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PAOLO SPINICCI: SIMILE ALLE OMBRE E AL SOGNO. LA FILOSOFIA DELL’IMMAGINE PREMESSA Titolo che ricorda un passo bello e noto dell’Odissea. Argomento del libro: cercare di indicare dove corra il confine che separa ciò che nel nostro rapporto con le raffigurazioni dipende dall’immaginazione e dalla narrazione e ciò che invece si fonda sulla dimensione puramente percettiva delle immagini, sul semplice vedere ciò che mostrano. S. ritiene che si sia soliti attribuire all’immaginazione un insieme di compiti che non le spettano e che la dimensione immaginativa sia chiamata in causa non dal concetto di raffigurazione in quanto tale ma solo dall’uso delle raffigurazioni che facciamo quando ci dichiariamo disponibili al gioco che ci propongono. Vi è un fondamento puramente percettivo nelle immagini e una delle tesi di questo libro sostiene che da un punto di vista descrittivo si possa parlare di una raffigurazione ogni qualvolta che una superficie qualitativamente non omogenea ci consente, o ci costringe, a vedere una scena particolare. Il punto di vista che guida il libro è quello del filosofo, il quale si confronta con domande e problemi che appartengono a discipline diverse, mantenendo ferma l’esigenza di tenere ben saldo il fine che ci si propone, ossia quello dell’analisi concettuale. I. UN FILO CONDUTTORE 1. Un quadro, una lettera, uno specchio Analisi di un quadro di Gabriel Metsu (fig.1). Confronto fra tre forme di rappresentazione presenti nel quadro: una lettera, un quadro e uno specchio. Vi è innanzitutto una lettera, e cioè una rappresentazione linguistica, che parola dopo parola racconta gli eventi su cui chi l’ha scritta intende richiamare la nostra attenzione. Per intenderla non basta guardarla o tenerla fra le mani, è necessario saper leggere. Diversamente stanno le cose per il quadro che si staglia sulla parete: qui per intendere è sufficiente scostare il drappo che nasconde il dipinto alla vista. 1

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PAOLO SPINICCI: SIMILE ALLE OMBRE E AL SOGNO. LA FILOSOFIA DELLIMMAGINE

PREMESSATitolo che ricorda un passo bello e noto dellOdissea. Argomento del libro: cercare di indicare dove corra il confine che separa ci che nel nostro rapporto con le raffigurazioni dipende dallimmaginazione e dalla narrazione e ci che invece si fonda sulla dimensione puramente percettiva delle immagini, sul semplice vedere ci che mostrano. S. ritiene che si sia soliti attribuire allimmaginazione un insieme di compiti che non le spettano e che la dimensione immaginativa sia chiamata in causa non dal concetto di raffigurazione in quanto tale ma solo dalluso delle raffigurazioni che facciamo quando ci dichiariamo disponibili al gioco che ci propongono. Vi un fondamento puramente percettivo nelle immagini e una delle tesi di questo libro sostiene che da un punto di vista descrittivo si possa parlare di una raffigurazione ogni qualvolta che una superficie qualitativamente non omogenea ci consente, o ci costringe, a vedere una scena particolare. Il punto di vista che guida il libro quello del filosofo, il quale si confronta con domande e problemi che appartengono a discipline diverse, mantenendo ferma lesigenza di tenere ben saldo il fine che ci si propone, ossia quello dellanalisi concettuale.

I. UN FILO CONDUTTORE1. Un quadro, una lettera, uno specchioAnalisi di un quadro di Gabriel Metsu (fig.1). Confronto fra tre forme di rappresentazione presenti nel quadro: una lettera, un quadro e uno specchio. Vi innanzitutto una lettera, e cio una rappresentazione linguistica, che parola dopo parola racconta gli eventi su cui chi lha scritta intende richiamare la nostra attenzione. Per intenderla non basta guardarla o tenerla fra le mani, necessario saper leggere. Diversamente stanno le cose per il quadro che si staglia sulla parete: qui per intendere sufficiente scostare il drappo che nasconde il dipinto alla vista. Limmagine si mostra immediatamente allo sguardo, non vi bisogno di compitare i segni di un sistema di convenzioni. Lo specchio, in senso proprio, non dice nulla, poich non vi in questo caso la volont di mostrare; limmagine si fonda su una propagazione della luce secondo le leggi dellottica: per questo lo specchio raffigura ci che c, non ci che si crede che vi sia. Ci chiediamo se un quadro sia cos diverso da una lettera. Rispondiamo di si, perch i segni linguistici sono convenzionali, mentre una raffigurazione non lo , poich somiglia a ci che raffigura. Tuttavia la parola somiglianza pone nuovi problemi, perch un concetto vago e non chiaro in che senso un disegno somigli a ci che raffigura. Forse vediamo un dipinto solo perch sappiamo leggere la promessa di una cornice e perch abbiamo imparato a comprendere lo stile in cui limmagine scritta? Ci equivale a dire che la riconoscibilit dellimmagine passa per un addestramento che rammenta da vicino gli insegnamenti di cui abbiamo bisogno per leggere (teorie dei filosofi convenzionalisti). Sorgono per dubbi di matrice realistico-naturalistica: un ritratto non un specchio, ma deve cm rispecchiare in qualche modo la configurazione luminosa che rende avvertibile un viso; in mancanza di questo sulla tela si vedrebbero solo pigmenti, non un viso dipinto. Ma se le cose stanno cos forse fra quadri e specchi non vi molta differenza.

2. Limmagine e lo specchio: la somiglianzaCi troviamo dunque di fronte ad una domanda che possiamo formulare in questi termini: intendere le immagini significa lasciarsi guidare dal modello della massima somiglianza e della naturalit del rapporto che lega la raffigurazione al suo oggetto (paradigma dello specchio) o dobbiamo invece dimenticarci della somiglianza e sostenere che le raffigurazioni sono mere convenzioni (paradigma della lettera)? Riflettendo per sullopposizione fra specchio e lettera potremmo accorgerci che c qualcosa che li accumuna e che ci invita a pensare alle raffigurazioni come a segni che rimandano ad altro; ma questa affermazione viene ritenuta falsa, poich non possiamo pensare che le raffigurazioni si comprendano nella loro natura solo se rimandano ad altro. La tesi sostenuta da S. che ci che caratterizza in profondit la natura delle immagini la loro figurativit: le immagini sono oggetti che hanno una loro datit percettiva, poich noi non vediamo solo la superficie variamente colorata che ci sta davanti, ma anche una scena che ha la consistenza eterea di ci che solo raffigurato. Ci non significa affatto negare che le immagini possono servirci in molti modi per rapportarci alle cose del mondo. Sembra per esservi un consenso quasi unanime sulla tesi opposta a quella sostenuta da S., ossia che le immagini sono innanzitutto caratterizzate dalla loro natura denotativa, dal loro essere segni o forme che rimandano ad altro. Piuttosto che tentare di decidere quale debba essere la natura degli oggetti raffigurati. Spinicci vuole sostenere che si fraintende la grammatica del concetto di raffigurazione quando si cerca di descrivere le immagini come se non fossero caratterizzate innanzitutto dalla loro figurativit, ma dal loro rimandare al altro. Ci chiediamo innanzitutto cosa voglia dire lasciarsi guidare dal paradigma degli specchi. Un punto sembra chiaro, ossia che specchi e fotografie mettono in luce il nesso di somiglianza che lega le immagini a ci che in esse si raffigura. Una connessione vi , ma se si vuole ancorare la raffigurazione alla somiglianza si deve dire qualcosa di pi, si deve cio mostrare che il concetto di raffigurazione dipende nella sua applicabilit e nei suoi confini dal concetto di somiglianza. Ci sembra per che le cose non stiano realmente cos. Ci balza subito agli occhi la constatazione che la somiglianza ha diversi gradi, per cui ci sembrerebbe logico dire che lo spazio logico del concetto di raffigurazione ha un centro di gravitazione che coincide con la massima somiglianza. Esempio del disegno infantile. Ci rendiamo cos conto che possiamo intendere due cose distinte quando parliamo di somiglianza nel caso delle raffigurazioni: possiamo sostenere che se ci che vediamo in un quadro ci parla anche di un oggetto del mondo reale ci accade perch simile ad esso, ma vi una seconda possibilit: si pu sostenere che la possibilit di unimmagine di mostrarci qualcosa dipenda dalla nostra capacit di leggere i tratti che la compongono. Possiamo dunque sostenere che la condizione necessaria e sufficiente per recepire unimmagine di A su una superficie S cogliere S nel suo essere simile ad A rispetto a qualche sua caratteristica percepibile. A restituire a questa posizione teorica peso e plausibilit hanno contribuito Peacocke e Hopkins. P.30 La figurativit delle immagini deve essere ridotta al fondamento su cui si ritiene poggi il nesso di denotazione, ossia sulla somiglianza. Quando siamo di fronte ad un immagine la percezione si anima di uninterna dualit e da un lato vediamo una superficie variamente colorata, dallaltro a questa esperienza si connette quella di unesperienza visuale che frutto di un addestramento visivo. La tesi di Hopkins che le parole significano, le immagini invece raffigurano: le une intendono gli oggetti a cui si riferiscono, le altre li mostrano e sembrano permetterci unesperienza assimilabile alla percezione. Si pu sostenere che ci su cui si fonda il nostro vedere unimmagine non la percezione ingannevole di unidentit, ma lafferramento legittimo di una somiglianza. Per cogliere una rappresentazione sufficiente cogliere la somiglianza che lega la superficie dellimmagine alloggetto che denota. La tesi di Hopkins sembra plausibile, ma in realt non percorribile. Innanzitutto perch cogliere una raffigurazione non significa essere consapevoli di una somiglianza: se si parla di somiglianza non perch abbia avuto luogo un riconoscimento. Ci che asseriamo quando diciamo di un volto dipinto che simile a un volto reale non lesito di un confronto, ma solo la constatazione di una caratteristica che appartiene alle immagini in quanto tali, ossia il loro presentarci oggetti che esistono in quella forma soltanto fenomenica che propria delle cose raffigurate. Vi una seconda ipotesi che dobbiamo discutere: la possibilit che cogliere in una superficie fatta in un certo modo il volto di un vecchio potrebbe egualmente implicare una relazione di somiglianza che in questo caso si porrebbe come il dinamismo latente che orienta la nostra percezione, determinandola in una direzione o nellaltra. Questa tesi dei due volti della somiglianza racchiude due difficolt su cui riflettere. La prima sorge dal fatto che la somiglianza propone unanalisi della nostra esperienza che sembra rifiutarsi di abbandonare il terreno immanente delle relazioni tra idee, ma di fatto attribuisce ai legami associativi il compito di spiegare la genesi dei contenuti dellesperienza al di la di ci che appartiene al loro contenuto stesso. Notare una somiglianza non basta per determinare un assetto figurativo. Vi anche una seconda difficolt, ossia la tesi che la somiglianza ci permetta di vedere aspetti di una scena percettiva che sono presenti ma che non avevamo notato. Non ha alcun senso sostenere che in virt di una relazione di somiglianza sia possibile vedere ci che altrimenti non avremmo potuto recepire, perch la somiglianza una relazione che presuppone un contenuto esperito, non una condizione della sua percettibilit. Hopkins crede invece che la somiglianza sia una condizione necessaria per poter cogliere la figurativit di unimmagine e che per interpretare la denotazione pittorica di una raffigurazione sia necessario sapere quale aspetto fenomenico abbia loggetto raffigurato. Questa tesi vera se la leggiamo come un tentativo di riconoscere in un disegno qualche oggetto del mondo, ma falsa se riteniamo che sia necessario aver gi avuto esperienza di oggetti qualsiasi per poter vedere una data superficie animarsi di un senso figurativo. Per riconoscere in un quadro un volto in quanto tale devo aver visto gi altri volti, ma per vedere che la superficie della tela ci mostra qualcosa che ha questa forma e questo particolare volume non c bisogno di fare affidamento allesperienza passata: sufficiente che la tela sia colorata in un certo modo e che gli occhi siano bene aperti. Sembra essere disponibile unulteriore ipotesi di lettura, che ci consente di sostenere che la somiglianza che ci permette di vedere unimmagine sia una relazione che non chiama in causa loggetto nella sua pienezza di senso, ma solo quel tanto che delloggetto identico al disegno. Esperimento albertiano del velo che sembra sancire una somiglianza. Se deve sussistere una somiglianza, deve esserci qualcosa che la sorregga, e non vi un candidato migliore del contorno. Di qui la tesi secondo la quale perch unimmagine possa raffigurare qualcosa necessario che sussista una relazione prospettica, seppur vaga, che restituisca sulla tela il contorno visibile delle cose, la loro immagine appunto. una tesi plausibile, che rammenta ci che Gibson aveva sostenuto in uno scritto degli anni sessanta: ossia che si pu venire a capo della natura delle immagini muovendo dai principi generali dellecologia della percezione. Le immagini devono essere intese come superfici peculiari in grado di restituire una configurazione dei raggi di luce simile, se non identica, a quella che il nostro sguardo potrebbe cogliere se si volgesse verso la scena reale che nel quadro ha una replica figurativa. Gibson si chiede quali siano le condizioni cui una superficie deve ottemperare perch possa darsi come raffigurazione. Gibson ritiene di dover rispondere chiamando in causa la dimensione prospettica, che consente di modificare la tela in forma tale da consentire allo sguardo di cogliere le informazioni necessarie per vedere raffigurato un oggetto. Diversa la domanda cui Hopkins risponde, poich egli non intende circoscrivere le condizioni che devono essere soddisfatte perch su una superficie si possa percepire unimmagine, ma cerca di indicare quale sia la forma che accumuna gli oggetti rappresentati alla superficie in cui li si coglie. Che cosi stiano le cose non detto e vi sono anzi molte evidenze che spingono verso la conclusione opposta. sufficiente porsi due domande: la somiglianza fra il contorno prospettico e il profilo che traccio sul foglio una condizione sufficiente per specificare la visione di un oggetto raffigurato? No. E allora cosa fa si che si veda raffigurarsi una scena piuttosto che unaltra? La seconda domanda se si pu davvero sostenere che ogni immagine abbia ben chiaro un contorno e che questo contorno sia un contorno prospettico? Anche a questa domanda necessario dare una risposta negativa. La tesi che S. sostiene che anche se le raffigurazioni non sono il frutto di una somiglianza, esse ci insegnano tuttavia a scorgere somiglianze anche dove non ne avevamo colte.

