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Pagine Ebraiche – mensile di attualità e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - Anno 8 | Redazione: Lungotevere Sanzio 9 – Roma 00153 – [email protected] – www.paginebraiche.it | Direttore responsabile: Guido Vitale Reg. Tribunale di Roma – numero 218/2009 – ISSN 2037-1543 | Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale D.L.353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n.46) Art.1 Comma 1, DCB MILANO | Distribuzione: Pieroni distribuzione - v.le Vittorio Veneto, 28 - 20124 Milano - Tel. +39 02 632461 euro 3,00 n. 6 - giugno 2016 | אייר5776 SHABBAT NASÒ 18 GIUGNO 2016 MILANO 20.06 22.08 | FIRENZE 20.41 21.55 | ROMA 20.30 21.33 | VENEZIA 20.43 22.00 Giorgio Albertini Una parte enorme delle risorse raccolte dall’Unione proviene dalla società italiana e torna a beneficio del mondo comunitario. La trasmissione di un’immagine positiva è determinante per la sopravvivenza delle istituzioni. E negli ultimi anni non sono mancati segnali di crescita. pagg. 8-9 Il ventennio di Bibi e la prospettiva dell’incertezza LA RELAZIONE CONCLUSIVA DEL PRESIDENTE Un futuro da protagonisti Il messaggio di Renzo Gattegna alla vigilia del rinnovo del Consiglio dell’Unione:“Estremismo e demagogia sono figli della paura e si nutrono di volgari e abitrarie semplificazioni” UCEI L’ultimo Consiglio dedicato alla riforma del rapporto fra rabbinato e Comunità e agli interventi per affrontare la crisi finanziaria della Comunità di Roma. ROMA-MILANO Quattro liste in competizione nella Capitale, tre nella metropoli lombarda. Parlano i candidati protagonisti del voto del 19 giugno. COMUNITÀ Le 19 realtà più piccole elemento indispensabile nel tessuto dell’Italia ebraica. Davide Romanin fa il punto e mette le carte in tavola. pagg. 2-7 Sergio Della Pergola/ a pag. 25 CULTURA / ARTE / SPETTACOLO SHOAH, LE RESPONSABILITÀ ITALIANE Una nuova raccolta di studi coordinata dallo storico Georges Bensoussan sugli ebrei italiani negli anni dello sterminio. da pag. 27 OPINIONI A CONFRONTO ------------------------------------ PAGG. 25-28 ------------------------------------ COMUNITÀ Alberto Heimler MEMORIA Anna Segre STORIA David Bidussa LIBERAZIONE Aldo Zargani Presenza ebraica come motore di sviluppo, città intelligenti e urbanistica a misura d’uomo, il modello di Tel Aviv e quello del Brasile. Un dossier per capire l’economia in movimento. / pagg. 15-21 60.000 70.000 80.000 90.000 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 © Guy Morad Comunicazione, risorse, futuro Come cresce la Community Andrea Viterbi e il suo grande cuore di capitalista riluttante Solo la passione spinge la ricerca pagg. 10-11 DOSSIER MERCATI E VALORI

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Pagine Ebraiche – mensile di attualità e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane - Anno 8 | Redazione: Lungotevere Sanzio 9 – Roma 00153 – [email protected] – www.paginebraiche.it | Direttore responsabile: Guido Vitale Reg. Tribunale di Roma – numero 218/2009 – ISSN 2037-1543 | Poste Italiane Spa - Spedizione in Abbonamento Postale D.L.353/2003 (conv. in L.27/02/2004 n.46) Art.1 Comma 1, DCB MILANO | Distribuzione: Pieroni distribuzione - v.le Vittorio Veneto, 28 - 20124 Milano - Tel. +39 02 632461

euro 3,00

n. 6 - giugno 2016 | אייר 5776

SHABBAT NASÒ 18 GIUGNO 2016MILANO 20.06 22.08 | FIRENZE 20.41 21.55 | ROMA 20.30 21.33 | VENEZIA 20.43 22.00

Gior

gio

Albe

rtini

Una parte enorme delle risorse raccoltedall’Unione proviene dalla società italiana etorna a beneficio del mondo comunitario. La trasmissione di un’immagine positiva èdeterminante per la sopravvivenza delleistituzioni. E negli ultimi anni non sonomancati segnali di crescita.pagg. 8-9

Il ventennio di Bibi e la prospettiva dell’incertezza

LA RELAZIONE CONCLUSIVA DEL PRESIDENTE

Un futuro da protagonistiIl messaggio di Renzo Gattegna alla vigilia del rinnovo

del Consiglio dell’Unione: “Estremismo e demagogia sono figli

della paura e si nutrono di volgari e abitrarie semplificazioni”

UCEI L’ultimo Consiglio dedicatoalla riforma del rapporto

fra rabbinato e Comunità e agli interventi per affrontare la crisifinanziaria della Comunità di Roma.

ROMA-MILANO Quattro liste in competizione nella Capitale,

tre nella metropoli lombarda.Parlano i candidati protagonisti del voto del 19 giugno.

COMUNITÀ Le 19 realtà più piccoleelemento indispensabile

nel tessuto dell’Italia ebraica. Davide Romanin fa il punto e mette le carte in tavola.

pagg. 2-7

Sergio Della Pergola/a pag. 25

CULTURA / ARTE / SPETTACOLO

SHOAH,

LE RESPONSABILITÀ

ITALIANE

Una nuova raccolta di studi coordinata dallo storico GeorgesBensoussan sugli ebrei italiani negli anni dello sterminio.

da pag.

27

OPINIONI

A CONFRONTO------------------------------------ PAGG. 25-28 ------------------------------------

COMUNITÀAlberto Heimler

MEMORIAAnna Segre

STORIADavid Bidussa

LIBERAZIONEAldo Zargani

Presenza ebraica come motore di sviluppo, cittàintelligenti e urbanistica a misura d’uomo, ilmodello di Tel Aviv e quello del Brasile. Un dossierper capire l’economia in movimento. / pagg. 15-21

60.0

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1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

© G

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orad

Comunicazione, risorse, futuroCome cresce la Community

Andrea Viterbi e il suo grande cuore di capitalista riluttante

Solo la passione spinge la ricercapagg.

10-11

DOSSIER

MERCATI

E VALORI

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/ P2 POLITICA / SOCIETÀ

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraiche

Approvazione in prima lettura della modi-fica degli articoli 29 e 30 dello Statuto, de-dicati alla riformulazione del rapporto trarabbinato e Comunità, da sottoporre ancoraa una revisione degli esperti di Diritto dellavoro e a una ratifica del prossimo Consi-glio. Erogazione di uno stanziamento di300 mila euro destinato ad aiutare la Co-munità ebraica romana per far fronte alledifficoltà finanziarie attraversate dall’ente aseguito della recente crisi dell’Ospedaleisraelitico. Si sono conclusi con queste decisioni i lavoridel Consiglio dell’Unione delle ComunitàEbraiche Italiane riunitosi per l’ultima sedutadell’attuale mandato. Riguardo alla crisi fi-

nanziaria a Roma, la presidente della Co-munità ebraica della Capitale Ruth Dure-ghello ha portato al Consiglio la richiestadi un finanziamento straordinario di 600mila euro per fare fronte alle minori entrategenerate dalla situazione dell’ente sanitariocontrollato. Valutando i diversi fattori, ilConsiglio dell’Unione ha deciso a largamaggioranza di stanziare la metà di questoimporto demandando alla Giunta i tempie modi per definire le modalità operativedell’intervento. Ad aprire la riunione una relazione del Pre-sidente UCEI Renzo Gattegna, per 10 anniai vertici dell’ebraismo italiano, intervenutosulle sfide che attendono l’Unione e tutte e

21 le Comunità territoriali. Molti gli applausiin una lunga standing ovation che ha ac-colto le sue parole. “Sarebbe un’illusione antistorica, un errorefatale, la perdita di un’occasione unica, eforse irripetibile – ha affermato Gattegna,la cui relazione è pubblicata integralmentein queste pagine – se ci sottraessimo al-l’apertura e al confronto che, si badi bene,sono cose ben diverse, anzi opposte, all’as-similazione; sono infatti prove di fiducia innoi stessi e stimoli al rafforzamento dellanostra cultura e della nostra identità per po-ter essere all’altezza di qualsiasi sfida o con-fronto e in tal modo sconfiggere, una voltaper tutte, quell’insegnamento del disprezzo

Un futuro da protagonistiL’ultima riunione del Consiglio UCEI indica la rotta in vista delle prossima elezioni

ú–– Renzo GattegnaPresidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

Cari Consiglieri, cari amici, siamo giunti

al termine del mandato che è iniziato nel

giugno del 2012 e questa è l’ultima riu-

nione del Consiglio; siamo il primo Con-

siglio che ha sperimentato e collaudato

gli effetti della riforma dello Statuto del

2010. Su questa riforma, che ha creato il

nostro piccolo Parlamento, ho ascoltato

e ho letto le opinioni più disparate, sia

positive che negative.

La mia valutazione è fortemente positiva

perché ci ha dato la possibilità di vedere,

per la prima volta, un ebraismo italiano

unito e solidale, costantemente collegato

e non solo nel corso degli incontri tra le

ventuno Comunità in occasione dei Con-

gressi. Si compie tra pochi giorni il deci-

mo anno della mia presidenza dell’Unione

e voglio rendervi partecipi di alcune mie

riflessioni e valutazioni di questi ultimi

mesi, partendo da una breve introduzio-

ne di carattere personale.

Ho vissuto come un grande onore poter

ricoprire per un periodo così lungo que-

sta carica prestigiosa, significativa e

coinvolgente per una persona come me

che, per circa sessanta anni, ha lavorato

per l’ebraismo e per le sue istituzioni,

iniziando con le organizzazioni giovanili

e proseguendo con il Consiglio della Co-

munità di Roma.

Ringrazio voi che avete onorato l’impe-

gno assunto, voi che avete ricoperto at-

tivamente, fino ad oggi, la carica alla

quale siete stati eletti, per la possibilità

che mi avete dato, accordandomi la vo-

stra fiducia, di vivere questa esperienza

entusiasmante, senza mai lasciarmi solo,

ma condividendo tutte le responsabilità,

anche e soprattutto nei momenti più dif-

ficili; rivolgo quindi un sentito ringrazia-

mento a tutti voi Consiglieri, membri di

Giunta e professionali, che ci avete af-

fiancato.

Attraverso le riflessioni di questi ultimi

mesi sono giunto anche alla conclusione

che tutti conoscete, perché non ne ho

mai fatto mistero, di non ripresentare la

mia candidatura per le prossime elezioni

del 19 giugno 2016.

Non sono né stanco né deluso, al contra-

rio sono sereno e orgoglioso del lavoro

svolto, ma sono certo che sia giunto il

momento migliore per facilitare e asse-

condare un tranquillo e democratico ri-

cambio al vertice dell’Unione e ritengo

che abbia un preciso e positivo significa-

to che il ricambio non avvenga sotto la

pressione di fattori esterni, ma per una

mia precisa scelta di chiudere una sta-

gione della mia vita, favorendo un avvi-

cendamento nella continuità e antepo-

nendo così il bene dell’Unione e del-

l’ebraismo italiano a qualsiasi altra con-

siderazione.

Nel redigere questa relazione conclusiva

ho pensato che fosse utile una sintetica

trattazione dei temi che considero at-

tuali nel periodo storico che stiamo at-

traversando. Tutte le Costituzioni degli

Stati democratici sono ispirate e conten-

gono il principio della laicità, inteso co-

me netta separazione tra lo Stato e le

Istituzioni e le organizzazioni confessio-

nali.

In ogni caso una netta distinzione tra

leggi civili e regole religiose, storicamen-

te, si è sempre rivelata la più forte ga-

ranzia per il rispetto dei principi di liber-

tà ed eguaglianza, soprattutto per le mi-

noranze, in quanto nessuna ideologia o

religione può essere privilegiata o sfa-

vorita.

Viene spontaneo domandarci se queste

concezioni della democrazia e della lai-

cità siano ancora attuali di fronte alle

grandi sfide che l’umanità si trova a fron-

teggiare e che derivano dalla coesistenza

all’interno delle stesse entità nazionali e

sovranazionali, di identità, etnie e reli-

gioni che si riconoscono in principi e va-

lori tra loro contrastanti. Se ogni comu-

nità esistente all’interno dello stesso

contesto sociale pretendesse di rimanere

chiusa in sé stessa e tesa a realizzare al

proprio interno una totale omogeneità

di idee e di comportamenti, sarebbe ine-

vitabile un progressivo irrigidimento del-

le posizioni e un’accentuazione dei con-

trasti e dei rischi di conflitto. È necessa-

rio che nelle società contemporanee si

proceda a un aggiornamento di questi

principi; non sembra più sufficiente che

gli Stati garantiscano la libertà e l’egua-

glianza fra i cittadini, si sente la necessità

che si fissino anche le regole e si garan-

tisca la possibilità che tra le varie com-

ponenti si svolga un pacifico e produttivo

scambio culturale. Nel secolo scorso mi-

lioni di ebrei sono emigrati o fuggiti ver-

so l’Europa occidentale, le Americhe ed

Israele divenendo parte integrante e co-

stitutiva di società nelle quali è certo in-

dispensabile conservare la propria iden-

tità, ma anche uscire fisicamente e psi-

cologicamente dai ghetti, imparare a

“L’ebraismo sia sempre d’esempio”

u Da sinistra a destra: il presidente

dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane

Renzo Gattegna al Quirinale con Giorgio

Napolitano e con il suo successore Sergio

Mattarella durante l’ultima edizione del

Giorno della Memoria; in piazza San Pietro

mentre incontra papa Bergoglio assieme a

una delegazione di leader ebraici

internazionali; con il ministro della Cultura

Dario Franceschini; con il rabbino capo del

Commonwealth, Rav Lord Jonathan Sacks,

mentre sfoglia attentamente un numero del

giornale dell’ebraismo italiano Pagine

Ebraiche.

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POLITICA / SOCIETÀ / P3

www.moked.it

pagine ebraiche n. 6 | giugno 2016

che non è ancora completamente debellato.Per noi è opportuno e necessario uscire daiporti, solo apparentemente sicuri, staccarcidagli ormeggi fissi e statici e affrontare co-raggiosamente il mare aperto guidati conprudenza e con saggezza dai nostri Maestri;navigare nel mare aperto può sempre com-portare rischi e riservare sorprese, ma nonesistono alternative se si vuole continuarea partecipare e contribuire, come protago-nisti, all’evoluzione della civiltà contempo-ranea e al tempo stesso riscoprire continua-mente la nostra forza interiore”. “Estremismo e demagogia – ha aggiunto ilPresidente dell’Unione – sono figli dellapaura e si nutrono di banali, arbitrarie e vol-gari semplificazioni, alterano le relazioniumane, inducono al pregiudizio e all’odionei confronti del diverso, stimolano alla con-tinua e perenne ricerca di nemici veri o im-maginari, alla diffidenza verso gli amici, al-l’alterata visione di una realtà sempre e solobianca o nera, senza sfumature”.

convivere, comunicare, integrarsi in so-

cietà libere e aperte nelle quali, in senso

non retorico e non teorico, la varietà è

vera ricchezza e le diverse ideologie, teo-

logie e tradizioni convivono in pace, con

pari dignità e reciproco rispetto. L’ebrai-

smo deve conservare le sue caratteristi-

che originarie di rifiuto di qualsiasi forma

di idolatria e di conciliare rigore e fles-

sibilità, lasciando, come il Talmud inse-

gna, ampi spazi alla dissertazione filoso-

fica, alla ricerca scientifica e alla libertà

di interpretare e sviluppare il dibattito

come valore positivo e irrinunciabile, ri-

spettando le diverse correnti di pensiero,

ma conservando sempre la capacità di ri-

portare tutto all’unità. Le forme di chiu-

sura e ripiegamento in se stessi, adottate

nei secoli scorsi dai nostri antenati per

autodifesa, appaiono superate, inutili e

dannose in un mondo globale nel quale

confini e barriere si sono fortemente af-

fievoliti e non esistono più microcosmi

impenetrabili e incontaminabili. Un fu-

turo dell’ebraismo che sia degno dei suoi

valori universali e delle sue gloriose e

plurimillenarie tradizioni non potrà esi-

stere senza l’uscita da qualsiasi forma di

isolamento, uscita alla quale siamo insi-

stentemente chiamati dalle società con-

temporanee e democratiche nelle quali

viviamo e delle quali siamo parte inte-

grante. Sarebbe un’illusione antistorica,

un errore fatale, la perdita di un’occa-

sione unica, e forse irripetibile, se ci sot-

traessimo all’apertura e al confronto che,

si badi bene, sono cose ben diverse, anzi

opposte, all’assimilazione; sono infatti

prove di fiducia in noi stessi e stimoli al

rafforzamento della nostra cultura e del-

la nostra identità per poter essere all’al-

tezza di qualsiasi sfida o confronto e in

tal modo sconfiggere, una volta per tut-

te, quell’insegnamento del disprezzo che

non è ancora completamente debellato.

Per noi è opportuno e necessario uscire

dai porti, solo apparentemente sicuri,

staccarci dagli ormeggi fissi e statici e

affrontare coraggiosamente il mare

aperto guidati con prudenza e con sag-

gezza dai nostri Maestri; navigare nel

mare aperto può sempre comportare ri-

schi e riservare sorprese, ma non esisto-

no alternative se si vuole continuare a

partecipare e contribuire, come prota-

gonisti, all’evoluzione della civiltà con-

temporanea e al tempo stesso riscoprire

continuamente la nostra forza interiore.

La nostra forza dovrà esprimersi, d’ora

in avanti, indirizzando il nostro popolo

fuori e lontano dai ruoli contraddittori

che chi non ci ama tende da secoli ad at-

tribuirci, di vittime, di sfruttatori, di ar-

roganti e spietati usurpatori. Noi ebrei,

anche sulla base della nostra esperienza

storica, dovremmo rifuggire da qualsiasi

tentazione all’estremismo, alla faziosità,

alla chiusura in noi stessi, all’isolamento

culturale, al verbo unico, ai dogmi; do-

vremmo combattere il fascino insidioso

della demagogia ideologica e verbale, sia

teorica che pratica. Estremismo e dema-

gogia sono figli della paura e si nutrono

di banali, arbitrarie e volgari semplifica-

zioni, alterano le relazioni umane, indu-

cono al pregiudizio e all’odio nei confron-

ti del diverso, stimolano alla continua e

perenne ricerca di nemici veri o imma-

ginari, alla diffidenza verso gli amici, al-

l’alterata visione di una realtà sempre e

solo bianca o nera, senza sfumature.

L’estremismo del linguaggio, l’uso scon-

siderato di provocazioni verbali, non toc-

cano solo aspetti di pura forma perché

producono effetti traumatici e danni rea-

li e concreti, sviluppano la tendenza a

demonizzare non solo gli avversari, ma

spesso anche gli amici se chiedono uno

spazio per il dialogo o una maggiore

apertura.

Se un simile degrado si presentasse fra

noi dovrebbe essere duramente contra-

stato ricordandoci che, secondo le Legge

ebraica, nessuno ha il diritto di affermare

di essere un’autorità suprema deposita-

ria della verità e che nessuno è titolare

del potere assoluto e indiscutibile di ac-

cogliere o di escludere chiunque.

Fondamentalismo e integralismo non so-

no termini equivalenti, anche se frequen-

temente vengono abbinati e confusi.

La differenza emerge chiaramente se si

risale alla loro origine storica ed etimo-

logica. Nonostante le differenze, sia il

fondamentalismo che l’integralismo,

aspirano alla costruzione di società e di

stati teocratici nei quali tutti i poteri, le-

gislativo, esecutivo e giurisdizionale sia-

no ispirati e sottomessi a un solo potere

religioso. Appare ogni giorno più eviden-

te quali siano le drammatiche conse-

guenze che derivano dal rifiuto dei prin-

cipi di democrazia e di laicità dello Stato,

i soli che possono assicurare parità di di-

ritti e dignità fra maggioranze e mino-

ranze, fra credenti e non credenti, fra

cittadini e stranieri.

Non ho la pretesa di aver esaurito gli im-

portanti argomenti che ho appena ac-

cennato ma il mio compito era oggi di

sottoporvi una relazione che contenesse

una sintesi delle linee guida che hanno

ispirato la mia e la nostra azione negli

ultimi quattro o dieci anni e che fossero,

a mio giudizio, ancora validi e attuali per

l’immediato futuro.

Grazie per l’attenzione e la pazienza con

le quali mi avete ascoltato.

foto

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tene

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraiche

Entra nel vivo la competizione per

il prossimo Consiglio dell'Unione del-

le Comunità Ebraiche Italiane, che

sarà eletto in occasione del voto in

programma domenica 19 giugno.

Questo lo scenario: quattro liste in

lizza a Roma, tre a Milano. Scelta tra

più candidati a Trieste, Firenze e Livorno. Espressione

diretta di un proprio rappresentante da parte dei

Consigli di molte altre Comunità. Venti i Consiglieri

che saranno eletti a Roma, dove si presentano le for-

mazioni Menorah, Benè Binah, Kol Israel e Israele sia-

mo noi. “Menorah” schiera Livia Ottolenghi, Livio An-

ticoli, Alan David Baumann, Guido Coen, Claudio Della

Seta, Ugo Di Nola, Alessandro Di Veroli, Letizia Fran-

chetti, Hamos Guetta, Victor Magiar, Fabrizio Manas-

se, David Meghnagi, Emanuele Pace, Piero Piperno,

Daniele Massimo Regard, Fiammetta Segrè, Giovanni

Sermoneta, Dalia Sestieri, Sarah Taieb e Joel Terra-

cina. “Benè Binah” schiera Noemi Di Segni, Fabrizio

Benigno, Sabrina Coen, Fabiana Di Porto, Ivan Fellus,

Jacqueline Fellus, Davide Jona Falco, Lawrence Kay,

Roberto Lehmann, Ariela Massarek, Saul Meghnagi,

Silvia Mosseri, Simona Nacamulli, Eva Ruth Palmieri,

Unione, il 19 giugno al voto

"Bisogna partecipare e considerare l'Unione come propria, più vi-

cina. Anche perché oggi partiamo inevitabilmente da due sfide da

cui dipenderà la sopravvivenza dell'ebraismo italiano: quella de-

mografica e quella, purtroppo, della sicurezza. E non solo: bisogna

rispondere a chi ha sempre disconosciuto l'Unione e vorrebbe ma-

gari imporre un modello di governo non collaborativo". Così Livia

Ottolenghi, già assessore alla Cultura della Comunità ebraica ro-

mana e capolista di Menorah. "Giovane, preparata, motivata" i tre

aggettivi scelti per definire la formazione. "La composizione della

lista parla da sé: sette under 40, sette veterani, undici debuttanti

alle elezioni in Comunità, la più giovane e il meno giovane tra tutti

i candidati. Rappresentanti di tutte le professioni e i mestieri, studenti. Esperienza e

nuove idee. Una squadra di persone diverse - dice Ottolenghi - con un unico intento".

"Dinamica, autorevole, comunicativa" i tre aggettivi per l'Unione del futuro. "Vorremmo

- dice la capolista - che la nuova UCEI fosse dinamica, veloce nelle risposte, che ci con-

tinuasse a rappresentare con voce chiara e autorevole. Una Unione vicina alle Comunità

e a Israele. Vorremmo un rinnovato clima di fiducia, che tutte le comunità conoscessero

a fondo le potenzialità del contributo che Roma può dare. Vorremmo che l'Unione fosse

luogo per nuove occasioni di crescita per tutto l'ebraismo italiano, occasioni di lavoro

nelle Comunità, occasioni di avvicinare gli ebrei che vivono in posti diversi. Competenze

e network, nuove tecnologie e antichi legami".

Partendo dal presupposto che “il nostro punto di riferimento è naturalmente l'ebraismo

ortodosso” Ottolenghi conclude: “Ci sono diverse tradizioni nelle nostre comunità, tutte

importanti, tutte da valorizzare e preservare. Nessuno si deve sentire escluso, anche

chi si è allontanato. Mettiamo al centro del nostro impegno lo spirito di servizio per le

nostre istituzioni e i valori di solidarietà e sostegno reciproci”.

“Rinnoviamo un clima di fiducia”ROMA

“Votare è un meraviglioso strumento democratico, è un diritto

ma anche un dovere di tutti coloro che desiderano esprimere la

loro rappresentanza all'Unione e contribuire allo sviluppo e al ri-

conoscimento del nostro popolo. Andare a votare perché l’istitu-

zione e la politica (anche in ambito ebraico) è 'noi', non un luogo

'loro' o del 'voi'”. È l'invito alla partecipazione della capolista di

Benè Binah, l'attuale assessore al Bilancio e Otto per Mille UCEI

Noemi Di Segni.

“A cominciare dai 18 anni – afferma – votare è segno di parteci-

pazione a uno dei tanti rami del grande albero che è l’ebraismo

intero. L'albero non a caso da noi scelto come simbolo di lista.

Radici che ci tengono saldamente uniti e una grande chioma che infonde nuova linfa e

rinnovamento”. Caratteristiche peculiari di Benè Binah per Di Segni sono l'inclusività,

la propositività e la concretezza.

