cos’altro? – si limita a dirmi.

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– In che senso? – Tutto questo è lavoro di Andrea. Io non c’entro. Mi dispiace che ti abbiano sparato addosso, ma

ancora non c’entro. E tu lo sai. Se sei convinto che io debba aiutarti, devi dirmi perché. C’è arrivato prima del previsto. Anni addietro abbiamo imparato, in modo feroce, che il più

imprevedibile del gruppo era lui. Senza dirgli nulla, gli mostro lo stesso foglio dattiloscritto che ho fatto leggere tre giorni prima ad Andrea. Resta un attimo perplesso, poi mi chiede cos’è.

– Un appunto di Barbara. Cosa ti dice? – È una lettera di Flaubert. Flaubert era una specie di allucinato naturale, di quelli che respiravano

visioni con l’aria, di prima mattina. Con i nervi tesi come corde di violino. Questa lettera la inviò ai suoi editori, per leggergli il suo romanzo su Cartagine. È un buon esempio di come funzionava la sua testa, quando era al lavoro.

Si ferma un attimo, lascia che un’ombra gli passi sul volto. – Barbara doveva mandarmi un articolo su Flaubert. Mi aveva scritto che mi sarebbe piaciuto molto.

Non ha fatto in tempo. Non era una traduzione di lavoro, dunque. Era per Cristiano, che all’epoca non conosceva il francese.

Lo ha imparato in seguito. – Cosa c’è di strano in questo appunto? Era il lavoro di Barbara, Flaubert, o no? – Forse. Però lo ha letto per radio prima di morire. Sono praticamente le sue ultime parole. Riprende a sgranare il suo immaginario rosario, per alcuni minuti. Poi sospira. – Con quella lettera, Flaubert invitava delle persone importanti – i suoi editori – a una seduta durante

la quale avrebbe letto il suo Salambô. Col cerebrale senso dell’umorismo di Barbara, si può ipotizzare che volesse raccontare a qualcuno qualcosa su Salambô.

– Il romanzo? – No. La tela di Bacon, lo Studio per un ritratto africano. Quella che Barbara voleva vedere, e che il

Caracciolo aveva forse avuto per le mani. Ma non credo che si possa immaginare lo Strabico come destinatario della lettera, non era tipo da capire certe sfumature. Oltretutto era un mezzo analfabeta. Poi, un’altra cosa.

Mi guarda negli occhi. Lo so che sta per dirmi qualcosa che non voglio sentire. – Tu pensi che Barbara sia stata uccisa vero? E che da qualche parte, in questa storia complicata in

cui tu e Andrea vi siete imbarcati, ci sia il bandolo che porta al suo assassino. Non ho bisogno di rispondergli. – Ebbene, lo Strabico era un rifiuto dell’umanità, ma non era un assassino. Non per scrupolo morale,

evidentemente: semplicemente, non ne era capace. Era un vigliacco, non avrebbe potuto uccidere neanche una donna, neanche prendendola alle spalle.

– Come fai a esserne così certo? Lo abbiamo perso di vista tanti anni fa… – Perché quando sparì dalla circolazione, alla fine degli anni Settanta, io l’ho reincontrato. Fu lui a

procurarci le armi. Era nel mercato da tempo. Questa proprio non me l’aspettavo! Cristiano che compra armi da quel farabutto, come se fossero

limoni dal fruttivendolo dietro l’angolo. – Vedo che la cosa ti sorprende, – mi dice con un sorriso irridente. Devo essere diventato rosso, come

tutte le volte che sto per incazzarmi. – Ma cosa credevi, che le armi crescessero sugli alberi? Che ci fossero mercanti buoni che vendevano

ai buoni, e mercanti cattivi per i cattivi? E magari, che ci fossero buoni e cattivi? C’erano armi, esplosivo e quant’altro, perché c’era chi ne faceva commercio. E chi ci guadagnava lo faceva per i soldi, non per l’ideale, senza guardare in faccia a chi comperava. E noi che comperavamo non potevamo certo permetterci di guardare in faccia a chi vendeva: la Rivoluzione non è un letto di rose, ricordi? Era questa la differenza tra chi parlava di armi senza averle mai viste e chi invece le usava: voi credevate che sarebbero spuntate dal nulla e nel nulla avrebbero fatto ritorno, una volta cessata la breve necessità del

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loro uso, noi sapevamo da dove venivano, e ci stava bene così: non avevamo il tempo, noi, di cercare il punto di giunzione più alto fra la scientificità delle armi della critica e la necessità pratica della critica delle armi. Tutto il resto è chiacchiera da salotto parigino.

È vero. Le differenze sono spesso molto più sottili di quanto appaiano. Questo è uno dei miei migliori amici, con cui ho passato almeno un terzo della mia vita. Una mattina ha piantato un proiettile nel cuore di un uomo che aveva moglie e figli, un uomo che conosceva a malapena, solo perché sui giornali aveva letto che era il responsabile di qualcosa come una nube tossica, un qualcosa che forse non avrebbe saputo, allora, nemmeno spiegare. E subito dopo gli ha piazzato un secondo proiettile nella testa, chinandosi sul corpo steso sul marciapiede, senza neanche accertarsi se stava sparando su un corpo ancora vivo o su un cadavere. Eppure io sono qui a guardarlo negli occhi, e riesco a indignarmi solo quando scopro che il mio amico comperava armi da un mancato stupratore di ragazzine a cui ho spaccato la faccia anni addietro.

… come quella volta a Napoli, quando ci incontrammo tutti alla solita pizzeria dietro ai tribunali, con la

pizza nel foglio di carta appoggiata sul marmo, scesi giù ciascuno per proprio conto, ciascuno di nascosto dagli altri, perché la riunione era di quelle importanti, di quelle dove si decidono cose serie, perché il treno della rivoluzione sta partendo e chi c’è si sbrighi a salire, e gli altri resteranno a terra, e allora giù in autostop, in treno, in moto, a macerarsi nel dubbio di aver deciso di scendere senza dirlo agli altri, e appena arrivati a mangiare una pizza sul marmo da Michele ai Tribunali, e guarda caso eccoci tutti lì, a scoppiare a ridere, e tutto un prometterci che la carboneria non fa per noi…

… è quanto di meglio abbiamo avuto? … davvero, è quanto di meglio abbiamo avuto?

– Va bene, lasciamo perdere. Cosa ne sai di quelle tele rubate? – Non più di quanto ne sapete tu e Andrea. Il Caracciolo ha fatto da tramite, ed è passato indenne fra

le dita di Andrea. Credo che Andrea abbia fatto bene a tentare di usarlo come esca. – E perché non ha funzionato, secondo te? – Perché questa storia non è passata attraverso il solito giro di furti d’opere d’arte. Il furto a Londra è

stato commissionato da qualcuno che non aveva interesse a rivendere le tele, credo. Poi, per qualche motivo, sei anni dopo si è sbarazzato delle due tele laterali del trittico. Magari non gli piacevano, vai a sapere. Ma la testa di Salambô non è mai stata sul mercato. E nessuno ha mai saputo dove fosse. Fino al ritrovamento del 1988, non si sapeva neanche se fossero mai uscite dall’Inghilterra. Però…

Ricomincia a sgranare il rosario. Sta cercando qualcosa su uno dei personaggi di questa storia, e non ci riesce.

– … Però, non si uccide per un quadro. Neanche per un quadro di questo livello. A meno che… – A meno che quel furto non fosse una copertura? Non servisse a nascondere qualcosa di ancora più

grosso? Ci pensa un istante, scuote la testa. – No, inverosimile. Chi si attirerebbe addosso l’Interpool per coprirsi? Però a volte accade che

cominci a spazzare, e il mucchio di polvere si accumula sempre più, e magari da sotto l’armadio salta fuori un pupazzetto dimenticato da tempo. E magari al pupazzetto questo non va giù, o non va giù a qualcuno che il pupazzetto non sia più sotto l’armadio…

Credo di capire. – Mi stai dicendo che cercando il possessore della tela rubata, Barbara può essere inciampata in

qualcuno che non voleva essere visto? Magari la stessa persona che possedeva il quadro? – O magari no. Però può essere successo. Mi sento sempre più confuso. C’era già troppa gente in questa storia. Adesso ne salta fuori un altro, di

cui non sappiamo niente.

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– Non è vero che non ne sappiamo niente. È sicuramente collegato al Caracciolo. Peccato che… Già. Peccato che la parlantina dello Strabico ultimamente sia un po’ a secco. Adesso sono io ad avere voglia di un altro caffè. Mentre facciamo un’altra pausa, ci scambiamo

qualche battuta sugli ultimi Clint Eastwood. E su Silverado, che Cristiano ha visto in televisione, e che per una volta ci mette d’accordo, altro che Grande freddo, è Silverado il vero manifesto nostalgico-politico di Kasdan, mentre là fuori il grande freddo dilaga, mentre le cose sono davvero cambiate – e non nel senso in cui sperava Bob Dylan! – non resta che la nostalgia per i tempi in cui esistevano delle leggi, in cui non si ammazzavano donne e bambini, in cui anche il più cinico dei criminali rispettava le regole leali del duello…

… in cui non si ammazzava con un colpo al cuore e uno alla fronte?

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4. – Qui in carcere ho imparato un nuovo gioco, una specie di versione cinese degli scacchi, lo giocava

anche il Presidente. La cosa più importante non è come muovi i pezzi, ma come li disponi sulla scacchiera: è una filosofia di vita. O forse è la vita a disporre di te, senza troppa filosofia.

Ho capito, vuol giocare agli scacchi di Mao. Però ci sono alcune pedine che ancora non sono schierate e altre che forse non sono al loro posto.

– Io le mie pedine le ho già sistemate, – gli rispondo. – Adesso devi metterne giù una tu. Ora è lui ad aver sentito qualcosa che non voleva sentire. Ma sa già dove voglio arrivare. – Varisi, è così? È per questo che sei venuto? – Non solo per questo. Anche per Barbara. Soprattutto per lei. Se non fossi convinto che in questa

vicenda c’è finita dentro anche lei, non ti chiederei di parlarmene. Ma Varisi è morto nel bel mezzo di una storia che può aver lasciato strascichi pesanti, di cui non sappiamo nulla. E devi aiutarmi tu.

Si alza, bussa alla porta, scambia due parole col piantone, torna con una sigaretta accesa. In carcere aveva smesso di fumare.

– Ti ricordi il processo, vero? La confessione del Cina? Be’, non s’è inventato nulla: è tutto scritto lì, nero su bianco, e quel ch’è scritto è la verità. Fino a quell’inverno avevamo trasportato armi per conto terzi, rapinato alcune banche per autofinanziamento, bruciato qualche auto, tirato qualche molotov. Quell’inverno ciò che restava di Prima Linea mandò giù uno del loro gruppo di fuoco, il Comandante Marco, per cercare di aprire un nuovo fronte che allentasse la tensione su Milano. Ci fu chiesta la disponibilità a un’azione di guerra, una specie di esame d’ammissione. Accettammo. La schedatura e i pedinamenti della nostra vittima erano già stati effettuati, non so da chi. Forse questo Marco non era il solo a essere sceso a Bologna. Sta di fatto che sapemmo solo una settimana prima chi dovevamo colpire. E lo facemmo. Poi ci arrestarono, quasi subito. Ma ormai il nucleo era in pezzi, per colpa di quei due coglioni…

Ha già fumato la sigaretta per metà. Guarda il fumo che sale verso il soffitto. – Erano i due che avevano il contatto con il Comandante Marco. Erano andati a Milano per un

incontro con la direzione strategica. La sera stessa, ubriachi, si sono accapigliati con dei piccoli malavitosi a Quarto Oggiaro. Uno dei tre ha estratto la mitraglietta e ha lasciato partire una raffica: tre morti, uno dei quali appena entrato a bere un caffè. Da quanto ne so, gli hanno dato documenti falsi per sparire dall’altra faccia della terra. È storia anche questa, ormai.

