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www.moked.it ABBONARSI è importante: Un giornale libero e autorevole può vivere solo grazie al sostegno dei suoi lettori. La minoranza ebraica in Italia apre il confronto con la società, si racconta e offre al lettore un giornale diverso dagli altri. Gli abbonamenti (ordinario 20 euro o sostenitore 100 euro) possono essere avviati mediante versamento su conto corrente, bonifico, carta di credito o Paypal. Tutte le informazioni sul sito www.paginebraiche.it ú –– Hulda Brawer Liberanome T utti noi ebrei abbiamo per Israele un punto debole, un in- teresse particolare. Nei giornali cerchiamo le notizie che lo riguardano, c’è chi si sente orgoglioso per i successi ottenuti da scienziati israeliani - sette premi Nobel in 62 anni - chi per la fama internazionale di alcuni scrittori, chi per i traguardi raggiunti dall’economia israe- liana - nel 2009 anno di profonda crisi internazionale cresciuta di 4 punti del Pil - chi delle forze armate, chi di qualche squadra sportiva, chi della straordinaria rinascita della lingua ebraica. C’è chi in Israele ha acquistato una seconda casa, chi ha parenti stretti e visita Israele ab- bastanza spesso. Ciascuno secondo il proprio interesse. Le critiche su qualche importante aspetto della vita israeliana non mancano, ma il particolare legame c’è e resta. Ma Israele dista qualche ora di volo. E con gli israeliani in Italia, stu- denti oppure residenti, quali sono i rap- porti delle nostre comunità? E’ la do- manda che rivolgo a Firenze ad alcuni di loro. Non so se la nostra città è un esempio tipico fra le Comunità in Italia, pur essendo una delle tre mete univer- sitarie principali per studenti israeliani, ma è sicuramente un esempio interes- sante. Chiedo all’Ambasciata israeliana a Roma quanti sono gli studenti che stu- diano in Italia e quanti gli stabili residenti. La risposta è che a Roma conoscono solo coloro che si rivolgono per un mo- tivo o un altro all’Ambasciata, nient’altro. A Firenze il segretario della comunità, Emanuele Viterbo, mi informa che su 907 iscritti, 54 sono nativi di Israele, che l’età della maggioranza di loro è inferiore ai 55 anni, che gli studenti di norma non si iscrivono e che comunque di israeliani non iscritti e di studenti che non si rivol- gono alla Comunità di loro iniziativa si sa poco o niente. Ma un gruppo di stu- denti israeliani mi sa dire che in città stu- diano non meno di 130 giovani, di cui 25 a Medicina, facoltà che ha adottato il cri- terio del numero chiuso, mentre altri sono iscritti alla facoltà di architettura. Così vicini così lontani: gli israeliani di casa nostra / P04 Pagine Ebraiche – mensile di attualità e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - Anno 2 | Redazione: Lungotevere Sanzio 9 – Roma 00153 – [email protected] – www.paginebraiche.it | Direttore responsabile: Guido Vitale Reg. Tribunale di Roma – numero 218/2009 – ISSN 2037-1543 | Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale D.L.353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n.46) Art.1 Comma 1, DCB MILANO | Distribuzione: Pieroni distribuzione - v.le Vittorio Veneto, 28 - 20124 Milano - Tel. +39 02 632461 euro 3,00 U na denuncia formale recapitata nella seconda metà del mese di lu- glio all'Ufficio rabbinico di Milano e il giudizio di un tribunale rabbinico che con ogni probabilità ne sarà la conse- guenza, manifestano un fatto fino a ieri difficilmente concepibile e sembrano riassumere tutti gli elementi della gran- de mutazione che la minoranza ebraica in Italia e con essa il suo rab- binato stanno attraversando. La guida spirituale del mo- vimento ebraico riformato milanese Lev Chadash affi- liato alla World Union for Progressive Judaism (una par- ticolarità nel pa- norama ebraico italiano, che fa tra- dizionalmente riferimento al- l'ebraismo ortodosso), accusa un rabbino milanese del movimento chassidico dei Lubavich (un'altra par- ticolarità, presente ormai in Italia da anni, ma proveniente da tradizioni nate altrove) di aver diffuso notizie false e infamanti sulle attività del proprio grup- po ebraico. A dirimere la controversia e a fare giustizia è chiamato un collegio giudicante composto di rabbini che si identificano nella via ortodossa italiana. Al di là del contenuto di questa speci- fica vertenza ci troviamo di fronte alla conferma una conferma della centralità del ruolo e dell'autorevolezza del rab- binato italiano. In ogni caso un fatto nuovo. Un episodio che si inquadra nel dibattito già molto acceso e ricco di spunti. Un confronto che concentra grande atten- zione sul mondo rab- binico e che evidenzia una real- tà nuova, certo me- no stabile, più ricca di contraddizioni e di rischi. Ma anche densa di quelle sfide e di quelle potenzialità che in oltre due millenni di storia la più antica comunità della Diaspora è spesso riuscita a tramutare, con equilibrio e creatività in una ricetta originale di crescita e di fedeltà alle pro- prie autentiche radici. SHABAT SHOFETIM 14 AGOSTO 2010 | ROMA 19.55 20.56 | MILANO 19.39 21.19| FIRENZE 20.06 21.10 | VENEZIA 20.06 21.09 il giornale dell’ebraismo italiano n. 8 - agosto 2010 | אלול5770 ú QUALE EQUILIBRIO Autonomie e unità L’ ebraismo italiano il cui Statuto è attual- mente sottoposto a un riesame e a una revisione è, al tempo stesso, unito e rispettoso delle auto- nomie delle singole Co- munità. Sia l’Unione delle Comunità che ognuna delle Comunità ha i propri organi direttivi e di go- verno. Parallelamente in ambito religioso esistono l’As- semblea e la Consulta rabbinica, organi nazio- nali, ma nel contempo ognuna delle Comunità numericamente più con- sistenti ha il proprio rabbino capo che ne rappre- senta la massima autorità. Vista su- perficial- mente questa si- tuazione potrebbe sembrare incoe- rente ed esposta a conflitti di competenza. In realtà è frutto di una difficile conciliazione di opposte tendenze ed esi- genze: coordinamento e decentramento, unità e autonomia, ortodossia religiosa e libertà di opi- nione e di espressione. Si tratta di un equilibrio in- stabile, ma non precario, frutto della particolare storia dell’ebraismo ita- liano, che da oltre due millenni assicura abilità e prestigio culturale a un gruppo così piccolo ma così intellettualmente vi- vace. –– ú Renzo Gattegna INTERVISTA: MARGHERITA HACK NEL NOME DI ENRICA A colloquio con la grande astrofisica italiana, tra memoria della sua professoressa perseguitata, attualità italiana e politica della ricerca. / P06 Quali rabbini, crisi e speranze DI CORSA VERSO IL FUTURO Per i giovani maturati delle scuole ebraiche italiane è tempo di bilanci. La fine del liceo significa anche un nuovo inizio lontano da istituti in cui, nella maggior parte dei casi, si è trascorsa tutta la vita scolastica. A fare da spartiacque tra passato e futuro, l’esame di maturità. Passata la grande tensione degli scritti e poi dei colloqui, anche ai ragazzi della V A del liceo scientifico della Comunità ebraica di Milano, dopo aver atteso tutti insieme davanti alla scuola, non è ri- masto che correre a vedere i tabelloni con i risultati finali. Tutti ottimi, addi- rittura tre gli studenti premiati con 100/centesimi. La prima di una lunga serie di corse verso il futuro. BeHazlachah, buona fortuna! DOSSIER: LIVORNO Tradizione e futuro Dalle Livornine al Bagitto, dai cabalisti al dottor Kebab, senza dimenticare i giovani, i progetti, la cultura. E la leggendaria rivalità con Pisa, che sconfina anche in campo ebraico. / P15 NEDELIA TEDESCHI La bisnonna del giornalino torna in campo per un nuovo progetto / P38

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T utti noi ebrei abbiamo perIsraele un punto debole, un in-teresse particolare. Nei giornali

cerchiamo le notizie che lo riguardano,c’è chi si sente orgoglioso per i successiottenuti da scienziati israeliani - settepremi Nobel in 62 anni - chi per la famainternazionale di alcuni scrittori, chi peri traguardi raggiunti dall’economia israe-liana - nel 2009 anno di profonda crisiinternazionale cresciuta di 4 punti del

Pil - chi delle forze armate, chi di qualchesquadra sportiva, chi della straordinariarinascita della lingua ebraica. C’è chi inIsraele ha acquistato una seconda casa,chi ha parenti stretti e visita Israele ab-bastanza spesso. Ciascuno secondo ilproprio interesse. Le critiche su qualcheimportante aspetto della vita israeliananon mancano, ma il particolare legamec’è e resta. Ma Israele dista qualche oradi volo. E con gli israeliani in Italia, stu-denti oppure residenti, quali sono i rap-porti delle nostre comunità? E’ la do-

manda che rivolgo a Firenze ad alcunidi loro. Non so se la nostra città è unesempio tipico fra le Comunità in Italia,pur essendo una delle tre mete univer-sitarie principali per studenti israeliani,ma è sicuramente un esempio interes-sante. Chiedo all’Ambasciata israelianaa Roma quanti sono gli studenti che stu-diano in Italia e quanti gli stabili residenti.La risposta è che a Roma conosconosolo coloro che si rivolgono per un mo-tivo o un altro all’Ambasciata, nient’altro.A Firenze il segretario della comunità,

Emanuele Viterbo, mi informa che su907 iscritti, 54 sono nativi di Israele, chel’età della maggioranza di loro è inferioreai 55 anni, che gli studenti di norma nonsi iscrivono e che comunque di israelianinon iscritti e di studenti che non si rivol-gono alla Comunità di loro iniziativa sisa poco o niente. Ma un gruppo di stu-denti israeliani mi sa dire che in città stu-diano non meno di 130 giovani, di cui 25a Medicina, facoltà che ha adottato il cri-terio del numero chiuso, mentre altri sonoiscritti alla facoltà di architettura.

Così vicini così lontani: gli israeliani di casa nostra

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Pagine Ebraiche – mensile di attualità e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - Anno 2 | Redazione: Lungotevere Sanzio 9 – Roma 00153 – [email protected] – www.paginebraiche.it | Direttore responsabile: Guido Vitale Reg. Tribunale di Roma – numero 218/2009 – ISSN 2037-1543 | Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale D.L.353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n.46) Art.1 Comma 1, DCB MILANO | Distribuzione: Pieroni distribuzione - v.le Vittorio Veneto, 28 - 20124 Milano - Tel. +39 02 632461

euro 3,00

Una denuncia formale recapitatanella seconda metà del mese di lu-

glio all'Ufficio rabbinico di Milano e ilgiudizio di un tribunale rabbinico checon ogni probabilità ne sarà la conse-guenza, manifestano un fatto fino a ieridifficilmente concepibile e sembranoriassumere tutti gli elementi della gran-de mutazione che la minoranza ebraicain Italia e con essa il suo rab-binato stanno attraversando.La guida spirituale del mo-vimento ebraico riformatomilanese Lev Chadash affi-liato alla World Unionfor ProgressiveJudaism (una par-ticolarità nel pa-norama ebraico italiano, che fa tra-dizionalmente riferimento al-l'ebraismo ortodosso), accusa unrabbino milanese del movimentochassidico dei Lubavich (un'altra par-ticolarità, presente ormai in Italia daanni, ma proveniente da tradizioni natealtrove) di aver diffuso notizie false einfamanti sulle attività del proprio grup-

po ebraico. A dirimere la controversiae a fare giustizia è chiamato un collegiogiudicante composto di rabbini che siidentificano nella via ortodossa italiana.Al di là del contenuto di questa speci-fica vertenza ci troviamo di fronte allaconferma una conferma della centralitàdel ruolo e dell'autorevolezza del rab-binato italiano. In ogni caso un fattonuovo. Un episodio che si inquadra neldibattito già molto acceso e ricco di

spunti. Un confronto checoncentra grande atten-

zione sulmondo rab-

binico e cheevidenzia una real-

tà nuova, certo me-no stabile, più ricca di

contraddizioni e di rischi. Maanche densa di quelle sfide e di quellepotenzialità che in oltre due millennidi storia la più antica comunità dellaDiaspora è spesso riuscita a tramutare,con equilibrio e creatività in una ricettaoriginale di crescita e di fedeltà alle pro-prie autentiche radici.

SHABAT SHOFETIM 14 AGOSTO 2010 | ROMA 19.55 20.56 | MILANO 19.39 21.19| FIRENZE 20.06 21.10 | VENEZIA 20.06 21.09

il giornale dell’ebraismo italianon. 8 - agosto 2010 | אלול 5770

ú– QUALE EQUILIBRIO

Autonomiee unità

L’ ebraismo italiano ilcui Statuto è attual-

mente sottoposto a unriesame e a una revisioneè, al tempo stesso, unitoe rispettoso delle auto-nomie delle singole Co-munità. Sia l’Unione delleComunità che ognunadelle Comunità ha i propriorgani direttivi e di go-verno.Parallelamente in ambitoreligioso esistono l’As-semblea e la Consultarabbinica, organi nazio-nali, ma nel contempoognuna delle Comunitànumericamente più con-sistenti ha il propriorabbino capo chene rappre-senta lamassimaautorità.Vista su-perficial-mentequesta si-tuazionepotrebbesembrareincoe-renteed esposta aconflitti di competenza.In realtà è frutto di unadifficile conciliazione diopposte tendenze ed esi-genze: coordinamento edecentramento, unità eautonomia, ortodossiareligiosa e libertà di opi-nione e di espressione. Sitratta di un equilibrio in-stabile, ma non precario,frutto della particolarestoria dell’ebraismo ita-liano, che da oltre duemillenni assicura abilità eprestigio culturale a ungruppo così piccolo macosì intellettualmente vi-vace. ––ú

Renzo Gattegna

INTERVISTA: MARGHERITA HACK

NEL NOME DI ENRICAA colloquio con la grande astrofisicaitaliana, tra memoria della suaprofessoressa perseguitata, attualitàitaliana e politica della ricerca. / P06

Quali rabbini, crisi e speranzeDI CORSA VERSO IL FUTURO

Per i giovani maturati delle scuole ebraiche italiane è tempo di bilanci. La finedel liceo significa anche un nuovo inizio lontano da istituti in cui, nella maggiorparte dei casi, si è trascorsa tutta la vita scolastica. A fare da spartiacque trapassato e futuro, l’esame di maturità. Passata la grande tensione degli scrittie poi dei colloqui, anche ai ragazzi della V A del liceo scientifico della Comunitàebraica di Milano, dopo aver atteso tutti insieme davanti alla scuola, non è ri-masto che correre a vedere i tabelloni con i risultati finali. Tutti ottimi, addi-rittura tre gli studenti premiati con 100/centesimi. La prima di una lunga seriedi corse verso il futuro. BeHazlachah, buona fortuna!

DOSSIER: LIVORNO

Tradizione e futuroDalle Livornine al Bagitto, daicabalisti al dottor Kebab, senzadimenticare i giovani, i progetti, la cultura. E la leggendaria rivalitàcon Pisa, che sconfina anche incampo ebraico. / P15

NEDELIA TEDESCHI

La bisnonnadel giornalinotorna in campoper un nuovoprogetto / P38

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraiche

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POLITICA / SOCIETÀ

I l Collegio rabbinico italiano (Cri)è la più importante istituzionein Italia che prepara personale

rabbinico. Fondato nel 1829 a Pado-va, dove ebbe fra i suoi docenti piùfamosi Samuel David Luzzatto, fupoi trasferito a Roma e quindi a Fi-renze (sotto la direzione di ravShmuel Zvi Margulies) per poi tor-nare di nuovo nella Capitale. Nellaseconda metà del ‘900 il Cri è statodiretto da rav Toaff e, negli ultimi an-ni, da rav Laras. Dal 1999 è direttoda rav Riccardo Di Segni e da dueanni le mansioni di coordinatore sonoaffidate a rav Gianfranco Di Segniche in quest’intervista ci illustra i con-tenuti e l’organizzazione di questastorica realtà.

Rav Gianfranco Di Segni, cosa pro-pone il Collegio rabbinico agli stu-denti?Il Cri è diviso in diversi corsi: quellomedio che conduce al titolo di ma-skil, il primo titolo rabbinico e quellosuperiore, che permette il consegui-mento del titolo di chakham (rabbinomaggiore). Vi sono poi il seminarioAlmagià, che ha la funzione di pre-parare insegnanti di materie ebraicheper le scuole elementari; il corso di“bagrut”, un corso innovativo intro-dotto negli ultimi anni che ha lo sco-po di fornire alle ragazze un titoloequivalente a quello di maskil (è co-ordinato dalla morà Rahel Levi). Viè infine il corso di laurea in Studiebraici attualmente coordinato dalprofessor Enzo Campelli.

Cosa si studia nei diversi corsi?

Il corso medio inizia idealmente inconcomitanza con gli studi nella scuo-la media inferiore e dura otto anni,così che insieme alla maturità licealesi possa conseguire anche il titolo dimaskil. Di fatto, le condizioni di vita

e di studio della società ebraica ita-liana sono oggi mutate rispetto al pas-sato e molti allievi iniziano a frequen-tare il Collegio più tardi oppure glistudi per il titolo di maskil si protrag-gono più del minimo. Il programmadi studio per il titolo di maskil prevedeprincipalmente una conoscenza dellaTorah e del resto della Bibbia con icommenti più importanti (Rashì,Ramban, Radaq), della Mishnà conil commento di Bertinoro, della Ha-lakhàh e della Tefillah, nonché co-noscenze di base del Talmud, dellastoria ebraica e del Midrash. Fonda-mentale è l’acquisizione della padro-nanza della lingua ebraica, affinchési possano non solo leggere testi in

ebraico ma anche seguire lezioni inebraico.

Quali sono le materie di studio nel

corso superiore?

Il corso superiore dura almeno quattoanni ma ormai da diverso tempo glianni di studio sono notevolmente au-mentati fino a sei, sette anni e anchepiù. Come anche per gli studi medi,

non è tanto importante il numero dianni di studio quanto l’acquisizionedelle necessarie conoscenze e com-petenze. Nel corso superiore si richie-de una padronanza assoluta del Tal-mud e dei suoi commenti, dei testifondamentali della Halakhah, fra cuiil Mishnè Torà del Maimonide, il BetYosef e lo Shulchan Arukh di RabbiYosef Caro con i relativi apparati disupporto e di commento, e della va-stissima letteratura delle she’elot ut-shuvot (responsi rabbinici), dai tempiantichi fino ai contemporanei. Oltrea ciò, si studiano in modo approfon-dito i libri biblici principali e vari testidella letteratura post biblica, sia dinatura midrashica che filosofica.

Chi sono i docenti?

Oltre ai rabbini italiani e a docenti dilingua ebraica (in genere di madre-lingua), da quasi vent’anni abbiamouna presenza regolare di rabbini edayanim da Israele (dayan è un titolorabbinico superiore a quello di Rav,che abilita alla funzione di “giudice”).In realtà non è una novità: insegnantinon italiani, da Israele o dall’Europa,c’erano anche in passato. La diffe-renza è che mentre prima gli sheli-chim si trasferivano, spesso con la fa-miglia, ora vengono in Italia solo peralcune settimane alternandosi fra diloro o alternando periodi a Romacon periodi in Israele. Il motivo è cheè diventato impossibile, oltre che

Quale dev’essere il ruolo del rabbino all’interno di una Comunità? Come siconcilia il loro essere maestri, giudici e guide spirituali con il travaglio dellasocietà contemporanea sempre più laicizzata? E soprattutto, cosa significaessere rabbini in un mondo ebraico, quale quello italiano, attraversato da unacrisi demografica pressante e da un’identità talvolta incerta? Su questi temiPagine Ebraiche ha dato vita a un dibattito intenso e appassionato che ha vistoscendere in campo voci molto diverse tra loro, talvolta senz’altro contrapposte.Segno di una vitalità che continua a percorrere la minoranza ebraica in Italia

e di un senso di sé che continua a trovare il suo baricentro nella cornice comu-nitaria e nel rapporto con i rabbanim. Gli stessi rabbini sono intervenuti a più riprese nella discussione rivendicandola complessità di un ruolo che non può oggi prescindere dalle sfide poste dallamodernità e si gioca dunque in una dialettica spesso difficile tra i tempi checambiano, le richieste che arrivano dalle Comunità e il rispetto dovuto alla tra-dizione. Un lavoro difficile, dunque, che forse non a caso oggi i più giovani sten-tano a intraprendere. Un lavoro che continua a cambiare assumendo volti nuovi

L a decisione della direzionedi Pagine Ebraiche di dedi-care un approfondimento

sulle relazioni tra le Comunità e i lo-ro rabbini mi è sembrata molto sag-gia. Il problema esiste non da oggi,ma la sua definizione (primo passoverso la soluzione) è stata acceleratadall’avvio della riforma dello Statuto.Nel momento in cui i componentidella commissione sono stati chia-mati a riflettere sulle norme da re-visionare, alcuni hanno ritenuto cheanche la funzione dei rabbanim nelle

Comunità andasse ridefinita.Vorrei appositamente tralasciare lavicenda di Torino (dovrei parlaredella questione con il corollario degliinterventi sul suo nuovo rabbino ca-po) perchè non ne conosco i termini.Quando si avrà il coraggio di renderepubblico il dispositivo della contro-versia per intero, potrò finalmentefarmene un’idea, commentare e va-lutare i fatti e le decisioni. Fino adallora chi ne parla, eccetto i prota-gonisti e il collegio giudicante, lo faa sproposito. Per questo cercherò di

esprimermi lasciando il più possibileda parte questa vicenda, come senon esistesse.La mia convinzione, recente, dopolo scambio di idee che ho avuto pub-blicamente con rav Di Segni sullanewsletter dell’UCEI, è che se nonsepariamo il problema della Rabba-nut intesa come guida spirituale dellacomunità dal problema dei ghiurim,continueremo solo a fare confusione.Perciò faccio queste riflessioni senzapensare ai ghiurim, come se esistesseanche da noi il consenso che c’è nel-

le comunità ebraiche ortodossed’origine siriane sul fatto che non sifanno ghiurim.Fatte queste premesse, mi scusereteil retaggio gramsciano che un cin-quantenne formatosi nella cultura disinistra prevalente in Italia si portadentro, ma il concetto di guida spi-rituale a me fa pensare agli intellet-tuali che guidano le masse.Del resto questa è l’immagine cheho sempre avuto di Moshè Rabbe-nu, il grande intellettuale che fa com-piere al suo popolo una doppia ri-

voluzione, (altro che Marx!). Moshèlibera gli ebrei dalla schiavitù – ri-voluzione sociale – e ne fa un popolo– rivoluzione nazionale. Al tempo delle comunità chiuse, neighetti e negli shtetl, il rabbino eral’intellettuale che conosceva i testi,sapeva interpretarli applicandoli allefattispecie e ne insegnava i contenutiagli altri. Una guida totale. Ancoracinquant’anni fa, la funzione del ravcontinuava ad essere la stessa nellacomunità romana.Rav Di Segni sul numero di maggiodi Pagine Ebraiche sostiene che nellanostra società tecnologica e tecno-cratica il rabbino, per continuare aessere il punto di riferimento pertutti, dovrebbe avere così tante com-petenze specialistiche da risultareimpossibili. Personalmente non cre-do che il ruolo di guida sia perduto

Guide, non tuttologiIl ruolo dei rabbanim nelle nostre comunità dev’essere ripensato

Così nasce un rabbinoIl corso di studi può iniziare già alle medie e prevede una perfetta conoscenza dell’ebraico

Il Collegio rabbinico italiano vanta una lunga tradizione. Una linea ininterrottacollega infatti la sua storia a quella dell’Istituto convitto rabbinico degli Israelitidel regno Lombardo Veneto istituito nel 1829 con sovrana risoluzione del governoaustriaco su proposta delle Comunità israelitiche delle provincie LombardoVenete con sede a Padova dove rimane fino all’Unità d’Italia. La sua fondazione,dopo preparativi e consultazioni durati quasi un decennio, costituisce per l’epocaun evento del tutto eccezionale. Il nuovo istituto sembra contrastare con l’itertradizionale degli studi rabbinici ma si rivela ben presto un’istituzione nuova eoriginale, destinata a riscuotere una fortuna ben superiore ad altre scuole.Il Collegio Rabbinico di Padova ha infatti fra i suoi principali scopi quello di ade-guare il rabbinato italiano all’emancipazione ebraica che si andava lentamenteaffermando. Il bando di concorso istituito per la selezione dei docenti è vintoda Samuel David Luzzatto per l’insegnamento della “materia orale”. La cattedrain “materia tradizionale”, inizialmente non assegnata, è poi affidata a Lelio DellaTorre, Hillel ha-Kohen. Con il regio decreto del 15 febbraio 1891 il re Umberto I,su istanza del cavalier Marco Mortara rabbino maggiore degli ebrei di Mantovae del barone Treves, approva il nuovo Statuto del Collegio rabbinico italianoche, trasferito a Roma, conserva il nome e le attribuzioni del Collegio rabbinicodi Padova. A dirigere la sede romana è il rabbino Mosè Levi Ehrenreich, allievodi Luzzatto. In base all’articolo 3 del suddetto Statuto “scopo del Collegio è di

mantenere una Scuola di studi superiori per l’abilitazione al Magistero rabbinico”.Il corso della scuola è fissato a quattro anni e diviso in sezioni biennali. Peressere ammesso lo studente deve aver conseguito la licenza liceale ed essere inpossesso di un certificato rabbinico che ne attesti un’elementare preparazionereligiosa e conoscenza della lingua ebraica, mentre per il conseguimento dellalaurea dottorale rabbinica si richiede la frequenza del primo biennio della facoltàdi Lettere e filosofia e di averne ottenuto la licenza. I diplomati negli istitutitecnici o magistrali possono conseguire il titolo di rabbino di grado inferiore(l’attuale maskil). Lo statuto disciplina anche il carattere di perfetta autonomiadel Collegio rabbinico, che ha amministrazione distinta ma è soggetto al controllodella presidenza dell’Università israelitica di Roma e di una rappresentanza deisuoi fondatori. I regolamenti del Collegio vengono più volte modificati nel corsodegli anni anche allo scopo di adattarsi alla struttura dei corsi universitariitaliani, sempre tenuta presente come modello organizzativo di riferimento.E’ del 1899 il decreto di approvazione che, mantenendo la struttura prevista dalregio decreto del 1891, trasferisce il Collegio rabbinico a Firenze sotto la direzionedi Samuel Zvi Margulies. La scuola tornerà a Roma nel 1934 dove due anni dopoviene approvato un nuovo regolamento che sarà modificato nel 1957. Un ulterioreregolamento è approvato dal Ministero dell’Università e della ricerca nel luglio2003, a seguito del quale il Miur emette un decreto che equipara la laurea rab-

La gloriosa tradizione della scuola di Roma

ú–– Anselmo CalòConsigliere dell’Unione delle ComunitàEbraiche Italiane

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molto più costoso, trovare qualcunoche si trasferisca a Roma per un annointero. Lo svantaggio, però, è un in-segnamento non continuativo.

Quanti studenti ci sono nei diversi

corsi?

Calcolando tutti gli studenti, dallascuola media fino agli adulti, abbiamoquest’anno 115 allievi. L ‘anno scorsoerano invece 97. Ciò non significa pe-rò che tutti gli allievi seguono tutti icorsi. Molti, soprattutto fra gli adulti(circa una trentina), seguono solo unoo due corsi a settimana.Gli studenti delle medie e del liceo(complessivamente circa 50) seguonola maggior parte delle ore del Colle-gio nella scuola stessa e in orario sco-lastico, in un’aula apposita attigua alTempio della scuola. Questo è un esperimento iniziato al-cuni anni fa, in collaborazione con ilpreside rav Benedetto Carucci-Viterbie rav Ariel Di Porto, che presentavantaggi e svantaggi. Questi ultimi

consistono nel fatto che negli allievisi perde in parte la consapevolezzadi seguire gli studi del collegio, e nonè molto chiara a loro (né ai loro com-pagni) la differenza fra le ore di col-legio e quelle di cultura e lingua ebrai-ca che tutta la scuola segue. I vantaggisono che in questo modo si riesce acoinvolgere molti più studenti diquanti sarebbe possibile se il collegiofosse aperto solo il pomeriggio deigiorni feriali e la mattina della dome-nica, com’era una volta.

Gli studenti sono tutti romani?

La maggior parte sì, ma abbiamo no-ve studenti fuori sede, di origine ro-mana e non, a Milano, Gerusalemme,New York e altre città. Per loro e pergli uditori interessati di altre città ab-biamo attivato un servizio di lezionitrasmesse in tempo reale attraversoskype o fastweb. Numerose lezionisono poi videoregistrate e si possonoscaricare dal sito www.moked.it, pre-via iscrizione gratuita.

Quanti degli allievi vogliono seguire

la carriera rabbinica?

Questo è il punto apparentementedolente, anche se non sorprendente.Oggi al corso superiore abbiamo seistudenti (tra cui uno fuori sede), dicui tre o quattro presumibilmentehanno intenzione di svolgere man-sioni rabbiniche, in una forma o nel-l’altra. Al corso medio, ci sono quattroo cinque allievi interessati a studiareper prendere il titolo di maskil. Fragli studenti del liceo, alcuni allievi so-no promettenti e pensiamo possanoessere stimolati a ultimare gli studi.In complesso, la percentuale degli stu-denti che conseguiranno un titolo rab-binico è inferiore al 10 per cento. Magià i nostri Maestri hanno affermato,commentando il versetto del Kohelet7:28, che su mille allievi che affron-tano gli studi biblici solo cento pro-seguono a studiare la Mishnà e 10 ilTalmud, e soltanto uno arriva alla fineal titolo rabbinico (hora’à). Fra l’altro,queste cifre sono abbastanza vicinealla realtà esemplificata dal Collegiorabbinico italiano. Bisogna capire chela presenza di studenti che studianoper interesse culturale, non finalizzatoa una professione rabbinica, non è uninciampo ma è essenziale. Innanzi tut-to perché lo scopo del Collegio rab-binico è preparare dei “buoni ebrei”,come ha detto al Moked dell’annoscorso il professor Gavriel Levi. E losi diventa studiando e conoscendo lefonti della cultura ebraica, anche senon “si fa il rabbino”. Poi perché bi-

sogna creare un ambiente di studioattorno a coloro che sono intenzionatia intraprendere una carriera rabbinica.E’ impossibile fare lezioni a uno o duestudenti soltanto, almeno per gli allieviin età di scuola media o liceo: lo stu-dio deve essere anche un’occasionedi crescita comune e di scambio diidee. L’UCEI deve quindi rendersiconto che avere un centinaio o piùdi studenti di cui meno di dieci arri-veranno alla fine, è la norma e non èaffatto uno spreco di risorse umaneed economiche.

Quanti studenti si sono laureati nel-

l’ultima decina d’anni?

Dall’inizio della direzione di rav Ric-cardo Di Segni, nel 1999, abbiamoavuto l’assegnazione di otto titoli dimaskil e cinque di Chakham. In me-dia un po’ più di un titolo all’anno.

Sono previsti anche degli stage?

Sì. L’UCEI ha bandito delle borse distudio per studenti del collegio di etàuniversitaria perchè vadano, durantel’anno scolastico, in altre Comunitàd’Italia a svolgere attività varie. L’an-no scorso abbiamo avuto tre borsistimentre quest’anno ne abbiamo unasola. Gli studenti sono stati finoranelle comunità di Pisa, Ancona e Fi-renze: se altre Comunità sono inte-ressate, ci contattino e saremo lietidi offrire collaborazione. Le attivitàdei borsisti sono coordinate da ravRoberto Della Rocca, direttore delDec, e dal suo staff. Inoltre, sia l’anno

scorso che quest’anno abbiamo or-ganizzato un periodo di due settima-ne di studio in yeshivah in Israele percirca dieci studenti.

Il Collegio propone altre attività for-

mative?

Negli ultimi due anni sono stati or-ganizzati otto fra seminari e convegni,con la partecipazione di numerosirabbini provenienti da altre Comunitàd’Italia e d’Europa. Fra gli argomentiaffrontati, temi di tipo storico (il viag-gio di Rabbi Moshè Basola in Israelenel 1500; i rotoli del Mar Morto), ditipo halakhico (le problematiche le-gate alle conversioni, alla kashrut, al-l’osservanza dello Shabbat in una so-cietà moderna) e le feste (Pesach,Rosh ha-Shana). Per l’inizio dell’annoaccademico prossimo abbiamo inprogramma un seminario intensivodi storia con il rav Roberto Bonfil.

Un’ultima domanda: rabbini si nasce

o si diventa?

Tutt’e due. Ci vuole sicuramente unapredisposizione intellettiva e psico-logica. Il “timor del Cielo” non lo siinsegna e neppure si può insegnarela dedizione all’osservanza delle mitz-vot (ma si può insegnare il modo cor-retto di osservarle, distinguendo fraciò che è importante e ciò che è se-condario, fra la legge e l’uso). Ci vuoleanche una buona predisposizione allostudio. Ma poi bisogna impegnarsi eseguire gli studi in maniera continua-tiva e regolare. E si deve infine svol-gere attività pratica sul campo, siache si voglia condurre una Comunitàsia ci si voglia dedicare all’insegna-mento. Esperienze prolungate al-l’estero, prima di tutto in Israele maanche in America o in Europa, sonoimportantissime, perché permettonodi conoscere altra gente e altre pro-blematiche e di impratichirsi dellelingue, sprovincializzando la culturarabbinica italiana.

A chi ci si può rivolgere per avere in-

formazioni sui corsi e le attività del

Collegio rabbinico?

Alla segreteria del collegio, all’indirizzoe mail [email protected].

perchè alla guida si chiede così tantoche nessuno è in grado di farla. Pen-siamo come è cambiato il ruolo disindaco: oggi chi guida una città de-ve sapere di urbanistica, sanità, eco-nomia, diritto, ecologia, sociologia.Ma al leader non si chiede di essereun tuttologo, si chiede di compren-dere le varie problematiche che at-traversano la società di cui è guidae di saperle articolare alla luce dellasua specifica conoscenza: per il sin-daco la politica che è l’arte del rea-lizzare; per il rabbino dell’Halakhah,che è la capacità dell’ebreo di con-tinuare ad essere tale nel tempo. Come si preparano i leader? Unavolta c’erano le scuole di partito (laCamilluccia per i democristiani e leFrattocchie per i comunisti). Noi ab-biamo il Collegio rabbinico: non èuna scuola di partito, non sarà una

vera e propria yeshivah, ma è lostrumento che da quasi 200 anni gliebrei italiani hanno utilizzato perpreparare la propria classe dirigente.E’ il caso di riformarlo? Non sapreidire, ma credo di no.Abbiamo un problema di “vo-cazioni”? Direi di sì, perchè laprofessione rabbinica non ècosi attraente per i giovani. Le Comunità non hanno ri-sorse, e gli stipendinon sono alti, èsolo questo ilproblema? Riten-go di no. C’è anche un problema diruolo, di autorità e autorevolezza,questioni solo in parte risolvibili conil nuovo Statuto. In buona parte di-pendono dalla capacità personale edalla preparazione del singolo. Tor-niamo così al punto di partenza, co-

me preparare i nostri rabbanim? Hoappreso con soddisfazione che trala Commissione per le modifiche al-lo Statuto e l’Assemblea rabbinica èstato avviato un proficuo confronto

e che su alcune proposte di mo-difica che erano controverse,

si va verso un consenso,tuttavia ritengo che tutto

questo non basti. La ridefinizione del ruolo del rabbi-no nelle Comunità è compito diffi-

cile, e per farlo bene dobbiamo di-scutere e riflettere, rabbanim e con-siglieri dell’UCEI e delle Comunità.Ritengo che non possa essere fattonel poco tempo che ci resta, fino alprossimo congresso di dicembre. Nécredo che tutte le problematichepossano essere risolte in due o trearticoli dello Statuto, al contrario sa-rebbe utile che fossero sancite in un

regolamento, soprattutto perquanto attiene alle garanzie lavo-

rative per i rabbini. (Questo potrebbeaiutare a risolvere la questione delle“vocazioni”). I punti su cui l’accordoè stato trovato possono già esseretradotti come modifiche dello Sta-tuto, ma è necessario proseguire nel-la elaborazione di un nuovo rappor-to tra rabbanim e kehillah. Ho già proposto, nelle sedi dove ladiscussione è stata svolta, la mia idea

di una norma statutaria che reinviialla redazione di un regolamento perla Rabbanut da prodursi nel prossi-mo quadriennio. Un regolamentoche si occupi anche della kashrut in-tesa come permessi per i generi ali-mentari prodotti in Italia rilasciatidai nostri ma anche da altri rabbini;che dia funzionalità ai Tribunali rab-binici (a me ancora non è chiaroquanti siano, come si sono formatiecc.); che definisca la funzione e ilcontrollo sulla qualità del Collegiorabbinico e molti altri argomenti checertamente chi è più preparato dime saprà proporre.Rav Somekh sul medesimo numerodi Pagine Ebraiche ha concluso ilsuo intervento con queste parole: “.. se non ci saranno rabbini italianinon ci saranno più ebrei italiani”. Pa-role sagge e perciò condivisibili.

binica alla laurea conseguita nelle altre Università italiane.La maggioranza numerica dei rabbini operanti in Italia si è formata in questiIstituti. A Roma nel 1890 ottennero il titolo di chaver Israele Astrologo, SalomonePerugia, Gustavo Sacerdote e Rubino Spizzichino, mentre Mosè Ascarelli, AngeloFornari, Crescenzo Alatri e Angelo Citone conseguirono il titolo di chakhamgrazie a riconoscimenti in parte onorifici di curricula maturati da tempo. Allascuola di Firenze conseguirono la semichà, fra gli altri, Umberto Cassuto, EliaS. Artom, Gustavo Castelbolognesi, Ermanno Friedenthal, Riccardo Pacifici, Ro-dolfo Campagnano, Raffaello Della Pergola. Sono oltre quaranta i rabbini che hanno conseguito il titolo di rabbino maggioreal Collegio rabbinico di Roma dalla sua nascita nel 1934 ai giorni nostri. Fradi loro ricordiamo Emanuele Artom, Alfredo Ravenna, Sergio Sierra, Nello Pa-voncello, Roberto Bonfil, Luciano Caro, Giuseppe Laras, Abramo Alberto Piattelli,Riccardo Di Segni, Alberto Funaro, Crescenzo Di Castro, Vittorio Della Rocca,Umberto Piperno, Roberto Colombo, Benedetto Carucci Viterbi, Roberto DellaRocca, Gianfranco Di Segni, Alfonso Arbib e molti altri.In parallelo al Collegio rabbinico romano in Italia hanno operato altre strutturedidattiche quali il Collegio Rabbinico di Livorno, la “Scuola” di Ancona e lascuola Margulies Disegni di Torino che deve il suo impulso ai rabbini Dario Di-segni e Sergio Sierra. Tra i rabbini laureati a Livorno ricordiamo Dante Lattes,Alfredo Sabato Toaff ed Elio Toaff. Ad Ancona sono legati i nomi di David Avra-ham Vivanti e Isach Raffaele Tedeschi, mentre alla scuola di Torino, hanno con-seguito il titolo Giuseppe Momigliano e Alberto Somekh.

Lucilla Efrati

e inediti in una progressiva specializzazione dei compiti. Per capirne di piùsiamo andati a vedere come si formano i rabbini italiani, quali sono i corsi distudio, quali le materie e i requisiti richiesti. Per scoprire che il glorioso Collegiorabbinico di Roma registra oggi quasi un centinaio di allievi d’età diverse cheseguono i corsi e che molti altri ne seguono le lezioni sul web: segno tangibiledi un interesse forte e motivato nei confronti delle tematiche ebraiche da partedei giovani. Nelle foto in queste pagine le lezioni al Collegio rabbinico di Romadi rav Gianfranco Di Segni, primo a sinistra nell’immagine a fianco.

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E i vostri rapporti con la Comunità?domando. Brusca e amara è la rispo-sta di Yael, “non ci vogliono” dice.Arbel, attualmente alla fine degli studidi medicina, che da anni insegna an-che al nostro Beth Midrash, spiegache “Firenze è una città notoriamen-te chiusa e per noi stranieri è moltodifficile ambientarsi. Molti di noiavrebbero voluto nella Comunità unpunto di riferimento, contatti con fa-miglie, essere invitati qualche voltail venerdì sera o per le feste”.

óúúúó

Aggiunge Avital “io qualche volta la-voro in Comunità, ma nessuno miha mai invitata a casa. Non si usa”.Ma la realtà a quanto pare è assaipiù complessa. Michal, laureata a Fi-renze in psicologia con marito ar-chitetto israeliano residenti a Firenzedal 1975, mi dice “vedi, il problemaè che per molti israeliani la Comunitàebraica, che come tutte le altre si di-chiara ortodossa, è identificata conquelli che in Israele non fanno ser-vizio militare, che nello Stato pesanomolto, troppo, politicamente e finan-ziariamente ecc. ecc. L’atteggiamentorispecchia in più di un senso i pro-fondi contrasti che dividono in Israe-le osservanti e laici”. Ciò non toglie,mi dicono altri che anche i laici cer-cano un punto di riferimento. Daniela Misul, la precedente presi-dente della Comunità fiorentina, siè rivolta agli iscritti perché “adottino”

un giovane ebreo a Firenze, pensan-do anche agli studenti ebrei nei nu-merosi dipartimenti staccati delle uni-versità americane, forse anche al-l’Università europea che ha nei sob-borghi di Firenze la sua prestigiosasede. “E’ stato un totale fallimento”,ammette. “Mi sembra, riprende il suo

discorso Michal , che nella comunitàitaliana non ci sia oggi, ma anche aimiei tempi di studentessa, la tradi-zione dell’accoglienza, tipica dellecomunità ebraiche nel mondo, cheper lunghi secoli e anche oggi, perun ebreo erano in fondo una secondacasa, un punto di riferimento, una si-

curezza”. Mentre Michal parla miviene in mente un recentissimo epi-sodio. A Shabbat ero al tempio mag-giore di Mosca e dopo il kiddush so-no stata invitata a pranzo. Ero im-barazzata per tanta accoglienza ca-lorosa ma il rav mi ha messo a mioagio dicendo che per Shabbat era un

onore avere un ospite. Chissà, mi do-mando più tardi, se avrebbe detto lostesso se fosse venuto al tempio unnutrito gruppo di turisti, come av-viene talvolta a Firenze?Più ottimista Shulamit, accademicae insegnante al Beth Midrash e mo-glie del rabbino Levi, in contatto con

Noi e loro, così vicini così lontani Tra gli israeliani che vivono in Italia e le Comunità il rapporto è spesso di forte distanza. Con qualche delusione

ú–– Silvia Haia Antonucci

“Con il loro storico e indimenticabileincontro Giovanni Paolo II e l’al-lora rabbino capo di Roma Elio

Toaff riuscirono ad aprire una porta a un dia-logo, chiaro ed irreversibile, non solo fra uo-mini di religione cattolica ed ebraica, ma fratutte le religioni monoteistiche che voglionocollaborare e vivere in un mondo di rispettoe serenità, nel segno della civiltà, della pacecomune”. Con queste parole il rabbino capodella Comunità ebraica di Bologna, AlbertoAvraham Sermoneta, ha aperto il suo inter-vento durante l’incontro “Cercare ciò che uni-sce. I dialoghi della cattedra Unesco sul plu-ralismo religioso e la pace” svoltosi all’Archi-ginnasio di Bologna alla presenza del cardinalearcivescovo Carlo Caffarra. Il rabbino ha ana-lizzato il Salmo 150, mentre il Cardinale haapprofondito i significati del Salmo 1. Hanno partecipato, in rappresentanza degli

enti organizzatori, il rettore dell’Università diBologna Ivano Dionigi, il presidente della Co-munità ebraica di Bologna Guido Ottolenghie Alberto Melloni della Fondazione per lescienze religiose Giovanni XXIII. Un eventoallietato da salmodie ebraiche (Aldo Spizzi-chino ed Alberto Di Capua), gregoriane (NinoAlbarosa) e da letture di testi sacri (RaffaellaLebboroni). Per fare il punto sul dialogo ebraico-cristianodal punto di vista di una Comunità piccolama molto attiva culturalmente, Pagine Ebrai-che ha incontrato rav Alberto Sermoneta. Da13 anni rabbino capo della Comunità ebraicadi Bologna, sposato da 26 anni, tre figli, dasempre impegnato nel dialogo con lo scopodi combattere antisemitismo e pregiudizi.