3. Limmagine e lo specchio: la causalitLe critiche che abbiamo rivolto alla teoria della somiglianza non sono sufficienti per prendere commiato dalla tesi secondo la quale la denotazione il nocciolo della raffigurazione e anzi il paradigma dello specchio sembra per altra via costringerci ad affermare che vi almeno un genere di immagini che non pu essere compreso solo se non ci si ferma alla loro dimensione figurativa ma si risale alloggetto che le ha causate. Vi un genere di immagini, cui appartengono la fotografia e i riflessi speculari, che rimanda necessariamente ad altro perch dipende causalmente da ci che raffigura. S. crede che le riflessioni sulla causalit della fotografia siano in parte vere ma non possibile derivarne la tesi che appena stata enunciata. In primo luogo osserviamo che il nesso causale non fa parte della dimensione fenomenologica delle immagini fotografiche. Le fotografie hanno la grana della realt, ma basta impoverirne la grana e renderle povere nei dettagli perch limpressione della realt venga meno. Le fotografie non sono vincolate alla loro dimensione fenomenologica ed vero che di norma le usiamo facendo implicitamente riferimento al loro essere eco visibile di una realt, ma riconoscere che cosi stanno le cose non significa avere compreso in che modo lorigine causale della fotografia operi nella determinazione del suo referente. Non infatti chiaro se di quel nesso causale parliamo come delloggetto di un sapere che consente un uso particolare di un tipo di immagine o come di una relazione reale che determina di per se stessa il referente dellimmagine fotografica. Di qui due domande: dobbiamo chiederci se da un lato le fotografie in quanto immagini rimandano sempre e necessariamente a un qualche oggetto ad esse esterno che ne sia la causa e dallaltro se la condizione necessaria e sufficiente dellapplicazione dellimmagine alla realt coincide con il processo causale che determina sul piano reale lorigine di ogni fotografia. Poniamoci la prima domanda e chiediamoci innanzitutto se per ogni fotografia vi un oggetto cui limmagine si riferisce e che esiste al di l della figurativit dellimmagine in quanto tale, ossia del suo contenuto rappresentativo. S. crede di no, poich non sempre le fotografie ci sospingono alloggetto reale che raffigurano. La conclusione che vogliamo trarre che non vero che ogni immagine fotografica alluda ad un oggetto reale e ve ne sono molte che non ci spingono ad abbandonare il terreno della figurativit della raffigurazione, anche se tutte ovviamente hanno una causa reale. Di ci che accaduto quando limmagine stata scattata possiamo in molti casi disinteressarci. Di che cosa un immagine parli pu deciderlo solo luso che ne facciamo, questo valido anche per le fotografie. Si pu trarre una prima conclusione parziale: la causa reale delle fotografie non coincide con loggetto che esse raffigurano e dunque il processo reale di causazione non ci che determina il nostro riferire una fotografia a un oggetto determinato. Le fotografie non sono determinate da ci che intendeva o da ci che credeva chi le ha scattate, ma ripropongono grosso modo la stessa scena che avrei visto se mi fossi trovato nello stesso luogo in cui si trovava lobbiettivo della macchina fotografica. Con qualche necessaria cautela si pu dire che le fotografie registrano fedelmente la realt e basta saperlo per poterle usare anche cos, come testimonianze. Una macchina fotografica anche uno strumento di rilevazione, utilizzato per misurare la misura dellassetto ottico in un istante di tempo per un punto nello spazio. Osserveremo in primo luogo che le fotografie sono immagini che ci parlano del mondo e che in questo loro rimando denotativo sono senzaltro sorrette da ci che sappiamo relativamente alla loro genesi: le fotografie non sono solo rappresentazioni, ma di norma sono anche tracce di un evento accaduto. Ci non significa tuttavia sostenere n che ogni fotografia debba necessariamente rimandare ad un oggetto che stia al di la di ci che in essa si mostra, n che a determinare il nesso denotativo sia il sussistere di una relazione causale. Un punto rimane ben fermo: la causa reale di una fotografia un fatto complesso e non coincide con ci di cui limmagine ci parla.