“Seminare per il futuro”: un concetto che, come è stato spiegato, racchiude quello di

lavorare oggi per vivere in Comunità “accoglienti e sostenibili per il loro futuro, cia-

scuna con il suo patrimonio di tradizioni e cultura” e per un ente di raccordo e supporto

che svolga la sua funzione di “indiscutibile rappresentanza dell’intero ebraismo ita-

liano”.

Per l'Unione che verrà l'auspicio è per un pieno riconoscimento da parte della società

italiana che generi a sua volta un pieno riconoscimento di Israele e della sua realtà;

una proficua interazione tra persone e sensibilità diverse; la sostenibilità dei progetti

e una capacità, da parte dell'ente, di farsi promotore di iniziative che lascino il segno.

Il riferimento valoriale per Benè Binah arriva direttamente dai Salmi (capitolo 1, verso

3): “Sarà come albero piantato lungo corsi d'acqua, che darà frutto a suo tempo e le

sue foglie non cadranno mai; riusciranno tutte le sue opere”.

“Seminiamo insieme per il futuro” ROMA

“Apertura a tutti gli ebrei, al dialogo e al rispetto di tutte le opi-

nioni, alla convivenza in 'mamma comunità' senza l'imposizione

di un pensiero unico, alla società in cui viviamo condividendo i

valori della nostra cultura”. Cobi Benatoff, leader della lista Co-

munità aperta, descrive la battaglia che intende portare avanti

in Consiglio. Una battaglia, sottolinea, "che è vitale per il futuro

dell'ebraismo italiano". “I figli di padre ebreo, riconosciuti come

Semi di Israele o Zera Israel, che frequentano la scuola ebraica,

dovrebbero fare il Bar o Bat Mitzva insieme ai loro compagni. Il

processo di conversione deve essere chiaro e trasparente sulla

durata, sugli adempimenti e sui costi e sopratutto – dice Bena-

toff – su come si evitano traumi inutili su bambini così vulnerabili a paure e sofferen-

ze”. “Sensibile, umana e amorevole” i tre aggettivi per l'UCEI in relazione a questa te-

matica. “Come si può accettare che questi bambini soffrano in un limbo fino alla mag-

giore età religiosa? Non sono considerati ebrei e quindi non possono fruire dei diritti

di chi è ebreo. Ma al tempo stesso non sono considerati neanche non-ebrei e da loro si

pretende l'assunzione delle stesse responsabilità di chi lo è. Se il 'sistema' sottopone i

'nostri' bambini a una tale 'tortura' psicologica ritengo che abbiamo tutti diritto a una

spiegazione. Anche perché – afferma Benatoff – fino a tempi recenti la conversione dei

bambini era una pratica normale”.

“Non ci permettiamo di imporre ai rabbini di essere d'accordo con noi, né che seguano

le nostre indicazioni. Ci aspettiamo però che ascoltino le nostre istanze, i nostri problemi

e le nostre preoccupazioni e che le prendano in considerazione. Ci aspettiamo che ci

spieghino la loro visione del futuro della comunità ebraica italiana e che non si offendano

quando poniamo loro richieste di chiarimento. Tutti i leader devono rispondere del loro

operato. Persino Mosè – conclude – è stato messo continuamente in discussione”.

“Chiediamo ascolto dai rabbini”MILANO MILANO

“Come lista diamo un giudizio complessivamente positivo dell'ope-

rato dell'Unione in questi quattro anni.

“Ma allo stesso tempo, crediamo che l'Unione delle Comunità Ebrai-

che Italiane non dia attualmente una rappresentazione corretta

delle varie anime dell'ebraismo italiano.

“Crediamo che gli organi di autogoverno non stiano funzionando

in modo ottimale. Crediamo che la redistribuzione alle Comunità

ebraiche del gettito proveniente dall’Otto per mille non sia real-

mente efficiente. Questi sono i motivi per votarci il 19 giugno”.

Così si esprime Raffaele Besso, copresidente assieme a Milo Hasbani

della Comunità ebraica di Milano e capolista della formazione Wel-

lcommunity per Israele.

Secondo Besso, i tre aggettivi che definiscono la lista al meglio sono “equilibrata”, “pro-

positiva” ed “etica”.

Equilibrata perché rappresenta “tutto l'ebraismo milanese per fasce d'età, provenienze,

posizioni politiche, livelli di osservanza religiosa”.

Propositiva perché nel programma si descrive “ciò che abbiamo fatto in UCEI in passato,

ma anche ciò che vogliamo fare in futuro”.

Per il Consiglio dell’Unione delle Comunità Ebraiche che uscirà da questa consultazione

elettorale, Raffaele Besso si augura “una maggiore rappresentatività, una gestione più

oculata del gettito Otto per mille, una maggiore sensibilità ai temi che ci stanno a

cuore, come la sopravvivenza delle quattro scuole ebraiche comunitarie italiane, la

difesa a oltranza dello Stato d'Israele e del suo governo, la lotta all'odio e all'antisemi-

tismo”.

Al centro dell'impegno della lista, conclude Raffaele Besso, un valore condiviso: una

forte attenzione all'educazione ebraica.

“Ridefiniamo i criteri distributivi”

u Livia Ottolenghi u Noemi Di Segni

u Cobi Benatoff u Raffaele Besso

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POLITICA / SOCIETÀ / P5

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"Il 19 giugno dobbiamo cambiare e far sentire in maniera autore-

vole la nostra voce, senza delegare ad altri le scelte per il nostro

futuro e quello dei nostri figli. In una frase, bisogna votare per

garantire un futuro ebraico delle nostre Comunità". Così Franca

Formiggini Anav, già presidente degli Asili ebraici, in corsa con la

lista Kol Israel.

"Coesa, competente, per Israele": queste le tre caratteristiche che,

secondo la candidata, definiscono la lista. "Siamo fortemente com-

patti nella visione del futuro e intendiamo cambiare i criteri di

ripartizione delle risorse per favorire l'istruzione. In questo siamo

forti del contributo che ciascuno di noi ha già dato, operando pro

bono in ambito ebraico. Inoltre - afferma Anav - saremo sempre

dalla parte di Israele e in prima linea contro ogni forma di odio".

I tre aggettivi per l'Unione del futuro sono invece "unita, organizzata e moderna".

"Bisogna ora come non mai sanare diffidenze del passato, con iniziative unitarie, ag-

greganti a beneficio di tutte le comunità. Con una metafora, l’innaffiamento a goccia

israeliano" spiega Anav, che è cresciuta tra Bologna, Como, Milano e Roma.

Sul fronte organizzativo, prosegue, "va invece ripensata la struttura interna e gover-

nativa, al fine di ridare al Consiglio poteri decisionali e di indirizzo e ottimizzare le

spese". Per quanto concerne la modernità, l'obiettivo è che l'Unione sia “vicina al futuro,

ai giovani, alle nuove forme di comunicazione, ponte con le start up e le tecnologie

israeliane, educata a non buttare soldi".

Al centro dell'impegno della formazione il seguente concetto: Am Israel Hai (il popolo

di Israele vive). "Vogliamo investire la maggior parte delle risorse nell’ebraismo vivo.

Di qui - sottolinea Anav - la centralità dell’istruzione, che è motore della vita ebraica.

Maimonide diceva: il mondo non si mantiene altro che per il respiro dei bimbi di scuola".

“Portiamo l’istruzione al centro” ROMA

"Spesso si sente dire, e purtroppo questo vale anche per le elezioni

del governo italiano, 'non sarà il mio voto a spostare le cose…

tanto sono tutti uguali…nulla cambierà'. Così ci si abbandona al-

l’indifferenza, e spesso è proprio quella indifferenza a far sì che

non si prenda mai posizione. Votare significa poter decidere, si-

gnifica cambiare".

Ne è convinta Giorgia Calò, attuale assessore alla Cultura della Co-

munità ebraica romana, candidata con la formazione Israele siamo

noi. "Bisogna riflettere sul fatto che il disinteresse verso queste

elezioni - aggiunge Calò - il non voler esercitare il diritto al voto,

non avrà come conseguenza la scomparsa dell’UCEI (non sia mai);

l’UCEI si occuperà comunque della vita degli iscritti alle comunità d’Italia, solo che le

scelte verranno prese da altri e che probabilmente non terranno conto degli interessi

di chi non ha fatto sentire la sua voce quando avrebbe potuto".

La lista di cui fa parte è, per Calò, "ortodossa, giovane e concreta". Ortodossa "come

affermazione delle nostre radici, nelle quali ci riconosciamo totalmente". Giovane perché

"i giovani rappresentano il futuro dell’ebraismo italiano e in quanto tale abbiamo il do-

vere di sostenerli". Concreta perché "siamo prima di tutto tecnici e molto di noi hanno

esperienze amministrative".

Gli aggettivi per l'UCEI del prossimo quadriennio sono invece "inclusiva, dinamica e in-

ternazionale". Inclusiva perché "divisioni, protagonismi, interessi contrapposti non

fanno parte del nostro dna". Dinamica perché "intendiamo lavorare con serietà e in

modo molto pragmatico, per migliorare i servizi agli iscritti, ottimizzando le risorse e

creandone di nuove". Internazionale perché "vogliamo che l’UCEI diventi un punto di

riferimento solido e credibile per i nostri interlocutori nazionali e internazionali: governi,

istituzioni pubbliche e private, ambasciate, mezzi di informazione".

“Lavoriamo per essere inclusivi” ROMA

MILANO

“Serve una partecipazione significativa al voto, così che possano

essere espresse al meglio le idee degli ebrei in Italia. Il voto è es-

senziale per tutti gli iscritti: per chi ha a cuore il futuro ebraico

delle nostre Comunità ma anche per chi si sente estraneo, lontano

o respinto da esse. È un dovere, ma soprattutto un diritto: è l'op-

portunità di esprimere le proprie opinioni su programmi precisi

e diversi. Leggeteli e confrontateli". È l'invito che lancia Milo Ha-

sbani, copresidente della Comunità ebraica di Milano e capolista

del gruppo Milano X l'Unione - L'Unione X Milano.

"Le nostre idee sono dedicate in particolare a tre settori: giovani,

scuola e sicurezza” spiega Hasbani. "Sui giovani, l'idea è di coin-

volgerli maggiormente nel Consiglio UCEI e contemporaneamente di renderli maggior-

mente autonomi con un rilevante sostegno economico”. Anche la scuola al centro degli

obbiettivi, “per valorizzare al meglio risorse e competenze esistenti, offrendo a molti

più studenti di quelli oggi iscritti le scuole ebraiche di viverle come centri di opportunità

e ospitalità”. Sul fronte della sicurezza la sfida è quella di un “coordinamento sempre

maggiore ed efficace” tra addetti ai lavori e referenti.

Competenza, determinazione, positività. Questi, secondo Hasbani, le caratteristiche del

gruppo di cui gli è stata affidata la leadership. Competenza perché “tutti i candidati

hanno esperienza nelle associazioni e nelle organizzazioni ebraiche, con incarichi di

alta responsabilità”. Determinazione perché “crediamo fermamente nell'identità ebraica,

nella condivisione di valori plurimillenari, nel pluralismo delle idee”. Positività perché

“siamo tutti entusiasti e carichi di energie positive”.

L'Unione che uscirà dal voto del prossimo 19 giugno dovrà infine essere, per Hasbani,

“un ente inclusivo, operativo, trasparente”. Un ente soprattutto i cui risultati “possano

essere facilmente misurati”.

“Rendiamo più autonomi i giovani” DonaldHulk

© K

ichk

a

Ha le sem-bianze dell’in-credibile Hulkil candidatorepubblicanoalla CasaBianca, DonaldTrump, dise-gnato da Mi-chel Kichka apochi giornidall’investi-tura ufficialedel partito.Dalla rivaledemocraticaHillary Clintona BenjaminNetanyahu, daBarack Obamaad Abu Mazen:nessunosfugge alla suamatita sfer-zante e iro-nica.

Daniela Pavoncello, Sandro Sermoneta, Giuditta Servi,

Gioia Spizzichino, Claudia Tedeschi e Manuela Terra-

cina. “Kol Israel” schiera Ruth Dureghello, Giovanni

Ascarelli, Settimio Di Porto, Michele Di Veroli, Roberto

Di Veroli, Franca Formiggini Anav, Diletta Funaro,

Rafi Korn, Martina Mieli, Claudio Moscati, Gino Mo-

scati, Yoram Orvieto, Gianluca Pontecorvo, Ruggero

Raccah, Raffaele Sassun, Robert Sassun e Angelo Sed.

“Israele siamo noi” schiera Marco Sed (Yotvata), Gior-

gia Calò, Alberto Ouazana, Alberto Piazza O Sed, Raf-

faele Pace, Giacomo Moscati, Aldo Astrologo, Angelo

Liscia, Barbara Vivanti ed Eliana Pavoncello. Dieci i

Consiglieri che spettano alla Comunità di Milano, dove

si presentano Comunità aperta, Wellcommunity per

Israele e Milano per l'Unione – L'Unione per Milano.

“Comunità aperta” si schiera con capolista Cobi Be-

natoff, e a seguire Joyce Bigio e Alberto Arnaldo Levi.

“Wellcommunity per Israele” con Raffaele Besso e a

seguire Dalia Gubbay, Guido Ascer Guetta, Sara Mo-

dena, Guido Osimo, Davide Riccardo Romano e Raf-

faele Michele Turiel; infine Milano per l’Unione –

L’Unione per Milano” candida Milo Hasbani Kerman-

chahi capolista insieme a Betti Guetta, Avram Hason,

Alberto Jona Falco, Giorgio Mortara e Giorgio Sacer-

doti. Un Consigliere a testa per le altre 19 Comunità:

a Trieste la scelta sarà tra Mauro Tabor e Joram Bas-

san; a Firenze tra Dario Bedarida, Sara Cividalli e Ugo

Caffaz; a Livorno tra Vittorio Mosseri, Daniela Sarfatti

e Daniel Polacco.

(Approfondimento a cura di Adam Smulevich)

u Franca Formiggini

Anav

u Giorgia Calò

u Milo Hasbani

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Piccole e medie comunità. Una ric-

chezza irrinunciabile per l’ebraismo

italiano. Ma facciamo chiarezza. Qua-

le la loro distribuzione sul territorio?

Quale il loro contributo? Quali le sfide

che sono chiamate ad affrontare nel

breve, medio e lungo termine? A ri-

spondere è Davide Romanin Jacur

(immagine in basso), presidente della

Comunità ebraica di Padova e coor-

dinatore della Commissione Bilancio

e Otto per Mille dell’Unione delle Co-

munità Ebraiche Italiane.

“Sono contento - spiega - di averel’occasione di esprimermi su questotema, perché sono convinto che visia un gap di conoscenza. I rappre-sentanti delle cosiddette grandi co-munità spesso si riempiono la boc-ca di asserzioni sulle piccole, madimostrano di non saperne più ditanto. Anzitutto serve una attesta-zione storica: a parte il primo in-sediamento ebraico pre-cristianonella Roma Imperiale, l’origine dellecomunità italiane è molto diversada quasi tutti gli altri siti sparsi peril mondo, dopo la diaspora del 70dC ; nel tardo Medioevo e fino allametà del XIX° secolo, l’attuale Italiaera divisa in tanti Comuni o Signo-rie, ove gli ebrei furono richiamatia svolgere funzioni precluse ad altri,per religione o incapacità. Oggi cisono 21 comunità, ma in passatoce n’erano cento o più: caratteri-stica peculiare e sensibile quindidell’ebraismo italiano da sempre,oltre al rito che non è conosciutoall’estero, è una ampia e capillarediffusione nel territorio; non oc-corre ricordare le grandezze diMantova e Ferrara, la storia di Pa-dova e Venezia, le comunità per-dute del Piemonte, quelle sicilianee pugliesi, mentre ricordo che Mi-lano è invece una comunità giova-

nissima. Ora la situazione demo-grafica è diversa, insidiata dall’as-similazione, prima ancora che dallaShoah; dalla difficoltà matrimonialee di procreazione, prima ancoradell’emigrazione in Eretz Israel; da-gli spostamenti professionali. E cosìle comunità sono diventate piccole.Ma non per questo, i problemi del-le piccole comunità sono diversida quelli delle grandi: anzi, sonoproporzionalmente maggiori. C’èchi dice che oggi ci sia a Roma unamaggior povertà: anche nel restod’Italia la crisi economica ha ab-bassato sensibilmente la redditivitàpro capite, creato nuove povertà,

ridotto le possibilità di richiederecontributi istituzionali e quasi an-nullato le offerte liberali sulle quali,un tempo, le comunità sopravvive-vano. Se gli assistiti sono passatida 4 a 10, è la stessa proporzioneche ci sarebbe a Roma se fosseropassati da 300 a 750. Se 12 personein più sono senza lavoro, è comese a Roma fossero in più di 900. Esi potrebbero fare altri esempi.“Nelle grandi comunità ci sono de-

cine di associazioni, enti, deputa-zioni che si occupano di moltissimedelle funzioni istituzionali di unacomunità, con propri patrimoni,personale e luoghi: nelle piccolebisogna provvedere a tutto, con lemedesime disponibilità, forza lavo-ro e forse un’unica stanza: confe-

renze e convegni ce li paghiamo;non abbiamo una scuola, ma ci pa-ghiamo gli insegnanti di linguaebraica e gli insegnamenti di Tal-mud Torah (oltre ovviamente alrabbino capo); a Padova ho settecimiteri da mantenere, più le spesedelle sepolture, perché sono in pro-prietà, un mikvé e un Museo; altrecomunità hanno sinagoghe sparsein un vasto territorio. Tornando alleproporzioni, se organizzo un Seder

per 70p e r s o n e ,sarebbe co-me se Romalo facesse per5.000. Se porto in vi-sita ai campi di stermi-nio (lo faccio da dodicianni, due o tre volte l’an-no) 150 studenti è come seRoma ne portasse 11.000 (e ionon vado in aereo, ma in corriera,e faccio lezione per dodici ore algiorno per quattro o cinque giornia viaggio); se per il Giorno dellaMemoria facciamo 50 interventi ingiro, è come se a Roma ne faces-sero 3.700. Ci sono i doveri di rap-presentanza nelle manifestazionipubbliche, perché facciamo partedelle cosiddette autorità. E sonosempre le stesse tre o quattro per-sone, in talune comunità una sola.Abbiamo gli stessi problemi di an-tisemitismo e di difesa di Israele,ma in un territorio più vasto: pen-sate a Napoli, che ha tutto il SudItalia. In compenso è nei nostri ter-ritori che raccogliamo la maggiorparte dell’Otto per Mille, direi si-curamente molto grazie al lavoroe alla presenza della nostra comu-nità: anche qui vorrei dire che cisono comunità virtuose, ove il nu-mero delle firme raccolte moltiplicafino a 68 volte (Parma) il numerodegli iscritti; se facessimo propor-zioni, l’ebraismo Italiano non si fer-

m e -r e b b ecerto a 70milafirme, ma (con la media di 11volte delle piccole) raggiunge-rebbe 250mila firme, pari ad un in-cremento di oltre 10 milioni di as-segnazione.Per questa stessa ragione, viceversa,ci risultano estremamente dannosetutte quelle notizie negative cherimbalzano anche in “periferia”: lagente ci ferma per la strada agitan-do il ditino in merito alle vicende-dell’Ospedale Israelitico; oppure cisbeffeggiano per la truffa passiva diMilano; ma molto di più ancora èil danno, quando rimbalzano delleesternazioni ur-late allapancia del-l’elettoratoebraico (esoltanto aquesto scopo),ma che vanno esat-

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Trieste, Firenze e Livorno: candidati a confronto Oltre a Milano e Roma, so-no tre, Trieste, Firenze e Li-vorno, le comunità dovesarà necessario andare al

voto per esprimere ciascuna un Consiglieredell’Unione. A Trieste la sfida è tra MauroTabor e Joram Bassan. “Noi siamo parte dell'UCEI. L'Unione è partedi noi. Non è uno slogan – dice Tabor – maun dato di fatto. Se le medie e piccole comu-nità daranno una risposta forte, partecipandoal voto, il futuro Consiglio non potrà fare ameno di raccoglierne le istanze”. Il futuro del-l'Unione? “Al servizio del futuro ebraico”.

Un voto importante per Trieste, riflette Bas-san, affinché si rafforzi “una connessione tranoi, un'estremità anche geografica, con ilcuore dell'ebraismo italiano". Per il prossimoConsiglio, prosegue, la sfida è anche quelladi un maggiore coordinamento sul piano “fi-nanziario, fiscale e giuridico”. A Firenze in competizione ci sono inveceDario Bedarida, Sara Cividalli e Ugo Caffaz. “È importante votare perché l'UCEI ci rap-presenta, ci tutela, ci sostiene nella nostravita ebraica” sottolinea Bedarida. A suo direserve quindi una Unione sempre più inclusiva“di tutte le comunità, grandi o piccole”.

La sfida principale? “Lavorare secondo unprincipio ebraico di unitarietà, sussidiarietàe sostegno reciproco”. “L’UCEI siamo noi; esprimere il nostro voto,il voto di una piccola comunità significa guar-dare al futuro, credere che insieme alle altreabbiamo molto da poter dare e ricevere” af-ferma Cividalli. “Desidero un'Unione più vi-cina e presente in comu-nità, una Unione che siauna rete composta da seg-menti vivi, ognu-

no con le sue peculiarità, una rete capace didare una nuova spinta all'ebraismo italiano”.“Votare il 19 giugno è fondamentale, affinchétutte e 21 le comunità siano davvero prota-goniste”. È quanto sostiene Ugo Caffaz, cheper l'ebraismo italiano esprime l’auspicio“che ritrovi il suo orgoglio, appunto, di ebrai-smo italiano”. In testa agli obiettivi, il rilanciodelle realtà numericamente più esigue.

Roma

Ancona

Milano

Torino

Genova

Casale

Vercelli

Ferrara

Mantova

Merano

Modena

Verona

Parma

Livorno

Pisa Firenze

Bologna

Padova

VeneziaTrieste

Napoli

“Piccole e medie comunità,mettiamo le carte in tavola”

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POLITICA / SOCIETÀ / P7

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A Livorno si candidano infine Vittorio Mos-seri, Daniela Sarfatti e Daniele Polacco. “Dalvoto mi piacerebbe che uscisse un assettoin grado di supportare in modo efficace lepiccole e medie comunità, che evidentemen-te necessitano di un maggior sostegno” dice

Mosseri. Meno passaggi ci saranno tra UCEIe leadership locali, aggiunge, “più semplicesarà raggiungere dei risultati soddisfacenti”.“Mai come in questo momento di antisemi-tismo, solo apparentemente latente, c'è bi-sogno di trovare una sintesi tra orientamenti

diversi. Dobbiamo imparare a confrontarci,nel rispetto delle reciproche differenze” os-serva Sarfatti. “L'UCEI del futuro dovrà es-sere soprattutto unione, nel senso più auten-tico del termine”. “Serve una UCEI sempre più vicina alle co-

munità” sostiene Polacco. Che per il prossi-mo quadriennio si augura rafforzamento delsociale, impegno sul fronte della casherut erevisione dello Statuto affinché “sia garantitamaggiore partecipazione e alternanza nellaguida delle nostre comunità e dell'UCEI”.

tamente in senso contrario a quan-to noi diciamo nelle nostre confe-renze o lezioni (distinzione tra ebreie governo israeliano, pretese di di-fesa da parte delle forze dell’ordinequando si vuol proporre un’azioneche è dimostrativa, connivenze ocontrasti con i politici e le ammi-nistrazioni, e così via).

Parliamo quindi di Otto per Mille. I

dati citati dimostrano come la stra-

grande maggioranza di chi firma per

l’UCEI sia esterno al mondo ebraico.

E passiamo a un altro punto, su cui

spesso non c’è sufficiente chiarezza.

Come avviene la ripartizione delle ri-

sorse?

Parto da un presupposto. Non par-tecipo agli pseudodibattiti sui socialnetwork, perché non ne ho il tem-

po e mi sono sempre dedi-cato a produrre (sia nel-

la mia professione chenelle cose ebraiche) enon a parlare a van-

vera. Parlandodi Otto

per Mil-le bisogna

c h i a r i r easpetti che so-

no spesso misti-ficati: l’assegnazio-

ne avviene con criteri dilegge molto precisi e in-

dicativi, cui poi bisogna portareequivalenti pezze giustificative (noncerto ad esempio la “perdita di bi-lancio”). Ho già accennato a qualeobiettivo si potrebbe arrivare sel’Italia rispondesse in maniera uni-forme e se l’ebraismo si facesseovunque amare e non criticare: iterritori presidiati dalle piccole co-munità contribuiscono al totale conil 76%. Ma ne ricevono circa il 35%,senza contare le larghe integrazioni,distribuite a parte alle grandi, o tra-mite gli enti o su esigenze speciali.La ripartizione ha avuto una gran-dissima evoluzione e avviene oggisu algoritmi lungamente studiati,discussi e rimodulati nelle commis-sioni, ove si è sempre condivisa unaquadratura, grandi e piccole insie-me: ricordo che la proposta dellavigente ripartizione in ConsiglioUCEI è stata presentata dai Con-siglieri Barbara Pontecorvo e CobiBenatoff e ha ottenuto l’unanimitàdei consensi, compreso il gruppo“Per Israele”. Tra gli elementi fon-danti, mi piace ricordare il criteriodel minimo di sopravvivenza (chesono poi circa 20mila euro) per co-

munità che prima non aveva-no nemmeno i soldi per

un dipendente amezzo tempo (né

rabbino, né segreta-rio); la proporzionalità

inversa sulla “ricchezzapro capite” della comuni-

tà; l’incidenza della capacità autocontributiva pro capite; la propor-zione sul numero di iscritti in etàscolastica. Ecco: a fronte di un pro-blema scuole – che andrebbe peraltro risolto con convenzioni dedi-cate con il Ministero – l’Unione giàripartisce una quota sensibile del-l’Otto per Mille per l’istruzione. Èaltresì chiaro che si può operare sol-tanto con quanto c’è a disposizionee molto di più o di diverso si po-trebbe fare, a fronte di maggiori di-sponibilità; di nuovo, ecco che dob-biamo salvaguardare la raccolta.