Quali sono state le novità apportate al rap-

porto tra ebrei e cristiani a seguito dell’in-

contro con l’Arcivescovo Carlo Caffarra?

Innanzitutto è stato molto importante il fatto

che abbia partecipato all’organizzazione ditale colloquio l’Università di Bologna, perchéè stato accolto il messaggio di fare qualcosaper il dialogo in un campo neutro. E’, inoltreda sottolineare che l’Università di Bologna,precisamente il suo Rettorato e il Senato ac-cademico, non ha appoggiato il boicottaggiocontro i professori israeliani attuato da varicolleghi italiane. Con il cardinale si è svolto un confronto po-sitivo. E’ stato già vescovo a Ferrara, è amicodi rav Luciano Caro, si tratta, quindi, di unrapporto di amicizia con il popolo ebraicoche continua nel tempo. Vi è anche una col-laborazione proficua con monsignor StefanoOttani, presidente del Tribunale ecclesiastico,con il quale la Comunità ebraica di Bolognaorganizza molti eventi che riguardano il con-fronto tra le religioni. E’ sempre presente perla Giornata della Memoria, o Yom haAtz-maut, l’anniversario dell’indipendenza delloStato di Israele”.

A che punto è il dialogo ebraico-cristiano

alla luce dei gesti compiuti da papa Bene-

detto XVI: la visita alla sinagoga di Roma ma

anche, ad esempio, il ripristino della preghie-

ra della conversione per gli ebrei il venerdì

santo)?

Nel dialogo ci vogliono rispetto ed educazio-ne, ma allo stesso tempo bisogna affrontaretutti gli argomenti. Così come hanno fatto ilpresidente della Comunità ebraica di RomaRiccardo Pacifici e il rav Riccardo Di Segnidurante l’incontro con Benedetto XVI. Se esi-ste la volontà, il dialogo va avanti, ma essonon deve essere a singhiozzo, l’importante ècontinuare sempre a confrontarsi. Molto spes-so l’atto di bloccare il dialogo viene strumen-talizzato a nostro sfavore e questo è da evitare.Esistono rischi e pericoli nel dialogo, ma bi-sogna sempre portarlo avanti, anche se concautela.

Com’è stata vissuta dalla Comunità ebraica

ú– A COLLOQUIO CON IL RABBINO CAPO DI BOLOGNA AVRAHAM SERMONETA

Buona volontà e tanta pazienza per il dialogo tra le religioni

u ISRAELIANI DI FIRENZE - A sinistraYael racconta la storia della Comu-nità ebraica fiorentina a un gruppodi turisti americani e israeliani in vi-sita al Tempio di via Farini. SopraArbel prepara una lezione di PirkèAvot per i suoi studenti del Beth Mi-drash, sotto foto di gruppo in unapausa dallo studio. Molti studentiisraeliani lamentano un certo di-stacco da parte della Comunità.

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giovani israeliani. “E’ vero - dice -che molti di loro vedono nella Co-munità unicamente la funzione reli-giosa, ma spesso con l’andar del tem-po l’avversità si attenua e in alcunisi sviluppa un interesse per la tradi-zione e la cultura ebraica”. Raya,plurilaureata all’università di Firenze,madre di uno studente universitario,parla delle grandi possibilità di arric-chimento culturale che potrebberodare contatti duraturi fra giovaniisraeliani e le Comunità. Gli studenti,dice, potrebbero imparare qualchecosa dell’ebraismo. Molti, aggiunge,sono totalmente ignoranti nella ma-teria. Allo stesso tempo le Comunitàavrebbero il beneficio del contattocon le energie e l’ottimismo tipici deigiovani israeliani, che spesso hannouna particolare e interessante espe-rienza di vita”. “Allo stesso tempo -dice Raya -bisogna accettare la realtàdi una città, Firenze, molto chiusaverso ebrei e non”. Lo confermo an-ch’io nonostante i lunghissimi annidi residenza. Michal non è d’accordo,per lei gli ebrei, dice, dovrebbero es-sere un po’ diversi proprio perchésono una piccolissima minoranza inun mondo cattolico.

óúúúó

Cosa proponete voi?, ritorno a chie-dere agli studenti. I siti delle Comu-nità, rispondono, parlano agli iscrittie spesso ai turisti. Sarebbe invece ilcaso, almeno nelle importanti sediuniversitarie, di dare molta più infor-mazione rivolta agli studenti. NelleComunità ci vorrebbe un punto diriferimento per noi, dicono: sapereche chi viene può lasciare un recapitoe trovare recapiti di altri studenti.“Spesso - dice Arbel - non sappiamonemmeno chi studia a Firenze, perpassare un po’ di tempo insieme, ma-

gari le feste o Yom ha-Atzmaut”. E icontatti con i giovani della Comunità?Pochi o nulli, è la risposta. Raya, maanche la stessa Daniela Misul, affer-mano che per questi contatti non c’èmolto interesse da parte di ambeduei gruppi. Nelle università l’aria chetira è spesso anti israeliana, ma i gio-vani israeliani non si sentono spal-leggiati dai giovani ebrei, se ci sono.E’ Raya a ripetere che entrambe leparte, gli israeliani e la Comunità,possono trarre moltissimo vantaggioda aperture reciproche, da una manotesa. Resta la questione di come rag-giungere questa reciproca apertura.

óúúúó

Michal, Raya e gli studenti con i qualiho parlato hanno qualche contattocon la Comunità, come tutti gli israe-liani che frequentano il Tempio, chenon sono molti. Ci sono anche al-cune giovani coppie israeliane chemandano i loro bimbi alla scuola ma-terna della comunità, ma altri e sonomolti, sono lontani. “Non mi interessa il contatti con laComunità”, dice Eitan, primo trom-bone dell’orchestra filarmonica di Fi-renze, memore di qualche vecchiadelusione, e così pure Ruth, profes-sore al conservatorio cittadino. Ri-prendo in mano la lista degli iscrittia Firenze, nati in Israele, molti deiquali non frequentano, ma si sentonoin qualche modo obbligati per unsenso di vaga identità. A Yom Kip-pur, specialmente per Neilah fra lafolla di giovani ebrei, molti già lontanidal mondo ebraico, numerosissimigli israeliani. E’ un aspetto positivo,certo, ma sottolinea la profonditàdella crisi delle nostre Comunità maanche le difficoltà dei rapporti congli israeliani.

Hulda Brawer Liberanome

di Bologna la visita del papa Benedetto XVI

a Roma?

La Comunità ebraica di Bologna ha scelto dinon partecipare alla visita del papa nella si-nagoga Maggiore di Roma. Non si è trattatodi un gesto contro il rabbino capo di Roma,che ha avuto invece il massimo appoggio, an-che da parte mia, ma della posizione ufficialedella Comunità nei confronti del Papa perquanto aveva affermato nei giorni precedenti.E’ stato un segnale piccolo ma significativo.

Sono state infatti pochissime le piccole Co-munità presenti all’incontro romano.

In generale, com’è percepito il dialogo ebrai-

co-cristiano nella sua Comunità?

“A Bologna non è mai esistita un’associazionedi amicizia ebraico-cristiana. Finora c’eranostati solo incontri organizzati dalla Comunitàebraica locale o dalle parrocchie. Adesso peròqualcosa sta cambiando e il dialogo che si èsvolto all’Archiginnasio, che è stato il primo

tra l’arcivescovo e me in un campo neutro co-me l’università, ne è un esempio. Il pubblico,durante gli incontri che parlano di dialogo, èsempre a maggioranza cristiana.

E’ stato ribadito più volte che l’ebraismo

potrebbe vivere senza cristianesimo, ma il

cristianesimo non potrebbe esistere senza

l’ebraismo: quale pensa possa essere il con-

tributo ebraico al dialogo con il cristiane-

simo?

Il contributo che l’ebraismo può dare al dia-logo ebraico-cristiano è fondamentale dal pun-to di vista culturale. Esiste ancora gente chenon sa neanche che Gesù era ebreo. Perchétali incontri siano fruttuosi, è necessario chele persone che vi partecipano siano preparate,oltre che culturalmente, anche a confrontarsi.

Nella sua storia la Comunità ebraica di Bolo-

gna ha vissuto momenti drammatici come

il caso Mortara. In che modo ha vissuto la

beatificazione di Pio IX, il papa che portò via

il piccolo Edgardo Mortara ai genitori?

Ricordo che papa Pio IX fu beatificato durantel’anno in cui si è celebrata la prima Giornataeuropea della cultura ebraica. Certamente daparte ebraica c’è stato un risentimento, ma

sottolineo con forza che tale beatificazione èun problema che riguarda solo i cristiani. Non è affar nostro se l’autorità cattolica bea-tifica una persona che ha compiuto atti tut-t’altro che “santi”. Si è trattato comunque diun evento che sicuramente ha colpito la Co-munità di Bologna, anche perché tuttora vi-vono nella città dei discendenti di Edgardo.

Come sono oggi i rapporti a Bologna tra ebrei

e cristiani nella vita di tutti i giorni? Si tratta

di una convivenza tranquilla o è a conoscenza

di casi in cui vi sono stati problemi?

Non c’è nessun grosso problema, ma quelloche preoccupa è l’ignoranza sull’ebraismo, so-prattutto nelle scuole, anche se adesso la si-tuazione sta cambiando.

Come vede il futuro del dialogo ebraico-cri-

stiano?

E’ necessaria tanta buona volontà da partecristiana e tanta pazienza da parte ebraica.Una certa permalosità ebraica su argomentiche riguardano, ad esempio, l’antisemitismo,è dovuta ad una storia millenaria di persecu-zioni che ha un grande peso, ma bisogna sem-pre sottolineare che gli ebrei sono il popolodel ricordo, non della vendetta.

u Due momenti dell’iniziativa organizzata a Bologna dalla cattedra Unesco sul pluralismo religioso

e la pace. All’incontro hanno preso parte il rav Avraham Sermoneta e il cardinale Carlo Caffarra.

Uno dei grandi progetti di Daniela Di Castro, la straordinaria direttice del Museo ebraico di

Roma che ci ha lasciati prematuramente, è stato quello di aprire i tesori della cultura ebraica

a tutti, anche ai più piccini. Delle decine di migliaia di visitatori che visitano ogni anno il museo

romano, molti sono giovanissimi che si avvicinano per la prima volta alla cultura ebraica. Ma la

possibilità di sviluppare iniziative specifiche per i bambini sulla strada aperta e indicata da Da-

niela richiede ancora molto impegno e coraggio. Per questo il Presidente della Comunità ebraica

di Roma Riccardo Pacifici ha assicurato che l’impegno perché il museo sia sempre di più luogo di

incontro di amicizia e di vita, e non solo di conservazione, continuerà con coerenza e intensità.

Un museo per i più piccoli

ENEA

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POLITICA / SOCIETÀ

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraichePOLITICA / SOCIETÀ

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ú–– Daniela Gross

A segnare la svolta fu la suaprofessoressa di scienze, ca-pace al tempo stesso d’in-

dirizzarne il talento e di regalarle, an-cora ragazzina, una chiara coscienzapolitica. Margherita Hack, astrofisicae divulgatrice notissima, incontrò En-rica Calabresi sui banchi del liceo gin-nasio Galilei di Firenze. “Una donnamolto chiusa e riservata”, ricorda. Madietro quei silenzi la professoressaCalabresi celava una carriera straor-dinaria e una storia travagliata cheben presto si sarebbe volta in trage-dia.Figlia di una famiglia della borghesiaebraica ferrarese, si era laureata inscienze per poi assumere la libera do-

cenza di zoologia e dedicarsialla Società entomo-

logica italiana, dicui fu a lungo

segretario, e al-le collezionidel Museozoologicodella Spe-cola. Inparallelo,

una mole diprestigiose pub-

blicazioni sui rettilie gli anfibi africani e poi

gli insetti e i coleotteri di cui descrivenumerose nuove specie. In anni chevedono le donne muovere i primipassi nel mondo accademico, quelladi Enrica è una storia di successo. Atroncarla, all’inizio degli anni Trenta,

è la politica razziale del regime fasci-sta che la costringe a lasciare gli in-carichi universitari.L’iscrizione al Partito nazionale fa-scista le consente di insegnare allemedie e di assumere, per un brevelasso di tempo la direzione dell’Isti-

tuto di entomologia agraria all’Uni-versità di Pisa mentre continua a farelezione al liceo Galilei. Avviene alloral’incontro con la giovanissima Mar-gherita che ancor oggi, a 88 anni, ri-corda con affetto e commozione lasua taciturna docente.

Professoressa Hack, cosa significò

per lei l’incontro con Enrica Calabre-

si?

L’ho vista cacciare dalla scuola daun giorno all’altro a causa delle leggirazziali. Questo mi ha aperto gli oc-chi su cosa può fare una dittatura e

ha segnato in me una frattura: è allorache sono diventata antifascista. Inquel periodo la incontrai per strada.Una figura esile, vestita in modo di-messo, che camminava rasente i mu-ri, diretta probabilmente a quella cheora ho saputo essere la sua casa, in

ú– NEL SUO ULTIMO LIBRO UN’ANALISI DELLO STATO DI SALUTE DELL’UNIVERSITA’

I giovani tagliati fuori dalla ricerca

F in da studentessa ha amatocon trasporto il lavoro di ri-cerca. Tanto che oggi il suo

grande cruccio riguarda proprio lostato di salute della scienza in Italiae soprattutto il destino dei giovani,costretti a un’alternativa impossibilefra il precariato a vita nei nostri la-boratori e la fuga all’estero. Alle condizioni della ricerca e del-l’università Margherita Hack ha de-dicato il suo ultimo libro, edito daRizzoli, dall’emblematico titolo Li-bera scienza in libero stato. Nellesue pagine la signora dell’astrofisicaanalizza le riforme succedutesi inquesti anni, denuncia gli errori ri-correnti e avanza alcune proposte.Argomenti che calamitano la suaattenzione anche nel corso di que-sta lunga intervista.Più di due ore a conversare, nellasua bella casa di Trieste affacciatasul verde e traboccante di libri (“ne

ricevo in regalo tantissimi”) in undialogo serrato, cui assiste anche ildirettore di Pagine Ebraiche GuidoVitale, che spazia dalla scienza al-l’etica senza trascurare la memoriadel passato.

óúúúó

Mentre i magnifici gatti, da sempresua grande passione, circolano tran-quilli tra le gambe dei visitatori esui ripiani della cucina, la profes-soressa Hack si accalora al pensierodelle nuove generazioni che rischia-no di venire privati della libertà diricercare. “In Italia si fa buona ri-cerca – dice – il problema è chemancano i posti per i ricercatori eper i giovani non c’è futuro se nonquello del precariato. Ma non si può vivere per venti otrent’anni di contratti a termine.

Eppure questo accade. Propriodi recente ho conosciuto una ri-cercatrice che è andata in pen-sione da precaria: una cosadavvero assurda”. La soluzio-ne? “La prima cosa da fare sa-rebbe riaprire i concorsi daricercatore. Poi il dottorato di ricercadovrebbe diventare unacondizione indispensabileper la carriera e non unasorta di titolo onorificocom’è oggi. Andrebberoaboliti gli sprechi e in-fine si dovrebbe appli-care in modo finalmenteserio quella valutazione dicui tanto si parla. Le leggici sono: è sufficiente metterlein pratica. Proviamo a chieder-ci perché, ad esempio, nessunoviene mai mandato via nel perio-do di prova”.

TRA SCIENZA, DIVULGAZIONE E UNA GRAN PASSIONE PER LA POLITICAInsieme a Rita Levi Montalcini è la scienziata più celebre d’Italia. Per la sua attività scientificae soprattutto per l’intensa attività di divulgatrice che da decenni la vede raccontare le cose

della scienza con entusiasmo e una rara capacità di catturare l’attenzione dell’uditorio.Nata a Firenze, di cui ancor oggi, malgrado mezzo secolo di vita a Trieste, conserva

l’ineffabile parlata, Margherita Hack ha 88 anni portati con serena disinvoltura. E’arrivata nel capoluogo giuliano nel 1964 come professore di astronomia, dopo

la laurea in fisica con tesi in astrofisica a Firenze. Ha retto per quasitrent’anni il locale Osservatorio astronomico, ha lavorato in molti

osservatori europei e statunitensi e ha fatto parte di gruppi di lavorodell’Agenzia spaziale europea e della Nasa. All’attività scientifica

affianca da sempre un notevole impegno in campo sociale epolitico. Dal 2002 è infatti presidente onorario

dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti edal 2005 fa parte dell’associazione Luca

Coscioni per la libertà di ricerca scientifica.Iscritta in passato al Partito radicale, si è

candidata più volte con i Comunistiitaliani. Eletta alla Camera nel

2006, ha rinunciato al seggioper continuare a dedicarsi atempo pieno all’astronomia.

Ho scelto la libertà nel nome di Enrica A colloquio con l’astrofisica Margherita Hack, tra memoria della sua professoressa perseguitata e attualità italiana

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010

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POLITICA / SOCIETÀ

via del Proconsolo. Mi parve un ani-male braccato.

Riuscì a parlarle?

Avrei voluto dirle la mia solidarietàper quel che le stava accadendo, manon ne ebbi il coraggio. Non me losono mai perdonato. Anni dopo, auna trasmissione di Piero Angela sul-la Specola di Firenze, venni a sapereche negli anni successivi aveva inse-gnato agli alunni ebrei espulsi dagliistituti pubblici nella scuola ebraicadi via Farini. E che nel 1944 era stataarrestata e portata a Santa Verdiana,un ex convento trasformato in car-cere. Si sottrasse alla deportazionecon il suicidio. Forse aveva perso lavoglia di combattere, forse l’entusia-smo che l’aveva sostenuta grazie al-l’insegnamento si era spento.

L’antifascismo era un insegnamento

per lei familiare …

Sono nata in una famiglia di antifa-scisti. Mamma e papà erano teosofie vegetariani, a casa si discuteva as-

sieme di politicae d’attualità. Siaveva pena degliamici ebrei col-piti dalla politicadi discrimina-zione del regi-me e per qual-che tempo funascosta a casanostra un’ami-ca, Amelia De-benedetti. Il fi-glio è diventato

fisico e credo oggi lavori negli StatiUniti. Ma non si deve dimenticareche in quegli anni noi ragazzi ci di-vertivamo ad andare alle adunate, agiocare ai soldati, a tifare per l’Italia.Personalmente sono diventata anti-

fascista per le leggi razziali.

E’ vegetariana anche lei?

In vita mia non ho mai mangiato car-ne. E’ un gesto distruttivo, barbaro einquinante. Amo gli animali e man-giarne mi farebbe soffrire.

Lei si è spesso battuta per la libertà

della scienza, un elemento cardine

della cultura ebraica. Perché è ancora

così difficile conciliare scienza e re-

ligione?

Credo nella libertà in generale. Perme, atea, le religioni dovrebbero af-fratellare anche se finora non è statoaffatto così. In Italia in particolaredobbiamo fare i conti con il Vati-cano che non mette bocca sullescienze non biologiche, ma su quel-le biologiche cerca continuamented’interferire. Basti pensare a quantoè accaduto di recente con la ricercasulle cellule staminali, la legge sullaprocreazione assistita o al dibattito

sull’eutanasia e l’accanimento tera-peutico.

La scienza fa paura?

Bloccare la ricerca è cosa da irre-sponsabili. Basti pensare alle prospet-tive di grande interesse aperte dallestaminali. La realtà è che nel nostro

Paese l’interferenza nella vita privatadelle persone è ormai diventata in-tollerabile. Un esempio eclatante, fuo-ri del campo scientifico, riguarda leunioni di fatto.

E’ mai stata in Israele?

Non ne ho mai avuto l’occasione.Ma conosco tanti scienziati ebrei eso che lì il livello della ricerca è moltoelevato.

Se ripensa agli anni della sua giovi-

nezza, com’è cambiata l’Italia?

La nostra società ha fatto grandi pro-gressi, anche nel costume. Penso adesempio al ruolo femminile. Questoè stato uno degli aspetti positivi delfascismo, che ha aiutato a tirare ledonne fuori di casa. Ma ora stiamoregredendo. Oggi la classe politica mi sembra to-talmente ignorante, al punto che micapita di rimpiangere la Dc e i co-munisti. Allora, pur con tutti i difetti,c’erano degli ideali. Adesso trionfanoi piccoli interessi e la corruzione. Sia-mo un Paese che non ha rispetto del-le leggi né il profondo senso delloStato che si riscontra in altre realtà.Viaggio molto in Italia e la gente èangosciata: poi però si vota e noncambia nulla.

Un capitolo importante della sua vita

riguarda l’impegno politico. Anche di

recente si è candidata alle regionali

in Lombardia con le liste della Fede-

razione di sinistra. Perché questa

scelta?

Non certo per essere eletta. L’ho fattoperché tanti giovani mi conoscono,mi seguono. Chi ha una certa noto-rietà deve dare l’esempio e metterein pratica ciò che pensa: questo puòaprire la strada a tanta gente onesta.

C’è una relazione tra il razionalismo

dell’astrofisica e l’impegno sociale?

Direi di no. Ho conosciuto tantiscienziati che erano interessati e tantiche non lo erano per nulla.

E il rapporto con la religione?

Vi sono scienziati profondamentecredenti, penso ad esempio a LivioGratton, uno dei maggiori astronomiitaliani, che era un cattolico osser-vante. Ma è più più frequente che gliscienziati siano dei laici. In ogni casoè un elemento che non influisce sulvalore scientifico.

Ha mai provato la tentazione della

religione?

Sono atea da sempre. Penso che Diosia un’invenzione per spiegare ciòche la scienza non riesce a chiariree che, nella speranza di un aldilà, rap-presenta il desiderio di non morire.L’etica dell’ateo è “ama il prossimotuo”. Noi atei crediamo di dover agiresecondo coscienza in modo disinte-ressato: per un principio morale, nonperché aspettiamo una ricompensafutura.

E la morte?

Come sostengono gli epicurei, finchésiamo vivi la morte non c’è. E doponon c’è più la vita…

ú– DONNE DA VICINO

Noa Achinoam Nini - per tutti Noa - èmolto popolare in Italia. Poche noti-zie per rinfrescare la memoria escendere, poi, su un piano più in-timo e meno noto.Figlia di genitori israeliani di na-scita, yemeniti di origine, giungenegli Stati Uniti all’età di un anno;studia, vive e compie le prime espe-rienze artistiche a New York. A 17anni il richiamo d’Israele è per leitroppo forte, torna così in patria pervestire la divisa di Tzahal e prestareil servizio militare. Definisce suomarito, il medico Asher Barak,“l’angelo dello stetoscopio rosa”, èsplendida mamma di tre figli di cuiil minore ha pochi mesi. Vive aqualche chilometro da Tel Aviv, perlei insostituibile. La sua carriera ècostellata di album e spettacoli digrande successo. Dal 2003 ha ag-giunto alla sua band i napoletanidel Solis String Quartet, in omag-gio alla sua passione per la musicanapoletana.

L’ho incontrata prima di due con-certi: a Gerusalemme e Casale Mon-ferrato. In entrambi i casi ha volutoincontrare ed abbracciare congrande affetto e simpatia i suoi spet-tatori privilegiati: i bambini cere-brolesi. Nel backstage si è sedutaaccanto a loro, ha intonato le suecanzoni più note, coinvolgendoli,sorridente e disponibile, in un coroimprovvisato, straripante di ge-nuina umanità. A Gerusalemmedue giovani ebrei italiani in viaggiodi nozze non hanno voluto perderelo spettacolo, un anno dopo alla cop-pia è nata una bimba cui è statodato il nome Noa. A Casale, a fineserata ha chiesto di visitare la Sina-goga degli argenti, accompagnatadal suo chitarrista Gil Dor ha so-stato a lungo dietro le grate del ma-troneo, da lì, ha intonato Eye in thesky e La vita è bella. Sul libro degliospiti della Comunità ha scritto“cantare per me è come pregare:grazie alla mia voce riesco ad espri-mete la mia identità culturale”.Davanti all’anonimo portone delTempio ad attenderla un gruppettodi fan, quasi intimidita ha fatto lorodono, prima di accomiatarsi, dellenote di Shalom, un saluto ed unaugurio.

ú–– Claudia De Benedettivicepresidentedell’Unione delle ComunitàEbraiche Italiane

u Margherita Hack nella sua casa di Trieste risponde alle domande di Daniela

Gross mentre sfoglia Pagine Ebraiche assieme a Guido Vitale.

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraicheERETZ

C he cosa hanno in comu-ne una nonnina beduina,un quartetto d’archi tra-

piantato dalla Mitteleuropa, unenigmista di origine italiana eun’allegra famiglia di ortodossi chesi affrettano a concludere le com-pere prima dello Shabbat? La ri-sposta la si trova in una piccolavia nascosta nel centro di Tel Aviv. Per gran parte della settimana Na-halat Binyamin è una via tranquilla,a differenza delle vicine (nonchépiù celebri) Allenby e Shenkin. Maper due giorni su sette, la stradaprende vita. Si illumina di suoni,magie, voci e colori. Ogni martedì e venerdì infatti, trale undici del mattino e le cinquedel pomeriggio, Nahalat Byniaminospita un coloratissimo mercatodell’artigianato, che attira artisti,musicisti, creativi e tipi eccentricigiunti da ogni dove. Oltre a offrire

un’ottima opportunità di svago perle famiglie che si trasferiscono inIsraele per l’estate e che hanno ilcoraggio di sfidare il caldo torrido,la piccola fiera dell’artigianato ha

prezzi (relativamente) contenuti,almeno se paragonati a simili ini-ziative italiane. In vendita ci sonogioielli, quadri, vestiti, mobili e ac-cessori per la casa, rompicapo,

nonché oggetti curiosi di ogni ge-nere e forma. Non mancano interessanti opzionidi ristoro – spesso si trova ancheuna donna beduina che prepara lepitot tradizionali al momento – edi intrattenimento: quasi sempreci sono gruppi e gruppetti cheprovvedono a fornire una colonnasonora all’evento. Per il turista ebreo, possono essereinteressanti le molte bancarelle cheespongono oggetti di Judaica:channukkiot, mezuzot, hamsot,con design colorati e spesso moltooriginali. Ma tutto sommato quelloche rende speciale questo eventonon è la merce esposta, né la mu-sica, né il buon cibo: sono le mille“facce da Tel Aviv”, così diversetra loro e tutte con una storia daraccontare, che hanno fatto di que-sta città un luogo unico.

a.m.

IL COMMENTOQualcuno noterà l’ironia della notizia: loStato ebraico che rischia di trovarsi a corto dimedici. In barba allo stereotipo della yiddishemame che sogna un figlio dottore (o, in alter-nativa, una figlia sposata a un medico). Peròc’è da crederci, se è vero che il capo economi-sta del ministero della Sanità, Tuvia Horev,ha stilato un rapporto di 64 pagine sulla ca-renza di personale sanitario. Secondo le va-lutazioni di Horev, che ha lavorato alla

ricerca per circa due anni, non ci sono abba-stanza giovani israeliani che studiano medi-cina e il settore rischia una grave crisi dimancanza di personale intorno al 2020. Checosa si può fare per scongiurare la crisi? Inuna lettera indirizzata al viceministro del-l’Economia Yaacov Litzman, lo stesso Horevpropone alcune contromisure da adottare: in-coraggiare maggiormente l’aliyah di medici,preferibilmente da nazioni sviluppate, e au-mentare il numero di israeliani che studianoMedicina all’estero.

Ora, senza nulla togliere alla competenza ealla buona volontà dell’economista Horev,questa ultima proposta lascia spazio a moltidubbi. E’ infatti cosa nota che sono già mol-tissimi gli israeliani che studiano medicinaall’estero. Questo perché il sistema di am-missione alle università israeliane, che è ta-rato sulle facoltà molto più che sui singoliatenei, è estremamente selettivo per gli aspi-ranti medici. Detto brutalmente: essere am-messi a Medicina è quasi impossibile.Risultato? Molti ragazzi, pure svegli e meri-

tevoli, vanno a studiare Medicina all’estero,dove l’ammissione è meno ostica. Ma, se èvero che Israele si prepara ad affrontare unacarenza nel personale sanitario, il problema èun altro: siamo sicuri che incoraggiare i gio-vani israeliani a studiare all’estero sia ilmodo migliore per sfornare nuovi medici?Non sarebbe più sensato rendere un po’meno competitivo il sistema di ammissionealle università? Per paradosso, questo per-metterebbe alle autorità israeliane di mante-nere un maggiore controllo sugli standard.

ROTHSCHILD BOULEVARD

ANNA MOMIGLIANO

CERCANSI MEDICI DISPERATAMENTE

Facce da NahalatUn coloratissimo mercato degli artisti per raccontare i mille volti di Tel Aviv

uale è oggi il compito delle organizza-zioni degli ebrei italiani in Israele? Han-no ancora una ragione di essere o, per

qualche motivo, hanno ormai esaurito la loromansione “storica”? Non stiamo parlando, ba-date bene, di organizzazioni come i Com.It.Eso i Patronati, che rendono il rapporto fra i cit-tadini e le istituzioni statali più semplice e direttoin entrambe le direzioni e sembra, a me comea molti altri, che stiano svolgendo il loro com-pito in maniera egregia.Quelle su cui mi pongo oggi la domanda sonole organizzazioni “storiche”, l’Irgun Olei Italia(ovvero l’organizzazione degli immigrati dal-

l’Italia) e la Hevrat Yehude’ Italia (ossia la co-munità degli ebrei italiani). Le due organizza-zioni sono nate quasi contemporaneamente inseguito alle prime aliyot dall Italia dopo le leggirazziali del 1938. L’Irgun era come tutte le altreorganizzazioni di immigrati in Israele. Mentrela Hevrà si distingueva perché era a caratterepiù religioso ed era centralizzata a Gerusalemmeanzivché a Tel Aviv. Tuttavia in questi ultimi anni gli entusiasmidopo un po’ si sono attenuati, i problemi risoltine hanno messo in rilievo di nuovi. Questo di-pende forse dal fatto che queste istituzioni han-no esaurito il loro compito storico e gli scopi

sono stati raggiunti così bene che tutti gli ital-kim, vecchi e nuovi, sono integrati nella societàcircostante e non hanno più bisogno di orga-nizzazioni specifiche? O tutto dipende dal fattoche bisogna ridefinire obiettivi e metodi? O forseè dovuto al ritardo con cui ci si riesce ad ade-guare e ad aggiornare? O forse c’è bisogno, co-me quindici anni fa, di un nuovo “trigger” cherisvegli responsabilità e entusiasmi e la vogliadi darsi da fare? La domanda resta aperta. Conla speranza che possano aprire un dibattito, chequalcuno esca dal letargo e sappia raccoglierela sfida.

c.d.o.

Italiani di Israele, unitevi (meglio di ora)

ú– KOL HA-ITALKIM

Il periodo storico è quello del Mandatosulla Palestina, affidato dalla Società delleNazioni alla Gran Bretagna con l’espli-cito impegno a creare in quella regioneun focolare nazionale per gli ebrei. Get-tiamo uno sguardo sul periodo conclusivodi quel mandato, tra la fine della Secondaguerra mondiale e la decisione del go-verno inglese di demandare alla appenacostituita Onu una decisione definitivasul destino della Palestina. Le buste qui

riprodotte sono statespedite tra il 1945 edil 1946 da militari delReggimento Palesti-nese a quelli che pre-sumibilmente eranole loro famiglie; esse

recano gli annulli della censura britan-nica e l’indicazione che le lettere sonoscritte in ebraico. La quarta busta haun’affrancatura egiziana con la sovra-stampa “Palestina”.Quello fu, da un punto di vista politico, ilperiodo più delicato e critico per trovareuna soluzione soddisfacente per tutti. Ilterritorio della cosiddetta Palestina sto-rica era vasto e l’Impero Ottomano viaveva regnato avendo come referenti lo-cali le tribù arabe, sempre in lotta fraloro. La Francia e la Gran Bretagna, ledue potenze vincitrici della prima Guerramondiale, avevano ambiziose mire suquei territori, mal’impegno inglesenei confronti del po-polo ebraico siglatonel 1917 ed il con-seguente mandatointernazionale avevano creato una frat-tura fra questi interessi e quelli delletribù arabe. La rinuncia inglese a risol-vere il contenzioso avrebbe innescatoun’aspra contesa che nel novembre del1947 avrebbe prodotto una risoluzionedell’Onu che sarebbe rimasta inapplicatanella parte in cui proponeva la creazionedi uno stato arabo-palestinese sulla mag-gior parte della Palestina e avrebbe scate-nato la prima delle guerre di aggressionedegli arabi nei confronti di Israele.

Federico SteinhausConsigliere UCEI

L’ignavia del mandato britannico

AVATIAH אבטיחArma contro la torrida estate israeliana numero uno:il cocomero, vera e propria istituzione nazionale. “Alefcome avatiah”, recitava l’alfabeto di un ulpan....

GLIDA גלידהArma contro la torrida estate israeliana numero due:il gelato, in vendita a ogni angolo.

MAZGAN מזגןArma contro la torrida estate israeliana numero tre:l’aria condizionata. Unico problema: gli israeliani ama-no regolarla a temperature degne dell’Antartide.

DIZIONARIO MINIMO

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010 ECONOMIA

IL COMMENTOIsraele potrebbe essere alla vigilia dell’indi-pendenza energetica grazie ad alcuni ritrova-menti di gas naturale in mare. Il primo risalea qualche anno fa ed è situato davanti adAshkelon, mentre il secondo e il terzo si chia-mano Tamar e Dalit (nomi femminili) e sitrovano nei pressi di Haifa. Un quarto giaci-mento è stato reperito nella zona davanti aHaifa, si chiama Leviatan (balena) ed è at-tualmente al vaglio degli esperti. Il campo di Tamar ha una dimensione dicirca diecimila ettari, e secondo la valuta-zione più recente potrebbe fornire 247 bcm(miliardi di metri cubi) di gas.

Il gas naturale può essere utilizzato comemateria prima per l’industria chimica e que-sta è l’utilizzazione più nobile e redditizia,oppure come carburante in sostituzione delcarbone e dei prodotti raffinati dal petrolio,col vantaggio di ridurre le emissioni nocive.In Israele il consumo attuale di gas è moltolimitato e raggiunge solo i 5 bcm, e primadelle recenti scoperte si prevedeva il raddop-pio del consumo interno per il 2020. Tre questioni sono all’ordine del giorno inseguito a questa pioggia di miliardi: qualiclienti troverà il gas israeliano, quale sarà laripartizione dei guadagni fra gli investitori egoverno israeliano. Ma soprattutto cosa faràil Libano che ha già rivendicato la proprietà

sui giacimenti. Infatti il diritto internazio-nale che dovrebbe governare la ripartizionedelle risorse naturali sottomarine, non haprincipi chiari e netti. Cipro ha dichiarato una Exclusive EconomicZone (Eez) fino a 200 chilometri dalla costaisraeliana e ha venduto concessioni a privatiper esplorazioni, creando una novità nel Me-diterraneo. Israele ha preferito il metodo dellapiattaforma continentale prospicente allapropria costa. Su tale piattaforma che è comeil prolungamento in mare della costa, Israeleafferma la sua sovranità. L’Hezbollah, sempre sollecito nel trovarenuovi argomenti di litigio con Israele, ha di-chiarato: “Non permetteremo che Israele rubi

il gas libanese”. Anche il presidente del Par-lamento libanese, Nebil Beeri, chiede passiimmediati “per difendere i diritti sovranieconomici e politici”. Ma il Libano stesso hatracciato in passato i confini marittimiquando ha venduto concessioni per esplora-zioni marine proprio fino al limite delle con-cessioni israeliane. Le scoperte di gas epetrolio sono nel sottosuolo della piattaformacontinentale che appartiene a Israele, il qualenon ha dubbi di sorta sulla propria sovra-nità. Qualcuno fa osservare che i libanesisono rimasti silenziosi finché non c’è stata laprova che il gas esiste. Insomma investitepure diabolici israeliani e se trovate qualcosa,i libanesi verranno a reclamarlo.

SERGIO I. MINERBI

LA SPERANZA STA NEL GAS

I l premio Nobel per l’economiaPaul Krugman ha criticatoaspramente la politica del cam-

bio adottata negli ultimi anni dallabanca centrale israeliana, intervenen-do a margine di un convegno di im-prenditori e banchieri israeliani loscorso giugno. Alludendo al fattoche negli ultimi due anni la bancacentrale guidata dal prestigioso go-vernatore Stanley Fischer è interve-nuta ripetutamente sul mercato deicambi per prevenire un apprezza-mento dello shekel nei confronti deldollaro, Krugman ha dato un giudi-zio severo: a suo avviso le autoritàisraeliane “manipolano” il tasso dicambio, per guadagnare competiti-vità internazionale per le propriemerci a scapito di quelle prodotteall’estero, alla stregua di quanto stan-no facendo la Cina e la Svizzera. Che cosa accomuna Israele a paesicosì diversi tra loro come la Cina ela Svizzera? Per cominciare, occorrecomprendere il motivo della tenden-za all’apprezzamento dello shekel,ossia l’elevato afflusso di capitali este-ri che ha interessato Israele, assiemea molte altre economie emergenti edi recente industrializzazione, nel-l’ultimo biennio. In seguito alla crisifinanziaria che ha investito l’econo-mia mondiale nel 2007 e, in formapiù acuta, dal settembre del 2008(dopo il dissesto della Lehman Bro-thers), le banche centrali dei paesiavanzati, in primis gli Stati Uniti el’area dell’euro, hanno ridotto rapi-damente i tassi d’interesse, fino a li-velli prossimi allo zero, fornendo allebanche, e indirettamente al settoreprivato, liquidità pressoché illimitata.

Uno degli effetti collaterali di questaespansione monetaria senza prece-denti è stato quello di generare unmassiccio afflusso di capitali versole economie emergenti in Asia e inAmerica latina; le opportunità di in-vestimento reale e finanziario eranomolto più allettanti rispetto alle eco-nomie avanzate, grazie a una crescitadel prodotto più sostenuta e a ren-dimenti azionari e obbligazionari piùelevati; grazie alla possibilità di in-debitarsi a tassi d’interesse vicini allozero nei paesi di origine (Stati Unitie in Europa), un numero elevato diinvestitori ha trasferito ingenti vo-lumi di capitali verso economie co-me quella israeliana.

In teoria un ingente afflusso di ca-pitali in una economia come quellaisraeliana potrebbe avere importantieffetti benefici, connessi al minor co-sto di finanziamento per le impresee per il settore pubblico. Le autoritàisraeliane si sono trovate tuttavia difronte a un dilemma.

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Una possibilità era quella di “sco-raggiare” gli afflussi di capitali la-sciando che lo shekel si apprezzassein misura significativa nei confrontidel dollaro; ciò avrebbe però dan-neggiato la competitività delle espor-

tazioni (soprattutto quelle versol’Asia, le cui economie sono aggan-ciate al dollaro) e frenato la crescita,col rischio di far deragliare la fragileripresa in atto. L’alternativa era quel-la tenere fermo il cambio col dollaroe subire un elevato afflusso di capi-tali: le autorità, alla fine, hanno sceltodi intraprendere questa strada. Tut-tavia l’afflusso di capitali ha un im-portante effetto collaterale, che èquello di generare una eccessiva do-manda interna e quindi di portare aun surriscaldamento e un’elevata in-flazione nell’economia. Onde atte-nuare questo rischio di surriscalda-mento, la banca centrale israelianaha alzato ripetutamente i tassi uffi-

ciali. Però questi rialzi sono un’armaa doppio taglio, perché finiscono perattirare ulteriori afflussi di capitaliesteri. In quali casi gli interventi sui mercativalutari, come quelli effettuati inIsraele, si configurano come una“manipolazione” del tasso di cambio?Le regole della cooperazione eco-nomica internazionale vorrebberoche un paese intervenga sui mercatidei cambi per influenzare l’andamen-to della propria valuta solo per evi-tare eccessive fluttuazioni e quandoil tasso di cambio, gonfiato da feno-meni speculativi temporanei, è pa-lesemente disallineato rispetto al suovalore di equilibrio e solo per periodidi tempo limitati. Il problema è che la misurazione deltasso di cambio di equilibrio di unavaluta è un esercizio arduo. Indica-zioni sia pure imperfette di una “sot-tovalutazione” si hanno quando siosserva un persistente avanzo deiconti con l’estero e/o un accumulodi riserve valutarie.Resta da chiedersi quanto ci sia divero nella critica di Krugman. Peruna serie di motivi il paragone traIsraele e la Cina appare forzato. Perquanto riguarda gli indicatori di“sottovalutazione” del cambio, loshekel appare molto meno “mani-polato” dello yuan: tra il 2003 e il2009 la Cina ha registrato in mediaun avanzo annuo dei conti conl’estero pari al 7 per cento del Pil,Israele un avanzo di circa il 3 percento; la Cina ha accumulato riservevalutarie in misura pari al 50 percento del Pil, Israele del 30 per cen-to. Inoltre, lo yuan debole “benefi-cia” una base economica e industria-le cinese che, misurata col Pil, è di25 volte superiore a quella di Israelee pertanto gli eventuali effetti di“concorrenza sleale” arrecati dalloshekel debole, ammesso che ci sia-no, sono trascurabili rispetto a quelliarrecati dallo yuan.

Krugman attacca la Banca di Israelema il problema non è lo shekel

Un premio Nobel contro ilmago della finanza: sonodue economisti di fama

internazionale, entrambi ebrei, iprotagonisti di questa recente que-relle mediatica. Da un lato c’è Paul Krugman, do-cente di economia internazionalea Princeton nonché storico edito-rialista del New York Times. Dal-l’altro c’è Stanley Fischer, il vete-rano della Banca mondiale e delFondo monetario internazionale

che nel 2005 è stato chiamato a di-rigere la Banca centrale di Israele.

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Da tempo il nome di Krugman èsinonimo di divulgazione di qua-lità, tanto che ha ricevuto il premioNobel nel 2008 anche (se non so-prattutto) per la sua capacità difornire analisi accurate della crisiglobale a un pubblico colto ma ge-

neralista, non composto dai solitiaddetti ai lavori. Fischer è consi-derato da alcuni un vero e propriomago della finanza che avrebbepermesso a Israele di evitare la crisipuò nera. Nel corso di un conve-gno Krugman ha accusato Fischerdi manipolare eccessivamente loshekel, mentre Fischer si è difesodalle accuse in un’intervista al set-timanale Calcalist. Uno scontro(mediatico) tra due titani dell’eco-nomia. a.m.