Annotazione. Al di l dello specchio: la trasparenza delle immagini fotograficheBarthes nel la camera chiara ci invita a pensare alla fotografia come ad unarcana realt che distoglie lo sguardo da s e diviene per questo invisibile. Per Barthes linvisibilit delle immagini ha un tratto inquietante: ci che di fatto caratterizza le fotografie il venir meno del loro carattere di raffigurazione e il loro porsi come uno sguardo che sembra direttamente additare un oggetto, una scena reale. Allinvisibilit delle fotografie fa eco la presenza paradossale dei loro oggetti: le fotografie mostrano ci che irrimediabilmente lontano e insieme custodiscono lincerta presenza di ci che non pi. Per giustificare questa tesi Barthes si richiama a considerazioni di stampo causali stico, ossia al fatto che le fotografie possono essere comprese solo rammentando il processo fisico-chimico da cui hanno origine e che ci riconduce dal presente dellimmagine fotografica che vediamo al passato, a ci che un tempo si trovato davanti allobbiettivo della macchina fotografica. Questo ci consente di cogliere il tratto complessivo che caratterizza limmagine fotografica: proprio perch frutto di un procedimento meccanico, limmagine fotografica non pu far altro che ripetere ci che stato. La sua capacit espressiva tutta racchiusa nel suo essere leco visibile di qualcosa che accaduto; il fotografo non crea, ma trova, la fotografia espressione di un evento che trascende almeno in parte la volont di chi ha scelto quellinquadratura. La natura meccanica dellimmagine fotografica diviene cos la cifra della sua irriducibilit alla logica dei segni e della cultura e, insieme, del suo essere eco di un evento che stato. Certo per Barthes le fotografie sono, come ogni altra immagine, messaggi che ci parlano di qualcosa secondo un particolare taglio prospettico e chi le ha scattate intendeva comunicarci qualcosa (momento dello studium), ma non sono solo segni che esprimono una volont espressiva: sono anche il luogo in cui la realt nella sua accidentale contingenza si fa avanti. Barthes parla a questo proposito di punctum. La cifra espressiva della fotografia racchiude dunque in s stessa una duplice negazione: da un lato limmagine fotografica ci vieta di intenderla soltanto come un messaggio il cui segno si dispieghi interamente nella dimensione dello studium, dallaltro ci invita a prendere commiato dalla tesi secondo la quale il fotografo sarebbe in senso proprio lartefice dellimmagine che ci mostra. Alcuni dubbi sorgono spontanei alla lettura del testo di Barthes. Prima di decidere qualcosa sullinvisibilit delle fotografie utile avere compreso che fare una fotografia non significa affatto schiacciare soltanto un pulsante e che anche quando ci si limita a farlo vi sono scelte di natura espressiva che la macchina fotografica fa per noi. Si deve riconoscere che la differenza fra le fotografie e le altre immagini non affatto ben tracciata quando si osserva che le prime hanno origine da un processo causale. Se si vuol sostenere che nelle fotografie vediamo eventi che sono un tempo accaduti occorre lasciare da parte Barthes e volgere lo sguardo ad altri autori che negli anni ottanta hanno saputo dare nuova credibilit alla tesi della trasparenza delle immagini fotografiche. Un posto particolare spetta a Walton, il quale muove dalla tesi della trasparenza e sostiene che le fotografie non sono immagini in senso proprio, poich in esse non prende forma un invito a immaginare intuitivamente qualcosa ma si vede ci che un tempo si trovato di fronte allobbiettivo. Le fotografie sono trasparenti: ci significa che la relazione che lega loggetto alla sua riproduzione fotografica non filtrata dalle credenze del fotografo; esse non aggiungono alloggetto di cui ci parlano lopacit tipica degli atteggiamenti intenzionali, il loro rapportarsi a qualcosa attraverso una qualche intentio. Sono indipendenti dal sistema delle credenze del loro autore. Le fotografie istituiscono con la realt denotata una relazione che ne implica lesistenza, ci che nelle fotografie ci parla la cosa stessa, non la sua immagine. Walton ci invita a sostenere che, se le immagini fotografiche non fanno altro che prolungare il nesso causale che ci lega alloggetto e non aggiungono una mediazione intenzionale al modo in cui ad esso ci rapportiamo, allora si pu sostenere che nel guardare unimmagine fotografica di A non facciamo altro che rapportarci percettivamente ad A. cos le fotografie sono protesi che ci consentono di vedere ancora ci che non si pu vedere pi. Walton riconosce che nel caso della percezione di un oggetto attraverso una fotografia abbiamo a che fare con una percezione mediata, ma ci non significa per lui rinunciare alla tesi della trasparenza delle immagini fotografiche. Walton ci invita ad allargare le maglie del significato del verbo vedere, per applicarle anche a ci che si vede attraverso una fotografia o uno specchio: essenziale per Walton il contatto causale che si instaura tra noi e la cosa stessa quando la vediamo. S. solleva dei dubbi che vertono sulla concezione complessiva della percezione proposta da Walton. Walton afferma che vediamo quello che c e non quello che crediamo di vedere, ma appena abbandoniamo il terreno delle constatazioni pi ovvie ci accorgiamo che ci che vediamo non una sorta di eco obbiettiva della nostra immagine retinica ma dipende nel suo significato percettivo da una serie di funzioni di contesto che si radicano nel campo egocentrico della percezione: un sistema di funzioni di contesto e di anticipazioni percettive, non di credenze nel senso proprio del termine. Cos stanno le cose per quanto riguarda la percezione diretta, ma mutano quando si vede unimmagine fotografica, poich questa non consente di cogliere quella struttura di invarianti su cui poggiano le nostre attese percettive e non dispone uno spazio che faccia centro nel nostro qui. Ci che dovrei vedere in trasparenza in unimmagine fotografica indipendente dal sistema delle mie attese percettive, ma non disgiunto dal sistema delle mie credenze. La differenza con la percezione diretta evidente. Walton invece ci invita a pensare alla percezione come se non le fosse connaturato questo suo ancoramento alla soggettivit.

4. Lettere e raffigurazioni. Le tesi di GoodmanVogliamo ora discorre del saggio di Nelson Goodman intitolato I linguaggi dellarte. Goodman sostiene il carattere essenzialmente denotativo delle immagini come primo passo per ricondurle sotto legida del linguaggio. Le immagini sono parole visibili che stanno per oggetti e non vi davvero nulla nella loro natura che ci costringa ad andare al di l dei confini circoscritti della semiotica. Per Goodman vi una radicale disparit fra la forma logica del nesso denotativo e la relazione di somiglianza che si vorrebbe capace di esprimerlo. In primo luogo Goodman osserva che la somiglianza una relazione riflessiva e simmetrica, ma ci non vale per la relazione rappresentativa. La somiglianza non dunque una condizione sufficiente della rappresentazione, e non nemmeno una condizione necessaria. Se la nozione di rappresentazione viene ricondotta alla presenza di un nesso denotativo, allora di un rimando necessario alla somiglianza non lecito parlarne (esempio della fotografia sfocata e del disegno del bambino: che cosa denotano non lo decide il nesso di somiglianza, ma la scelta di usarli per raffigurare qualcosa). Goodman ci invita a dubitare della somiglianza anche a partire dalla polemica consueta sullo sguardo innocente. Lo sguardo costruisce la realt sulla base di un sapere socialmente condiviso, ci ancora pi vero sul terreno rappresentativo: rappresentare non significa copiare la realt ma proporne uninterpretazione nuova. Del concetto di raffigurazione si deve rendere conto a partire da una riflessione generale sulla natura dei sistemi simbolici: se le immagini sono parole dipinte, allora venirne a capo vuol dire riflettere sulla natura del loro essere segni. Goodman pensa alla raffigurazione come ad un modello che riconduce a cinque punti: 1 la raffigurazione in primo luogo una relazione denotativa; 2 parlare di raffigurazione significa sostenere che la figura di cui parliamo fatta cos, ovvero descriviamo la natura di quella raffigurazione e la classifichiamo; 3 il raffigurare non si limita a descrivere la natura dellimmagine ma la denota anche ( e tuttavia per Goodman il senso denotativo e il carattere figurativo di unimmagine sono il linea di principio reciprocamente indipendenti: esprime cos la richiesta di separare ci di cui limmagine ci parla dalla determinatezza sensibile che le propria); 4la dimensione denotativa e la dimensione figurativa di unimmagine sono relative ad un sistema simbolico: la relazione che lega unimmagine al suo oggetto non dipende dunque dalla somiglianza ma dalla convenzione che regola luso dei segni pittorici; linterpretazione che proietta i simboli sulluniverso degli oggetti appartiene a un linguaggio figurativo e varia col variare del sistema di segni a cui appartiene; 5 le immagini dunque non sono segni naturali; le raffigurazioni sono sistemi simbolici densi e relativamente saturi. La distinzione fra immagini e descrizioni verbali permane per Goodman solo nel senso che diversa la struttura sintattica dei sistemi simbolici in questione, e non perch le raffigurazioni abbiano una relazione di somiglianza con ci che denotano. Goodman traccia due diversi significati del verbo raffigurare: alla raffigurazioni spetta da un lato la funzione dei nomi, dallaltro quella dei predicati, poich classificare unimmagine significa anche descrivere ci che la raffigurazione denota. Non sembra per lecito sostenere che sia possibile per una raffigurazione denotare qualcosa se non rappresentandola in qualche modo. Noi parliamo di una raffigurazione solo dove ha senso tentare di riconoscere qualcosa: un riconoscimento pu anche fallire, ma in questo caso possiamo ancora utilizzare quel disegno con luso che ci viene richiesto, anche se non per questo diremmo che il disegno raffigura loggetto in questione. Accettare questa regola significa dichiararsi disponibili a un gioco, per farlo basta volerlo e non avrebbe nessun senso se dicessimo che non ci riusciamo. Le raffigurazioni innanzitutto mostrano qualcosa: hanno una loro figurativit, che non questione di convenzioni. Possiamo inoltre avvalerci delle immagini per riferirci a cose e persone reali, applicandole alla realt e consentendoci di guardarla alla luce della loro determinatezza figurativa. Goodman distingue la raffigurazione come nesso denotativo dalla raffigurazione come funzione predicativa, ma non possibile tracciare questa distinzione con troppa disinvoltura, poich riferire unimmagine a un oggetto non vuol dire stipulare una convenzione sul significato di un segno, ma proporre un suo possibile uso sul fondamento della sua determinatezza figurativa. Quando guardo unimmagine colgo innanzitutto una sua presenza figurativa, per vederla non necessario stipulare nessuna convenzione. Inoltre secondo Goodman che cosa denoti un simbolo non lo si pu dire una volta per tutte, poich la funzione di un segno dipende dal linguaggio cui appartiene e dalle regole che lo caratterizzano. Che ci sia vero per il linguaggio verbale una tesi plausibile, ma non lo per quanto riguarda le immagini. Lapprendimento di uno stile figurativo non significa fissare nella memoria una regola che dia un senso ai segni di un sistema simbolico come avviene per lapprendimento di una lingua, ma consiste nel saper attivare quei meccanismi di riconoscimento che sono alla base dei processi percettivi e che operano nella nostra esperienza quotidiana. Di questa capacit di riconoscimento non ci si pu liberare, come fa Goodman, richiamandosi alla vecchia cantilena dellabitudine. Goodman si scaglia contro la tesi secondo la quale le raffigurazioni avrebbero il loro fondamento nella somiglianza con argomenti che in alcuni casi sono decisamente deboli. La polemica contro il concetto di somiglianza ha per Goodman la sua ragion dessere nella tesi secondo la quale la denotazione il nocciolo della rappresentazione. Goodman ha ragione quando sostiene che la somiglianza non il fondamento su cui ricondurre in nesso denotativo: per venire a capo delle difficolt in cui ci troviamo dovremo allora mostrare che le raffigurazioni non sono segni che per loro natura debbono necessariamente rimandare ad altro. Le immagini sono innanzitutto caratterizzate dalla figurativit; prima di essere mezzi che rimandano ad altro e prima di poter fungere come strumenti sono gi in s stesse qualcosa, ossia il luogo in cui si manifesta un oggetto funzionale che ha uno statuto meramente fenomenico, qualcosa che e accade solo nello spazio figurativo.

5. Figurativit e denotazione delle immaginiDobbiamo liberarci dunque dellassunto secondo il quale la denotazione il nocciolo della rappresentazione, tornando al concetto di immagine per il quale in una rappresentazione non si cerca di scorgere un segno che rimandi ad altro, ma si vuole vedere ci che vi disegnato. Latto del disegnare per prima cosa non denota un oggetto, ma lo costruisce. Nel disegno facciamo qualcosa e la cosa disegnata c nei limiti in cui disegnata. Un dipinto non un segno che stia per qualcosa daltro, ma il farsi avanti di questo qualcosa nella forma della raffigurazione. Ci discostiamo dunque dalle tesi di Goodman sostenendo che unimmagine non serve innanzitutto per denotare un oggetto, ossia per rimandare ad altro, ma ha in primo luogo una sua figurativit: unimmagine ci mostra qualcosa e a noi spetta come prima cosa guardarla. Unimmagine pu bastare a s stessa, anche se poi pu essere usata per assolvere a molte funzioni che spesso a loro volta chiamano in causa in vario modo gli oggetti del mondo. La possibilit delle immagini di assolvere a una molteplicit di funzioni passa per il loro rendere figurativamente presente e quindi percettivamente disponibile qualcosa.