– Hai detto uno dei tre… Socchiude gli occhi per un istante, come se stesse prendendo la mira. Consuma la sigaretta con

un’ultima, lunghissima boccata. – Erano in tre. C’era qualcuno con loro, non ho mai saputo chi. Quelli di Prima Linea non ne sanno

niente. E forse è stato proprio quello che ha tirato fuori le armi per primo: noi non avevamo mitragliette, quei giocattoli sono meno facili da usare di quanto uno possa pensare.

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Così anche Cristiano ha una zona d’ombra. Nella sua storia c’è qualcosa che non quadra, un piccolo, appena percettibile tarlo. Che appena perso di vista si allarga, sino a trasformarsi in un sospetto insopportabile.

– Secondo te, dove sono finiti i soldi dello Strabico? – Nelle tasche del Lamanna. Lo Strabico aveva azioni FederFin, ma non sapeva niente di finanza. Il

Lamanna ha venduto le azioni FederFin, e non era tipo da speculare in proprio. Dunque, lo Strabico si è rivolto al Lamanna. Ecco perché il Lamanna non è tornato a casa, dopo la seduta in Borsa: doveva portare il denaro allo Strabico. Ma volente o meno, qualcuno lo ha convinto a non farlo. E adesso che allo Strabico non servono più, magari se li sta godendo da solo. Resta da capire perché Dondi avesse dato azioni allo Strabico. Se tu sei sicuro che quelle foto non c’entrano, allora Dondi doveva avere qualcos’altro da nascondere. E lo Strabico lo aveva scoperto.

– Però anche questo suona falso. Perché non pagarlo direttamente in denaro? Tanto più che l’idea di farsi pagare in azioni non può essere stata del Caracciolo…

Abbiamo finito, temo. Tutte le pedine sono sulla scacchiera, ma non sappiamo come andare avanti. È un guazzabuglio di linee che non si intersecano, o si intersecano nei posti sbagliati. Bisognerebbe correggere qualche posizione, ma non sappiamo neanche quale.

– Certo sapere che fine ha fatto il cuoco ci aiuterebbe molto. Che il Lamanna sia morto o meno, sposta poco. Ma che posizione assegnare a Romboli, questo proprio non te lo saprei dire.

È perplesso. Si rende conto che una di queste linee, attraverso un percorso che non sappiamo individuare, potrebbe portare al tetto di una piccola discoteca che programmava musica salsa. E che da qualche parte potrebbe esserci un’altra linea, per ora invisibile, che parte dallo Strabico e arriva sino a un giorno d’aprile di tredici anni fa.

Sto per salutarlo, quando gli sovviene qualcosa. – Stiamo dimenticando questo custode, o giardiniere. Dove lo mettiamo? Voglio dire, potrebbe aver

sentito qualcosa con quell’interfono modificato, no? E magari aveva una buona ragione per pulire così coscienziosamente la stanza del cuoco.

Certo. – O magari è stato lui a sfogliare uno di quei libri che sono stati manomessi nello scaffale. Magari

potrebbe non esserci stato nessun misterioso visitatore notturno, a Villa Dondi. Magari, quelle foto sono sempre state lì, il vecchio finanziere giocava al marchese de Sade con la cameriera, lo Strabico lo ha saputo, chissà come, e lo ha ricattato, e lui si è sparato.

– No, non quadrerebbe neanche così. Tanto vale continuare per la nostra strada. Che tipo è questo Vinciguerra?

– Te lo ricordi Claudio Lolli? Gli racconto della volta che ho visto Lolli, solo con un cane in via Mascarella. Credevo di fare una battuta. Evidentemente non sono bravo a far ridere la gente. – Parlami del cane. E dello sguardo del Vinciguerra. E di qualunque particolare ti venga in mente. Gli descrivo il sacco di pulci, gli racconto della sua cura per il giardino, gli ripeto tutto quello che gli

ho sentito dire. E gli parlo del suo sguardo. – Niente a che vedere con la faccia di Lolli, dopotutto. Ora che mi ci fai pensare, il suo sguardo mi

ricorda un po’ quello di Ruggeri. – Il comico? – No, il cantante. Scuote la testa. – Era il cantante dei Decibel. Li abbiamo visti insieme i Decibel, quando erano ancora…

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– polvere, troppi ricordi è meglio esser sordi e forse è già tardi per togliere la polvere dagli ingranaggi dai volti dei saggi…

Ha cambiato volto, letteralmente. È pallidissimo. Gli occhi sono due fessure gelide circondate da

rughe rocciose. Gli sta pulsando una vena, sull’angolo della fronte: per un attimo perso che stia per esplodergli.

– Ascoltami attentamente. Ci sono alcune cose che devi fare, piccole conferme che io non posso cercare in fretta come te.

Mi dà dei compiti facili, ma strani. E mi fissa un appuntamento per domani. – Ne parlo con Andrea? – No, non per ora. Digli solo che devi rivedermi domani, che sistemi lui la cosa col direttore del

carcere. Adesso stai lavorando da solo. Ricordati cosa diceva il Presidente: contare sempre sulle proprie forze.

Gli guizza via un bagliore dagli occhi.

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5. Umberto e Vittoria Varisi sono più o meno miei coetanei. Hanno ereditato ciò che la loro madre

aveva ereditato dal marito, e hanno liquidato tutto. Gestiscono un’agenzia di viaggi ben avviata, non sembrano passarsela male. I loro nomi tradiscono l’orientamento politico del padre, vecchio padrone del vapore d’altri tempi. Nella sede dell’agenzia, una foto del padre, giovane ma riconoscibile, e la foto del papa. Manca il presidente della Repubblica, mi viene da pensare. Umberto e Vittoria…

Incorniciata, la pagina del Resto del Carlino del 19 aprile 1980 con la notizia dei funerali di Gilberto Varisi. Accanto al dimenticato ministro Rognoni, Vittoria, allora giovane, si stringe alla madre. Umberto è uno dei sei che sorreggono la bara, in completo scuro, col volto semicoperto da un paio di occhiali da sole a specchio, di quelli che una volta erano una dichiarazione d’identità politica.

– Vede, la nostra famiglia non ha voluto prendere parte alle esequie del Cavaliere… È la prima volta che sento chiamare Gian Maria Dondi «Cavaliere». Del lavoro, suppongo. Il tono

falsamente ossequioso lascia intendere una sfumatura di disprezzo, come se stessero parlando dei Cavalieri del lavoro di Catania. Quelli che, sino a poco tempo addietro, tenevano appesi per ornamento un paio di ministri alla catenella dell’orologio.

– Ai tempi della tragedia che colpì la nostra famiglia, nostra madre ebbe un violento diverbio col Cavaliere. Lei non approvò il comportamento che Dondi tenne nel prosieguo della fusione con la FederFin, anche se preferì parlargliene a quattr’occhi piuttosto che in consiglio d’amministrazione – non è nostro stile sciorinare in pubblico i panni di famiglia. Non volle mai credere che tutta la manovra fosse stata orchestrata in accordo con nostro padre. Nostro padre era uomo dai ferrei principi morali. Tornò indietro dalla Russia a piedi, attraverso la Polonia e la Germania, quando aveva vent’anni. E con la stessa forza di volontà ha creato la ChemiBrianza. Nostro padre, dopo la guerra, non ha mai detto ad alcuno signorsì, non si è mai voluto piegare a chi era più potente di lui, a costo di correre il rischio di spezzarsi. E di certo non avrebbe accettato di venir meno alle sue rigide convinzioni morali, tantomeno per conto dei signori della CarboFibre, come fece, dopo la sua morte, il signor Dondi. È per questo che abbiamo preferito cambiare attività.

Anche quel signori della CarboFibre è detto con una vena di disprezzo. Dovrei fare una verifica, ma ho l’impressione che dietro l’intransigenza morale del defunto Varisi ci fosse l’avversione verso quei «potentati giudo-pluto-bolscevici» che nei suoi ambienti (e in quelli del figlio maggiore?) aveva portato acqua e denaro al mulino del principe Valerio Borghese, negli anni Sessanta.

– In definitiva, Voi escludete che, ad esempio, vostro padre fosse a conoscenza della vera natura della Logan Ent. Incom?

Prendo appunti su un taccuino, mentre ascolto. Ho dovuto fingere di essere un giornalista. – Le ripeto, egregio signore, che nostro padre era uomo di rigidissimi principi morali. Era un uomo

all’antica, come non ce n’è più, purtroppo. Questa volta è la figlia a rispondere con voce stridula. Questo decennio l’ha invecchiata oltre il lecito:

potrebbe essere la madre della bella ragazza che si sorregge al braccio della vedova nella foto.

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Mi si materializza davanti agli occhi il ricordo di una foto di quasi vent’anni prima, pubblicata su un settimanale. Un bambino di pochi mesi, la faccia da cavallo e gli occhi coperti da una membrana di pelle.

– Se posso permettermi un’ultima domanda… – Prego, ci mancherebbe. – Sarei interessato a sapere se nei rigidissimi principi morali di suo padre era contemplata anche

quella nube tossica che suo padre produsse e diffuse in Piemonte, in spregio a tutte le norme di sicurezza, per conto di una multinazionale svizzera…

Lo dico con deliberata ferocia. Quella nube ha ucciso non meno di una dozzina di bambini nell’arco di un decennio…

(… e modificato la fauna allungando edere nane sino a due metri, creato una nuova razza di topi, e attratto ciellini cattointegralisti radioattivi, di una radiazione più pericolosa di quella presente nelle acque, nell’aria e nel sangue della gente)

– Come si permette, Lei? E, a proposito, per quale giornale lavora? Faccia rivedere il suo tesserino, prego.

È il momento di andar via. Un pesante inserviente mi incrocia proprio mentre esco. Appena fuori, lo vedo accorrere all’ingresso e guardarmi in cagnesco, mentre gli faccio ciao-ciao sventolando il dito medio. Dovrò tenermi a mente questa agenzia, in futuro.

Intanto, devo cercarne un’altra. Speravo di prendere due piccioni con una fava, ma là dentro non ero persona gradita, oramai.

Ci metto poco, comunque. – … no, non è una direttiva europea, è perché nelle isole britanniche mancano alcune malattie canine,

e il divieto di fatto di introdurre animali serve a scongiurare il rischio che si possano propagare, no, sulla Francia non saprei dire, parlo per esperienza personale, potrei garantirle che in Austria è possibile, ma tenga poi presente che dipende anche dagli aeroporti, ad esempio all’aeroporto di Bologna non possono atterrare cani, perché il veterinario dell’aeroporto…

Non sono molto precisi, ma almeno mi confermano quello che Cristiano voleva sapere: in Inghilterra è pressoché impossibile introdurre un cane.

Si avvicina l’ora di cena. Prima di tornare a casa devo passare da Andrea. Non è in ufficio, ma si

aspettava che passassi, perché trovo un messaggio chiuso in una busta.

Chiamami per telefono dalle 21 in poi, oppure vieni direttamente da me. Ci sono altre novità. È scomparso anche Vinciguerra.