Uno scontro tra titani dell’economia

u Stanley Fischer, governatore della Banca centrale israeliana u Paul Krugman, economista americano, Nobel nel 2008

ú–– Aviram Levyeconomista

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraicheORIZZONTI

All’inizio dell’estate, un videogirato con telecamere na-scoste dall’emittente televi-

siva ebraica Joodse Omroep, hascioccato Amsterdam. Protagonista,un gruppo di giovani, per la maggiordi origine mediorientale, che insul-tava un anziano rabbino rivolgen-dogli il saluto nazista. Negli ultimi anni in Olanda, paeseche ha fatto dell’apertura e della tol-leranza la sua bandiera, si sono mol-tiplicati gli episodi di antisemitismo.Nel 2007 il numero di attacchi haregistrato un incremento del 64 percento rispetto al 2005. Nel primomese del 2009 se ne sono verificatitanti quanti durante l’intero anno2008. E nel 2010 - denuncia RadioNetherlands Worldwide - gli uominihanno ormai paura ad andare in giroper strada con la kippah in vista.Nella stragrande maggioranza, lemanifestazioni di antisemitismo sonoriconducibili al fanatismo sempre piùdiffuso nelle comunità islamiche del-le città olandesi, dove vivono oltreun milione di musulmani. In rispostaagli attacchi di matrice antiebraica,è stata recentemente avanzataun’idea alquanto particolare: far as-sumere ai poliziotti che si muovonoper le strade di Amsterdam le sem-bianza di ebrei ultraortodossi, conbarba, kippah e abiti scuri, in mododa cogliere sul fatto i responsabili digesti antisemiti. A portare sul tavolol’originale proposta è stato AhmedMarcouch, politico laburista di ori-gine marocchina, musulmano eglistesso. L’idea per la verità non è nuova. Èstata introdotta da anni per combat-tere le aggressioni contro gli omo-sessuali, con l’impiego di agenti cherecitino la parte di coppie gay, e hadato buoni risultati. “Dobbiamo faredi tutto per arginare questi episodidi antisemitismo – ha dichiaratoMarcouch in un’intervista radiofo-

nica – Non possiamo considerarlipiccoli incidenti, è una cosa seria”.Una cosa seria lo è certamente. InOlanda si contano circa 40 milaebrei, di cui quasi la metà ad Am-sterdam. Gli attacchi negli ultimi treanni sono diventati sempre più fre-quenti, sia alle cose sia alle persone.Il sindaco di Amsterdam LodewijkAsscher ha subito recepito l’idea, do-po aver puntualizzato che è inaccet-tabile che “siano almeno sei i quar-tieri di Amesterdam dove gli ebreinon possono girare con la kippahsenza essere oggetto di insulti, sputio violenze”. Nei Paesi Bassi vivono 16 milioni emezzo di persone, e circa l’11 percento sono di origine non occiden-tale. Tra le comunità di immigrati,sono particolarmente consistentiquella marocchina e quella turca,presenti sin dagli anni Sessanta. Nelcorso degli anni Ottanta e Novantasono arrivati anche numerosissimirifugiati da Iraq, Afghanistan, Iran eSomalia, grazie a norme particolar-mente favorevoli sia in tema di di-

ritto d’asilo, che di ricongiungimentofamiliare, almeno fino al giro di vitedel 2000, con la promulgazione diuna nuova legge sull’immigrazionemolto più restrittiva. L’integrazioneperò resta un grave problema anchein un paese che ha sempre fattodell’apertura verso il diverso uno del-le sue ragion d’essere. Durante l’ultimo decennio, nelle co-munità musulmane, hanno comin-ciato a esplodere sacche di radica-lizzazione: come dimenticare l’as-sassinio del regista Theo Van Goghda parte di un estremista islamicoavvenuto nel 2004 ad Amsterdam?Contemporaneamente è sorta inparte della popolazione olandese unsentimento di ostilità, cavalcata daipartiti nazionalisti. E infatti il Partitoper la libertà (Pvv), compagine diestrema destra guidata dal deputatoGeert Widers dopo aver ottenuto il16 per cento alle elezioni europeenel 2009, ha riconfermato il risultatoalle politiche dello scorso giugno,ottenendo 24 seggi, solo 7 in menodel partito liberale, che ha vinto, al-

meno sulla carta, le elezioni con 31seggi su 150. Alcuni analisti sosten-gono che la responsabilità vada at-tribuita a una politica fin troppo ben-pensante, che ha incoraggiato le co-munità di immigrati a rimanere traloro, senza favorire un vero inseri-mento nel tessuto sociale, nel mitodi un futuro ritorno alla propria terrad’origine. Il risultato sono secondegenerazion che si rifugiano nell’estre-mismo e che sfogano la propria rab-bia in maniera violenta. A fare le spe-se del clima di tensione sono anchele comunità ebraiche.Qualcuno ritiene che far travestire ipoliziotti da ebrei ortodossi sia solo“una trovata per nascondere la po-litica fallimentare delle istituzioninella lotta contro la radicalizzazioneislamica,” come accusa ManfredGerstenfeld, ricercatore israelo-olan-dese, membro del Jerusalem Centerfor Public Affairs. Una politica cheha avuto nel dialogo il suo punto diforza, incarnata da Job Cohen, ebreoex sindaco di Amsterdam e attualecapo del partito laburista. La sua ca-pacità di disinnescare il clima di ten-sione instauratosi dopo l’assassiniodi Theo Van Gogh, mettendo incampo un approccio inclusivo almotto di “Keep things together”, gliha fatto guadagnare la definizionedi eroe europeo da parte della rivistaTimes. Ora nonostante la sua figurasia un po’ appannata, con la sconfittadi misura del suo partito alle elezioni,i frutti di quanto ha seminato riman-gono. Marcouch, che è membro delJewish-Moroccan Network of Am-sterdam, e che è entrato in Parla-mento proprio in questa tornata elet-torale come quindicesimo candidatodel Labour Party di Cohen. La suaricetta contro ls violenza razziale?“Partire dall’educazione. Insegnareai bambini a non coltivare odio”.

Rossella Tercatin

IL COMMENTOUn accademico prestato al mondo della Diplo-mazia. Ahmet Davutoglu, il ministro degliEsteri di Ankara, ha una nuova visione della po-litica internazionale e sta cercando di realizzarlapasso dopo passo. Islamico di maniera e non solodi facciata, Davutoglu è sempre più l’uomo delbraccio di ferro sul palcoscenico globale. L’ul-timo, in ordine di tempo, quello con Israele. Unaprova di forza con uno Stato (ex) amico che valeal Paese della Mezzaluna la pacca sulla spalladei suoi nuovi compagni di viaggio: Iran e Siria.

Ma dove sta andando la Turchia? È vero che ilsuo sguardo ormai è rivolto a Oriente e chel’Europa è soltanto un lontano ricordo? Sestaeconomia dei Ventisette, secondo gli analistiAnkara supererà in termini di Pil la Germanianel prossimo decennio. La sua classe dirigente,però, non è più quella laica kemalista. L’identikitdei nuovi ricchi sulle sponde del Bosforo non la-scia adito a dubbi: sono islamici e fieri di esserlo.Ringraziano Recep Tayyip Erdogan, che daquando è al potere (dal 2002) ha garantito i loroaffari, e alle algide lungaggini europee preferi-scono il “calore” dei vicini-fratelli. Sono loro che

non guardano più verso Bruxelles ed è per man-tenere il loro consenso, senza il quale il premiernon potrebbe vincere le elezioni il prossimoanno, Davutoglo mostra un’estrema durezzaverso Israele. In realtà, però, la Turchia si sta riappropriandodel suo passo “ottomano”, nel momento in cuiha deciso di focalizzare la sua attenzione nonsolo su un unico punto all’orizzonte (l’Europa),ma su più punti, collocati su latitudini e longi-tudini diverse. Davutoglu, eroe del cosiddetto“neo-ottomanismo”, che vorrebbe far rivivere ifasti dell’impero perduto attraverso il fascino

sottile di rinnovati equilibri internazionali, sabene che è nell’interesse della Mezzaluna nonchiudersi solo in una direzione, ma essere real-mente un ponte tra l’Est e l’Ovest. La domandaè: la Turchia di oggi ha pilastri così forti dapoter gestire al meglio il suo ruolo da “grandemediatore” tra Oriente e Occidente? E se quelponte fosse solo in costruzione? Nonostante ilbraccio di ferro, Erdogan durante l’ultimo G8 diToronto ha chiesto consiglio Barack Obama sullerelazioni con Gerusalemme. Indice che la Tur-chia sogna il “sol dell’avvenire”, ma è ancorasuscettibile ai raffreddori di inizio primavera.

IL PROFESSORE DELLA RINASCITA OTTOMANA

ANNA MAZZONE

Poliziotti con la kippah contro l’antsemitismo

Olanda, si prepara un’unità speciale per proteggere gli ebrei

u insieme contro il razzismo: il rabbino capo Benjamin Jacobs incontra il capodella polizia olandese Dick van Putten.

NEWS CINA

Shanghai, riapre la sinagoga L’ebraismo non è una delle reli-gioni “ufficialmente tollerate”in Cina, ma per l’Expo di Shan-ghai le autorità sono statepronte a fare un’eccezione.Così ha riaperto i battentidopo oltre sessant’anni unadelle ultime sinagoghe rimastea Shanghai. Alla piccola ma at-tiva comunità ebraica locale(circa 2 mila persone), è statogarantito l’accesso settimanaleall’edificio costruito negli anniVenti fino a ottobre. Ma il rab-bino Shalom Greenberg, pro-motore della campagna della

riaperturadell’Ohel Rachel(questo il nomedella sinagoga),assicura chenon ufficial-mente esiste la

disponibilità delle istituzioni apermettere di andare avanti.Anche alla comunità russa or-todossa durante l’Expo è statoconcesso di utilizzare una vec-chia Chiesa costruita primadella Guerra, e pure quella cheun tempo era la Cattedrale an-glicana è potuta diventaresede della Chiesa protestantedi Shanghai.

KIRGHIZISTAN

In soccorso dei profughiSuperata la preoccupazione perla situazione degli ebrei neltormentato Kirghizistan (du-rante gli scontri di aprile nellacapitale Bishkek era stata at-taccata la sinagoga ed espostouno stendardo antisemita vi-cino al palazzo presidenziale).Ora la Comunità ebraica localeè in prima linea per portaresoccorso alle popolazioni delSud. Per la repubblica ex sovie-tica il 2010 è stato un annosenza pace. In primavera i tu-multi a Bishkek hanno provo-cato decine di morti e spintoalla fuga il presidente Kurman-bek Bakiyev. All’inizio del-l’estate è scoppiato il conflittoetnico nella zona meridionale,dove una larga percentuale dipopolazione è uzbeca. Il risul-tato sono stati centinaia dimorti e feriti, e migliaia di pro-fughi. Così la Comunità ebraicasi è mossa per mandare sacchidi riso e farina “per tutti coloroche stanno soffrendo” come hadichiarato Boris Shapiro, leaderdegli ebrei di Bishkek.

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010 EDITORIALI / COMMENTI / LETTERE

In questo mese di giugno ho par-tecipato a Praga, in qualità di“esperto” aggiunto alla dele-gazione italiana, su designa-zione dell’UCEI, a una Con-ferenza internazionale per ladefinizione e la pubblicazionedi un documento contenente ledirettive e le best practice daadottare per la restituzione e il ri-sarcimento delle proprietà immobi-liari confiscate dai nazisti e dai lorocollaboratori alle vittime della Sho-ah. Questa conferenza fa seguito eadempie a un impegno preso dairappresentanti dei 46 paesi sotto-scrittori della Dichiarazione di Tere-zin del 30 giugno 2009, sulla resti-tuzione dei beni relativi alla Shoah:conferenza che si svolse e in un cer-to senso coronò il semestre di presi-denza ceca dell’Unione Europea nelprimo semestre di quell’anno. Mentre la dichiarazione di Terezincomprendeva tutti i tipi di proprietà(immobiliaricomunitarie e private,

cimiteri ebraici, opere d’arte, Judai-ca, beni culturali, materiale d’archi-vio, ecc.) questa seconda conferenzasi è limitata alle proprietà immobi-liari, private e comunitarie.La conferenza è stata co-presiedutadall’ambasciatore della Repubblicaceca in Israele, Tomas Pojar, e dal-l’ambasciatore Stuart Eizenstadt,consigliere speciale del segretario diStato statunitense per i problemidell’Olocausto. Ne è risultata unadichiarazione, illustrata pubblica-mente il 10 giugno dal primo mini-

stro della Re-pubblica cecaJan Fischer,giuridicamen-te non vinco-

lante ma indub-biamente impegnativa sulpiano morale, per invitare

tutti i paesi partecipanti, purnel rispetto delle rispettive legsla-zioni nazionali, a adottare o modifi-care, secondo i criteri indicati neldocumento, una propria legislazionespecifica per facilitare e accelerare ilprocesso di restituzione e di com-pensazione alle vittime della Shoahdelle proprietà immobiliari confisca-te dai nazisti, fascisti e loro collabo-ratori, ancora incompiuto a 65 annidalla fine della seconda guerra mon-diale e della Shoah. La dichiarazione costituisce un forteimpegno morale. Riconosce il danno

incalcolabile provocato dalla perse-cuzione nazifascista agli ebrei sin-goli e alle comunità ebraiche, am-mette che le proprietà immobiliariconfiscate durante la Shoah sonostate restituite e risarcite soltanto inparte, stabilisce che la tutela del di-ritto di proprietà è una componenteessenziale di una società democrati-ca, riconosce lo speciale ruolo mora-le dello Stato d’Israele come luogo diresidenza del maggior numero di so-pravvissuti alla Shoah, afferma chea 65 anni dalla fine della guerra e lasconfitta del nazismo la formulazio-ne di queste direttive costituisce unpasso tardivo ma vitale per la ripa-razione parziale dei terribili misfatticonseguenti alla Shoah ed ha unprofondo e duraturo significato mo-rale. La Dichiarazione distingue traproprietà immobiliari comunitarie eproprietà private di cui ancora so-

pravvivono i proprietari originari oi loro eredi o di cui non ci sono erediriconosciuti. L’opzione preferita è la restituzionein rem, soprattutto per le proprietàcomunitarie. Ma ove impossibilesenza pregiudicare i diritti di even-tuali terzi acquirenti in buona fede èammesso un pagamento del giusto eadeguato valore. Nel caso delle pro-prietà di vittime prive di eredi legit-timi, gli Stati dovrebbero costituirefondi speciali per il beneficio dei so-pravvissuti alla Shoah delle rispetti-ve comunità, indipendentemente dalloro attuale luogo di residenza. Talifondi possono anche essere devolutiallo scopo di commemorazione dellecomunità distrutte e per l’educazio-ne sulla Shoah.Fondazioni ed altre organizzazioninon governative, ebraiche e nonebraiche, e in particolare la WorldJewish Restitution Organization(WJRO) possono aiutare nella valu-tazione e nella preparazione delledomande di restituzione e nella ge-stione delle proprietà restituite.Da ultimo, l’European Shoah Lega-cy Institute di Praga organizzeràuna nuova conferenza nel 2012 peresaminare i progressi conseguitinella restituzione delle proprietà im-mobiliari. Mi sembra evidente che iprincipali destinatari della dichiara-zione di Terezin dell’anno scorso edi questa seconda cichiarazione sia-no soprattutto i paesi dell’ex bloccocomunista (ma ciò non è mai evi-denziato esplicitamente) nei qualil’avvento dei regimi comunisti qua-si subito dopo la fine della guerra hasostanzialmente impedito il ripristi-no dei diritti di proprietà ai pochisopravvissuti alla Shoah o ai loroeredi legittimi. Le proprietà comuni-tarie sono poi state considerate, mol-to spesso, d’interesse pubblico e na-zionalizzate.Va però detto, ricordando le conclu-sioni della commissione Anselmi del2002, che anche in Italia il processodi restituzione delle proprietà ebrai-che, soprattutto private, mobiliari eimmobiliari, confiscate e sequestratenegli anni tra il 1938 e il 1945, nonè stato affatto completato.Si dovrebbe dunque riproporre ilproblema all’attenzione del governo,chiedendo l’istituzione di un apposi-to gruppo di lavoro - come del restoraccomandato dalla stessa commis-sione Anselmi - con lo scopo specifi-co di completare il lavoro allorasvolto ma rimasto incompiuto, inparticolare sull’aspetto delle restitu-zioni e dei risarcimenti. Capisco cheil momento economico non è favore-vole ma l’importante è fare l’indagi-ne e quantificare i risarcimenti do-vuti: l’erogazione materiale può at-tendere ancora un po’.

Shoah, la ferita ancora aperta dei beni depredati OPINIONI A CONFRONTO

ú–– Leone Pasermanpresidente della FondazioneMuseo della Shoah

Sull’ultimo numero di PagineEbraiche Michele Sarfatti ha volutoaprire un confronto pubblico sulMeis (il nascente Museo dell’ebrai-smo italiano e della Shoah di Ferra-ra) e sulle forme che dovrà assumeree proporre ai visitatori. La riflessio-ne passa attraverso un esame criticodella proposta progettuale che è sta-ta offerta ai numerosi studi di inge-gneri e architetti che in queste setti-mane si stanno attivando per parte-cipare al bando emesso dall’ufficioper i Beni culturali dell’Emilia Ro-magna. L’occasione che si offre èunica ed irripetibile, e forse non atutti è chiara la portata della svoltaculturale epocale cui stiamo assi-stendo. In un momento in cui l’Ita-lia fa oggettivamente fatica a rico-noscersi in un progetto di memoria

condivisa come quello per le celebra-zioni del 150° anniversario del-l’Unità, appare decisamente straor-dinario (ma non per questo meno si-gnificativo) che per la prima voltal’ebraismo che popola la penisolacon le suecomplesse arti-colazioni stori-che, religiose,culturali e so-ciali vengaunanimementeconsideratoparte inte-grante e fonda-mentale dellaciviltà italiana,e di conse-guenza degnodi veder valo-rizzata e rap-presentata lasua storia inun grande pro-getto museale. Si tratta di una novi-tà assoluta e di un’occasione irripe-tibile in termini di crescita culturalecollettiva. I soggetti che hanno co-stituito il primo consiglio di ammi-

nistrazione sono in questo senso benrappresentativi delle diverse realtàche dovranno portare avanti un’ideadi museo viva e condivisa. Lo stato,le amministrazioni locali, l’Unionedelle Comunità Ebraiche assieme al

Cdec e allapiccola Comu-nità ebraicaferrarese, incollaborazionecon gli istitutipreposti allatutela dei beniculturali han-no fino ad oraben coordina-to i loro sforzi,giungendo intempi relati-vamente brevialla propostadi un bandoprogettuale.Ora tuttavia i

nodi vengono inesorabilmente alpettine, e alla fine dell’anno sapre-mo - con la scelta del progetto vinci-tore – che direzione il Meis sceglieràdi intraprendere nella realizzazione

del museo stesso. Un percorso che,visto in questo modo, appare in di-scesa. E tuttavia ci sono alcuni ele-menti che mettono in allarme e chemeritano riflessione. Innanzitutto laquestione della proposta progettua-le: sono certamente condivisibili leriserve proposte da Sarfatti a propo-sito del percorso storico, eccessiva-mente appiattito sullo sguardodell’altro verso l’ebreo, anche se aben vedere l’intero complesso dellaproposta allegata al bando accennasolo per linee estremamente generalialla sostanza del percorso e quindibisognerà vedere poi in concretoquale sarà il progetto vincitore e inche modo questo accoglierà le indi-cazioni del bando. Niente è immodi-ficabile, ma qui sorge un secondo,importante, problema: chi, e conquale autonomia, dovrà decidere aproposito della realizzazione effetti-va del progetto museale? Perché aben vedere, nell’insieme di organi-smi che animano il Meis troviamosparse e spesso significative compe-tenze settoriali, ma di fatto non c’ètraccia di un curatore di museo pro-fessionista. In sintesi, se va

A Ferrara chi si cura del nuovo museo?ú–– Gadi Luzzatto

Voghera Boston University

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Si riapre il doloroso capitolo, mai davvero concluso, del risarcimento per i beni ebraici depredati dai nazisti e dai lorocollaboratori negli anni fra il 1938 e il 1945. A rilanciare la tematica è stata una Conferenza internazionale svoltasinella seconda settimana di giugno a Praga e presieduta dall’ambasciatore della Repubblica ceca in Israele e dalconsigliere del Segretario di stato americano per i problemi della Shoah, che ha visto riuniti i rappresentanti deidiversi paesi coinvolti. Nella delegazione italiana, su indicazione dell’UCEI, il presidente della Fondazione Museo dellaShoah Leone Paserman che chiarisce, nel suo intervento, il significato di questa importante Conferenza conclusasi conuna dichiarazione di grande valore morale, anche se non giuridicamente vincolante, sulle restituzioni e i risarcimenti

relativi ai beni immobiliari appartenuti ai singoli o alle Comunitàebraiche. E’ interessante notare che tali affermazioni ripren-dono in parte, in particolare per ciò che riguarda la costitu-zione di un fondo a scopo umanitario quale compensazioneper i beni depredati, alcuni dei suggerimenti avanzati dal-l’UCEI alla Commissione Anselmi che nel 2002 affrontò in Italiala medesima questione.

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GIORGIO ALBERTINI

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraicheEDITORIALI / COMMENTI / LETTERE

Il dovere di amare D-o non ha limitie i rabbini invitano ad amare il Si-gnore fino a sacrificargli la propriavita. Rabbi Eliezer il grande doman-dava: se la Torah ci invita ad amareD-o “con tutta la tua anima”, per-ché aggiunge poi “con tutte le tuefacoltà”? E se ci invita a farlo “contutte le tue facoltà” perché dice an-che “con tutta la tua anima”? E ri-spondeva: “Dato che può esisterechi ha più cara la persona che le so-stanze, la Torah ha dovuto dire cheD-o deve essere amato con tuttal’anima; e poiché può esserci chi piùdella propria persona ha caro il de-naro, per questo ha aggiunto: ‘contutte le tue facoltà’.Rabbi Akivah interpretava le parole:‘con tutta la tua anima’ in questosenso: cioè anche se tu all’amoreverso D-o devi sacrificare la tua vi-ta. Rabbi Simeone ben Eleazar dice-va: colui che opera per amore è su-periore a chi agisce per timore.”Rabbi Akivah riuscì a rimanere fe-dele al proprio insegnamento, prefe-rendo cioè morire pur di non tra-sgredire al volere del Signore.L’episodio è riportato, fra l’altro, nelTalmud Bablì, trattato Berachot 61b: “Quando hanno portato fuoriRabbi Akivà per ucciderlo [ per avertrasgredito l’ordine imperiale edaver proseguito ad insegnare Torah]era l’ora della lettura dello Scemà, e[i Romani] gli stavano scorticandola pelle con pettini di ferro e luiprendeva su di sè il giogo del regnodei cieli.Gli dissero i suoi allievi: ‘nostroMaestro, fino a questo punto?’ Ri-spose loro: tutti i giorni mi dispiace-vo [per non riuscire ad applicare ve-ramente il versetto] ‘con tutta la tuaanima’, perfino se ti toglie la tuaanima. Mi dicevo: quando mai potròadempiere questo precetto? Ed orache me se ne presenta l’occasionenon dovrei esserne contento... prose-guirono a torturarlo finchè la suaanima uscì mentre pronunciava: ilSignore è Uno...”.Commentando le parole del secondodei dieci Comandamenti, “per colo-

ro che Mi amano e osservano i Mieicomandamenti”, la Mechilta deRabbi Ishmael, Ithrò, (Esodo, XX,6) spiega: “si tratta di nostro padreAbramo e di coloro che sono comelui... Rabbi Nathan dice: sono i figlidi Israel che siedono in terra diIsraele e danno la loro vita per os-servare ciò che D-o ha comandato.Perché tu vieni ucciso? Per avercirconciso mio figlio. Perché tu vie-ni bruciato? Per aver letto nella To-rah. Perché tu vieni crocifisso? Peraver mangiato pane azzimo’ [festadi Pasqua]. Perché tu vieni uccisocon supplizio? Per aver preso inmano il lulav [festa delle capanne]”.Il Midrash Lekach tov [riportato dalKasher] commenta: “Hai appresoche colui che osserva i Comanda-menti del Signore, è considerato co-lui che Lo ama”.Il Midrash Devarim rabbah [ed.Sh.Lieberman, p.70] aggiunge chequando una persona ama D-o desi-dera fare il più possibile la volontàdel Signore, attraverso l’osservanzadi un gran numero di comandamen-ti, compiendoli “come comandamen-to divino e con cuore sincero.Il grande filosofo e decisore MosèMaimonide così si esprime, nel suoIl libro dei Precetti (trad. M. Ar-tom, p. 98): “Il terzo Precetto è ilcomando che abbiamo ricevuto diamare Colui che va esaltato, ed è cheponiamo mente e consideriamo iSuoi precetti e i Suoi comandi e leSue azioni, affinché Lo comprendia-mo ed arriviamo alla massima gioianella comprensione di Lui e questo èl’amore che ci è comandato”. E così si esprime il Sifré: “Se il testomi dice: ‘E amerai il Signore tuo D-o” (Deuteronomio VI.5), so io forsecome amare D-o? Il versetto succes-sivo ci dice: ‘E queste cose che Io ticomando oggi saranno sul tuo cuo-re’ e in questo modo tu conosci Chiparlò e subito si costituì il mondo”.Ecco, ti abbiamo spiegato che attra-verso la contemplazione arriveraialla comprensione, e vi troverai ladelizia e necessariamente verràl’amore. Ed è già stato detto che questo pre-cetto comprende anche che invitia-mo tutti gli uomini al culto di Coluiche va esaltato ed alla fede in Lui;infatti se tu ami qualcuno, lo esalti elo celebri, ed inviti la gente adamarlo - e questo è solo un paragone- così se ami il Signore veramente,in base a quello cui sei arrivato com-

prendendo la Sua vera essenza, sen-za dubbio inviterai tutti gli stolti egli ignoranti a conoscere la veritàche tu già conosci”.E così si esprime il Sifrè: “‘E ameraiil Signore’ - fallo amare alle creatu-re come Abramo tuo Padre; infatti èdetto: ‘E le anime che avevano fattoin Charan’ (Genesi XII, 5); cioè co-me Abramo, dato che amava Iddio -e di questo è testimonio il versettoche dice ‘stirpe di Abramo che miamava’ (Isaia, XII,8) - invitava, inbase alla sua potente comprensionedi Lui, le persone alla fede per il suogrande amore, così anche tu amaLofino al punto di invitare a Lui le al-tre persone”.Nella sua Guida degli smarriti[scritta in arabo] il Maimonide af-fronta nuovamente la relazione frafare la volontà del Signore, conl’adempimento dei precetti, e l’amo-re stesso di D-o ed arriva alla con-clusione che esiste una connessionein due direzioni.Da un lato uno osserva per amore diD-o, ma dall’altro l’osservanza deiprecetti porta essa stessa all’amoredi D-o [Maimonide, Le Guide desEgarés, traduit par S. Munk, Paris,1960, vol.III, p.230].Anche nel Mishné Torah, la monu-mentale opera del Maimonide in cuivengono riportati, nei più minimiparticolari, i Precetti del Signore, ilMaimonide si sofferma più di unavolta sul dovere di amare D-o e suisuoi vari aspetti.Anzi il secondo libro del MishnéTorah si chiama Libro dell’amore, econtiene esso stesso la spiegazionedi alcune mizvot che il Maimonideconsidera ispirate unicamente dal-l’amore di D-o.Molte volte è difficile separare fral’amore di D-o e quello del prossi-mo: “E questa è la via dei giusti: so-no offesi e non offendono, sentono laloro vergogna e non rispondono,agiscono per amore [del Signore] esono lieti per le sofferenze...” [Mai-monide, hilchot deot (regole sulleidee), II,3].Il dovere di conoscere D-o e diamarLo è quindi un dovere assolutoe costante, e ogni azione può assu-mere il significato di fare la volontàdel Signore, come il mangiare ed ildormire per poter sopravvivere e po-ter servire D-o in piena energia co-me si può leggere al tezo capitolodella medesima opera del grandeMaestro Maimonide.

Il senso del digiuno

Durante le tre settimane che vanno dal 17 di Tamuz fino al 9 di Av, vienericordata l’apertura della prima breccia nelle mura di Gerusalemme da

parte dei babilonesi fino alla sua completa caduta e distruzione, e secondo latradizione viene osservato un periodo particolare di lutto contrassegnato appuntoda due digiuni, uno all’inizio del periodo ed uno alla fine. Ma questa tradizioneviene adesso in Israele messa in discussione, e non negli ambienti secolarizzatilontani dall’osservanza delle mitzwot, ma proprio da chi tiene a metterle inpratica. Infatti è proprio la tradizione rabbinica a stabilire che: “En ben ha-Olam ha-ze liymot ha-mashiakh ella shi’ibbud malkhuyot bilvad”, cioè non viè differenza fra questo mondo e quello a venire se non che adesso Israele è sot-tomesso ad altri popoli, come fissò il Maimonide nelle “Hilkhot melakhim” altermine del suo compendio di halakhà Mishnè Torà. In altre parole, l’aspettativadi millenni non è altro che la realizzazione di un centro ebraico indipendentenella Terra di Israele, dopodiché i digiuni fissati dai Maestri non avrebbero piùsenso di esistere. Questo si basa su quanto disse il profeta Zaccaria (8,19): “Cosìha detto il Signore: il digiuno del quarto mese [17 di Tamuz], e quello del quinto[9 di Av] e quello del settimo [3 di Tishrì, digiuno di Ghedalià] e quello deldecimo [10 di Tevet] diventeranno per la casa di Giuda, giorni di gioia edallegria, e festività”. Non per niente, nella benedizione per lo Stato di Israele,fissata dal rabbinato centrale di Israele su proposta dell’allora rabbino di Petah-Tikva Rav Reuven Katz (detto il Deghel Reuven), e che viene recitata il sabatomattina in tutto il mondo si parla di Israele come “inizio della nostra Redenzione”.Quindi che senso avrebbe oggi mantenere i digiuni? Tuttavia, il significato deldigiuno può essere interpretato secondo una ulteriore prospettiva. Infatti lamaggior parte degli ebrei legati alle mitzvot continuano ad osservare il lutto ea digiunare in questi giorni, perchè annullando i digiuni si verrebbe ad annullareun elemento identitario, e verrebbe a diminuire la sostanza del calendario ebraico.Annullare i digiuni in fin dei conti significherebbe cancellare un pezzo di storiaebraica, impoverendo il passato e la tradizione di secoli. Ecco quindi, che at-traverso la problematica inerente i digiuni, emergono tre prospettive diverse dianalisi: sia una dimensione religiosa di osservanza a i precetti che esprime lafede in un Creatore, sia il significato teologico dello Stato di Israele, che unaprospettiva identitaria.

Yaakov Andrea Lattes, Università Bar Ilan

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Pagine Ebraiche – il giornale dell’ebraismo italianoPubblicazione mensile di attualità e cultura dell’Unione delle Comunità ebraiche ItalianeRegistrazione al Tribunale di Roma numero 218/2009 – Codice ISSN 2037-1543

“PAGINE EBRAICHE” E’ STAMPATO SU CARTA PRODOTTA CON IL 100 % DI CARTA DA MACERO SENZA USO DI CLORO E DI IMBIANCANTI OTTICI. QUESTO TIPO DI CARTA È STATA FREGIATA CON IL MARCHIO “ECOLABEL”, CHE L’ UNIONE EUROPEA RILASCIA AI PRODOTTI “AMICI DELL’AMBIENTE”, PERCHÈ REALIZZATA CON BASSO CONSUMO ENERGETICO E CON MINIMO INQUINAMENTO DI ARIA E ACQUA. IL MINISTERO DELL’AMBIENTE TEDESCO HA CONFERITO IL MARCHIO “DER BLAUE ENGEL” PER L’ALTO LIVELLO DI ECOSOSTENIBILITÀ, PROTEZIONE DELL’AMBIENTE E STANDARD DI SICUREZZA.

ú– LETTERE

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Silvia Haia Antonucci, Raffaele Bedarida, David Bidussa, Walter Borghini, Hulda Brawer Liberanome, Renzo Cabib, MichaelCalimani, Anselmo Calò, Rav Luciano Meir Caro, Alberto Cavaglion, Rav Roberto Colombo, Claudia De Benedetti, Sergio DellaPergola, Rav Roberto Della Rocca, Valerio Di Porto, Rav Gianfranco Di Segni, Rav Riccardo Di Segni, Manuel Disegni, LucillaEfrati, Rocco Giansante, Daniela Gross, Yaakov Andrea Lattes, Cinzia Leone, Aviram Levy, Anna Mazzone, Valerio Mieli, SergioMinerbi, Anna Momigliano, Giovanni Montenero, Giona Nazzaro, Yoram Ortona, Leone Paserman, Gadi Polacco, AlfredoMordechai Rabello, Reuven Ravenna, Daniel Reichel, Susanna Scafuri, Anna Segre, Rav Alberto Moshe Somekh, FedericoSteinhaus, Rossella Tercatin, Ada Treves, Gadi Luzzatto Voghera, Ugo Volli.

I disegni che accompagnano l’intervista alle pagine 6 e 7, le pagine degli editoriali e dei commenti e la prima pagina deldossier sono di Giorgio Albertini. I ritratti in pagina 7 e 38 sono di Vanessa Belardo. La vignetta in pagina 5 è di Enea Riboldi.

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Stem Editoriale - via Brescia 22 22063 Cernusco sul Naviglio (Mi)

Ogni giorno, con la preghiera dello Shemà ribadiamo il nostro dovere di amare il Signore.

“E amerai il Signore tuo D-o con tutto il tuo cuore e con tutte la tua anima”. Sono parole

di grande intensità e significato che vengono poi ribadite nei versetti successivi in cui si

prescrive che quest’amore coinvolga tutta la nostra anima e le nostre facoltà e che queste

parole siano scolpite in noi. Poiché nella Torah le ripetizioni non sono mai casuali mi sono

interrogata spesso sulla loro motivazione e su quali possano e debbano essere, secondo i

nostri Maestri, i limiti dell’amore nei confronti di D-o.

Susanna Finzi, Padova

ú–– Alfredo Mordechai Rabellogiurista, Università Eb. di Gerusalemme

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EDITORIALI / COMMENTI / LETTERE / P13pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010

Nel giugno del 1991 visitammo perla prima volta l’Unione Sovietica.Con un gruppo di professori di Ge-rusalemme eravamo invitati a uncolloquio all’Università di Mosca ea incontri con colleghi dell’Accade-mia sovietica delle ccienze. A pocadistanza dall’aeroporto, guardandofuori dal finestrino del torpedoneche ci portava al centro di Mosca, laprima cosa che vidi fu un uomo chelavorava un campo coll’aratro a ma-no tirato da un cavallo. Per un atti-mo pensai che avevo visto la stessascena anni prima nelle Filippine.Ma, un momento, qui eravamo nellacapitale dell’Urss, la seconda poten-za mondiale, non in un paese in viadi sviluppo. Durante i miei studi discienze politiche avevo ben imparatoqualcosa sulla programmazione eco-nomica, e in particolare sulla produ-zione di trattori. Ma dov’era il trat-tore? Poi arrivammo in città. Avemmomodo di apprezzare la città muratadel Cremlino, e ancora di più Lenin-grado e lo splendido Hermitage.Viaggiammo anche sulle vetturedella ferrovia sotterranea che passa-

vano puntualmente ogni sessantasecondi nelle grandi stazioni istoria-te di mosaici. Ma agli angoli dellestrade delle donne miserevoli cerca-vano di vendere dei cavolfiori semimarciti e lunghe file di uomini cheimpugnavano bottiglie vuote atten-devano in coda verso squallidi nego-zi sormontati da una parola in lette-re cirilliche ma facilmente interpre-tabile: vino. Gli scaffali dei grandisupermercati erano completamentevuoti. In cinque amici ci avvici-nammo a un gelataio ambu-lante nell’affollata Arbat,e avemmo la fortuna dipoter acquistare la sua in-tera dotazione: quattrogelati. A cena in alber-go, dopo una lungatrattativa e pagamentoanticipato, ci fu servi-to tutto quello chec’era: pochi pomodo-ri e cetrioli, oltre ascatolette di ca-viale. Essendo-mi servito delbagno del-l’Accade-mia dellescienze,notai chetutta ladotazione di carta era un foglio (diformato A4).La società russa era evidentementeal culmine di una grave crisi econo-mica. L’impressione era che questa

situazione non potesse durare. E in-fatti due mesi dopo, nell’agosto del1991, l’Unione Sovietica crollava e

cessava di esistere. Fra imotivi principali,lo scollamento to-

tale fra la

grande potenza militare, forte ecompetitiva (anche se, sul piano del-la tecnologia, inesorabilmente scon-fitta nella Guerra del golfo del gen-naio precedente) e la sua società ci-

vile dominata da una devastante po-vertà e arretratezza.Ma, al di là di ogni analisi sulla so-stanza economica e politica, il fattopiù inquietante era che in tuttoquello che per molti anni prima diquel viaggio avevamo potuto leggeresulla stampa quotidiana o anchenella saggistica – e senza essere par-ticolarmente competenti, non erava-mo del tutto sprovveduti – nulla ciaveva preparato alle visioni davverosurrealiste dello sfascio del progetto(e anche del sogno) sovietico.Questo “nulla” significava che mol-ta informazione era stata accurata-mente celata, mentre molta disinfor-mazione era passata attraverso ac-curati e sapienti filtri. Di quest’ope-razione di copertura e falsificazione

erano complici tutti, i testimonidi una parte politica e quelli

della parte avversa. Per moti-vi opposti, a tutti faceva evi-

dentemente comodo propa-gare un certo tipo di im-

magine, quello diun’Urss forte e temi-

bile, non l’altra im-magine del paese

terzomondista.Eravamo statitutti vittimedi una colossa-

le manipolazione dell’opinione pub-blica, di una gigantesca truffa. Sono passati molti anni, e la truffamediatica continua su altri fronti, ecoinvolge sia persone sane e oneste,

sia il loro contrario. La truffa sicompie su molti fronti, ma quelloche a noi interessa principalmente èil Medio Oriente, e in particolarequello che sta realmente succedendoa Gaza.La flottiglia pacifista e i suoi strasci-chi hanno portato a fior di pelle leemozioni, le strategie politiche e letecniche mediatiche attraverso lequali si forma l’opinione pubblica.Si è parlato di crisi umanitaria, ditunnel sotto il confine fra Gaza el’Egitto, di blocco navale. Molto me-no del fatto che il maggiore fornitoredi energia elettrica e di acqua pota-bile a Gaza è e continua a essereIsraele. Si è discusso dell’operazionePiombo fuso e del numero delle vit-time a Gaza armate e civili, moltomeno dell’articolo 7 della Carta diHamas che dice: “Il Giorno del Giu-dizio non verrà finché i musulmaninon combatteranno gli ebrei, quan-do gli ebrei si nasconderanno dietropietre e alberi. Le pietre e gli alberidiranno: oh musulmani, oh Abdul-la, c’è un ebreo dietro di me, venite euccidetelo”.Dalle prese di posizione da parte dipolitici, studiosi, giornalisti e sem-plici spettatori emerge una piramidedell’ecosistema mediatico. Nel trac-ciarne qui alcune linee basate suesempi italiani, premettiamo che lacritica fatta agli altri non significal’assenza di critiche anche graviall’amministrazione e della societàisraeliana. Di queste avremo mododi occuparci ampiamente in un’altraoccasione. Al livello più infimo dellapiramide dell’ecosistema della truffamediatica si trova la pubblicisticatipo Il manifesto che nel quarto an-niversario della cattura su suoloisraeliano del soldato Gilad Shalitnon sa fare di meglio che usare pa-role degne della difesa della razza:“sarà che un esponente del ‘popoloeletto’ e cittadino dello ‘stato eletto’pesa di più di 11 mila dannati dellaterra?”. Un gradino più sopra si trova chi fala guerra tenendo in mano un ramod’olivo. Per esempio: il vescovo cat-tolico - greco Hilarion Capucci, pre-senza immancabile in ogni manife-stazione e navigazione anti - israe-liana, arrestato in passato per tra-sporto di materiali esplosivi al confi-ne fra la Giordania e Israele, e poiscarcerato per intercessione del Va-ticano con la clausola esplicita dellacessazione di ogni sua attività pub-blica. La presenza di Capucci a bor-do della flottiglia e la sua promessadi partecipare a un successivo tenta-tivo di forzare il blocco del porto diGaza è un atto di spregio agli accor-di internazionali e un attentato alleintese tra Israele e Vaticano. MaCapucci e i suoi simili, come il ve-scovo di Sidone, non potrebbero ap-parire in pubblico se non avesserol’appoggio vaticano, implicito senon esplicito. L’interesse della Chie-sa a difendere le comunità

La discutibile piramide dell’ecosistema mediatico

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ú–– Sergio Della PergolaUniversità ebraica di Gerusalemme

A volte, preso dalla nostalgia del“loco nation”, risento il cd delletradizioni musicali degli ebrei italia-ni,con sentimenti di commozioneper i canti e per gli esecutori che, ingran parte, non sono più con noi. Sitratta di una limitata scelta dellecentinaia di registrazioni effettuatedecenni addietro da Leo Levi, fontedi primaria importanza per la salva-guardia del patrimonio musicaledelle nostre comunità. L’antologia siconclude con l’Inno bilingue, com-posto dal rabbino Giuseppe LeviGattinara, pubblicato nel 1852, perla celebrazione del Hag haherut, laFesta della Libertà, a perenne me-moria dell’emancipazione del 1848.Musica e testo mi immergono inun’effervescente atmosfera risorgi-mentale, con echi verdiani e chiareinfluenze di liriche patriottiche coe-ve. E per analogia rivedo il piccolo

Aron nel tempio piccolo di Torino,proveniente dall’antico ghetto, lecui antine ancora oggi sono dipintedi nero, oscurando l’immagine diuna Gerusalemme idealizzata, in se-gno di lutto per la morte del monar-ca emancipatore, Carlo Alberto diSavoia Carignano.Seguo le polemiche al riguardo dei150 anni dell’Unità d’Italia, sinto-mi di un clima di valori sminuiti o,semplicemente, ignorati da genera-zioni di una nuova era che ancoranon ha trovato equilibri e ideali. Fe-nomeno planetario. Per limitarmiall’orticello ebraico italiano, sento alCentro storico della Comunità to-rinese di programmi in elabora-zione per elevarsi a un pia-no nazionale. Leidee e i temi daillustrare e dadibattere,se non in-tendiamo alimitarci asterili apologie,sono molteplicicon rilevanzapiù che mai attua-le. Una sosta di riflessione e

di approfondimento sarebbe alquan-to salutare proprio in questi tempiprocellosi di scontri personali e cor-rosioni. Prima di tutto sarebbe assaiauspicabile un dibattito storiografi-co e ideologico sulla collettività de-gli ebrei in Italia nel processo risor-gimentale e da allora all’inizio delterzo millennio. Una componentepiccola numericamente, ma nondi-meno di provata levatura intellet-tuale, nel contesto della società ita-liana, partendo dall’affermazionegramsciana, da ristudiare e verifica-re criticamente. Confrontando

l’ebraismo italianocon quello di altri

paesi europei, in primis quellodell’Europa centrale evidenziandol’esemplarità del movimento unita-rio del Risorgimento sui precursorie i protagonisti del risveglio nazio-nale ebraico. Dobbiamo, di nuovo,discernere l’elemento ebraico, nelpensiero e nell’azione di tante figuredella nostra vicenda, e illustrarel’atteggiamento nei nostri confronti,in quanto ‘diversi’, in quanto mino-ranza, degli artefici dell’Unità conla parentesi, tragica, della persecu-zione, e dei grandi movimenti diopinione dell’Italia democratica.Scrivo queste note in ore non facileper lo Stato ebraico, dense di preoc-cupanti incognite per il future, an-che prossimo. Ma posso confermare

che l’Italia, nel suo complesso, èpiù che mai cara agli israeliani,forse come pochi altri paesi. Staa noi, nelle due rive del Medi-terraneo, italiani ebrei e italkim,approfondire con fermezza que-sto legame, con contingente, noncongiunturale, solenizzando nel2011 la nascita di uno Stato che

ha svolto, nel bene e, purtroppo,anche nel male, una funzione nontrascurabile nel secolare camminodel Popolo ebraico.