6. Raffigurazioni e carte geograficheLa carte geografiche sono una figura di confine fra ci che segno e ci che raffigurazione: ci mostrano che cosa accade ad unimmagine quando diventa un mero segno che rimanda ad altro e rinuncia allindipendenza della dimensione figurativa. Se si vuole sottolineare il discrimine tra una carta geografica ed una raffigurazione pittorica (confine che non di ordine estetico o fenomenologico-intuitivo) dobbiamo osservare che solo la prima, ma non la seconda, rimanda necessariamente ad un oggetto. In una carta geografica ci che attribuisce un significato ai tratti che la compongono non il farsi avanti di un riconoscimento percettivo, ma la presenza di una regola di proiezione che ci dice come limmagine possa toccare la realt per descriverla. Una carta geografica pu essere pi o meno caratterizzata da dettagli figurativi, ma la differenza di carattere strutturale permane. Il senso di una mappa insito nella regola convenzionale che ci consente di connetterla al mondo, ne segue che in una mappa la figurativit perde la sua necessaria ragion dessere. Nel caso di un quadro invece una raffigurazione basta a s stessa e non vi nessun bisogno di applicare limmagine alla realt. 7. I giochi linguistici con le immagini e la somiglianzaDalle riflessioni che abbiamo sopra proposto emersa una tesi: che le immagini sono oggetti che si danno allo sguardo e che possono essere usate per parlarci del mondo nei modi e nelle forme che consente la loro figurativit. Su questo punto tuttavia dobbiamo ancora riflettere, chiedendoci che cosa consenta a unimmagine di riferirsi in un determinato modo a qualcosa nel mondo. Non vi dubbio che la volont del pittore e della comunit di spettatori giochi un ruolo importante, ma n luna n laltra sono sufficienti per dare alla raffigurazione un referente: anche necessario che si possa usare cos quel disegno. La somiglianza solo una condizione necessaria, ma non sufficiente del gioco linguistico che consente di applicare al mondo unimmagine: non basta perch le immagini si usano, il riferimento dellimmagine al mondo si determina esclusivamente nelluso e non gi inscritto nella somiglianza, che ne solo condizione di possibilit.

2. IL CONCETTO DI RAFFIGURAZIONEOgni raffigurazione mette in gioco una duplicit di valori spaziali che danno alla percezione una forma caratteristica: vediamo uno spazio dipinto con una sua apparente profondit e vediamo una superficie che sui cui si stende la tela dipinta. Queste due percezioni si tollerano lun laltra e si dispongono in un gioco di relazioni reciproche che ne determina il senso. Come psicologi dobbiamo venire a capo di questa dualit di piani e ci significa in primo luogo ancorarla ad una strutturazione degli stimoli che sia in grado di generarla. Vi sono indici monoculari e binoculari della profondit, indici che solitamente cooperano nel determinare la percezione della spazialit. Nel caso della percezione dellimmagine tuttavia queste due differenti fonti di stimolo si divaricano e gli indici danno due risposte diverse. Alla conflittualit degli indici percettivi della spazialit tuttavia non fa eco unanaloga conflittualit percettiva: il fenomeno della profondit e il fenomeno della superficie coesistono nella percezione di immagini, che trae qui la sua caratteristica dualit. Di qui linteresse che le immagini rivestono per lo psicologo, ossia la tendenza del nostro apparato percettivo a comporre in una rappresentazione congiunta situazioni conflittuali di stimolo. Come fenomenologi possiamo tuttavia fermarci prima di questi problemi complessi e cogliere la conferma di una considerazione su cui dovremo in seguito ritornare: la condizione necessaria e sufficiente della presenza di unimmagine limporsi sul terreno percettivo di una dualit fenomenologica: vediamo la superficie ma la vediamo anche come il luogo che ospita una profondit apparente, e quindi uno spazio figurativo distinto dalla tela.

2. Il luogo di un riconoscimentoSiamo giunti ad una prima definizione di immagini: le immagini sono il luogo di una profondit apparente. una definizione legittima, e tuttavia di immagini solitamente parliamo quando vi qualcosa di pi di una mera parvenza di profondit: ossia quando vediamo qualcosa che conosciamo. Che cosa sia dato alla vista lo si pu decidere solo disponendosi sul terreno descrittivo: per vedere raffigurato un oggetto non c nessun bisogno di conoscerne laspetto reale, anche se naturalmente dobbiamo sapere come sia fatto tale oggetto per poterlo chiamare col suo nome. Insomma in unimmagine si vede quel che raffigurato ed eventualmente lo si riconosce come qualcosa di determinato, ma se lo si riconosce proprio perch lo si vede. Nella norma le immagini sono, in diversa misura, il luogo di un riconoscimento perch gli oggetti che vediamo raffigurati sono di consueto oggetti riconosciuti. Il riconoscimento una funzione dinamica, variabile nel suo venire a capo di diversi indici di mutamento: una funzione dinamica rispetto al cambiamento di luogo ed dinamico anche rispetto al tempo. Da un lato il riconoscimento un processo che giunge a compimento, dallaltro una prassi che impone un modello allesperienza percettiva, un lavorio sordo che procede per tentativi. Alla staticit del vedere si intreccia cos il compito che il riconoscere pone, e luna e laltra voce si intrecciano nella percezione di immagine che rivela cos la sua interna dualit, il suo essere un vedere che si intreccia a un comportamento percettivo. Guardare unimmagine significa sempre subordinare il vedere a un comportamento percettivo particolare, che dettato dai limiti e dalle forme delloggetto raffigurato. Loggetto virtuale che si staglia sulla tela chiede di essere guardato diversamente dagli oggetti reali, poich fa parte della sua natura soddisfare solo alcune, ma non tutte le richieste che la percezione normale avanza agli oggetti; non si pu pretendere troppo dagli oggetti virtuali. Tutte le immagini sono in qualche misura fragili, sospese fra la materialit della superficie e la profondit apparente che in esse si dischiude; richiedono sempre allo spettatore un comportamento percettivo che difenda la loro natura umbratile.

3. Che cosa ci vedi?Non possibile decidere di vedere ci che si vuole, ma si pu egualmente imparare a riconoscere qualcosa se il tempo e lattenzione ci insegnano dove e come volgere lo sguardo: questa la tesi che dobbiamo ora riflettere. Si tratta di unaffermazione che pu sembrarci di primo acchito oscura. Tuttavia alla passivit del vedere si intreccia lattivit che caratterizza ogni processo percettivo: non posso decidere di vedere questo o quello, ma posso guardare ora in una direzione ora nellaltra e la trama dei miei discorsi percettivi pu essere sorretta dal desiderio di veder meglio qualcosa e quindi dal tentativo di pormi nella condizione migliore per riconoscerla. Dunque il riconoscimento percettivo non soltanto un vedere, poich sempre legato a una prassi che si sforza di raggiungere un risultato e pu legarsi a un apprendimento. Di qui la natura duplice del riconoscimento percettivo, il suo consistere da un lato in una prassi che almeno in parte in nostro potere e dallaltro il suo rimandare ad uno stato il cui effettivo presentarsi non dipende da noi. Le raffigurazioni in genere non sono soltanto oggetti di una percezione immediata ma si danno allinterno di una trama comunicativa che gioca il suo ruolo nel processo che ci consente di coglierle. Il mio riconoscimento si connette ora a un volere e procede per tentativi. Le raffigurazioni si vedono, ma proprio perch il vedere ci appare il risultato di un certo comportamento percettivo ha senso subordinarlo ad una dimensione tendenzialmente normativo. Le immagini non si fondano su convenzioni e non sufficiente che qualcuno intenda raffigurare qualcosa perch si riesca a vederla o a vederla cos. Il raffigurare una tecnica e proprio per questo possibile che fallisca il bersaglio. Imparare a disegnare significa appropriarsi di un insieme di soluzioni figurative. Tuttavia ci non significa che la prassi figurativa implichi un linguaggio che ha bisogno di convenzioni. Le soluzioni di un problema devono essere effettive: deve essere possibile riuscire a vedere qualcosa di simile a ci che intendevano mostrare. Ma alle soluzioni, se sono possibili, ci si abitua e si impara a percorrerle senza sforzo. Ne consegue che ogni soluzione di un problema figurativo consente, se effettiva, di vedere ci che limmagine mostra, ma la possibilit di vedere resa pi facile tanto pi consueta per noi la natura della risposta che lautore ha dato al problema figurativo che gli si posto. Le raffigurazioni stipulano un tacito accordo con chi le guarda e la loro piena accessibilit vale come una conferma del nostro aver ottemperato alle regole che limmagine ci impone. Vediamo raffigurate le chiome di un albero, ma insieme vediamo il suo diverso comporsi in una soluzione pittorica, in uno schema intuitivo, e di qui trae un processo che da un lato ci insegna come dobbiamo guardare limmagine per vederla nella sua valenza figurativa e dallaltro ci consente di accedere ad una comunit che si gioca interamente sul terreno visivo: la comunit di cui ci riconosciamo parte quando ripercorriamo con i nostri occhi le regole che hanno consentito al pittore di far vedere con qualche colpo di pennello la realt che ha raffigurato. Queste regole divengono cos il luogo di un accordo e solo in questo senso si pu parlare degli schemi intuitivi come parte di un linguaggio figurativo e del sapere che li concerne come di una sorta di competenza pittorica.

4. La competenza pittorica e gli schemi intuitiviResta ancora un nodo da sciogliere: gli schemi intuitivi debbono consentirci infine di vedere qualcosa in unimmagine, ma le raffigurazioni contengono talvolta elementi fenomenici che sembrano suggerire uninterpretazione percettiva differente dalla descrizione che daremmo se qualcuno ci chiedesse qual la scena raffigurata (esempio dei disegni dei bambini). In questo caso la competenza pittorica ci sembra sostituirsi alla fenomenicit della raffigurazione per correggerne il senso compito che non sembra possibile assegnarle sulla base della considerazioni che avevamo dianzi proposto. Non credo vi sia altro modo per venire a capo di questa difficolt se non riconoscere che il concetto di competenza pittorica pi complesso di quanto non abbiamo detto sin qui. La competenza pittorica non pu farci vedere diversamente, ma pu invitarci a distinguere lo sguardo da ci che si vede e considerarlo privo di un valore figurativo. Imparare a guardare unimmagine significa allora comprendere che cosa appartiene alla funzione dello schema intuitivo e che cosa invece caratterizza il suo aspetto al di l del suo essere veicolo di un riconoscimento. Avere una competenza pittorica significa allora anche imparare a soffocare un insieme di domande e a tollerare alcune incongruenze, ossia imparare una lezione di tolleranza, congelando le richieste avanzate dalla dimensione fenomenica dallimmagine, dal suo volersi porre nella sua interezza come un adesione piena al postulato della riconoscibilit.