Come si pongono le piccole comunità

in relazione alle politiche condotte

dall’UCEI?

Le piccole potranno avere disparatipunti di vista: quel che è certo èche sono fieramente istituzionali.Il primo (nuovo) Consiglio del-l’UCEI invece che potersi avviaree organizzare nel lavoro, è stato

occupato in diatribe e battaglie solocontroproducenti alla possibilità didiscutere contenuti e progetti; leCommissioni erano forse troppe ealcune non hanno lavorato o nonerano investite dal Consiglio di unacapacità quale, fortunatamente, hoavuto in quella che ho coordinato.Però, pur essendo forte il ramma-rico del tempo e delle energie per-duti per nulla, io non considero ne-gativa questa prima esperienza. An-zi mi sento di dover molto ringra-ziare le persone che ormai sappia-mo non faranno più parte del pros-simo Consiglio e che hanno fattoparte della Giunta e del Consigliostesso. Ne sentiremo sicuramentela mancanza.

La formula a 52 Consiglieri del cosid-

detto “parlamentino dell’ebraismo

italiano” è soddisfacente?

C’è chi propone di istituire un Con-siglio formato dai soli presidenti,

chi contesta ancora il mezzo voto.Mi sembrano tutte polemiche inu-tili, forse per far confusione a scopielettorali. Il Consiglio così fatto èstato studiato e formulato nel Con-gresso di sei anni fa, anche dopoun faticoso accordo in cui – pre-senti i Consiglieri Riccardo Pacifici,Guido Osimo, Giorgio Mortara e

David Menasci – fummo noi ad ac-cettare la proposta di Pacifici. Che52 presenti (non è mai successo lofossero contemporaneamente) nonpossano coesistere in un medesimoconsesso è aleatorio, purché vi siail rispetto delle regole di democra-zia e buona educazione e le perso-ne sappiano anche di poter perdereo essere minoranza; non di volersoverchiare gli altri oppure andar-sene e operare per la distruzionedell’istituzione. Si vogliono copiare i peggiori com-portamenti della politica italiana,immaginare grandi strategie conchi sa quali obiettivi, perdendo divista l’unico concetto fondante diessere guida e immagine dell’ebrai-smo Italiano.Se un giorno lo Statuto sarà ancoramodificato (con che figura!) e fattoil “Senato” dei presidenti, intantoperderemmo le importanti mo-mentanee minoranze delle grandi

città (Milano si presenterebbe condue mezzi presidenti?); poi nonvorrei che il passo successivo fossequello di sancire che un presidentevalga molto più di un altro, cheognuno di loro varrebbe quanto gliiscritti relativi, e che si sancissequindi il potere assoluto e unico diRoma. Come ho detto, non corri-sponde alla storia e nemmeno allalogica di raccolta del consenso.Quanto ai mezzi voti mi sono giàespresso allo sfinimento che non ècosì: premesso che non esiste ilmezzo voto, ma un voto “abbinato”(se le due persone sono concordic’è il voto, se fossero discordi ci sa-rebbe l’astensione), la ragione è stataunicamente quella di non avere unConsiglio di oltre 60 persone e ab-biamo la dimostrazione di quattroanni in cui mai si è evidenziato unproblema: gli otto rappresentanti sisono comportati civilmente, sempreconcordando come esprimersi esempre contribuendo ai lavori con-siliari e delle commissioni.

Si tratta di un pensiero condiviso?

Qui parlo a titolo personale e quan-to detto finora non vuol essere unmanifesto. Si sa che tra due ebrei cisono almeno tre o quattro punti divista; che ognuno deve dimostrarela sua personalità e ha bisogno disentirsi parlare. Quindi non possomai dire che sia il pensiero dellepiccole comunità; alcune hannonuovi Consigli e forse esprimerannodiversi delegati. Però, conoscendoe avendo tanto condiviso con gli al-tri, mi sento di poter affermare chesulla linea di Padova ci siano An-cona, Bologna, Casale, Ferrara, Fi-renze, Genova, Mantova, Merano,Napoli, Pisa, Venezia, Vercelli, Ve-rona e forse altri.

Tra i suoi obiettivi c’è quello di diven-

tare presidente dell’Unione?

Assolutamente no e per varie ra-gioni che ho già spiegato a quantimi hanno fatto la stessa domanda.

u Vittorio Mosseri u Daniela Sarfatti u Daniele Polacco u Mauro Tabor u Joram Bassan u Dario Bedarida u Sara Cividalli u Ugo Caffaz

TRIESTE FIRENZE LIVORNO

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Il lavoro, i risultatiú–– Ogni mese tre giornali stampati in tabloid ad alta tiratura (il giornale

dell’ebraismo italiano Pagine Ebraiche, il giornale di cronache comunitarie

Italia Ebraica e il giornale ebraico dei bambini DafDaf).

Tutti gli iscritti alle Comunità ebraiche italiane rag-

giunti assieme a migliaia di abbonati, decision maker

e molte componenti della società civile

ú–– Ogni giorno, con la sola sosta dello Shabbat e delle

solennità ebraiche, nuovi notiziari in rete (sei noti-

ziari quotidiani e settimanali online: Bokertov, per il

commento della rassegna stampa e delle notizie del giorno,

Pagine Ebraiche 24, il notiziario generale di metà giornata, Pagine Ebrai-

che International, il notiziario plurilingue, Sheva Melamed, dedicato al

mondo della scuola e dell’educazione, Sheva Eretz, dedicato alla società

israeliana fuori dagli stereotipi della propaganda e del conflitto, Sheva

Idee, dedicato ai grandi temi del dibattito)

ú–– Portale dell’ebraismo italiano www.moked.it

e sito istituzionale UCEI www.ucei.it

ú–– Rassegna stampa

ú–– Ufficio stampa e assistenza alla Presidenza

ú–– Praticantato giornalistico (otto esperienze di praticantato già convali-

date dall’Ordine dei giornalisti)

ú–– Formazione e corsi di aggiornamento per tutti i giornalisti italiani (la re-

dazione accreditata come ente formatore dai ministeri competenti e

dall’Ordine nazionale dei giornalisti)

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zione aperta; Roma: Etica dell’informazione; Firenze: Economia e mercato

del lavoro; Torino: Jewish State of the Net; Milano: Grafica e creatività)

ú–– Iniziative culturali, interventi e diffusione straordinaria per lo sviluppo

della Community nei grandi appuntamento di raccordo e incontro (Torino

Salone del Libro, Mantova Festivaletteratura, Bologna Children’s Book

Fair, Lucca Comics, Pordenonelegge, Gorizia èStoria, Trento Festival Eco-

nomia, Ferrara Internazionale, Venezia Biennale)

Sheva Melamed, Sheva Eretz, Sheva Idee, ucei.it

Pagine Ebraiche 24,Pagine Ebraiche In-ternational

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Rassegna Stampa

Dialogo aperto con una Community in crescita

1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012

Cosa abbiamo da dirci fra noi? Ecosa abbiamo da dire alla societànel suo complesso? E cosa è dav-vero la Community dell’ebraismoitaliano? E inoltre, quando moltisembrano inclini a gettarsi nellediscussioni più accese per definirecome suddividere le scarse e in-certe risorse disponibili, come in-vece sarebbe possibile garantire lamigliore tutela delle risorse esisten-ti e se possibile accrescerle?

Tutti temi, questi, che rimandanoall’impegno sull’informazione, per-ché è sullo scenario dell’informa-zione che si scaricano molte ten-sioni dell’ebraismo italiano, ma èsempre sullo stesso scenario chesi determina la nostra capacità direagire alle sollecitazioni e di ri-spondere agli interrogativi che ci

provengono dalla società circo-stante. E questo è ancora lo stessoorizzonte, l’unico possibile, doveuna minoranza può sperare di ga-rantire la propria sicurezza e di ac-crescere le risorse disponibili, il fu-turo delle proprie istituzioni.Negli scorsi anni la Communitydell’ebraismo italiano (la compo-

nente della società italiana attentaai valori e alla testimonianza degliebrei italiani) è cresciuta sensibil-mente. E con essa la fascia di pro-tezione attorno a una piccola mi-noranza e le risorse disponibili.Questa crescita è andata per oradi pari passo con una precisa sceltastrategica: disinvestire dalle costo-

sissime campagne pubblicitariecondotte da tutte le realtà socio-religiose per sostenere la raccoltadell’Otto per mille e offrire piut-tosto alla società italiana strumentidi conoscenza e di informazione. La crescita della Community, èovvio, non può rispondere a criterimisurabili con certezza matema-tica, ma leggere il fenomeno conintelligenza e con trasparenza èl’unica strada che abbiamo davanti

Comunicazione, risorse, futuro90

.000

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per capire dove agire e come agire. Stando ai dati di bilancio, circa l’80per cento delle risorse disponibilivengono dalla nostra capacità disviluppare un dialogo con la so-cietà. E queste risorse che l’Unionedelle Comunità Ebraiche Italianeha la responsabilità di raccoglierevengono poi largamente redistri-buite alle realtà comunitarie, tra-ducendosi in un importante van-taggio per tutta la collettività.

POLITICA / SOCIETÀ / P9pagine ebraiche n. 6 | giugno 2016

Comunicare cosa, comunicare perchéú–– Rafforzare l’Unione delle Comunità Ebraiche italiane nel suo ruolo di raccordo

fra le realtà ebraiche italiane e di rappresentanza delle realtà ebraiche ita-

liane nei confronti della società

ú–– Favorire la crescita dell’Unione come editore di testate giornalistiche profes-

sionali e autorevoli

ú–– Favorire la raccolta delle risorse e offrire un punto di contatto con quella

componente della società italiana che guarda con interesse alla realtà ebraica

ú–– Aprire uno spazio comune di incontro e di confronto dove gli ebrei italiani, a

prescindere dal proprio orientamento ideologico, possano sentirsi a casa e li-

beri di esprimersi

ú–– Favorire una conoscenza matura, ma accessibile a tutti, dei grandi temi di in-

teresse ebraico.

ú–– Restituire a Israele la sua dimensione di società viva e aperta e di democrazia di

incomparabile valore respingendo la tendenza a rinchiudere la realtà dello Stato

ebraico nella gabbia e nella prospettiva distorta del conflitto mediorientale

ú–– Portare in campo ebraico lavoro giornalistico professionale, crescita profes-

sionale per i giovani, formazione e aggiornamento professionale per tutti i

giornalisti italiani.

In che quadro si operaú–– Una redazione composta da giornalisti professionisti e operativa a Roma, Milano e

Torino

ú–– Oltre 120 collaboratori volontari e non retribuiti

ú–– Linee guida definite dal Consiglio UCEI che definiscono la strategia editoriale

ú–– Carta dei valori etici per l’informazione ebraica sviluppata con il rabbinato

ú–– Rigorosa adesione all’etica e alla disciplina professionale giornalistica

Il futuro e l’orizzonte dell’informazione televisivaú–– Conferimento all’area Comunicazione di due colleghi e della rubrica Sorgente di Vita

ú–– Sviluppo dei servizi di Ufficio stampa, di sito istituzionale Ucei e di social network

ú–– Valorizzare a tutto campo le professionalità presenti sull’orizzonte televisivo senza

limitarsi ai confini della specifica convenzione Rai-Ucei

ú–– Favorire nell’ambito del personale esistente e soprattutto fra i giovani la forma-

zione di professionalità specifiche nel settore televisivo

ú–– Impegnarsi per incrementare nell’Ente editore consapevolezza e valutazione del ri-

sultato realizzato e sviluppare un confronto strategico che deve necessariamente

mettere in gioco tutte le forze e tutte le competenze su cui l’Unione può contare

DOVE VANNO GLI INVESTIMENTIDA DOVE VENGONO LE ENTRATE quasi tutte le realtà come molti-plicatori della simpatia e del con-senso di tanti altri cittadini. Certoil lavoro sull’informazione non puòda solo sanare tutti i problemi. Maanalizzando i dati a disposizioneè possibile vedere dove e come èstato faticosamente conquistatoterreno. E, a seconda delle nostrescelte, determinare un futuro diprogresso e di sicurezza di cui tuttinoi possiamo essere gli artefici.

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Le linee che fanno da guida al lavoro sull’informazione VALORI

Trasmettere e affermare i valori dell’identItà ebrai-ca, attribuendo al rabbinato italiano un ruolo diautorevole guida spirituale e alle cariche elettivedelle istituzioni ebraiche italiane la responsabilitàdi parlare con autorevolezza e con una voce altae forte alla pubblica opinione e alle Istituzioni delPaese.

CULTURACreare strumenti efficaci e moderni di approfon-dimento e di formazione di cultura e identità ebrai-ca. Diffondere la cultura ebraica, rafforzando laconsapevolezza della presenza della minoranzaebraica nella Penisola sin dall’antichità e la cono-scenza della cultura ebraica da parte della citta-dinanza.

ESSERE EBREIDiffondere l’immagine positiva dell’essere ebreiraccontando l’esperienza gioiosa di chi vive la pro-pria identità come un profondo arricchimento spi-rituale e culturale.

APERTURA ALLA SOCIETÀComunicare con la società circostante in maniera at-tiva ed efficace, raccogliendo il consenso e la solida-rietaà di ampie componenti della popolazione, anchesollecitando la destinazione dell’ottoxmille all’Unionedelle Comunita Ebraiche Italiane. Propagare e far co-noscere i valori sociali ebraici, come l’assistenza e latutela dei diritti delle fasce piu deboli della popola-zione anche sollecitando il contributo del cinquex-mille alle Comunità e alle Istituzioni sociali.

PLURALISMOOffrire opportunita di espressione alla realta ebrai-

ca italiana in tutta la sua complessità e varietà,

favorendo un sereno confronto fra idee, identità

e culture diverse, ponendo come solo confine alla

liberta di espressione il rispetto dell’identità di

ciascuno.

COMUNICAZIONERealizzare mezzi di comunicazione efficaci median-

te un impegno proporzionato e intelligente delle

risorse, utilizzare i mezzi di comunicazione per rac-

cogliere simpatie e risorse.

ORIZZONTI INTERNAZIONALI E ISRAELEConoscere e comunicare con le realtà ebraiche di

tutto il mondo, a cominciare da Israele, Stati Uniti

e principali comunita europee. Controbattere alla

politica dei mass media tesa a rappresentare di

Israele un volto esclusivamente e perennemente

conflittuale, esaltandone la vera realtà, fatta di

società civile, di cultura, di economia, di ricerca,

di tutela alle categorie piu deboli, di capacita di

integrazione fra persone diverse per origine e pro-

venienza geografica. Raccordarsi con la comunita

degli italiani in Israele, sviluppando progetti co-

muni e mantenendo un dialogo fatto di compren-

sione e solidarietà costantemente aperto.

STORIA E MEMORIAFavorire la conoscenza della storia ebraica, non

come materia accademica, ma come strumento in-

dispensabile per la conoscenza della realta con-

temporanea. Riaffermare la Memoria in quanto va-

lore ebraico di vigile e attiva testimonianza e la

Shoah come monito per la salvaguardia dei diritti

di tutti.

LAICITÀ E TUTELA DELLE MINORANZEDifendere e rafforzare i diritti civili e coltivare

strategie comuni con le altre minoranze. Difendere

la laicitaà dello Stato e delle istituzioni, la libertà

d’espressione e di ricerca, la separazione fra poteri

politici e poteri spirituali e gli equilibri costituzio-

nali che caratterizzano le societa democratiche.

INTEGRAZIONE E RISPETTO DELLE REGOLERiaffermare il ruolo della minoranza ebraica come

sigillo di garanzia e contributo essenziale per co-

struire una societa aperta, solidale, giusta. Ma con-

temporaneamente dimostrare ed esigere il più ri-

goroso rispetto delle regole del vivere comune e

delle leggi vigenti.

GIOVANIOffrire ai giovani ebrei italiani spazio di espressione

e di confronto e una visione positiva e consapevole

della vita ebraica. Dare spazio a nuove forme

espressive piu vicine alla loro sensibilita.

(Livorno – Consiglio dell’Unione delle Comunita Ebraiche Italiane - 15 marzo 2009)

Imposte e tasse

Istituzionale e degli Organi Ucei

Esterna sul territorio

Commerciale

Per le Comunità

Rendite patrimoniali

Commerciale (Pubblicità, etc.)

Contributi comunità

Contributi altri enti

Collettività (8x1000)

Certo l’immagine di una minoran-za è una complessa alchimia di fat-tori. Può essere incentivata, o an-

che irrimediabilmente danneggiata,a seconda della credibilità o dellamoralità dei comportamenti dei

singoli e delle istituzioni. Lo sannobene gli ebrei italiani che nel loroimpegno quotidiano agiscono in

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/ P10 INTERVISTA

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraiche

Il teatro, e l'opera, una passione cheviene dalle origini italiane, ma anchescuole, istituti di ricerca e università.Sono tanti gli enti che hanno ricevutodonazioni anche molto consistenti daAndrea Viterbi, l'ingegnere figlio diitaliani rifugiatisi in America persfuggire alle leggi razziste del '38.Nel Nuovo Mondo ha avuto un suc-cesso tale da essere diventato argo-mento di una domanda di TrivialPursuit, il gioco in cui ci si misurasull'abilità nel rispondere a domandedi cultura generale. Nato a Bergamonel 1935, racconta sorridendo di avervissuto solo quattro anni in Italia, dabambino. “Sembra pochissimo, se sipensa che sono in America da settan-tasette, ma venivamo tutti gli anni, epoi ora mi sento trascinato a tornarealle radici”. Nel sentirlo raccontarecon voce pacata e sorridente emergonotracce che rimandano all'inizio delNovecento, a partire dall'italiano im-peccabile. È una lingua rimasta simile

a quella dei genitori: il padre Achille,nato a Mantova nel 1881, oftalmo-logo, e la madre, Maria Luria, cheproveniva da Casale Monferrato. Rac-conta delle difficoltà iniziali, a“Nuova York”, poi della vita a Bo-ston, e a “San Francisco”, pronun-ciato così come si scrive. Ma è lascuola che ha frequentato a Bostonquella che più pare aver influenzato ilsuo approccio allo studio e forse anchela scelta di finanziare istituzioni edu-cative. Negli appunti presi nel 2000proprio in occasione di una campagnadi raccolta fondi per la sua vecchiascuola, la Boston Latin, si legge:“Quello che ricordo meglio, e che mi è

più caro dell'educazione ricevuta allaLatin school cinquanta anni fa è chemi ha insegnato come studiare. Conqueste parole intendo dire che mi hadato le motivazioni per assimilare co-noscenza, per organizzarla e soprat-tutto per comprenderla”. In unaintervista del 2012, rilasciata al SanDiego Union - Tribune, si era definito“un capitalista riluttante”, prima dispiegare che “Il divario tra ricchi e po-veri, tra lo stipendio degli ammini-stratori delegati e dei dipendenti èosceno, e lo dico anche se alcuni tra imiei migliori amici sono amministra-tori delegati e io stesso sono stato inquella posizione, ma è diventato il

problema principale di questo paese. Eil problema principale in campo tecno-logico è che non facciamo abbastanzaper l'educazione e l'istruzione e nonabbiamo abbastanza rispetto e inte-resse per le scienze e la tecnologia”.Così, forte del rispetto guadagnato inanni di carriera, ha investito in forma-zione: la University of Southern Cali-fornia, dove dopo la laurea all'MIT haconcluso il suo PhD in Digital Com-munication, ha ora una “Andrew andErna Viterbi school of engineering”,sostenuta con donazioni di alcune de-cine di milioni di dollari, ma c'è ancheuna “Andrew and Erna Viterbi Fa-culty of Electrical Engineering” al Te-chnion, a rafforzare il legame conIsraele dove si sente a suo agio almenoquanto in Italia, e con cui collabora daalmeno cinquant'anni. Ma ha anchefinanziato i viaggi studio ad Au-schwitz di un liceo di Bergamo, chearrivavano a conclusione di percorsidi approfondimento sulla Shoah, e più

ú–– Daniel Reichel

La Meghillat Ester, il libro che silegge durante la festa di Purim eche racconta le vicende della re-gina Ester, è uno dei libri più al-lusivi e misteriosi della tradizioneebraica. Un testo in codice, spie-gava su queste pagine rav RiccardoDi Segni, e come tale va decodifi-cato. Sin dal suo titolo che può es-sere interpretato e tradotto come“rivelazione del segreto”. Curiosa-mente, proprio durante una festadi Purim, circa mezzo secolo fa,un ingegnere ebreo di origini ita-liane rivoluzionò la storia delle co-municazioni con la sua rivelazionescientifica: l'intuizione? Un algo-ritmo che permette di decodificarevelocemente un segnale digitale econsente ancora oggi di prevenirele interferenze nelle comunicazionitra milioni di cellulari. A formu-larlo, Andrew Viterbi. Da qui, l'al-goritmo Viterbi. “L'ho capito, l'horisolto!”, le parole pronunciate insinagoga dopo la scoperta, comericorderà il figlio Alan in un'inter-vista. Mentre i figli, in quel lontano1967, partecipavano a una gara inmaschera per Purim, Viterbi infattiriempiva di formule un foglio. Ecosì prese forma la rivelazione cheha segnato l'evoluzione delle tele-comunicazioni dall’analogico al di-gitale. “Se non ci fossi arrivato io,l'avrebbe fatto qualcun altro”, spie-ga sorridendo a Pagine Ebraiche.Il suo italiano è fluente con un ac-cento americano non così pronun-ciato come ci si aspetterebbe dachi fu costretto a lasciare l'Italia asoli quattro anni a causa delle leggirazziste del 1938. La sua famigliainfatti abbandonò Bergamo per gliStates nell'agosto del 1939, appenaprima dello scoppio del secondoconflitto mondiale. Nonostante ledifficoltà iniziali, l'arrivo da profu-ghi in un paese straniero, AndrewViterbi ha costruito attraverso ilsuo amore per la scienza, e per l'in-gegneria elettronica in particolare,una carriera che si potrebbe rias-sumere nella realizzazione del so-gno americano: non solo ha sco-perto l'algoritmo che porta il suonome ma è diventato un impren-ditore dal successo planetario gra-zie in particolare alla Qualcomm,multinazionale delle telecomuni-cazioni che fattura diversi miliardidi dollari l'anno. Come ha dettoPeretz Lavie, presidente del Te-chnion di Haifa – una delle uni-

versità su cui Viterbi riversa il suoimpegno filantropico e il cui corsodi ingegneria elettronica è dedicatoa lui e sua moglie Erna – AndrewViterbi colpisce per la sua umanità,per la sua aria rassicurante e pa-terna, nonostante sia un uomo distraordinario successo. PagineEbraiche ha cercato di conoscerenon tanto la sua biografia, su cuisono stati scritti libri e fatti docu-mentari, quanto la sua visione del-l'America, della ricerca, di come

si è evoluto il mondo del lavoroe delle comunicazioni.

Lei è arrivato negli Stati Uniti da pro-

fugo. Addirittura dopo l'entrata in

guerra degli americani, la sua fami-

glia, in quanto italiana, era conside-

rata “nemico straniero”. Ma nono-

stante tutto è riuscito a costruirsi

una brillante carriera. Nell'America

di oggi questo potrebbe succedere?

Questo non lo so. So che gli StatiUniti sono cambiati moltissimo da

allora. Io arri-vai a quattro anni, ci misi alcunimesi ad imparare la lingua. Ri-cordo di aver avuto una maestrasevera e poco tollerante. Ma do-po poco padroneggiavo la lingua.Oggi c'è questo terribile sistemadell'“English as a second language”.Si fanno lezioni speciali in spagno-lo per i latinoamericani. Ma così si

rischia di tenerli in un ghetto in-tellettuale. La padronanza della lin-gua è fondamentale per un bam-bino e per la sua crescita. Per lasua integrazione. E non è che untempo le cose fossero facili: quandoparlavo in italiano con mio padre,per le vie di Boston, ricordo glisguardi diffidenti. In più vi era unpregiudizio anche sugli ebrei, a cuidiverse università erano precluse.