Noi Italiani: quale ruolo nell’Unitàú–– Reuven

Ravennabibliotecario

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Alle volte i libri si impongono al lo-ro lettore. Accade perché è impor-tante non solo ciò che c’è dentro untesto, ma soprattutto cosa c’è fuorida quelle pagine, intorno a chi lolegge. Mi servirò di un esempio con-siderando un libro uscito di recente. La caccia di Salomon Klein (Mur-sia), di Massimo Lomonaco, raccon-ta una sorta di spy story che intrec-cia la vicenda di Salomon Klein -scelto da Ben Gurion per inseguire,neutralizzare e annientare un grup-po terroristico nazista penetratonell’Yishuv nell’estate autunno1942, nel momento di massimaavanzata dell’esercito nazista versoAlessandria d’Egitto - e le scelte divita dei diversi protagonisti: la lea-dership sionista, le varie figure delmondo palestinese e i sionisti dellabanda Stern, convinti che fareun’alleanza tattica con i nazisti percombattere gli inglesi sia una solu-zione. Salomon Klein, una figura disconfitto in cerca di ricucire il suopassato e il suo presente.Vorrei richiamare l’attenzione sualcune questioni che l’autore infilain quel testo e che, fuori e oltre lafinzione letteraria, sono tutte da-vanti al lettore. La prima riguardala fisionomia del protagonista; la se-

conda quella di Ben Gurion. La bio-grafia di Salomon Klein è moltosemplice: è quella di un ebreo tede-sco, espressione di una lunga storiadi assimilazione orgogliosamenteconvinto della propria identità tede-sca, reduce della Prima guerra mon-diale e che la storia della Germaniaha lentamente espulso con il nazi-smo fino a farne un profugo che ar-riva in Palestina, ma senza convin-zione, privo di una motivazione.Questo se stiamo ai fatti. Ma la bio-

grafia di un individuo, non è l’insie-me dei fatti che lo riguardano o lasomma nel tempo di ciò che si tra-scina dietro. E’ invece, la rilevanza– e dunque il valore – che egli dà al-le cose nel momento in cui deveriassumere sinteticamente il sensodella sua personalità e, più concre-tamente, la storia della sua persona.L’uomo non si ricorda del passato,lo ricostruisce sempre e proprio in

quella ricostruzione ha il problemadi congiungere il suo presente in re-lazione a ciò che si aspetta nel suoagire nel presente.Per questo per Salomon Klein nonesiste il rifiuto del suo passato per-ché la sua condizione presente è lasconfitta. All’opposto: quell’espul-sione cui si aggiunge la sconfittanelle sue scelte di schieramento (co-me reduce della guerra di Spagna incui ha combattuto dalla parte dellebrigate internazionali contro Fran-

cisco Franco) non si risolve, né neldisincanto, né nel rinnegamento diciò che è stato. Klein resta convintodelle sue scelte di schieramento, sitratta di ritrovare un’opportunitàin cui renderle non solo plausibili,difendibili, sostenibili, bensì vere esignificative. Per farlo ha bisogno di una sfida incui quel passato, sconfitto, negato, edistrutto dai suoi avversari abbia di

nuovo un senso. Sia non solo spen-dibile, ma rivendicabile. È ciò chegli dice Ben Gurion nel primo collo-quio che hanno alla domanda diKlein perché lui sia stato scelto: “leivuole soltanto mettere d’accordo ilpassato e il presente, non alterarli.E ritrovare quel filo che ha smarri-to. (…) nel farlo sarà un nemicoimplacabile di chi nega il senso delpassato per costruire un presentesenza giustificazioni nella storia enei sentimenti. Per questo ho sceltolei” (p. 32).Ma questa risposta non è meno si-gnificativa per l’uomo politico che lapronuncia. Ed è qui che sta la se-conda questione: le doti e le caratte-ristiche dell’uomo politico in condi-zioni di eccezionalità e ciò che lo di-stingue dal funzionario politico. Chiè Ben Gurion in questo testo? E’una figura che ha il problema diperseguire un obiettivo, ma di do-verlo misurare, modulare, ridurre econtrattare con i suoi interlocutoriinterni, con i suoi avversari politici,con l’amministrazione inglese, conquella parte di mondo palestineseche, diffidente, capisce che il futuroè nella coabitazione, magari anchenella divisione territoriale. Unascommessa politica il cui primo pre-supposto, accanto all’obiettivo che sivuol conseguire è nella valutazionedi ciò a cui si può rinunciare.E’ la caratteristica che distingue unleader politico da un funzionario po-litico. Il funzionario, quando l’auto-rità a lui preposta insiste – nono-stante le sue obiezioni – su un ordi-ne che a lui sembra errato, tiene adonore di saperlo eseguire, sulla re-sponsabilità del superiore, coscien-ziosamente ed esattamente come seesso corrispondesse al proprio con-vincimento.Viceversa l’onore del capo politico, equindi del capo di stato, consistenell’assumersi personalmente edesclusivamente la responsabilitàdelle proprie azioni, che egli nonpuò né vuole evitare o addossareagli altri. Una condizione che sifonda su un “treppiede” instabile,ma fondamentale: passione, senso diresponsabilità, lungimiranza. Ovve-ro passione: dedizione appassionataa una causa; senso di responsabilità:misura dell’agire; lungimiranza: di-stanza tra le cose e gli uomini. Come possono coabitare in un me-desimo animo l’ardente passione e lafredda lungimiranza? E’ il fermocontrollo del proprio animo che ca-ratterizza il politico appassionato elo distingue dai dilettanti della poli-tica che semplicemente “si agitano avuoto”. Ciò è possibile solo attraver-so l’abitudine della distanza, in tut-ti i sensi della parola. La “forza” diuna personalità politica dipende inprimissimo luogo dal possesso diqueste doti. Qui ho chiuso il libro e mi sonochiesto: c’è qualcosa in questa storiache ci riguarda da vicino?

certo riconosciuta la capacità di por-tare avanti con una discreta rapidi-tà la realizzazione amministrativadel museo, manca nei fatti una figu-ra o un organismo in grado di rela-zionarsi in maniera autorevole conil progettista che risulterà vincitoredel bando e con le imprese edili e in-frastrutturali che saranno incaricatedi realizzare l’opera. C’è – è vero – un comitato scientifi-co, la cui figura di maggiore e rico-nosciuta competenza museale era lacompianta e indimenticabile Danie-la Di Castro, ma si tratta di un or-ganismo lasciato privo di potere e dicompetenze chiare.Mettiamoci nei panni di un archi-tetto progettista, o anche solo di uncapo cantiere che deve decidere a chealtezza e dove posizionare le preseelettriche in una stanza, dove farpassare i tubi dell’aerazione, che ti-po di materiale utilizzare per ricrea-re l’ambiente di una sinagoga, e cosìvia: a chi si rivolge? Sulla base diche tipo di indicazioni progettuali?E chi vigila sulla realizzazione cor-retta del lavoro, avendo in testa co-me sarà o cosa si potrà o non si po-trà fare nei diversi ambienti? Lo Jü-disches Museum di Berlino ha ben

quattro direttori che si suddividonodiverse responsabilità settoriali; ilJewish Museum di Londra ha un di-rettore, tre curatori e un consistentenumero di responsabili di altri set-tori, dall’educazione, alla ricerca, al-la fotografia; il Musée d’art et d’hi-stoire du Judaïsme di Parigi ha undirettore e diversi curatori.Insomma, un museo per definizione– anche quando è in fase di realizza-zione – è fatto di uno staff che lavo-ra, si muove e orienta le acquisizio-ni e l’organizzazione della collezio-ne permanente come pure delle ini-ziative temporanee sulla base di pre-cise indicazioni progettuali. Ma lo staff è necessario e deve abi-tuarsi da subito a lavorare assieme ein sintonia con le indicazioni degliorganismi fondativi del museo stes-so. Fra l’altro la città di Ferrara nonmanca certo di esperienza in questosenso, e l’ha ampiamente dimostratorealizzando in poche settimane conil lavoro di un gruppo di professio-nisti affiatati e competenti un even-to di assoluto rilievo come la Festadel libro ebraico che si è svolta adaprile.Il Meis deve quindi al più presto di-ventare un organismo progettuale

vivo, con uno staff tecnico scientifi-co in grado di assumersi la respon-sabilità di portare a compimento unprogetto scientifico condiviso. Le fondamenta sono state poste, conla realizzazione di un primo rappor-to coordinato dal Cdec e in seguitocon la stesura della proposta proget-tuale allegata al bando. Il sito – contutti i pregi e i difetti connaturatiall’ex carcere di via Piangipane – èstato definitivamente identificato edè pronto ad essere trasformato nelpiù grande museo ebraico d’Europa. La missione del museo è altrettantochiara e condivisa, e mi sembracompendiabile nella seguente affer-mazione, che mi permetto di sugge-rire: il Paese assume la civiltà ebrai-ca nelle sue molteplici forme comepropria componente irrinunciabile,nella consapevolezza che l’Italiasenza gli ebrei, così come gli ebreisenza l’Italia, sarebbero differenti dacome sono ora. Su questa base si tratta di dareun’anima al Museo, in modo dapermettere ai visitatori (turisti,bambini, giovani studenti) quelcomplesso di esperienze cognitive,educative, emozionali, sociali e ludi-che che fanno di un museo modernoun luogo vivo e indimenticabile.

LUZZATTO da P11 /

cattoliche in Medio Oriente, oggettodi continui soprusi e massacri, è bencomprensibile. Ma la scelta – controintuitiva e anticristiana – di scende-re in campo a fianco di Hamas e diHizballah nel conflitto contro Israe-le la dice lunga sul dialogo cattolico- ebraico -israeliano.Salendo i gradini della piramide del-l’ecosistema mediatico troviamo idue pesi e le due misure della cultu-ra politica civile che sollecita unapiù incisiva iniziativa di assistenza,intermediazione e pacificazione“nella regione dove sono morte pietàe giustizia. Mentre scotta il conflit-to israelo-palestinese, che ha trovatoil suo culmine nei massacri dell’ope-razione ‘piombo fuso’ a Gaza agliinizi dell’anno scorso” l’interventodella marina israeliana in alto maresarebbe un ‘feroce episodio’”. Sonole parole del senatore Nino Randaz-zo, rappresentante in parlamentodei cittadini italiani in Asia, Africa,Oceania e Antartide. Il vero manda-to di Randazzo è la tutela degli inte-ressi degli italiani nella sua vastacircoscrizione, e nella fattispecie, ca-se di italiani sono state distrutte dairazzi kassam lanciati da Gaza. Nonrisulta invece che italiani abbianocompiuto crimini di guerra. Ma seproprio si deve occupare di pietà e digiustizia nella sua circoscrizione, ilSenatore – dopo aver preso decisaposizione a favore di un lato nelconflitto tra Hamas e Israele – ci di-ca onestamente da che parte sta nelcontenzioso fra la Kirghizia e la mi-noranza uzbeca che nelle ultime set-timane ha causato centinaia di mor-ti e decine di migliaia di profughi.Ci dica anche, chiaramente, se stadalla parte della Turchia o della mi-noranza curda nel conflitto che hacausato negli ultimi anni 40 milamorti, e sul quale il primo ministroturco Erdogan dopo l’uccisione di12 soldati turchi ha dichiarato che“i ribelli curdi annegheranno nel lo-ro sangue”.Al vertice della piramide dell’ecosi-stema mediatico sta chi, forse per ec-cesso di idealismo, o per l’euforiadella posizione, confonde situazionistoriche e crea analogie aberranti:“quell’arrembaggio sconsiderato inacque internazionali, senza cheIsraele fosse minacciato nella sua si-curezza, discredita uno dei suoi va-lori fondativi: la superiorità moralepreservata da una democrazia anchenelle circostanze drammatiche dellaguerra”. Questo è il paragone diGad Lerner tra il blocco navale in-glese che nel 1947, alla vigilia dellaproclamazione dello Stato d’Israele,cercava di impedire all’Agenziaebraica di portare sopravvissutidell’Olocausto in Palestina, e ilblocco navale israeliano che vuoleimpedire la creazione di una basemilitare iraniana nel porto di Gaza.Per lo meno ammettiamo che, a dif-ferenza della Mavi Marmara, sul-l’Exodus le persone erano disarma-te. Nella piramide dell’ecosistemamediatico l’integrità è ancora viva,però è moribonda.

DELLA PERGOLA da P13 / Così il vero leader raffredda la passioneú–– David Bidussa

storico socialedelle idee

n. 8 | agosto 2010 pagine ebraicheEDITORIALI / COMMENTI / LETTERE

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010

ú–– Valerio Di PortoConsigliere UCEI

C ome iscritto alla comunità diPisa non posso che congratu-

larmi per la scelta di dedicare questo

Dossier a Livorno, rammentando glistretti legami, la stima reciproca edirei perfino l’affetto che unisce ledue città. Si tratta, come sapete, didue centri molto vicini tra di loro(meno di venti chilometri l’uno dal-l’altro) e nel contempo così diversida essere complementari: Livorno èadagiata sul mare ed è una tipica cit-tà portuale, di nascita recente; Pisadista dal mare dieci chilometri ma èstata repubblica marinara, in un lon-tano, fulgido e ben presente passato.Livorno è famosa in Toscana per lospirito mordace dei suoi abitanti, in-tenti a scrivere frasi di dileggio su Pi-sa e i pisani in ogni angolo del pia-neta in cui si trovino (una delle scrit-te più celebrate si trova al polo nord).Pisa è famosa nel mondo per la suatorre non perfettamente perpendi-colare alla terra e anche per l’univer-sità, la Scuola Normale e la ScuolaSant’Anna. Livorno ha dato meno alla culturae all’arte (se si eccettuano Modiglianie pochi altri), ma in compenso si èsaputa ritagliare un proprio spazionell’editoria mondiale dando vita auna rivista specializzata nell’ironiz-zare (passatemi l’eufemismo)

ú–– Gadi Polacco, Consigliere UCEI

“Dayenu/Ci sarebbe bastato”,avrebbero potuto dire, come

nell’Haggadah di Pesach, i livornesidi scoglio citando la celebrata sen-tenza dantesca: “Ahi Pisa, vituperiode le genti...”. Ma l’accortezza chedeve avere il buon navigante fece inmodo che altre precauzioni, ad abun-dantiam, venissero prese e quindi,oltre alla celeberrima massima suipisani che si trova ovunque nel mon-do, si pensò anche opportuno di-chiarare, con tanto di cartello al con-fine nord, la natura di Livorno quale“Comune depisanizzato”. E quando,più di due decenni fa, parve immi-nente un ampliamento del porto la-bronico che avrebbe potuto, secondouna delle ipotesi, allungarsi in terri-torio pisano, verso la mezzanotte delterzo giorno di discussione, nell’aulacomunale che ospitava le serrate edestenuanti riunioni, riecheggiò un’al-tra sentenza che pose fine al dubbio:“E poi sia mai che si veda un por-tuale pisano!”. Un vero e propriominhag, quindi un rito caro alla cittàquanto quello liturgico alle Comunità

ebraiche (Livorno in particolare), permettere ben in chiaro l’alternativitàlivornese alla pisanità che per un cer-to periodo fu alimentato anche dalcalcio. Poi, se Livorno non si è fattamancare alti e bassi, i pisani

ú–– Adam Smulevich

I l testimone passa da Trani a Li-vorno. Cambia la costa, ma la cit-

tà capofila della Giornata Europeadella Cultura Ebraica resta anchequest’anno una località marittima.Affacciandosi dalla Terrazza Masca-gni, luogo di suggestioni mediterra-nee nel centro di Livorno, lo sguar-do volge verso occidente. A centi-naia di chilometri si possono imma-ginare le spiagge della Spagna da

cui hanno tratto origine le fortunedi questo centro ebraico.Piccolo agglomerato con alcune de-cine di sudditi fino a tardo Cinque-cento, la città ha una storia che mol-to spesso parla proprio spagnolo, lospagnolo (e il portoghese) parlatodagli ebrei sefarditi in fuga dall’In-quisizione. La città nasce per voleredel Granduca di Toscana Ferdinan-do I de’ Medici che vuole limitarela decadenza di Pisa, passata sottodominio fiorentino e senza più sboc-

co diretto sul Mar Tirreno, creandoun vicino scalo portuale in grado didare nuova linfa ai commerci.Ferdinando I ha una felice e lungi-mirante intuizione: aprire Livornoai “mercanti di qualsivoglia Nazio-ne”. Nel 1591 (e una seconda voltanel 1593 con alcune lievi modifiche)promulga le Costituzioni livornine,che garantiscono a chiunque prendaresidenza a Livorno o Pisa libertàdi culto e di mestiere, professionereligiosa e politica, annullamento

dei debiti e di condanne per almeno25 anni. È una tappa decisiva per gliebrei sefarditi senza una patria: dopoanni di massacri e conversioni for-zate, ottengono diritti fino a quelmomento sconosciuti. Inizia così unavicenda di integrazione quasi unicanella cristianissima e antisemita Eu-ropa che inceneriva la sua coscienzanei roghi. Gli ebrei prosperano e fan-no prosperare Livorno. Sono rispettati e anche nei momen-ti di maggiore tensione con

Dopo le ultime edizioni che hannovisto come capofila, Trieste, Milano,Mantova e lo scorso anno Trani, laGiornata europea della cultura ebrai-ca quest’anno prenderà il via da Li-vorno. L’evento, che avrà come tema“L’arte e l’ebraismo”, anche quest’an-no sarà sotto l’Alto patronato dellaPresidenza della Repubblica e avràil patrocinio del ministero delle At-tività e beni culturali, dell’Istruzione,dell’università e della ricerca scien-tifica. Livorno ha avuto un ruolo cru-ciale nella storia ebraica europea. Fuinfatti la città che, con la promulga-zione nel 1593 delle cosiddette livor-nine da parte di FerdinandoI de’ Medici, accolse gli ebreiespulsi dalla penisola ibericae consentì loro di lavorare,studiare e possedere beniimmobili nella città portua-le, a differenza di quanto ac-cadeva nelle altre terre delGranducato di Toscana. Furono loroa costituire il primo nucleo della Co-munità ebraica locale, attratti daun’immunità grazie a cui molti ebreidetti ponentini, i marrani portoghesie gli ebrei spagnoli, videro in Livornoil loro rifugio esistenziale e la metaobbligata. La comunità ebraica li-vornese giocò un ruolo centrale nel-lo sviluppo economico e culturaledella città. Rabbini e studiosi vi tro-varono un ambiente favorevole el’espressione artistica vi ebbe mo-menti di grande intensità. Per quan-to riguarda la pittura, si possonoammirare nel Museo civico GiovanniFattori di Livorno, opere di AmedeoModigliani, Serafino De Tivoli, Vit-torio Corcos e Ulvi Liegi. Sul versantedell’architettura non si può invecenon menzionare la spettacolare vec-chia Sinagoga e la nuova: un edificioprogettato dall’architetto Angelo DiCastro in uno stile affine all’archi-tettura moderna. Anche di questosi parlerà nella Giornata della cultu-ra ebraica in un incontro nella salaconsiliare della Provincia in cui Raf-faele Bedarida approfondirà usi ecostumi livornesi nel suggestivoquadro di Solomon Alexander Hart,esposto al Jewish museum di NewYork, che raffigura la festa della Leg-ge nell’antica sinagoga di Livorno.

Yoram OrtonaConsigliere UCEI delegato alla Gior-nata Europea della Cultura Ebraica

La Comunità ebraica di Livorno, che quest’annosarà città capofila della Giornata Europea dellacultura ebraica, ha radici che affondano in unpassato di grandi tradizioni. Una vicenda storicache trae origine dalla scelta di tolleranza con cuiFerdinando I de’ Medici apre la città “ai mercanti diqualsivoglia Nazione”. Le Costituzioni livorninegarantiscono infatti a chi s’insedia libertà di culto edi mestiere e segnano una tappa decisiva per gliebrei sefarditi in fuga dall’Inquisizione che quitrovano una nuova possibilità di costruirsi una vita.Nei secoli la comunità ebraica di Livorno fiorisce e

vede sfilare rabbini e cabalisti di fama, pittori emusicisti, commercianti e filantropi avventurosi.Un’identità nutrita di cultura (senza mai trascurarequel gusto tutto toscano dell’ironia) che si riflettenello slancio con cui si continua a costruire unfuturo ebraico, malgrado la crisi demografica e lamancanza di lavoro che penalizza i più giovani. ALivorno ripartono infatti con nuovo slancio leattività dedicate ai ragazzi mentre una casaeditrice e un’antica libreria continuano adiffondere conoscenza ebraica. Storie di ieri e dioggi che raccontiamo in questo Dossier.

Dalla tradizione la via del futuro

Visti da Pisa

Storia di mare, libertà e nuovi diritti

Visti da Livorno

Uno scrigno preziosod’arte

DOSSIER/Livorno

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraiche

u Rav Didi mentre lavora al restauro di un Sefer Torah. E’ il

più giovane rabbino di una Comunità ebraica italiana.

I l bengasino Samuel Zarrough, 65anni ben portati, è una delle tante

vittime delle persecuzioni a cui fu-rono sottoposti gli ebrei di Libia. In-ternato per una settimana nel campoprofughi di Capua dopo aver tra-scorso un mese in un campo di rac-colta nel paese natio, arriva a Livor-no nel 1967 insieme ai suoi e ad altrefamiglie ebraiche libiche, una ses-santina di persone in totale. L’im-patto con la nuova città è ottimo, inbreve il neolivornese Samuel maturala decisione che quella sarà la suaresidenza per la vita. Oggi al terzo mandato consecutivoda presidente, Zarrough è una figurastorica della Comunità ebraica: da40 anni esatti, salvo un break di dueanni e mezzo ormai datato, è nelConsiglio. Fa il commerciante e co-nosce mezza Livorno. Basta fare unapasseggiata con lui in via Grande,dove ha sede la sua attività, per ren-dersene conto. Quasi tutti i passantilo salutano e lo invitano (generosa-mente ricambiati) al bar per un caffè.“Integrarsi qui è facile, i rapporti trapersone sono spontanei”, spiega. Gliebrei sono visti con simpatia, rac-conta. “La Comunità ebraica, comeama ripetere il sindaco AlessandroCosimi che è un nostro sincero ami-co, è considerata parte della città enon un corpo estraneo”. Rari i problemi e le tensioni, ecce-zion fatta per quei rigurgiti di anti-semitismo che talvolta fanno capo-lino quando le vicende mediorientalisubiscono una deriva sanguinosa.“Ma nel complesso non possiamolamentarci”. Anche il rapporto conle gli enti bancari, risorse indispen-sabili per programmare il futuro dellaComunità e delle sue strutture, vaper il meglio. “Grazie alla Cassa dirisparmio di Livorno che ci sostienein molte iniziative importanti, prestosarà possibile procedere al restaurodel vecchio cimitero ebraico”.L’arrivo di Zarrough e delle altre fa-miglie libiche alla fine degli anni Ses-santa, movimenta la vita religiosa

degli ebrei livornesi. La ricca tradi-zione liturgica libica varca la sogliadella sinagoga e si unisce alla altret-tanto ricca tradizione corale livor-nese. Lo stesso Zarrough spesso of-ficia le funzioni alla maniera benga-sina. E pur non essendomai tornato nei luoghidella sua gioventù (“so-no stato a Tripoli comemembro di una delega-zione incaricata di trat-tare con Gheddafi pereventuali risarcimentima non ho avuto la pos-sibilità di fermarmi aBengasi”), mantiene uncontatto costante con i luoghi e lacultura di origine. “Leggo molti au-tori arabi, i miei preferiti in assolutosono gli scrittori egiziani”. La svegliadel presidente suona prestissimo, allesei di mattina. “Dormo poco, mi ba-stano anche solo quattro ore di son-

no per riposarmi”. Dopo la sveglia arriva il momentodi fare shachrit (la preghiera mattu-tina), poi colazione con immancabilecaffè, apertura del negozio di profu-meria che gestisce insieme ai fratelli

e mente lucida perconcentrarsi sui proble-mi della Comunità.“Che non sono pochi”,commenta.Gli Zarrough sono unapiccola tribù (“quattrofratelli, sei sorelle e ven-ticinque nipoti”) moltounita. Vivono in partea Livorno e in parte a

Roma. Si sentono spesso al telefono:“I miei nipoti, nonostante alcuni diloro siano geograficamente distanti,mi chiamano quasi ogni giorno”. Neanche a farlo apposta e squilla ilcellulare. È Vito Kahlun, figlio di unodei suoi tanti fratelli e giovane attivo

L a situazione dei giovani ebreilivornesi non è delle più facili.

Oltre alla crisi demografica che in-teressa l’intera comunità ebraica ita-liana, a Livorno è particolarmenteaccentuato il problema della man-canza di sbocchi lavorativi qualifi-cati. Molti ragazzi, conseguito un ti-tolo di studio se ne vanno. Ma cisono anche quelli che restano, sirimboccano le maniche e provanoa costruire il futuro della loro Co-munità.Un aiuto spesso arriva anche da fuo-ri. Hilla Levy studia veterinaria e vi-ve a Livorno. È israeliana e da circaun anno si occupa di attività giova-

nili. Il suo lavoro è distribuito su trefasce di età: i giovanissimi (5-11), gliadolescenti (12-18) e gli over 18.Hilla organizza attività ludiche e ri-creative. Mette a punto i sedarimper i più piccoli, dà una mano almaestro Chaim Leone al TalmudTorah, accompagna i ragazzi nellegite fuori porta, propone temi espunti per le serate dei più grandi.Tutti dicono che è bravissima, malei arrossisce (“faccio solo del miomeglio”). Racconta di trovarsi bene: “Le fa-miglie livornesi sono molto gentilie accoglienti, se mi prolungano ilcontratto resto volentieri”. Prima di

Da Bengasi ai vertici comunitariSamuel Zarrough, ebreo di origini libiche, è al suo terzo mandato da presidente

Yair Didi è un rabbino giova-ne, cordiale e sorridente. Ha

33 anni e viene da Beer Sheva,la capitale del Negev. Sulla scri-vania del suo ufficio un libro scrit-to da un rav suo amico e com-pagno di studi che rivela i colle-gamenti mai troppo approfondititra ebraismo e progresso scien-tifico, su un tavolino accanto allascrivania un Sefer Torah che sioccupa di restaurare nelle pausetra i tanti impegni comunitari. Nel 2005, ad appena 28 anni (unrecord per l’ebraismo italiano epare anche per quello europeo),Didi è nominatorabbino capo di Li-vorno, succedendo auno dei rabbanimpiù amati dalle ulti-me generazioni di li-vornesi: rav JehudaKalon z.l. Curricu-lum di studi in alcu-ne delle yeshivot piùimportanti di Israeletra cui la celebre yeshivat KissehRahamim, si dice che a favoredella sua nomina livornese si siaespresso (“almeno mi è stato det-to così”) anche rav ShlomoAmar, massima guida spiritualesefardita di Eretz Israel. Rav Didi,che è sposato con una connazio-nale e ha tre figli, prima di tra-sferirsi in Italia abitava in un ap-partamento della Città vecchiadi Gerusalemme situato a duepassi da alcuni tra i luoghi piùsimbolici di Yerushalaim.

óúúúó

Il rav li elenca con piacere: “Ave-vo il muro in comune con la salain cui si dice che si sia svolta l’Ul-tima cena, al piano di sopra sitrovava la stanza in cui visse ilprimo presidente dello Stato diIsraele Chaim Weizmann e pochimetri più in basso c’era la tomba

di re David”. Passare dalla magiae spiritualità di Gerusalemme auna città fino a quel momentosconosciuta (unico contatto conil Belpaese è uno zio per tren-t’anni shochet a Roma) non è sta-to troppo difficile, spiega il gio-vane rabbino.

óúúúó

“Livorno e la sua atmosfera caldae vivace mi sono piaciute al pri-mo impatto”. Il merito è anchedegli iscritti alla Comunità, “per-

sone aperte e moltodivertenti che hannoreso il mio ambien-tamento abbastanzafacile”. Didi, diploma di sho-chet e di dayan inbella vista sul muro,non si lamenta dellasituazione attualedell’ebraismo livor-

nese: “Per fortuna abbiamo quasitutto, con alimentazione kasherdisponibile in vari punti della cittàe minian in sinagoga al lunedì eal giovedì. Non penso che molteComunità se lo possano permet-tere”. Il rav vanta ottimi rapporti conil presidente Zarrough e con i ra-gazzi. Oltre a partecipare al pro-getto Moadon Gheulà e alle at-tività del Talmud Torah di cui hala supervisione generale, ogni do-menica tiene lezioni per un pub-blico eterogeneo spesso compo-sto da tanti non iscritti. Anche la famiglia è ben inseritanelle attività comunitarie: la mo-glie lavora come assistente socialea un progetto per gli anziani pa-trocinato dall’UCEI e insieme alrav organizza frequenti viaggi inIsraele. Viaggi all’insegna del dia-logo, sottolinea rav Didi: le iscri-zioni sono aperte sia a ebrei chea non ebrei.

Yair Didi, un rav di 33 anni per costruire il futuro

E per i più giovani c’è il Moadon fai da teGli over 18 gestiscono uno spazio di cultura e svago

DOSSIER/Livornou Le attività che la Comunità

ebraica dedica ai giovani sono di-

vise in fasce di età. Il coordina-

mento dei progetti per i più

piccoli e la parte ludica e ricrea-

tiva sono compito di Hilla Levy.

Del Talmud Torah si occupa in-

vece il maestro Chaim Leone (a

sinistra). Il regno dei grandi è

una piccola stanza autogestita in

via Grande (a destra), dove si

svolgono ogni due settimane se-

rate a tema, proiezioni di film,

giochi di società e lezioni di

ebraismo con rav Didi. A destra,

sulla parete del cucinino, una

bandiera del Maccabi Haifa.

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010

u L’arrivo di un nuovo

Sefer Torah in sina-

goga è sempre una

festa. A sinistra nella

foto grande gli ebrei

livornesi gioiscono intorno ai rotoli

scritti alla memoria di rav Jehuda

Kalon z.l. A ricoprirli, uno speciale

meil (manto) ricamato ad api do-

rate donato dal consigliere, editore

e libraio Guido Guastalla (nella foto

a destra). Nella foto piccola in alto

il presidente Samuel Zarrough con

il Sefer Torah dedicato alla memo-

ria dei deportati livornesi scritto in

onore del Giusto tra le nazioni

Mario Canessa.

Doctor kebab è la meta preferitadi quanti, appassionati di golo-

sità mediorientali, cercano anche lakashrut. Ad aprire il punto venditanel 2005 è un giovane ebreo livor-nese, Gabriel Maisto, che rispondecosì alla sollecitazione di rav JehudaKalon z.l che in un’ottica di allarga-mento e rinnovamento della Comu-nità ebraica di Livorno riteneva diprimaria importanza la nascita di unristorante kasher. Diploma di ragio-neria in tasca, Gabriel non ha alcunaesperienza sul campo e parte da zero.Il mestiere lo impara in Israele, paesein cui conosce chi lo avvia alla pro-fessione. Nato come una scommessao quasi, negli anni il ristorante è an-dato estendendo la rete dei suoiclienti. “Molti di loro - racconta ilgiovane proprietario - sono non ebreiche venendo qua sanno di trovareprodotti di alta qualità e massimo ri-spetto delle norme igieniche”. Tipico

fast food di carne all’israeliana, il piat-to forte è lo schwarma, che a diffe-renza di quanto succede in Israeleviene saltato in padella insieme al ri-so. “È una mia invenzione che dàmaggiore sapore alla pietanza”, diceorgoglioso Gabriel. Il menu di Doc-tor kebab prevede varie combinazio-ni di panini e piatti caldi. In venditaanche una vasta gamma di prodottikasher, dalla carne congelata al vino.Un servizio innovativo per Livorno.“Siamo gli unici ad offrirlo quotidia-namente”, spiega. Kiddushim e rin-freschi per festività e convegni, negli

ultimi tempi Doctor kebab è andatospecializzandosi come azienda di ca-tering che opera in tutta la Toscanae talvolta ne oltrepassa i confini. Nel-la rete del punto vendita di CorsoAmedeo ci sono infatti alcune orga-nizzazioni ebraiche internazionali.“Una delle esperienze più importantiche ho fatto finora - racconta questogiovane ragioniere che oltre a far be-ne di conto se la cava in modo egre-gio anche tra i fornelli - è stato il ser-vizio di ristorazione a due edizionidella Summer U, il raduno estivo deigiovani ebrei europei”.

le autorità e con il popolino nonconoscono mai le privazioni e iconfini rigorosi imposti dei ghetti.La cosiddetta Nazione ebrea crescedi numero in modo vertiginoso, inpochi decenni la comunità vede de-cuplicare i suoi iscritti: dai 134 ebreiregistrati nel 1601 si arriva ai 1250del 1645.A fine Settecento gli ebrei sono il15 per cento della popolazione, nel1810 sfiorano le 5 mila unità graziea consistenti flussi migratori dalNordafrica. È il momento più altoper la Livorno ebraica. Poi è il de-clino: in breve tempo inizia una len-ta ma inesorabile decadenza dovutain particolare alla crisi dei commerci.Poco più di un secolo di alti e bassie la seconda guerra mondiale spazzavia per sempre il punto di riferimen-to degli ebrei livornesi: la splendidasinagoga monumentale che in oltretre secoli di storia ha ospitato fiordi rabbini, tra cui il celeberrimo ravChidà che per quasi 30 anni operòa Livorno, e fatto sognare principie regnanti in visita di cortesia. La Comunità ebraica di oggi è mol-to ridotta nei numeri rispetto al pas-sato e può essere considerata unamedia Comunità. Ma nonostante la crisi demograficae la fuga dei giovani che sempre dipiù cercano altrove, nelle grandi cit-tà o in Israele, opportunità lavora-tive, continua a partecipare alla co-struzione democratica del futuro diuna realtà che in tempi di razzismocrescente è ancora faro e modellodi integrazione.Lo fa con un occhio di riguardo aciò che fu: in occasione della pros-sima Giornata europea della culturaebraica è infatti previsto l’amplia-mento dello spazio espositivo delMuseo ebraico di via Micali. Pre-ziose testimonianze di un tempousciranno dagli archivi e vedrannofinalmente la luce. Gli oggetti certonon parlano. Ma quelli in possessodegli ebrei livornesi sono particolari.Ci raccontano di un passato glorio-so, di abili commercianti, di un gran-de fervore religioso, di una sinagogagioiello, di una tradizione liturgicaricchissima. Quel passato che oggiè la base del futuro.

STORIA DI LIBERTA’ da P15 /

lavorare in Comunità, Hilla era im-piegata da Doctor kebab. “Il miocontatto con la gente della Comu-nità è avvenuto così, tra un kebab eun falafel”, ricorda.Ariel Techiouba è tra i giovani livor-nesi più attivi. Studente universitariodi informatica, in questi giorni stalavorando al nuovo sito della Co-munità ebraica di Livorno, da pocooperativo sul Portale dell’EbraismoItaliano (www.moked.it/livornoe-braica). Ci parla di Moadon Gheu-làh, il progetto dedicato ai ragazziin area Ugei (dai 18 ai 35 anni), natosu richiesta del gruppo giovanile lo-cale che aveva indicato al Consigliodella Comunità la necessità di avereuno spazio in autogestione in cuipoter organizzare attività ricreativee culturali. La stanza concessa loroè piccola ma graziosa, con divano,televisione e sala cucina. È il regno(neanche troppo disordinato) deigiovani. “Ci incontriamo due volteal mese, guardiamo film, facciamo

giochi di società, ceniamo in com-pagnia e talvolta organizziamo le-zioni di Torah con Rav Didi. Di so-lito siamo una decina. È un numeroimportante, ma ci piacerebbe coin-volgere anche i cosiddetti ebrei in-visibili”. Techiouba sottolinea che isegnali provenienti dalla Comunitàsono sempre stati buoni: “Il presi-dente Zarrough, di fronte a richieste

e progetti motiva-ti non ci ha maidetto di no”.Era stato pro-prio Ariel, insieme alcoetaneo Michele Disegni (adessoin Israele) ad occuparsi delle attivitàgiovanili in uno dei momenti più dif-ficili per la Comunità, quello seguitoalla morte di Rav Yehudah Kalon

z.l, deceduto nel 2005. “Rav Kalon era riuscito a coinvolgereoltre una ventina di giovani, ma pur-troppo col tempo questo numero èandato a calare. Per vari motivi, pri-mo fra tutti la crescente fuga dei ra-gazzi da Livorno, città che non offregrandi opportunità lavorative”. An-

che per questo Gavriel Zarruk, 21anni, una volta completatigli studi in Storia, sogna ditrasferirsi in Israele. Gavrielnon è molto ottimista sullasituazione dei ragazzi dellaComunità: “Le attività gio-vanili vanno avanti con di-screto successo, ma ho lasensazione che il centro vi-tale del nostro gruppo stia ini-ziando a mancare”. Capo-gruppo di Moadon, Gheulah

insieme a Martina Mosseri, coltivacomunque l’ambizione di uno spaziopiù ampio promesso a suo tempodal Consiglio se il progetto continuaa funzionare.

in politica nelle fila del Partito re-pubblicano, che lo chiama per chie-dergli un parere. “Visto, che ti dice-vo?”, sorride Zarrough. Il presidenteè una persona istintiva e a chi lo co-nosce poco o solo di facciata puòsembrare un brontolone (rav Kahnz.l diceva di lui: “Samuel ha sempreragione, ma solo nel secondo ragio-namento”), però confessa che alla fi-ne non sa mai dire di no. Soprattuttoai giovani, che in lui vedono un pun-to di riferimento e di cui si considera“un umile servitore”.Il suo pallino è il Talmud Torah: “LeComunità possono salvarsi solo conun Talmud Torah forte”, dice. Zar-rough, uomo di grande fede, ha unsogno che spera di realizzare presto:“Mi piacerebbe che l’educazione deibambini iniziasse a cinque anni comesuggerisce il Pirkè Avot”. La collaborazione con rav Didi, gio-vane guida spirituale degli ebrei li-vornesi, è proficua e non conosceostacoli significativi. “Da quando so-no presidente, e cioè dai tempi dirav Laras, non ho ricordo di grossedivergenze con i miei rabbini”.

a.s.

Gabriel, il dottore del KebabFalafel e schwarma nel fast food kasher frequentato dai buongustai di tutta la città

u In alto foto di gruppo con la squadra primavera del Maccabi

Haifa, che ogni anno partecipa al Torneo di Viareggio. Sotto viag-

gio a Parigi per i giovani della Comunità livornese. Sopra il presi-

dente Zarrough con i ragazzi dell’Ugei e il giornale HaTikwa in

occasione della grigliata di Lag BaOmer.

u Ariel Techiouba

mentre lavora sul

nuovo sito della

Comunità, da

poco disponibile

sul Portale del-

l’Ebraismo Ita-

liano.

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T ra le tante vetrine di via Gran-de, ce n’è una davvero speciale.

Quella della libreria Belforte, monu-mento a una storia di passione ecompetenza: la storia della famigliaBelforte, autentica dinastia di editorie librai ebrei. Et voluisse saltent, an-che l’averci provato è abbastanza, illoro motto. Gente tenace e concreta,che dal 1805 (anno in cui il caposti-pite Joseph Belforte pubblica a sue

spese un libro dipreghiere nella ti-pografia di ElieserSadun) diffonde ilbene della cono-scenza. La libreriaè aperta dal 1899,la casa editricecompie 176 annid’attività.Guido Guastalla

è da quasi nove anniai vertici della ditta. La sua discesain campo coincide con uno dei mo-menti più difficili per la SalomoneBelforte & C., che nel 2001 rischiadi chiudere per ingenti difficoltà eco-nomico finanziarie. “Mi piangeva il

cuore - spiega - apensare che unavicenda umanacosì significativa eduratura potessedi colpo sparire.Ho fatto un gran-de sacrificio pertenerla in vita,ma non potevofare altrimenti.

Per me è stata so-prattutto una questione affettiva”.Guastalla subentra al cugino Paolo,che dal suo ingresso in azienda neglianni Cinquanta ha avuto un ruolofondamentale nel consolidamentodel marchio. Il nuovo presidente,che succede a un uomo capace diportare in libreria personaggi del ca-libro di Indro Montanelli e PieroChiara, fissa due obiettivi: riassesta-mento economico della ditta e unrapporto più specifico con il mondo

ebraico. Con Guastalla riparte l’at-tività editoriale, da tempo ferma.Vengono pubblicati libri che trattanodi ebraismo a 360 gradi: testi sullaShoah e su Israele, ma anche rela-zioni di convegni e poesie amorose.“Siamo sulla buona strada per di-ventare una casa editrice di nicchia,pur consapevoli della presenza sulmercato di rivali agguerriti e com-petenti. Penso ad esempio alla Giun-tina della famiglia Vogelmann, a cuisono peraltro legato da un rapportodi sincera amicizia”.Guastalla mostra con fierezza l’al-bero genealogico della sua famiglia:nove generazioni di editori. Tra isuoi predecessori anche Guido Bel-forte, nominato commendatore nel1938 su ordine del re e di Mussolini.

Un titolo onorifico destinato quasisubito a divenire carta straccia conle leggi razziali. In quegli anni i Bel-forte devono lasciare la ditta, che fi-no al termine del conflitto è intestataad amici cattolici e assume il nomedi Stabilimento poligrafico toscanoper la parte tipografica e di Societàeditrice tirrena per quella editorialee di libreria.