5. La percezione di immagine: considerazioni fenomenologicheVediamo unimmagine quando vediamo una profondit apparente che ospita oggetti apparenti, ma che cosa voglia dire questa parola non abbiamo ancora provato a dirlo. Largomento dellillusione sostiene che gli oggetti apparenti sono oggetti mentali. una tesi chiara, ma S. ritiene che sia falsa, non soltanto perch ha molti dubbi sulla validit dellargomento dellillusione, ma perch ritiene che tentare di applicarlo al terreno delle immagini non sia legittimo. Nel caso delle raffigurazioni la parola apparente sembra avere un significato diverso da quello che le compete sul terreno delle illusioni: quando guardo un quadro vedo proprio ci che c da vedere, una superficie reale e una profondit apparente. Nel senso delle raffigurazioni parlare di oggetti apparenti non significa alludere allesito di un confronto, ma a una caratteristica che concerne innanzitutto il modo di datit degli oggetti raffigurati e dello spazio che li ospita. Un volto disegnato apparente anche per questo, perch non ha la pienezza di ci che reale. Per verificare una simile immagine dobbiamo disporci sul terreno fenomenologico, ossia disporre le nostre analisi sul terreno di una descrizione metodica degli esempi. Della percezione di immagini non ci interessano qui le cause, ma il concetto e il posto che esso occupa nel sistema della nozioni che caratterizzano lesperienza percettiva. Cogliere una rappresentazione pittorica in quanto tale significa essere percettivamente consapevoli del fatto che non vi sono relazioni spaziali fra gli oggetti che circondano il quadro e ci che appartiene alla sua dimensione figurativa: il rapporto fra la spazialit reale e la spazialit dellimmagine in primo luogo caratterizzato da una reciproca estraneit e da una radicale differenza. Ci che vedo sono due spazi separati luno dallaltro ed per questo che ci che la cornice racchiude non si d come un luogo tra gli altri, ma come uno spazio nuovo che non confina con lo spazio reale, ma irrompe in esso. Questo ci invita a dire che la nostra esperienza delle immagini ha una forma fenomenologicamente complessa che si articola su due differenti livelli: il primo, ineludibile, il livello della percezioni ambientale: vediamo una stanza, dei muri, e su di essa una tavola variamente colorata. Tuttavia basta guardare la tavola perch si faccia avanti un secondo livello percettivo: sulla tavola si dischiude una nuova percezione, che vede limmagine prendere forma dai pigmenti e dalle linee che sono state tracciate sulla tavola, e di cui sono ancora percettivamente consapevole. La percezione di immagine pu esistere solo sul fondamento di una percezione ambientale, mentre non vale affatto il reciproco: ci ci riconduce ad almeno due motivazioni fenomenologiche. La prima ci riconduce al carattere circoscritto di ogni raffigurazione: ci che reale appartiene ad un unico mondo, mentre percepire limmagine significa coglierla come lirruzione nello spazio reale di uno spazio figurativo che non si integra nel primo, ma si colloca in esso. Vi tuttavia un secondo motivo su cui riflettere: se siamo consapevoli della tavola e dei suoi pigmenti anche quando vediamo la scena che in virt di essi si raffigura perch cogliere un oggetto raffigurato significa appunto vedere come linee e colori facciano da fondamento a un momento figurale nuovo, a un nuovo fenomeno percettivo che interamente determinato dallordine e dalla disposizione di quei materiali. Possiamo allora trarre una conclusione di carattere generale: le raffigurazioni hanno una loro interna duplicit, ma questo non significa che la percezione di immagine consti nel nostro vedere di un sostrato materiale e del nostro rappresentarci un oggetto. Gli oggetti apparenti che le raffigurazioni ci donano non sono il frutto etereo di un sogno ad occhi aperti, ma il risultato di un diverso organizzarsi dei materiali della percezione. Nello spazio figurativo non vi posto per lo spazio reale, ma non per questo difficile cogliere leco delle sue voci.

Annotazione. Segno, disegno, anamorfosiVorremmo ora cercare di chiarire meglio alcuni dei punti sui quali ci siamo soffermati con degli esempi. Ogni tratto figurativo ha in primo luogo una sua determinatezza reale che, lo sappiamo, non appartiene allimmagine in quanto tale e non si situa nello spazio figurativo: nello spazio figurativo non vi sono pennellate dritte o curve, ma contorni rettilinei o arrotondati e profili di oggetti. Tuttavia la determinatezza sensibile del segno lasciato sul foglio si impone come una caratteristica del disegno e ha quindi una sua voce nello spazio figurativo. Si deve riconoscere che la geometria del segno visibile nella geometria del raffigurato e che vi traspare secondo una misura notevole che varia col variare della profondit dellimmagine. Quanto pi limmagine si fa profonda, tanto pi le cose mutano e il segno tende a svanire nel disegno. Basta tuttavia riflettere un poco per rendersi conto che il problema pi complesso di come lo abbiamo sin qui presentato e questo perch se il segno si perde nel disegno quanto pi limmagine si fa profonda, resta cmq vero che il farsi avanti della profondit si accompagna sul terreno figurativo a una deformazione del contorno delle cose che sembra restituire alla forma reale del tratto una sua autonoma presenza. La persuasivit dellimmagine ha come controcanto la consapevolezza percettiva della deformazione, e con essa del farsi avanti delle ragioni del sostrato e del segno di contro allapparenza della profondit disegnata. Talvolta la deformazione prospettica pu imporsi al di l della soglia che ci concede di non prestarle attenzione; tali aberrazioni sono in realt un limite dello spettatore che non si pone nel punto di costruzione dellimmagine. In questo contesto opportuno rammentare il fenomeno dellanamorfosi, di cui si parla tutte le volte in cui una scena dipinta o una sua parte ci appare secondo un taglio prospettico tanto accentuato da renderla irriconoscibile. In questo caso il dipinto stato costruito secondo una prospettiva fortemente eccentrica, e possiamo cogliere ci che raffigura solo assumendo una posizione innaturale rispetto allimmagine. Il gioco dellanamorfosi consiste proprio nel rendere liberamente percorribile il cammino che dal segno conduce al disegno, in una sorta di percorso interno al concetto di raffigurazione.

6. La percezione di immagine: considerazioni ontologicheDobbiamo ora affrontare un compito arduo, ovvero tentare di dire qualcosa sulla natura degli oggetti raffigurati. Facciamo un primo passo osservando che le immagini sono caratterizzate dalla loro riproducibilit: limmagine la stessa perch ci che la caratterizza non lindividualit irripetibile degli avvenimenti che la creano ma solo la sua ripetibile determinatezza fenomenica. Il criterio di identit di un quadro lo accumuna a qualsiasi altra realt materiale, ma il criterio didentit di una raffigurazione diverso e non coincide con lidentit del sostrato e dei pigmenti, ma con la nostra incapacit di distinguere ad occhio la scena che ci viene proposta da pi quadri. Le raffigurazioni sono idealmente ripetibili perch il loro esserci racchiuso nella trama dei rapporti che si rendono visibili sulla tela e che sussistono tra le componenti materiali del quadro. Il criterio di identit di una scena raffigurata si fonda sullessere cos della sua datit fenomenica. Diversamente da ci che accade per un oggetto reale, le propriet di una scena raffigurata sono propriet che si definiscono interamente sul terreno fenomenico e non ha senso cercare un diverso terreno che ci consenta di correggerle o di formularle diversamente. Da qui possiamo ricavare una conclusione di carattere generale: se abbiamo ragioni per sostenere che ci che conta in una raffigurazione il suo essere percepita cos da qualcuno, ci accade perch dire di qualcosa che unimmagine ci accade perch dire di qualcosa che unimmagine non significa indicare quale sia linsieme degli oggetti reali a cui appartiene, ma vuol dire invece sottolineare che di quelloggetto si pu parlare solo in quanto il contenuto intenzionale di una percezione possibile. Gli oggetti raffigurati non hanno altre propriet se non quelle di cui ci parlano gli occhi. Da ci tuttavia non segue che gli oggetti che occupano lo spazio raffigurativo non hanno natura reale. Si pu decidere di lasciare da parte le riflessioni ontologicamente complesse e parlare liberamente di oggetti non per sostenere che vi sono altre cose nelluniverso degli enti, ma per dire che le immagini creano nuovi soggetti che hanno un posto e un ruolo nelluniverso dei nostri discorsi e della nostra vita.

7. Il concetto di immagine e i suoi confiniLe immagini si danno quando siamo consapevoli di avere di fronte a noi una superficie che ospita una profondit apparente: questa la tesi che abbiamo pi volte enunciato e che deve guidarci ora nella delineazione dello spazio logico del concetto di immagine. In questa definizione infatti racchiusa una duplice soglia che fissa i confini esterni di quel concetto: se si pu parlare di immagini solo quando vediamo una profondit apparente, allora si pu affermare che, da un lato, raffigurazione si perde quando viene meno la consapevolezza percettiva del sostrato dellimmagine e la percezione si perde quando viene meno la consapevolezza percettiva del sostrato dellimmagine e la percezione si fa ingannevole e che, dallaltro, le immagini si chiudono quando il movimento in profondit dello spazio figurativo viene meno. I confini esterni del concetto di immagine sono tracciati da una lama affilata: se vi profondit apparente, allora abbiamo a che fare con unimmagine, altrimenti no. Diversamente le cose stanno quando ci interroghiamo sul nesso che nelle immagini lega il sostrato materiale alla scena che in esso si raffigura. Possiamo muovere passo dopo passo verso forme di raffigurazione che obbediscano sempre pi apertamente al precetto rinascimentale di nascondere la presenza percettiva della tela e che sappiano quindi rendere sempre pi cogente lapparenza della profondit e sempre pi viva e perspicua la scena raffigurata. tuttavia possibile muoversi nel verso opposto, spingendoci verso quello immagini che sono caratterizzate da una sempre maggiore trasparenza del sostrato su cui poggiano. Alle immagini spetta un compito sottilmente contraddittorio: debbono mostrarci non ci che da sempre vediamo e che costituisce luniverso percettivo della nostra esistenza, ma la realt invisibile che la sottende, quella verit obbiettiva e immobile che fa da sostrato ai fenomeni e il cui senso si dispiega nel mettere a tacere la trama complesse e capricciosa delle forme del vivere.