A proposito di università. Lei ha fre-

quentato il Mit, è diventato ingegne-

re in elettronica, materia che ha poi

insegnato all'università...

Ed è stato proprio attraverso l'in-segnamento che sono arrivato

a scoprire qulla formula chesarebbe diventata famosa.

Volevo spiegare ai mieistudenti la teoria del-

l'informazione ma cer-cavo un modo più sem-plice per farlo e così so-

no arrivato all'algoritmo.

Ma non lo brevettò. Un primo

modello di opensource?

Non proprio. Ci informammoma l'avvocato ci disse che sarebbestato troppo costoso farlo. E alloranon si poteva immaginarne un cosìampio uso. Ma non sono pentito.Anche perché in questo modo è

Nato a Bergamo il 9 marzo del 1935, Andrea Viterbi è diventato uno dei volti della rivo-luzione digitale, a partire dalla famosa scoperta dell’algoritmo che porta il suo nome fi-no alla fondazione assieme ad alcuni colleghi di ingegneria elettronica (materia di cuisarà docente alla University of California) del gigante delle telecomunicazioni Qual-comm. Innumerevoli i premi e le lauree ricevute negli Stati Uniti e nel mondo: dalla me-daglia “Alexander Graham Bell” dell’IEEE nel 1984 al “Marconi International FellowshipAward” nel 1990, fino alla National Medal of Science, onorificenza assegnatagli dal pre-sidente degli Stati Uniti d'America nel 2011. In Italia, nel 2001, il Presidente della Repub-blica lo ha nominato “Grande Ufficiale della Repubblica”. Viterbi è stato inoltre insignitodella Laurea Honoris Causa dalle università del Technion di Haifa, il cui corso di ingegne-ria elettronica porta il suo nome e quello della moglie Erna Finci.Per la sua competenza tecnologica è stato chiamato a far parte deiconsiglieri per le telecomunicazioni dell’ex presidente degli StatiUniti Bill Clinton. Ritiratosi dall’industria, Viterbi si è dedicato inparticolar modo alla filantropia, attraverso la Viterbi FamilyFoundation. La fondazione ha elargito una somma significati-va anche alla facoltà di Ingegneria della University ofSouthern California, anche questa intitolata ai coniugiViterbi in segno di riconoscimento.

“È la passione che muove la scienza” Padre dell’algoritmo che ha rivoluzionato le comunicazioni, Andrea Viterbi spiega cosa frena oggi la ricerca

u L’imprenditore e ingegnere

Andrea Viterbi con la moglie Erna,

scomparsa nel 2015. Assieme si

sono dedicati all’impegno

filantropico a sostegno di diverse

istituzioni nel mondo, da Israele

agli Stati Uniti. E in Italia.

Il grande cuore di un capitalista riluttanteGi

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berti

ni

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INTERVISTA / P11

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pagine ebraiche n. 6 | giugno 2016

ú– DONNE DA VICINO

LiciaLicia Mattioli è una creatrice di gio-ielli da poco sbarcata in Kikar haMe-dina a Tel Aviv con le sue esclusivecollezioni.Avvocato per formazione, imprendi-trice per vocazione, vent’anni fa,con il papà Luciano, ha comprato ilpiù antico laboratorio orafo artigia-nale di Torino. L’azienda era titolaredel primo punzone rilasciato dallacittà, lo storico 1TO, e specializzatanella lavorazione dell’oro a ciclocompleto: dalla fusione del lingottoal pezzo finito. Licia, energica e de-terminata, ha avviato un radicaleprocesso di rinnovamento dell’An-tica Ditta Marchisio facendola di-ventare rapidamente il cuorepulsante di un brand di grande suc-cesso presente in 30 paesi.

Il marchio che porta il suo nome rac-conta un’anima mediterranea, pro-pone distillati di colori e saporitrasmessi dalla mamma. Legni dipregio, coralli, madreperle, gemmecolorate, oro rosa, platino e natural-mente diamanti vengono reinterpre-tati, diventano design, con l’utilizzodelle tecnologie più evolute e il meti-coloso lavoro dei maestri orafi. L’entusiasmo e la caparbietà con cuiLicia affronta il proprio incarico de-terminano, nel corso degli anni, im-portanti partnership con grandifirme internazionali e le valgono, tragli altri, il ruolo di presidente del-l’Unione Industriale di Torino e diFederorafi, l’associazione che riuni-sce le imprese italiane del settore. Inentrambi i casi nessuna donnaaveva mai raggiunto una simile po-sizione. Oggi è anche presidente delcomitato tecnico per l’internaziona-lizzazione degli investitori esteri diConfindustria.Israele è una fonte d’ispirazione,dice Licia, un crogiolo di esperienze,di dettagli, di luci, che offrono ideeper anelli, braccialetti, ciondoli e so-prattutto collane. Nascono allorapiccole storie tradotte nel preziosolinguaggio della gioielleria. “Il miospirito giocoso crea gioielli che sitrasformano sostituendo un ele-mento o combinando insieme pezzidiversi così da personalizzare il lookin base al momento, all’occasione, oal semplice capriccio.”

ú–– Claudia De BenedettiConsiglieredell’Unionedelle ComunitàEbraiche Italiane

recentemente ha scelto insieme allamoglie Erna di sostenere in memoriadel figlio Alexander una scuola per learti in Israele a Sha’ar Hanegev, apochi chilometri dal confine con Gaza,che ora si chiama Alexander JosephViterbi Art Center. E più recente-mente, questa volta in memoria diErna, mancata lo scorso anno, ha fatto

una ulteriore donazione all'OldGlobe, il teatro di San Diego che oraha un “Erna Finci Viterbi ArtisticDirector Fund”. E proprio la storia diErna, nata a Sarajevo, ha addolcito al-meno parzialmente l'amarezza difondo nei confronti dell'Italia, che sipercepisce quando racconta della suastoria, un'amarezza ereditata dalla

sofferenza dei suoi genitori (suo padreripeteva “Per gli italiani siamo ebrei,e per gli ebrei, qui, siamo italiani”).Un sentimento che è ammorbidito dalsovrapporsi dei ricordi successivi edal legame forte con la famiglia ita-liana, con “i cugini”, con cui il rap-porto è rimasto forte e costante, anchegrazie ai tanti viaggi. La famiglia di

Erna, invece, in Italia aveva trovatoun rifugio anche se temporaneo e pre-cario. alla fine del '41, in un piccolopaese della Bassa Parmense, Grami-gnazzo di Sissa. Parlavano serbo-croato e ladino, e la loro situazione di“internati civili di guerra” li aveva ineffetti protetti e fatti arrivare in unluogo ben più sicuro dell'originariaSarajevo. Ricordi positivi, con amici evicini che li aiutarono e protesseroquando arrivò il momento di fuggireanche dall'Italia, verso la Svizzera,che il Cdec, il Centro di Documenta-zione Ebraica Contemporanea di Mi-lano ha raccolto. E proprio il Centronegli anni è stato sostenuto dai Vi-terbi, e una ulteriore grande dona-zione arrivata in questi giornipermetterà di portare alla pubblica-zione Memorie della salvezza, ilvolume curato da Liliana Picciottoche raccoglie anche la storia di ErnaFinci Viterbi, a saldare un legameprofondo e forte con l'Italia. Nonostante tutto.

a.t.twitter @atrevesmoked

stato ulteriormente sviluppato.

Lei che ha contribuito a rivoluziona-

re il mondo digitale, come vede

l'evoluzione di internet, l'avvento

dei grandi imperi di Google e Face-

book?

Come ha detto Thomas Friedman,il mondo è tornato piatto. Con laglobalizzazione portata dalle tec-nologie del web, chiunque puòcollaborare e fare affari con qual-siasi persona o società in tutto ilmondo. Un mondo “ugualizzato”in cui però il costo della manodo-

pera non professionale si è abbas-sato e molto. Qui il cambiamentoè sociologico e ancora non sap-piamo come farvi fronte. Su Face-book: non credo che Zuckerbergpossa essere un modello, la suaidea è nata un po' per caso. Oggipoi il mondo delle start up, del-l'innovazione è improntato tropposull'idea del profitto, sulla mone-tizzazione.

E prima non era così?

Si respirava di più la passione perla scienza. Il desiderio di mettersi

alla prova, il traguardo era la sco-perta stessa e solo dopo il profittoche poteva derivarne. Bisognerebbe recuperare quell'aria.Ricordo quando i russi lanciaronoSputnik, gli Stati Uniti virarono dicolpo i loro investimenti e si iniziòa lavorare sullo spazio. Erano annicarichi di entusiasmo.

La sua passione per la scienza e per

l'ingegneria elettronica in particola-

re, l'ha portata ha vincere alcuni dei

più prestigiosi premi nel suo campo

e soprattutto a sostenere università

come il Mit o il Technion di Haifa. Co-

me vede gli investimenti sulla ricerca

tecnologica?

In passato, negli Stati Uniti, era ilsettore della difesa a investire mol-to in questo settore. Così è ancora oggi in Israele. Inogni caso, credo che dovrebberoessere potenziati i finanziamentima anche che sia importante, ne-cessario anzi fare un lavoro dalbasso sin dalle scuole primarie,per spingere i bambini ad appas-sionarsi alle scienze e alla mate-matica.

Gior

gio

Albe

rtini

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/ P12 ERETZ

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraiche

Dopo David Ben-Gurion, il Primoministro rimasto più a lungo in ca-rica alla guida d’Israele è l’attualePremier Benjamin Netanyahu.Dieci anni e tre mesi (13 anni e112 giorni per Ben Gurion). SeNetanyahu dovesse rimanere incarica fino alla scadenza naturaledel suo mandato (novembre 2019),supererebbe persino uno dei sim-boli del Paese, stabilendo un re-cord in una democrazia caratte-rizzata da governi instabili e da nu-merosi ritorni alle urne. La longe-vità politica di Netanyahu, a capodel Likud (partito della destraisraeliana), è un dato da tenere inconto, sottolineano gli analisti, allaluce di quanto successo di recente:nessuno si aspettava l’avvicenda-mento deciso dal Premier al Mi-nistero della Difesa. Nessuno pensava che Moshe Yaa-lon, considerato a lungo uno stret-to alleato di Netanyahu, sarebbestato sostituito da Avigdor Lieber-man, ex braccio destro del Premierpoi però uscito dalla coalizione ediventato uno dei più aspri criticidel leader del Likud. E invece è arrivato il coup de théâ-tre: l’ultranazionalista Lieberman,fondatore del partito Israel Beitenu,torna al governo e lo fa dalla portaprincipale, ottenendo uno dei mi-nisteri più prestigiosi del Paese. In

dote porta i suoi sei seggi allaKnesset, rafforzando così la mag-gioranza che fino ad ora poggiavasu un solo voto (la coalizione, sen-za Lieberman, contava 61 seggi su120). Se matematicamente la mos-sa di Netanyahu è comprensibile,molti opinionisti israeliani mettonoin luce come la scelta di far entrare

Lieberman potrebbe ritorcersi con-tro di lui. Mettendo addirittura arischio la sua longevità politica.Secondo Israel Hayom, quotidianodalle posizioni vicine al Premier,la riconciliazione con Liebermanè la scelta più coerente: i due siconoscono, sono stati in passatoalleati e sono entrambi di destra.

Un’apertura a sinistra e l’entratadei laburisti in una grande coali-zione, secondo il giornale, non sa-rebbe stata una scelta opportunaseppur lo stesso Netanyahu sem-brava aver quasi concluso un ac-cordo con il leader del Labourisraeliano Isaac Herzog. Troppi i paletti posti da quest’ul-

timo, la tesi del quotidiano che, inun editoriale a firma di Mati Tu-chfeld, sostiene che l’avvicenda-mento alla Difesa non sarebbe sta-to un tradimento nei confronti diYaalon: “Ha già abbastanza fotocon generali e il momento di farnecon presidenti e capi di stato”, scri-ve Tuchfeld, sostenendo quanto

IL COMMENTO ESTREMISMI, LA PAZIENZA NON È INFINITA

Quand'è che la difesa dell’identità di-venta razzismo? Sul dove mettereesattamente il punto di demarcazione

si può essere in disaccordo: l’ebrai-smo, del resto, è un sistema di pen-siero che bene insegna come alcunivalori possano essere in tensione traloro senza necessariamente essere in-

compatibili; e il tema dei matrimonimisti è un terreno dove questa ten-sione è particolarmente evidente. Daun lato la famiglia ebraica come va-lore da perseguire, dall’altro il ri-

spetto e l’inclusione dell’altro, anchequesto un grande valore ebraico:come convivono tra loro questi dueelementi? Naturalmente non tutticoloro che si oppongono ai matrimoni

misti sono necessariamente razzisti,specie quando lo fanno con i dovutitoni civili e senza indicare con di-sprezzo i non ebrei. Credo però cheesistano pochi dubbi sul fatto che Le-

ANNA MOMIGLIANO

Cambio in corsa, la scelta di Bibi

“Dateci un taglio con ste idiozie”.

Con questa frase (a dire il vero

più colorita) il ministro della Cul-

tura israeliano Miri Siboni Regev

qualche mese fa si era presenta-

ta al pubblico dell'annuale con-

ferenza organizzata da Haaretz,

giornale progressista simbolo del

mondo intellettuale ashkenazita

d'Israele. Una frase, quella della

Regev, che voleva essere un atto

d'accusa contro l'intellighenzia

appunto ashkenazita, rea di aver

escluso e discriminato per decen-

ni la cultura mizrachi, ovvero di

tutto quel mondo ebraico medio-

rientale e del Nord Africa arriva-

to dopo la nascita dello Stato

ebraico. “Mentre l'altra cultura,

esclusa e silenziata per anni chie-

deva indipendenza, voi che più

di tutti avreste dovuto portare

avanti la loro bandiera nel nome

del pluralismo e dell'accettazione

dell'altro, voi avete deciso di

ignorarla. Quando ho iniziato a

distribuire i finanziamenti alla

cultura a coloro che non erano

vostri amici – sono diventata il

nemico della cultura indipenden-

te”, le dure parole di Regev, che

aveva sollevato le proteste di at-

tori e registi soprattutto per la

sua intenzione di distribuire i fi-

nanziamenti ai teatri “sulla base

dei contenuti ideologici delle

rappresentazioni”, come ricorda-

va su queste pagine Sergio Della

Pergola. Ma al di là delle inten-

zioni censorie della Regev, i temi

che solleva, l'ancora attuale di-

sparità tra mondo ashkenazita e

misrachi in Israele, sono reali.

Spiegarlo al pubblico di Haaretz,

anche con toni forti, sarebbe sta-

to utile, sottolineava Lior

Schlein, conduttore del program-

ma satirico Gav Hauma. Regev ha

La rinascita dell’ebraico parlato,scrivevamo nel mese scorso, hafatto sì che il sionismo fosse nonsoltanto una conquista politica ma,anzitutto, identitaria. Se il lavoromanuale emancipava l’ebreo dia-sporico da un modello sociale che,per differenti ragioni storiche, loaveva caratterizzato nei secoli,l’esercizio quotidiano dell’ebraico,permetteva a tutti gli olim hada-shim, che lavorassero nei kibbut-zim o che formassero la nuovaborghesia professionale, di costrui-re un’identità ebraica fuori dalleyeshivot, dalle spinte assimilazio-niste e in opposizione anche aquella di lingua yiddish sostenutadal Bund. Cos’è stato, invece, ilsionismo per l’ebraismo medio-rientale e nordafricano? Superatala confusione tra sefarditi e mizra-

him intendiamo concentrarci suquesti ultimi. Si potrà rispondereche il sionismo ha rappresentatoper loro l’emancipazione dalla con-dizione di dhimmi, prospettiva chetuttavia deve essere indagata incampo storico. Ciò che qui inte-ressa domandare è, piuttosto, checosa abbia rappresentato per lorol’ingresso nel processo di costru-zione del ‘nuovo ebreo’, e, specu-larmente, cosa abbia significato peril sionismo fare i conti con l’ebrai-smo orientale. Il sionismo, comedice Yehoshua, non è un’ideologia,e ciò significa che l’emancipazioneidentitaria da esso veicolata è unfenomeno reale, dunque eteroge-neo e necessariamente contraddit-torio. Come noto le forze laburisteun tempo egemoni in Israele nonhanno mai realmente conquistato

la fiducia dei nuovi immigrati daipaesi islamici. È questo un puntodi frattura non ancora sanato e chedivide una sinistra laica, di marcaper lo più ashkenazita, dalla po-polazione mizrahi di estrazioneprevalentemente popolare. Così igiovani telavivim progressisti e co-

smopoliti, come noto, si sentonosempre più vicini ai coetanei diBerlino, mentre i giovani mizrahimsi trovano, in senso stretto e lato,spinti verso la periferia. Pure la pe-riferia mizrahi, proprio perché piùlontana dagli standard occidentali,può riconciliare il sionismo con il

Shlomi e il canto che sale dalle periferie

Al di là degli slogan, cosa chiedono i Misrachim

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preferito lo scontro, l'irrisione e

i presenti non hanno gradito.

“Avrebbe dovuto ricordare loro

che ancora oggi gli stipendi medi

dei lavoratori ashekaniziti sono

superiori del 25 per

cento rispetto a quel-

li dei mizrachim” ri-

marcava Schlein, sug-

gerendo una nuova

versione del discorso

che la Regev avrebbe

dovuto pronunciare

“alle élite di Haaretz”.

“All'università solo uno studente

su quattro è mizrachi – prosegui-

va il comico, tra una battuta e

una analisi reale della situazione

– solo il 9 per cento dei docenti

ha origine misrachi, il 90 per cen-

to dei giudici è ashkenazita”. E

ancora “i direttori dei teatri sono

tutti ashkenaziti”. “Ci sono gran-

di attori a teatro misrachi ma so-

no appunto quelli

più straordinari che

riescono a trovare

spazio - continuava

Schlein, lui stesso

parte del mondo

ashkenazita di Tel

Aviv – La vera ugua-

glianza l'avremo

quando gli attori mediocri misra-

chim avranno le stesse opportu-

nità dei mediocri attori ashkena-

ziti”. È ora di darci un taglio, con

le volgarità e le diseguaglianze.

Medio Oriente delle radici, dive-nendo condizione per un più na-turale incontro tra concittadiniebrei e arabi. Questi termini po-tranno forse apparire ideologici.Alcune delle poesie di Shlomi Ha-tuka, cui lasceremo ora la parola,mostrano – al contrario – cometali questioni siano presenti nel vis-suto quotidiano di un giovaneisraeliano di origine yemenita. Ha-tuka sente, letteralmente, sulla pro-pria pelle, la portata concreta ditali problemi che da astratti e sche-matici si fanno quindi singolari edesistenziali. L’israeliano ed ebreoHatuka è anche il giovane yeme-nita dai tratti così differenti daquelli del coetaneo ashkenazita.La differenza non è rivendicata daHatuka contro Israel ma, pur connote sofferte, graffianti, a volte pro-vocatorie, per e in nome di Israel,il quale può scoprirsi forte in que-sta assenza di omogeneità, come

già la tradizione, a partire dallasimbolica ruotante attorno alle 12tribù, insegna.

Abbiamo letto la tua opera prima Mi-

zrach yareach (Oriente luna), uscita

di recente, ma prima di entrare nel

merito del libro, vorremo sapere

qualcosa di te.

Sono cresciuto in un ambiente os-servante, da genitori yemeniti. Hofrequentato prevalentemente scuo-le religiose, per lo più di stamposionista ashkenazita. Però quel mo-do di intendere la religione eramolto diverso da quello che vivevoin casa. Gli yemeniti sono di solitomolto osservanti ma con una gran-de naturalezza e in armonia conla vita, non è una religiosità dico-tomica, fatta di sì e no, di biancoe nero. In un certo senso è difficilescorgere dove finisce il mondo edove comincia la religione. Nellescuole dove ho studiato, invece,

l'approccio era differente, c'era ilpermesso e il vietato, e si può direche tutto il mondo esterno fossein un certo qual modo vietato, apartire dalla cultura laica. Da unaparte sono stato affascinato da testiantichi e meravigliosi, la Torah ela Gemara, che ho amato profon-damente e che hanno anche in-fluenzato la mia scrittura, ma dal-l'altra parte è stata un'istruzionemolto, molto problematica, intrisadi ideologia. Alla fine mi ha lascia-to con più dubbi che risposte e hosemplicemente deciso che non eraquella la mia via, anche se nel pro-fondo mi vedo ancora come unoche cerca di capire il significatodella Torah nell'ebraismo. Ho ini-ziato a scrivere molto giovane, in-fluenzato dalle mie letture, ma erauna scrittura acerba, di cui ho con-servato solo poche poesie. Verso ivent'anni ho messo tutto questoun po' da parte e ho semplicemen-

te esperito la vita, come si suoledire. Sono tornato a scrivere atrent'anni. Insegno matematica esuono, il flauto traverso e il sasso-fono. Vivo a Tel Aviv.

Qual è il tuo rapporto con questa cit-

tà e con le sue descrizioni canoniche,

la Bolla, Medinat Tel Aviv, la città li-

bera, laica, creativa, moderna. Ab-

biamo letto la tua poesia Blues in cui

la descrivi come "il Vaticano degli

ashkenaziti". C'è qui una critica mol-

to forte.

È una città pluralista, variegata, ac-cogliente, a un'unica condizione:che tu sia ashkenazita. Puoi esserequalunque creatura sulla terra, sesei ashkenazita, Tel Aviv ti acco-glierà. Se sei etiope, per esempio,non è la stessa cosa. Recentementec'è stata una manifestazione deglietiopi a Tel Aviv. Era la prima vol-ta che si vedevano in centro. Nonè normale. Tel Aviv è una fortezza

ashkenazita in una guerra di rap-presentazione, di dominio cultu-rale. Solo un po' alla volta anchei mizrakhim ci stano arrivando.

E Gerusalemme? Anche su Gerusa-

lemme hai scritto una poesia duris-

sima. Dove ti senti a casa in Israele?

È una buona domanda. Si può direche i mizrahim si sentono a casasolo in alcuni posti, in alcuni quar-tieri specifici. E non è solo unaquestione di territorio, ma anchedi media. Non sempre ci ritrovia-mo nella televisione, per esempio.Mi occupo molto di come venia-mo rappresentati, o meglio, igno-rati, in particolare nelle pubblicità.C'è una netta discriminazione a fa-vore di bambini biondi e dalla pellechiara, per esempio.

Anna Linda Callow e Cosimo Nicolini Coen

(la versione integrale dell'intervista su www.moked.it)

proposto da Netanyahu all’ex capodella Difesa, ovvero il ministerodegli Esteri.Chi non ha preso bene – stupendoi suoi stessi colleghi – la mossa delPremier è il corrispondente mili-tare di Arutz 2 Roni Daniel, che,come scrive il direttore del Timesof Israel, non è noto per avere un“cuore liberale”.In televisione Daniel ha spesso evolentieri difeso le strategie di Tsa-hal, discutendo in modo accesoanche con i colleghi del suo stesso

canale. Ma alla notizia della sceltadi sostituire Yaalon con Lieber-man, l’analista di Arutz 2 si è la-sciato scappare in diretta un’affer-mazione che ha stupito lo studio:Israele “non è un posto gradevoledove stare… Non puoi credere a nulla”, l’amarocommento di Daniel, evidente-mente deluso dalla sostituzione diYaalon, del veterano della guerradel Kippur, comandante di uncommando d’élite dell’esercito (Sa-yeret Matkal, lo stesso in cui ha

servito Netanyahu), ed ex Capo diStato maggiore durante la secondaIntifada. A parte le reazioni, dellastampa, la decisione potrebbe co-stare cara al Premier, visto chesondaggi di fine maggio davanouna coalizione guidata da Yaalon– che ha deciso di rassegnare ledimissioni dalla Knesset (al suoposto Yehuda Glick) e, per il mo-mento, dalla politica - avanti al Li-kud di Netanyahu. D'altra partequest'ultimo ha abituato Israele asmentire i sondaggisti.

La storia dell’aliyah dai Paesi islamici

Se siete capitati - o capiterete - nel quartiere Musraradi Gerusalemme forse vi siete imbattuti in una scrittain tre lingua, ebraico, inglese e arabo che recita“they are not nice alley”. Si tratta diuna via dedicata a una famosa frasedi Golda Meir, storico Primo ministrodi Israele negli anni Settanta. Il suoriferimento ai “not nice” era ai leaderdelle Pantere nere d'Israele (perchéanche Israele ha avuto le sue), il mo-vimento della seconda generazionedi ebrei mizrachi che scesero in piaz-za per protestare contro la condizione periferica edi emarginazione sociale in cui erano stati relegatidal potere centrale, a larghissima maggioranzaashkenazita. Quella via è il segno topografico di ungrande cambiamento vissuto dall'intera società

israeliana, un cambiamento ancora oggi in atto eche vede il riposizionamento del mondo misrachinella società israeliana. Una realtà che si conoscepoco al di fuori di Israele ma che nello stesso Statoebraico ha avuto difficoltà a prendere coscienza di

sé. Per capirlo, di grande aiutoè il lavoro di Claudia De Marti-no, ricercatrice dell'Unimed diRoma e autrice di I mizrachimdi Israele. La storia degli ebreidei paesi islamici (1948-77), Ca-

rocci editore. Nel ripercorrerela storia della società israeliana, spesso presentatacome un blocco monolitico uniforme, e della difficileintegrazione degli ebrei “orientali” al suo interno, iltesto spiega perché Israele oggi possa definirsi soloin parte un paese “occidentale”.