Oggi Guastalla si avvale della colla-borazione dei figli Ettore e Silvia.Proprio quest’ultima, quattro annifa, riceve una telefonata dagli StatiUniti: il professor Artur Kiron dellaPenn State University, grande amicodei Guastalla, chiama per dirle cheha appena terminato una lunga con-versazione sul mondo editoriale conlo studioso Shalom Zabar. Da quellaconversazione emerge un fatto com-movente: il giovane Zabar, che pas-sava giornate intere nella bibliotecadi Mosul in Iraq, prediligeva i libridi una casa editrice ebraico livorneseche credeva ormai scomparsa datempo: la Belforte. “I nostri volumi- dice Guastalla - sono sempre statisinonimo di alto livello contenuti-stico e raffinatezza grafica. Copie ve-

nivano diffuse praticamente ovun-que. Belforte era il maggior fornitoredi libri di preghiera delle comunitànordafricane, levantine e orientali.Ogni versione era differente, rispet-tosa di ciascun minhag”. La tipogra-fia sforna adesso libri di attualità.L’ultimo è il diario della madre diIlan Halimi, il giovane ebreo pariginomassacrato da una banda di integra-listi nel 2006. “Un libro stupendo estraziante”, spiega Guastalla. Che in-troduce le prossime uscite: a brevein stampa i diari di rav Chidà (cherav Alberto Moshè Somekh sta tra-ducendo in italiano), un volume de-dicato ai grandi mercanti ebrei li-vornesi del Seicento e Settecento eun ricettario di cucina sefardita.

a.s.

Una dinastia di editori e librai. Conosciuti fino in IraqMaggiore fornitrice di libri di preghiera per il mondo sefardita, oggi la Salomone Belforte & C propone testi tradizionali d’attualità

DOSSIER/Livornou A sinistra Guido Guastalla davanti alla vetrina in via

Grande della libreria Belforte. E’ aperta dal 1899 men-

tre la casa editrice, conosciuta per i suoi libri di pre-

ghiera, compie 176 anni. Sotto a sinistra la nomina di

Guido Belforte a commendatore

e a destra una cartolina postale

inviata a un cliente in Palestina

nel 1935.

u A sinistra Salomone

Belforte, fondatore

della casa editrice nel

1834.

A desta, Guido Bel-

forte, volontario nella

prima guerra mon-

diale. Nominato com-

mendatore nel 1938

dovrà lasciare l’attività

con l’avvento delle

leggi razziali.

ú–– Michael Calimani

Le traversie degli ebrei di Pitiglia-no, Comunità ebraica tra le più

antiche di cui oggi restano solo levestigia, sono affidate alla memoriadell’unica sopravvissuta, Elena Servi.Costretta dalle leggi razziali ad ab-bandonare il borgo rientra dopo il1945. “Quando tornammo - raccon-ta - eravamo solo in 30, non c’era ilnumero minimo di uomini per il mi-nian e aprivamo il tempio solo aKippur”.Al dolore di non ritrovare più le per-sone care si contrappongono i com-portamenti virtuosi di coloro chehanno contribuito a salvare la vitadi decine di ebrei, un monito fon-damentale che permea l’intera storiadi Pitigliano e che nel dopoguerraincoraggia gli ebrei a riprendere avivere. Accade così che quando iltetto della sinagoga crolla è il Co-

mune di Pitigliano, nella figura delsindaco Brozzi, a decidere di rico-struirlo. Il progetto si protrae perdieci anni. Ma nel 1990 l’edificio èrestituito agli antichi splendori.Sull’onda di quel successo Elena Ser-vi insieme al figlio costituisce nel1996 l’associazione no profit La pic-cola Gerusalemme, cui adericonotantissimi pitiglianesi, con lo scopo

di conservare e valorizzare il patri-monio artistico e culturale della Co-munità ebraica di Pitigliano e di pro-muovere la diffusione della culturaebraica. “Eravamo gli ultimi ebrei di Pitiglia-no e su di noi gravava la responsa-bilità di tener viva la memoria deiluoghi. Il cimitero ebraico si era sem-pre retto sulle offerte di coloro che

passavano a visitarlo, ma la manu-tenzione ordinaria era comunquetroppo gravosa e così mi decisi achiedere aiuto al Comune che ac-cettò di prendersicarico della fac-cenda”. Il rapporto tra gliebrei e la cittadi-nanza negli annicon il tempo si èconsolidato econtinua ancheoggi in altre for-me: dalla dispo-nibilità dell’am-ministrazione locale al restaurodegli altri luoghi della Pitiglianoebraica come il forno delle azzime,la macelleria e il mikveh, all’aperturadi un museo dedicato alla culturaebraica, alla scelta infine di produrrevino kasher nella Cantina coopera-tiva di Pitigliano.

La piccola Gerusalemme toscana torna alla vitaA Pitigliano sono stati restaurati gli antichi luoghi ebraici, si è aperto un museo e si produce vino kasher

u Gli interni della sinagoga di Pitigliano dopo il restauro. A destra, foto di

gruppo in occasione del matrimonio di Elena Servi nel 1961.

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u La sinagoga di Livorno sorge sulla stessa area del vecchio Tempio, gio-

iello di antica bellezza distrutto dalla guerra, dai furti e dagli scempi se-

guiti alla devastazione bellica. Realizzata in cemento armato, ha una

struttura insolita che ricorda la Grande Tenda destinata a custodire

l’Arca dell’Alleanza. A occuparsi del progetto di ricostruzione, avviato

nel 1958, è Angelo Di Ca-

stro, uno dei più valenti ar-

chitetti italiani attivi in

quel periodo. Di Castro

opta per una soluzione ar-

dita: una costruzione in ce-

mento armato dalla

struttura insolita I lavori

durano quattro anni, il 23

ottobre 1962 una solenne

cerimonia consegna la si-

nagoga agli ebrei livornesi.

P iazza Benamozegh è una piazzaparticolare: una strana disposi-

zione di parcheggi, incroci e areepedonali la rende un puzzle compli-cato da decifrare. In un angolo, unacostruzione in cemento armato dallastruttura insolita. È la sinagoga diLivorno, edificio che nella forma siispira al Tabernacolo. Sorge sullastessa area del vecchio Tempio, an-tico gioiello degli ebrei livornesi di-strutto dalla guerra, dai furti e dagliscempi che seguirono alla devasta-zione bellica. Per la comunità ebraica la scomparsadi quel punto di riferimento tantoamato e magnificato per il suo splen-dore in tutto il mondo, si rivela untrauma difficile da superare. Moltova perduto o in polvere, sono pochigli arredi che vengono salvati dalladistruzione e trasportati nei localidella Yeshivah Marini, un tempooratorio e adesso sede di un piccolomuseo. È proprio la Yeshivah Marinia ospitare le funzioni religiose neglianni in cui la Comunità di Livornorimane senza sinagoga. I lavori per il nuovo Tempio, ormaida tempo inagibile, vengono appal-tati nel 1958 e conclusi quattro annidopo: il 23 ottobre del 1962 una so-lenne cerimonia permette agli ebreilivornesi di riappropriarsi di un luogodi culto, edificato grazie anche a si-gnificative donazioni di privati e aun ingente intervento statale. Ad occuparsi del progetto di rico-struzione è l’architetto romano An-gelo Di Castro, che si deve attenerea una disposizione del ministero deiLavori pubblici che vieta la riprodu-zione dell’architettura del vecchioTempio ebraico. Di Castro, tra i più valenti architettiitaliani in circolazione (nel dopo-guerra aveva partecipato al concorsoper la stazione Termini di Roma),opta per una soluzione originale eardita. All’interno della sinagoga oggi inuso, al centro della platea è posta laTevah (il palco con leggio dove si

officiano le funzioni), realizzata coni marmi recuperati tra le macerie delvecchio Tempio. Di fronte alla Tevahè collocato un Hekhal ligneo del Set-tecento, proveniente dalla sinagogadi Pesaro. Il matroneo si trova al pri-

mo piano e vi si accede da due scalelaterali. Nella parte absidale alta, unavetrata di colore rosso ricorda il san-gue dei sei milioni di ebrei che per-sero la vita con la Shoah. Scendendoinvece nel sottosuolo, è possibile ac-

cedere a un piccolo oratorio, che neimesi invernali viene utilizzato comespazio di preghiera al posto del Tem-pio Maggiore. La prima pietra della sinagoga di Li-vorno viene posata a metà Seicento.

Col passare degli anni sono compiuticontinui ampliamenti con la costru-zione di arcate e altri ornamenti,spesso finanziati da generosi bene-fattori. Per la Tevah e l’Hekhal (so-vrastato da una corona argentea conun topazio incastonato) è utilizzatoil marmo, per le Tavole della Leggela madreperla.Nel 1742 Livorno viene sconvoltada un terremoto, che spinge i verticidella Comunità a rafforzare la strut-tura per evitare futuri cedimenti. Ilmomento più alto lo si raggiunge il20 settembre 1789, vigilia di RoshhaShanah, il capodanno ebraico,quando ha luogo una cerimonia so-lenne per festeggiare la nuova inau-gurazione del Tempio. Nei decenni successivi si assiste aqualche ulteriore accorgimento (adesempio l’installazione di un organo)ma la struttura resta pressoché im-mutata. Finché il rabbino capo Al-fredo Sabato Toaff, pochi anni primadello scoppio della seconda guerramondiale, spinge per la creazione diun museo nei locali sottostanti allasinagoga, una volta sede del Tribu-nale Rabbinico. Il museo viene rea-lizzato, poi arrivano morte e distru-zione. La vecchia sinagoga è ancoranella memoria di molti, ma oggi ènon più un ricordo tramandatoesclusivamente da racconti e foto-grafie in bianco e nero. Grazie a Ma-rio Della Torre, ebreo livornese ul-tranovantenne residente in Israele,e ad altri concittadini che portanonel cuore quella magnifica struttura,alcune foto del Tempio monumen-tale sono state colorate riproducen-do fedelmente i dettagli cromaticiche per tre secoli avevano contri-buito a renderlo fonte di straordina-rie suggestioni. Esiste inoltre una riproduzione ingesso in scala uno a due del Tempioche fu, al momento conservata inun fondo comunale, che con tuttaprobabilità verrà rimontata in occa-sione della prossima Giornata euro-pea della cultura ebraica.

Quella sinagoga che faceva sognare principi e sovraniConsiderata un vero gioiello, viene distrutta dalla guerra. Al suo posto sorge oggi una struttura ardita tutta in cemento armato

su Pisa e i pisani: è Livornocro-naca, meglio conosciuta come IlVernacoliere, che si trova ormainelle edicole di molte città, inclusaRoma. Credo sia il caso più unicoche raro di una rivista pensata escritta in vernacolo che spezzaqualsiasi confine e diventa un fe-nomeno di esportazione, grazie alruolo giocato da Pisa e dai pisani.Era il lontano maggio 1986 el’esplosione di Chernobyl terro-rizzava buona parte del pianeta.Il Vernacoliere colse la palla al bal-zo per titolare: “Nuvola atomi[c]a:primi spaventosi effetti delle ra-diazioni: è nato un pisano furbo.Stupore ner mondo, sgomento ‘nToscana”. Insomma, le due città

sono un binomio indissolubile, co-sì come le comunità ebraiche chevi risiedono: quella pisana, antica(una presenza ebraica è attestatagià da Beniamino da Tudela) ecomplessivamente stabile comepopolazione (non ha mai superatoi 600 iscritti); quella livornese, natainsieme alla città sullo scorcio fi-nale del Cinquecento che ha co-nosciuto periodi di grande svilup-po anche demografico e ha datoi natali a Elia Benamozegh. Due comunità dunque molto vi-cine, che hanno avuto la fortunadi vivere in città senza ghetto, eche potrebbero collaborare moltodi più. Pensando – nel complessolavoro di revisione dello Statutocui mi sto dedicando in questo pe-

riodo come coordinatore dellacommissione allo scopo istituitadal Consiglio dell’Unione – al ruo-lo che potrebbero giocare i con-sorzi tra le comunità, ho semprepresente il possibile, auspicabileconsorzio pisano-livornese. Con-cludo esprimendo la mia soddi-sfazione per questo Dossier e, vi-sto che ho iniziato con una anticacitazione del Vernacoliere chiudocon un’altra molto più recente, delnovembre 2007, quando la rivistaintitolava: “Lo spregio di papaRàzzinghe: Un vescovo pisano aLivorno! La città si ribella: piut-tosto si diventa mussurmani!”. Sarebbe davvero bello se un gior-no anche il rabbino capo di Li-vorno fosse pisano...

VISTI DA PISA da P15 /

u Gli interni della vecchia sinagoga rivivono con immediatezza in alcune foto d’epoca colorate riproducendo con fe-

deltà i dettagii cromatici di un tempo. Un lavoro realizzato grazie all’impegno di Mario Della Torre e altri concittadini

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u A destra rav Elio

Toaff e rav Yair Didi

in occasione di una

cerimonia religiosa.

Livorno vanta una

grande tradizione

rabbinica. Tra le fi-

gure di maggior

spicco rav Chidà che

vi soggiornò per

quasi tre decenni

dopo aver attraver-

sato l’Europa affrontando mille peripezie e il cabalista Elia Be-

namozegh (a sinistra), soprannominato “il Platone

dell’ebraismo italiano” dal suo allievo Dante Lattes, che tra-

dusse nei concetti della filosofia europea la mistica ebraica

anche dal punto di vista letterario.

u In una stampa d’epoca l’antico cimitero

ebraico. Edificato agli inizi del diciottesimo

secolo, quando la comunità ebraica livor-

nese vive un rapido incremento, è co-

struito in un lotto di terra tra l’odierna via

Garibaldi e via Galilei. Rimane in funzione

fino agli anni Trenta dell’Ottocento,

quando viene interdetto a causa della vici-

nanza alla città, che a quei tempi conta

circa 70 mila abitanti. Un secolo più tardi

l’area del cimitero è espropriata e al ter-

mine del secondo conflitto mondiale al suo

posto viene costruito un vasto complesso

scolastico che è ancora in funzione. Alcune

lapidi di pregevole fattura che si trovano

nel comprensorio sono trasferite nel cimi-

tero ebraico attualmente in uso.

Narra il Vessillo Israelitico cherav Elia Benamozegh, grande

rabbino e filosofo, entrando in unayeshivah livornese venisse attorniatodai rabbini che gli chiesero con de-vozione se esistesse veramente il ma-locchio. “Certamente”, rispose ilMaestro aggiungendo che “un rab-bino lo mette, l’altro lo leva e poifanno a mezzo dei soldi...”. Certo sipuò essere scettici circa questo aned-doto in cui a mio parere è comunquepresente la chiave per aprire la portadella comprensione di questa città edella sua Comunità ebraica. L’ironia,infatti, è componente essenziale dellivornese e lede il mito, guardandoad esempio ai sonetti di CesarinoRossi o Guido Bedarida tanto per ci-tare alcuni noti esempi, che l’umo-rismo ebraico sia solo di derivazioneaskenazita.Non a caso di recente, parlando aLivorno dei diari del grande Chidà(rav Haim Iosef David Azulay z.l.),il rabbino Alberto M. Somekh osser-vava: “L’ironia, si sa, è un classicodella letteratura ebraica di ogni tem-po, in quanto risponde a un’esigenzaetica ben precisa. E’ lo strumento inmano all’oratore o allo scrittore perdenigrare un personaggio che se lomerita senza scadere nel dileggio,nell’insulto e nella maldicenza, tutteespressioni proibite dalla Torah. Lostesso Chidà, presentando molti suoicolleghi incontrati qua e là in terminitalvolta magniloquenti, ci lascia unlegittimo dubbio sulla reale staturadi questi personaggi”.L’importanza di questo elemento bensi coniugò a quel clima propedeuticoall’evolversi di profondi studi ebraicialimentati da eccelsi Maestri che, co-me lo stesso Chidà, da questa cittàrimasero affascinati sino al punto disoggiornarvi a lungo, talvolta sino altermine della loro esistenza terrena,interagendo con la già solida tradi-zione rabbinica locale. Con l’ironia labronica, anche ebraica,senza la quale si potrebbe talvoltapensare a un carattere altrimenti spi-

goloso, per alcuni magari anche igno-rantello, fecero i conti anche i rabbiniche si avvicendarono alla guida spi-rituale della Comunità in tempi piùrecenti: penso a mio padre rav BrunoG. Polacco e a ravIsidoro Kahn (z.l.),trovando dei paral-leli caratteriali na-turali e legati ai luo-ghi di origine. In al-tri casi, come ravLaras potrebbe bentestimoniare, adat-tandocisi coglien-done l’originalità.Se rav Alfredo Sa-bato Toaff (z.l.) in-vece giocava in ca-sa ben conoscendola sua città e la suaComunità lascian-doci scritti e studi preziosi, l’espe-rienza acquisita a Roma deve averreso più facili le cose a rav JehudahKalon (z.l.), prematuramente scom-

parso, nella sua purtroppo breveesperienza labronica. Tocca oggi arav Yair Didi, partendo dalla sua ma-trice israeliana, amalgamarsi conquello spirito ebraico livornese che

ha, quale ecceziona-le testimonial nono-stante decenni dilontananza, rav ElioToaff, di cui è notala fine e intelligenteironia. Livolno, se-condo un’inflessionedialettale che ponela elle al posto dellaerre, città in Toscanama non proprio deltutto toscana in vir-tù della particolaree unica storia, uniscenell’ironia lo studio-so quanto il popola-

no, creando un panorama di perso-naggi spesso appellati con azzeccatisoprannomi: un completo e veritieroquadro storico non potrebbe essere

composto escludendo gli uni o glialtri. Non mancano ovviamente iproblemi, in città come nella Comu-nità, ma certamente una salda radiceironica aiuta ad affrontare anche leavversità. Anche per gli ebrei livor-nesi, come per gli altri concittadini,il legame con la città e la Comunitàrimane forte nel tempo. Città dallastorica vocazione sionista (anche ilfascismo tragicomicamente, cometestimoniato da alcune carte perve-nute, temette i sionisti locali), è strug-gente l’addio alla città di un livornese,immaginato in un sonetto di GuidoBedarida, che parte per Israele dovemolti sono ormai i livornesi o i lorodiscendenti. Non è quindi un casoche sia questa città a vantare in Italiail primo gemellaggio con una cittàisraeliana, ovvero Bat Yam. Benvenutiallora a Livorno, per la Giornata dellacultura ebraica 2010 che ci vede cittàcapofila per l’Italia, con sana e sinceraironia.

Gadi Polacco

Rabbini e studiosi con il sorriso dell’ironiaUna gloriosa tradizione culturale che giunge ai giorni nostri senza mai perdere il suo tratto distintivo

ú–– Daniel Reichel

“Uno spaccato di vita in cui itemi della leadership comu-

nitaria, della quotidianità sono rac-contati in uno stile rabbinico e conuna sottile ironia”. Uno sguardo iro-nico e profondo accompagna neisuoi lunghi viaggi rav Chayim YossefDavid Azulay, meglio conosciutocome rav Chidà, uno dei più celebrirabbini della storia e della tradizioneebraica. “Probabilmente il più granderabbino sefardita posteriore alloShulchan Arukh”, spiega rav AlbertoSomekh, impegnato nella difficileimpresa di tradurre il diario di viag-gio del Chidà, il Ma’agal Tov (Cir-

colo o Sentiero buono).“La proposta mi è stata fatta dalla

Comunità di Livorno – racconta ilrav Somekh - e ho accet-tato molto volentieri. Miè parsa un’idea straordi-naria, un modo di comu-nicare la cultura ebraica,facendo sentire la pro-fondità del personaggiosenza dover coinvolgerein studi altrettanto pro-fondi i lettori”.Ma facciamo un passoindietro, o meglio un sal-to di quasi tre secoli. Nel 1724 nascea Gerusalemme, in una famiglia rab-binica di origine marocchina, il fu-

turo rav Chidà. La sua genialità eprofonda cultura emergono sin daragazzo. A soli 17 anni, infatti, ha

alle spalle già due trattatidi studi talmudici. Circadieci anni dopo inizianole avventure in Occiden-te: viene mandato in Eu-ropa come shaliach (in-viato) della yeshivah diHebron con il compitodi trovare fondi per leyeshivot di Eretz Israel.Chidà attraversa letteral-mente mari e monti con

peripezie e pericoli di ogni sorta, af-frontando pirati e avversità ambien-tali. Un esempio, documentato, di

D al 1995 opera a Livorno, a sco-po didattico e di conservazio-

ne dell’immenso patrimonio musi-cale ebraico livornese, il Coro Erne-sto Ventura, intitolato alla memoriadel Maestro Ventura, insegnante, di-rettore del Coro del Tempio e autoredi numerose melodie entrate nellatradizione ebraica locale e spessoesportate anche altrove. Diretto inizialmente da AndreaGottfried, da anni direttore scienti-fico del Festival Nessiah, il Coro èsuccessivamente preso in carico daStefano Visconti, oggi direttore per-manente del Coro dell’Opera diMontecarlo, a cui subentra Paolo Fi-lidei. Accanto ai concerti, è impor-tante il lavoro di accurata trascrizio-

ne dell’ingente materiale disponibile.Significativo il recupero di un Ashki-venu composto dal Maestro Lattese tramandato grazie alla ferrea me-moria di Carlo Cammeo, da cui si èanche appreso che quel brano, ese-guito una sola volta prima del recu-pero, ebbe quale voce solista un gio-vane Elio Toaff. Il minhag livornese, inteso quale can-to liturgico, è il derivato di varie in-fluenze: alle antiche musiche prove-nienti dalla penisola iberica si ag-giunse nel tempo, oltre a influssi ita-liani e nordafricani, una produzionelocale di altissimo livello. Un patrimonio musicale inesauribilestudiato, verso la metà del secoloscorso, dal musicologo Leo Levi gra-zie a cui testi e testimonianze di ritiormai scomparsi sono arrivati aigiorni nostri.

In CoroAi concerti uniscel’attività di trascrizionedei testi tradizionali

Le mille avventure dello Chidà Grande viaggiatore e pensatore, rav Azulai si raccontò in un prezioso diario

DOSSIER/Livorno

n. 8 | agosto 2010 pagine ebraiche

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010

uale deve essere il rapportotra “noi” e “gli altri”? E quellotra identità ebraica e cono-

scenza scientifica? Queste domandehanno rappresentato fondamentaliinterrogativi dell’ebraismo nel corsodei secoli, divenuti ancora più pro-fondi con l’emancipazione e la pos-sibilità di vivere “come gli altri” atutti gli effetti. Risposte importantiarrivano dalle opere di Elia Bena-mozegh, rabbino, cabalista, filosofoitaliano, vissuto a Livorno tra il 1824e il 1900. Di famiglia originaria diFez in Marocco, Benamozegh si de-dicò fin da giovanissimo allo studiodella Qabbalah, ma fu anche pro-fondo conoscitore della filosofia con-temporanea, e in particolare, tennebene a mente il razionalismo di He-gel. Secondo il pensatore livornese,definito dal suo allievo Dante Lattesil “Platone dell’ebraismo italiano”,religione e pensiero moderno non

si pongono in contrasto. La tradizione ebraica deve rappre-sentare qualcosa che non si esauriscenel passato, ma va a costituire la par-te vitale dell’ebraismo nella dimen-sione contemporanea. Questa diventa la soluzione per lacrisi religiosa e morale che l’ebraismoattraversava in quel momento sto-rico. Un insegnamento di grande moder-nità, come sottolinea AlessandroGuetta, professore di Storia del pen-siero ebraico all’Institut National deLangues et de Civilisations Orien-tales di Parigi, autore del libro Filo-sofia e Qabbalah. Saggio sul pensierodi Elia Benamozegh.

Professor Guetta, com’è nato il suo

interesse nei confronti per Benamo-

zegh?

È stato nel corso degli anni Settanta.Studiavo con il rav Giuseppe Laras,allora rabbino capo della Comunitàebraica di Livorno, dopo essere tor-

nato da un periodo in una yeshivahisraeliana. Ero profondamente im-merso nel mondo degli studi ebraicie talmudici, ma sentivo il bisogno diconiugarli con la cultura in cui erocresciuto, di non vivere le due di-mensioni in modo separato. In Be-

namozegh ho trovato le risposte checercavo.Se dovesse riassumere in poche pa-

role il pensiero di quest’autore?

Bisogna partire dall’idea che Bena-mozegh era un cabalista, aveva radicimarocchine ed era legato alle sueorigini, tant’è che anche il suo mae-stro proveniva da quella terra. Allo stesso tempo era profondamen-te permeato della cultura italiana edeuropea ottocentesca, dal razionali-smo hegeliano, dal positivismo. Lasua scelta fu di tradurre nei concettidella filosofia europea il pensiero ca-balistico, sia dal punto di vista con-cettuale che letterario. Per ogni parola ebraica cercò il ter-mine italiano o francese più adattoa esprimerla. E in effetti, la sua stessascelta di scrivere di mistica ebraicain italiano e in francese è significati-va.

E qual è invece il legame di Benamo-

zegh con Livorno?

Quello di un uomo che ha vissuto aLivorno tutta la vita senza mai spo-starsi più in là di Pisa. In un certosenso si può affermare che Livornosia nata con gli ebrei e il senso di co-smopolitismo e la vivacità intellet-tuale della città sono stati fondamen-tali per i suoi studi.

Nella sua opera più famosa, Israele

e l’umanità, pubblicata postuma nel

1914, Benamozegh parla dell’ebrai-

smo come di una religione allo stesso

tempo particolare e universale. Cosa

voleva dire?

Benamozegh ricorda che l’ebraismo,oltre che al popolo ebraico in modoparticolare, si rivolge all’umanità in-tera attraverso i sette precetti che D-o comanda a Noè per tutti gli uomi-ni. Questo diventa il simbolo dellapossibilità di coltivare la diversità de-purandola dall’idea di superiorità einferiorità, ma anzi dimostrando l’esi-stenza di una base comune a tuttal’umanità. Benamozegh era un religioso, ed ènel vincolo religioso che la individua,nel monoteismo. Lui è un autoreebreo e rivendica la sua ebraicità,senza per questo entrare in conflittocon la maggioranza, ma semplice-mente rimanendone distinti, con laconsapevolezza di essere tutti, co-munque, uomini.

Quale messaggio possiamo trarre og-

gi dall’opera di Benamozegh?

Prima di tutto l’importanza di unaconoscenza profonda, tanto della cul-tura della realtà in cui viviamo, quan-to di quella ebraica, che non può pre-scindere da una conoscenza direttadei testi in lingua originale. E poi lacentralità di un atteggiamento di cu-riosità verso il mondo, che sia refrat-tario a ogni chiusura. Non possiamosopravvivere da soli. La nostra tra-dizione deve essere la base per capiree vivere la modernità, perché se ri-maniamo arroccati in quello che sia-mo rischiamo di perdere la nostrastessa identità.

u Alcune pagine delle Costituzioni livor-

nine, Promulgate dal Granduca di Toscana Ferdinando I De Me-

dici nel 1591 e leggermente modficate nel 1593, garantiscono

a chiunque prenda residenza a Livorno o nella vicina Pisa li-

bertà di culto e di mestiere, professione religiosa e politica,

annullamento dei debiti e di condanne per almeno 25 anni. Gli

ebrei sefarditi e i marrani conoscono così diritti sconosciuti.

uAlessandro Guetta,

docente di Storia del

pensiero ebraico al-

l’Institut National de

Langues et de Civili-

zations Orientales di

Parigi, ha dedicato

gran parte dei suoi

studi al pensiero e

alle opere di Elia Be-

namozegh. Convinto

sostenitore della mo-

dernità dell’insegnamento del grande cabali-

sta, è autore di numerose pubblicazioni sul

suo conto tra cui Filosofia e Qabbalah - Sag-

gio sul pensiero di Elia Benamozegh e Per Be-

namozegh.

u Nato a Livorno, Elia

Benamozegh è uno

degli intellettuali e

maestri più impor-

tanti dell’ebraismo

italiano ottocentesco.

Rabbino, ma anche fi-

losofo e cabalista, Be-

namozegh è autore

prolifico. Em la-Mi-

qrah (Matrice della

Scrittura), a destra la

coperatina, commentario al Pentateuco con note

critiche, filologiche, archeologiche e scientifiche

sui dogmi, la storia, le leggi e i costumi dei popoli

antichi, pubblicato nel 1865, è tra le sue opere più

significative.

Il “Platone ebraico”che spiegò la Qabbalah all’EuropaL’insegnamento ancora attuale di Elia Benamozegh, convinto sostenitore della convivenza tra le genti, che scrisse di mistica in italiano e francese

ebreo errante.Visita Germania, Olanda, Inghilterra,Francia e Italia. Qui si ferma in al-cune Comunità fra cui quelle di Ve-nezia, Ferrara e Livorno, dove ven-t’anni dopo, si trasferirà definitiva-mente. Nasce così un legame pro-fondo con la comunità livornese,all’epoca vivace centro culturale. Ba-sti pensare che uno degli eventi piùattesi era lo Shabbat Shuvah, con lasinagoga che si riempiva, aspettandola solenne predica di rav Chidà pri-ma di Minchah. Non a caso proprioa Livorno, lo scorso giugno, si è svol-to un convegno per celebrare il bi-centenario della sua morte. In quel-l’occasione il rav Somekh ha pre-sentato il suo lavoro di traduzione,non ancora terminato, dell’affasci-nante diario di viaggio del Chidà, ilcitato Ma’agal Tov.Un’opera, rileva Somekh, da cuiemerge un quadro articolato della

realtà delle Comunità dell’epoca manon solo. “E’ interessante - continuail rav - la sua attenzione per la cul-tura non ebraica, per le meravigliedel mondo, per la natura o lo scam-bio di pareri con i dotti della Sor-bona. Da questo diario affiora l’im-magine di una personalità estrema-mente complessa, poliedrica che saanche ridere di se stessa”. Senza esi-tare a prendersi in giro quando inInghilterra, rischia di sprofondarecompletamente in una sorta di sab-bia mobile fatta di fango e letame.Nè scomporsi più di tanto quandoi pirati sequestrano la sua nave oquando deve sopportare le ingiusti-zie dei soldati alla dogana.La complessità del personaggio siriflette anche nel difficile linguaggioche utilizza per i suoi diari: con gio-chi di parole, assonanze, ghema-triyot e molte citazioni di fonti bi-bliche, talmudiche e midrashiche.

Attraverso questi suoi, seppur com-plicati, racconti, Chidà descrive lavita comunitaria di mezza Europa,da Amsterdam a Bordeaux, daWorms a Francoforte. Ma quali so-no i tratti comuni con il presente,quali le differenze che emergonodalle parole del Ma’agal Tov? “Lalitigiosità è rimasta la stessa - scherzaSomekh - l’impressione è che allorail livello di consapevolezza ebraicafosse superiore. Anche nei centri ap-parentemente più piccoli, Chidà tro-vava qualcuno disposto ad accoglier-lo o a scambiare due parole di Torahcon lui. Mi domando quante comu-nità oggi sarebbero disposte a ospi-tare o comprendere un personaggiosimile”.Non mancano però, anche allora, idissidi interni. Tanto che a Bordeauxil rav Chidà si trova a dover affron-tare una difficile controversia fra sho-chatim con un caso di nepotismo.

“Una bellissima e vibrante pagina dileadership comunitaria - dice rav So-mekh - in cui dimostra grande ca-pacità di mediazione e sensibilità.Era una persona che volava alto mache sapeva anche colpire in bassosenza far rumore”. Il Ma’agal Tov è la punta dell’icebergdell’immenso patrimonio che il Chi-dà ci ha lasciato: oltre settanta opere,fra cui alcuni testi fondamentali distudi rabbinici. “Ha fatto storia – ri-corda rav Somekh – anche per lasua passione per i manoscritti. In al-cuni casi confuta halakhot besukot,ovvero già consolidate, dicendo chese tre secoli prima il tal maestroavesse visto il manoscritto che luiha trovato a Torino o a Parigi,avrebbe deciso la Halakhah diver-samente. Chidà apre così un capi-tolo interessante: fino a che puntole scoperte di testi posteriori posso-no influenzare la Halakhah?”.

u Nato a Livorno nel 1954, Alessan-

dro Guetta si è laureato all’Univer-

sità di Pisa. Ha studiato con il rav

Laras e per un periodo ha frequen-

tato una yeshivah in Israele.

Qú–– Rossella Tercatin

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraiche

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ú–– Raffaele Bedarida

N on esiste una scuola, un ele-mento stilistico o una predile-

zione tematica che accomuni i pit-tori ebrei di Livorno. Ma la lista deiloro nomi, dai macchiaioli a Modi-gliani, è eccezionalmente ricca ecomprende figure che hanno con-tribuito in maniera determinante adefinire la storia dell’arte modernaitaliana nella fase di rottura che hamesso in crisi e riformulato il lin-guaggio visivo occidentale tra la me-tà dell’Ottocento e l’affermarsi deiregimi totalitari in Europa. Quattro figure bene rappresentanogli altrettanti scarti generazionali chehanno rivoluzionato il modo di ve-dere e dunque di mostrare le cose.Serafino De Tivoli (1826-1892) ebbeun ruolo importante nella fase ini-ziale della scuola dei macchiaioli.Attivista e combattente risorgimen-tale, pittore attivo tra Firenze e Parigialla metà dell’Ottocento, De Tivolifu uno dei fondatori del celebre cir-colo d’artisti del fiorentinoCaffè Michelangiolo. Vicinoall’ambiente parigino dellatarda Scuola di Barbizon epoi aggiornato sui primi svi-luppi dell’Impressionismo,introdusse la scuola toscanaalla predilezione francese perla pittura di paesaggio enplein air e a un realismo basato sul-l’osservazione diretta piuttosto chesu convenzioni accademiche. Tantoda essere considerato da TelemacoSignorini “il padre della macchia”.Anche Vittorio Corcos (1854-1933)fu attivo a Parigi via Firenze. Ritrat-tista brillante, interpretò con succes-so l’élite culturale della belle époqueparigina e dell’Italia giolittiana. In-trodotto nei circoli parigini di Zolae Flaubert, e poi in quelli toscani diCarducci, Mascagni e Pascoli, fu ingrado di compiacere i suoi commit-tenti con uno stile tradizionale e allostesso tempo capace di cogliere confreschezza il nuovo carattere della

borghesia liberale. Sebbene quasicoetaneo di Corcos, Ulvi Liegi (LuigiLevi, 1858-1939) sembra appartene-re a una generazione successiva. Ar-tista colto e ricettivo, formatosi allascuola macchiaiola di Signorini, vi-sitò Parigi nel 1886 in occasionedell’ultima mostra impressionista cheapriva le porte a ciò che dopo l’im-

pressionismo sarebbe av-venuto - Seurat vi espone-va La Grande Jatte. Unquadro come La Modelli-na del 1889 già dimostraun’elaborazione originalee assai precoce del postimpressionismo (è il pas-saggio tra Degas, Gauguin

e Toulouse - Lautrec). Sin dal primodecennio del Novecento le sue ope-re, accesissime, sono pienamentepartecipi del clima fauve di Matisseo ancor meglio di Derain. Il colore,svincolato da ogni funzione descrit-tiva, è usato come puro strumentoespressivo.Anche Amedeo Modigliani (1884-1920) si formò presso gli epigonidella macchia. Ma, giunto a Pariginel 1906, si amalgamò presto allanascente avanguardia internazionale.Con Picasso e a Brancusi fece ricorsoall’arte “primitiva” africana, intesacome fonte alternativa alla tradizioneoccidentale. L’intento collettivo era

quello di inventare un nuovo lin-guaggio visivo che corrispondesseal modo di percepire nuovo, radi-calmente mutato dalla modernità.Similmente a Picasso, Modiglianisemplificò geometricamente l’ana-tomia umana. Ma mentre l’interessedel Picasso cubista si concentrò sullastruttura delle cose rappresentate esulla natura arbitraria del linguaggiovisivo che le rappresenta, Modiglianiinnescò un dramma più sensuosonei suoi quadri. Creò un dialogo tesose non un vero e proprio contrastoviolento tra gli strumenti elementaridella pittura: da una parte la strutturalineare che definisce le figure e ilchiaroscuro che le fa apparire tridi-

mensionali; dall’altra i colori violentie saturati che corrodono le linee etendono ad appiattire il quadro, finoa portare l’immagine in superficie.Nella metafora del quadro come fi-nestra che dominava il sistema rap-presentativo occidentale sin dai tem-pi di Leon Battista Alberti, i nudi diModigliani sono spiaccicati controil vetro immaginario attraverso cuili si guarda. La violenza cromaticadi Modigliani è partecipe del climaespressionista degli artisti di Mon-tparnasse che frequentava, quasi tuttiebrei dell’Est Europa. Ma a differen-za della dimensione visionaria e mi-stica di Chagall o delle allucinate di-storsioni di Soutine, Modigliani era

in grado di coniugare l’idiomad’avanguardia con una tradizioneraffinatissima che risale ai preziosiarabeschi di Simone Martini e allesinuosità allungate di Botticelli.La pittura di questi artisti non si di-stingue per “ebraicità” - ammessoche esistano aspetti individuabili co-me essenzialmente ebraici in arte. Èvero che alla fine della sua carriera,negli anni Trenta, Ulvi Liegi ha di-pinto una serie di vedute dell’internodel Tempio di Livorno e che sia Cor-cos sia Modigliani hanno ritrattoamici e committenti ebrei. Ma nonlo hanno fatto più spesso o con piùenfasi dei loro colleghi non ebrei.Rientrano tuttavia nel fenomeno stra-ordinario della centralità che in unsecolo scarso hanno progressivamen-te avuto artisti, collezionisti, storicidell’arte e galleristi ebrei nel sistemadell’arte europea. Straordinario so-prattutto in relazione alla relativa-mente scarsa tradizione ebraica nellearti figurative e al divieto biblico dirappresentare. Tra le cause conco-mitanti spesso addotte sono l’eman-cipazione ebraica e l’assimilazionealla cultura della migliore borghesiagentile, la volontà di partecipare allerispettive culture nazionali, la ricercadi una sacralità culturale a sostitu-zione della religiosità in declino, unasete d’immagini retroattiva. Privile-giata e internazionale, la comunitàebraica livornese ha costituito terrenoparticolarmente fertile per l’emergeredi queste generazioni di artisti anchein virtù di un interessante connubio:la coltivazione estetica di matrice se-fardita derivante dal principio delhiddur mitzvah (fare onore alla mitz-vah non solo adempiendola, ma ren-dendola anche bella) e il retaggioumanistico e artistico toscano. Si trat-ta di un contesto in cui sembrava na-turale che il rabbino della città fosseanche professore di lingue classichee collezionista d’arte contemporanea:era con Ulvi Liegi che rav AlfredoToaff discuteva i propri acquisti dipittura moderna.

Quell’esplosione d’arte che mandò in crisi la tradizioneDa De Tivoli a Corcos, da Ulvi Liegi a Modigliani quattro generazioni di pittori scardinarono per sempre i linguaggi figurativi consolidati

u Ulvi Liegi - Sinagoga livorno u Vittorio Corcos - Ritratto di yorik

u Amedeo Modigliani - Nudo coricato

DOSSIER/Livorno

puntarono dritti e decisi al basso e la que-stione scemò: la crisi è evidente se, di recente,anche la loro beneamata Torre pendente haperso il discutibile primato battuta dal CapitalGate di Abu Dhabi. I pisani vi parleranno or-gogliosi della loro università mentre i livornesivi diranno che sono lieti di poterla frequen-tare, avendola a due passi, ma che sul mareproprio non ce la vedrebbero. In effetti an-darono controcorrente proprio gli ebrei chefecero di Livorno un grande centro di studianche perchè, ammettiamolo, una bella vistae aria bona non dispiacevano nemmeno agli

illustri Maestri tanto che Benamozegh, cosìsi riporta, una sola volta si recò a Pisa e, senon ricordo male, lo fece comunque per sen-tire un eccelso oratore non pisano.D’altra parte, e qui chiudo con i duri(per i pisani) confronti, si pensi chela festa popolare più sentita di Livor-no è il Palio marinaro, appunto all’ariabona e magari poi con un bel tuffo,mentre loro si divertono (?!) con ilcosiddetto Gioco del ponte nel quale,immersi nel caldo torrido del cemento citta-dino, si dilettano a spingere un carrello lungoun binario appositamente montato sul Ponte

di mezzo, sudando inverosimilmente...Potrebbe ora chiedersi il gentile lettore sel’alternatività, più che rivalità, tra livornesi e

pisani abbia riguardato e riguardi an-che le due vicinissime Comunitàebraiche. A mia sensazione direi dino, almeno sotto un aspetto peculiareebraico. Per quanto la vicinanza a Li-vorno abbia ovviamente comportatodei contatti e degli influssi (nel rito etra le persone), pare plausibile affer-

mare che la vita si sia svolta in parallelo main separata vicinanza, forse dovuta al fattoche quei pochi chilometri effettivamente sem-

bravano non dare il senso di due centri ebraiciseparati. Oggi più che mai sarebbe opportunoe utile rafforzare le collaborazioni tra Comu-nità vicine, almeno a livello regionale. Op-portunità che il nuovo eventuale Statuto do-vrà cercare di incentivare, più che far calaredall’alto (ricordiamo comunque che i consorzisono già possibili). Non si tratta di archiviareuna sana e ironica competizione bensì, comeappare logico, di ottimizzare le risorse dispo-nibili per migliori risultati per tutti. E poi chele cose cambino lo si vede anche da questosiparietto, opera di un ferrarese - livornese edi un romano - pisano.

VISTI DA LIVORNO da P15 /

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010

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sostieni

I l ricordo più bello sono le lungheserate passate a discutere dopo ce-

na di matematica, scienze e cose d’at-tualità. Il padre Renzo e i fratelli Da-rio e Daniele a palleggiarsi ragiona-menti e quesiti e lui, il piccolo di casa,a bersi in silenzio ogni parola. “Perla nostra famiglia era un momentocosì importante che a lungo ci siamorifiutati di tenere la tivù in casa neltimore ci potesse privare di quel no-stro stare assieme”, ricorda Elio Ca-bib, 54 anni, due figli. Proprio in quel-le serate mettono radici il profondoattaccamento per l’ebraismo e quellapassione per la scienza che con de-cisione guideranno i tre ragazzi Ca-bib nelle loro scelte professionali edi vita. Elio, oggi professore associatodi matematica alla facoltà di Inge-gneria di Udine, ne rende senz’altromerito al padre, docente di matema-tica in un istituto tecnico professio-nale e presidente della Comunitàebraica di Livorno dal 1958 al 1974.“Una persona estremamente legataalle tradizioni, poco interessata allamaterialità – ricorda - famoso in tuttala città per la sua distrazione, che go-

deva dei voli intellettuali, del piaceredi far lavorare la testa. Fu lui a darealla famiglia il doppio binario del-l’ebraismo e della scienza”.Elio e i suoi fratelli, livornesi e fiera-mente sefarditi da generazioni, cre-scono così tra casa e Comunità inun ambiente ricco di stimoli. Studia-no all’elementare ebraica, frequenta-no la Sinagoga, le lezioni del rabbino,Elio entra a far parte del Benè Akiva.Il tutto con un low profile d’altri tem-pi.“Da mio padre – ricorda – c’era uninvito costante a studiare, ad appli-care le mitzvot, a rispettare la ka-shrut. Ma senza ostentazioni. Quan-

do da ragazzo mi sono intestarditoad andare in giro con la kippah miesortava, invano, a ‘non fare galut’:un’espressione che alla lettera signi-ficherebbe ‘non fare diaspora’ ma danoi vuol dire ‘non mettere le cosenostre in piazza’. Non per vergogna.Ma perché la cosa poteva suscitarereazioni di fastidio”. L’educazioneebraica di Elio porta i nomi storicidi rav Bruno Polacco; della mae-stra Elvira Piperno; di rav Laras.Sono gli anni dell’adolescenza edel bar mitzvah, che vedono laComunità livornese arricchirsi dinuova linfa con l’arrivo, dopo laguerra dei Sei giorni, di tanti ebreilibici. “Fu una fase di notevole rin-novamento anche per il Tempio.Erano persone molto caricate dalpunto di vista ebraico, che por-tavano con sé una vena mistica ecabalistica che da noi era quasiscomparsa”. Per i tre fratelli sono glianni delle scelte per il futuro. E’ lavocazione scientifica seminata dalpadre a dettare la loro strada. Il mag-giore, Dario, si laurea in fisica a Pisa.Un PhD negli Stati Uniti e si trasfe-

risce in Israele dove dà vita ad alcunecompagnie hi – tech. Un impegnoche nel ‘97 gli vale il Premio europeoper l’innovazione per un’applicazionedella spettroradiometria in campogenetico. Daniele si laurea in chimicae dopo un dottorato al WeizmannInstitute approda alle raffinerie BateiTzedek di Haifa.Elio dopo la laurea in matematica a

Pisa (a seguirlo nella tesi è Piero Vil-laggio, docente di scienza delle co-struzioni e fratello del comico Paolo),vince un concorso all’ateneo udinesee si trasferisce a nord est. Da lì ElioCabib porta avanti il suo impegno

ebraico e quello civile. Da questopunto di vista il suo nome è legato,insieme a quello dell’amico MarcoOrioles, docente di scienze della co-municazione, a un video che due an-ni fa fece scandalo: quello in cui sivede Khatami stringere la mano adalcune donne. L’ex presidente ira-niano, che partecipava a un festivala Udine, venne immortalato da Ca-

bib e Orioles. “Trovavamo fuo-ri luogo la sua partecipazionesenza alcun contraddittorio. Ecosì registrammo gli incontrimandandoli su Youtube”. Frale riprese quella stretta di manoa una signora, che contraddicequanto Khatami aveva pochigiorni prima dichiarato in pa-tria. In pochi giorni il video ècliccato da centinaia di migliaiadi persone mentre la notiziadilaga sulla stampa. Un caso

mediatico da manuale azionato daun matematico che anche all’estremoconfine d’Italia tiene vivo il gusto tut-to ebraico (e livornese) della provo-cazione.