Andrea V. Di questo passo toccherà a me spegnere la luce, uscendo da questa storia. Vado a cercarmi un fast-food cinese per mangiare qualcosa alla svelta. Ho la testa che ribolle. Le

linee di questa storia sembrano improvvisamente più nitide, qualcosa di nuovo sta congiungendo due disegni che sembravano distinti nello spazio e nel tempo. La chiave è Donato Vinciguerra, ne sono certo: se a Cristiano ha fatto venire in mente qualcuno, tanto da mandarmi a cercare notizie apparentemente irrilevanti, vuol dire che fra loro deve esserci stato un qualche legame. E se congiungo sulla mia ipotetica scacchiera Cristiano col custode, devo cambiare posizione alla sua pedina. Devo metterlo al centro del gioco. Ma che senso ha? Perché proprio lui?

Gli involtini primavera sono, al solito, bollenti sotto la crosta dorata. Mi scotto la lingua col ripieno. Ricomincio da capo. Se lo Strabico ricattava Dondi, vuol dire che doveva aver scoperto qualcosa su di

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lui. Ogni volta che lo Strabico compare, qualcuno deve morire. Varisi muore sotto i colpi di una pistola venduta dallo Strabico, Barbara muore alla ricerca di un quadro passato fra le mani dello Strabico, Dondi muore ricattato dallo Strabico. Giulia Baracca muore per proseguire un depistaggio che ha a che fare con la morte dello Strabico. Ma che nesso c’è fra tutti questi morti?

Quindici anni fa gli spacco la faccia con un manico di piccone, una settimana fa sono a giocare al suo tiro a segno mentre lui muore. Oggi capisco il vero motivo del decennale silenzio di Cristiano. E Cristiano ha conosciuto Vinciguerra da qualche parte, ma ha bisogno di conferme.

Devo avere la bocca amara, perché questo pollo al bambù mi fa schifo. Bocconcini di cane, mi viene da pensare. Mentre lo penso, passa davanti alla vetrina del cinese uno skinhead con sulla maglietta disegnato il bulldog con i colori dell’Inghilterra. E mentre mormoro fra me e me

(… il cagnaccio britannico…) Mi si spezza la forchetta fra le dita (neanche mi ero accorto di aver usato le posate di plastica, invece

dei bastoncini). Cristiano vuol sapere se si possono portate i cani in Inghilterra, e spera che la risposta sia no. E quelle

scarpe nuove: mocassini nuovi, marca George Hogg. Le mie vecchie Hogg le ho dovute far risuolare quest’anno dalla vecchia calzolaia in piazza dell’Unità, perché non sono riuscito a comprarne un paio nuove: sono due anni che non le importano più.

Donato Vinciguerra è stato in Inghilterra, se le dev’essere comprate lì. E assomiglia a Ruggeri

non mi cercare, non mi riconoscerai E ha un cane. Il cane di Donato Vinciguerra. Quando ero al luna-park mi sono ricordato di Claudio

Lolli e del suo cane. A Cristiano questo paragone non fa ridere. A me è venuto in mente al luna-park, quando in lontananza…

… quando ho visto passare un uomo. Un uomo con un cane al guinzaglio. Con un cane al guinzaglio… Adesso so chi è davvero Donato Vinciguerra. È pazzesco, sembra il delirio di un paranoico, ma questa volta sono sicuro di non sbagliarmi. Sono

quindici anni che mi sbaglio su quelli come lui. E su di lui. È questo il nesso fra tutti questi morti: non abbiamo mai davvero capito chi è questa specie di demone

della morte, né io, né Cristiano, né Andrea. Né Barbara. Ma adesso ha smesso, per sempre. Perché giuro che questa volta gli brucio le ali. Per davvero. Smetto di mangiare, cerco nel portafogli il biglietto dell’autobus su cui ho segnato un numero di

telefono. Faccio una telefonata. Appuntamento alle ventitre. Adesso devo andare da Andrea.

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6. Mi viene ad aprire con ancora indosso l’impermeabile sfoderato. Non che sia appena rincasato, si è

semplicemente dimenticato di toglierselo. È il suo modo di concentrarsi: quando comincia a dimenticare questi particolari, vuol dire che sta pensando a una sola cosa. Era sicuro che sarei passato, perché sulla piastra aveva messo due bistecche che sono ormai stracotte da un lato. Pazienza. Del resto, non credo di poter mangiare carne in questo momento.

– È Vinciguerra. Ci ha fatto perdere una settimana di tempo. E mentre noi giravamo a vuoto, lui ci osservava. Ha sempre avuto la situazione in pugno.

Non sembra stupito. Ha riempito un termos di caffè, per poterne bere tutta la notte. Mi servo da solo, mentre mi riassume i suoi movimenti.

– Lo so. È scomparso da ieri sera. La villa era sorvegliata, ma per un custode-giardiniere dev’essere stato uno scherzo scavalcare il muro da qualche albero o rampicante. Dev’essere in moto, perché la sua Harley Davidson non l’abbiamo trovata. L’ho segnalato a tutti i caselli autostradali della regione. Sono sicuro che è ancora qui. Ma se ha un passaporto falso può imbarcarsi su qualunque aereo. Oltretutto, non si chiama Donato Vinciguerra.

Mi allunga un certificato di nascita.

DONATO VINCIGUERRA 12.06.1956, ROVERETO

– Un trucco da manuale, che funziona quasi sempre. Questo Donato Vinciguerra è morto

giovanissimo, di leucemia. Si è creato un’identità falsa a partire da documenti veri, per avere meno problemi nel falsificare i documenti. Nel 1984 era già a Bologna, con questo nome. Prima non sappiamo neanche che nome avesse. Le sue impronte digitali non sono in alcun archivio, quindi non lo abbiamo mai arrestato. Una mammola, si direbbe.

Resto muto. – Quanto al cuoco, temo che non ricomparirà tanto presto. Ho fatto perquisire la sua casa in Toscana.

Non è una prova, ma a giudicare dai filmini e dalle riviste trovategli, direi che era lui il patito del sado-maso. Quelle foto erano sue. Ecco perché Vinciguerra aveva pulito tanto bene la sua stanza: per cancellare le impronte che doveva avere certamente lasciato mentre cercava le foto dei giochetti privati della servitù. E ho come l’impressione che quando Vinciguerra gli ha perquisito la stanza, lui non fosse più interessato alla violazione della propria privacy. Un disinteresse pressoché definitivo. Domani iniziamo a cercarlo nel giardino, sempre che sia seppellito lì.

Chissà perché, adesso mi fa quasi schifo l’immagine della ragazza dal corpo minuto sottomessa a quella specie di omone grasso e sudato.

– Lamanna? – Chissà. Magari era d’accordo anche lui col Vinciguerra, alle spalle dello Strabico. Magari invece

non è mai arrivato a Bologna. Mi viene da pensare che fra Milano e Bologna scorre il Po…

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Credo che ieri avrei trovato tutto ciò interessante. Adesso ho solo bisogno di una conferma. – Ti ricordi quello che mi hai detto, su quel tale Comandante Marco? Quello che passeggiava in

piazza dell’Unità tutte le sere? – Sì. Aveva un covo in Bolognina… – Non importa, non è una buona ragione. Migliaia di persone abitano in Bolognina, ma non trovano

piazza dell’Unità tanto attraente da passeggiarci a orari fissi tutte le sere. C’è una targa che ricorda una battaglia fra nazisti e un gruppo di partigiani, quattro alberi, panchine, la più anziana calzolaia di Bologna, e una poveraccia che dorme da anni in una macchina perché non ha una casa. Ti sembra tanto bello da andarci a passeggio?

Adesso è lui a non capirmi. – Voglio dire, ti ricordi il verbale di quella confessione? Perché passeggiava tutte le sere? – Non saprei. All’epoca non ero neanche in servizio a Bologna. Ma cosa mai può… – Lo so io, lasciami fare. Conosci qualcuno di quelli che hanno letto quel verbale? Avvocati,

questurini, un giudice, un giornalista? Ci pensa sopra, si gratta il mento coperto da una barba di due giorni. – Credo di sì. Sempre se non vuoi aspettare fino a domattina. Non se ne parla neanche. Domattina, in questo momento, non esiste. Sfoglia un’agenda, scorre la lettera L, poi compone il numero. – Buona sera, signora. Mi scusi l’ora, sono l’ispettore Vannini. Sì, grazie. No, non si preoccupi, ho

solo bisogno di un’informazione, non glielo faccio uscire di casa. – Ciao, Leandri. Sì, Vannini. Lascia stare, e non preoccuparti. Dimmi solo una cosa. Ti ricordi quel

mezzo infiltrato che prendeste per caso, e che confessò? Sì, nell’inverno dell’80. Battesti tu la confessione, vero? Sì. Sì, hai ragione, vi hanno dato addosso ingiustamente. Sì, so bene che non fu colpa vostra. No, lasciami parlare, scusa: ti ricordi quando parlò delle passeggiate del cosiddetto Marco in piazza dell’Unità? Ecco, appunto. No, volevo solo sapere se ti ricordi se vi disse anche perché faceva quelle passeggiate. Come? Davvero? Sì, capisco che una cosa così resti impressa. Sì, è buffo, infatti. No, no, tutt’altro. Tu te la passi bene? I piedi nelle pantofole, vero? Fai bene, certo. Ti lascio. A presto, grazie.

Mette giù il ricevitore, con calcolata lentezza. Il suo volto ha l’espressione di una miccia a combustione lenta. Si ferma prima di esplodere.

– Il cane. Portava a spasso il cane, tutte le sere. Poi, quasi sibilante: – È lui. Lo abbiamo trovato. Però… … Però non funziona, lo so. Non è così semplice come crede, ma non posso farci niente. Non sto più

lavorando per lui. Il fatto è che in questo momento non me ne frega niente degli anni di piombo, delle pendenze degli

anni Settanta, del destino del Comandante Marco. Non voglio sapere niente di giustizia penale, di polizia, di processi. A questo punto è solo una questione personale, punto e basta.

E ho anche una vaga idea di dove potrebbe essere nascosto. – Quanto ci vuole ad avere dal catasto l’elenco dei beni immobili di proprietà di Gian Maria Dondi? Scuote la testa, sorridendo. Lo so che mi crede un dilettante. – Ci avevo già pensato. Dondi possedeva, in città e provincia, sedici appartamenti fra quelli intestati a

lui e quelli di proprietà delle sue società. Più altri cinque intestati alla moglie. Tutti controllati. Al figlio non è intestato niente. Valeva la pena di provarci, ma non è in uno degli appartamenti del fu Dondi che si è nascosto il Vinciguerra.

Di questo ne ero sicuro. – Prima che me ne dimentichi: domani torno a trovare Cristiano. Parli tu con il direttore del carcere? Annuisce.

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7. L’osteria in cui mi ha dato appuntamento il Togliatti è fuori città, verso Bentivoglio. Credo che abiti

da queste parti, ultimamente. Quella dei domicili del Togliatti è una storia tutta da raccontare, avendo tempo: magari sai dove lavora, magari persino come si fa chiamare, ma dove dorma, be’, questo è un altro paio di maniche. Appoggiata al muro dell’osteria, la sua inconfondibile bicicletta, una vecchissima Bianchi col sellino modellato da quattro decenni di uso, e un semi-sbiadito patacchino di Garibaldi sul parafango, residuo storico dei tempi del Fronte Democratico Popolare. Durante la campagna elettorale del ’48 il Togliatti si fece qualche giorno di carcere, col pretesto di un furto attribuitogli, forse non a torto, proprio alla vigilia del 18 aprile. Così gli rimase in casa una scatola di manifestini che non riuscì a distribuire. Da allora la sua bicicletta è sempre decorata dal volto di Garibaldi incorniciato da una stella. Ha fatto plastificare un po’ di quelli rimasti, così gli durano più a lungo. Si dice che ogni giorno di elezioni uno di quei manifestini compaia sulla porta di casa del Togliatti: ma siccome nessuno sa mai dove abita, nessuno può confermare o smentire questa diceria.