Annotazione. Il trompe -loeil e la grammatica delle immaginiDobbiamo porci una duplice domanda: si pu davvero parlare dei trompe-loeil come di inganni in senso proprio? E ancora: i trompe-loeil sono illusioni in un senso forte del termine o possono accompagnarsi alla certezza percettiva dellillusoriet di ci che ci mostrano come accade per tutte le altre raffigurazioni che in generale non pretendono affatto di ingannarci? Rispondere alla prima domanda relativamente facile, perch nella norma i trompe-loeil sono fatti per ingannarci e una parte del gioco estetico a cui ci invitano direttamente legata alla ripetibilit dellillusione che ci propongono. Nella norma i trompe-loeil non soltanto non hanno come principale obbiettivo quello di ingannare lo spettatore, ma solitamente non lo ingannano affatto. Nella norma i trompe-loeil non sono fatti per ingannare, ma per stupire, per costringere lo spettatore a uno meravigliato stupore che lo spinga a vagliare il discrimine che separa la realt della raffigurazione: lillusoriet dellimmagine si fa cos cogente da costringere lo spettatore al gioco del disvelamento. Ci tende una trappola, perch la situazione percettiva stata creata ad arte. Il pittore vuole giocare con noi, e la raffigurazione mossa allinterno di questa prassi. Il trompe-loeil propone dunque un gioco che ha un preciso punto di partenza e una meta, a cui si giunge seguendo una scansione ordinata di mosse: devi innanzitutto accettare di farti stupire dallimmagine senza dare troppo ascolto alle tue cautele critiche, per poter poi meglio smascherare le sue pretese e per poter cos cogliere dietro limmagine il pittore che ti si rivolge, e solo dopo queste mosse potrai sottolineare esplicitamente che la scena che si dispiega davanti ai tuoi occhi appartiene alla dimensione dello spazio figurativo e che il tuo osservarla deve essere ricondotto alla funzione dello spettatore. Il trompe-loeil ci invita ad un gioco che deve svolgersi e concludersi, pena il venir meno del senso dellimmagine. Mette in scena il processo per cui diventiamo consapevoli del fatto che limmagine che osserviamo appunto soltanto unimmagine. S. vuole dunque sostenere che i trompe-loeil sono il luogo di una riflessione intuitiva su ci che caratterizza le immagini in quanto tali e che una descrizione e una classificazione fenomenologica del trompe-loeil ci consente di far luce sugli aspetti che ci consentono di distinguere lo spazio reale dello spazio figurativo. (manca da p. 151 a 159)

3. RAFFIGURAZIONI E GIOCHI LINGUISTICI1. Le immagini: un oggetto culturaleFin qui, poich volevamo riflettere sulla natura percettiva delle raffigurazioni, ci siamo tenuti lontano dalle ragioni per le quali le immagini sono importanti per noi. Le raffigurazioni sono oggetti che appartengono alla nostra cultura, per noi uomini le immagini sono importanti e si intrecciano in molti e diversi modi con la nostra vita, sin da quando siamo piccoli. Le funzioni delle immagini sono molte. Noi uomini siamo accumunati da un particolare atteggiamento rispetto alle immagini, che caratterizzato dalla vicinanza ad esse e dalla convinzione che abbiano molto da dirci. Non ovvio che sia cos, e soprattutto non si comprende come ci sia possibile se ci si racchiude nella dimensione puramente percettiva delle immagini. Per cercare di comprendere la natura del gioco che intratteniamo con quadri e disegni necessario riflettere sul nesso che lega e raffigurazioni alla pi mobile delle facolt: limmaginazione. Con le immagini giochiamo e la prassi ludica ci invita innanzi tutto a sospendere le credenze che ci vincolano alla realt, consentendoci di fingere che le cose stiano cos come il gioco ci propone. Limmaginazione non modifica la realt, ma crea un differente universo del discorso, che in linea di principio sottratto allantitesi che verte sullesistenza reale dei suoi oggetti. La funzione ludica degli oggetti suggerita dalla loro forma e dalle possibilit che la loro natura offre a chi gioca. La prassi immaginativa pu pi facilmente assumere la forma di un gioco condiviso se le concesso di fare presa su oggetti che siano disponibili per tutti. Nel gioco gli oggetti possono assolvere ad una molteplicit di funzioni. Pressappoco cos stanno le cose anche per le raffigurazioni o almeno cos sostiene Walton. Una differenza fra giochi immagini balza tuttavia agli occhi: una raffigurazione ci invita a un gioco determinato perch ci costringe a immaginare di avere di fronte agli occhi proprio ci che essa ritrae, ed questo che ci consente di parlare del mondo immaginativo che compete a ogni singola raffigurazione. Guardare una raffigurazione e comprenderla come tale per Walton significa rispondere allinvito perentorio che ci rivolge linvito ad immaginare di trovarci proprio di fronte alla scena raffigurata, di cui siamo immaginativamente testimoni. Se non ci rendiamo disponibili a questa prassi la raffigurazione resta muta. Tuttavia S. non crede che questa tesi sia condivisibile fino in fondo per una ragione ormai a noi nota, ovvero per il fatto che per vedere una raffigurazione non necessario alcunch, basta guardare. Le raffigurazioni sono oggetti e il loro carattere meramente fenomenico non ha nulla a che vedere con una qualche assunzione immaginativa. Possiamo dunque rigettare la tesi di Walton, che tenta di stringere in un unico nodo raffigurazione e immaginazione. Le osservazioni di Walton possono per servirci per indicare un cammino che merita di essere percorso e che ci riconduce in prossimit dei giochi immaginativi di cui abbiamo sopra discorso. Il primo passo consiste nel rammentare che le raffigurazioni sembrano essere predisposte ad assumere un ruolo nelle trame immaginative. Lo spazio immaginativo si da percettivamente insieme alla cesura che lo distingue dallo spazio reale, e pone cos per la sua stessa natura fenomenologica la possibilit che una cornice lo racchiuda. Le immagini sono oggetti che si manifestano nel loro contenuto fenomenico, ma diventano vive per noi solo se la percezione si accompagna a una scansione narrativa della scena che sappia da un lato articolarla nelle sue parti, e dallaltro istituire un nesso che le renda parte di una vicenda in cui siamo coinvolti, sia pure solo come spettatori. Lecfrasi (una forma particolare della retorica antica) ci appare come un genere letterario particolare che nella descrizione delle immagini pittoriche sembra trovare il terreno per dar vita ad un confronto fra le arti. Il problema della descrizione dei quadri e degli affreschi si lega alla constatazione che alle immagini la parola aggiunge non soltanto una nuova chiarezza, ma soprattutto un ordine ed una chiarezza particolari. La descrizione verbale ha una sintassi definitiva che si impone allo sguardo costringendolo a seguire le linee di una scansione che pu essere messa in luce nellimmagine, ma che non ancora per ci stesso tracciata esplicitamente. La parola decide un cammino nellimmagine e permette alle molte voci che la animano di confluire nellunit di un discorso comune. Questa tesi non sembra a S. convincente, almeno dal punto di vista descrittivo. Il contenuto di una percezione pu assumere forma proposizionale, ma non affatto detto che ci che vediamo abbia gi questa forma. Le parole che ascoltiamo non ci fanno vedere ci che non avevamo visto, ma ci invitano ad una percezione nuova, diversamente strutturata. Sarebbe tuttavia un errore fermarsi qui. Larte dellecfrasi non si esauriva nella mera descrizione della scena raffigurata, ma aveva anche il carattere di una narrazione, seppur minimale, di una sua messa in scena. Limmagine si fa racconto, in un processo che invita lo spettatore a lasciarsi coinvolgere dalla scena che si recita di fronte agli occhi e che lo spinge a trascurare immaginativamente alcuni dei limiti che sono impliciti nel riconoscimento che sorregge limmagine e che determinano il senso delloggetto che siamo di fronte. Le raffigurazioni ci invitano a un gioco che ha la forma di una narrazione o di una drammatizzazione immaginativa. Nel gioco limmagine acquista una presenza nuova. Nel gioco con le immagini impariamo a tacitare le voci che si oppongono alla pienezza del riconoscimento percettivo e quindi a fare come se ci che vediamo soltanto raffigurato acquistasse una sua pi viva presenza. Lecfrasi di fatto racconta le immagini, attribuendo alla scena raffigurata lunit di un percorso narrativo. Il racconto ci costringe a ordinare e a raccogliere le singole parti della scena raffigurata in una trama unitaria che detta alla percezione una regola e un cammino percorribili. Ma la narrazione ci costringe a una nuova mossa: ci costringe anche ad animare la scena e a porre al suo interno uno svolgimento minimale, una temporalit che conosce un inizio e una fine assoluta. Narrare unimmagine tuttavia non significa solo cercare nella scena raffigurata una trama che connetta le parti del quadro nellunit di un senso, lasciando che le parole individuino un percorso di cui gli occhi debbono saggiare la percorribilit: vuol dire anche proiettare la scena raffigurata in un orizzonte che ci coinvolge. Ogni universo immaginativo ci riconduce necessariamente a un soggetto che immagina. Limmagine vive nel suo rapporto con lo spettatore, che dunque parte integrante della narrazione dellimmagine. Il gioco in cui lo spettatore si lascia coinvolgere gli suggerito dallimmagine stessa, che dunque da un lato, nella sua dimensione percettiva, un oggetto che si volge a uno spettatore possibile, e dallaltro parte di un dispositivo dialogico che ci invita a rispondere e che ci interpella. Limmagine parte di un dialogo di cui siamo i destinatari. Ci parla e ci chiede di assumere il ruolo dello spettatore, perch ha bisogno della nostra collaborazione per mettersi in scena. Di qui lipotesi che vorrei suggerire: le immagini assumono per noi un significato particolare perch sappiamo disporci nei loro confronti in una prassi ludica e narrativa insieme perch sappiamo vivificarle in un gioco che ha i contorni labili di un racconto.