Daniela Gross

Elio e i suoi fratelli: la scienza è questione di famigliaE’ il padre Renzo a seminare nei ragazzi Cabib una vocazione profonda e appassionata che li guiderà negli studi e nella vita

u Elio Cabib durante una lezione.

Sotto, a sinistra, con i fratelli.

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Mario Canessa, il Giusto tra leNazioni in onore del quale è

stato scritto il Sefer Torah (caso forseunico al mondo) della sinagoga diLivorno, è uno dei tanti eroi silen-ziosi che nel dopoguerra scelsero dinon parlare. “Non sono un eroe, hofatto ciò che era giusto fare in quelmomento”. Anche adesso che ha ri-cevuto onorificenze da più parti,compreso il massimo riconoscimen-to concesso dal popolo ebraico aisuoi salvatori, si schermisce quandogli si parla dei suoi meriti. È un uo-mo tutto di un pezzo ma comunqueaffabile nei modi. Ricorda nomi eluoghi come se fosse ieri. Di lui Ma-rio Zucchelli, giornalista del Tirrenoche ne ha curato una breve ma in-cisiva biografia, scrive: “Mario Ca-nessa è un ragazzo di 92 anni e lafaccia da eroe francamente non cel’ha. Ammesso che gli eroi abbianol’identikit hollywoodiano con la ma-scella inox e il muscolo gonfio chea scanso di dubbi scatta prima delpensiero. Non ce l’ha perché non siè mai visto un eroe con i capellibianchi, un viso rotondo e il sorrisolargo da nonno contento più queltot di ironia bonaria toscana, forseetrusca”.Studente universitario originario diVolterra, negli anni del nazifascismolavora come poliziotto addetto aicontrolli sui treni che trasportano ifrontalieri della Valtellina in Svizzerae viceversa. Nel profondo nord ita-liano fa una scelta di campo e decidedi servire lo Stato come la grandefede in Dio e la profonda umanitàgli suggeriscono: a rischio della vita,combatte dalla parte di coloro chesi oppongono al Male. Canessa ac-compagna ebrei e prigionieri alleatiin terra elvetica, escogitando millestratagemmi per evitare le pattuglienemiche e pienamente consapevoleche la soffiata di una spia lo porte-rebbe davanti al plotone di esecu-zione. Centinaia di persone vengonosalvate grazie al suo coraggio e aquello dei suoi eroici collaboratori.

Il cuore di Mario palpita anche peril fratello, combattente in Yugoslaviae detenuto dai tedeschi a Dortmund.

Basta fare il nome di uno degli ebreiche aiuta e in cambio otterrebbe lasua liberazione. Basterebbe, però non

lo fa. Questa storia di eroismo e so-lidarietà Canessa se la sarebbe tenutavolentieri per sé senza divulgarla ingiro. Ma una confidenza fatta quasidistrattamente all’amico fraternoRaul Orvieto una decina di anni fa,di lì a poco dà il via a unacatena di eventi che locoinvolgono suo malgra-do. “Ho salvato alcuniebrei”, dice al compagnodi mille partite di scacchial Circolo ufficiali di Li-vorno. Passa del tempoda quella confidenza elo chiama Guido Gua-stalla, editore e consigliere della Co-munità ebraica livornese a cui ègiunta voce delle sue azioni merito-rie, che si attiva per fornire la docu-mentazione necessaria allo Yad Va-

shem. In breve la notizia approda sigiornali. Si arriva così al marzo del2008, quando Mario Canessa diven-ta un Giusto tra le Nazioni. La cosasembra turbarlo: “Detesto i ricono-scimenti pubblici, sono una forma

di esibizionismo che noncondivido”. L’eroe coi capelli bianchimostra alcuni documentidel primo dopoguerra cheattestano la sua promo-zione di grado nelle filedella polizia, dovuta alcomportamento meritoriotenuto negli anni bellici. Liposa e commenta: “Sono

questi i documenti che mi rendonofelice, degli altri non so che farmeneperché mi fanno solo soffrire com-plicandomi la vita”.

Il Giusto per cui è stato scritto un nuovo Sefer TorahSi è scelto di onorare così Mario Canessa, eroe silenzioso che negli anni del nazifascismo riuscì a salvare decine di perseguitati

Ricchezza, fama, onore, un ma-trimonio felice, una vita longe-

va, un cuore generoso. Moses Mon-tefiore ebbe tutto ciò che un uomopuò desiderare. Nato a Livorno nel1784 da una famiglia sefardita, si tra-sferì molto giovane a Londra. No-nostante conducesse un’esistenza in-ternazionale, viaggian-do costantemente emantenendo contattidi varia natura ai quat-tro angoli del globo, ri-mase sempre molto le-gato alla città toscanae alla sua Comunitàebraica. Vi fece spessoritorno ed elargì cospi-cue donazioni.Montefiore è ricordatocome uno dei più grandi filantropie benefattori. Iniziata la carriera aLondra, non impiegò molto tempo

a mostrare le sue notevoli capacità.Si rivelò un uomo d’affari coraggiosoe innovativo: fu uno dei primi, peresempio, a investire massicciamentenell’illuminazione a gas delle cittàeuropee, fondando l’Imperial GasAssociation. All’inizio dell’Ottocentouna legge inglese stabiliva a dodici

il numero massimo diebrei tra gli operatoridella borsa della Citylondinese, uno dei mas-simi centri della finanzamondiale. Montefioredivenne uno di loro.Nel 1812 sposò JudithCohen, figlia di uno de-gli uomini più ricchid’Inghilterra. Divenuto cognato di

Nathan Mayer Rothschild e assistitodalla fortuna oltre che dalla sua pro-verbiale abilità negli affari, mise in

piedi un vero e proprio impero fi-nanziario, divenendo uno degli uo-mini più facoltosi del secolo. Fondòe diresse grandi compagnie assicu-rative, intrattenne rapporti commer-ciali con tutto il mondo, fu a capodella Banca Provinciale d’Irlanda,delle compagnie imperiali di estra-zione in Brasile, Cile, Perù e dellaCompagnia coloniale della seta. Ot-tenne riconoscimenti ovunque e fuinsignito delle massime onorificenze

dell’impero britannico: Sceriffo diLondra, Cavaliere della Regina e Ba-ronetto. A quarant’anni decise dimollare tutto. Smise di lavorare e sidedicò a opere sociali e filantropi-che.Moses Montefiore non aveva rice-vuto un’educazione religiosa, ma dal-la sua prima visita in Eretz Israel nel1827 – ci tornò almeno altre sei volte– divenne strettamente osservante.Si fece costruire una piccola sinagogain stile italiano nel parco della suatenuta a Ramsgate. Volle sempre alsuo fianco uno shochet, un macellaiopersonale che gli garantisse di potermangiare sempre carne kasher. Siracconta che, quando partecipava aibanchetti, si portava dietro i piatti eil cibo, senza preoccuparsi affatto disuscitare lo stupore dei nobiluominiinglesi.Ricoprì per quasi quarant’anni la ca-

L’uomo che regalò un mulino a Gerusalemme Brillante uomo d’affari, sir Moses Montefiore combatteva per favorire lo sviluppo ebraico in Palestina

u A sinistra il Sefer Torah viene

portato in corteo per le vie del

quartiere in cui hanno sede le

strutture della Comunità. Al cen-

tro della foto rav Didi con Ga-

vriel Zarruk e Gabriel Maisto,

due giovani molto attivi in Co-

munità. Al centro il nuovo Sefer

Torah, scritto in memoria dei de-

portati livornesi e in onore del

Giusto tra le Nazioni Mario Ca-

nessa, è finalmente completato e sollevato al cielo. Si riconoscono alcuni

dei principali protagonista della vita comunitaria e, sulla destra, il rav

Laras. Nella foto a destra, il Presidente Ucei Renzo Gattegna, con Consi-

glieri, presidenti di Comunità e altri partecipanti alla riunione del Consi-

glio UCEI di Livorno nel marzo 2009 nel corso della quale è stato

presentato il progetto del Giornale dell’ebraismo italiano.

u Mario Canessa, al centro, alla presentazione del Sefer scritto in suo onore.

DOSSIER/Livorno

n. 8 | agosto 2010 pagine ebraiche

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010

E nrico Levi, giornalista livornesevissuto a cavallo tra Ottocento

e Novecento, quando riceveva co-municazioni scritte provenienti dallaComunità ebraica le buttava nel ce-stino senza neanche aprirle. “Lochiamano il pittoresco bagitto mafa schifo a sentirlo parlare”, com-mentava sdegnato. Povero bagitto: il caratteristico gergovernacolare degli ebrei livornesi nonha mai avuto fortuna tra gli intellet-tuali. Lingua bassa già a partire dalnome - l’origine è nel termine spa-gnolo bajito che significa “cosucciada poco” - è una miscela sviluppatasinel diciottesimo secolo che assorbele molte identità della Livorno giu-daica. Nel suo vocabolario, compo-sto in prevalenza da modi di direpiuttosto che da una vera e propria

grammatica, parole italiane si me-scolano a termini spagnoli, ebraici,portoghesi e arabi, dando vita a fu-sioni dal timbro vivace e talvolta in-comprensibile.Sono parole che da secoli circolanoanche nella società esterna. Se an-date in una pasticceria del centro diLivorno e chiedete di assaggiare unaspecialità del posto, con tutta pro-babilità vi consiglieranno le roschet-te, gustose e fragranti ciambelline ilcui nome è proprio di derivazionebagitta. “Le roschette sono solo unodei tanti esempi di questa contami-nazione linguistica”, spiega PardoFornaciari, scrittore satirico e primostudioso ad occuparsi in modo scien-tifico delle origini del bagitto (pochialtri lo hanno fatto in seguito, tra cuilo studioso di ebraismo e parlate

ebraiche Umberto Fortis).Pardo è un vero segugio. “Se sentoqualcuno parlare bagitto lo ricono-sco al volo. È un linguaggio incon-fondibile, ricco di nasalizzazioni,scambi di consonanti e modi di dire

mutuati dai testi sacri”. È uno stu-dente liceale quando si imbatte neisonetti antisemiti di Giovanni Guar-ducci. Quel linguaggio colorito loincuriosisce e decide di approfon-dirlo. Le ricerche si rivelano difficili,soprattutto per la mancanza di trac-ce scritte. “Ad eccezione del com-mediografo Guido Bedarida e di po-chi altri tra cui Mario Della Torre eCesarino Rossi, non esiste una verae propria letteratura. Il bagitto hadato più spesso luogo a strumenta-lizzazioni di giudeofobi che canzo-navano gli ebrei per il loro modo diesprimersi che a una produzione let-teraria “. Quel gergo scompare quasidel tutto dopo la fine della secondaguerra mondiale, spiega Fornaciari.“Già a inizio del secolo scorso sba-gittare era considerato indecoroso e

indice di mancanza di cultura, su-perstizione, scarsa integrazione e li-mitatezza mentale”.Autore di numerosi lavori tra cui Fa-te onore al bel Purim, volume in cuisono pubblicati decine di sonetti ecomposizioni in bagitto, Fornaciariha da poco lasciato il frutto delle suericerche a un giovane laureato. Sichiama Alessandro Orfano e nellasua tesi ha analizzato le peculiaritàdel pittoresco linguaggio ebraico insalsa livornese. Dal 2006 al 2008 haintervistato gli ultimi ebrei che par-lano o ricordano il bagitto e ha poiutilizzato le varie testimonianze oraliraccolte per realizzare un dvd (fi-nanziato dall’Unione delle ComunitàEbraiche Italiane e da alcuni giorniin distribuzione gratuita) in cui i fileaudio si affiancano a un ricco glos-sario di oltre 200 termini.Orfano, la cui tesi sta per essere pub-blicata dalla casa editrice Gaia Scien-za, racconta un aneddoto curioso:“Non tutti lo sanno ma il bagitto re-siste ancora in parte tra i commer-cianti del mercato Buontalenti, chelo utilizzano per non farsi capire daiclienti”. Gabriele Bedarida, memoriastorica della Comunità ebraica di Li-vorno, non è un commerciante maquel gergo lo conosce bene: suo pa-dre Guido è stato il più importantecommediografo in bagitto. GuidoBedarida si firmava con lo pseudo-nimo di Eliezer Ben David e avevainventato uno stemma personale raf-figurante un leone. Aveva inoltremesso in piedi una compagnia tea-trale che recitava i sonetti e le com-medie in vernacolo. Tra quei giovaniattori, anche il futuro rav Elio Toaff.Uomo distinto e posato, il figlio diGuido estrae dal cassetto un giornale.È il Sor Davar, numero unico editodal circolo giovanile ebraico di Li-vorno nel 1962, che tra le sue pagineospita due sonetti di Cesarino Rossi.Si alza in piedi, fa un sorriso, schia-risce la voce e comincia a recitare.

Adam Smulevich

Quando il rav Elio Toaff declamava versi in bagittoOrmai quasi scomparso, il caratteristico vernacolo che mescola spagnolo, italiano, ebraico e arabo è oggi al centro di molte ricerche

P ardo Fornaciari non sta simpatico a tutti in Co-munità. Ne è consapevole (la polemica tra l’altro

a suo tempo è finita su alcuni giornali locali e ha fattodiscutere) ma tira avanti per la sua strada: “C’è chimi accusa di essere antisemita, ma è una meschinità.In realtà ho più di una remora sulle politiche del go-verno israeliano che non ho problemi a esternare inpubblico. Tutto qua, il resto sono strumentalizzazionida parte di individui che faccio fatica a qualificare”.Pardo, 62 anni, comunista testardo e ru-spante, è un artista poliedrico, il coltomenestrello e cantore di Livorno, dei dia-letti e della esuberante gente labronica.Ama in modo viscerale la città in cui ènato e vive. Ed è ricambiato: molti con-cittadini ne apprezzano penna e indolepungente. Le sue ricerche sulle peculiaritàlinguistiche degli ebrei livornesi, in par-ticolare sul bagitto, rappresentano il primostudio scientifico in materia. Fornaciari conosce moltobene la comunità e la lingua ebraica, che ha studiatoda autodidatta, incuriosito da quella minoranza e dallasua cultura forse anche perché di lui, giovane bimboinquieto e rompiscatole, si occupavano due tate ebree.Molto amico del presidente Samuel Zarrough chedefinisce “un uomo di grande saggezza ed equilibrio”,

Pardo è di fatto un tuttologodai mille interessi, che non sela tira in nessun modo per lasua erudizione che emergecon sobrietà. “Non bisognamai prendersi troppo sul se-rio, altrimenti si finisce perdiventare ridicoli”, ammoni-sce. Figlio del partigiano Pie-

rino, pittore e in-segnante che trai suoi allievi ebbe anche il futuro giornalistae vicedirettore del Corriere della sera Mag-di Allam, è firma di punta e rubricista delVernacoliere, storica e irriverente pubbli-cazione livornese che non si fa mettere ipiedi in testa dai potenti ed è veicolo disfogo antipisano. Lo studio in cui Pardolavora, una stanza interna alla sua abita-

zione situata a due passi da piazza Cavour, è comevuole la regola che riguarda i creativi, un gran casinodi libri e appunti di vario genere. In un angolo c’èuna chitarra, sugli scaffali sono riposti molti libri inebraico. “Benvenuto nel mio regno disordinato”, leparole che accolgono sulla porta un visitatore munitodi macchina fotografica e taccuino.

Pardo, l’ultimo menestrellorica di presidente del Consiglio deideputati degli ebrei britannici, or-gano di rappresentanza nazionaledelle comunità ebraiche del RegnoUnito, ma il suo impegno filantro-pico fu diretto soprattutto verso gliebrei in condizioni di miseria edemarginazione. Intraprese numerosemissioni all’estero: con i suoi 191centimetri d’altezza e la sfarzosa ve-ste da diplomatico della regina, in-cuteva soggezione – figura carisma-tica e autorevole. Consapevole diciò, chiedeva udienza alle massimeautorità e intercedeva per le sortidella comunità ebraica. Si recò dalsultano di Turchia, dallo zar NicolaI, in Romania, in Marocco e al Va-ticano. Le opere più importanti lecompì in Palestina. Innamorato diquesta terra, volle favorire lo svilup-po della comunità ebraica a Geru-salemme. Acquistò un terreno pocofuori della cerchia delle mura dellacittà vecchia e vi fece costruire unmulino che, al centro del quartiereYemin Moshè, è uno dei simboli piùamati della città.

Manuel Disegni

u Ciambelline di pasta all’olio, le ro-

schette sono una specialità gastrono-

mica di origine ebraico sefardita che si

trova in quasi i forni di Livorno. Il nome è

di derivazione bagitta.

u Il vocabolario bagitto,

composto soprattutto di

modi di dire ed espressioni

più che da una vera e pro-

pria grammatica, ha dato

vita a una scarsa lettera-

tura. Tra i pochi autori a la-

sciare tracce scritte della

loro opera, il più cono-

sciuto è il commediografo

Guido Bedarida. Tra gli

altri nomi, Mario Della

Torre e Cesarino Rossi.

Giovanni Guarducci in al-

cuni sonetti antisemiti di-

leggiava gli ebrei per il

loro modo di parlare.

u Il bagitto è il vernacolo

caratteristico degli ebrei

livornesi. Lo parlano e lo

ricordano ancora i grandi

vecchi della Comunità e al-

cuni commercianti del

mercato Buontalenti. Il

giovane Alessandro Orfano,

laureatosi con una tesi sul

pittoresco gergo ebraico, è

andato a cercarli uno per uno. Li ha incontrati e

ha utilizzato le varie testimonianze orali raccolte

per realizzare un dvd, finanziato dall’Unione delle

Comunità Ebraiche e da pochi giorni in distribu-

zione gratuita, in cui a un glossario che include

oltre 200 termini ed espressioni si affiancano file

audio con la voce degli intervistati.

u Enrico Levi con una la copia de Il

Sor Davar pubblicato per la prima e

unica volta nel 1962

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraiche

GIORNATA EUROPEA DELLA CULTURA EBRAICA26 ELUL 5770

DOMENICA 5 SETTEMBRE 2010MOSTRE CONFERENZE CONCERTI

A E

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EMA

SArte ed Ebraismo: questo il binomio scelto quale ‘fil rouge’ delle manifestazioni della Giornata Europea della Cultura Ebraica, che nel 2010 giunge alla sua undicesima edizione. Dalle mostredi arte figurativa – e dal complesso rapporto che gli ebrei intrattengono con essa – alla letteratura, dalla musica alle rappresentazioni teatrali alle decine di happening ed eventi grandi epiccoli, l’ebraismo italiano ed europeo si apre ad un pubblico di anno in anno più numeroso e interessato, per farsi conoscere, per parlare con gli altri, per combattere stereotipi e pregiudizi.Una data da segnare in agenda, domenica 5 settembre: da mattina a sera, l’appuntamento coinvolge la penisola da nord a sud, da est a ovest, nelle sessantadue località che vi aderiscono.LaGiornata Europea della Cultura Ebraica è coordinata in Italia dall’Unione delle Comunità Ebraiche, l’ente rappresentativo dell’ebraismo italiano. Di ebrei si parla spesso, talvolta senza co-noscerli. Dalle visite guidate ai percorsi enogastronomici, dalle conferenze agli itinerari spirituali, dalla scoperta delle antiche usanze e tradizioni alle manifestazioni più moderne della vitaebraica, il 5 settembre l’ebraismo italiano ed europeo apre le porte a giovani e meno giovani, a studenti, appassionati di cultura ebraica e a tante persone semplicemente curiose.

www.ucei.it/giornatadellaculturawww.jewisheritage.org

Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - Lungotevere Sanzio, 9 - 00153 Roma - Tel. 06.45542200Info: [email protected] - Ufficio stampa: [email protected]

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010

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MEDIA

ú–– Ugo Vollisemiologo

ú– DIETRO LE PAROLE / LE ANTICHE REGOLE E IL MONDO MODERNO

Uno dei temi critici, su cui il pensiero ebraico non ha ri-flettuto ancora abbastanza, è quello della modernità.Formatosi nell’Età del bronzo alla periferia del mondoantico, l’ebraismo ha fissato molto presto le sue regolefondamentali e vi è rimasto fedele con una straordinariapersistenza, attribuendo poi anche nel lungo processo diadattamento ermeneutico successivo un valore peculiareall’antichità: già a partire dal Talmud, più remoto eraun commento o una decisione, più autorevole e irrevoca-bile. Questo metodo ha avuto un valore evidente per unpopolo disperso deciso a tenersi separato in un mondoframmentato e poco inclusivo che si muoveva molto len-tamente, almeno sul piano culturale. Ma a partire dal

Rinascimento, dalla nascita della scienza, dall’Illumini-smo, dalla formazione degli stati nazionali e liberali, lamodernità è stata sempre più pressante ed eversivaanche per l’ebraismo. Non è solo la questione della tec-nica, che inevitabilmente sfida regole comportamentaliformulate in una antica civiltà pastorale: come si fa peresempio a catalogare sotto la categoria arcaica del fuoconon solo la lampadina elettrica, ma luci elettroniche chenon comportano riscaldamento o scintille, forni a micro-onde, raggi infrarossi? Anche l’etica condivisa, le regoledei rapporti interpersonali, i sistemi politici, la globaliz-zazione di usi e consumi, insomma i tratti culturali do-minanti sono sempre più lontani dai modelli

antropologici su cui si fonda la nostra tradizione. Vi èchi di fronte alla sfida si è interamente convertito allamodernità, come la maggior parte degli israeliani, chi alcontrario ha rifiutato ogni adattamento cercando di con-servare incongruamente anche i vecchi abiti: vecchi,non antichi, e pietosamente inadatti al nuovo clima. Viè chi ha provato una riforma o una moderna ortodossiadi qualcosa che era diventato, da costume nazionale,“religione”. Nessuno, credo, può essere tranquillo nellapropria soluzione. Ma certo al di là delle contingenzepolitiche e religiose il popolo di Israele per continuare ilsuo percorso ha bisogno di riflettere con più coraggio eprofondità sul suo rapporto col mondo moderno.

ram Kaniuk 5, Uri Orlev 4, Ron Lesher3. Al confronto si vede che i grandi“classici” della letteratura israelianascomparsi sono molto meno presenti:Shmuel Yosef Agnon ha 16 citazionie Haim Nachman Bialik solo 9.Qual è la ragione di questo stato dicose? Non c’è evidentemente una ri-sposta unica. Il primo fatto da consi-derare è che questi autori e in generalegli scrittori e i libri hanno un peso mol-to forte anche dentro la società israe-liana. In Israele si pubblicano 7 milalibri nuovi l’anno circa, uno ogni milleabitanti, il doppio dell’Italia, in pro-porzione. E anche per quanto riguardal’acquisto pro capite di libri, Israele èal secondo posto al mondo. Intellet-tuali e scrittori godono di un prestigiotutto particolare. Viene da pensare chequesto accada come una sorta di lai-cizzazione del ruolo straordinario chela società ebraica ha sempre assegnatonella sua storia allo studio e alla scrit-tura. Per secoli le persone più influentidella comunità sono stati i rabbini piùdotti e fra essi gli autori più acuti. Daessi il popolo ebraico ha tratto guidanei tempi più difficili e continuità perla propria esistenza collettiva. Certo,gli scrittori non sono rabbini, neppurein una società profondamente laica co-

me Israele, ma i rabbini sono stati spes-so scrittori, non solo nel senso genericodi produrre libri, ma in quello specificodi inventare storie per illustrare le loroidee. Tutto ciò spiega forse l’impor-tanza degli scrittori nella società israe-liana, ma non basta a chiarire il loropeso sulla nostra stampa. Per avere unconfronto si può dire che gli scrittoriassieme pesano (in citazioni) ben piùdel capo dell’opposizione Tzipi Livni(319), collezionano venti volte le cita-zioni del più autorevole e popolarerabbino israeliano rav Ovadia Yosef(23) o del rabbino capo sefardita ravShlomo Amar (25, nonostante la po-lemica per le “ciambellette” di Pesach),trenta o quaranta di più dell’ultimopremio Nobel israeliano, Ada Yonath(13) o del rabbino capo askenazita ravYona Metzger (11).Se si volesse cercare una ragione perquesta prevalenza degli scrittori israe-liani, io credo che bisognerebbe con-siderare due fattori, oltre alla tradizionedi cui ho parlato. La prima è il lorosuccesso come autori. E’ difficile tro-vare degli indicatori oggettivi di eccel-lenza letteraria, ma se si considera sem-plicemente la concomitanza del giu-dizio critico e del successo di pubblico,autori come Yehoshua e Grossman

sono certamente ai vertici della pro-duzione contemporanea, il che è diper sé un fatto assai notevole: un paesemolto piccolo, una lingua reinventatatre generazioni fa produce una lette-ratura straordinariamente ricca e affa-scinante. Dunque pubblicando le opi-nioni di questi autori i giornali dannospazio a voci note e amate dal pub-blico italiano. Questo è il lato positivodella faccenda. Ma ce n’è certamenteun altro più problematico. La delegit-timazione “morbida” di Israele, cosìdiffusa nella stampa, passa anche peruna distinzione sistematica fra le sceltedi governo e l’identità dello Stato. Co-loro che non vogliono mettersi fra co-loro che negano il diritto a esisteredello Stato di Israele affermano di ri-fiutare “solo” le politiche del suo go-verno (in realtà più o meno di tutti isuoi governi, da decenni...). C’è peròil problema che il popolo israeliano sisceglie i suoi governi in libere elezioni,ha una stampa libera, una magistraturaindipendente, un buon numero di par-titi in concorrenza, compresi i partitiarabi e quelli dell’estrema sinistra, unparlamento che decide a maggioranzadopo molte e accesissime discussioni.Insomma secondo tutte le regole Israe-le è una democrazia matura, cioè un

ú– COVER TO COVER di Cinzia Leone

I mmaginate che per discutere del-l’adesione o non adesione ingleseall’euro i giornali italiani sentissero

il bisogno di far parlare con rilievo J.K. Rowling, Ian McEwan o SalmanRushdie, che per capire le elezioni te-desche si dovessero leggere Botho Sta-rauss o Andreas Mayer, che i principalicommentatori internazionali della po-litica spagnola fossero Javier Marias oPerez Reverte. Potrebbe essere unaprospettiva interessante, ma certamentenon accade, o solo occasionalmente.Questi paesi sono rappresentati e in-terpretati da giornalisti, esperti, politici;gli scrittori più noti discutono della po-litica del loro paese sui giornali stranierisolo occasionalmente, senza essere pre-si come moderni profeti alternativi alsistema politico.Con Israele le cose vanno in manieraassai diversa: i più importanti scrittorisono citatissimi all’estero e in partico-lare in Italia, continuamente intervistati,pubblicano editoriali sui giornali stra-nieri. In particolare il gruppetto deiquattro scrittori più popolari (Gros-sman, Oz, Yehoshua, Shalev) ha col-lezionato nell’ultimo anno esattamente364 presenze sulla nostra rassegnastampa, cioè uno al giorno. Il più pre-sente è Amos Oz con 116 presenze,segue immediatamente David Gros-sman con 114, poi Abraham Yehoshuacon 80 e Meir Shalev con 54. A questogruppetto si può certamente accostareElie Wiesel che raccoglie da solo 209citazioni. Vale la pena di notare chenell’anno di osservazione consentitodalla rassegna non è uscita nessunaopera maggiore di questi autori: le ci-tazioni sono quasi esclusivamente diargomento politico e non letterario.Felicitandoci per la forza della culturaebraica, bisogna pur chiederci il perchédi questa sovrarappresentazione me-diatica, che si estende anche a scrittoriassai meno popolari: Aharon Appelfeld26, Edgar Keret 10, Yael Dayan 8, Yo-

sistema in cui i governi attuano poli-tiche decise dagli elettori – il che nonsi può certo dire dei suoi vicini. Come si può dunque distinguere Israe-le dalle sue politiche, il popolo dal go-verno? La via più semplice è inventarsiun’anima buona che sarebbe traditadai cattivi governanti. Quest’animabuona e pacifista è offerta dagli scrittorie (meno popolare, ma utile per boi-cottaggi e accuse politiche) da un im-portante settore dell’accademia e daun giornale di tradizione intellettualecome Haaretz, che ha una ricca edi-zione online in inglese facilmente con-sultabile anche da noi. Dando voce aquesti settori intellettuali, che sono as-solutamente minoritari nel paese (l’op-posizione di sinistra ebraica alle ele-zioni ha raccolto intorno al 5 per centodei voti, Haaretz ha una diffusione in-torno al 7 per cento) ma “prestigiosi”,i giornali italiani possono controbilan-ciare o mascherare il fatto che l’elet-torato ebraico ha appoggiato la bar-riera di separazione e la guerra di Ga-za, è favorevole a Netanyahu e con-traria a Obama, non vuole il bloccodelle costruzioni a Gerusalemme, nutremolte perplessità sulla possibilità diuna pace vera coi palestinesi, non vuo-le pagare con il Golan il prezzo di unapace con la Siria, pensa che con Ha-mas non si debba trattare. Naturalmente lo sfruttamento è in par-te reciproco: essere degli israeliani“buoni” e pacifisti consente di avereaccesso a premi, fiere, corsi universitari,carriere che agli israeliani comuni sonopreclusi o boicottati. Con il che nonvoglio certo accusare di malafede il-lustri scrittori e accademici, ma con-statare un meccanismo di interesse re-ciproco che vale anche per molte Ong.Resta da chiedersi perché una parteimportante dell’intellighenzia israelianasia andata così fuori sincrono rispettoalle scelte fondamentali del paese. maquesto è un altro discorso.

L’Osservatore

t THE ECONOMISTUn filo spinato e un muro nero d’ombra.Netanyahu, il volto a metà, sembra usciredall’inquadratura. Solo un uccellinoimpavido, sospeso al culmine della volutapiù alta del filo spinato, nero come unostencil si staglia contro un tramontodenso di nubi. Lo scenario è fosco, il titolo“Mentalità da assedio” parla chiaro.Speriamo che per l’Economist l’uccellinosia il simbolo della pace.

Voto: 7

t ERETZUn bambino con la kippah e un clown.Sopratutto in tempi complicati bisognasaper sorridere. L’estate a Gerusalemmepromette anche sorrisi e qualchesmorfia da clown. Nei Simpson, il clownKrusty è simbolo dell’umorismo ebraicoe festeggia il suo bar mitzvah. Specchiofedele dell’America, e non solo, ISimpson la sanno lunga: l’umorismo èsempre una carta vincente.

Voto: 9

t TIME OUTTitolo “La stagione calda”. Banale ladonna, ancora più banale l’anguria.Ancora più banale la nuditàintravista. Possibile che non ci sianulla di più originale per rinfrescarsia Tel Aviv. La città, anche esoprattutto in estate, saprà esseremolto più originale di come icreativi di Timeout la voglionorappresentare.

Voto: 5

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraicheCULTURA EBRAICA

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ú–– rav Alberto M. Somekh

N ormalmente si ritiene che sidebba attendere il Giornodi Kippur per pentirsi. È ve-

ro che le complicazioni della vita mo-derna ci inducono spesso a rimandareimpegni anche di grande importanzaall’ultimo momento. Ma è il caso diriflettere sul fatto che Yom Kippur ècollocato al termine dei giorni desti-nati al pentimento, che hanno in re-altà inizio con Rosh haShanah. Fedelial modello di comportamento ebraicodella sollecitudine, ci si deve dedicarea un buon proposito non appena sene presenta l’opportunità: così, perfare Teshuvah si approfitti già primadi Rosh haShanah, senza aspettareoltre. Gli Yamim Noraim che segui-ranno ci servano solo per gli eventuali“ritocchi”!“Quando uscirai in guerra contro il

tuo nemico e il Signore D. tuo lo daràin tua mano e avrai catturato dei pri-gionieri, se vedrai fra i prigionieri unadonna di bell’aspetto e tene innamorerai e vorraiprenderla in moglie, dovraicondurla nella tua casa: es-sa si toglierà le vesti deiprigionieri e rimarrà in ca-sa tua piangendo suo pa-dre e sua madre per un in-tiero mese; dopo di chepotrai unirti con lei e saràtua moglie”.Si leggono questi versettiall’inizio della Parashat KiTetzè: quanto di più lon-tano dalla psicologia ebrai-ca una guerra del genere,e ancor più il rapimento didonne fra i prigionieri! Per-ciò il Chamdat ha-Yamimne dà un’interpretazioneallegorica. L’unica battagliaimmaginabile nella nostramentalità è quella chel’ebreo affronta con i pro-pri istinti. Se nel corso diquesta guerra ritroviamo lanostra anima (la “donna dibell’aspetto”, appunto), es-sa dovrà attraversare un periodo dipurificazione prima di riunirsi a noistessi. Il mese di pianto dell’animanon è altro che un’allegoria del mesedi Elul, in preparazione del giornodel “matrimonio” con essa a Rosh ha-Shanah.La Parashat Ki Tetzè, che non a casosi legge sempre all’inizio di Elul, nonsi limita tuttavia a parlarci di guerra.Come osserva il commentatore ita-liano rav Ovadyah Sforno, buona par-te dell’etica ebraica si ricava dai suoiversetti. “Dopo aver parlato di ciò chepuò allontanare la Presenza di D. daIsrael, ci avverte di mettere in praticail Chessed che ha l’effetto di accostarela Shekhinah ad Israel: l’aiuto ai po-veri, il cibo dell’operaio, la pace fa-migliare, le attenzioni da usarsi nelpignorare un debitore, la cura e laprevenzione delle malattie, il divieto

della maldicenza, la moderazione al-lorché si infliggono pene corporali aicondannati e il riguardo persino versola sensibilità degli uccelli che covanonel nido e dei buoi che trebbiano sulcampo!”. Sono due i fondamentali at-tributi di D. nella Sua relazione conil mondo: il Din, la Giustizia, e ilChessed, la Misericordia. Si tratta didue modi diversi per cui il mondo ar-riva a D., nel processo della Teshuvah.Il primo consiste nel combattere ilMale direttamente. È un atto di Ghe-vurah, di guerra verso la propria ani-ma. Per mezzo del secondo, invece,facciamo prevalere il Bene in ogni sfe-ra del nostro comportamento. Secondo la dottrina qabbalistica, il si-gnificato dell’episodio biblico del Sa-crificio di Isacco che ricordiamo aRosh haShanah deve essere ricondot-to alla prevalenza del Chessed sulDin. D. parla ad Abramo due volte.La prima chiamata, la mano che siscaglia sul corpo del figlio, legato aquell’altare improvvisato sul Monte

Moriah, rappresenta il Din, l’aspettoinderogabile della Divinità, che richie-de l’esecuzione di un ordine anche acosto di soffocare legittimi sentimenticontrastanti. Ma all’ultimo momento,quando sembra che su Isacco stia perabbattersi una terribile punizione perchissà quali colpe, quella mano vienefermata e la vittima è risparmiata. Alsuo posto viene sacrificato un mon-tone, in ebraico ayil, parola che ha lostesso valore numerico di em, madre,e simboleggia pertanto la misericordiaassociata alla figura materna, propriocome il vocabolo rachamim si ritienederivi da rechem, utero. Quella madresempre pronta ad immolarsi al postodel figlio. Rav Shemuel Cases, un noto Rabbinomantovano del Settecento, soleva asua volta paragonare le diverse etnieebraiche alle Sefirot, le varie qualità

morali che D. adoperò, secondo laQabbalah, per creare il mondo, sfor-zandosi di provare come ogni com-ponente del nostro popolo sia indi-spensabile per l’armonia del tutto. Co-sì egli sosteneva che il carattere degliashkenaziti li avvicina naturalmentealla Sefirah della Ghevurah, la Poten-za. Il loro rigore nell’applicare le nor-me li fa sembrare, per così dire, ilbraccio militante dell’ebraismo. D’al-tro lato vi sono i sefarditi, tendenzial-mente concilianti, e perciò paragona-bili alla Sefirah del Chessed, l’attributodella Misericordia. Infine vi sono gliitaliani cui il rabbino Cases attribuiscela Sefirah della Tif’eret, la Bellezza,per il profondo senso del decoro concui si accostano alle pratiche ebraiche.Da sottolineare che secondo la Qab-balah Tif’eret (bellezza) è a sua voltail risultato dell’unione “nuziale” fraGhevurah (potenza) e Chessed (mi-sericordia). Il mondo ebraico pare og-gi diviso fra sostenitori del Din e dellaGhevurah a oltranza da un lato, che

insistono per una rigorosaapplicazione delle normeche ci pare talvolta privadella necessaria visioned’insieme, e propugnatoridi un Chessed veRacha-mim malintesi dall’altro,pronti a sgravarsi di ognitensione ideale per unebraismo “al passo con itempi”, in realtà di como-do e senza senso. In questoquadro così poco incorag-giante, dove sta la Tif’eret?Dove si colloca la tradizio-ne ebraica italiana? Perchéessa non fa più sentire l’in-fluente e autorevole vocedella “bellezza”, come è ac-caduto per secoli?Il Chidà di Livorno com-mentava le parole di ravCases sottolineando nellaTefillah un aspetto di su-periorità del rito italiano.Mentre in tutto il mondoebraico si usa ripetere duevolte la parola le’eyla del

Qaddish (che significa “in alto”) sol-tanto nei dieci giorni penitenziali, persottolineare la particolare elevazionedi D. negli Yamim Noraim “ al di so-pra di ogni benedizione”, noi italianirecitiamo le’eyla le’eyla tutto l’anno:per noi D. è sempre “più” in alto, pernoi è sempre vivo l’impegno di unireil rigore con la conciliazione. La po-sizione della Tif’eret è certo la più no-bile, e richiede uno sforzo maggioreper essere ebrei le’eyla le’eyla tuttol’anno, nel senso più completo deltermine. Soltanto coltivando Ghevu-rah e Chessed senza pregiudizi rigua-dagneremo quella Tif’eret che è pre-supposto unico per assurgere all’ulti-ma Sefirah, in assoluto la più alta ditutte, chiamata Malkhut (regno). Faresì che D-o sia Re su tutta la terra, D.di tutti. Come auspicato nelle pre-ghiere di Rosh haShanah.

ú– PAROLEu SHABBATLa parola Shabbàt (sabato) deriva dal verbo shavàt (cessare). In ebraico mo-derno si usa questo verbo per dire scioperare. Lo Shabbat è il settimo giornodella settimana in cui D. terminò la creazione. È perciò che la Torah, nel-l’Esodo, ci ordina nei Dieci Comandamenti di non lavorare di Shabbat. Nellaloro ripetizione nel Deuteronomio la Torah ci dice che lo scopo è di ricordaredi essere stati tratti fuori dall’Egitto, dalla casa di schiavitù. Le due spiegazioninon sono alternative ma complementari, infatti il Midrash afferma chefurono dette “con un’unica voce”. Lo Shabbat è caratterizzato da ciò chesi fa e da ciò che non si fa. Si accendono le candele alla vigilia, si santificanocon il vino l’inizio e la fine dello Shabbat, si fanno tre pasti festivi con duechalloth ecc. Fra i divieti, ci si astiene dal compiere tutti gli atti “lavorativi”inclusi in 39 categorie ricavate dai lavori che erano necessari per costruireil Mishkàn, il Tabernacolo che accompagnò gli ebrei nel Sinai (I. Grunfeld,Lo Shabbàt, tr. di R. Bonfil, La Giuntina). L’analogia è chiara: D. crea il mondo(il macrocosmo), l’ebreo costruisce il Mishkan (il microcosmo). Le azioni dacui ci si deve astenere sono numerose e a molti appaiono eccessive e didifficile comprensione. Scrive A. J. Heschel: “Il lavoro è un mestiere, ma ilriposo perfetto è un’arte, il risultato di un’armonia tra il corpo, la mente el’immaginazione. Per raggiungere la perfezione in un’arte si deve accettarnela disciplina… (Le) restrizioni sono canti per coloro che sanno vivere in unpalazzo insieme con una regina” (Il Sabato, cap. 1). Uno che si intende diebraismo e di uomini, Umberto Eco, scrisse in una memorabile Bustina diMinerva: “…tutte le prescrizioni rituali nascono da una saggezza arcaica, esolo la rigidezza del comando garantisce l’osservanza del precetto… Qualè la saggezza del Sabato ebraico? Che se devi riposarti dopo una settimanadi lavoro il riposo deve essere assoluto, devi dimenticare tutto, abbandonareogni pensiero, non devi più affannarti sui problemi della settimana trascorsa.E se solo ti corre il pensiero che potresti finire quella lettera, o dare unalavata a quella camicia, non ti fermi più, saranno venti lettere e il bucatodella settimana” (L’Espresso 28 luglio 1991).

rav Gianfranco Di Segni, Collegio Rabbinico Italiano

u CI SI ALZA PER IL KADDISHIl Kaddìsh, com’è noto, è una piccola preghiera in lingua aramaica, un tempola lingua popolare, con la quale si santifica il nome divino. Vi sono vari tipidi Kaddìsh: Yatòm, ossia dell’orfano, che viene recitato da un figlio o, in as-senza di questo, da un parente di una persona scomparsa, per sostituirel’estinto nel compito di dichiarare pubblicamente la santità di Dio; Derabanàn,cioè dei Maestri, con il quale si conclude uno studio di Talmud, Halakhàh oMidrash per dichiarare che Dio si santifica soprattutto attraverso lo studiodella Torah; Il mezzo Kaddìsh che il chazan pronuncia a conclusione di unaserie di brani nel corso della Tefillah. Rispondere al Kaddish con amen o conconcentrazione all’invito di benedire il Nome da colui che recita il Kaddìshporta, secondo il Midrash, a essere perdonati dai peccati commessi o a gua-dagnare un posto nel mondo futuro. Insomma, il Kaddìsh è certamenteun passo importante della Tefillah. Vi è, proprio riguardo al Kaddìsh, unadiscussione tra i Maestri se nel corso della sua recitazione coloro che loascoltano debbano stare seduti oppure in piedi. Anche se la norma dovrebbeseguire l’usanza del Bet haKnesset in cui tale preghiera viene letta, oggil’alzarsi o il restare seduti è pressoché a discrezione di ogni persona. Ma dache cosa dipende in realtà la discussione? Certamente non dal tasso distanchezza di coloro che sono presenti al Tempio. Chi ritiene si debba starseduti lo impara da Avraham. Quando Dio si rivolge a lui per ordinargli difare il brit milah, il Patriarca, colto da timore per la presenza della Shekhinah,non riesce ad alzarsi in piedi. Rimane seduto come impietrito e successi-vamente si prostra a terra. Così per il Kaddish. Nel momento in cui lo sirecita la presenza di Dio cala sul pubblico e il posto si riempie di santità.Pertanto, i Maestri che pensano si debba star seduti, ritengono che in talmodo si dimostri, simbolicamente, il timore reverenziale che dovrebbe co-gliere l’ebreo alla presenza di Dio. Chi reputa si debba seguire il Kaddìshstando in piedi lo impara, stranamente, da un non ebreo, nemico di Israele.Nel libro dei Giudici si narra la storia di Eglòn, re dei moabiti, che in queltempo regnava su una parte di Israele con durezza. Ehud, un eroe ebreo,decise così di spingere il popolo alla rivolta uccidendo Eglon. Trovatosi soloalla presenza del re, per potersi ulteriormente avvicinare a lui, disse: “Tidevo parlare di una cosa del mio Dio”. Eglon, che pure aveva grandi difficoltàdi movimento a causa di un’obesità esagerata, per rispetto si alzò in piedicon gran fatica. Per questo sforzo, afferma il Midrash, egli ebbe il meritod avere una figlia come Ruth dalla quale nascerà il re David e il Mashiach.Dunque, se il nemico Eglòn, non ebreo, si alzò per deferenza alla parola diDio, per quale motivo noi ebrei non dovremmo fare altrettanto quandoascoltiamo un passo della preghiera in cui si parla della santità del Creatore?

rav Roberto Colombodocente a Milano e a Roma

ú– PERCHÉ

u ELULE’ un mese dedicato alla riflessione e al pentimento in preparazione diRosh haShanah e di Kippur. Nell’arco del mese si recitano le Selichot e c’èl’usanza di suonare lo Shofar. Quest’anno il mese di Elul inizia mercoledì11 agosto. Il primo giorno di Rosh Chodesh cade la sera di martedì 10.