Il Togliatti, in fondo, è fatto così, un impasto di storia e leggenda, in cui non sai mai dove finisce l’una e dove inizia l’altra. Col passare degli anni si è appesantito, assomiglia un po’ a Cesco Baseggio, indimenticabile attore dei suoi tempi. Il berretto di lana nera, indispensabile strumento di lavoro in gioventù, è adesso altrettanto indispensabile, perché tante notti sui tetti in una città umida come questa fomentano dolori reumatici di prima categoria. In compenso, stargli dietro col vino è sempre dura. Sul suo tavolo c’è una brocca di vino scuro e due bicchieri di vetro, ad aspettarmi. Quella da mezzo litro, vuota, deve avergli tenuto compagnia mentre mi aspettava.

– Allora, ragazzino, siamo arrivati, finalmente. È la tua, quella motoretta che ho sentito arrivare? – Proprio così. Non sono mai stato capace di imparare a guidare un’automobile. – Neanche di tenere un carburatore a punto, a quel che sento. Passa a trovarmi in officina uno di

questi giorni, che te lo regolo io, sciagurato. In genere, quando sono in giro con la Vespa non bevo. In genere, per altro, non vado in giro a caccia

di pluriomicidi… (Sempre che sia io il cacciatore) Così accetto volentieri il bicchiere pieno con cui brindiamo. Intorno si gioca a briscola e a dama, si

discute e si litiga, come fanno sempre i vecchini di Bologna, senza che vecchie amicizie vengano incrinate. Mi viene in mente che il pollo l’ho lasciato quasi per intero al cinese, e che la bistecca di Andrea non l’ho neanche assaggiata perché era troppo cotta. Mi faccio portare un piatto di affettati e del formaggio, che divido con Ruggero.

– Allora, cosa c’è? In che pasticci ti sei cacciato? – Non lo so se sono guai. Comunque è una storia molto complicata, e non saprei neanche come fare a

raccontartela per intero. Te la ricordi la mia ragazza? Te l’ho fatta conoscere, una volta. – La Barbara? Quella biondina che…

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– Quella che morì cadendo da un tetto. Be’, non credo che sia caduta per caso. Credo che l’abbiano buttata di sotto, perché si era cacciata senza saperlo in una gran brutta storia.

Mi ascolta con un’espressione che, progressivamente, gli cambia i lineamenti del volto. Come se ringiovanisse.

– Adesso credo di aver scoperto chi è stato. E non è una bella storia. Se è chi penso io, ha ucciso almeno due persone, e forse altre due. E in passato ne ha fatte uccidere altre. È uno di quelli che tradiscono gli amici.

Adesso il suo sguardo fa quasi paura. Sono sicuro che è lo stesso che, al di là dei falò accesi per scaldarsi, scrutava in basso, sui monti greci, ai tempi della Resistenza.

– Così, ho bisogno di un paio di cose, e ne ho bisogno in fretta. Si limita ad annuire. Non gli ho ancora chiesto niente, ma già so che non ci sarà problema. Il Togliatti

ha da qualche parte una specie di borsa di Eta Beta. Basta chiedere: un piede di porco, un motore truccato, la Corazzata Potëmkin? Ci pensa lui.

– Ho bisogno di una di quelle tue famose chiavi magiche, quelle che aprono tutte le porte. Non so che serratura aspettarmi, e i miei passepartout potrebbero non bastarmi.

Annuisce, condiscendente. – E ho bisogno di una pistola, possibilmente pulita. Non ne ho mai avuta una, e credo di averne

bisogno. E dei proiettili. Adesso non annuisce più. Mi guarda fisso. – Sei sicuro di quello che fai? Guarda che certe cose non sono come nei film. – Sì, sono sicuro. E devo vedermela da solo. È una storia mia. Scuote la testa. – Ascolta, ragazzino, ascolta uno che ne sa più di te. Certe cose bisogna saperle fare, e tu non le hai

mai fatte. Magari hai tirato qualche sasso, magari qualche bottiglia, ma qui non sei in un corteo. Qui sei solo, e non è detto che questa persona voglia affrontarti come nei film dei cavalli e degli indiani, guardandoti in faccia. Magari ti prende alle spalle. E se spari per primo e non lo prendi bene? Di’, ci hai pensato?

– Sì, ci ho pensato. E ho anche pensato a un’altra cosa. Ho pensato a quello che avresti fatto tu, al mio posto.

Tira un lungo sospiro, si versa un altro bicchiere e riempie anche il mio. Quando vado ad afferrare il mio bicchiere mi prende la mano dentro le sue, e me la guarda con attenzione.

– Stringi qua, più forte che puoi. Obbedisco, senza capire. – Va bene, basta così. Ho capito che mano hai. Sembrava peggio, a vederla. Ho io la pistola che fa per

te. Adesso dimmi, sinceramente: sei capace di usarla? Potrei cercare di mentirgli, ma non ne sono capace. – No, temo proprio di no. – Ch’at végna un cancher… Svuota quel bicchiere, e seguimi con la tua motoretta. Andiamo in un

posto che so io, che almeno ti insegno qualcosa.

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8. Il trillo della sveglia è più doloroso del solito, stamattina. Sono le 7.30, ho dormito per tre sole ore, e

non posso fare altrimenti. Scaldo una tazza di caffè e mi trascino al telefono. Qualcuno, fra trenta secondi, mi maledirà. Peggio per me.

– Ciao, Michela. Lo so che mi odierai, ma è davvero importante. La sento annaspare, dall’altro capo della cornetta. – È davvero così urgente? – Assolutamente. – Mi dài cinque minuti, per farmi un caffè? Ti richiamo io. Per fortuna non si riaddormenta, anche se è evidente che una tazza di caffè non le è bastata. – Ho bisogno di te. Devi farmi una ricerca catastale, e devi farmela all’apertura del catasto, perché ho

una fretta dannata. Devi controllarmi delle proprietà, fra il 1975 e il 1980. – Va bene. Dammi i dati. – Non ho dati. Ho un nome. Devi scoprire se questa persona possedeva appartamenti, e se sì, scoprire

a chi sono attualmente intestati. E ovviamente gli indirizzi. Chiamami non appena lo scopri, e se non mi trovi lasciami un messaggio sulla segreteria telefonica.

– Ricevuto. Di che si tratta, se posso? – Meglio per te non saperlo. Quando sarà finita, te lo dirò. Ricarico la napoletana, e lascio venir su un caffè vero. Lo bevo lentamente, poi vado alla ricerca di un

cartone di latte in frigo. È scaduto. Scendo a fare colazione in latteria. Prendo un cappuccino e due paste alla crema. I giornali sportivi hanno titoloni esagerati. Do

un’occhiata, ma è solo la quarta giornata di serie A. Il calcio è una di quelle cose che hanno smesso di interessarmi, con la politica, la musica e l’insieme delle terre emerse, compresa l’incidentale e provvisoria presenza di alcuni miliardi di esseri brulicanti. Il mio mondo si compone di una mezza dozzina di anime, almeno una delle quali ha rinunciato da tempo al proprio corpo. Gli altri erano diventati altrettanto inconsistenti, negli ultimi anni. Adesso che sono di nuovo qui di fronte, la loro solidità mi mette a disagio. Non ci ero più abituato.

Risalgo, sempre più lentamente. Mi lavo la faccia con acqua molto calda, per far aprire bene i pori. Monto la schiuma da barba col pennello, in silenzio. Sfodero il mio Solingen, lo affilo sulla coramella di cuoio che ho appeso in bagno, passo e ripasso il filo della lama sul palmo della mano per ammorbidirlo. Mi rado con calma. Quando ho finito, mi getto sul volto manate di acqua fredda, mi asciugo con l’asciugamano di lino bianco, passo il dopobarba in gel sul volto, e ne aspiro l’odore di sandalo. Poi pulisco il rasoio, e lo passo sulla pietra di Candia, per mantenere il filo. Pulisco tutto, con cura.

Ho una piccola ferita superficiale che sanguina sul mento, e un’altra, un po’ più in profondità, che ha ripreso a sanguinare da poco.

Crederla rimarginata è stata un’illusione. Chiamo un taxi. Cinque minuti dopo, il taxista mi chiama al citofono. Sono pronto.

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9. Cristiano ha l’aria stanca. Se tutta questa storia potesse essere valutata in termini di insonnia,

raggiungerebbe quotazioni altissime. – Parlami del Comandante Marco. Fa un gesto vago, come per scacciare un’invisibile nuvola di fumo. – È lui, vero? – Credo proprio di sì. Però ho bisogno di sapere qualcosa su di lui. Si stringe le spalle. – Non ho molto da dirti. Era uno venuto fuori dalla galassia polverizzata dell’estrema sinistra

milanese, negli ultimi mesi di vita di Prima Linea. Come biglietto da visita aveva una guardia giurata uccisa a sangue freddo durante una rapina. Era uno che prendeva decisioni di testa sua. Come quella di scendere a Bologna, probabilmente. E anche il nome che aveva dato in giro era falso. Era uno di quei montati che pur essendo incensurati, giravano con documenti falsi anche per andare la sera in pizzeria. Quindi, quasi nessuno sa chi fosse davvero, e quelli che pensano di saperlo sono di quelli che non parlano. In un certo senso è stato il nostro demiurgo, salvo sganciarsi prima che venissero ad arrestarci. E anche su, a Milano, si attirò sospetti pesantissimi, che confermò scomparendo dalla circolazione. Nessuno lo ha più rivisto, per quel che ne so. Neanche fra i parigini.

Non ha l’aria tesa, tutt’altro. Ha un tono quasi accademico, come se parlasse della colonizzazione della Tanzania nel XIX secolo, e non della sua vita.

– Tu hai dei sospetti, Cristiano? Hai mai creduto di sapere chi fosse? – Sì. Adesso mi sembra di averlo saputo da sempre, anche se fino a ieri non mi sarebbe mai venuto in

mente. È un maledetto uovo di Colombo. E adesso credo di sapere anche il perché di tutto questo bagno di sangue che dura da quindici anni.

Quindici anni… Quindici anni fa, in una nebbiosa mattina, Cristiano aveva il braccio destro carico di volantini. Quando arrivai, me ne passò uno, senza dirmi niente. Me lo ricordo ancora, il titolo…

IL TEMPO DELLE ESITAZIONI È FINITO! NON È PIÙ TEMPO DI ROTOLARCI NELLA MERDA!

– Te lo ricordi, vero? – … Sì. Sì, credo di ricordarmelo. – Cos’era il titolo? Una frase celebre di qualche Padre Fondatore? – No, non esattamente. Sono due versi di una vecchia canzone. Li scelsi perché il verso successivo

dice: Prova, possiamo solo perdere… Fa un gesto indecifrabile con la mano, come se mi stesse mostrando qualcosa. Adesso ha cambiato

espressione.

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– Stai attento. Stai molto, molto attento. Per lui le vite degli altri valgono meno di un vestito usato, buono per una sola stagione: al cambio, se occupa troppo spazio nell’armadio, lo butta via senza scrupoli né rimpianti.

Ci lasciamo così, senza dirci altro. Non ci siamo visti per tredici anni. Adesso abbiamo tutta la vita, per ritrovarci. A partire da domani. Per oggi ho l’agenda piena.

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10. Ore 12.04 – Ciao, sono io. No, ti chiamo dal baretto sotto casa. Sì, dimmi. Due appartamenti nel ’76? E dopo?