2. Il gioco del narrare unimmagineDi fronte a queste considerazioni si pu forse reagire con fastidio, per due diverse ragioni: la prima di ordine storico, poich lecfrasi unarte che appartiene al passato e perch al passato appartengono i dipinti che si lasciavano guidare dalla convinzione che il primo compito del pittore fosse quello di dar vita a una narrazione visiva. La seconda obiezione sembra essere ancora pi radicale e che ci consiglia di dubitare della percorribilit delle considerazioni proposte. Prendere sul serio lecfrasi e lasciare che le parole sovrastino la scena visibile non significa semplicemente dimenticarsi della peculiarit delle immagini e del loro significato pi autentico? Un quadro fatto di colori e forme e non si vede come si possa apprezzarlo se lo si dissolve in una trama di parole o in un racconto. Queste obiezioni colgono entrambe nel segno e ci invitano a definire meglio il significato delle nostre considerazioni. Certo, non tutte le immagini hanno un contenuto narrativo, ma ci non toglie che se vogliamo che i quadri agiscano su di noi e abbiano per noi un significato necessario disporsi sul terreno dellimmaginazione ludica che animi lo spazio figurativo, e che sappia mettere in scena per noi ci che in quelle immagini si mostra. Nulla sarebbe pi sbagliato che chiedere che la narrazione di cui discorriamo debba necessariamente consistere in un raccontare storie. Ci che le si chiede solo di dar voce alle dinamiche immaginative che si legano alla scena percepita, decidendo un percorso possibile, un possibile modo per raccogliere ci che ci si presenta in una trama ricca di senso. Basta guardare un quadro per immaginare qualcosa. Queste considerazioni ci indicano la via da seguire per venire a capo della seconda obiezione che abbiamo formulato e che di fatto verte sulla natura letteraria dellecfrasi, sulla sua parziale estraneit alla dimensione specificamente visiva delle raffigurazioni. Si tratta di unobiezione legittima se crediamo che un pugno di parole possano sostituire unimmagine, ma le cose stanno diversamente se allenfasi come tecnica retorica si sostituisce il gioco che consiste nel mettere in scena il contenuto che loro proprio, decidendone il senso immaginativo in una situazione determinata: gioco che sorge dalla percezione e d voce alla scena raffigurata fondandosi direttamente sul modo in cui raffigurata. limmagine stessa con il suo contenuto figurativo a determinare il campo delle possibili decisioni immaginative: il gioco consiste nel decidere un percorso coerente e una trama immaginativa che soddisfi tendenze gi implicate nei materiali e negli oggetti della percezione.

3. Unipotesi da verificareIl punto su cui riflettere ora chiama in causa la dimensione pragmatica delle immagini: nella narrazione limmagine si mette in scena per qualcuno e gli si rivolge. Lo spettatore parte del gioco, e determina con la sua presenza il senso complessivo della scena raffigurata. Ma lo spettatore non soltanto un soggetto che immagina: anche, prima di ogni cosa, un corpo che vede qui e ora ci che di fronte ai suoi occhi si raffigura. necessario dedicare un ultimo capitolo allo spazio e al tempo, perch nello spazio e nel tempo il ruolo dello spettatore si costruisce nella sua dualit.

4. LO SPAZIO, IL TEMPO E LE IMMAGINI1. Scrivo uno quadrangolo di retti angoliSottolineiamo ora una caratteristica essenziale dello spazio figurativo, su cui opportuno indugiare un poco: la sua chiusura. Lo spazio figurativo chiuso, il suo limite tracciato da ci che attualmente visibile: lo spazio dellimmagine dato una volta per tutte, interamente racchiuso e lo gi sul terreno percettivo. Se avvertiamo che i limiti della cornice sono angusti solo perch ci che nellimmagine si mostra in s definitivamente incompleto, non perch lo spazio figurativo si spinga al di l del suo orizzonte visibile.Alla chiusura dellimmagine fa eco lincolmabilit della distanza che la separa da chi la guarda. La distanza che ci separa dalla scena dipinta una caratteristica puramente fenomenica, in cui si manifesta la chiusura dello spazio figurativo, la sua indipendenza di principio dallo spazio reale. Alla chiusura dello spazio figurativo fa eco la sua piena datit. Lo spazio figurativo puramente fenomenico, e ci significa che vi coincidenza fra ci che in esso racchiuso e ci che in esso visibile. Sappiamo che nello spazio figurativo non possibile vedere nulla pi di ci che comunque gi dato. Sottolineare la chiusura dello spazio figurativo attira la nostra attenzione su un aspetto che accumuna le immagini ai testi di carattere narrativo, poich la chiusura le sembra rendere adatte a essere racchiuse nei confini assoluti di una narrazione. Nel suo irrompere nello spazio reale lo spazio figurativo mantiene la sua alterit e ci invita a guardarlo come uno spettacolo che non ci coinvolge realmente, ma che proprio per questo pu divenire meta facilmente di uno sguardo carico di immaginazione.

2. Lo spazio figurativo, lo spazio realeCome pu lo spazio figurativo essere chiuso e insieme rivolgersi a chi losserva, ponendo cos le premesse per lassunzione da parte sua del ruolo di spettatore? Non difficile rendersi conto che fa parte del contenuto descrittivo di ogni raffigurazione il suo intrattenere una relazione spaziale meramente apparente con un osservatore ideale: le raffigurazioni hanno senso solo perch si riferiscono a qualcuno che osserva la scena da un qualche luogo. Ogni immagine contiene qualcosa in pi di uno spazio irreale: contiene anche la mano che addita il luogo dal quale potrebbero vedersi gli eventi raffigurati. La scena raffigurata ottiene uno spettatore solo quando chi la osserva si lascia coinvolgere dallimmagine e si rapporta ad essa, accettando di dar vita al gioco che essa propone. In qualche misura losservatore implicito e quello reale debbono coincidere. Lo spettatore anche un corpo vivo che guarda da qui ci che limmagine gli mostra e che prima di immergersi nel gioco di finzione che la tela suggerisce ha gi visto e colto ci che essa visivamente mostra. Da qui il sorgere di una possibilit nuova: proprio perch lo spettatore anche un corpo che vede e che guarda e che occupa consapevolmente un luogo, costretto a mettere il proprio spazio in correlazione con lo spazio raffigurato. Dunque lo spazio figurativo si apre e si riverbera nello spazio che ospita il nostro rapportarci allimmagine e a ci che ci mostra. S. parla di questo spazio come dello spazio di risonanza dellimmagine, lo spazio nel quale si dipanano le relazioni che, senza abbandonare la nostra appartenenza a un qualche luogo del mondo, ci consentono di partecipare alla scena raffigurata che si dipana entro i quattro legni di una cornice. Lo spazio che ci separa dalla cornice risuona tanto degli eventi che in essa prendono vita, quanto dei gesti e dei comportamenti dello spettatore che ad essa si rivolge. La relazione spaziale sui generis che ci lega allo spazio figurativo e che ci consente di assumere di fronte allimmagine il ruolo dello spettatore determina cos il modo in cui, come spettatori, siamo chiamati ad osservare la scena raffigurata e a rapportarci ad essa.

3. Lo spazio di risonanza e il ruolo dello spettatoreDobbiamo ora sottolineare come tanto il modo in cui la funzione dello spettatore si dispiega quanto la natura dello spazio di risonanza dipendono a loro volta dalla determinatezza fenomenologica dello spazio figurativo. Si tratta di una constatazione che ha un suo fondamento evidente: leco dello spazio percettivo pu riverberarsi in quello dello spettatore solo perch vi una qualche comunanza percettiva fra luno e laltro, una qualche continuit fra le strutture che li caratterizzano. Alla radice di questa continuit vi un fatto che so radica nella natura delle immagini: vi immagine solo se vi profondit, profondit che ha un verso, poich si allontana muovendo dal luogo in cui la si coglie. Una precisazione tuttavia necessaria, poich lo spazio ambientale ha sempre la stessa struttura fenomenologica, mentre la forma dello spazio figurativo muta col variare degli stili e delle tecniche pittoriche. Perci la continuit percettiva pu manifestarsi in due forme differenti. Da immagine a immagine varia anche la natura dello spazio di risonanza e con essa il modo in cui lo spettatore entra in contatto con luniverso figurativo e partecipa alle vicende che lo animano.

4. Un possibile ordinamentoParlare di tecniche figurative non significa alludere ad una dimensione esclusivamente culturale e non vuol dire nemmeno discorrere di un insieme di convenzioni di natura linguistica. Tuttaltro. Ogni tecnica figurativa racchiude in s osservazione ed esperimento e lega in un unico nodo la capacit di cogliere alcune strutture percettive e di elaborarle in una tecnica che possa essere impiegata e appresa. Invece di sostenere la convenzionalit della prospettiva S. sostiene che vi sono molte e diverse forme per rendere lo spazio profondo.

5. La dialogicit dellimmagineCi accingiamo ora a discutere della natura dialogica o non dialogica di una raffigurazione, del suo rimandare o non rimandare allo spettatore come ad un interlocutore possibile. importante sottolineare che si tratta di una distinzione nuova che chiama in causa un problema diverso da quelli che abbiamo fino ad ora discusso. Ogni immagine infatti pu avere uno spettatore, ma ci non significa che lo interpelli o lo chiami in causa; pu invece accadere che lo spazio di risonanza di unimmagine occupi una relazione dialogica e lo spettatore possa essere costretto ad abbandonare la sua estraneit rispetto alla scena raffigurata e pu sentirsi come se fosse il tu di un io che dal quadro gli parla. Lorientarsi della scena dipinta verso lo spettatore e il suo interpellarlo, chiedendogli di reagire alla visione che si apre davanti ai suoi occhi, non ha soltanto un eco spaziale, ma ci invita anche a disporre limmagine in un contesto performativo che ci costringe, se non a descrivere, almeno a narrare la scena dipinta non solo dicendo cosa in essa si vede, ma anche quale sia la dimensione pragmatica in cui quel vedere si inscrive e quale sia la prassi comunicativa che di qui ha origine. Non vi dubbio che la dialogicit dellimmagine si dia solo ad uno sguardo che non rinuncia alla dimensione immaginativa. Un simile atteggiamento sorretto dalla forma e dai contenuti della percezione, ma chiama anche in causa la capacit di illudersi e di stare al gioco. Se ci poniamo sul terreno della analisi fenomenologica la prima distinzione che deve essere tracciata ci riconduce alla possibilit che lo spettatore sia chiamato in causa dallimmagine ora come attore o interlocutore, ora come giudice della scena raffigurata: a una dialogicit iconica si deve cos contrapporre una dialogicit metaiconica.Rivolgiamo innanzitutto lattenzione alla dialogicit iconica, e cio alla possibilit che chi guarda un quadro sia coinvolto dalla scena dipinta e che sia chiamato a contribuirvi in qualche modo, aggiungendovisi dallesterno. La scena dipinta chiede un completamento e lo trova nello spettatore, che a sua volta pu contribuire alla scena raffigurata in due diversi modi. In primo luogo pu vestire i panni dellattore, venendo coinvolto in una scena che deve continuare. A questa forma dialogica pu poi affiancarsi quella che chiama in causa lo spettatore solo come testimone o interlocutore: vi sono le immagini che cercano uno spettatore e gli si rivolgono con un gesto o con lo sguardo, oppure quelle in cui una conversazione con lo spettatore prende effettivamente corpo e lo spazio di risonanza attraversato da una relazione percorribile nei due sensi (limmagine ci coinvolge in un dialogo che ha domande e risposte, e che struttura lo spazio di risonanza del quadro a partire dal dialogo che si viene determinando). Alla forma di dialogicit che procede dalla scena narrata e che chiama lo spettatore ad assumere un ruolo nella vicenda che il pittore ha dipinto si deve affiancare il rimando dialogico meta iconico che dal quadro si rivolge allo spettatore, in un gesto che sembra invitarlo a commentare la scena pi che a prendervi parte.