ú– LUNARIOPiù in alto, più in alto

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010 CULTURA / ARTE / SPETTACOLO

ú–– Guido Vitale

Cara compagna di banco, l’al-tro giorno avevo voglia dipiangere, e tu sai perché. Ho

cercato di distrarmi con il lavoro,ma non sempre funziona. E in ognicaso volevo parlare di te per cometi ho conosciuta, lasciando ad altri,più competenti e titolati, il compitodi rendere omaggio alla tua figurastraordinaria di professionista, di stu-diosa, di ambasciatrice nel mondodella cultura e della storia degli ebreiitaliani. Parlare per quella quotidia-nità di ragazzini che siamo stati, vi-cende eguali a tante altre che a noisono parse e a me continuano asembrare tanto speciali. Così ho fi-nito per aprire quel cassetto. Sul fon-do ci sono vecchie carte e vecchiefoto e fra queste le foto della nostraclasse. Quarta ginnasio, liceo Viscon-ti. Eccoci nel cortile cui allora nonsi badava, mentre ora capisco quantosia uno dei tesori della nostra città.L’inverno di 38 anni fa non fu mite,ma per noi cambiava poco, dato cheanche nelle aule mancava un vero eproprio riscaldamento. Nell’imma-gine ci siamo tutti, tu da un capo eio dall’altro, la prof Moretti in mez-zo. Che ci incantava tutti, quandofra una declinazione e l’altra ci rac-contava che quello screanzato di suofiglio, neanche tanto più grande dinoi, sognando di fare il regista, avevabuttato la casa all’aria per realizzareun filmino in superotto e le epigrafigreche collezionate dal suo autore-vole papà erano finite per sbaglio inun cestino.Non era il freddo, era la vita a darcila pena e lo slancio che sembra dif-ficile trovare nelle nuove generazioni.Dietro quei volti così infantili c’eranole prime settimane di un percorso

che ci avrebbe fatto di-ventare grandi in annidifficili. Il Sessantottoera ieri e la prima cari-ca della polizia, che in-spiegabilmente entravaa scuola con i manga-nelli per motivi chenon riuscivamo a capi-re (chissà che diavoloavevano combinato ipiù grandi), giornatetese, minacciose e divi-se fra il dovere di sen-tirsi impegnati e il di-ritto di perdersi in sce-menze, le assembleenon autorizzate e le passeggiate aVilla Borghese. Ogni mattina, sullapiazza del Collegio romano, che erail nostro salotto, volantini, slogan,striscioni, giornaletti ciclostilati naticome funghi.Sembravamo in fondo pesci fuord’acqua in un tempo in cui tutte leidee dovevano dimostrarsi altisonan-ti per reggere il confronto. Tropposensibili, troppo ben educati, troppofragili. Al nostro primo volantinaggioeravamo soli tu e io, a pochi passida piazza di Spagna, di fronte allevetrine della pellicceria Fendi. Il mes-saggio era un grido di guerra controle signore impellicciate. Una com-messa venne fuori con aria burbera,eravamo impauriti. Fu la prima, in-nocente contestazione. Altre ne se-guirono, sempre cercando, ognunoa modo proprio, di tenersi allo scartodai compagni più bellicosi. Ne ab-biamo viste di tutti i colori. I 32 mor-ti che i terroristi di Settembre nerolasciarono sulla pista dell’aeroportodi Fiumicino (quando sei uscita dal-l’assemblea degli studenti trattenen-do le lacrime, non voglio mai dimen-ticarlo, mentre qualcuno fra gli ap-

plausi cercava di giustificare l’orrorecon le ragioni del popolo palestinesesenza nemmeno sapere dove fosseil Medio Oriente). La morte di Gior-giana Masi sul ponte Garibaldi, lebattaglie per il divorzio, l’obiezionedi coscienza e gli altri diritti civili,gli sforzi spesso inutili di un paesestraziato e arretrato di essere un pae-se civile. La nostra prima gioventù,cominciata nell’irrisolto contrastofra paura, violenze e rivendicazionedi diritti e di identità, si sarebbe con-clusa pochi anni dopo, nel 1982, connegli occhi le immagini di quella ma-nifestazione sindacale che sperandodi intimidire gli ebrei di Roma buttòuna bara di fronte alla sinagoga el’attentato che dopo poche settimaneche costò la vita a un bambino didue anni.In mezzo siamo riusciti a infilarcitante speranze. E qualche sorriso.Siamo riusciti a farci portare in grup-po sui giornali e in tribunale (1974)per aver organizzato fra gli studentiuno scandaloso, per il metro di giu-dizio di allora, questionario sulla vitasessuale degli studenti. Ci siamo pro-curati il primo ciclostile a manovella

per stampare l’ennesi-mo giornalino scola-stico. E siamo andatiin gita a Venezia (cheallora sembrava anco-ra un grande viaggio,una grande avventu-ra). Ma soprattutto,non si sa come, inmezzo a tanta confu-sione, siamo riusciti astudiare (per te nonera un problema, eri

sempre co-munque laprima dellaclasse). Poi lavita ha presoil suo corso: lostudio, i viaggi,i matrimoni, i

figli. Perdersi di vista e ritrovarsi. Inun modo o nell’altro, con i nostripassi o con i ricordi, siamo tornatimille volte sulla piazza del Collegioromano, abbiamo guardato i tre sca-lini consumati dove i ragazzi conti-nuano a darsi appuntamento fuorida scuola e abbiamo sorriso ripen-sando alla goliardia e alla fierezzadi alcuni nostri compagni di scuola,destinati a divenire illustri rabbiniitaliani, che scherzando mi dicevano:“Mettiti a studiare, così facciamo unBeth Din, un tribunale rabbinicocomposto di tre giudici, di soli vi-scontini”. Abbiamo finto di essereal riparo dalla nostalgia. Siamo tor-nati a scuola per la serata dell’As-sociazione ex alunni e avevi appenaricevuto il prestigioso premio Mat-tonella, quando si consegna una pia-strella dell’antichissima pavimenta-zione dell’Aula magna a un ex alun-no di successo. Ho ascoltato la tuaappassionata rievocazione di queglianni di scuola. Tuo figlio grande,

che mi stava a fianco, mi ha chiestosottovoce se nel raccontare quei cin-que anni e quelle mille storie tu nonesagerassi. E per tranquillizzarlo gliho detto che forse un pochino sì,ma sapevo benissimo che era tuttovero. E che le storie apparentementeincoerenti e buffe di quegli anni inrealtà sono state più dritte e impor-tanti di quanto non sembrasse. Vo-levamo fare qualcosa di significativoin campo ebraico. Tu sicuramenteci sei riuscita, con la professionalitàe la serietà che ti hanno resa amba-sciatrice di Roma nel mondo. Haiaiutato schiere di italiani a compren-dere le cose belle, innumerevoliebrei a essere fieri delle proprie ra-dici e della propria cultura. E haiaiutato me a capire che dietro igrandi capolavori, dietro gli elementipreziosi, c’è la nostra capacità di im-pegnarci, di lavorare con umiltà edevozione e di apprezzare anche lepiccole soddisfazioni della vita quo-tidiana. E fra tante parole che ci sia-mo detti, c’è una cosa che non ti homai confessato. Quando una voltastavamo seduti fianco a fianco inquel banco senza voglia alcuna diascoltare la professoressa, hai avutoun momento di fastidio per qualchedieta che ti costringevi a seguire. Tiavevo chiesto quale privazione fosseper te la più insopportabile. E tu,sgranando gli occhi, mi avevi rispo-sto sicura: “Anche semplicementepane e burro”. Sono passati tanti an-ni, ma da allora immancabilmentetutte le volte che spalmo una fettadi pane ripenso con affetto a quelmomento di sincerità e di amoreper la vita. E alla tua capacità di ca-pire le grandi opere cogliendo in-tensamente e con gratitudine ogniframmento delle piccole cose chi civengono incontro.

pagine ebraicheLubitsch poteva dire tante cose senza parole, altro che le parolacce di oggi. (Joseph Mankiewicz)

u /P31LIBRI

u /P32-33DOCUMENTI

u /P34-35CINEMA

u /P38RITRATTO

u /P37PORTFOLIO

u /P39SPORT

Cara compagna di bancoUn omaggio a Daniela Di Castro, grande ebrea italiana, grande studiosa e amica preziosa anche nelle piccole cose

u DANIELA DI CASTRO (1958-2010) Insigne studiosa,direttrice del Museo ebraico di Roma, docente diStoria dell’arte alla Sapienza di Roma e di Storia del-l’arte ebraica al Collegio rabbinico italiano, autrice ecuratrice di mostre di successo, Daniela Di Castro haimpresso una svolta determinante alla conoscenzadegli ebrei italiani. Pagine Ebraiche, che ha potutocontare sul suo consiglio severo e prezioso, le ri-volge un omaggio commosso e non formale anchecon la vignetta di Enea Riboldi a pagina 5. Nelle im-magini, Daniela in diversi momenti del suo lavoro e,a destra, con Benedetto XVI in occasione della suavisita alla sinagoga della Capitale.FO

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraiche

P R O M O S S A D A

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010 CULTURA / ARTE / SPETTACOLO

ú–– Alberto Cavaglion

N ei confronti del mondoprotestante, due cosehanno sempre suscitato

in me un pizzico d’invidia. Innan-zitutto i grandi falò con cui la lil-lipuziana comunità di Torre Pellicericorda ogni anno, il 17 febbraio,le Lettere Patenti del 1848 ossiala fine della reclusione. Mi sonosempre chiesto perché l’emanci-pazione nel mondo ebraico non èstata festeggiata in modo altrettan-to solenne: l’anomalia andrebbestudiata. E’ la ragione per cui mettoda parte per una rilettura estiva ilmeraviglioso Risorgimento e pro-testanti di Giorgio Spini (l’ultimaedizione è della Claudiana, 1998).Dubito che alle molte persone in-teressate a ricordare degnamentei 150 anni dell’Unità verrà in mentedi progettare un libro analogo perl’ebraismo. Sarebbe invece indi-spensabile. Il capolavoro di Spinilo deporrò in una cesta di plasticaresistentissima, comprata credo aduna Migros nel centro della Gine-vra calvinista, circa una ventina dianni fa. E così vengo alla secondacosa che invidio, come ebreo, alleconsuetudini protestanti: la tradi-zione del colporteur, il venditoreambulante di Bibbie. Una specie diebreo errante abilitato a diffonderele Scritture. Da una di quelle ceste,non di plastica, ma di legno, tenutasu da una rudimentale bretella eportata a piedi fino al cuore delGargano, l’eroico Manduzio ha po-tuto far nascere il miracolo di SanNicandro. Nella mia cestarossa della Migros, dopo Spi-ni, depongo, prima di par-tire per le vacanze, un se-condo libro, ormai raro,che vorrei rileggere:quello di Elena Cas-sin sull’epopea diManduzio, com-piutasi, giova ram-mentarlo alla vigiliadel 1938 (Corbaccio,1995). Mi è venuta voglia di rileg-gerlo in questi mesi di rinnovatointeresse, testimoniato da questogiornale, per la questione delle con-versioni e per il revival di ebraismonel meridione d’Italia.Molti anni fa, il colportaggio cheavevo in testa era funzionale allericerche che stavo facendo. Cimettevo fogli e carte d’appunti,schede, fotocopie non rilegate.Con i figli piccoli, quella cesta ugo-notta della Migros per qualcheestate ha ospitato asciugamani,lenzuolini, biberon e panni vari.Da qualche tempo ha ripreso la

sua funzione originaria, ma ci met-to soprattutto libri che voglio ri-leggere o libri di puro svago. Quest’anno ho messo da parte unsolo volume di studio, legato an-cora ai miei lavori sul fascismo: èappena uscito il secondo volumedi Arturo C. Jemolo, Lettere a Ma-rio Falco, curato come il prece-

dente da Maria Vismara Mis-siroli (Giuffré). Abbraccia glianni 1928-1943 e dunque èdecisivo per far luce sui retro-

scena che portaro-no alla legge sulleComunità del1930, da cui, miostino a credere,

discendono nonpoche delle nostre insicurezzeodierne, molte delle quali sono di-battute sulle colonne di PagineEbraiche. Il secondo libro che ho messo nel-la cesta è di tutt’altro genere. Loha scritto il bravissimo studio-so di giochi linguistici e col-laboratore di “Repubblica”Stefano Bartezzaghi. S’inti-tola Scrittori giocatori (Ei-naudi), perché dentro que-sto lavoro trovo raccolti tuttii saggi che l’autore da un de-cennio dedica a un aspettodi Primo Levi (l’enigmista, ilvirtuoso della parola, il dia-

lettologo) che mi sta molto a cuo-re. Accanto a Bartezzaghi ho giàmesso in cesta l’ampio volumonedi Domenico Scarpa, Storie avven-turose di libri necessari (Gaffi edi-tore). Poiché l’autore ha avutol’idea affettuosa, imbarazzante perme, di dedicarmi l’intera sezioneebraica (in questo libro di quasi500 pagine vi sono parecchi saggisu Bassani e Primo Levi, ma si par-la anche della Morante, di Giaco-mo Debenedetti, di Saba, di An-telme) questa di Scarpa, come ov-vio, non potrà essere una letturadi puro svago, come invece saran-no i “racconti blasfemi” scritti daun parente stretto (in senso ana-grafico, ma, soprattutto, culturale)del nostro amatissimo Paolo De-benedetti. Ho letto soltanto unodi questi racconti, “Il padre puta-tivo”, che mi ha incuriosito, facen-domi venire voglia di leggere glialtri (Federigo De Benedetti, Il no-

me del padre, Instarlibri). Una grande festa collettiva, culmi-nante con l’accensione di un gran-de falò, il fuoco della Libertà. Unadelle probabili risposte a quel lu-mino ebraico, non dico un falò,negato per l’acquisizione del dirittodi cittadinanza sta in un secondoproblema storiografico di cui nel2011 si ritornerà a parlare. La categoria dell’esilio, sorpren-dente affinità elettiva fra culturaebraica e cultura italiana. Il sognodell’esule accomuna nell’Ottocentoebrei e italiani. Più della categoriaabusata del confine identitario èl’universo concretissimo dell’esilioche ha unito Foscolo, Mazzini,Cattaneo a generazioni di ebreiitaliani, fino ai giorni della fugadall’Italia di Mussolini. Mi incurio-sisce dunque, e per questo l’ho giàmesso in cesta, il libro che racco-glie interventi di diversa natura diFranco Modigliani, L’Italia vista

dall’America. Battaglie e riflessionidi un esule (Bollati Boringhieri). Ilvolume ha un lungo saggio bio-grafico di Renato Camurri, con no-tizie di prima mano sulle radiciebraiche del grande economistaPremio Nobel nel 1985. Come mai l’emancipazione non èstata considerata un’occasione de-gna di essere festeggiata? Non bastaa spiegarlo la memoria luttuosa delfascismo e nemmeno la questionesionista toglie spessore al quesito.E’ una domanda scomoda, che ri-torna alla mente prendendo in ma-no gli ultimi due libri da metterein cesta prima di mettersi in viag-gio: l’autobiografia di Yoel De Ma-lach, Dal campanile di Giotto aipozzi di Abramo, molto ben curatoper i tipi della Giuntina da RobertoVigevani con prefazione di AmosLuzzatto e la biografia che PaolaVinay ha dedicato a suo padre, Tul-lio Vinay, fondatore del Centro ecu-menico di Agàpe, senatore dellaRepubblica, nel 1981 riconosciutoGiusto delle Nazioni per la sua at-tività in favore di ebrei nella Firenzeoccupata da nazisti (P. Vinay, Te-stimone d’amore. La vita e le operedi Tullio Vinay, Claudiana ed., conprefazione di Goffredo Fofi). Firen-ze fa da sfondo ad entrambi i libri,ma i fili intrecciati sono più sottili:la sobrietà di Agàpe, le sedie di le-gno disposte a cerchio, il senso del-la democrazia interna, la fedeltà alleorigini, il campanello sul tavolo de-gli oratori, i venditori ambulanti diBibbie non sono così distanti dallasobrietà austera di Giulio De An-gelis-De Malach nel tentativo diportare l’agricoltura nel deserto delNegev. Vinay e De Angelis-De Ma-lach si dovranno allora stringereper fare posto a un ultimissimo li-bro, che può illuminare per riflessole loro pagine: Il visconte dimez-zato di Italo Calvino, per quelle sueindimenticabili pagine sugli Ugo-notti, che conosco a memoria econ le quali ho afflitto decine e de-cine di studenti. Calvino ha resoimmortale la voce delle minoranzeche tengono a conservare la pro-pria identità, imprecando ad altavoce, “Peste e carestia!” come il bar-betto Esaù di fronte ad un’annata

fredda e povera, nel raccontodi Calvino, oppure, adesso, nel-la tenera rievocazione della fi-glia di Tullio Vinay o nelle pa-gine di De Malach sulle sueavventurose sperimentazioniagricole nel kibbutz Revivim,che finalmente potremo leg-gere, al termine di un invernogelido e non sempre rischia-rato dal fuoco della libertà.

ú– LETTERATURA

Libri in valigia, ecco le mie pagine per l’estateDall’emancipazione ebraica dimenticata, agli ugonotti di Calvino. Consigli di lettura per una vacanza pluralista

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraicheCULTURA / ARTE / SPETTACOLO

ú–– Anna Segre

A lessandra Fubini mostra allanipotina le foto di famiglia.Gustavo Latis conversa in

uno studio pieno di libri, mentreOlimpia Foà ci parla dalla quiete delsalotto. Ornella Ottolenghi raccontacon garbo e ironia mentre camminaper un bosco; Simone e AlessandraFubini percorrono lo stesso bosco,questa volta pieno di neve. Cos’hannoin comune queste persone? Sono tuttiimmigrati clandestini; o, per lo meno,lo sono stati. Sono ebrei che hannocercato la salvezza dopo l’8 settembredel 1943. Il sentiero che vediamo, chei testimoni ripercorrono dopo quasisettant’anni è quello che conduce daLanzo d’Intelvi alla frontiera svizzera,da cui si scende verso il lago di Lu-gano. I loro nomi si trovano nella listadel posto di frontiera di Caprino, con

tanto di data di nascita e la dicituraammesso o respinto. E’ disponibile in dvd il documentariodi Ruben Rossello (di cui si era ac-cennato nel precedente numero diPagine Ebraiche) realizzato per la te-

levisione svizzera italiana e dedicatoalla lista di Caprino trovata dallo sto-rico Adriano Bazzocco. La primaparte del film racconta la storia dellefrontiera ticinese e delle successivedirettive emanate riguardo ai profu-

ghi; a queste si affianca la testimo-nianza di alcuni tra i personaggi dellalista, di cui avevamo già conosciutoi volti, le voci e le parole prima ancoradei titoli di testa. Come sempre inquesti casi, possono testimoniare

quelli che sono stati ammessi, o sonoriusciti ad entrare in Svizzera succes-sivamente; a loro il compito di tenerviva la memoria dei loro parenti re-spinti e finiti ad Auschwitz, come lagiovane Liliana Latis, cugina di Gu-stavo, che ci sorride allegra dalle fo-tografie. Il documentario dedica at-tenzione anche alle guardie di fron-tiera, che si trovavano nella difficilesituazione di dover applicare rigidedirettive che cambiavano da un mo-mento all’altro; le guardie, per quantoera possibile, largheggiavano nell’ac-coglienza (era la direttiva a non rico-noscere il pericolo)La seconda parte del film si concentrasu una storia significativa, assuntaquasi come simbolo di tutte le altreanaloghe storie di respingimenti finitetragicamente. Leonardo De Benedettie sua moglie Jolanda erano entrati inSvizzera il 2 dicembre 1943 insieme

Tu Beav, vale a dire il 15 del mese di Av (nel 2010 cade il 26 diluglio), è l’ultima ricorrenza dell’anno ebraico e anche la menonota. Considerata festa dell’amore e della gioventù, fu istituitapresumibilmente nel periodo del Secondo Tempio, ma, secondoalcuni, trae le sue origini da un’ antica festa legata all’agricolturae alla fine dell’estate. Attenuatasi la calura dell’estate, si finivadi tagliare il legname da usarsi nel Santuario per i sacrifici del-l’anno successivo. Dal punto di vista liturgico la data si segnalaper l’omissione nella preghiera quotidiana di alcune parti pe-nitenziali (Techinnà). Inoltre chi si sposa in questa giornata èesentato dal digiuno istituito in occasione del giorno dellenozze. Se poi nel giorno di Tu beav ha avuto luogo l’inumazionedi un defunto si limitano le manifestazioni pubbliche di lutto.Ma, quali sono le origini della festa e a quali eventi è legata?Una fonte midrashica ricorda che, a detta di «certi sapienti il15 Av sono stati creati gli astri» (Otzar Hamid 1, 282 ). Nel librodei Giudici si fa cenno a una festa popolare celebrata «da moltianni» nelle vigne con canti e danze e, secondo una tradizione,questa che potrebbe esser definita una festa della vendemmiacadeva proprio il 15 Av. Altri sostengono che la festività risalgaal periodo di polemico confronto fra Farisei e Sadducei e chesarebbe stata istituita dai primi per celebrare un loro successonei confronti dei Sadducei. Nelle nostre fonti il riferimento piùevidente è dato da quanto riportato nella Mishnà:Raban Shimon ben Gamliel diceva: «Per Israele non esistevano

giorni più lieti del 15 di Av e del giorno di Kippur, in cui le fan-ciulle di Gerusalemme uscivano con abiti bianchi presi in prestitoper non far arrossire le più povere. Tutti i vestiti andavano sot-toposti al bagno di purificazione. Le fanciulle di Gerusalemmeuscivano a danzare nelle vigne. E che cosa dicevano ? “Giovane,alza i tuoi occhi e guarda bene quello che scegli. Non posaregli occhi sulla bellezza, ma bada alla famiglia. Cosa falsa è lagrazia; vanità è la bellezza. Solo la donna temente di Dio èdegna di lode” (Prov. 31,20 - Ta’anit IV, 7)».Questo testo presenta alcune difficoltà di interpretazione. Cisi domanda quale tipo di rapporto leghi Tu beav e il giorno diKippur. Qualcuno sostiene che entrambe le date sono collegateal perdono concesso da D. in diverse occasioni. Nel giorno diKippur l’Eterno perdonò di fatto il popolo ebraico che si eramacchiato del peccato del vitello d’oro, ma, secondo la tradi-zione, era il 15 di Av allorchè fu accolta la richiesta di perdonoformulata da Mosè il giorno stesso della sua discesa dal Sinai. Sempre nel giorno del 15 di Av ebbe termine la pestilenza inviata

come punizione per la vicenda degli esploratori incaricati daMosè di compiere un sopralluogo in Terra di Israele. Inoltre il15 di Av cessarono i decessi di quanti, usciti dall’Egitto, furonocondannati a morire nel deserto. E anche questa circostanza èlegata al perdono di D. perché si sostiene che quanti non mo-rirono entro quella data sopravvissero miracolosamente. Lefonti midrashiche riferiscono che nel quarantesimo anno delsoggiorno nel deserto, gli ultimi quindicimila di quanti, ultra-ventenni, erano usciti dall’Egitto attendevano la morte per il9 Av, tradizionale anniversario del peccato degli “esploratori”.Infatti, secondo la tradizione, furono condannati a morire neldeserto e pertanto a non entrare nella Terra Promessa, solocoloro che avevano superato i vent’anni. Ma, l’Eterno ebbepietà e li lasciò in vita. Dapprima costoro ritenevano di averconteggiato male il tempo e che il 9 di Av non fosse ancora so-praggiunto, ma quando videro in cielo splendere la luna piena(segno che era il 15 del mese) si resero conto di esser stati per-donati e istituirono il 15 di Av come giorno di festa. (Talmud

ú– Sfogliando il lunario

L’ultima festa, tra amore e perdono

Un capitolo difficile da ricordare della storiasvizzera, che si è trasformato in un documen-tario trasmesso in prima serata, suscitando undibattito vivace. Perché il pubblico vuole sa-pere. Pagine Ebraiche ne ha discusso con l’au-tore del documentario, Ruben Rossello.

Come è nata l’idea di questo documentario?

Chi realizza documentari sa che anche le no-tizie minute possono rivelare storie di grandespessore umano. Il ritrovamento del registrodel posto doganale di Caprino, con i nomi dicoloro che tra il 1943 e il 1945 vennero re-spinti è una di queste notizie. La segnalazionela ebbi dal collega Maurizio Canetta, respon-sabile del settore culturale della nostra emit-tente. Il caso ha voluto che proprio in queigiorni venisse pubblicato il libro di Anna Segresu Leonardo De Benedetti, compagno di pri-gionia di Primo Levi. De Benedetti era ap-punto uno dei respinti di Caprino. Contattatele Comunità ebraiche di Torino e Milano esaputo che erano ancora viventi diversi degliebrei respinti o accolti a Caprino, ho capitoche ce n’era abbastanza per un lavoro di lungo

respiro. Determinante è stata poi la fiduciadella Televisione svizzera che ha prodotto efinanziato il documentario, in particolare FabioDozio, produttore di Falò.

Come è stato accolto questo lavoro?

Il documentario della durata di 55 minuti èstato diffuso in prima serata. Il che fa capirecome prodotti apparentemente non facili pos-sano interessare anche il vasto pubblico. Il fil-mato ha avuto un ottimo indice di ascolto enaturalmente ha suscitato molte reazioni. Nehanno parlato i giornali svizzeri italiani e lom-bardi e molti telespettatori hanno scritto. Lascoperta del Registro di Caprino ha interessatomolto anche la direzione del Museo di Au-schwitz. Secondo Jadwiga Pinderska-Lech, di-rettrice della casa editrice del Museo, le normesvizzere di ammissione erano esattamente l’op-posto di quelle che i nazisti applicavano du-

rante le famigerate selezioni.

E qui da noi in Italia?

Durante l’estate è stato proiettato a Lanzod’Intelvi, in provincia di Como, da dove scap-pavano coloro che tentavano di entrare inSvizzera attraverso il settore doganale di Ca-prino. Su invito della Comunità ebraica e delcomune, è stato poi mostrato a Torino nel-l’ambito delle manifestazioni per la Giornatadella Memoria 2010. Ci sono contatti in corsoper organizzare una proiezione a Milano inautunno.

Perché la scelta di dedicare ampio spazio par-

ticolarmente a Leonardo De Benedetti?

Ognuna delle storie dei 150 ebrei che tenta-rono di entrare in Svizzera da Caprino meri-terebbe di essere raccontata. Bisogna però con-siderare che lo strumento del documentario,

diversamente dal libro, privilegia le storie chepossono essere raccontate attraverso la testi-monianza di protagonisti ancora viventi. Grazieall’appoggio del Cdec e di Liliana Picciotto inparticolare, abbiamo potuto entrare in contattocon Ornella Ottolenghi, Olimpia Foà, Simonee Alessandra Fubini, tutti accolti o respinti aCaprino nel 1943 e Gustavo Latis, che ha te-stimoniato per la cugina Liliana.Leonardo De Benedetti, grazie al suo rapporto

con Primo Levi lega

ú– IL DOCUMENTARIO

Lugano: vita e morte alle porte della libertà

ú– PARLA RUBEN ROSSELLO, AUTORE DEL DOCUMENTARIO

La Memoria scomoda in prima serata

u A fianco, Nella Fubini con i figli

sulle Alpi svizzere. Era fra coloro-

che cercarono salvezza nel 1943.

Qui sopra, Ornella Ottolenghi che fu

respinta a Caprino, torna sul lago di

Lugano durante le riprese del docu-

mentario.

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CULTURA / ARTE / SPETTACOLO

Jerushalmi-Ta’anit 4). Dunque esiste un rapporto fra Kippur e15 di Av. Perché non c’è gioia maggiore di quella provata dacolui al quale sono stati perdonati gli errori commessi.Secondo la Meghillat Ta’anit, il 15 di Av non si fanno manife-stazioni di lutto in quanto la giornata è legata alla raccolta dellegname per il Santuario (Nehemia 10, 35). Le fonti talmudicheaffermano che in questo giorno sono state abrogate alcune li-mitazioni nel campo matrimoniale. Si ricorderà che nel librodei Numeri, a proposito delle “figlie di Tselofchad” (cap. 36),per evitare che vi fossero trasferimenti di proprietà terrierafra una tribù e l’altra, fu stabilito che una donna erede di unafamiglia priva di figli maschi non potesse sposare un membrodi altra tribù. Si racconta anche che, in relazione al triste epi-sodio della “concubina” (Giud. 19-20,21) i rappresentanti dellevarie tribù si impegnarono a non consentire le nozze con unadonna appartenente alla tribù di Beniamino. Il 15 di Av fu sta-bilito che le suddette deliberazioni riguardavano solo la gene-razione nella quale furono prese. Secondo il Talmud, il 15 di Av,Hoshèa’, figlio di Elà, ultimo re di Israele, abolì i posti di bloccoistituiti da Geroboamo ai confini col territorio di Giuda. Venivain tal modo sollecitata la riunificazione tra il territorio delRegno di Giuda e quello del Regno d’Israele (Ta’anit 30).Il 15 di Av ricorda anche la revoca del provvedimento delle au-torità romane di dare sepolture ai caduti della fortezza di Betar(135) strenuamente difesa dai combattenti di Bar Kokhbà. No-

nostante i cadaveri fossero stati abbandonati all’aperto perlungo tempo, furono miracolsamente trovati integri. Per cele-brare l’evento fu istituita una benedizione supplementare (HatovVehametiv) nel Birkat Hamazon, la formula da recitarsi dopoil pasto (Bava Batrà, 121). Il 15 di Av viene altresì ricordato come giorno dello «spezza-mento delle scuri». Infatti da questo giorno tali strumenti ve-nivano pubblicamente spezzati in quanto non servivano più,essendo terminata la raccolta del legname per il Santuario. Inquell’occasione si faceva una grande festa. (B. Batrà, 121) Si os-serva altresì che il progressivo accorciarsi della luce del giornoche ha inizio nel periodo del 15 di Av predispone l’animo all’at-mosfera del succesivo mese di Elul particolarmente adatto allariflessione e alla introspezione in preparazione delle imminentiricorrenze autunnali (Yamin Noraim). il testo fondamentale della Kabalà, la mistica ebraica, racco-manda di celebrare il 15 di Av con manifestazioni di allegriaperché in questo giorno la Provvidenza è particolarmente di-sposta alla benevolenza nei confronti dell’uomo. Viene anchesuggerito di dedicare la notte allo studio di Torà.Sono dunque tante le motivazioni proposte sui significati dellaricorrenza. In relazione al passo della Mishnà riportato all’inizioc’è chi ha formulato due curiose affermazioni.Si è visto che il 15 di Av le fanciulle uscivano a ballare, presu-mibilmente in cerchio, vestite di bianco. Il termine “Av” designa

un mese dell’anno ebraico, ma è composto dalle prime due let-tere dell’alfabeto: Alef Bet. Da notare che nell’alfabeto ebraicola quindicesima lettera è la Samekh, che ha la forma di un cer-chio ed evoca pertanto la danza in circolo, nella quale tutti idanzatori si possono guardare l’un l’altro e si trovano tutti insituazione di uguaglianza. Inoltre si afferma che nei tempi mes-sianici, il Santo Benedetto parteciperà alla danza festosa deigiusti ponendosi in mezzo a loro. Qualcuno sostiene che la danzaorganizzata per i giusti avrà luogo nel Gan Eden. In quell’oc-casione l’Eterno sarà al centro del cerchio e ognuno dei par-tecipanti Lo additerà agli altri esclamando: «Ecco questo è ilnostro Dio nel quale abbiamo confidato…. Gioiamo e rallegria-moci nella Sua salvezza». (Isaia 25, 9)E quanto al colore bianco richiesto per le vesti delle fanciulle,questo, secondo alcuni, è composto da vari colori che rappre-sentano la varietà del nostro mondo materiale. Ma, il mondofuturo non avrà alcunchè di materiale e pertanto non vi saràpiù bisogno di indossare abiti bianchi.Oggi, nel risorto Stato di Israele è ripreso l’uso di dar vita, inoccasione di Tu Beav ad allegri incontri campestri fra giovani,a feste di fidanzamento e riunioni di riconciliazione.

rav. Luciano Meir Caro Rabbino Capo della Comunità ebraica

di Ferrara e membro della Consulta Rabbinica

agli anzianigenitori, al-la sorella eal maritodi lei con iloro figli

(avrebbero potuto dire che uno deitre era figlio loro, si rammaricheràancora Leonardo molti anni dopo);sono questi ultimi, Simone e Ales-sandra Fubini, che allora avevano ri-spettivamente tredici e cinque anni,a rievocare la storia del loro ingressoclandestino in Svizzera e del respin-gimento degli zii. Jolanda aveva man-dato una lettera a una zia a Zurigochiedendole di far intervenire orga-nizzazioni ebraiche in loro favore, mainutilmente: la risposta arriverà il 5dicembre, quando ormai Leonardoe Jolanda erano già stati rispediti inItalia e lì immediatamente arrestati.Jolanda sarà uccisa all’arrivo ad Au-schwitz il 26 febbraio 1944. Leonar-do, medico, riuscirà a sopravviverenonostante avesse più di quarant’annie sarà uno dei protagonisti della Tre-gua di Primo Levi.

La vicenda è narrata a partire dalladescrizione della Torino ebraica tra‘800 e ‘900 e segue i coniugi De Be-nedetti dal loro arresto al trasportoa Fossoli, fino ad Auschwitz. Il viaggioè raccontato con le parole di Se que-sto è un uomo, quelle che molti dinoi hanno letto fin da piccoli e sonodivenute parte integrante del nostromodo di pensare alla deportazione.In effetti i coniugi De Benedetti sitrovavano nello stesso convoglio diPrimo Levi, forse anche nello stessovagone; così ci rendiamo conto chela piccola storia della lista di Capri-no è parte della grande storia dellaShoah, che è fatta anche di tante sto-rie come queste, di liste di nomi, diburocrazia e direttive, di persone chesi trovano a dover decidere della vitao della morte di altri esseri umani.

Chi volesse il dvd puo scrivere a: RSI-

Radiotelevisione Svizzera, ufficio ven-

dite, casella postale, 6903 Lugano; op-

pure [email protected] , oppure 0041

91 8035111 chiedendo del doc “Regi-

stro fuggiaschi”, Falò, 2009

E’ stata scoperta importante avve-nuta per caso quella di Adriano Baz-zocco, lo storico ticinese che ha ri-trovato l’archivio. Per capire il valoree la storia di questo documento, Pa-gine Ebraiche lo ha intervistato.

Quando e come ha trovato la lista?

Ho scovato per caso il quadernettointitolato “Registro fuggiaschi” circauna decina di anni fa all’Archivio fe-derale di Berna nel corso delle miericerche sui transiti attraverso la fron-tiera tra Italia e Svizzera durante laseconda guerra mondiale per un sag-gio pubblicato nel 2002 sulla RivistaStorica Svizzera. A quell’epoca l’Ar-chivio federale aveva invitato i Cir-condari delle Guardie di confine atrasmettergli eventuali documenti ri-masti in giacenza nei loro archivi.Nel 1995 il Circondario doganale diLugano versò all’Archivio federaleil “Registro fuggiaschi” del PostoGuardie federali di Caprino. Da al-lora questo documento è a disposi-zione dei ricercatori.

Perché non ci

sono altri docu-

menti simili?

I registri dei nu-merosi posti diconfine eranostrumenti di la-voro per docu-mentare l’attivitàdelle guardie nel-l’immediato. Lagestione dei rifu-giati avveniva aBerna medianteuno schedario centrale. Mol-to probabilmente i registridei posti di confine finironosubito al macero perchénessuno ritenne che potes-se essere di qualche utilitàconservarli. La domanda va dunquerovesciata: non perché non ci sonoaltri documenti del genere, ma per-

ché proprio questo registro è statoconservato. Caprino è la vecchia de-nominazione di Cantine di Gandria,dove ha sede il Museo doganalesvizzero. L’idea di raccogliere docu-menti per costituire un museo alleCantine di Gandria fu lanciata versola metà degli anni Trenta.

Ma qual è esattamente l’importanza

del “Registro fuggiaschi” di Caprino?

Il registro doganale di Caprino èl’unico registro di un posto doganaleche sia stato conservato in Svizzera.Questo documento è importanteperché vi si trovano elencati i nomidei profughi accolti, ma anche deirespinti. Permette di ricostruire conesattezza quanto accaduto, seppurein un unico posto di confine. Da set-tembre a dicembre 1943 si presen-tano a Caprino 150 fuggiaschi ebrei,97 sono accolti e 53 respinti. Di que-sti 53 respinti 23 riprovarono riu-scendo a farsi accogliere, nove foru-no tratti in arresto e deportati a Au-

schwitz, da dove solo due fa-ranno ritorno.

Perché alcuni erano accolti e

altri respinti?

Per lungo tempo la Svizzeraha negato lo statuto di rifu-giato ai perseguitati per ra-

gioni razziali.Per i fuggiaschicivili, come gliebrei, valevanoperò particolarid i s p o s i z i o n iumanitarie cheprevedevano, adesempio, di nonrespingere le per-sone anziane, am-malate, le donneincinte, i ragazzi ele famiglie con

bambini piccoli. La maggior parte deiprofughi ebrei entrò in Svizzera sfrut-tando queste disposizioni umanitarie;

magari anche con sotterfugi. Una vol-ta trasferiti nei centri d’internamento,anche se si scopriva che non erano inregola, i profughi potevano restare.

Quali si ritiene che siano le percentuali

dei respinti alle diverse frontiere?

Le fonti sono lacunose ed è arduocalcolare percentuali. Lo storicoGuido Koller ha calcolato la cifra dicirca 25 mila profughi civili respintidalla Svizzera durante la secondaguerra mondiale. Ma dalle recentiricerche condotte dalla storica RuthSilbermann relative al Cantone diGinevra è emerso un numero mino-re di respingimenti. Per quanto ri-guarda la frontiera con l’Italia, l’unicodato è quello di Caprino.

La percentuale di persone respinte

che risulta dalla lista di Caprino è su-

periore a quanto si credeva?

L’impressione era che i respingimen-ti alla frontiera meridionale dellaSvizzera fossero soltanto episodici.I dati di Caprino fanno invece statodi un’attività di respingimento signi-ficativa. Tuttavia, lo studio delle vi-cende indica anche che gli ebrei re-spinti che perseveravano e ritenta-vano avevano buone chance.

Com’era percepito in Svizzera il pro-

blema dell’immigrazione ebraica?

Durante la guerra gli organi d’infor-mazione furono sottoposti a un re-gime di censura (in vigore anche ne-gli altri Paesi democratici) volto so-prattutto a stemperare le esternazio-ni più dure nei confronti dei suscet-tibilissimi regimi totalitari. Nella Sviz-zera accerchiata dalle potenze del-l’Asse aleggiava un clima di sospen-sione e ripiegamento. La politicad’immigrazione s’era fatta molto re-strittiva già nel primo dopoguerrasia per lottare contro il cosiddettoinforestierimento, sia per via delladisoccupazione a seguito della tre-menda depressione economica.

ú– IL RACCONTO DELLO STORICO TICINESE ADRIANO BAZZOCCO

Un documento unico, ritrovato per caso

la vicenda di Caprino a quella delgrande autore torinese. Una circo-stanza che un documentario non po-teva dimenticare e che colloca la pic-cola vicenda di Caprino in una di-mensione europea. Inoltre il caso deiFubini-De Benedetti illustra benequanto accadeva alle frontiere: delle10 persone presentatesi a Caprinola notte del 3 dicembre 1943, 7 ven-gono accolte immediatamente permotivi umanitari, una provvisoria-mente ma finisce per rimanere, e 2respinti, Leonardo e sua moglie.

Quanto è letto Levi in Svizzera?

Primo Levi è un autore molto co-nosciuto e molto amato in Svizzera,soprattutto nella Svizzera italiana,dove evidentemente ha il vantaggiodi poter esser letto in lingua origi-nale. Se questo è un uomo e La tre-gua sono testi che da tempo fannoparte del bagaglio di letture consi-derate indispensabili nel percorso

formativo di ogni giovane che intra-prende studi medio superiori.

Sono temi di cui si discute frequen-

temente o se ne parla poco?

La questione dell’accoglienza o delrespingimento dei profughi durantel’ultima guerra è un tema che inSvizzera ha suscitato accesi dibattitie confronti spesso polemici. Si è tor-nato a parlarne molto a partire dallametà degli anni ‘90 in seguito allavicenda dei beni ebraici depositatinelle banche elvetiche. Le polemichee gli attacchi hanno spinto il Gover-no svizzero a istituire una Commis-sione di storici che ha lavorato cin-que anni sul ruolo della Svizzera ne-gli anni del nazismo. Lo studio hapermesso tra di mettere in evidenzatutte le ambiguità e le compiacenzedella Svizzera nei confronti del po-tente vicino tedesco, ma ha anchesmentito alcune delle accuse piùestreme e infondate.