Per procura, alla Gabetti? Attualmente? Sì, prendo nota. No. L’altro? Sicura? Passaggi successivi? Un attimo che scrivo. Mi ripeti più lentamente il nome? Grazie mille. Ti richiamo domani, per spiegarti. Sei stata eccezionale. Sì, ciao.

Come pensavo. Gian Maria Dondi aveva intestato due appartamenti anche al figlio, non appena questi aveva raggiunto la maggiore età. Dopo la sua scomparsa, li ha rivenduti. Evidentemente, non voleva più sentirlo nominare, neanche attraverso una cartella esattoriale. Uno dei due appartamenti è stato acquistato da un agente immobiliare londinese, che lo ha ceduto, in seguito, a un’altra agenzia britannica. Telefono ad Andrea.

Ore 12.08 – Andrea? Io. No, non vengo da te. Ascoltami bene, e prendi nota. Ti do il nome di un’agenzia

immobiliare, con sede a Soho, Londra. Cerca di sapere se è in qualche modo intrecciata con quella finanziaria a cui il Dondi ha lasciato in eredità un pacchetto di azioni. Hai da scrivere? Ti faccio lo spelling…

Sgancio il casco dalla Vespa, controllo il percorso sullo stradario e metto in moto, senza risalire su in casa. Quello di cui ho bisogno l’ho qui, sotto il sedile. Ingranando la quarta mi viene in mente che forse sono senza i documenti della moto. Tanto peggio. Taglio il centro, passo porta S. Felice e mi addentro in via Saffi. Supero l’ospedale. La seconda, la terza, a sinistra. Ancora un’altra svolta. Parcheggio la Vespa, sollevo il sedile, recupero la borsa e me la infilo nel tascone interno dell’impermeabile. Non ho bisogno di trovare l’appartamento: sul marciapiede c’è una Harley parcheggiata. Prendo nota del numero di targa, richiamo Andrea e gli faccio controllare il numero. Quel numero non esiste più da un anno, apparteneva a una Bmw ritirata dalla circolazione. Un vecchio trucco anche questo: o una targa non più esistente, o una non ancora in circolazione. Metto giù prima che Andrea possa chiedermi dove sono.

Ore 12.58 La targhetta sul campanello assicura un anonimo Ovidio Menarini. Nella buchetta delle lettere un

volantino pubblicitario. Salgo al terzo piano. Geom. Menarini, ribadisce la targhetta sulla porta. Suono il campanello. Nessuna risposta. Mi chino a osservare la serratura: è una di quelle apparentemente innocue, che a uno sguardo esperto minacciano rogne. Sarebbe ostica per il mio grimaldello: con le chiavi del Togliatti cede quasi subito.

Entro. L’appartamento è semi-arredato. Un salottino con due poltrone, un tavolino per il telefono, un

televisore a colori appoggiato su un mobiletto sistemato sul tappeto. Lo guardo meglio, e mi accorgo che c’è anche un videoregistratore. Per terra, appoggiati alle pareti, due oggetti incartati. Potrebbero essere quadri, dalla forma. Li scarto. Mi sono sbagliato di poco: dentro due rassicuranti cornici in pesante legno

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scuro due stampe, una riproduzione di un Casorati che ho già visto da qualche parte, e una copia di un costruttivista russo, un luminoso cuneo rosso che si infligge implacabile nella palude amorfa della reazione bianca. El Lissitsky, se non ricordo male. Non apprezzo il senso dell’umorismo. La cucina è vuota, sul lavandino un fornelletto da campeggio. La camera da letto, molto piccola, consta di un letto rifatto, un comodino, una cassettiera con su una macchina da caffè espresso-bar e un piccolo frigorifero contenente due lattine di birra e una bottiglia di vino. Sopra il frigorifero un paio di riviste e un giornale di ieri. L’armadio a una sola anta è quasi vuoto: in basso, in una scatola, cinque cassette numerate. Ho idea che siano le registrazioni fatte, via interfono, dallo studio del Dondi. Un’altra stanza è completamente vuota. Torno in sala. Scommetto che questo telefono ha fatto molte chiamate a Londra, in questi ultimi giorni. Peccato non poter chiamare Andrea per verificare.

All’improvviso una voce mi coglie di sorpresa, alle spalle. Ho ancora la mano impigliata nella tasca dell’impermeabile quando capisco che è una segreteria telefonica.

– Risponde la segreteria telefonica del geometra Menarini. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico, prego.

Sta chiamando da un altro apparecchio, per ascoltare eventuali messaggi. Non ce ne sono. Chi dovrebbe lasciare messaggi per un geometra che non esiste, e il cui numero, come verifico, non è

sull’elenco? Se ha un appuntamento dovrebbe essere qui, o chiamare lui. Chi si aspetta che lo cerchi? Il Lamanna, forse?

Accanto alla segreteria telefonica un piccolo walkman, collegato a una scatola che conosco bene. Ne ho usati spesso, di oggetti così: talvolta il mio lavoro consiste nel fare cose che di norma la polizia non fa, o quantomeno nega di fare, come invadere una vita privata con un microfono grande come un bottone di camicia. Dentro il walkman una cassetta. La mando un po’ all’indietro, schiaccio play, e mi sento dire: – … se questa persona possedeva appartamenti, e se sì scoprire a chi sono attualmente intestati. E, ovviamente, gli indirizzi. Chiamami non appena lo scopri, e se non mi trovi lasciami un messaggio sulla segreteria telefonica.

Ha messo una cimice nella mia cornetta. I veri investigatori sono bravissimi a spargere quei piccoli oggetti elettronici nelle case altrui, ma sono ancor più bravi nel pensare che nessuno potrebbe mai rifargli lo scherzo.

Mi siedo per terra, con la testa appoggiata al bracciolo della poltrona. Non è il Lamanna che sta aspettando. Aspetta una telefonata da me. Ci arrivo sempre dopo. Se il Lamanna lo ha incontrato, quel lunedì, deve avergli detto che lo stavo osservando. Forse non mi conosce di faccia, ma sa il mio nome, sa che ho un’agenzia investigativa.

– Risponde la segreteria telefonica del geometra Menarini. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico, prego.

Continua. Forse si aspetta che io faccia l’errore di alzare la cornetta, o forse è davvero convinto che possa avergli lasciato un messaggio. Al contrario di lui, io sono sull’elenco: ho il mio bel riquadro, con la lente d’ingrandimento e il cappello alla Sherlock Holmes (o alla Bob Rock, penso nei momenti di esaltazione spirituale), con i due numeri di telefono, quello d’ufficio e quello di casa. E sulla mia segreteria telefonica c’è il messaggio della Michela.

Chissà dov’è adesso. Mi viene in mente una cosa. Ridiscendo le scale, entro nel bar di fronte alla casa, chiamo la Michela. Per una volta ho fortuna. Quando mi ha cercato, si è limitata ha dirmi di richiamarla. E io l’ho

richiamata da un telefono pubblico. Ho ancora un piccolo vantaggio: per quel che ne sa, non ho ancora richiamato Michela, e non ho l’indirizzo del suo appartamento. Risalgo.

Ore 14.30 – Risponde la segreteria telefonica del geometra Menarini. Lasciate un messaggio dopo il segnale

acustico, prego.

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Continua a controllare. Chissà dov’è. Intanto mi sono sistemato per l’incontro. Ho approfittato delle sue birre, innanzitutto. Poi ho svolto il pacchetto del Togliatti, ringraziandolo mentalmente per la sua secolare saggezza. Ho chiuso la porta della camera da letto, dalla cui finestra filtrava l’unica luce che illumina la sala. Qui le tapparelle sono abbassate. Accendo il televisore, dopo aver tolto l’audio, per fare un minimo di luce. Controllo la posizione del contatore della luce. Aspetto.

Ore 16.50 È un burattinaio, convinto di essere un maestro nell’arte di tirare i fili. Tredici anni fa si è servito di

Cristiano per uccidere Varisi. Poi ha scatenato quella carneficina a Quarto Oggiaro, per bruciare chi avrebbe potuto incastrarlo. Probabilmente soldi e documenti per l’espatrio in Australia li ha forniti lui. È sicuramente un perfezionista. È per questo che è pericoloso.

– Risponde la segreteria telefonica del geometra Menarini. Lasciate un messaggio dopo il segnale acustico, prego.

Doveva avere molti soldi, durante la latitanza. E frequentare ambienti non consoni a un latitante politico, se ha potuto togliersi lo sfizio di acquistare delle tele rubate di quel livello, o magari di commissionare lui stesso il furto. Conoscendolo, è possibile che abbia addirittura avuto parte nell’impresa. È uno che si sente infallibile.

Ore 17.42 La casa è pulita, anche se evidentemente poco frequentata. È latitante, ormai sa di avere mezza

questura alle costole, però tiene pulito il pavimento, spolvera i mobili, si rifà il letto. È un correlato del suo paranoico senso di superiorità, questa ossessione dell’ordine. Persino i vetri dei quadri sono tirati a lucido.

… i vetri dei quadri… Riaccendo la luce della cucina per illuminare meglio la sala senza che filtri luce all’esterno. Perché le

stampe sono montate dentro cornici così pesanti e ingombranti? Basterebbero dei vetri a giorno, o al massimo delle cornici leggere. E queste cornici sono troppo spesse.

Smonto la riproduzione del Casorati. Fra la stampa e il compensato posteriore della cornice c’è qualcosa, minuziosamente avvolto. Scarto l’oggetto: è una tela dipinta, appoggiata su un sottile listello di legno. Non conosco né il quadro né la firma, ma non ci vuol molto a capire che è di valore.

Rimonto la stampa, e mi occupo del cuneo rosso. So già cosa troverò. Quando scarto il listello nascosto, però, nonostante la semioscurità, la sorpresa mi toglie il fiato.

Un volto di donna dalla pelle scura, allucinatamente deformato da un urlo agghiacciante, su uno sfondo cupo. La materializzazione della claustrofobia, l’insostenibile percezione di uno spazio troppo stretto, soffocante: solo, quello spazio non è una piazza, o una stanza, e neanche quella specie di cubo sghembo entro cui è inscritta la testa nera. È la testa stessa, a essere soffocante, a dare quell’idea di compressione che l’urlo cerca disperatamente di lacerare. Vederla così, a trenta centimetri di distanza, non è come vedere una cartolina: è un’esperienza tragica.

È per questa tela che Barbara è morta, povero uccello senz’ali volato giù in una sera d’estate? – Risponde la segreteria telefonica del geometra Menarini. Lasciate un messaggio dopo il segnale

acustico, prego. Il messaggio mi scuote. Non sono venuto qui per fare critica d’arte. Appoggio la tela sulla cornice,

cerco la carta per impacchettarla, ma quando la tiro a me sento uno strappo. Ci avevo messo un piede sopra. Pazienza. Incarto alla meglio il Bacon, lo sistemo nella cornice, cerco il vetro e la stampa. Li ho appoggiati sul bracciolo della poltrona. Allungo il braccio verso il vetro.

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L’ascensore sul pianerottolo si ferma rumorosamente. Siano benedetti i vecchi ascensori, con i loro sobbalzi, le porte che sbattono, l’incombente minaccia di lasciarti bloccato fra due piani e tutto il resto. Stava per prendermi di sorpresa. Corro a spegnere la luce il cucina, mentre sento la chiave che gira nella toppa.