Claudia De MartinoI MIZRAHIM IN ISRAELE Carocci Editore

hava, l’associazione estremista israe-liana che fa campagna contro i matri-moni misti, sia razzista. Lo è nei toni(ha definito i cristiani “dei succhia-sangue”), nelle azioni (spesso intimi-

datorie) e nei contenuti: non tutti imatrimoni “misti” sono uguali ailoro occhi, pare che il problema sianosolo quelli tra ebrei e arabi, mentrenon hanno grandi problemi coi ma-

trimoni tra ebrei israeliani e immi-grati russi non halachicamente ebrei,a conferma che sono motivati più daldisprezzo per gli arabi che dalla di-fesa dell’Halakhah. È molto significa-

tivo che l’Anti Defamation League,la prestigiosa associazione ebraico-americana che lotta contro l’antise-mitismo, abbia chiesto aGerusalemme di usare il pugno duro

nei loro confronti. L’impressione èche la pazienza nei confronti di que-sti estremisti del mondo ebraico e delgoverno israeliano si stia esaurendo.E a ragione. 

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraicheCULTURA EBRAICA

u דכאיב ליה כאיבא אזיל לבי אסיאCOLUI CHE HA UN DOLORE SI RECHI DAL MEDICO

Tempo fa pressavo un mio amico a darsi da fare rispetto a un progetto culturaleche giudicava negativamente, infatti stenta a decollare e mostra non pochidifetti. Pur non sottraendosi ad indicare soluzioni, per lo più teoriche, non c’èstato verso di strappargli l’impegno a collaborare in prima persona. La rispostalaconica che ho ottenuto è stata un modo di dire che non sentivo da tempo:“chi je preme la spina se la caccia”. Uno dei tanti esempi in cui nel mondo ebraicoitaliano la polemica prevale sulla buona volontà. Mi è venuto in mente un analogoadagio che un maestro richiama per spiegare uno dei capisaldi degli ordinamentigiuridici: il brocardo secondo il quale l’onere della prova incombe su chi devefar valere un proprio diritto in giudizio. Nel trattato di Bavà qammà Ribbi Shemuel bar Nachmanì si domanda da doveprovenga il principio a cui si richiama la mishnà per dirimere tante situazionigiuridiche dubbie che suona così letteralmente: “chi pretende dal compagno,a lui compete la prova” המוציא מחברו עליו הראיה. Un passaggio della Torà sem-brerebbe contenere la risposta lì dove Moshè detta le linee da seguire durantei quaranta giorni in cui sarà via dall’accampamento per ricevere la Torà in cimaal monte Sinai; in quel periodo le funzioni di giudice, su sua indicazione, sarebberopassate temporaneamente a Aharon e Chur figlio di Calev. Rivolto ai capi del po-polo disse: “Chi avesse una questione si avvicini a loro” (Esodo 24:14) . Nel sensointerpretato: avvicini le prove, dimostri che vanta il diritto. Rav Ashi contesta ilragionamento e non comprende la fatica di ricercare nella Torà un cenno ad unprincipio che sembra logico di per sé e non ha bisogno di riscontri. Per lui laquestione è palese in sintonia con l’adagio: “è colui a cui duole qualcosa chedeve andare dal medico”. Ciò che è ovvio la Torà risparmia di spiegarlo. La di-scussione continua ancora qualche riga e come in tanti altri casi si trova un com-promesso, ma il senso di questo scambio di idee fa riferimento ad un nodo cru-ciale che è alla base del pensiero ebraico. Non si tratta di capziosi e artificialisforzi alla ricerca di conferme impossibili da trovare. E’ piuttosto il risultato diun approccio che interseca l’aspetto religioso e ogni altro momento della vitasociale e collettiva vedendo ogni azione parte integrante di un progetto che hauna direzione Superiore. Tornando all’amico, se ciascuno di noi mettesse daparte l’orgoglio si giungerebbe esattamente allo stesso traguardo secondo lamassima (2:2) di Rabban Gamliel: “chiunque si dedica a cose pubbliche lo facciaper soli fini Celesti (Pirkè Avot 2:2).

Amedeo Spagnolettosofer

ú– COSÌ DICE LA GENTE… כדאמרי אינשי

Alle origini del pregiudizio

ú– BEHAR 5776u FAMIGLIE FORTI PER SOCIETÀ FORTIIl concetto di famiglia è assolutamente fondamentale per l'ebraismo. Conside-riamo il libro della Genesi, il punto di partenza della Torah. Non vi si tratta pri-mariamente di teologia, di dottrina, di dogma. Non vi è una polemica control'idolatria. Riguarda le famiglie: mariti e mogli, genitori e figli, fratelli e sorelle.In generale poi nei momenti chiave della Torah, Dio stesso definisce la sua rela-zione con il popolo d'Israele in termini familiari. Dice a Mosè di parlare al Faraonea nome suo: “Figlio mio, mio primogenito, Israel” (Esodo, 4:22). Quando Mosèvuole spiegare agli ebrei perché hanno il dovere di essere santi, dice loro: “Sietei figli del Signore vostro Dio” (Deut., 14:1). Se Dio è il nostro genitore, siamo tuttifratelli e sorelle. Siamo tutti imparentati da legami che vanno dritti al cuore diquello che siamo. Perché l'ebraismo è costruito su questo modello di famiglia?In parte per dirci che Dio non scelse un'élite di giusti o una setta di persone chela pensavano tutte allo stesso modo. Scelse una famiglia – i discendenti di Abramoe Sara – estesa nel tempo. La famiglia è il più potente veicolo della continuità, ei cambiamenti che gli ebrei dovevano compiere nel mondo non erano del tipoche essere effettuato in una sola generazione. Di qui l'importanza della famigliacome luogo di istruzione (“Insegnerai queste cose ripetendole ai tuoi figli...”) edella trasmissione della tradizione e della storia. Famiglie forti sono essenzialiper società forti. Dove le famiglie sono forti, esiste un senso di altruismo chepuò essere esteso all'esterno, dalle famiglie agli amici, ai vicini, alla comunità eda lì a un paese intero. Ed è stato il senso della famiglia a tenere gli ebrei insieme,in una rete di impegno reciproco nonostante il fatto che sono stati sparsi intutto il mondo. Il popolo ebraico rimane una famiglia, spesso divisa, sempre po-lemica, ma unita dal legame di un destino comune. (Brano tratto e tradotto daltesto Family Feeling - Behar 5776)

Jonathan Sacks,rabbino

ú– LUNARIOu SHAVUOTChiamata anche “Tempo del dono della nostra Torah”, Shavuot, la festa delle Settimane, celebraappunto il dono da parte di Dio agli ebrei della Legge, consegnata a Mosè sul Monte Sinai.

ú–– Rav Alberto Moshe Somekh

“Una fumata bianca si leva dal comignolo delVaticano – scrive provocatoriamente Yehudah‘Ammichay nella sua poesia Mi-kol ha-‘ammim(“Tra tutti i popoli”, 1942) -: i cardinali all’in-terno sanno già chi è il papa eletto. Una fumatanera si leva dal comignolo di Auschwitz: è an-cora incerto chi sia il popolo eletto!”Fine Anni Ottanta. Ricordo distintamente unadelle prime scolaresche in visita al Beth haK-nesset di Bologna. Faceva gli onori di casa ungiovane della Comunità, allora intorno allaventina. Rispondeva con sagacia alle domandetalvolta spregiudicate poste da ragazzi di etàdi poco inferiore alla sua. “Perché siete tantoodiati?” E di rimando: “A noi lo chiedete? Do-vreste piuttosto domandarlo agli antisemitistessi!” Quel giovane promettente di allora,Emanuele Ottolenghi, è oggi uno storico epolitologo di fama interna-zionale. Un altro studioso,Avi Beker, diplomatico e do-cente di scienze politiche inprestigiose università, ha re-centemente pubblicato unsaggio di grande portata, daltitolo: Mi-hu ha-‘am ha-niv-chàr, “Chi è il popolo elet-to?”. Prendendo le mosse dalfilm “La passione di Cristo”di Mel Gibson, egli ripercor-re la storia del “più grandeconflitto di idee nella storia”,ciò che a suo parere sta allabase dell’antisemitismo inogni epoca e luogo: l’ideadell’elezione di Israele, ap-punto. Un mito che ha ge-nerato due forme di reazio-ne: la volontà di cancellare fisicamente il po-polo d’Israele da un lato e il proposito di so-stituirsi a esso nell’elezione relegandolo in se-condo piano dall’altro. L’analisi di Beker esa-mina Rabbì ‘Aqivà, i filosofi ebrei della Spagnamedioevale, i Padri della Chiesa, Maometto,Lutero fino all’età moderna: Benjamin d’Israeli,la Shoah, Rav Kook e Giovanni XXIII, conuna dovizia senza pari di fonti ebraiche e non.Unico difetto del libro: essere scritto in ebraico,cosa che per il momento lo rende fruibile auna cerchia ristrettissima di lettori. Mi auguro,se ciò non è ancora stato fatto, che questofondamentale studio abbia presto una tradu-zione integrale in inglese. L’intuizione di Beker non è peraltro nuova.Un passo del Talmud (Shabbat 89a) identifical’etimologia di Sinai con sin’ah (“odio”), im-plicando che il dono della Torah che da unlato ci ha nobilitato agli occhi delle nazioni,dall’altro è stato per noi fonte di non pochiproblemi relazionali (cfr. ‘Iyun Ya’aqov ad loc.;Rashì a Eykhah 1,21). Non è facile trovare larisposta a un enigma ormai plurisecolare. Aindirizzarci se non altro verso una migliorecomprensione del problema è il commentoNo’am Elimelekh alla Torah, opera di R. Eli-melekh di Lizensk della scuola del Ba’al ShemTov, il fondatore del chassidismo. Utilizzandoun linguaggio cabalistico di grande fascino sul

lettore, egli dice che il Talmud ci vuole far ca-pire che esiste nelle nazioni del mondo una“scintilla sacra” (nitzòtz qadòsh) che aspira aessere elevata. È compito di noi ebrei coglierequesta scintilla e gestirla al meglio. Se noi nonriusciamo in questo intento saremo sempreoggetto di odio. Il commento non aggiungealtri particolari utili alla sua applicazione, néci dà ricette concrete, ma ci mette in guardia.L’antisemitismo non è solo un fenomeno sto-rico, né puramente fisico. Ha radici metafisiche,su cui tuttavia è in nostro potere agire per ilbene nostro e dell’umanità. Venire a patti conle situazioni alla ricerca di facili compromessi,come si è sempre fatto, non garantisce la so-luzione definitiva. Si pensi alle varie forme dishtadlanut (lett. “interventismo” da parte dicorreligionari influenti sulla pubblica autorità,a favore della Comunità o di singoli individui)praticate nei secoli e allo stesso dialogo inter-

religioso che pretende di es-serne la forma più aggiorna-ta. Ma neppure l’isolamentoa oltranza, come se le altrenazioni non esistessero a di-spetto del loro risentimento,può essere la ricetta ideale.Il No’am Elimelekh dà un’in-terpretazione altamentecreativa del versetto: “H.combatterà per voi e voi vene starete zitti” (Shemot14,14). Egli ne capovolge ilsignificato, complice il sensodiametralmente opposto chepuò assumere in ebraico lapreposizione lakhèm e tra-duce: “Quando H. combat-terà contro di voi…”. Ma an-che tacharishun ha un dop-

pio significato. Da un lato allude certamentea una attesa silenziosa, come in Bereshit 24,21.Ma il verbo charàsh ha pure un’altra valenza,assai diversa, propositiva: arare, preparare ilterreno per una nuova semina, una nuova ‘avo-dah, intesa anche questa nel doppio senso dilavoro agricolo e di ‘Avodat H., “servizio Di-vino”. Non c’è altra via per cogliere il nitzòtzqadòsh delle nazioni del mondo che dedicarciinteramente al servizio di H. per primi. “Quan-do siete minacciati, continuare ad arare” il vo-stro campo, a coltivare la vostra spiritualità,con coerenza interiore, in modo disinteressato,facendone capire agli altri la grandezza. Verràfinalmente il giorno in cui tutti comprende-ranno quale servizio il Dono della Torah, checi apprestiamo a ricordare a Shavu’ot dopo3328 anni, abbia reso all’umanità intera. Sonofrancamente poco convinto dallo slogan: “Nonc’è più teologia dopo Auschwitz”. Fin troppocomodo! E anche l’idea che l’antisemitismosia solo un problema degli altri mi persuadesempre meno, nonostante tutto. Portare avantila Torah e l’Ebraismo è la grande sfida che ciattende nel secolo successivo alla Shoah. Nelrispetto di tutti coloro che sono caduti ‘al qid-dush ha-Shem, “per la Santificazione del No-me”. Anzi, proprio per loro: affinché il lorosangue non sia stato versato invano.

u Rotolo della Torah, Egitto,

19esimo-20esimo secolo

Museo di Londra

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pagine ebraiche n. 6 | Giugno 2016

“Le città hanno la capacità di fornire qualcosaper tutti, solo perché, e solo quando, sonocreate da tutti” spiegava Jane Jacobs nella suocelebre scritto Vita e morte delle grandi città.Saggio sulle metropoli americane (1961). AlloraJacobs, giornalista e fine analista della realtàurbana, criticò fermamente il modello di svi-luppo delle città moderne, sostenendo la ne-cessità di recuperare una dimensione a misurad'uomo nei nuclei urbani. A distanza di mez-zo secolo da quelle considerazioni e congrandi metropoli sempre più popolose, il te-ma rimane di grande attualità. Recentementea riaccendere la discussione sul tipo di svi-luppo che una città deve seguire ci ha pensatol'urbanista di fama internazionale Joel Kotkincon il suo The Human City: Urbanism for theRest of Us. Qui Kotkin sfida l'idea convenzio-

nale dell'urbanistica attuale in cui si favoriscel'alta densità. Esplorando i benefici economici,sociali, ambientali della decentralizzazione,alternativa positiva per le famiglie, Kotkinconclude che mentre la parola "periferie" sipuò considerare superata, il concetto di persé non è morto. Anzi. Secondo l'urbanista viè di fatto una guerra in corso contro le peri-ferie. “Una guerra ingiusta lanciata da intel-lettuali, ambientalisti e appassionati dei cen-tro-città”, scrive il Wall Street Journal, che diKotkin sposa a pieno le testi. Da The HumanCity emerge una precisa critica ai centri dellegrandi città, diventanti sempre più inacces-sibili alla classe media. Aree urbane che stan-no diventando sole dimore per ricchi, favo-rendo il consumismo glamour piuttosto chefornire posti di lavoro alla classe media; e,

spiega il Wall Street Journal, che vivere inpiccoli e cari quartieri ad alta densità scorag-gia la possibilità di allevare e crescere deifigli, una preoccupazione fondamentale oggiper le amministrazioni politiche di molti paesiindustrializzati. Il merito di Kotkin, confer-mano anche i suoi critici, è quello di aver ri-portato con forza il tema delle periferie alcentro del dibattito. Un tema peraltro chel'opinionista ha toccato anche su un altro ver-sante, quello ebraico. Dati alla mano, Kotkinha ricordato in una sua riflessione come Israe-le e America stiano diventando sempre più(più di quanto non fosse prima) i due polidell'ebraismo mondiale mentre le altre co-munità della Diaspora siano in una fase dicostante decrescita. “Le diaspore tendono adavere un notevole impatto sull'innovazione

e sul pensiero creativo - scrive Kotkin nel2015 - Le comunità disperse di armeni, liba-nesi, cinesi e indiani hanno avuto un ruoloenorme nelle culture ed economie moderne,dovuto in gran parte alla loro conoscenza ealla loro portata globale. Una delle grandi tra-gedie dell'ondata di agitazioni islamiste stanella graduale cancellazione dei cristiani, deibahai e delle altre minoranze dal MedioOriente, luoghi in cui hanno giocato ruolicentrali”. Concentrandosi su Israele e la “pe-riferia diasporica”, Kotkin spiega che senzala Diaspora lo Stato ebraico perderà il suomessaggio universale. “Quel pensiero e quellacultura sviluppata proprio 'nell'esilio'”. Ma,conclude, l'erosione delle comunità ebraichedella Diaspora non è solo una tragedia perIsraele, lo è per tutto il mondo.

“La prima cosa che ho provato tanti anni

fa quando mi sono imbattuto nelle Città

invisibili di Italo Calvino è un grande senso

di ammirazione. Marco Polo-Calvino era

riuscito non solo ad immaginare, ma anche

a costruire fino ai più piccoli dettagli e a

popolare nella sua narrativa ben 55 città”

scrive Tito Boeri per presentare il tema del-

l'edizione 2016 del Festival Trento Econo-

mia dedicato ai “luoghi della crescita”. A

Trento si parlerà però delle città e dei ter-

ritori visibili, di come siano cambiati e di

quali strade i singoli e le comunità abbiano

intrapreso per convivere e crescere insieme

e per confrontarsi in un mondo sempre più

piccolo e al contempo in grande trasfor-

mazione. Uno spunto che tocca i vari am-

biti delle nostre vite e che investe anche e

inevitabilmente il mondo ebraico e Israele,

come dimostrano le pagine di questo dos-

sier, in cui si parla di smart-city (Tel Aviv

su tutte), del contributo della minoranza

ebraica allo sviluppo urbano ma anche della

scelta di cambiare città, nazione, e un luo-

go diverso in cui crescere.

Daniel Reichel

Dove abita la crescita

SMART CITY

L’esempio 2.0 di Tel Aviv

a pag. 16

L’IMPATTO SULL’ECONOMIA EUROPEA

Il motore dello sviluppo

a pag. 19

ISRAELE

Un passaporto per far carriera

a pag. 20

Periferie urbane e diaspore, quei territori dei valori in ascesa

DOSSIER /Mercati e valori

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n. 6 | Giugno 2016 pagine ebraiche

DOSSIER /Mercati e valoriTel Aviv, la via 2.0 per diventare smartLa svolta tecnologica della città serve a migliorare la vita dei cittadini e a stare più vicini alle loro esigenze

Nei primi mesi del 2013 la muni-cipalità di Tel Aviv è stata investitada un'ondata di indignazione so-cial dei suoi cittadini. Come rac-conta Jess Fox, urbanista e giorna-lista di stanza a Jaffa, a scatenarele proteste il caso di una donnache si è vista portare via la mac-china ingiustamente dalla polizia.Hila Ben Baruch, il nome delladonna, aveva posteggiato la suaauto in un normale parcheggiofuori dal condominio dove abita,nel centro di Tel Aviv. Tutto per-fettamente a norma. Dopo un paiod'ore Ben Baruch tornerà a ripren-dere la macchina per scoprire cheera sparita, portata via dalla polizia.Al suo posto, un parcheggio perdisabili dipinto di fresco. Una si-tuazione kafkiana che ha portatola malcapitata prima a sentirsi trat-tare male da un operatore dellamunicipale – che le ha detto chedoveva pagare la multa, peraltromolto salata - poi a vestire i pannidell'investigatore. Per dimostrarel'accaduto, infatti, Ben Baruch èriuscita a recuperare il video di unatelecamera di sorveglianza posi-zionata nei pressi della sua auto.Dalle immagini si vede chiaramen-te come prima arrivino gli opera-

tori municipali a dipingere il par-cheggio per disabili attorno allamacchina della Ben Baruch, poi inun secondo momento è arrivato ilcamion rimorchio a portare via ilveicolo per la “sopravvenuta” in-frazione. Il video, con annesse ri-ghe di protesta, è stato postato suFacebook dalla donna ed è diven-tato subito virale. L'indignazionemontante ha portato il municipioa chiedere pubblicamente scusa al-la Ben Baruch, spiegando che viera stata una mancanza di coordi-namento dei servizi e promettendodi cambiare le procedure. Proprio nello stesso periodo l'am-ministrazione di Tel Aviv aveva

lanciato un'iniziativa perpermettere ai cittadini diavere moltissimi servizia disposizione a portatadi mano, ovvero il pro-getto DigiTel: un pro-getto destinato a cam-biare il modo in cui i cittadini in-teragiscono con i servizi comunali."L'idea era quella di mettere tuttii servizi forniti dal Comune in ununico luogo, piuttosto che costrin-gere i residenti a che fare i conticon i vari dipartimenti” spiegavaZohar Sharon, a capo del kno-wledge office di Tel Aviv. L'ideaalla base di DigiTel è la creazionedi un nuovo tipo di one-stop shop

(un solo “negozio” in cui trovaretutto ciò che occorre per le proprienecessità di cittadino), in cui si in-tegrano amministrazione digitalee il mondo delle applicazioni e deisocial media. “Tel Aviv ha optatoper un approccio molto diverso alconcetto di pianificazione classicodi "Smart City". - Hila Oren, CEO

of Tel Aviv Glo-bal - Per noi, lepersone che vivo-no e lavoranonella nostra cittànon sono un pro-blema da risolve-re, ma la nostrapiù grande risorsa.La nostra SmartCity lavora sulpresupposto chesono i cittadini ilcentro di tutto ciò

che facciamo, e di conseguenza,abbiamo lanciato iniziative chenon solo mettono prima le loroesigenze, ma anche che li rendanopartecipi nel rendere Tel Aviv piùvivibile, dando un contributo atti-vo”. Il progetto di DigiTel è statouno dei fiori all'occhiello che hapermesso alla capitale israelianadelle start-up di ottenere il titolo

di "Miglior Smart City" al conve-gno Smart City Expo a Barcellonadel 2014, nel corso del quale i fun-zionari della città hanno sottoli-neato il potenziale dell'iniziativacome strumento di partecipazionedei cittadini e l'impegno nella po-litica urbana.Una critica che suona come un in-vito a migliorare DigiTel arriva daNoah Efron, ex assessore e docen-te universitario, che al progetto haanche collaborato. “Consideratetutte le cose che il progetto nonfa – sottolineava Efront - Non per-mette ai cittadini di unirsi. Non fa-cilita, per esempio, le petizioni. Enon mette a disposizione tutte ledecisioni che la città sta prenden-do, lasciando spazio alla gente apartecipare. Non consente alle per-sone di influenzare la politica. In-vece dà più che altro sconti sueventi e beni di consumo, e con-divide informazioni sullo 'stile divita'”. “Non c'è niente di sbagliatoin questo – continua Efron - mariflette una visione aziendale piùche civica”. Lo stesso Sharon am-mette che ci sono ampi spazi dimiglioramento e che l'idea di Di-giTel è proprio la condivisione perportare a migliorare Tel Aviv.

Il made in Italy in scenaUn mese all’insegna del Made in Italy, della

sua protezione e valorizzazione. In Israele,

giugno è ormai da anni un periodo ricco di

iniziative legate all’Italia. La Festa della Re-

pubblica a inizio mese, diventa infatti un’oc-

casione i rappresentanti italiani nello Stato

ebraico, in primis l’ambasciata, di portare

nelle piazze e nelle istituzioni culturali di

tutto il paese idee, musica, spettacolo, arte

ma anche cooperazione scientifica e tecno-

logica (nell’immagine, lo stand italiano al-

l’interno della Conferenza Biomed a Tel Aviv).

Tra i temi scelti per quest’anno, la qualità

dei prodotti Made in Italy, un patrimonio nazionale da proteggere contro le sempre più

diffuse imitazioni. Parte della campagna “Lo straordinario gusto italiano” sarà una serie

di iniziative organizzate con l’Istituto internazionale del Commercio Estero di Tel Aviv.

Il lancio è in programma il 6 giugno, e nei giorni successivi vedrà tra l’altro la parteci-

pazione degli chef Max Mariola, volto del canale televisivo del Gambero Rosso, e Michele

Bozzetto, da tempo residente in Israele. Prevista poi per fine mese la visita del ministro

dell’agricoltura Maurizio Martina.

Protagonista dell’estate biancazzurro-tricolore, anche la cooperazione in campo acca-

demico, con il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini in viaggio con una rappresentanza

della Conferenza dei rettori italiani, con una serie di conferenze in settori come la me-

dicina, la biologia, la psicanalisi, la bioetica, la robotica.