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CULTURA / ARTE / SPETTACOLO

I l leggendario regista Billy Wilderaveva un cartello appeso sulla por-ta del suo ufficio sul quale si leg-

geva: Che cosa farebbe Lubitsch? Ilviennese Wilder, infatti, riconosceva alberlinese Lubitsch uno stile particolare,una capacità unica nella maniera dimettere in scena una storia. Il Toccodi Lubitsch è l’espressione usata perdescrivere questo stile, creata dall’uf-ficio relazioni pubbliche di uno studioHollywoodiano con l’intento di tra-sformare il nome del regista in un mar-chio. Molto si è scritto a proposito diquesto touch e ogni testo ha una suadefinizione di cosa sia. Richard Chri-stiansen, sul Chicago Tribune, peresempio scrive: “Il Tocco di Lubitschè la breve descrizione di una lunga listadi virtù: raffinatezza, stile, sottigliezza,

spirito, eleganza, fa-scino, nonchalancee audaci allusionisessuali”.Ephraim Katz, dalcanto suo, affermache il Tocco sta adindicare: “L’umori-smo sottile e la

grande ironia delleimmagini presenti nei film di Lubitsch.Lo stile era caratterizzato da una sa-piente compressione di idee e situa-zioni in singole riprese o brevi sceneche suggeriva una lettura ironica deipersonaggi e del significato dell’interofilm”. In un’unica frase Andrew Sarrisaggiunge: “Un contrappunto d’intesatristezza nei momenti più felici delfilm”. Greg Faller suggerisce: “Il Toccodi Lubitsch può essere concretamentepercepito come derivante da un dispo-sitivo narrativo dei film muti: inter-

rompere l’azione drammatica focaliz-zando l’attenzione dello spettatore suun oggetto o su un piccolo dettaglioche forniscono un commento argutoo una rivelazione sorprendente riguar-do l’azione principale”. Herman Wein-berg, l’autore di The Lubitsch Touch,scrive: “I Russi hanno un drink chia-mato kvass: nel fondo del bicchieremettono un’uvetta che da sapore al-l’intera bevanda. Gli attori Russi eranosoliti dire, “Trova l’uvetta e l’intera bot-tiglia sarà buona”. Lubitsch cercavasempre l’uvetta che avrebbe dato sa-pore alla scena...”.

Prima di emigrare negli Stati Uniti, Lu-bitsch aveva dichiarato durante un’in-tervista che l’humour ebraico avevauna parte così importante nel teatro,nell’operetta e nel Cabaret in Germaniache sarebbe stato ridicolo non utiliz-zarlo nel cinema.L’elemento ebraico del suo cinema èinconfondibile e quel Touch così spe-ciale si rivela davvero molto Jewish:l’uso delle ellissi per raccontare un pez-zo di storia senza mostrarlo, la criticaalle convenzioni sociali, il capovolgi-mento dei ruoli, l’uso del linguaggiocorporeo, gli accostamenti improbabili

e scandalosi ma soprattutto la grandefiducia nell’individuo, nella sua capacitàdi combattere contro le ingiustizie dellasocietà e nella possibilità di vivere unavita, almeno in parte, felice. Lubitsch morì nel 1947, quando avevasolo 55 anni, a causa di un attacco dicuore. Dopo il funerale Billy Wilderdichiarò mestamente: “Niente più Lu-bitsch”. William Wyler, un altro leg-gendario regista ebreo tedesco, gli ri-spose: “Molto peggio, niente più filmdi Lubitsch!”.

Rocco Giansante

Il leggendario Pardo del Festival del Cinema di Locarno spicca quest’anno un balzo che appassionerà i cultori del toccoebraico nel triangolo Vienna-Berlino-Hollywood. Al margine della competizione ufficiale, il grande Festival del cinemaindipendente regala ai cinefili una retrospettiva completa dedicata a Ernst Lubitsch. Regista, sceneggiatore, attore esoggettista, Ernst Lubitsch (Berlino 1892–Los Angeles 1947) ha cambiato la storia del cinema americano e di quelloeuropeo aggiungendo quel pizzico di yiddishkeit che non avrebbe più abbandonato (o quasi) il cinema d’autorestatunitense. Considerato un maestro da molti suoi contemporanei, e più tardi dai registi della nouvelle vague,Lubitsch è stato tra i primi registi ad avere l’onore di vedere il suo nome collocato prima del titolo sui manifesti e neglielenchi del cast. La sua carriera è cominciata nel 1911, come attore teatrale al Deutsches Theater di Berlino: Lubitschrecitava in innumerevoli ruoli e uno dei registi che lo diresse più spesso fu Max Reinhardt. A partire dal 1913 inizia a

lavorare anche nel cinema, che diventa la sua passione. Dirige film muti nei quali recitaanche come protagonista. Prima del 1918 gira soprattutto film slapstick, dove loritroviamo a interpretare anche la parte di un commesso di negozi di scarpe nella Berlinodella prima guerra mondiale nel film Pinkus l’emporio della scarpa (Schuhpalast Pinkus)del 1916. Nel 1920 riadatta Shakespeare in Romeo e Giulietta sulla neve (Romeo und Juliain Schnee), gustosissima commedia montana. Dopo il successo di Madame du Barry con uneccezionale Emil Jannings (che interpreta anche la parte di Enrico VIII in Anna Bolena), nel1922 l’attrice americana Mary Pickford invita Lubitsch a Hollywood per il film Rosita

(1923), dove l’ebreo berlinese inizia una nuova carriera che lo porta a dirigere le più famose attricidell’epoca come Marlene Dietrich, Greta Garbo, Carole Lombard e Miriam Hopkins.Negli anni trenta dirige alcuni dei suoi capolavori: da Mancia competente (Trouble in paradise, 1932), storia di ladri ealberghi di lusso dove bugie e verità si inseguono in un continuo gioco di specchi, a La vedova allegra (The MerryWidow, 1934), ambientato in un fantastico reame d’operetta che testimonia l’origine mitteleuropea del regista; daAngelo (Angel, 1937), in cui si affaccia una vena di asciutto cinismo, alla satira politica di Ninotchka, 1939), il cui celebrelancio pubblicitario recita: “il film dove Greta Garbo ride” (“Garbo laughs!”). Celebre la sua parodia di Hitler in Vogliamovivere! del 1942, ispirato alla piece teatrale Noch ist Polen nicht verloren del drammaturgo ungherese MelchiorLengyel. Nel 1947 ottiene l’Oscar alla carriera. Morì a Bel Air (Los Angeles) durante le riprese di La signora in ermellino(That Lady in Ermine), film terminato da Otto Preminger. (gv)

Quando Hollywoodscoprì la Yiddishkeit

ú– CINEMA

Locarno e dintorni. Ricordando il Tocco di Lubitsch

“Se qualcuno dice: ‘Ho appena vistoun film di Lubitsch dove c’era un’in-quadratura inutile’, costui mente. Ilsuo cinema è il contrario del vago,dell’impreciso, dell’inespresso, del-l’incomunicabile, non ammette mainessuna inquadratura decorativa,messa là per fare bella mostra: no,dall’inizio alla fine si è immersi nel-l’essenziale, fino al collo”. François Truffaut non conoscevacerto mezze misure. I suoi amori lidifendeva a spada tratta. E il suomassimalismo estetico ha fatto scuo-la. Proprio come quello di Godardche in La donna è donna chiamavail personaggio di Jean-Paul Belmon-do, Alfred Lubitsch (la commedia eil giallo in un unico segno). Si sa. Lanouvelle vague i suoi eroi li sceglievacon cura e ancora oggi, mettere indiscussione alcuni di quei nomi, co-me qualche anno fa ha fatto Jacques

Rivette, equivale alla messa in di-scussione di un intero universo eticoed estetico. In Lubitsch i fautori dellanouvelle vedevamo il principio stes-so della mise en scene. Il cinema chediventava linguaggio. Qualcosa dicompletamente alieno dalla lettera-tura e dal teatro. La quintessenzastessa del cinema. Tutti i cineasti delpantheon della nouvelle vague fon-dano il loro magistero sul primatodella messinscena. Alfred Hitchcock,Fritz Lang, Jean Renoir, HowardHawks esprimono un cinema altempo stesso radicalmente classicoe moderno. In Lubitsch, Godard eTruffaut avevano trovato un cineastache parlava e respirava cinema. Eavevano ragione, perché il magisterolubitschiano, formatosi nella vecchiaEuropa, è diventato il fondamentostesso della commedia sofisticataamericana. Un modello che, nono-

stante le incomprensioni iniziali, èstato ben presto riconosciuto comeunico e irripetibile. Non è un casoche Billy Wilder, il primo dei disce-poli lubitschiani, sia stato soventeaccusato di volgarità perché ha osatoelaborare il cinema del maestro. Ciòche conta nel cinema lubitschianoè la precisione e il nitore del gesto-cinema. Non la raffinatezza degliambienti o il plot. Ciò che conta so-

no le traiettorie dello sguardo. E lamedesima cosa vale per Billy Wilder.Sia Lubitsch che Wilder inscrivonoil destino dei loro personaggi nellospazio dell’inquadratura e nel giocodelle maschere che privano i prota-gonisti del peso delle loro identitàsociali. Sempre sottilmente eversivo,in Lubitsch il tema della mascheradiventa epifanico della condizioned’esilio degli ebrei in Vogliamo vi-

Il discepolo Truffaut

n. 8 | agosto 2010 pagine ebraiche

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010 CULTURA / ARTE / SPETTACOLO

Ernst Lubitsch, nato a Berlino nel1892 da una famiglia di ebrei russi,decide da giovanissimo di non se-guire la tradizione di famiglia e la-vorare nella sartoria del padre, mala sua grande passione per il teatro.Dopo aver lavorato nella compagniadi Max Reihnardt, nel 1913 debuttanel cinema come attore diventando,nel giro di pochi anni, uno dei pro-tagonisti del cinema tedesco del pe-riodo Weimar. Pinkus l’emporio dellascarpa del 1916 è uno dei primi filmche interpreta e dirige. Il Pinkus del titolo si riferisce a So-lomon ‘Sally’ Pinkus, interpretatodallo stesso Lubitsch, un giovanescapestrato espulso da scuola a causadella sua cattiva condotta. Sally iniziaquindi a lavorare come apprendistacommesso in un negozio di scarpe,dove passa la maggior parte dellegiornate a flirtare con la giovane fi-glia del proprietario e le belle clienti.Dopo una serie di comiche imprese,Sally riesce ad ottenere un prestitoda una ricca signorina. Così finisce

per aprire il suo negozio, l’emporioPinkus, e in più a sposare la sua be-nefattrice. Nel 1919 Lubitsch scrive,dirige ed interpreta Meyer il berli-nese. Meyer, grazie ad un falso cer-tificato medico, si fa spedire in Tiroloper curarsi e sfuggire così alla mogliePaula rimasta a Berlino. Vestito coni lederhosen, Meyer s’introduce allabella Kitty in vacanza insieme al ma-rito Harry. Subito cerca di sedurlausando ogni possibile stratagemma.Il film finisce con i due che trascor-rono insieme la notte in una baitasenza sapere che anche Harry e Pau-la, che ha seguito di nascosto il ma-rito da Berlino, sono lì.Se nei film del periodo americanola matrice ebraica del suo cinema èespressa in maniera molto discreta,nei primi film berlinesi come Pinkuso Meyer aus Berlin, Lubitsch mettein scena storie che hanno come pro-tagonisti personaggi inequivocabil-mente ebrei. Non solo per i loro nomi o per ilfatto che i titoli dei dialoghi sonoinfarciti di espressioni in Yiddish.Ispirati dal suo milieu fatto di arti-giani e commercianti e dalla tradi-zione del Purim Spiel (le rappresen-tazioni teatrali messe in scena du-rante la festa di Purim), questi per-sonaggi sono fortemente stereotipati,la caricatura degli Ostjuden, gli ebreidell’Est Europa immigrati in Ger-mania: arrivisti, disonesti, opportu-nisti. Pinkus, infatti, diventa il pro-prietario di un negozio di scarpe gra-zie all’imbroglio, prendendosi giocodi tutti. In una scena di Meyer aus Berlin ve-diamo il protagonista a letto, la notteprima della scalata di una montagnadi 2800 metri a cui ha deciso di par-tecipare per impressionare la giovane

Kitty; grazie ad un montaggio foto-grafico la montagna, come in un so-gno, si materializza nella sua stanzacon un numero ad indicarne l’altez-za. Meyer si alza dal letto e cancellai due zeri facendo diventare la mon-tagna alta 28 metri. Poi, rivolgendosialla macchina da presa e allo spet-

tatore dice “Sapevo che potevo con-trattare con quella montagna”, in al-tre parole gli ebrei cercano sempredi abbassare il prezzo. Se Lubitschnon fosse ebreo i suoi primi film ver-rebbero considerati antisemiti.Queste commedie di grandissimosuccesso meritano, tuttavia, una let-tura più attenta: l’uso di stereotipiantisemiti sullo schermo permette aLubitsch di criticarli, smontarli e,paradossalmente, riderne insieme adun pubblico composto per la mag-gior parte di non ebrei. Pensiamosoltanto all’idea di mettere sulloschermo un ebreo che va a spasso

per le Alpi, vestito da Tirolese concorde e bastoni, cercando di sedurreuna giovane tedesca. Lubitsch mi-schia le carte e fa suo l’immaginarioantisemita rivelando così il fallimentodel processo d’integrazione della mi-noranza ebraica in Germania. Ma se i non ebrei ritrovano il loroantisemitismo comicamente trattatoin una complessa operazione intel-lettuale che ne rivela l’assurdità, gliebrei, purtroppo, sullo schermo, ve-dono allontanare sempre di più il lo-ro sogno d’integrazione nella societàtedesca del primo dopoguerra.

r.g.

Un bagaglio di umorismo ebraico in salsa berlinese

vere!, capolavoro rifatto con totalesprezzo del pericolo da Mel Brooks,senza però ascendere ai vertici lu-bitschiani. Tra la maschera e losguardo esiste dunque tutto il cine-ma di Lubitsch. Una macchina filo-sofica potente che ha mette in crisigli equilibri del reale. Motivo per cuiLubitsch era amato sia dal cinefiloTruffaut, che dall’iconoclasta Go-dard. Il cinema ridisegna il mondo.Ed è questa la lezione che Billy Wil-der ha mutuato da Lubitsch (e che,per certi versi, sarà estremizzata daJerry Lewis). Nessuno però dei di-scepoli lubitschiani è riuscito a ri-trarre il carattere apollineo del caoscome il maestro. Sia Billy Wilderche Blake Edwards, nonostante laloro estrema consapevolezza delledinamiche dello sguardo, non hannopotuto fare altro che accettare il caosche si celava dietro gli equilibri dellegeometrie lubitschiane. Il carattereschiettamente eversivo di Lubitschrisiede proprio nel gioco con cui le

maschere dell’ordine e della razio-nalità sono rovesciate nel loro op-posto. Le porte che si aprono e chesi chiudono, stilema ripreso con su-blime maestria da Blake Edwards,sono il segno di un oscillare del prin-cipio di realtà e del principio di in-dividuazione. Come le palpebre chebattono, le porte di Lubitsch segna-lano interferenze nel tessuto del rea-le. Il mondo non è altro che un ca-stello di carte. Basta una porta chesi apre e tutto crolla. Ernst Lubitschlo sapeva bene. Lui ci rideva sopra.Ma in fondo era mortalmente serio.Straordinario razionalista scettico,osservava il mondo agitarsi all’inter-no dei suoi perimetri perfetti. Nongiudicava mai. Osservava e filmava.Con una precisione ormai prover-biale. E mentre intorno a lui il mon-do crollava, lui ne evocava un altronel nitore del suo sguardo cinema-tografico. Il fare cinema per Lubitschera resistenza.

Giona A. Nazzaro

Furono Chaplin e Lubitsch a capireper primi l’efficacia della commediae della satira nel denunciare le folliedel nazismo. Ne Il Grande Dittatoredel 1940, Charlie Chaplin interpretaun barbiere ebreo reduce di guerraed il dittatore di Tomania Hynkel cheperseguita gli ebrei per distrarre i suoiconcittadini dai problemi economiciche affliggono lo stato. Il film è pienodi riferimenti alla situazione politicadel tempo che non potevano sfuggireal pubblico nei cinema: la svastica di-ventata due croci affiancate, Göringe Mussolini ritratti come i ridicoliHerring e Benzini, l’esistenza dei cam-pi di concentramento suggerita quan-do il barbiere chiedendo dove sonofiniti tutti gli uomini del Ghetto si sen-te rispondere “sono andati lì”. Il mo-mento più importante del film è quan-do il barbiere prende il posto del dit-tatore e dal palco, rivolgendosi allafolla, annuncia con passione che il po-tere deve tornare alla gente e auspical’avvento di un futuro migliore pertutti.Lubitsch concepisce un film comple-tamente diverso. Vogliamo vivere! uscito nel 1942, fubersagliato dalla critica e frainteso daun pubblico non abituato all’idea diuna commedia con tema i nazisti ela Polonia. La trama del film è alquan-to complessa. La compagnia teatraledi Joseph Tura (Jack Benny) è intentaa provare la nuova produzione inti-tolata Gestapo in un teatro di Varsa-via. Ma i tedeschi invadono la Poloniae la produzione viene sospesa. Sobin-ski, il giovane amante di Maria Tura(Carol Lombard), moglie di Joseph eattrice principale della compagnia, es-sendo un pilota dell’aviazione polacca,riesce a rifugiarsi a Londra dove si ar-ruola nella RAF. Desideroso di con-tattare l’attrice, per caso, scopreun’operazione di spionaggio nazistacapeggiata dal Prof. Siletsky che halo scopo di smantellare la Resistenzapolacca. Il pilota è allora paracadutatoa Varsavia per tentare di fermarel’operazione. Qui rincontra Maria ela sua troupe di attori; con il loro ta-

lento lo aiuteranno a salvare i gruppidella Resistenza e tutti insieme fug-giranno in Inghilterra a bordo dell’ae-reo di Hitler. Il protagonista del filmdi Chaplin è un ebreo, la sua ragazzaHannah è ebrea, entrambi vivono nelGhetto dove la parlata ha i ritmi delloYiddish. Nel film di Lubitsch gli ebreinon sono mai nominati: ci sono solonazisti e polacchi. Esiste però un per-sonaggio che possiamo identificarecome ebreo per il nome che porta eper alcune delle sue battute: si trattadi Greenberg (Felix Bressart), uno de-gli attori della compagnia di Tura. Inuna delle scene iniziali del film, Gre-enberg, criticando Joseph Tura, gli di-ce: “Quello che sei, io non mangerei!”e l’altro gli risponde “Darmi del pro-sciutto? Come ti permetti?”. L’ebreoGreenberg a cui toccano parti di se-

condo piano, ha un sogno: recitare ilmonologo di Shylock dal Mercantedi Venezia di Shakespeare. Lo recitatre volte nel corso del film, due voltementre è insieme all’amico Brodski eun’altra alla fine del film nel teatropieno di nazisti. “Se ci ferite noi nonsanguiniamo? Se ci solleticate, noi nonridiamo? Se ci avvelenate noi non mo-riamo?”La potenza di questi versi recitati nellaVarsavia occupata dai nazisti da unattore ebreo diventa ancora più gran-de quando davanti ai nazisti Green-berg aggiunge: “E se ci fate un torto,non ci vendicheremo?”Non importa se i riferimenti agli ebreidel testo Shakespiriano sono omessiperché questi vengono fuori lo stessocon tutta la loro intensità.Quando Greenberg è interrogato, do-

po essere stato arrestato dai nazistinel teatro pronto a ricevere la visitadi Hitler, alla domanda: “Perché seiqui?” risponde “Io sono nato qui”. Ildiritto alla vita non potrebbe essereespresso meglio.Ma gli elementi ebraici del film nonsi fermano a Greenberg e Shylock. La commedia di Vogliamo vivere! èebraica. La scena di Joseph Tura, tra-vestito dal Colonnello Ehrhardt, chementre intrattiene l’ignaro ProfessorSiletsky, ripete continuamente “E cosìmi chiamano Campo di concentra-mento Ehrhardt?” sembra una gagdei Fratelli Marx o uno spezzone dallaserie Tv Seinfeld. L’uso dei doppi sen-si, del travestimento, del rovesciamen-to delle parti, del sottinteso sono tuttielementi della tradizione della com-media ebraica. L’ego dei personaggiviene continuamente sbeffeggiato. IlBrodski mascherato come Hitler diceHeil me stesso! e al grande attore Tu-ra il vero Colonnello Ehrhardt dice“Quello che Tura ha fatto a Shake-speare noi facciamo alla Polonia!.”Il rovesciamento delle parti fa sì cheil monologo di Shylock nella boccadel nazista Siletsky diventi “Noi siamocome tutti gli altri. Ci piace cantare,ballare. Ci piacciono le belle donne”.Il film mantiene una voluta ambiguitàche può sembrare talvolta fuori luogo.I personaggi nazisti e polacchi sonomessi in scena in tutta la loro umanitàe fallibilità. Ma quello che vuole fareLubitsch è provocare lo spettatore fa-cendo accostamenti azzardati e ren-derlo cosciente delle sue reazioni. Lu-bitsch non credeva nell’attacco diret-to: che si tratti di sesso, politica o delnazismo, come in questo caso, lui sce-glie sempre l’arma della sottile sov-versione. Vogliamo Vivere! testimonia l’impor-tanza dell’arte come veicolo di cam-biamento sociale e di giustizia. Lubitsch, come hanno poi imparatotanti grandi come Mel Brooks, c’in-segna che si può affrontare la ferocianazista con l’arma della commedia evincere.

r.g.

La comicità che sconfisse le dittature

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraiche

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010

Daniel Libeskind

ú–– Susanna Scafuri

L a ricerca di linee essenziali,che animano le immagini diPatrizia Della Porta, appresa

durante un lungo soggiorno in Giap-pone, è il filo conduttore di una ricercaformale sui grandi musei internazio-nali. Il progetto di Mu-seum (Mu ingiapponese indica il vuoto) parte dallevedute del Whitney Museum di NewYork, passando dalla National Gallerydi Washington, dai Guggenheim diNew York e Bilbao per approdare aBerlino al Museo Ebraico. Di quest’ul-timo lavoro si è appena inaugurata adAlessandria, nel Palazzo del Monfer-rato, la mostra The Berlin Jewish Mu-seum, una raccolta di immagini sulmuseo progettato dall’architetto Da-niel Libeskind e inaugurato nel 2001.Le immagini della fotografa si approc-ciano al grande progetto in modo to-talmente libero dai metodi tradizionaliutilizzati nella fotografia di architet-tura. A mano libera, senza cavalletto,con una Nikon 35 mm Della Porta ri-cerca tagli più emotivi che volumetrici.Nella lunga intervista raccolta da Ro-

berto Mutti, curatore della mostra,l’artista spiega il suo personale ap-proccio alla fotografia d’architettura:“Per me lo spazio architettonico è so-prattutto una dimensione interiore,mentale. Non inserisco mai la figuraumana, come tradizionalmente si faper stabilire i parametri delle dimen-sioni ed elimino gli elementi, comead esempio le auto, che dal tipo didesign ricondurrebbero ad un precisoperiodo temporale”.La poetica di Patrizia della Porta trovaun suo punto di contatto con il pro-getto di Libeskind, nel quale ha gran-

de peso l’aspetto simbolico ed evoca-tivo dei volumi architettonici. La ca-pacità di coniugare memoria storicae progettazione contemporanea perdare vita a strutture dal forte impattoemotivo fa di Libeskind uno degli ar-chitetti più importanti del ventunesi-mo secolo. I grandi tagli di luce dellepareti del museo di Berlino sono ri-presi nelle fotografie come fiammelledi un memento. Tutto il museo sifonda sul principio della memoria, sul-la conservazione della storia di un po-polo. Le immagini hanno la forza dirappresentare i sentimenti che anima-

no il visitatore quando entra negli spa-zi del museo. Come racconta lo stes-so Libeskind sono tre le linee guidache hanno accompagnato la proget-tazione per il museo ebraico. “La pri-ma è l’impossibilità di comprenderela storia di Berlino senza capire il con-tributo intellettuale, economico e cul-turale che gli ebrei hanno dato a Ber-lino. In secondo luogo, la necessità diintegrare fisicamente e spiritualmenteil significato dell’Shoah nella coscienzae nella memoria della città di Berlino.Ultimo, che solo attraverso il ricono-scimento della cancellazione e del

vuoto della cultura ebraica a Berlino,può la storia dell’Europa avere un fu-turo per l’umanità”. Un approccioconcettuale e spirituale che si ritrovanella purezza degli scatti di Patriziadella Porta e che in questo progettopiù che mai ritrae quei vuoti evocatidall’architettura di Libeskind nel suomuseo.

The Berlin Jewish Museum7 luglio - 8 agostoPalazzo del Monferrato, via San Lorenzo 21, Alessandriainfo 348 9963185

Patrizia Della Porta rilegge il Museo di Berlino

Daniel Libeskind nasce nel 1946 a Lodz, in Polonia, da una coppia di sopravvissuti ai

campi di sterminio nazisti. Durante l’infanzia si dedica principalmente allo studio

della musica classica, passione che lo accompagnerà tutta la vita e che approfondisce

in Israele dove si trasferisce con i suoi genitori. Nel 1960 è a New York grazie alla

borsa di studio dell’American - Israel Cultural Foundation Fellowship e si iscrive alla

facoltà di architettura della Cooper Union for the Advancement of Science and Art.

Negli anni Settanta si sposta a Londra per la specializzazione in architettura e inizia

a insegnare anche in alcune università di Stati Uniti, Europa e Giappone. Nel 1985 è a Milano, dove fonda e dirige

per tre anni un laboratorio didattico sperimentale no profit, la Architecture Intermundium. Libeskind lascia l’Italia

per accettare l’invito della Paul Getty Foundation a lavorare a Los Angeles. Considerato uno dei massimi esponenti

dell’architettura decostruttivista viene celebrato nella mostra Deconstructivist Architecture allestita al Museum

of Modern Art di New York nel 1988, insieme a Frank Gehry, Rem Koolhaas, Peter Eisenman, Zaha Hadid, Coop Him-

melblau e Bernard Tschumi. Un paio di anni dopo vince il concorso per il progetto d’ampliamento del museo ebraico

di Berlino, in questa occasione apre il suo nuovo studio nella città tedesca. Progetta il padiglione di Osaka, il piano

urbanistico di Groningen, l’intervento per l’Alexander Platz a Berlino, il Felix Nussbaum Museum a Osnabrück, am-

pliamento del museo dedicato al pittore ebreo ucciso ad Auschwitz, la Comunità ebraica e la sinagoga a Duisburg. Tra

gli ultimi più importanti interventi, la riprogettazione di Ground Zero a New York er la riqualificazione dell’area

fieristica di Milano (CityLife) insieme agli architetti Hadid e Isozaki.

La struttura

Sotto un manto di lucente zinco sfila una storia secolare

Nel 1989 una gara indetta per la costru-

zione del nuovo Museo Ebraico di Ber-

lino viene vinta dallo studio di Daniel

Libeskind, l’architetto ebreo di origine polacca

considerato uno dei massimi esponenti dell’ar-

chitettura decostruttivista. Il museo deve mo-

strare la storia sociale, politica e culturale degli

ebrei a Berlino dal medioevo fino ai giorni no-

stri. La difficoltà architettonica consiste nel

raccordare il nuovo corpo con un edificio in

forme barocche preesistente che già ospitava

un museo sulla città di Berlino. Il cantiere, du-

rato dieci anni, si è sviluppato su una superficie

di 15 mila 500 metri quadri. Dal 2001, data di

apertura al pubblico del museo, sono già pas-

sati più di 5 milioni di visitatori.

Liebeskind ha battezzato il suo progetto, una

struttura completamente ricoperta di zinco,

between the lines (tra le linee) a rappresentare

il difficile percorso della storia ebraico - tede-

sca: una linea appare diritta, ma frammentata

in vari segmenti, l’altra tortuosa, spigolosa e

sospesa senza un termine. Nei punti in cui le

due linee si intersecano si formano zone vuote,

quelli che l’architetto chiama voids e che at-

traversano l’intero museo.

La mostra permanente invita ad un viaggio di

scoperta nei duemila anni di storia ebraica in

Germania. Tredici epoche storiche si succedono

attraverso immagini della cultura ebraico -

tedesca dal Medioevo ai giorni nostri con una

particolare attenzione dedicata al tema del-

l’esilio.

Oggetti d’arte o d’uso quotidiano, fotografie,

lettere e alcuni spazi interattivi descrivono

gli stretti legami tra la cultura ebraica e la

storia tedesca.

Jüdisches Museum Berlin

Lindenstrasse 9-14

10969 Berlin (Kreuzberg)

www.jmberlin.de

CULTURA / ARTE / SPETTACOLO

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n. 8 | agosto 2010 pagine ebraiche

ú–– Manuel Disegni

uando il direttore della reda-zione ha annunciato pienod’entusiasmo: “Possiamo

contare su un nuovo collaboratore:Nedelia Tedeschi”, molti di noi gio-vani hanno fatto fatica a capirlo, sisono chiesti cosa avrebbe potuto farequesta dolce bisnonna. “Non pos-siamo costruire nuove iniziative - èstata la risposta - senza conosceree senza partire dalle esperienze dichi ci ha preceduto”. Il riferimentoera al progetto di un nuovo giornaleper bambini e alla straordinaria espe-rienza di Nedelia, che fu fra gli ani-matori del mitico Giornale per Noi.Non nasce oggi la voglia dei piccolidi conoscere e capire il mondo deigrandi, di instaurare con loro un dia-logo, di essere come loro, insommadi leggere un giornale. Già dalliniziodel ‘900 nel mondo ebraico italianoc’è stato chi si è cimentato nella dif-ficile e appassionante impresa di co-municare con i bambini. E Nedelianon ha mai smesso di farlo: una vo-cazione straordinaria a parlare coibambini, a capirne i pensieri, ad in-terpretarne le esigenze intellettualie ludiche e gestire la genuina sovrap-posizione di questi due piani.Un nuovo giornalino ambisce cer-tamente ad essere un mezzo di co-municazione fresco e innovativo, èconsapevole della sfida che rappre-senta rivolgersi ad un pubblico in-fantile radicalmente differente daquello della generazione precedente,

che naviga in internet piuttosto chegiocare con le macchinine; tuttavia

non potrà dimenticare quel ricco re-troterra di pedagogia dell’ebraismoe di giornalismo per l’infanzia che imondo ebraico italiano ha saputoprodurre nel passato. È per questoche la redazione conta sulla colla-borazione e sull’esperienza di per-sone come Nedelia.La morah della scuola ebraica di To-rino, questa passione ce l’ha nel san-gue: un indiscusso talento per dia-logare coi bambini. “Ci vuole soprat-tutto creatività – spiega – non c’èniente di più gratificante e divertenteche svolgere attività creative”. Interegenerazioni sono cresciute con le fi-lastrocche della maestra Nedelia,cantando le canzoni per le feste checomponeva, oppure leggendo le av-venture del Nano Lunino, uno deisuoi mitici personaggi, lungo i mo-menti salienti del calendario lunare. Leggendari sono i suoi travestimentidi Purim: ogni anno Nedelia si na-sconde puntualmente dietro la ma-schera più stravagante. Se anche sifatica a riconoscerla e rimane qual-che dubbio, questo viene sciolto nonappena si fa caso alla scia di bambiniattirati come uno sciame d’api dallecaramelle e dai dolcetti che dispensaa piene mani. Alla fine degli anni Settanta NedeliaTedeschi fu chiamata a dirigere Ilgiornale per Noi, periodico di cultura

ebraica perbambini e ragazzi

fondato dalla morah milanese ItaliaFriedenthal Calabresi. “Non mi sonomai sentita a mio agio nei panni deldirettore – racconta Nedelia – nonsono brava a far lavorare le altrepersone, preferisco farlo io”. Al-l’epoca Nedelia collaborava già datempo con la redazione. Curò, trai molti numeri del periodico, unintero speciale dedicato alla To-rah: scrisse un piccolo raccontoaccessibile ancheai più piccoli perogni parashahdell’anno. Quelnumero speciale èancora utilizzatocome testo didat-tico da molte clas-si elementariebraiche in Italia.“Non sarà un’in-terpretazione rab-binica dei testi – spiega con sempli-cità l’autrice – ma mi è parso moltoutile per introdurre i ragazzi alla let-tura della narrazione biblica e allasua dimensione ciclica: ogni setti-mana una puntata”. Un vulcano diidee e di entusiasmo, una ricercacontinua di nuovi modi e linguaggiper raccontare l’ebraismo ai bambini,

per trasmetterne i valori fondamen-tali attraverso il gioco, le favole, lefilastrocche. Questa è lei, questo il suo dono allacomunità di Torino e a tutto l’ebrai-smo italiano. Il suo impegno si è ri-volto in molte occasioni anche a unpubblico esterno. La sua straordina-ria capacità i raccontare l’ebraismo,di narrarlo, perfino di rimarlo; è stataapprezzata molto anche da nonebrei. A domanda rispondo: 36 do-mande sull’ebraismo è il libro (editoda Giuntina) in cui la morah com-pendia gli interrogativi più ricorrentisulla religione ebraica e sul suo po-polo e vi fornisce una breve, sem-plice, precisa risposta. Sono le do-mande che più frequentemente si èsentita rivolgere nei molti anni incui è si è recata nelle scuole piemon-tesi a raccontare la storia e la culturadegli ebrei.È importante diffondere una cono-scenza adeguata della cultura nelmondo, giusto quindi cominciare coibambini. Quando però si deve par-lare loro di Shoah – e si deve farlo– si fa tutto più difficile: è necessariotrovare l’equilibrio in grado di tra-smettere la tragicità di quegli eventirispettando però la sensibilità deibambini, senza demolire la loro ideadel mondo come un posto bello efelice. “Non è facile parlare dellaShoah ai bambini – spiega – ma de-vo dire che ho sempre avuto la for-tuna di trovare classi molto prepa-rate e intelligenti che facevano do-mande pertinenti”. Il consiglio a chisi accinge a questo difficile ma ne-cessario compito “è quello di renderela discussione il più possibile inte-rattiva, di far partecipare i ragazzi inmodo che riescano ad immedesi-marsi in chi – magari loro coetaneo

– quegli eventi li ha su-biti. Come visareste com-portati voi?Dove vi sare-ste nascosti?Come vi saresteprocurati il cibo?Rivolgendo lorodomande di que-sto genere li si aiu-ta a comprenderela realtà di alcune

situazioni, per esempio la ne-cessità di trovare qualcuno di-sposto a rischiare per aiutarti”.Coraggio e delicatezza, proprioquello che esprime la sua poe-

sia Messaggio. Il progetto di un nuo-vo giornalino ha ora una nonna spi-rituale: Nedelia accompagnerà coni suoi consigli chi si accinge a con-tinuare il suo lavoro: edificare unponte tra il mondo degli adulti equello dei ragazzi, creare uno spaziodi vita e cultura ebraica cui davverotutti possano accedere.

La bisnonna e il giornalinoMaestra di pedagogia e di giornalismo per l’infanzia, Nedelia Tedeschi torna in campo per un nuovo progetto

Messaggio

E disse il nipote alla nonna:

“Del tempo di guerradi cui mi racconti,dell’epoca buiadi quando tu avevii miei anni,di già cento foto più centomi hai posto dinnanzi,e cento filmati più centomi hai fatto vedere.Ma nonna,non c’è un sol colore,ma solo del bianco e del nero”.

“È vero” rispose la nonna.“Ma dimmi” riprese il nipote

“I prati eran neri a quel tempo?

E il mare era bianco?Chi fu l’inventoredel giallo, del rosso, del blu?

A scuola non l’hanno insegnato”.

Rispose la nonna al nipote:

“Nel tempo di guerrai cuori eran nero granitoe gli occhi due blocchi di ghiaccio,

e tutti i colori fuggiron dal mondo.

Poi son tornati.Tienili stretti, nipote,perché se fuggissero ancorasarebbe per sempre”.

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pagine ebraiche n. 8 | agosto 2010 SPORT

S imone Zaraffi ha compiutovent’anni a marzo, è nato aFirenze e ama andare contro-

corrente: il suo sogno di ragazzinonon era quello di correre dietro a unpallone negli stadi del campionatoitaliano. “Del calcio non me ne im-porta niente”, dice. Voleva a tutti icosti salire in sella a un destriero egaloppare. Galoppare e saltare gliostacoli insieme al suo elegante ami-co con la criniera. D’altronde il fu-turo era scritto nel libro del destino.“Da piccolo il primo regalo che hochiesto ai miei genitori è stato il ca-vallino della Chicco”, racconta di-vertito. Su un cavallo autentico sa-rebbe salito a soli cinque anni.

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Qualche mese e sarebbero arrivateanche le prime gare in sella ad unpony. Piccole cose tra bambini - sot-tolinea - ma a partire da quel mo-mento mi resi conto che saltare gliostacoli era la mia passione”. Simo-ne, tra i talenti più interessanti dellasua generazione (nel palmares spiccaun settimo posto ai campionati gio-vanili italiani), il sogno di sfondarenel settore ippico lo sta costruendogiorno dopo giorno, tassello dopotassello, con il sostegno di mammae sorella che non manca mai. Tor-nato da poco a Firenze dopo averattraverso la Toscana in lungo e lar-go in cerca di scuderie e opportunità,adesso punta in alto. Anche se sfon-dare in quel mondo è impresa ardua.La sfida più grande è trovare deglisponsor danarosi che ti foraggino.In attesa di maggiori introiti, lui la-vora come un dannato: talvolta finoa dodici ore al giorno. Spera nel saltodi livello, ma ci vorrebbe un nuovocavallo. Tuttavia c’è un problema dicui tener conto: un destriero piùcompetitivo costa decine di migliaiadi euro, cifra che al momento nonè alla sua portata. Non di rado Si-mone gareggia con puledri che gli

vengono affidati da scuderie e privatiper tornei specifici, ma un cavallo diproprietà sembra indispensabile perpuntare a traguardi ambiziosi. “Spe-riamo bene”, sospira. Nel frattemposi dedica ad un progetto che se an-dasse a buon fine rappresenterebbela tanto agognata svolta. “Sto pen-sando di prendere la cittadinanzaisraeliana”, ci spiega. Visto che inIsraele non esiste una squadra na-zionale vera e propria, Simone haproposto alla federazione di gareg-giare in Italia e in Europa con la sua

nuova (eventuale) cittadinanza incambio di una sponsorizzazione im-portante. In Israele ha già avuto mo-do di impratichirsi e di prendere iprimi contatti. Quattro settimane da

quelle parti gli ha fatto capire che ilmovimento ha bisogno di un ricam-bio generazionale: servono nuovi te-stimonial per fare breccia nel cuoredella gente. La strada finora percorsa(o meglio dire saltata) è tanta. “Hoesordito al Centro Ippico Toscanodi Firenze che ero alle elementari”,ricorda Simone. A dieci anni i po-meriggi li passa invece a Pistoia, do-ve sua istruttrice è Chiara Arrighetti,cavaliere della squadra nazionale. Ilpassaggio successivo è una scuderiaprestigiosa di Arezzo, città in cui si

trasferisce a vivere (da solo) ad ap-pena sedici anni. Non è un momen-to facile nella sua vita: è reduce dauna bocciatura a scuola e non ha vo-glia di continuare.

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Ma fugati i dubbi torna sui banchi,recupera l’anno perduto e si proiettaverso il diploma di maturità, checonsegue nel giugno 2009. Con ildiploma in tasca, si trasferisce aGrosseto, terra di butteri. Trova im-piego alla Anam (Associazione Na-zionale Allevatori Maremmani) eapprende i segreti del mestiere dal-l’ex olimpionico Dino Costantini.Poi fa ritorno a casa, base per pro-gettare il futuro. Svariate esperienzesignificative in saccoccia - oltre aquelle già citate, nel suo curriculumuno stage federale con i migliori ca-valieri italiani e tre mesi di raffina-mento tecnico in Florida su indica-zione del campione nazionale EmilioBicocchi - Simone guarda al domanicon sano ottimismo: “Non sono unoche si arrende facilmente, le sfide mipiacciono”.

a.s.

“Niente calcio, sono a cavallo”

La scelta di Simone Zaraffi, giovane fantino che insegue la nazionale

Sono settimane di intensa pianifica-zione negli uffici della FederazioneItaliana Maccabi. Si ragiona sul da

farsi per la prossima stagione agonistica,che oltre alle attività ormai da tempo con-solidate prevede alcune interessanti novitàin cantiere, e vengono fissate le tappe perarrivare agli European Games di Viennadel 2011 (oltre quindici le discipline ago-nistiche in programma) con una rappre-sentativa di giovani ebrei italiani nutrita ein grado di dare del filo del torcere agli av-versari. “Vogliamo allargare la rete e farpartecipare ragazzi di Comunità finora po-co coinvolte”, spiega il presidente del Mac-cabi Vittorio Pavoncello, che in previsionedei giochi ebraici in suolo austriaco - il va-lore simbolico della manifestazione è enor-me perché per la prima volta dalla fine delsecondo conflitto mondiale centinaia di

atleti ebrei si ritrovano in Austria - ha man-dato agli organizzatori degli EMG 2011una massiccia preiscrizione. Pavoncello chiede la partecipazione di tutti:“I numeri sono importanti e sono la riprovaulteriore del nostro impegno a tutela deigrandi valori dello sport e dell’ebraismo,confidiamo pertanto in una risposta positiva

da parte dei ragazzi e delle loro famiglie”.Nella marcia di avvicinamento agli EMG2011 sono in fase di programmazione al-cune giornate di incontro per i giovani ebreiitaliani: occasioni di divertimento e allostesso tempo occasioni preziose per for-mare le squadre che tra un anno andrannoin Austria. La novità numero uno è la pro-

babile nascita della Maccabi League, torneodi calcio e calcetto da disputarsi in una opiù tappe (per la prima opzione la città fa-vorita sarebbe Firenze) che si candida adessere sia giornata di sport che torneo se-lettivo per individuare i ragazzi più abili invista dei Giochi Europei. Il progetto è ancora in fase embrionale masi farà, assicura Pavoncello. Che insiemeagli altri Consiglieri lavora su un altro fron-te, quello dei Maccabi Australian Interna-tional Games in calendario dal 26 dicembreal 2 gennaio a Sidney. “La buona nomeadi cui gode la Federazione Italiana ha por-tato gli organizzatori della manifestazionead invitarci come ospiti d’onore”, spiega.“Non sarà facile partecipare ma vorremmoesserci, almeno con una squadra di calcio”.Per prendere contatto con gli organizzatoriwww.maccabi.it

Sognando l’Australia (e non solo): nuove sfide per il MaccabiKehilà

u Un momento di relax dopo una partitau Vittorio Pavoncello

u SIMONE ZARAFFI 20 anni, un lavorocome selezionatore di stalloni e unabrillante carriera agonistica comefantino. Adesso Simone deve affron-tare le dure sfide (affettive, sportive,ma anche economiche) che comportala scelta di vivere nel mondo dell’ip-pica. Obiettivo numero uno: trovareil cavallo giusto.

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