Mi appiattisco accanto al contatore e faccio saltare il salvavita. Vedo la sua sagoma scura allungare un braccio verso l’interruttore e farlo scattare a vuoto. Una volta,

due. Resta immobile, per un attimo. Dovrei sparargli adesso, mentre è ancora nel fascio di luce che viene dalle scale, ma deve darmi delle spiegazioni. Ho la Beretta nella destra, e la sinistra sul carrello. La luce delle scale si spegne. Non c’è più.

Sento la porta chiudersi di scatto, e un rumore felpato mi dice che si è tuffato da qualche parte. Una spessa oscurità ha riconquistato la sala. Passa del tempo, secondi o minuti, non so. Intuisco una sagoma guizzare per un attimo dietro l’altra poltrona, istintivamente tiro indietro il carrello e lascio partire un colpo. Movimento unico, come mi ha insegnato il Togliatti. La teoria è più che accettabile. Quanto a prenderci, è un altro paio di maniche. Il problema è saperlo. Resto in ascolto, ma non sento alcun suono: o l’ho mancato, o l’ho fatto secco. Mi abbasso, chissà perché, e affianco la poltrona.

Qualcosa di gelido mi si appoggia sulla tempia destra. Al suo contatto, per effetto di una di quelle immotivate associazioni di idee che mi capitano nei momenti meno opportuni, mi accorgo di un raggio di luce gialla che penetra attraverso un foro nella tapparella abbassata, nell’oscurità della stanza. Una tapparella larga solo un metro e mezzo, alta poco più di due metri, e l’ho centrata al primo colpo, da quasi due metri di distanza. Potrei avere un futuro come pistolero, se queste due entità conosciute come io e futuro

(il mio futuro) non si stessero irrimediabilmente divaricando, istante dopo istante. Allargo la mano, e sento dita più sicure che mi sfilano la Beretta. Una voce beffarda mi dice,

sussurrando: – Così, da bravo. Fine dei giochi. I bambini vadano a letto. La parola passa ai grandi.

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11. Ore 18.31

Please to meet you I hope you guess my name…

(ecco come funziona il mio cervello: prima di spegnersi definitivamente, si riascolta una vecchia

canzone che a me neanche piace) – Bravo. Proprio bravo. Ti ho aspettato tutto il giorno sotto casa tua, mentre tu eri venuto a stanare il

predatore nella sua tana. Non ti facevo così ardito, cow-boy. Anche se non ha più la barba e si è rasato a zero i capelli, lo riconosco dagli occhi. Ha indosso un

giubbotto di cuoio, ed è senza scarpe. È per questo che si è mosso così silenziosamente. Vicino all’altra poltrona ci sono due stivaletti bassi, da motociclista.

– Alberto Dondi, suppongo? O dovrei chiamarti Comandante Marco? Resta sorpreso. Purtroppo non sposta di un centimetro la mano tesa verso di me, una mano dal cui

pugno parte, quasi come una protesi, una pistola puntata sul mio naso. La naturalezza con cui l’arma si integra col braccio è la cosa più impressionante: quella che ha in pugno non è una semplice pistola, è un’escrescenza prodotta dalle sue terminazioni nervose e inviata al di fuori della sua carne per seminare la morte nel mondo.

È con questa specie di macchina omicida che volevo giocare a mezzogiorno di fuoco? – Così sai anche chi sono. Sempre più bravo, il nostro Marlowe padano. E dire che all’inizio ti

credevo poco più di un contabile, un topo da fatture e bilanci d’azienda. Però è da un po’ che cominciavo a ricredermi.

– Avevi messo una pulce nel mio telefono, vero? – Proprio così. Ma lo sai che quando ti ho riconosciuto come l’investigatore descritto dal Lama, per

un attimo ho pensato di mandarti all’altro mondo assieme allo Strabico? Poi ho pensato a una cosa più divertente…

Mi sono appoggiato con le mani sulla spalliera della poltrona. Non sono certo che le gambe possano reggermi a lungo. Però ho un’idea che può ancora funzionare, se non mi ammazza prima.

(… parla, bastardo… continua a parlare…) – … Ho sbagliato, evidentemente. Mai lasciare un lavoro fatto a metà, diceva sempre il mio babbo.

Alla fine te lo ritrovi sul tavolo il giorno dopo. Povero babbo, che consigli utili! La risata sprezzante con cui chiude la sua affermazione vale più di una confessione. Si odiavano, si

sono sempre odiati. E a un certo punto sono diventati l’uno indispensabile all’altro. Suo padre gli ha coperto una latitanza d’oro, ricattato dal patto infame con cui aveva rimosso gli scrupoli morali del Varisi dalla strada che lo avrebbe portato alla testa della FederFin. E lui deve avergliela fatta pesare ogni giorno, quella dimostrazione di filiale devozione alle ambizioni paterne. Finché…

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– Spiegami il ruolo dello Strabico. Credevo foste amici, voi due. Ride. Di un riso silenzioso, quasi immobile. – Diciamo piuttosto soci d’affari, per alcuni anni. Abbiamo commerciato in armi e in qualcos’altro.

Ci eravamo persi di vista, finché un giorno, non so dove, lo Strabico mi ha riconosciuto nonostante la plastica facciale. Ma lo sai quanto costa, farsi rifare la faccia a Londra? Ed è riuscito a scoprire dove vivevo, e cosa facevo. Era proprio bravo in queste cose, lo Strabico. Peccato fosse anche stupido. Così, credendo di aver trovato l’Eldorado, si dev’essere chiesto: quanto posso guadagnarci, da questa notizia?

– E tuo padre ha preferito farla finita, una volta per tutte, con la vita a cui tu lo costringevi, vero? Il suo unico amico ucciso per un pugno di soldi. La famiglia Varisi, con cui era intimo da sempre, che gli sputa in faccia. Sua moglie, che qualcosa deve avere intuito, che perde progressivamente il senno. Sai, la capisco, in fondo, tua madre: chi, al posto suo, non avrebbe preferito dimenticare di avere un marito e un figlio come voi, e ritirarsi dal mondo per crearsene uno, un po’ meno sordido, in cui passare in solitudine il resto dei propri giorni?

Speravo che almeno la madre lo scuotesse un po’. Invece niente: l’unico risultato ottenuto è che ho tirato alla cieca, e ci ho preso. Sono sempre stato bravo in psicologia. Fino all’ultimo.

(… continua a parlare, da bravo… fammi tirare il fiato…) – Già, più o meno. Però quel bastardo ha seminato la sua morte di richiami per le allodole. Quelle

ridicole vendite di azioni privilegiate, al solo scopo di mettere in allerta i segugi che lo sorvegliavano. L’altrettanto ridicola idea di dare in pegno allo Strabico delle azioni, sapendo che quel somaro, se avesse dovuto convertirle in denaro, si sarebbe mosso sul mercato con la delicatezza di un rinoceronte… Pensa che è stato lui a convincere Caracciolo ad accettare il pagamento in azioni. E per fargli accettare la cosa, gli ha procurato il contatto col Lamanna. Il mio babbo, col numero del Lama sull’agenda: davvero buffo, questo mondo! E l’idea di spararsi con la mia pistola dei tempi che furono? Per non parlare della cessione delle azioni alla mia finanziaria registrata sul testamento. Se in questi anni non avessi moltiplicato le scatole cinesi attorno al mio giocattolo preferito, sarebbe stato un bello scherzetto. Bello davvero…

Chissà, forse suo padre si è tirato un colpo in testa come estremo sussulto di un rimorso che lo ha divorato per tutti questi anni, non avendo il coraggio di confessare il suo crimine. Per lui, invece, la morte del padre è stato solo un imprevisto, un granello di polvere sui suoi ingranaggi lucenti.

– È così che risolvi i tuoi problemi, vero? Scegliendo sempre la via più breve, anche se questo comporta dei morti. Come quei tre di Quarto Oggiaro…

– Ma allora sai proprio tutto, campione. Cos’erano, amici tuoi anche quelli? – No. Avevo altri amici in quel periodo. Quei tre non so neanche chi fossero. Ha la faccia sinceramente stupita. Non è un uomo. O forse sì, lo è, fino in fondo: forse sono io a essere un uomo incompleto, danneggiato da troppi

scrupoli morali. – E allora perché ti preoccupi tanto? Magari, usciti da quel bar, andavano a violentare una battona, o

ad ammazzare di botte una vecchia per un biglietto da diecimila. Magari ho fatto un favore al mondo. Magari…

Mentre parla vedo il corpo di Barbara all’obitorio, con le ossa della testa fratturate e il collo raccorciato. E sento l’urlo della testa africana che mi perfora i timpani.

Non aspetto che finisca di spiegarmi perché avrebbe fatto un favore al mondo. Prima che possa aspettarselo, scalcio il vetro che avevo appoggiato sul bracciolo della poltrona e mi

tuffo dietro la spalliera. Il movimento brusco, il rumore del vetro infranto, la pioggia di schegge lo disorientano per un istante. Sento un colpo di pistola che mi sibila di un niente sopra la testa.

Mi ha mancato.

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È là dietro, sotto la poltrona, che ho nascosto la seconda pistola, il piccolo revolver a tamburo. È così che faceva la guardia sui monti, il Togliatti: col mitra in mano, e una pistola nascosta in un cespuglio. Mentre la raccolgo rotolo su me stesso, e spunto dall’altra parte della poltrona.

Il mondo adesso si muove al rallentatore. Alberto Dondi fa un passo verso la poltrona, poi mi vede spuntare dal lato sinistro. Fa un quarto di giro su se stesso, mentre la mano sinistra, con uno stretto movimento semicircolare,

va a raggiungere la destra, sotto il calcio della pistola. Mentre le sue mani si ricongiungono, ho rialzato il busto, facendo perno sul ginocchio sinistro. Lascio

andare in avanti la mano e premo il grilletto, una sola volta. (– E se spari per primo, e non lo prendi bene? Di’, ci hai pensato?) Ci ha pensato il Togliatti, a far sì che il primo colpo fosse quello buono. Non l’ho colpito al tronco,

ma solo al braccio destro. Lo so, perché vedo il suo braccio esplodere all’altezza della spalla. Resta lì, con la sinistra che cerca infantilmente di fermare una cascata di sangue scrosciante giù dallo squarcio.

Mi guarda incredulo, mentre dalla mia pistola parte quasi da solo un secondo colpo. Lo vedo volare via e schiantarsi sul televisore muto, che esplode all’impatto. (– Quando hanno sparato a Reagan, hanno usato questi qui. Ma era roba di scarto, fatta male. Se

venivano a chiedere a me, di fargliene, glieli regalavo, e puoi star certo che del presidente restava ben poco. Questi, una volta entrati, fanno un buco grande come una mano. Come una delle mie, mica come quelle da signorina che ti sono toccate in sorte, ragazzino).

Ha una sola parola, il Togliatti: quel che promette, mantiene. Resto a guardare le scintille che volano via dal groviglio di televisore e corpo sanguinante. Poi noto

una linea di fiammelle che inizia a danzare sul tappeto. Raggiungo la porta d’ingresso, poi mi fermo. Non posso scappare così, lasciando che tutto vada in fiamme.

Corro in cucina, cerco il secchio dell’immondizia, lo riempio d’acqua, e spengo il principio d’incendio. Le due tele sono in salvo.

Telefono in questura, e chiedo di Andrea Vannini. È su una volante. Riesco a farmelo passare, perché ha lasciato il mio nome al centralinista. Gli do l’indirizzo.

Adesso sì, che è finita.

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12. Andrea è arrivato quasi subito, per fortuna. Ha osservato a lungo il corpo dilaniato e bruciacchiato sul

pavimento. Aveva un’espressione indecifrabile, come un entomologo che scruta una varietà di farfalla a lungo cercata e finalmente fissata sulla punta dell’ago.