In gara tra startupperDopo il successo dei primi quattro an-

ni, parte la quinta edizione di Start-

Up Tel Aviv Bootcamp Contest, il con-

corso destinato a giovani creatori di

imprese start up promosso in Italia

dall'Ambasciata d'Israele a Roma e

dalla Municipalità di Tel Aviv. Lo scopo

della gara è di selezionare le migliori

start up di 23 paesi del mondo e di

riunirle in Israele, in un 'boot camp',

una sorta di corso di addestramento. Un'occasione di incontro tra giovani imprenditori

della durata di cinque giorni che si svolgerà a Tel Aviv, che negli stessi ospita giorni la

DLD Tel Aviv Digital Conference, il più grande evento di carattere internazionale orga-

nizzato in Israele sul tema della tecnologia, dove si ritrovano centinaia di start up ma

anche i leader mondiali del settore come Google, Microsoft, Kimberly Clark, Amazon,

GM, Amdocs e Facebook. Si tratta di un'opportunità importante per i giovani creatori

di start up, poiché non solo permette loro di conoscere una delle realtà più vitali per il

mondo dell'innovazione e dell'imprenditoria, ma anche di creare tra loro una rete in-

ternazionale di cui Israele si fa così il fulcro. Protagoniste dell'edizione 2016 sono le

donne, a partire dalla composizione della squadra, poiché uno dei criteri di selezione è

costituito proprio dalla presenza femminile. Il concorso si svolge anche in tutti gli altri

paesi coinvolti nell'iniziativa, e insieme a tutte le squadre ideatrici di start up selezionate

la vincitrice italiana parteciperà al bootcamp che si terrà dal 25 al 29 settembre, promosso

dal ministero degli Esteri israeliano, dal Comune di Tel Aviv da Google Israele.

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Di solito si tenta di rendere 'intel-ligenti' le città che esistono già, at-tuando strategie che implementinoi servizi grazie all'impiego diffusodelle nuove tecnologie della co-municazione, della mobilità, del-l'ambiente e dell'efficienza energe-tica, al fine di migliorare la qualitàdella vita e soddisfare le esigenzedi cittadini, imprese e istituzioni.Ma in Brasile una cosiddetta smartcity sarà creata ex novo, per darecasa a circa 20 mila residenti incondizioni socioeconomiche dif-ficili, che si chiamerà Croatá La-guna Ecopark e sorgerà nei pressidi Sao Goncalo do Amarante. Tut-to questo è possibile grazie a unacollaborazione trasversale tra il go-verno brasiliano, un progetto ita-liano, Planet Idea, e l'innovazionedelle startup israeliane. Sono infattitre quelle che hanno vinto la “The3C Smart Cities Challenge”, un’ini-ziativa realizzata congiuntamentedalle compagnie italiane PlanetIdea e SocialFare - Centro per l’In-novazione Sociale, StarTAU, ilcentro per l'imprenditoria della TelAviv University, d il centro per l'in-novazione del gruppo israelianoper la sicurezza globale Tyco.Al primo posto è arrivata Magos,

una startup che prende parte pro-prio a uno dei progetti di Tyco, lacui tecnologia rende disponibiliper la prima volta sistemi per lasicurezza ad alta risoluzione macompatte, a basso consumo dienergia, semplici da installare e aun prezzo accessibile. Al secondoposto si è invece posizionata Gree-nIQ, che sviluppa soluzioni peruna gestione smart degli spazi ver-di, permettendo di ridurre il con-sumo di acqua fino al 50 percento.Il terzo posto è infine spettato aPixtier, la quale si occupa di inge-gneria per costruire e pianificarele smart city.Ma cos'è esattamente una smartcity? Nessuno può illustrarlo me-

glio di Gianni Savio, direttore delgruppo torinese Planet Idea, il qua-le ha spiegato che si tratta di spaziurbani “nei quali vengono ideatee integrate le tecnologie più intel-ligenti da un lato e più economi-camente sostenibili dall'altro”. Par-ticolare attenzione viene inoltreposta nel social housing, che hacome bacino d'utenza gli strati so-ciali a basso e medio rendimento,“mostrando come la natura eco-nomica di una costruzione non nepregiudichi la qualità”. Nella pra-tica, tutto questo significa che unavolta portata a termine Croatá La-guna Ecopark avrà una superficiedi più di tre chilometri quadrati,con circa 21 mila abitanti (o cin-

quemila famiglie) distribuiti in sei-mila case e quasi 6.800 lotti, tracui corporazioni e industrie. Il co-sto di una casa di poco più di cin-quanta metri quadrati sarà circa di30 mila dollari.Per ottenere questi risultati PlanetIdea ha dovuto mettere insiemevari progetti nel campo della pia-nificazione urbana, dell'architettu-ra, delle infrastrutture, dell'hightech, dei servizi e del sociale.L'idea è che sia garantito il mas-simo della sicurezza con la minorequantità di consumi ed emissionipossibile, ad esempio prevedendouna posizione dei diversi tipi di in-dustrie e servizi a una distanza chepossa essere percorsa a piedi, man-

tenendo attivo un controllo dellestrade per tutto il giorno. E poinaturalmente costruendo edificisostenibili, con bassi consumi ebassi costi di mantenimento, maanche creando una società soste-nibile, che incoraggi alla condivi-sione per evitare sprechi di cibopermettendo anche di garantire al-cuni prodotti di base gratuiti perle famiglie in difficoltà, e che abbiaun occhio di riguardo per l'am-biente. Ma il ruolo davvero fon-damentale è giocato dalla tecno-logia, a tal punto che tutti i citta-dini 'intelligenti' della smart citypossiederanno un app sul lorosmartphone, chiamata Planet app,grazie alla quale potranno infor-marsi sui suoi servizi configuran-dola secondo i loto profili e le loroesigenze. In città la rete internetsarà gratuita e sempre disponibileper tutti, e così a parte usufruiredegli ormai classici servizi di care bike sharing, si potrà costante-mente comunicare con gli altrimembri della comunità, ma ancheavere un controllo sulle propriespese e sui propri livelli di consu-mo, e addirittura tutelare la propriasalute, indossando un braccialettocollegato con l'applicazione, checontrolla il proprio stato fisico ecomunica direttamente con gliospedali in caso di emergenza.Una città del futuro? Un futurodietro l'angolo, perché i lavori so-no già in corso.

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pagine ebraiche n. 6 | Giugno 2016

Brasile, un progetto intelligente Tre start-up israeliane collaborano per creare da zero una smart-city di 20mila abitanti

L'economia come strumento per superare

i conflitti sociali. È questa l'idea attorno

a cui ruota il progetto del parco industria-

le Tefen, a nord di Israele (a una ventina

di chilometri a est di Nahariya), e di altre

iniziative simili portate avanti dal magna-

te israeliano del metallo Stef Wertheimer

(la sua Iscar metalworking si è diffusa in

60 paesi nel mondo ed è entrata a far par-

te del gigante IMC Group). Nato in Germa-

nia nel 1926 ed emigrato nella Palestina

mandataria dieci anni dopo al seguito del-

la famiglia in fuga del nazismo, Werthei-

mer ha investito negli ultimi 30 anni mi-

lioni di shekel, attingendo dal proprio fon-

do personale, per la costruzione di parchi

industriali e programmi di formazione per

gli arabi in tutta Israele, nella speranza di

usare la creazione di posti di lavoro per

diminuire le diseguaglianze economiche e

favorire la pacifica convivenza tra arabi

ed ebrei.

"L'idea di parchi industriali in Medio Orien-

te e sui confini tra Israele e i suoi vicini è

di portare industrializzazione e lavoro, te-

nendo le persone occupate in un impiego,

invece che lanciarsi nel terrorismo”, spie-

gava Wertheimer nel 2004. Il primo di que-

sti parchi nonché modello per gli altri (nel

2009 è stato avviato una nei pressi di Na-

zareth) è quello di Tefen. Costruito nel

1982, comprende tutto, dai mezzi di tra-

sporto alle strutture culturali e didattiche.

Un villaggio Leumann ma israeliano, per

chi conosce la storia del cotonificio di Col-

legno costruito da Napoleone Leumann ai

primi del Novecento; una realtà in cui la-

voro, famiglia, tempo libero, istituzioni

sociali e previdenziali erano strettamente

connessi fra loro, formando un contesto

socialmente evoluto ed efficiente all'om-

bra di caseggiati in stile liberty. Il liberty

a Tefen non c'è ma l'impegno filantropico

sociale unito a una visione aziendale sì

(Leumann usava dire “se volete dei buoni

operai istruiteli”, idea non lontana da

quelle di Wertheimer). Il modello Tefen è

improntato alla creazione di sinergie con

l'istruzione attraverso corsi di imprendi-

toria e creatività per l'industria e il ma-

nagement. Vi è anche una scuola per i figli

degli operai, giardini, e musei dedicati al

settore manifatturiero.

Oggi 90enne, Wertheimer, Premio Israele

nel 1991 per i suoi contributi economici e

sociali al Paese, non ebbe una grande car-

riera scolastica. A 14 anni fu espulso da

scuola, e al posto di andare in classe inizio

a lavorare in un negozio per riparare mac-

chine fotografiche. Durante la Guerra di

Indipendenza di Israele nel 1948, servirà

nelle fila del Palmach, nel reparto di sup-

porto aereo. Chiuso il capitolo del conflit-

to, fonderà una piccola fabbrica di metallo

e utensili da taglio in un garage nel suo

giardino a Nahariya. La città, a nord di

Israele, si trovava in una regione sottosvi-

luppata, in gran parte agricola con forte

presenza araba. “Non c'erano posti di la-

voro, questa zona era per lo più di campi,

e io decisi che dovevo fare qualcosa per

conto mio".

Chiamerà la sua piccola iniziativa Iscar. Dal

garage di casa, nel giro di cinque anni,

l'azienda inizia ad esportare in Europa e

negli Stati Uniti. Oggi, è una delle migliori

al mondo del suo campo, e annovera clien-

ti nei settori automobilistico, aerospazia-

le, dell'industria elettronica tra cui General

Motors e Ford. Iscar è la più grande delle

15 aziende che compongono di Internatio-

nal Metalworking Companies (IMC), un

gruppo del valore di 10 miliardi di dollari,

con 140 filiali in 61 paesi in tutto il mondo,

che impiega oltre 10mila persone.

Tefen Industrial Park, un lavoro per la convivenza

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chnologies) di uno studio incen-trato sui lavoratori di Uber (finan-ziato dalla società californiana), so-no diversi i fattori che hanno por-tato a questo cambiamento, dallaglobalizzazione a una regolamen-tazione che spesso non tiene il pas-so con l'evoluzione delle dinami-che aziendali (Krueger ad esempio

è critico rispetto al modello chepermette la concentrazione deiprofitti nelle mani dei top managera scapito di una maggiore e piùequa redistribuzione a livello azien-dale). E in questo mondo in mo-vimento si inseriscono realtà comeUber - il servizio di trasporto pri-vato che, attraverso un'applicazio-

ne, mette in collegamento clientie autisti - a cui Krueger ha dedi-cato nel 2015 un approfondito stu-dio assieme al collega LawrenceKatz. “Uber è cresciuta a un ritmoesponenziale nel corso degli ultimianni - scrivono i due economisti -e gli autisti che collaborano conUber sembrano essere attratti dalla

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n. 6 | Giugno 2016 pagine ebraiche

DOSSIER /Mercati e valoriUber e il mercato del lavoro che cambia Uno studio dell’economista Alan Krueger indaga sugli effetti sull’occupazione della famosa azienda di trasporti privata

“L'economia della condivisione odella collaborazione (sharing eco-nomy o collaborative economy) èun nuovo tipo di business costruitosul concetto di condividere le ri-sorse. Questa capacità di condivi-dere ciò che è disponibile consentedi accedere ai beni e servizi quandosono necessari, invece che fare ac-quisti 'just in case' ovvero se do-vessero averne bisogno”. Così Mur-ray Newlands su Forbes spiegava

in poche parole ilsenso della sha-ring economyuna realtà di cuifanno parte nominoti come Ebay,Uber, AirBnb, ecosì via. Si tratta

di un mercato da 17 miliardi di dol-lari, spiega Forbes, che da lavoroa 60mila persone. Questa realtà siinserisce in un mercato del lavoromolto cambiato rispetto a un tem-po, spiega l'economista Alan Krue-ger, ex consulente economico diObama, tra gli analisti più seguitinonché tra i protagonisti dell'un-dicesima edizione di Trento Eco-nomia. Per Krueger, autore assiemeal collega Jonathan V. Hall (a capodella Policy Research di Uber Te-

AirBnb, se la scelta dipende dal volto Si dice sempre che l'abito non faccia il monaco, ma di certo non vale

per chi affitta una casa con il celebre servizio Airbnb. Una nuova ri-

cerca dell'Università Ebraica di Gerusalemme ha infatti indicato che

non sono la posizione, il prezzo, le dimensioni o anche le recensioni

degli altri utenti a determinare la scelta

di un alloggio o di un altro – è la faccia

del proprietario. Ebbene sì, anche con le

analisi più attente di tutti i fattori alla

fine si è visto che a influenzare la scelta

è una semplicemente una certa percezione

di fiducia riscontrata nel guardare la foto

del profilo dell'affittuario. La squadra gui-

data dalla ricercatrice Aliza Fleischer ha

effettuato due studi: nel primo, ha preso

tutti i dati degli appartamenti di Airbnb

di Stoccolma, in Svezia, chiedendo a un

campione di persone di valutarne tutti i

fattori, ricevendo analisi accurate e det-

tagliate; accanto a questo ha poi chiesto

di dare anche una valutazione della foto del proprietario basata sulla

prima impressione sulla sua affidabilità e sul suo aspetto fisico. Certo

essere percepiti come belli ha dato un piccolo vantaggio (soprattutto

alle donne), ma la vera svolta è essere ritenuti "affidabili". Più l'affit-

tuario risultava tale, più alta era la possibilità che il suo alloggio ve-

nisse scelto e che si si fosse disposti a pagare un prezzo più alto. Per

avvalorare questo risultato, Fleischer ha poi effettuato un secondo

studio, stavolta sostituendo le foto reali dei proprietari con foto di

attori e attrici (non sufficientemente noti da essere riconosciuti, ma

i cui volti comunque potevano essere vi-

sti su cartelloni pubblicitari, spot televi-

sivi o cataloghi). Ancora una volta, il fat-

tore determinante non era la bellezza,

ma il fatto di avere o meno una faccia di

cui ci si poteva fidare. Il problema in tut-

to ciò è costituito dall'incertezza tipica

del web di sapere chi c'è dietro una foto,

che potrebbe non corrispondere alla per-

sona reale a cui appartiene quel profilo

– o in una sua parola, l'esistenza dei co-

siddetti "catfish". "La questione non è an-

cora stata esplorata sistematicamente

nel contesto della sharing economy", ha

spiegato Fleischer al Times of Israel. "Pe-

rò – ha continuato – studi precedenti avevano suggerito che alcuni

fattori, come il sorriso, possano influenzare la percezione di 'affida-

bilità'. Per questo siamo convinti che analizzare il processo attraverso

il quale si crea una fiducia basata su fattori visivi possa essere un im-

portante prosieguo di questa ricerca per gli studi futuri".

piattaforma in gran parte a causadella flessibilità che offre, il livellodei compensi, e il fatto che l'utileper ora non varia molto rispettoalle ore lavorate, il che facilita ilpart-time e l'adozione di un orariovariabile”. L'indagine si basa suidati aggregati provenienti dallapiattaforma di Uber tra il 2012 eil 2014 (si tratta di report sulle gui-de, orari e guadagni degli autisti)e da un sondaggio condotto neldicembre del 2014 su 601 autistidalla Benenson Strategy Group(BSG). Dallo studio risulta una fo-tografia di chi sceglie di lavorareper Uber, dall'origine etnica all'età,dal tasso di scolarizzazione al sesso(solo l'8 per cento degli autisti so-no donne), se sono sposati o me-no. Lo studio, e probabilmentenon c'è da stupirsene, si concludespiegando che, in un mercato dellavoro così flessibile, Uber rappre-senta un elemento positivo: “Offremolti vantaggi e prezzi più bassiper i consumatori rispetto al tra-dizionale sistema taxi, e questo haaumentato la domanda del serviziostesso, che, a sua volta, ha aumen-tato la domanda totale di lavora-tori con il competenze necessarieper lavorare come autisti”. Non èperò chiaro, come rileva il sito diinformazione Atlantic, l'impattosul mercato complessivo del lavorodi Uber. E questo di fatto è l'inter-rogativo più importante.

Characteristics of Uber’s Driver-Partner, Taxi Drivers and All Works

18-29

30-39

40-49

50-64

+65

Donne

Senza diploma superiore

Diploma superiore

Laurea di primo livello

Laurea di secondo livello

Laurea specialistica

Bianchi

Neri

Asiatici

Altri

Ispanici

Sposati

Figli a casa

Frequentanti la scuola

Veterani

Numero totale

Uber’s driver-partners (BSG Survery)

29,1%

30,1%

26,3%

21,8%

2,7%

13,8%

3,0%

9,2%

10,0%

36,9%

10,5%

40,3%

19,5%

16,5%

5,9%

17,7%

50,4%

46,4%

6,7%

7,0%

601

Taxi Drivers and Chauffeurs (ACS)

8,5%

19,9%

27,2%

36,6%

7,7%

8,0%

16,3%

36,2%

28,8%

14,9%

3,9%

26,2%

31,6%

18,0%

2,0%

22,2%

59,4%

44,5%

5,0%

5,3%

2.080

All workers (ACS)

21,8%

22,5%

23,4%

26,9%

4,6%

47,4%

9,3%

21,3%

28,4%

25,1%

16,0%

55,8%

15,2%

7,6%

1,9%

19,5%

52,6%

42,2%

10,1%

5,2%

648.494

Note: Dati provenienti dalla piattaforma Uber

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minoranze. Nel 2012 il volume I po-chi eletti. Il ruolo dell’istruzione nellastoria degli ebrei, 70-1492 di MaristellaBotticini e Zvi Eckstein, pubblicatoin Italia dalla casa editrice dell'Uni-versità Bocconi, aveva raccontatocome l’antica lezione ebraica di in-vestire sull’educazione possa servirecome leva dello sviluppo economi-co. Il discorso qui si allarga: dopol’importanza dell’istruzione nello svi-luppo dei popoli e delle loro econo-mie e l'effetto dei valori culturali edelle norme sociali promossi dal-

l’ebraismo sulla storia economica edemografica degli ebrei, lo studio diJohnson e Koyama arriva ora a mo-strare come la maggiore propensio-ne alle comunicazioni e al commer-cio collegata alla presenza ebraicaabbia portato allo sviluppo di societàpiù "aperte", con il conseguente ef-fetto di un'accelerazione della cre-scita calcolabile fra il 5 e il 10 percento. Capitale umano, trasmissioneculturale e capacità di creare e man-tenere reti che si estendevano benal di là dei confini cittadini. Le reti

di rapporti e scambi sviluppate daicommercianti ebrei che si estende-vano per tutta l'Europa, soprattutto,erano un vero e proprio motore diintegrazione del mercato, e il gradodi apertura delle società europee nelcorso della storia è aumentato piùrapidamente proprio lì dove c'è statoil maggiore sviluppo delle comuni-cazioni marittime e del commercio,associato alla maggiore presenzaebraica. Nette le conclusioni: "Lecomunità ebraiche in Europa costi-tuivano solo una piccola percentuale

della popolazione del continente,ma erano coinvolte in maniera spro-porzionatamente maggiore delle al-tre comunità nel commercio e negliscambi; ciò era dovuto, in gran parte,ai propri legami culturali, linguisticie religiosi che attraversavano il con-tinente. (...) Perciò ci sono robusteragioni per ipotizzare che un canaleattraverso cui la presenza degli ebreiha recato beneficio economico allecittà sia stato quello che passava peri network commerciali".

Ada Treves

Region’s Jewish population

6.040.000

5.920.000

5.630.000

8.200.000

1.420.000

1.200.000

470.000

460.000

200.000

240.000

100.000

70.000

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pagine ebraiche n. 6 | Giugno 2016

Le parole chiave di Jewish Commu-nities and City Growth in PreindustrialEurope, ossia Comunità ebraiche ecrescita delle città nell'Europa preindustriale, il corposo saggio pub-blicato a fine febbraio da Noel D.Johnson e Mark Koyama sono: cre-scita di lungo periodo, urbanizza-zione, accesso al mercato, comunitàebraiche, tolleranza, religione, scarsadivergenza. Gli studiosi, in forza allaGeorge Mason University, in Virgi-nia, sono partiti da dati già esistenti- la presenza di una comunità ebrai-ca così come indicato sull'Encyclo-pedia Judaica e i dati sulla popola-zione nelle città raccolti dallo storicoeconomico Paul Bairoch - per mo-strare la correlazione fra sviluppocittadino e presenza ebraica. E ana-lizzando i dati anche alla luce di nu-merosi altri indicatori Johnson e Ko-yama, entrambi economisti, sono ar-rivati alla conclusione che la crescitadelle città dove era presente una co-munità ebraica fra il 1100 e il 1850,in Europa, è stata effettivamente piùrapida, con un effetto che però èemerso solo dopo il 1600, quandoiniziò a ridursi la repressione delle

La presenza ebraica come motore di sviluppo Capitale umano e reti commerciali contribuiscono allo sviluppo economico europeo, spiegano Noel D. Johnson e Mark Koyama

Ebrei a Milano. Due secoli di storia fra in-tegrazione e discriminazioni. Nel nuovo librodi Rony Hamaui, appena pubblicato da IlMulino, si racconta il ruolo trainante dellarealtà ebraica lombarda. Qui di seguito neanticipiamo un breve stralcio.La rinascita della Comunità ebraica iniziò nelmaggio del 1945 in via Unione 5. Da quel pa-lazzo passarono migliaia di rifugiati (Displa-ced Persons): per la maggior parte proveni-vano clandestinamente dai campi di concen-tramento e dai paesi dell’Europa centro-orien-tale. Lì, come ricorda Primo Levi, ritrovarono“un’atmosfera più familiare” e un’esistenzamigliore. Sotto la direzione di Raffaele Cantonifurono costituiti un piccolo ospedale, un tem-pio, una mensa e soprattutto un dormitorio.In quel luogo, che rimarrà nella memoria dimolti, operarono ben tredici organizzazioniebraiche, fra cui la Joint, l’Adei-Wizo, la Ort,e internazionali, come l’Unrra. La ricostru-zione della Comunità è anche indissolubil-mente legata alle figure di Carlo Schapira,Sally Mayer e del figlio Astorre. Il primo, uo-mo straordinario di origine romena, poliglotta,aveva fatto fortuna con il Cotonificio Bustese.Il secondo, giunto a Milano da un piccolo bor-

go della Germania, riuscì nel giro di pochianni a costruire un impero nella produzionedella carta. Quale primo presidente della Co-munità eletto nel dopoguerra, gestì con pas-sione e generosità l’assistenza ai profughi, siadoperò alla ricostruzione del Tempio di viaGuastalla, alla rinascita della scuola di viaEupili, della casa di riposo di via Jomelli edelle altre strutture amministrative e socialidella Comunità. Alla sua morte prematura ilfiglio Astorre, acceso sionista, prese le redinidell’azienda di famiglia, svolgendo contem-poraneamente il ruolo di console onorario delneonato Stato d’Israele e continuando a fornireun importante contributo all’ebraismo mila-nese. Fu sua la visione di costruire una nuova,“enorme” scuola ebraica che rispondesse allefuture necessità demografiche della popola-zione ebraica milanese in una zona allora deltutto periferica, fra via Lorenteggio e piazzadelle Bande Nere. In quel quartiere oggi vi-vono alcune migliaia di famiglie ebree, sorgonodiverse sinagoghe e operano alcuni negozi eristoranti kasher. Insomma, una piccola Broo-klyn meneghina. Tra la metà degli anni Quaranta e l’iniziodegli anni Cinquanta gli ebrei milanesi

erano riusciti con fatica a ridurre il fortegrado di eterogeneità che aveva caratteriz-zato la Comunità sin dall’origine, ancheperché accomunati da esperienze drammati-che quali il regime fascista, la secondaguerra mondiale, l’invasione nazista e laShoah. Dal punto di vista demografico, poi,la Comunità ebraica si presentava in rapidacrescita, dopo che le persecuzioni razzialiavevano quasi dimezzato il numero di ebreiresidenti nel capoluogo lombardo: da 7-8.000 persone prima della guerra a circa4.500 nel 1948. A spiegare questa crescita concorre il fattoche in quel periodo Milano era diventatauna meta importante per molti ebrei fuggitidall’Europa dell’Est o sopravvissuti aicampi. Inoltre, in quegli anni di speranza eboom economico, la natalità infantile co-nobbe una forte crescita, come in tutte leeconomie occidentali. Tuttavia il contributomaggiore alla crescita venne dagli ebrei infuga dai paesi arabi, dopo la proclamazioned’indipendenza dello Stato d’Israele nel1948. Inizialmente i più numerosi furonogli ebrei egiziani, che fuggivano dopo lacrisi di Suez del 1956, seguiti da libanesi,

siriani, marocchini e iracheni, mentre in se-guito arrivarono numerosi ebrei dall’Iran edalla Libia. Nel 1975 il numero degli scrittialla Comunità sfiorava le 9.500 persone,raggiungendo così il massimo storico. Diquesti, meno di un terzo era nato in Milano,un altro terzo proveniva da altre localitàitaliane o da paesi europei e ben il 37% dapaesi del Nordafrica e del Medio Oriente.Ancora una volta, com’era successo perbuona parte dell’Ottocento e della primametà del Novecento, la Comunità ebraica diMilano si trovava ad accogliere migliaia dipersone ricche di tradizioni, valori ed ener-gie, ma estremamente eterogenee e con evi-denti problemi d’integrazione. In questocaso le diversità risultavano ancora mag-giori che nel passato, giacché agli ebrei ita-liani e ashkenaziti si aggiungeva una fortecomponente di ebrei sefarditi culturalmentepiù distanti. Così si moltiplicavano sinago-ghe, scuole e centri culturali, che da un latoarricchivano l’offerta di servizi, dall’altrarendevano più complessi i rapporti fra i di-versi gruppi. Ancora una volta il punto diforza della Comunità ebraica erano la na-tura cosmopolita e l’alto livello d’istruzionedei suoi membri, caratteristiche che hannoaccompagnato l’intera storia dell’ebraismomilanese.