6. Forma e funzione dellimmagineCi siamo pi volte soffermati sul fatto che le immagini si usano in molti modi e che una raffigurazione non ha un significato definito se non dato il gioco linguistico che prescrive le regole del suo impiego: le considerazioni che abbiamo sopra formulato ci consentono forse di dire qualcosa di pi e di cogliere il nesso che lega la forma delle immagini alla funzione che loro attribuiamo. Possiamo affermare che lo spazio figurativo nelle sue diverse manifestazioni di volta in volta responsabile della funzione che attribuiamo alle immagini? S. crede che un nesso fra la forma e la funzione di unimmagine ci sia davvero, e crede anche che la diversa forma in cui si manifesta la struttura dello spazio figurativo abbia una significativa voce in capitolo; tuttavia necessario rammentare che il nesso fra la forma e la funzione di unimmagine un nesso sfuggente e che sarebbe un errore credere che, data un immagine fatta cos e cos, sia dato anche il modo in cui ce ne avvaliamo. In generale ogni raffigurazione ottiene il senso che le compete solo allinterno di una forma particolare di vita e di un particolare gioco linguistico; ma sarebbe sbagliato muovere da questo giusto riconoscimento per svincolare interamente dalla funzione della forma dellimmagine, lasciandosi guidare da una filosofia di stampo convenzionalistico. Questo significa che, quando guardiamo unimmagine, non possiamo semplicemente informarci sulla funzione che le viene attribuita, ma dobbiamo anche chiederci quale sia la ragione per la quale lartefice che lha creata lha dipinta cos. Una raffigurazione pu essere usata in molti modi, ma non in tutti, e S. crede che le considerazioni che ha proposto mostrino con chiarezza che la forma dello spazio figurativo sia direttamente chiamata in causa quando si cerca di comprendere il nesso che stringe la funzione di unimmagine alla sua forma.

Annotazione. Forma e funzione delliconaAlle considerazioni tecniche affianchiamo ora qualche riflessione di carattere esemplificativo, parlando delle icone (da filosofi e non da storici dellarte). Vorremmo infatti affrontare le ragioni che motivano la forma di queste tavole lignee, che sono caratterizzate da unevidente aderenza ai valori di superficie, che hanno di solito piccole dimensioni, un soggetto invariabilmente religioso e che si legano al culto e spesso alla devozione privata. Affrontare questo compito significa in primo luogo rivolgere lattenzione ad un aspetto dellicona, ossia al suo tratto stilizzato. una stilizzazione particolare, ossia un insieme di stilemi che si sommano gli uni agli altri per dar vita a un volto in linea di principio sottratto allaccidentalit e alla casualit che trasformano luomo in un individuo, segnato dal tempo e dallo spazio. Le ragioni di questa stilizzazione che cancella le pieghe dellindividualit si spiegano col fatto che lumanit delle icone unumanit santificata, liberata dai ceppi dellindividualit terrena e riconosciuta nella sua forma originaria. Dipingere unicona significa in un certo senso scriverla, poich il pittore non deve mostrare loriginalit di una scelta figurativa ma deve invece seguire un cammino che segnato da una tradizione che si concretizza in un insieme di forme e di schemi figurativi prestabiliti. Non solo il soggetto ad essere prescritto dalle regole della tradizione, ma anche la disposizione e lespressivit delle figure sono vincolate sino ai dettagli apparentemente pi insignificanti. Ci che licona, stilizzandosi, ripete, non solo una tradizione figurativa, ma levento originario che la fonda e che le permette di essere immagine del divino. Licona pu assolvere alla sua funzione solo se ci che in essa si mostra non soddisfa lo sguardo, ma si pone come la spia di un cammino che rimanda al di l dellimmagine, la quale altro non che un tramite visibile dellinvisibile. Licona anche unimmagine accentuatamente bidimensionale: nellicona non c spazio prospettico poich il suo spazio tendenzialmente chiuso in s stesso, non intende assumere nessuna valenza illusionistica. Da queste considerazioni ricaviamo il nesso che lega la forma dellicona al suo significato, ma anche il modo in cui lo spettatore le si rapporta e la funzione che le attribuisce. Licona ha una funzione quasi sacramentale perch deve essere il tramite sensibile del divino. Le icone devono dunque insegnarci il cammino che dal visibile conduce allinvisibile; per poter assolvere alla loro funzione debbono tuttavia fare affidamento su un peculiare atteggiamento ricettivo dello spettatore: dalla funzione dellimmagine dobbiamo cos muovere verso la sua pragmatica. Nella riflessione sul ruolo delle icone il problema di una definizione dellatteggiamento dello spettatore gioca un ruolo centrale, poich licona una forma darte sacra che pretende di svolgere una funzione nel culto. Lo spettatore deve rapportarsi ad essa secondo forme rigidamente previste dal Concilio di Nicea. In primo luogo negata la liceit di un atteggiamento puramente contemplativo, poich le icone raffigurano oggetti religiosi e spesso ci costringono a riflettere sulla sofferenza e la morte. Il Concilio di Nicea si preoccupato di tracciare un chiaro discrimine fra ladorazione dellimmagine, che comportamento idolatrico e quindi censurabile, e la venerazione dellicona che invece un atto dovuto. Ladorazione infatti conosce solo un complemento oggetto assoluto: si adora qualcosa soltanto in virt di ci che esso in s e per s; perci non possibile adorare licona in quanto tale, poich essa soltanto la cifra dellinvisibile. Diversamente stanno le cose nel caso della venerazione, perch essa un comportamento che si rivolge ad un oggetto solo in virt del suo rimandare ad altro. E tuttavia riflettere sullatteggiamento che lo spettatore deve assumere significa richiamare nuovamente lattenzione sulla forma dellimmagine. Licona deve essere ed unimmagine che da un lato rifiuta ogni valenza illusoria nel segnare apertamente il discrimine fra lo spazio reale e quello figurativo, e che dallaltro nella manifesta stilizzazione delle forme sembra denunciare la radicale insufficienza della sensibilit rispetto al tema di cui vuole essere rappresentazione. Possiamo formulare a questo punto una tesi di natura fenomenologica espressa in questi termini: nessuna interpretazione di unimmagine pu dirsi legittima se non ha fondamento in unintuizione concreta e se non pu assumere la forma di un processo di articolazione della dimensione intuitiva dellimmagine.

7. Il tempo delle immaginiCi interroghiamo ora sulla funzione che il tempo gioca nel concetto di raffigurazione. A spingerci verso questa meta sono due ragioni importanti: la centralit che abbiamo attribuito alla narrazione delle immagini e il rapporto che le lega allo spettatore, rapporto che ha e non pu non avere, per la sua natura, una determinatezza temporale. Un disegno per sua natura il frutto di una prassi in cui il movimento si solidifica in un tratto immobile che non ci permette di riconoscere il divenire che ad esso ha condotto. un presente senza tempo. Ci che limmagine ci presenta non ha nessuna relazione obbiettiva con il mondo, e non ha quindi senso cercare di stringere una relazione temporale obiettiva tra ci che vedo in un disegno e ci che accade in esso. Il mondo figurativo acontestuale, non ha un suo ruolo temporale che consenta di collocarlo rispetto alla retta del tempo. Nonostante questo la scena dipinta riceve egualmente dallo spettatore una locazione temporale: proprio perch ci appare ora, la scena raffigurata assume per noi il carattere fenomenico della presenza. La scena che in quanto spettatori osserviamo e narriamo accade ora, ma quale sia listante di tempo che immaginativamente indicato da questa parola non lo decide la nostra appartenenza a un presente che ci accumuna alle persone e agli eventi del mondo della nostra vita, ma il nostro aderire alla scena raffigurata e al tempo in cui essa sembra collocare la vicenda narrata. Limmagine ha una forma spaziale ma non ha una forma temporale; le scene raffigurate sono presenti, ma non sembrano avere in s ci che ci consente di pensarle distese nel tempo, sono statiche. Ma ci che non possiamo percepire, possiamo egualmente immaginarlo, ed questo che accade quando accettiamo il gioco che le immagini ci propongono e fingiamo di assistere ora a ci che la scena raffigura. Questo gioco ha molte forme diverse, ma ha sempre una struttura in comune: se nelle scene raffigurate risuona immaginativamente la voce del tempo, perch lo spettatore le fissa nellattimo della loro ricezione. Vediamo e immaginiamo una scena presente e siamo proprio per questo costretti a immaginarla rispetto al tempo e al suo divenire. In questo immaginare tuttavia non siamo del tutto liberi, perch qualcosa del contenuto sensibile della scena raffigurata guida le nostre decisioni immaginative e le sorregge. Di qui la domanda che dobbiamo porci: se nelle immagini il tempo non c e non possiamo semplicemente vederlo, che cosa nella loro dimensione intuitiva pu sorreggere limmaginazione temporale nel suo concreto operare?

8. IntermezzoLa pittura pu parlarci delle azioni, mostrandoci i corpi e disponendoli in modo tale da costringerci a immaginare uno sviluppo. Di qui laprirsi di una via narrativa per la pittura. un momento fecondo, per sua natura incompleto e privo di un suo interno equilibrio: ci che vediamo di per s non basta e lo sguardo deve legarsi allimmaginazione e continuare un processo di sviluppo che non ancora giunto alla meta. Vi sono momenti fecondi, ma ci non significa ancora che sia possibile raffigurarli: perch si possa parlare di attese e regole necessario che la percezione sia spinta al di l della puntualit del presente e che nella continuit del tempo si sia manifestata una regolarit che giustifichi la proiezione nel futuro di quelle stesse strutture che si sono attestate nel passato recente della percezione. S. crede che si debba riconoscere che non vi modo per vedere in una scena qualcosa che abbia in s la dinamica di un processo; e tuttavia, anche se unimmagine non pu consentirci di vedere il dipanarsi di un evento, pu sostenere visivamente limmaginazione che ci consente di narrarlo.

9. Immaginare il tempoPer poter leggere un movimento dobbiamo fissare un percorso e possiamo qui farlo solo perch unimmaginazione cresciuta sul dettato dellesperienza passata fissa una norma rispetto alla quale la scena, nella sua concreta visibilit, si discosta. Una raffigurazione pu invitarci a leggere il percorso che attua la sintesi parziale delle parti dellimmagine come una sintesi temporale e narrativa se qualcosa nella raffigurazione vieta o almeno ostacola il tentativo di immaginare insieme ci che di fatto raffigurato insieme nellunit della tela. 23