Si è limitato al breve resoconto che gli ho fatto, senza chiedermi nulla. Poi mi ha allungato una fiaschetta piena di Bushmills. Ho bevuto una lunga sorsata, poi ho finito il racconto:

– Era Alberto Dondi. Ha annuito, in silenzio. Mi ha chiesto se sapevo nulla della tela di Bacon. Gli ho indicato la camera

da letto, dove avevo riposto le due tele. Si è soffermato su un paio di cassette con su scritto Mark Isham, e ha sibilato con indifferenza ci avrei scommesso che uno stronzo come lui ascoltava la niùeigg…

Credo di dover passare in questura, nei prossimi giorni. Probabilmente mi chiamerà lui. In questo

momento sono troppo sconvolto per ricordarmi esattamente cosa è successo nelle ultime ore. So solo che a un certo punto ho quasi vomitato, e allora Andrea mi ha lasciato andare. Ho girato per un po’ con la Vespa, senza meta. Poi ho bucato un semaforo: l’ho visto bene, il rosso, ma non ho neanche rallentato. Un camion con una sirena da allarme aereo e una foto di Samantha Fox sul cofano quasi mi sperona: per evitarlo balzo contromano sul marciapiede, la Vespa mi si impenna, e quando rimetto a terra la ruota anteriore mi ritrovo contro un ippocastano. Tutti salvi, alla fine – il camionista, Samantha Fox, la Vespa (un po’ ammaccata), l’albero e io.

Mi siedo sul marciapiede a cercare di raccogliere le idee. Poi alzo la testa: sono di fronte al bar Romagnoli. Ci ho fatto molte volte l’alba, là dentro. Entro, e ordino un caffè, un grappino e due pezzi di crescente calda, tutti insieme. Poi mi siedo al tavolo.

Le cose si stanno sfaldando dai bordi… In una foto, i tifosi del Bologna sventolano le loro bandiere. Bandiere… Flag, in inglese… Flag… No, non flag: Flagg, con due g: Randal Flagg il camminatore, L’ombra dello scorpione: ecco da dove viene quella maledetta frase. Il male è in marcia, con stivali consunti e un cappello da caw-boy. E arriva sempre. Ma cos’è che si sta sfaldando?

Ho la testa che continua a fischiarmi. La foto di Eraldo Pecci mi fissa dal muro del bar… (… perché non indossa la maglietta del Torino?) … e una voce lamentosa continua a dirmi che le cose non sono mai così semplici come dovrebbero, e

io non capisco cosa voglia da me. Mi alzo per pagare, non ascolto neanche la cifra del conto, pago con un biglietto da dieci e prendo il resto accartocciandolo nella mano. Mi chiamano indietro. Ho lasciato cadere una moneta da cinquecento, dicono.

Può darsi, non me ne sono accorto. Me la porgono. Quando l’ho in mano, comincio a fissarla, e mi sento un cretino.

Sììì, stupendo! Mi viene il vomito! È più forte di me!

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Una moneta da cinquecento. Una moneta da cinquecento, con il centro diverso dal bordo per aiutare i

ciechi.

Una moneta da cinquecento… In fondo è come un gioco, un gioco che ho ricostruito pezzo per pezzo, quasi per intero. Adesso che

tutti i pezzi sono al loro posto, finalmente capisco cosa c’è che non andava. In questo gioco io credevo di essere uno dei giocatori. Un giocatore, non una pedina. Per fortuna la Vespa si rimette in moto. Taglio la Bolognina, passo per piazza dell’Unità dove sei

partigiani preferirono morire con le armi in pugno piuttosto che arrendersi ai nazisti e una donna vive da anni all’interno di un’automobile lì parcheggiata e un terrorista ha portato a spasso il suo cane e una vecchina mi risuola le scarpe ogni autunno e il più grande partito comunista d’Occidente ha cambiato nome…

(quali strane e differenti linee si incrociano, attraverso le piazze) … e punto verso il centro. All’appartamento dello Strabico ci sono ancora i sigilli. (chi se ne frega) Cerco nella tasca dell’impermeabile il mazzo di chiavi del Togliatti, apro la porta. Accendo la luce.

Vado verso la cornice a giorno, quella con le banconote degli anni Settanta, l’agenda privata di Marcello Caracciolo detto lo Strabico, che un qualche dio minore possa avere pietà di lui.

Il biglietto da cinquecento non c’è più…

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5. Certosa

– È quanto di meglio abbiamo avuto! – Sì, davvero. È quanto di meglio…

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1.

19 settembre 1993. Mattina Sono passati cinque giorni dalla morte di Alberto Dondi. Cinque anni da quella di Barbara. Gli ultimi

giorni li ho passati in casa, da solo, in silenzio. Sono uscito solo ieri.

Se trovo quello che ha detto che il tempo è un gran dottore lo lego a un sasso stretto stretto e poi lo butto in fondo al mare…

(spengo la radio) Sono andato a Venezia a vedere una mostra di Bacon, perché quella testa africana continuava a

urlarmi nelle orecchie ogni notte. Andrea non mi ha cercato, neanche per sbrigare le formalità che debbo aver lasciato in sospeso. Ho rassicurato il Togliatti, e l’ho sentito fiero di sé e di me. Gli ripagherò le pistole. Ho chiamato la mia segretaria, e le ho detto di presentarsi in ufficio. Domani si ricomincia. Ho letto sui giornali degli ultimi tasselli del mosaico. Il Lamanna è riemerso gonfio e violaceo dalle

acque del Po. Per un qualche motivo si è sganciata una delle cinture da sub che lo zavorravano al fondo limaccioso del fiume. Un pesce gatto aveva trovato rifugio nella sua camicia: lo hanno restituito al fiume, povera bestia d’acqua dolce. Il terreno di villa Dondi, invece, ha restituito agli alacri scavatori il corpo di Angelo Romboli, cuoco con l’hobby del sadismo (la testa la stanno ancora cercando). Il botolo di Alberto Dondi è in una specie di ospizio di lusso per cani, a cui il suo padrone, non potendoselo portare dietro, lo aveva affidato. Visto che ha lautamente pagato per il prossimo anno, e considerato che il quadrupede probabilmente non ha tanto tempo davanti a sé, è stato lasciato laggiù.

Assieme alla ricevuta della casa di ricovero per cani c’era un coupon di prenotazione per un volo di sola andata Venezia-Londra. Scotland Yard sta attivamente collaborando all’individuazione di immobili e proprietà dell’ex primula rossa.

I giornali si sbizzarriscono sulle ricostruzioni, insistono su questo o quell’aspetto della vicenda, senza aver presente il quadro complessivo. La notizia del recupero della tela di Bacon è stato dato a parte, come fosse un’operazione indipendente, e ha avuto scarso rilievo (l’altra tela, un Braque minore, era invece stata regolarmente acquistata). Delle vicende connesse al Comandante Marco è stata data in pasto alla stampa solo una versione semplificata: nulla, in assenza di prove certe, è stato detto della sparatoria di Quarto Oggiaro, ad esempio. Qualche giornale per fortuna si è ricordato anche della nube tossica che Varisi e Dondi scaricarono su Cuneo, smorzando il tronfio elogio all’imprenditore tutto d’un pezzo che buona parte della carta stampata ha riservato al Varisi. I figli hanno minacciato querele. Cristiano è ritornato a San Vittore.

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Ha chiesto di anticipare il ritorno al carcere di residenza immediatamente dopo il nostro incontro. Non mi ha lasciato neanche un biglietto…

… e cosa avrei dovuto scriverti, in quel biglietto? Scuse ipocrite, spiegazioni inutili, un epigramma

celebrativo? Mi chiamano fra’ Cristoforo, ricordi? Sono la copia sbiadita, difettosa all’origine e senza certificato di garanzia, di un monaco di clausura che, al contrario dell’originale, un tempo credeva di dover far del bene al mondo, e per farlo prendeva delle scorciatoie, e ora si è rinchiuso nel suo chiostro. Quello che dovevo fare l’ho fatto, che ognuno torni a casa propria: voi nel vostro mondo, con le vostre parole, io nel mio, con il mio silenzio. Pensami ogni mattina mentre ti prepari il caffè, se vuoi, e abbi il coraggio di odiarmi, se puoi. E se non puoi, allora dimenticami, come io cerco di dimenticarmi di me nelle pagine di questo libro che consumo ogni giorno per non intossicarmi con me stesso… Ho provato a chiedere un colloquio, ma dalla direzione del carcere mi hanno fatto sapere che il

detenuto Malavasi rifiuta qualsivoglia colloquio, e non vuole essere informato dell’identità del richiedente.

Gli ho spedito per posta il dattiloscritto con la traduzione di Barbara. Forse un giorno mi manderà una lettera.

Ho commissionato a un artigiano una scatola con uno sportello di vetro, in cui riporre il libro che mi sono portato dietro da Villa Dondi. A restituirlo non ci penso nemmeno: è tutto quanto ho ricavato da queste ultime due settimane. In attesa che la scatola sia pronta me lo sono portato qui, per rileggermelo con calma.

La testa africana ha smesso di urlarmi dentro. Ora c’è silenzio nella mia testa.

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2. Anche in Certosa, questa mattina, c’è silenzio. I radi visitatori non fanno caso al zovinotto che legge, seduto per terra, un libro. Forse pensano che il

libro sia un messale. A Barbara, Montale non è mai piaciuto, non so perché. Storceva il suo nasino snob arricciandolo con

una smorfia ogni volta che provavo a leggerglielo. Mi sembra di vederla ancora, mentre leggo il mio librino e aspetto.

Lo so che non può tardare. Andrea non è mai venuto a trovare Barbara. Lui non va mai ai funerali, non porta fiori ai cimiteri, non

firma necrologi. Con la morte ha un rapporto di pura indifferenza. Quando lo vedo arrivare, so che non è per lei che è venuto. È per me. Ha aspettato cinque giorni, perché questo è il posto più adatto.

– Cosa stai leggendo? Glielo mostro, in silenzio. Fissa a lungo la copertina consunta. – Una volta ne abbiamo recuperato uno, di quelli. Ma non in quell’edizione. E valeva una fortuna. La

tua deve valere anche più, credo. Faccio segno di sì, con la testa. silenzio – Lo sai che è un reato violare i sigilli? Annuisco di nuovo – Hai qualcosa da dirmi, vero? Sì. In questo momento è la cosa più importante del mondo. E riguarda uno stupido biglietto da

cinquecento lire. – Lo sai che quel biglietto da cinquecento non c’è più, nella cornice? Adesso è lui che annuisce – Lo sai quando sono andati fuori corso, quei biglietti? Fa di nuovo segno di sì. – In quella cornice il Caracciolo aveva raccolto biglietti fuori corso degli anni Sessanta e Settanta.

Anche se li usava come agenda, era pur sempre una collezione. E quel biglietto da cinquecento era fuori posto, perché ha circolato sino agli Ottanta.

Non dice nulla. Lo sa che non sono del tutto stupido: sempre in ritardo, ma prima o poi ci arrivo. – Perché hai scritto il numero di telefono di Barbara su quel biglietto, Andrea? Perché mi hai fatto

credere che facesse parte della collezione dello Strabico? Mi guarda immobile. È così evidente, così lampante… – Perché mi avete fatto credere, tu e Cristiano, che la morte di Barbara fosse un pezzo di questa

storia? Si siede lentamente.