Milano ebraica, 150 anni d’integrazione

Fonte: Pew research center

Popolazione ebraica nel mondo per regioni, 2010 e 2050

Anni

2010

2050

2010

2050

2010

2050

2010

2050

2010

2050

2010

2050

Region’s total population

344.530.000

435.420.000

341.020.000

588.960.000

742.550.000

696.330.000

590.080.000

748.620.000

4.054.940.000

4.937.900.000

822.730.000

1.899.960.000

% Jews in region

1,8%

1,4%

1,6%

1,4%

0,2%

0,2%

<0,1%

<0,1%

<0,1%

<0,1%

<0,1%

<0,1%

Nord America

Medio oriente

e Nord Africa

Europa

America latina

e Caraibi

Asia e pacifico

Africa

sub-sahariana

La differenza nello sviluppo tra città con e senza ebrei

1.300 1.400 1.500 1.600 1.700 1.800Anni

5 10

15

20

25

Svilu

pp

o d

el m

erca

to e

con

om

ico

del

le c

ittà

Città senza ebrei Città con ebrei

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so: la mancanza di un network dicontatti, che gli israeliani si forma-no soprattutto durante gli anni del-l’università e ancora di più duranteil servizio militare, la scarsa cono-scenza della cultura del mercatodel lavoro locale, le aspettative chequesti olim coltivano, ossia trovareuna collocazione si-mile a quella che ave-vano nel paese di pro-venienza. Peraltro -sottolinea - ovvia-mente le persone con questo back-ground, sono quelle che più facil-mente si possono reinserire nellanazione d’origine, o altrove all’este-ro, e dunque coloro che con piùfacilità possono decidere di lasciare

Israele. Gvahim nasce e si sviluppaproprio per contrastare il fenome-no, per fare in modo che questiolim possano trovare in Israele ciòche si aspettano dal punto di vistaprofessionale”. Tra i servizi offerti, un Career Pro-gram che mette a disposizione

quattro giornate diorientamento, preve-dendo tra l’altro la re-visione del curriculumper renderlo più vici-

no alle esigenze del mercato israe-liano, e la nomina di un tutor pro-veniente dal settore di interessedel partecipante: a trovare un po-sto entro un anno dallo svolgimen-to del programma sono l’88 per

cento dei partecipanti (che nel2015 hanno raggiunto la cifra re-cord di 325). Per aiutare coloro che arrivano nelpaese ormai conosciuto nel mon-do come tempio dell’high-technon poteva mancare un’iniziativadi supporto alle start-up: lo scorsoanno The Hive, l’incubatore diGvahim, ha avuto 35 aziende chehanno raccolto una cifra pari a 9milioni di dollari. Dal successo diquesta esperienza, la no profit halanciato anche un programma disupporto per business in settoritradizionali. “All’inizio ci siamoconcentrati su società tecnologichead alta vocazione internazionale,poi ci siamo resi conto che c’era

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n. 6 | Giugno 2016 pagine ebraiche

DOSSIER /Mercati e valoriSalire in Israele: i segreti per fare carriera L’organizzazione Gvahim assiste nell’inserimento nel mercato del lavoro chi conta su formazione superiore e alta professionalità

La luce brillante di maggio risplen-de sul campus della Tel Aviv Uni-versity, prati verde profondo e al-beri carichi dei fiori vivaci tipicidella primavera israeliana. fra i tantigiovani che si muovono tra stradee vialetti, anche Lior. “Devo andarea Gvahim” spiega la ragazza in unebraico dal forte accento franceserivolgendosi al custode di una dellearee dei dormitori, diversi edificichiari che si affacciano su un cortilecurato. “Partecipo a un seminariodi orientamento professionale,”spiega Lior, che è arrivata in Israeleda Parigi. “Sto facendo uno stagee nel frattempo cerco di capire sel’aliyah fa per me”. Sono stati oltre 30mila coloro cheda tutto il mondo nel 2015 hannofatto l’aliyah (letteralmente “salita”)ovvero sono immigrati in Israeleottenendone la cittadinanza in ba-se alla Legge del Ritorno che, pro-mulgata nel 1950, sancisce il dirittodi ogni ebreo o discendente diebrei fino alla terza generazione atrasferirsi nello Stato ebraico, 7900quelli provenienti proprio dallaFrancia. La cifra ha segnato un au-mento del 10 per cento rispettoall’anno precedente, andando aconfermare un trend di crescita.Molteplici le ragioni alla base dellascelta: perseguire i propri ideali,l’aumento dell’antisemitismo, laprospettiva di trovarsi in un paeseche cresce a ritmo di 2,5/2,8 percento all’anno, dove la disoccupa-zione nel mese di aprile ha fattosegnare il minimo storico del 4,9per cento. Tra le reti di supportoa disposizione per i nuovi arrivati,anche Gvahim, letteralmente “al-tezze”, che richiama il concetto di“haskalah gvuah”, istruzione supe-riore (post-liceale). Già, perché na-ta nel 2006 e no profit indipen-dente dal 2009, Gvahim si rivolgeproprio a coloro che emigrano inIsraele con una laurea e magariuna carriera professionale alle spal-le, e che paradossalmente rischia-no di trovarsi in difficoltà, comespiega Daniela Fubini, collabora-trice di Pagine Ebraiche e direttoremarketing dell’organizzazione. “Sipotrebbe pensare che chi arriva inIsraele già con una laurea e unaesperienza di un certo tipo abbiameno problemi a inserirsi nel mer-cato del lavoro. In realtà però di-versi fattori complicano il percor-

La circolazione dei cervelliLa cosiddetta “fuga di cervelli”, laureati di talento

e persone con qualifiche professionali di alto livello

che si trasferiscono all'estero, è stato uno dei grandi

temi di cui si è discusso negli ultimi tempi in Italia.

Un tema che ha generato forti polemiche ma che

non è stato sollevato solo in Italia. Anche in Israele

– che pure ha una situazione

economica ben diversa dal

Bel Paese (nel 2015, Israele

ha registrato una crescita

del Pil del 2,5% contro lo

0,8% italiano mentre il tasso

di disoccupazione era al

5,3% contro il 12% italiano)

– vi era stato qualche tempo

fa un dibattito sulla fuga dei

cervelli. “Quanto devono

preoccuparsi i paesi come Israele che investono mol-

to nell'educazione dei propri studenti per poi vederli

trasferire all'estero?” si chiedeva Orly Lobel, docente

israeliana della University of San Diego School of

Law nonché membro della Harvard University Center

for Ethics and the Profession. La risposta di Lobel

è: “Non molto”. Da un rapporto redatto per l'Orga-

nizzazione delle Nazioni Unite nel 2012, e di cui la

Lobel è coautrice, risulta che che affinché queste

nazioni possano prosperare, si deve “incoraggiare

e facilitare la loro capacità di conoscenza del net-

working internazionale”. I geografici economici –

spiega Lobel - chiamano questo concetto "circola-

zione dei cervelli", ovvero il

rovescio della medaglia rispet-

to alla tanto temuta fuga dei

cervelli. La capacità di creare

connessioni di un paese, si sco-

pre, influenza direttamente il

suo sviluppo economico in una

moltitudine di modi. Un esem-

pio – continua la studiosa - è

che l'emigrazione qualificata

è significativamente e positi-

vamente correlata con gli investimenti stranieri nel

paese di partenza. Non solo, almeno per Israele, mol-

ti dei partenti tornano nel Paese, porando il know

how acquisito all'estero. È questa realtà intercon-

nessa, sottolinea Lobel, che ha portato ad esempio

in Israele ad avere oggi il più alto livello di capitale

di rischio pro capite al mondo.

anche l’esigenza di assistere ideeimprenditoriali di altro tipo, in set-tori più tradizionali, e magari in-teressate esclusivamente al merca-to locale: così è nato The Nest, dicui abbiamo appena completato ilprogetto pilota” riprende Fubini.Attivo con diversi programmi aTel Aviv, Gerusalemme, Ashdod,Haifa, attualmente Gvahim contaoltre 2000 alumni, provenienti peril 54 per cento dall’Europa occi-dentale, per il 10 dall’Europa orien-tale, per il 23 dal Nord America,per l’11 dal Sud America e per il2 dall’Asia e Sud Africa. Sono oltre400 i tutor, e 650 i partner azien-dali, fondamentali anche in un al-tro dei programmi dell’organizza-zione, il Professional InternshipProgram, che consente a studentie neolaureati tra i 21 e i 30 annidi svolgere uno stage, con la col-laborazione di Masà, il bracciodell’Agenzia ebraica che offre borsedi studio e programmi tra i 5 e i10 mesi in Israele prima di farel’aliyah. In un’età in cui l’immigra-zione e l’inserimento degli immi-grati rappresentano uno dei grandinodi che il mondo, Italia ed Eu-ropa in primis, si trova ad affron-tare, potrebbe il modello Gvahim,e più in generale quello israeliano,insegnare qualcosa?“Sin da quando sono entrata incontatto con Gvahim da parteci-pante nel 2009, ho pensato che sa-rebbe bello che il suo patrimoniodi esperienza potesse essere messoa disposizione di altre realtà, ma-gari non a livello nazionale, masenz’altro cittadino, o magari coin-volgendo singole comunità cheoperano sul territorio. Penso - con-clude Fubini - che potrebbe fun-zionare molto bene”.

r.t.

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“Nel Medioevo gli ebrei eranoodiati per la loro religione. Nel19esimo e nel 20esimo secolo perla loro ‘razza’. Oggi lo sono per viadel loro Stato nazione, Israele. Bi-sogna dirlo: l’antisionismo è il nuo-vo antisemitismo”. Così scrivevasul Newsweek rav Jonathan Sacks,una delle voci più autorevoli del-l'ebraismo internazionale ed exrabbino capo del Commonwealth.E uno dei movimenti più noti chesi proclama oggi antisionista è ilcosiddetto Bds (boycott, dive-stment and sanction), movimentopropalestinese che mira a colpiree isolare Israele economicamentee culturalmente. Formalmente, ilBds è iniziato nel 2005 con unacampagna sostenuta da circa 150organizzazioni palestinesi con lafinalità di incoraggiare una con-danna pubblica in Occidente “del-l'occupazione e degli insediamenti”.I leader del Bds chiedono "pienauguaglianza" per i cittadini pale-stinesi in Israele e vogliono che siaapprovata la richiesta di un dirittopalestinese al ritorno. Tra i suoifondatori c'è Omar Barghouti, na-to in Qatar, è cresciuto tra Egittoe Cisgiordania, che, spiegava ilNew Yorker, in un'intervista insi-

steva sul fatto che il Bds non sa-rebbe una minaccia per la soprav-vivenza di Israele, ma piuttosto peril suo “ingiusto”. Lo stesso giornaleamericano sottolineava come die-tro a questa affermazione ci siamolto ambiguità e come in Israeleci sia una cerca preoccupazioneper il fenomeno. Più per il suo sviluppo nelle acca-demie americane e britanniche chedal punto di vista economico. Pe-raltro in entrambi i paesi, Usa eGran Bretagna, è stata adottatauna legge che vieta la possibilitàagli enti pubblici del paese di boi-cottare i prodotti israeliani. NegliStati Uniti, nella sezione 909 dellalegge per la Facilitazione e il so-stegno del commercio si legge cheWashington si oppone “ad azionipoliticamente motivate che pena-lizzino o comunque limitino i rap-porti commerciali con Israele, co-me nel caso di boicottaggi, disin-vestimenti o altre sanzioni”.Dal punto di vista economico, sidiceva, i timori sull'impatto del Bdssono piuttosto moderati. Da unsondaggio realizzato dall’ente go-vernativo Israel Foreign TradeRisks Insurance Corporation risul-ta che solo il 6 per cento delle

aziende esportatrici israeliane sidichiara preoccupato per gli even-tuali danni economici del boicot-taggio. Secondo l’indagine, che fariferimento a 150 compagnie me-dio-grandi, il 42 per cento ritieneche altre siano le preoccupazioni,ovvero vorrebbe che il governo ei leader economici si occupasserodell’attuale tasso di cambio tra she-kel, dollaro ed euro. Tornando alboicottaggio, il fenomeno interessasoprattutto l’Europa e gli Stati Uni-ti e il presidente di ASHR’A TzahiMalah non vede questi due mer-cati nel futuro delle esportazioniisraeliane. Intervistato dal sito di

informazione economica Globes,Malah ha spiegato che le nuovedirettrici che le aziende israelianestanno seguendo portano in Africae in Asia. “Il 90 per cento delle as-sicurazioni nel portafoglio diASHR’A sono legate ad accordi inAsia e Africa”. E quest’ultima, af-ferma Malah, costituisce il mercatocon il più grande potenziale.Tra gli scettici sul peso effettivodel movimento Bds anche figuredel mondo accademico israeliano.In un’intervista David Newman,rettore della facoltà di Scienzeumanistiche e sociali dell’universitàBen Gurion, ha affermato che “c’è

un brusio dei media generato dalmovimento per il boicottaggio equesto è sicuramente spiacevole.Dall’altra parte l’impatto sulla coo-perazione accademica e per la ri-cerca tra Israele e Stati Uniti e traIsraele ed Europa è minimo. Percome la vedo, è inesistente”. Lostesso Newman afferma però che,soprattutto negli Stati Uniti, il cli-ma che si respira nelle universitàrispetto a Israele può danneggiareil paese. Un punto su cui negli ul-timi mesi si è espresso più volteYair Lapid (nell'immagine mentremostra il manifesto pro-Boicottag-gio affisso mesi fa nella metropo-litana di Londra), ex ministro delleFinanze di Israele, che ha invitatoa lavorare nel mondo delle univer-sità americane per restituire il giu-sto volto di Israele e non quellodistorto presentato dal Bds. “Se laragione del boicottaggio fosse re-almente la questione dell’occupa-zione Israeliana di territori pale-stinesi e siriani - ricordava sul por-tale dell'ebraismo italiano il demo-grafo Sergio Della Pergola - le per-sone oneste scenderebbero in cam-po con altri 150 boicottaggi”. “Ma- continuava il professore- il boi-cottaggio contro Israele ha pocoo nulla a che fare con il conflittoterritoriale e con l’onestà delle per-sone. La scelta di boicottare Israeledimostra fissità e ossessione poli-tica. Per questo va ridicolizzata ecombattuta con ogni mezzo”.

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pagine ebraiche n. 6 | Giugno 2016

Bds, l’antisemitismo si mette in affariIl movimento del boicottaggio preoccupa Gerusalemme, ma il mondo economico guarda oltre

Università Usa, chi finanzia gli anti-israeliani Chi c'è dietro ai movimenti stu-

denteschi che nelle università

americane invocano il Bds (Boi-

cottaggio, Disinvestimento e san-

zioni) contro Israele? Se lo è chie-

sto Jonathan Schanzer, presiden-

te della Foundation for Defense

of Democracies, che sulla que-

stione è stato ascoltato a metà

aprile dalla commissione Affari

esteri del Congresso Usa. Schan-

zer, ex funzionario del Diparti-

mento del Tesoro ed esperto di

terrorismo, ha analizzato in par-

ticolare le fonti di finanziamento

della Students for Justice in Pa-

lestine (Sjp), il cui obiettivo di-

chiarato è porre fine "all'occupa-

zione e alla colonizzazione di tut-

te le terre arabe” da parte di

Israele e “la promozione dei di-

ritti dei rifugiati palestinesi di ri-

tornare alle loro case”. Un altro

modo, rileva il Wall Street Jour-

nal, per dire di volere “la distru-

zione di Israele”. Secondo Schan-

zer dietro alla Sjp e altri gruppi

simili attivi nelle università ame-

ricane vi è l'organizzazione Ame-

rican Muslims for Palestine

(Amp), con sede a Palos Hills, nel-

l'Illinois, ed è guidata da Hatem

Bazian, docente a Berkley nonché

tra i fondatori di Sjp. L'Amp, ri-

porta il Wall Street Journal, ha

dichiarato di aver speso 100mila

dollari nel 2014 per attività an-

ti-israeliane nei campus statuni-

tensi. La Foundation for Defense

of Democracies ha scoperto che

molti dei membri più importanti

dell'Amp erano attivi in associa-

zioni di beneficienza dalle attivi-

tà controverse. Tra queste, la più

importante è la Holy Land Foun-

dation For Relief and Develop-

ment, basata in Texas e chiusa

nel 2001 dal governo federale

per aver finanziato per milioni di

dollari il gruppo terroristico pa-

lestinese di Hamas. “Cinque fun-

zionari di Holy Land – spiega il

Wall Street Journal - alla fine so-

no stati condannati a pene de-

tentive e altri due sono fuggiti

dal paese”. Ma non tutti gli affi-

liati alla Holy Land sono rientrati

nell'indagine e alcuni di loro sono

oggi tra i membri più importanti

dell'American Muslims for Pale-

stine, tra cui Salah Sarsour, com-

merciante a Milwaukee. E il fra-

tello di Sarsour, Jamil, secondo

un report Fbi del 2001, nel 1998

ha confessato alle autorità israe-

liane che “alcuni membri dell'Isla-

mic Center di Milwaukee, tra cui

i suo fratelli Salah e Imad, erano

coinvolti nella raccolta fondi

portata avanti da Holy Land e di-

retta a finanziare Hamas”. Shan-

zer nella sua testimonianza ha

sottolineato di non aver trovato

prove dirette di attività illecite

e che, in ogni caso, anche i cospi-

ratori hanno dei diritti. Dall'altra

parte è diritto dell'opinione pub-

blica, e non solo, sapere chi sono

le persone che finanziano il Bds

e quali sono i loro legami con

gruppi palestinesi come i terro-

risti di Hamas.

© K

ichk

a

Mi dia un boicottaggio economico, uno politico

e uno universitario

Avete diritto a uno culturale

in omaggio

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ORIZZONTI / P23

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pagine ebraiche n. 6 | giugno 2016

Il divieto più assurdo? La cancel-lazione della parola “Israele” daitesti di preghiera, rigorosamentetradotti in farsi. L’ordine arriva daipalazzi governativi e quindi non sipuò fare altrimenti. Le conseguen-ze possono essere molto gravi. Noncerto un’esperienza comune quellavissuta da Yehoshua, manager incampo farmaceutico che vive traMilano, il Monferrato, la Francia ela Danimarca. Alcuni giorni (perlavoro) in Iran. Per chi nel cogno-me tradisce una evidente origineebraica, non proprio un fatto di tuttii giorni. Un’occasione più unica cherara per conoscere luoghi inacces-sibili a molti, rendersi conto dellarealtà con i propri occhi e tastarecon mano le molte complessità diun paese su cui mai come adessosono puntati gli occhi del mondo.E una visita che più di altre ha la-sciato il segno: un pomeriggio inpreghiera assieme agli ebrei di Te-heran, in una delle sinagoghe dellacapitale (nell’immagine grande).“Era la prima volta che andavo inIran. Non nascondo che alla vigiliafossi un po’ turbato per il viaggioche mi accingevo a compiere. Glistrali degli ayatollah, il ricordo diAhmadinejad, la pena capitale peri gay, i concorsi negazionisti, le pa-role di odio nei confronti di Israelecome tratto comune alle diverseleadership più o meno ‘moderate’.Ecco, diciamo che ho visitato paesi

più liberali e amichevoli” dice algiornale dell’ebraismo italiano Ye-hoshua, subito impressionato dallivello di controllo dei Guardianidella Rivoluzione. Un controllo evi-dente appena messo piede a terra:donne velate, clima pesante. Il po-meriggio nella sinagoga YusefAbad, la più grande di Teheran,meravigliosamente ornata di mo-

saici e iscrizioni orientali, è statoricco di stimoli. E ha portato allaluce almeno un paradosso. Perchémentre Israele continua ad essereil nemico per antonomasia del go-verno, “l’entità sionista” cui possonoessere dedicati soltanto pensieri bel-licosi, lo stesso (almeno apparen-temente) non si può dire dei rap-porti con la comunità ebraica cit-

tadina e nazionale. “La cosa curiosaè che tutte le persone con cui hoparlato sono orgogliose della loroidentità ebraico-iraniana. Hannoun rappresentante al Parlamento,servono l’esercito, rifiutano offertelavorative dall’estero. Ho potutoconstatare che è possibile muoversiin spazi pubblici con la kippah sen-za essere disturbati o correre par-

ticolare rischi” dice Yehoshua.Purtroppo le note positive finisconoqui. Perché l’odio viscerale dellaclasse dirigente nei confronti diIsraele finisce comunque per riper-cuotersi sulla vita comunitaria.L’esempio citato ne è una provapiuttosto evidente. “Ogni libro otesto in ebraico deve essere tradot-to. E non può esistere nelle sue pa-gine alcun riferimento allo Statodegli ebrei, il cui nome va sostituitocon parole o espressioni alternative.Come Eretz ad esempio” raccontaYehoshua, che ha scattato alcunefotografie di questo straordinarioincontro. Quel pomeriggio resta l’esperienzapiù forte all’interno di giornate mol-to intense e istruttive. “La gente siè rivelata accogliente, ospitale, ge-nerosa. Decisamente migliore dichi lo guida e della casta degli aya-tollah che tutto controlla e tuttodispone. Mi auguro che prima opoi il loro Medioevo abbia fine. Pergli iraniani – conclude Yehoshua –ma anche per tutti noi”.

Adam Smulevich

Italia-Iran, viaggio tra i pregiudizi

Uomo di grande spessore, nato a Zurigo,

carriera militare nell’esercito svizzero,

moglie norvegese sopravvissuta all’orrore

di Auschwitz, David Rothschild nell’arco

della propria vita ha sempre cercato di da-

re il proprio contributo e il massimo del

proprio impegno al mondo ebraico, sia nei

confronti di Israele e sia delle realtà della

Diaspora, senza dimenticare la società in

generale. Ospite a Tel Aviv del Shalom La-

’am Center, Rothschild ha ricordato la sua

storia. La sua professione? Ingegnere spe-

cializzato nel controllo della produzione

automedica, una carriera lavorativa che

lo ha portato in giro per il mondo, a con-

tatto con diverse culture: Iran, Cina, Thai-

landia, Singapore, India, Indonesia, Ger-

mania, Italia, Spagna, Sud Africa, Brasile,

Messico, Usa, Canada.

In Sud Corea, i colleghi che lo attendevano

all’aeroporto di Seoul rimasero stupiti nel

vederlo, racconta. Avevano un’immagine

stereotipata degli ebrei e non potevano

credere che quell’uomo senza cappello e

lunghe basette arricciate potesse esserlo.

Durante il suo soggiorno nel paese, Ro-

thschild spesso si trovò a mangiare in

compagnia dei colleghi portando sempre

con sé il proprio sandwich casher.

Il carattere giramondo del suo lavoro e il

suo impegno sul fronte ebraico lo portò

nel 1984 ad organizzare l'incontro tra pa-

pa Karol Wojtyla, che si trovava in Svizze-

ra, e i rappresentanti della comunità

ebraica elvetica. Preparò, come da proto-

collo, gli argomenti da trattare e le do-

mande da rivolgere al pontefice, tre set-

timane prima dell’incontro.

La liturgia nel cattolicesimo aveva diversi

rimandi antisemiti, ricorda Rothschild, e

il pontefice affermò che la chiesa stava la-

vorando per trovare una soluzione.

Alla domanda sul perché lo Stato della

Chiesa non riconosce lo Stato di Israele, il

pontefice rispose in francese come segue:

“Amico mio, io penso che la Terra Santa

appartenga ai figli, ai discendenti di Abra-

mo”. Una risposta, a giudizio di Rothschild,

intelligente e allo stesso tempo diploma-

tica perché non offese nessuno. Terminata

la visita, la delegazione vaticana gli con-

segnò, come dono alla comunità, una me-

daglia commemorativa dell'evento.

Ma l'impegno di Rothschild non fu solo di-

retto al dialogo con il mondo cattolico.

Numerosi furono i contatti con ebrei scap-

pati dall'allora Unione Sovietica e rifugia-

tisi in Germania. Di loro, l'ingegnere, cui

porta con se un ricordo molto vivo: questi,

nonostante l'impossibilità di vivere libe-

ramente, non dimenticarono mai le propri

origini, mai rinnegarono la loro apparte-

nenza al popolo ebraico. Lui non partì mai

per l'Unione Sovietica, nonostante il forte

desiderio di toccare con mano quella re-

altà. Ad impedirglielo, ricorda, la moglie,

testimone delle atrocità dei regimi tota-

litari, che non avrebbe mai permesso al

marito di correre alcun rischio.