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– Quando arrestarono Cristiano, noi altri tre abbiamo pensato tutti la stessa cosa: che avesse tradito la nostra amicizia. Però nessuno di noi era sincero, nessuno di noi ha smesso di essergli amico. E io per primo. Così, in questi anni, non ho smesso di cercare quel bastardo che aveva usato Cristiano, che lo aveva mandato ad ammazzare per un proprio tornaconto, e lo aveva venduto. Cristiano ha fatto i conti con la propria coscienza, io ho giurato di farli col suo traditore. Ci sono voluti meno anni di quelli che immaginavo.

Lo guardo come se lo vedessi per la prima volta. – È stato quell’appunto che hai trovato, sai, ad aiutarmi. E dire che quella lettera l’avevo segnalata io,

a Barbara: fosse dipeso da me, non mi sarebbe mai venuto in mente di utilizzarla. Credo che Barbara l’avesse trovata divertente da leggere per radio, tutto qui.

Tutto qui, infatti. Non solo mi sono fatto fregare come un novellino, ma gli ho anche dato una mano. – Sapevi che Alberto Dondi era il Comandante Marco? Annuisce. Si accende una sigaretta, aspira due boccate, poi la butta via, dopo averla spenta contro il

tacco della scarpa. – Sì. O almeno, era una delle piste più probabili. In genere, quelli come lui non andavano a latitare in

Inghilterra. Così, ho provato a ipotizzare che invece che due latitanti ce ne fosse uno solo, in villeggiatura a Londra. Ho anche provato a fare qualche indagine per conto mio, ma con pochi risultati. Ogni volta che sono andato in Irlanda mi sono fermato qualche giorno a Londra. Così ho sentito delle voci sul furto dei Bacon. Di quel furto non se ne è mai saputo molto. Ma una voce diceva che la banda era composta per intero da figli di papà che si erano divertiti a provare l’ebbrezza di essere degli Arsenio Lupin. E che erano ricercati, più che da Scotland Yard, dai professionisti del mestiere, ai quali non piace farsi pestare i piedi in casa propria. Guarda caso, uno di loro venne fermato in seguito a una soffiata proveniente dalla malavita londinese. Così il signorino capì l’antifona e cambiò aria, inscenando la storia della sua conversione orientale. Alla sceneggiata del viaggio mistico io non ho mai creduto, tantomeno a quella foto proveniente dal Tibet, o da dove diavolo proveniva.

– È per questo che lasciasti andare lo Strabico nell’88? – Già. Cristiano mi aveva detto che aveva avuto contatti sia con lui, sia col Comandante Marco, e così

provai a vedere se mi portava dalle parti del giovane Dondi. Inutilmente. Sembra tutto così semplice, adesso. Persino tutti quei morti sembrano così lontani. – Ti ricordi, quando ti dissi che era come se qualcuno ci avesse inviato un messaggio che non

riuscivamo a decifrare? Be’, il messaggio era il suicidio di Gian Maria Dondi. Usando quella pistola aveva apposto una specie di firma in calce a una confessione. E aveva lanciato un segnale. Se solo lo avesse fatto in modo meno contorto, o gli fosse venuto il ghiribizzo di confessare per davvero… Vai a capire come gli funzionava la testa, a quel disgraziato. Ha fatto ammazzare il suo socio di una vita da suo figlio, e questi gli ha scaricato una strage sulla coscienza.

Mi viene in mente quel giorno, all’indomani del sopralluogo in Villa Dondi, in cui Andrea è stato via. – Quel giorno che sei stato via dopo la morte dello Strabico, eri a Milano, vero? Da Cristiano. – In questi anni, ci siamo visti alcune volte, io e Cristiano. (c’è un filo di gelosia che mi prende dentro. Del resto, è persino ovvio: io mi rodevo dentro, in

solitudine, mentre loro riscoprivano l’amicizia virile. Sono loro i patiti di John Wayne…) – … Ogni volta che un filo sembrava spuntar fuori dalla matassa, e lasciava uno spiraglio d’indagine.

Lo abbiamo fatto anche questa volta. Resta in silenzio. Fissa il volto di Barbara sulla lapide. – Non mi hai ancora risposto, Andrea. Muove la testa. Si passa una mano fra i capelli, e tira indietro un ciuffo che subito gli ricade sulla

fronte.

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– Perché era una cosa che non potevo fare di persona. La mia amicizia con Cristiano, prima o poi, sarebbe stata tirata in ballo. Poi non ero sicuro di esserne capace, nonostante tutto. Così ho pensato a te, a quella volta che spaccasti il naso allo Strabico, allo sguardo che avevi quando arrivai in sezione, e all’espressione che ancora mantenevi quando mi raccontasti cosa avevi fatto. Mi spiace aver dovuto ricorrere a Barbara.

È tutto qui? Mi ha usato come un’arma, e mi chiede scusa per aver tirato il grilletto? – Ti spiace? Non c’è altro? Per avermi fatto eseguire una sentenza di morte che non spettava a te

emettere, né a me eseguire? È di questo che ti dispiace? Per avermi usato per chiudere una storia vecchia e sepolta, di cui quasi nessuno si ricordava più?

Siede sui talloni e si lascia dondolare dal leggero venticello che ha iniziato a soffiare. – Se non ricordo male, in quel tuo libro c’è una poesia che parla di tre uomini coperti di ritagli di

giornali. Cercala… – Infatti… –

e lo suonano tre uomini paradossali vestiti di ritagli di giornali, con istrumenti mai veduti

– Siamo noi – io, te e Cristiano, – siamo fatti così. Tutte quelle storie che crediamo di aver

dimenticato sono qui, su di noi. Sono la nostra pelle, ce le portiamo addosso tra i vestiti e le ossa, le abbiamo già indosso quando ci svegliamo, e quando andiamo a letto sono ancora su di noi. Senza di loro ci ritroveremmo seduti sulle panchine come scarti della vita, a rievocare una pizza dal Lurido, una corsa in autostrada o una spaghettata con troppo peperoncino, a domandarci se è quanto di meglio abbiamo avuto dalla vita. Quelle storie sono quanto di più importante abbiamo. Non siamo noi, più quelle vecchie storie, capisci? Noi siamo quelle vecchie storie, e quelle storie sono noi. E lo sappiamo tutti e tre.

Capisco cosa vuol dire. Però non è facile accettare l’idea che cose così importanti siano tanto lontane nel tempo.

– Mi hai fatto uccidere un uomo, Andrea. Hai deciso a mente lucida di compiere un omicidio, e hai usato uno dei tuoi migliori amici per farlo. In cosa sei diverso, tu, da Cristiano, o da Alberto Dondi?

Stringe gli occhi. Sta per farmi male. – Da Cristiano, in nulla. E tu sei come me. L’unica differenza, fra me e te, è che io lo sapevo già. Tu

ci sei arrivato ora. Ha ragione, come sempre. Non ho agito costretto da lui o da altri: mi sono procurato delle armi, ho

dovuto superare la diffidenza del Togliatti, mi sono esercitato in una stalla per due ore, in piena notte, alla luce di un lume a petrolio, sono entrato nella casa di Alberto Dondi, ho sistemato la piccola rivoltella sotto la poltrona, e ho caricato la Beretta.

E tutto questo l’ho fatto da solo. E non ho il minimo rimorso. L’unica cosa che mi fa male, è di essere stato usato dai miei due migliori amici. Credevo che avesse

ucciso Barbara, e non era vero: ma quanti di quelli che Alberto Dondi ha ucciso avevano un ruolo nella vita di altre persone che non conosco, un ruolo magari importante come quello che in questi anni ho costruito attorno al ricordo di Barbara? Quanti, apprendendo la notizia della sua morte, mi hanno silenziosamente ringraziato sollevando un bicchiere di vino all’altezza degli occhi arrossati dalla rabbia o dal pianto?

Dovrei star male, credo. Non sono nato per essere un Angelo Vendicatore, non ho mai desiderato impugnare la spada fiammeggiante. Invece mi sento stranamente leggero. L’autunno si avvicina, cominciano a cadere le prime foglie secche, gli ippocastani disseminano il suolo di castagne gonfie di acqua.

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Della vita di Alberto Dondi mi importa meno di una di queste castagne che scalcio per il gusto di vederle rotolare.

Alberto Dondi è l’uomo che ho ucciso cinque giorni fa. Cosa sono diventato?

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3. Ci avviamo verso l’uscita, calpestando un mare di foglie gialle. – … e lo suonano tre gnomi fenomenali… – mormoro. – Cosa? – Tre gnomi fenomenali. Qualcuno, a matita, ha scritto questo verso accanto a quello originale, con

un punto interrogativo sopra. Suona bene, no? – Sì… sì, anche se preferisco l’originale. – Secondo te, cosa può essere veramente successo a Barbara? Spegne la sigaretta, si guarda intorno. – Ti faccio vedere qualcosa. Anzi, qualcuno. Punta verso una piccola lapide. – Te lo ricordi il nostro vecchio vicino di casa, l’attore? Era un uomo

buono, amava la vita. Ricordi quando andammo a sentirlo recitare L’histoire du cheval? E quando vennero a dirci: non ce l’ha fatta? E quando ci arrivò per posta l’ultimo suo messaggio? Eccolo qui sotto. Vuoi sapere cosa gli è successo? Posso farti parlare con un paio di bravissimi medici legali, che ti spiegheranno tutto delle sue cellule e del suo sistema linfatico impazzito che lo ha divorato in un batter di ciglia. E quando avrai saputo, cellula per cellula, cosa gli è successo, potrai dire di sapere davvero cosa gli è accaduto? Mi passerai a trovare, per spiegarmi perché? Forse il buon Dio quel giorno era troppo occupato a nutrire i passerotti e a vestire i gigli di campo, per accorgersi di un uomo buono che moriva?

(… o forse i gigli hanno splendide vesti, e i passerotti non muoiono di fame, solo perché qualcuno,

lassù in alto, è troppo impegnato con noi per occuparsi di loro?) Si stringe le spalle e scuote la testa. – Vieni in macchina con me. Devo darti una cosa. Sul sedile della macchina c’è una busta di plastica rettangolare. Mi porge il disco che c’è dentro e mi

indica, sul retro, il testo dell’ultima canzone. Non ci capisco molto. – Il mio inglese è sempre stato pessimo, lo sai… Chiude gli occhi come leggesse qualcosa scritto sotto le palpebre, e recita, lentamente:

Bring tea for the tillerman, Steak for the sun, Wine for the woman who made the rain come. Seaguls sing your hearts away, ’cause while sinners sin the children play, Oh lord how they play and play, For that happy day for that happy day.

(and I know that I have to go away, I know I have to go…)

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Guardo il disco, poi Andrea, poi ancora il disco. Sulla copertina c’è disegnato un simpatico vecchino con la barba rossa Sta bevendo una tazza di tè sotto una quercia, mentre due bambini giocano ad arrampicarsi sui rami C’è un bel sole luminoso dietro di loro… sembrano tutti molto felici

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Indice Tre uomini paradossali p. 5 0. Nebbie 13 1. Notturno 23 2. Esterno 73 3. Interno 125 4. Chiostro 181 5. Certosa

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L’autore e l’editore devolvono lo 0,5% dei proventi derivanti dalla vendita di questo libro a Emergency.

Questo libro è stato stampato su carta ecosostenibile CyclusOffset, prodotta dalla cartiera danese Dalum Papir A/S con fibre riciclate e sbiancate senza uso di cloro.

Per maggiori informazioni: www.greenpeace.it/scrittori

Si consente la riproduzione parziale o totale dell’opera e la sua diffusione per via telematica, purché non a scopi commerciali

e a condizione che questa dicitura sia riprodotta

© 2004 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino www.einaudi.it

isbn 88-06-16750-2