Al pubblico riunitosi all'incontro a Tel Aviv,

Rothschild ha spiegato la sua visione del

mondo. Tre i suoi capisaldi rispetto al-

l'ebraismo: essere consapevoli che tutto

quello che abbiamo dipende dal Signore e

a Lui dobbiamo mostrare infinita gratitu-

dine; la preghiera Mode Ani con la quale

ringraziamo il Signore per averci dato la

possibilità di svegliarci e continuare a vi-

vere, che per Rothschild rappresenta l'es-

senza di ogni ebreo, e lo Shabbat con l'at-

mosfera che lo contraddistingue, che uni-

sce le persone e le porta al dialogo.

Gavriel Zarruk

David e quei pasti casher a Seoul

u La comunità ebraica di Persia, attuale Iran, è uno delle più antiche

della Diaspora, e le sue radici storiche risalgono al VI secolo e.v., al

tempo del Primo Tempio. Nel corso del XIX secolo, gli ebrei iraniani

sono stati perseguitati e discriminati dal potere centrale e dalla

popolazione. A volte intere comunità sono state costrette a

convertirSI. Al momento della fondazione dello Stato di Israele nel

1948, vi erano circa 140-150mila ebrei in Iran. Oltre l'85 per cento

emigrerà nel corso degli anni verso lo Stato ebraico e gli Stati Uniti.

Secondo un recente censimento, l'attuale popolazione ebraica

dell'Iran conta 8.756 persone, mentre il numero dei cosiddetti cripto-

ebrei (coloro che furono costretti alla conversione) è sconosciuto.

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/ P24 ECONOMIA

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraiche

Nelle scorse settimane un clamo-roso fatto di cronaca ha attiratol'attenzione dei media internazio-nali sulla Borsa dei diamanti diTel Aviv. Uno degli operatori au-torizzati a negoziare diamanti,tale Hanan Abramowitz, è statoarrestato per avere realizzato un"buco" di 65 milioni di dollari aidanni di altri operatori, da cuiaveva ricevuto a prestito merce edenaro. Il fatto di cronaca ha atti-rato l'attenzione sulle profondecontraddizioni della borsa dei dia-manti di Tel Aviv, considerato ungigante economico con i piedi diargilla. Ma andiamo per ordine.Il settore dei diamanti riveste un

ruolo notevole nell'economiaisraeliana. Nel 2015 sono statiesportati brillanti per 5 miliardi didollari (soprattutto verso gli USAe Hong Kong), uno dei principalisettori esportatori dopo l'indu-stria militare e l'high tech. Forni-sce lavoro a circa 17.000 persone,tra tagliatori, opera-tori all'ingrosso evendita al dettaglio.Negli ultimi annil'attività di tagliodei diamanti si è inparte spostata inpaesi dove la mano-dopera costa poco,soprattutto in India. Oltre che dall'elevata concorrenza da parte deipaesi emergenti, il settore risentenegativamente anche del calo delprezzo dei diamanti osservato daalcuni anni sui mercati interna-zionali.Quali sono le critiche che vengono

mosse alla borsa dei diamanti,anche alla luce di questo recentedissesto da 65 milioni di dollari?La principale accusa è che a diffe-renza delle borse delle azioni o dialtre commodities, quella dei dia-manti è priva di regole e poco tra-sparente: pur essendo ogni giorno

presenti fisicamentenelle casseforti degliuffici della borsa ben10 miliardi di dollaridi diamanti, i 2500operatori autorizzatilavorano per stretta dimano e senza con-tratti; le controversie

vengono risolte da una commis-sione arbitrale interna, senza ri-correre alla giustizia ordinaria senon in casi eccezionali comequello di cui sopra. Qualche annofa anche il prestigioso governatoredella Banca centrale israelianaStanley Fischer (nell'immagine)

aveva esortato la borsa dei dia-manti a diventare più trasparentecome precondizione per attirareinvestimenti e rimanere competi-tiva. Anche il regime di tassazione(un'imposta dell'1,3 per cento sulfatturato di ogni operatore) vienecriticato perché eccessivamentegeneroso e utilizzabile a fini dievasione; più in generale vi è il ti-more che l'opacità della borsa con-senta attività di riciclaggio.Come si difendono da queste criti-che gli operatori autorizzati? Laprincipale argomentazione è chequesta gestione "famigliare" hafunzionato bene per oltre 50 annie i casi di reati gravi sono stati po-chissimi. Un'altra giustificazioneè che l'imposizione di regole comeper i mercati azionari e un au-mento della tassazione avrebberol'effetto di favorire i paesi concor-renti, spostando lí parte degliscambi.

ú–– Aviram Levyeconomista

Tel Aviv, la Borsa ora vuole voltare pagina

Dallo scorso 4 aprile gli abitanti del-lo Stato di New York vivono conuna nuova certezza, e cioè che illoro stipendio non potrà più scen-dere sotto i 15 dollari all'ora. Inquella data infatti il governatore An-drew Cuomo ha firmato una nuovalegge che farà aumentare gradual-mente lo stipendio minimo all'in-terno dello Stato dai 9 dollari attualie darà anche altre garanzie tra cuidodici settimane di permesso permotivi famigliari in caso di neces-sità. Una piccola rivoluzione delmondo del lavoro che per StoshColter, direttore dell'organizzazioneebraica attivista in campo econo-mico Bend the Arch: A Jewish Par-tnership for Justice, e il rabbino BenHerman, costituisce un cambiamen-to per la società in generale e inparticolare aiuterà la comunitàebraica newyorkese, come hannoscritto in un editoriale a sostegnodella legge pubblicato sull'Huffin-gton Post."La diseguaglianza economica haindiscutibilmente raggiunto un pun-to di crisi nel nostro paese", hannoscritto. "Il costo di tutto, dall'im-mobiliare alla spesa, dall'asilo al col-lege, negli ultimi decenni è cresciu-to. Ma per troppi americani, il verovalore del proprio stipendio è rima-sto lo stesso, se non calato. Comeleader spirituali – hanno proseguito– vediamo questa crisi non soltantocome economica, ma anche mora-le: quando un genitore che lavoraa tempo pieno non è pagato abba-stanza per potersi permettere il ci-bo, i vestiti e un tetto per suo figlio,è più che economicamente ingiusto,è una violazione dei diritti americanifondamentali".

IL COMMENTO PROFUGHI, DIPENDENZE E CALCOLI D’INTERESSE

Il tema è al medesimo tempo eco-nomico, sociale, politico ma ancheculturale, se con quest’ultimaespressione ci si rifà allo “spiritodei tempi”, ovvero ai pensieri cosìcome alle suggestioni dominantinel grande pubblico. Tutta la“questione palestinese” continuaad essere formulata, soprattuttotra i suoi sostenitori, come pro-blematica che troverebbe il suoancoraggio in una permanenteemergenza umanitaria. È così dal1948 ma lo è divenuto ancora dipiù negli ultimi trent’anni. Ilnesso tra l’etnonimo “palesti-nesi” e la condizione di rifugiatoo profugo è dato come un giudiziodi senso comune, una sorta diidentificazione pressoché automa-

tica. Sulla scorta di ciò, si ritieneche ogni atto economico o di qual-siasi altro genere rivolto a quellacollettività sia motivato dall’ur-genza delle condizioni, dall’inde-rogabilità dei problemi, dalbisogno impellente e insindaca-bile da soddisfare. Da tale atteg-giamento, come dalla mancatasoluzione negoziale dei grandiproblemi apertisi prima del 1948e cristallizzatisi poi nel corso deltempo, è nata ed cresciuta, finoad assumere dimensioni ragguar-devoli, un’economia della dipen-denza dal conflitto e dal sostegnointernazionale. In altre parole, enon si tratta di una novità, allenecessità reali si sono sovrappo-ste aspettative che si alimentanodella permanenza del confrontostesso tra la comunità palestinese

ed Israele. Il complesso, faraonicose non elefantiaco sistema degliaiuti dell’Unrwa si muove all’in-terno di queste coordinate, allequali non sono per nulla estraneicalcoli e interessi di ordine poli-tico. Al contributo della NazioniUnite si è aggiunto, nel corso deltempo, quello delle Organizza-zioni non governative, parte diquel “terzo settore” e dell’area delcosiddetto “no profit”. In diversicasi nate e cresciute come espres-sione spontanea di un comunesentire umanitario si sono poitrasformate, nel corso del tempo,in vere e proprie aziende, congrandi budget, un managemental pari di quello delle imprese in-ternazionali del settore privato ela capacità di fare “fund raising”intercettando capitali pubblici e

la disponibilità dei privati a do-nare denari per “attività senzafini di lucro”. Se il giudizio, al ri-guardo, non può mai essere gene-ralizzato, dovendo semmai essereformulato caso per caso, rimanetuttavia il fatto che una parte diqueste strutture, sospese tra l’at-tività economica e la promozionepolitica, che operano all’internodei territori dell’autonomia pale-stinese così come nel circuito in-ternazionale, vive all’ombra delconflitto. Non malgrado o nono-stante esso bensì grazie al suopersistere. Non di meno, c’è dachiedersi quanto i contributi ora-mai da molto tempo offerti al-l’economia palestinese, affinchéessa si emancipasse, sono risul-tati effettivamente profittevoli equanto, invece, siano serviti a

mantenere lo status quo che co-nosciamo. Aiutare senza rendereautonomi i destinatari dei bene-fici, ossia capaci di muoversi conle proprie gambe, rivela infattiuna sorta di scopo recondito, oper meglio dire latente, in opposi-zione a quanto si afferma a vivavoce: avere comunque dei sog-getti dipendenti da una filantro-pia politica che dice di volerecontribuire al superamento deidifferenziali che il conflitto inge-nera quando invece trae concretobeneficio dalla loro riproduzione.È questo un nodo non da poco,essendo parte importante delleaspettative, da certuni nutrite,che nulla cambi. Poiché, comequalcuno riconoscerebbe a dentistretti, finché c’è guerra c’è spe-ranza.

CLAUDIO VERCELLI

Consapevoli che già nella storiapassata gli americani siano riuscitiattraverso le rivoluzioni politichedei lavoratori a rialzarsi da simili si-tuazioni di crisi, "gli ebrei americani,e molte altre comunità religiose, sistanno facendo avanti in questa bat-taglia" hanno osservato Colter eHerman. "Molti di loro, in partico-lare newyorkesi – hanno spiegato– vengono da famiglie immigrate

negli Stati Uniti all'inizio del XX se-colo, trovando impiego in fabbriche

con salari bassi e scarsa sicurezza sullavoro. Tali esperienze formative

hanno aiutato a plasmare l'attivismoche caratterizza la storia della nostracomunità. Gli ebrei erano profonda-mente coinvolti nelle storiche vittoriedi quell'epoca e poi nelle battaglieper i diritti civili degli anni Sessanta,poiché capivano che la giustizia eco-nomica e sociale sono strettamenteconnesse. Non ce ne staremo in di-sparte nemmeno ora – la loro con-clusione – in una delle più grandibattaglie per a giustizia economicae sociale della nostra generazione,in cui innumerevoli americani fati-cano ad arrivare a fine mese".

A New York tra salari e diritti

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pagine ebraiche n. 6 | giugno 2016

Il 23 maggio 1996 Benyamin Neta-nyahu vinceva per la prima volta,clamorosamente, a sorpresa e per unpugno di voti, le elezioni dirette perla presidenza del consiglio dei mini-stri israeliano. Nel mese del maggiodi vent’anni dopo, Netanyahu eraancora primo ministro in Israele.Anche se questo modo di porre lecose non piacerà a certi attivisti del-le reti sociali, si può dunque dichia-rare compiuto il primo ventennio diBibi al potere. La discussione restaaperta sui risultati politici del lungopremierato del leader del Likud e suisuoi anni lontano dal potere, suisuoi successi e i suoi fallimenti, masemanticamente vent’anni sonosempre un ventennio. Ora, a un an-no dalla terza vittoria elettoraleconsecutiva di Netanyahu, il siste-ma politico israeliano è in piena fi-brillazione. Piuttosto che dalle mu-tevoli circostanze del sistema geopo-litico mondiale, regionale e locale,

ciò sembra dipendere dai difficiliequilibri fra le correnti all’internodei partiti e soprattutto dall’ambi-zione primaria di Netanyahu diconservare il potere a qualunqueprezzo, anche quello di scuotere dal-le radici la sua propria base politica.Il fatto che ha suscitato maggiore

stupore è il licenziamento in troncodel ministro della difesa Moshe Ya-’alon. La causa occasionale è il fortesostegno che il ministro uscenteaveva dato ai militari del quartiergenerale di Tsahal dopo che questiavevano parlato apertamente dellanecessità di salvaguardare moralità,

equilibrio e auto-controllo all’inter-no dell’esercito. E questo di fronte amanifestazioni di violenza fuori leg-ge da parte di civili o anche da partedi singoli membri delle forze arma-te. L’esempio più clamoroso è quellodel giovane sergente che a Hebronha ucciso con un colpo alla testa un

terrorista palestinese che giaceva aterra ormai gravemente ferito e neu-tralizzato. Fra gli altri fatti incre-sciosi, l’uccisione di un ragazzo ara-bo, bruciato ancora vivo nella fore-sta di Gerusalemme per vendicarel’assassinio di tre studenti ebrei daparte di terroristi palestinesi; l’in-cendio di una casa nei pressi di Na-blus con la morte di un neonato edei suoi genitori. Di fronte a taliepisodi, l’opinione pubblica israelia-na è polarizzata. L’esercito ha scel-to, a suo onore e in barba alle stolteaccuse di militarismo, la via dellatutela dei diritti civili mentre diver-si politici (Bennett, Lieberman, poiin parte imitati da Netanyahu) han-no preferito la via di un ambiguopopulismo che strizza l’occhio allefrange estreme dell’elettorato.Moshe Ya’alon, per chiarire, è unuomo ideologicamente molto conser-vatore, fautore dell’immobilismo perquanto riguarda un’eventuale trat-tativa con i palestinesi. Ma è ancheun uomo integro, di parola e diprincipi, fuori dal gioco delle cor-renti del Likud. La sua testa era ne-cessaria per poter concludere unagrande manovra politica di allarga-mento della coalizio-

Uno dei compiti dell’Unione delleComunità ebraiche italiane è “as-sicurare la preservazione dellatradizionale presenza nel territo-rio italiano di radicate comunitàebraiche locali … fornendo loro eai loro iscritti assistenza e consu-lenza”. Ma quale deve essere l’og-getto di tale consulenza e assisten-za? L’articolo 1, comma 3, delloStatuto dell’Ebraismo italianoelenca tutti i possibili obiettivi chele Comunità possono in linea diprincipio perseguire (praticamen-te si tratta di un elenco di tuttoquello che le Comunità oggi fan-no) e il comma 4 le lascia libere diadottare ogni azione che i suoi or-gani ritengano utili e necessari(eccetto l’alienazione del propriopatrimonio che deve essere pre-ventivamente autorizzata dal-

l’Unione). A una prima letturapertanto, lo Statuto lascia le co-munità libere di adottare qualsiasiazione esse ritengano necessariaper perseguire la propria missione(eccetto l’alienazione del patrimo-nio), di fatto impedendo all’Unio-ne di incidere, anche solo con“mozioni e indirizzi”,sui comportamentitroppo rischiosi o av-ventati delle Comuni-tà. Più nel dettaglio l’ar-ticolo 1, comma 3,dello Statuto prevede(correttamente) che lecomunità si occupinodel culto, delle scuole,dell’assistenza aglianziani, della culturae della preservazionedel proprio patrimonio. Inoltre,con una previsione volta soprat-tutto a giustificare l’esistente sen-za assolutamente domandarsi se leattività elencate siano strategica-mente opportune, le comunitàpossono “istituire, gestire e orga-

nizzare ospedali, ambulatori, cam-peggi, colonie, mense, orfanotrofi,strutture ricettive ed ogni altrastruttura destinata al soddisfaci-mento delle esigenze sociali dellacollettività ebraica”. Perché inquesto elenco sono stati per esem-pio inseriti ospedali e ambulatori?

La risposta è semplice,perché la Comunitàebraica di Roma ne ge-stisce uno. Le comunità non do-vrebbero essere liberedi avviare e gestirequalsiasi attività. Lodovrebbero poter faresolo se le esigenze spe-cifiche della comunitànon potrebbero esseresoddisfatte in manierameno costosa. Come ho

sostenuto in un precedente artico-lo su Pagine Ebraiche non riesco aimmaginare quali esigenze socialidella collettività ebraica di Romanon possano essere soddisfattesenza che la Comunità di Romagestisca in proprio un ospedale.

La casherut dei pasti, che è unobiettivo più che legittimo, potreb-be infatti essere garantita in tuttigli ospedali romani (non in unosolo) con accordi specifici e senzarischi patrimoniali. Altro non c’è. In una logica operativa che abbiaun obiettivo strategico, l’articolo1, comma 3, dello Statuto dovreb-be essere interpretato nel sensoche il vincolo del soddisfacimentodelle esigenze sociali della colletti-vità ebraica deve essere rispettatoper tutte le attività che le comuni-tà gestiscono, anche cioè per quel-le esistenti, non solo per quellenuove. L’Unione potrebbe quindisvolgere l’importante funzione diregolatore delle comunità. Peresempio alle singole comunità do-vrebbe ricadere l’onere di dimo-strare l’utilità sociale di quello chefanno (al di fuori della loro mis-sione principale) e all’Unione digiudicare la validità di quanto daesse sostenuto, soprattutto quan-do ciò implica l’assunzione di ri-schi patrimoniali e reputazionalielevati.

L’Unione potrebbe al riguardoemanare delle linee guida per lecomunità volte a evitare l’assun-zione di rischi eccessivi e strategi-camente inutili, anche al di fuoridegli ambiti della gestione patri-moniale. Ciò implica per esempiola possibilità di fornire loro racco-mandazioni sulle modalità con cuinon indebitarsi (per esempio nonindebitarsi in una valuta diversada quella nella quale sono denomi-nate le loro entrate) e su come noninvestire eventuali avanzi gestio-nali (per esempio non in attivitàfinanziarie particolarmente ri-schiose). Inoltre l’Unione potrebbefornire indicazioni su come le co-munità debbano gestire eventualiattività esterne alla loro missioneprincipale e su come verificare sel’assunzione in proprio di quellefunzioni minimizzi i costi collega-ti alla soddisfazione delle esigenzesociali delle collettività ebraiche. L’elezione del nuovo Consiglio po-trebbe essere l’occasione per ripen-sare all’azione dell’Unione anchein questi termini.

Il ventennio di Bibi, i nuovi equilibri e un futuro che appare incerto

L’Unione e le Comunità: una proposta per il nuovo Consiglio

OPINIONI A CONFRONTO

ú–– Sergio Della PergolaUniversitàEbraica di Gerusalemme

/ segue a P27

ú–– Alberto HeimlerEconomista

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/ P26 OPINIONI A CONFRONTO

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraicheE

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Diversità, la nostra ricchezza

Pagine Ebraiche – il giornale dell’ebraismo italianoPubblicazione mensile di attualità e cultura dell’Unione delle Comunità ebraiche ItalianeRegistrazione al Tribunale di Roma numero 218/2009 – Codice ISSN 2037-1543

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“Orsù, scendiamo e confondiamo la loro lingua, sì che uno non com-prenda quel che dice l’altro” (Bereshith, 11:7).

Quest’anno come è già stato annunciato, la Giornata dellaCultura Ebraica è dedicata alla lingua e alle lingue dell’ebraismo.Se in linea con numerose teorie linguistiche e filosofiche lalingua è specchio ed è collegata ad un modo di pensare e divedere il mondo, per lingua si dovrebbe intendere anche ilpensiero stesso. La storia dell’ebraismo, del sionismo, e di Israele in seguito, èsempre stata una molteplicità di correnti, espressioni, idee,ideali diversi, condivisibili o discutibili, spesso in netta con-traddizione tra loro; non portando mai a reali scismi e man-tenendo il popolo ebraico nel bene e nel male unito attraversoi secoli. Questa pluralità, come la priorità da parte di ‘Am Israeldi aderire alla legge celeste rispetto a quella degli uomini, èforse la più grande ricchezza dell’ebraismo, ciò che lo ha sempredistinto. L’omologazione, la censura e l’allinearsi o l’uniformarsi ad unpensiero unico sono retaggio della storia dei partiti e dei regimi,i quali con il pensiero ebraico o con lo spirito del sionismohanno naturalmente poco a che vedere. Se ognuno poi pensasseed esprimesse le medesime cose all’altro, non avremmo vera-mente più niente da dire, e potremmo così anche smettere diconfrontarci... Questa sarebbe una catastrofe.

ú–– Francesco Moises Bassano

Ma i viaggi dei giovani ad Au-schwitz sono di destra o di sini-stra? Di solito la domande di questo ge-nere suonano piuttosto ridicole.Nel caso specifico, però, il dubbiosorge spontaneo se si osserva il di-battito sull’utilità didattica diquesti viaggi in Italia e in Israele.Questo confronto è stato possibilegrazie alla redazione di Pagineebraiche che qualche settimana faha messo online a disposizione deilettori italiani alcuni articoli digiornali israeliani a proposito deiviaggi dei liceali ad Au-schwitz. In Italia tutto ciòche riguarda l’antifascismoe (anche se in misura mino-re) l’antinazismo viene facil-mente etichettato come “disinistra”, tant’è che negliscorsi anni si è sentita l’esi-genza di far seguire allagiornata della memoria dopoun paio di settimane la“giornata del ricordo”, inuna sorta di paradossale parcondicio. È vero che negliultimi anni la memoria dellaShoah ha finito per emanciparsida questa connotazione “di parte”(tanto più che spesso è proprio dalmondo della sinistra che arrivanoi tentativi di strumentalizzazionedella memoria in funzione anti-sraeliana); ed è anche vero che hosempre riscontrato da parte di tut-ti i miei colleghi di storia, indi-pendentemente dalle loro opinionipolitiche, un notevole interesse afar partecipare gli allievi dell’ulti-mo anno (uno o due per classe,s’intende) ai viaggi della memo-ria. Tuttavia, considerando le or-ganizzazioni che li gestiscono, lemodalità con cui si svolgono e imessaggi che si cerca di trasmette-re ai ragazzi, sulla base della miaesperienza ritengo difficile negareche in Italia i viaggi dei giovaniad Auschwitz siano percepiti co-me una cosa “di sinistra”.In Israele le cose stanno molto di-versamente, ed in parte è logicoche sia così: quello che per i ragaz-zi italiani è il riconoscimento di

un crimine che riguarda l’interaumanità e di cui il proprio Paese èstato complice per gli israeliani èla memoria di un crimine di cui ilproprio popolo è stato la principa-le vittima. Rendersi conto de-l’enormità di questo crimine per igiovani italiani significa impe-gnarsi perché simili orrori non siripetano mai più in nessun luogoe per nessuno, per i giovani israe-liani significa prendere atto delfatto che il popolo ebraico è co-stretto inevitabilmente a difender-si. Sono entrambi approcci corret-ti e legittimi, ma è inevitabile cheportino in due direzioni politicheopposte. Per i giovani italiani Au-schwitz è anche il ricordo di unmomento storico in cui gli italianisono stati più divisi che mai, inparte vittime, in parte indifferenti

e in parte complici dei carnefici.Ed è anche il luogo che più chiara-mente indica a quali abissi posso-no giungere, se portate alle estre-me conseguenze, le ideologie forte-mente centrate sul rafforzamentodelle identità nazionali. Per i gio-vani israeliani Auschwitz è unluogo in cui gli ebrei sono statiperseguitati e uccisi tutti insieme,ricchi e poveri, religiosi e laici, didestra e di sinistra, sionisti e nonsionisti; non c’è da stupirsi, dun-que, se ne escono rafforzati nellapropria identità ebraica. E noi ebrei italiani come ci ponia-mo rispetto a tutto questo? Credosia impossibile rispondere in modounivoco a questa domanda, ancheperché la risposta non sarebbe lastessa per tutti. Devo dire, però,che sono rimasta piuttosto sorpre-sa dal peso che il tema del viaggioad Auschwitz come occasione dirafforzamento identitario ha as-sunto nel dibattito israeliano: danoi la troppa attenzione alla me-

moria della Shoah è spesso consi-derata (o accusata di essere) il sin-tomo di un’identità ebraica debole,che si fissa ossessivamente sulpassato per incapacità o non vo-lontà di progettare il futuro; in al-cuni momenti ho avuto addirittu-ra il sospetto che posizioni in fa-vore dei viaggi ad Auschwitz defi-nite dai giornali israeliani come fi-logovernative (vicine dunque a ungoverno di destra in cui i partitireligiosi sono determinanti per ga-rantire la maggioranza parlamen-tare) qui da noi potrebbero essereclassificate come troppo laiche, emagari persino un po’ troppo disinistra. In effetti per noi ebrei italiani lecose sono apparentemente piùcomplicate: in quanto ebrei siamoeredi delle vittime, ma in quanto

italiani (fieri e orgogliosidella nostra identità italia-na) siamo eredi dei carnefici;dunque l’approccio univer-salista alla memoria e quelloidentitario non possono checonvivere senza che nessunodei due prevalga decisamen-te sull’altro. Ho detto appa-rentemente perché in realtàquesto paradosso non ri-guarda solo noi. Prima ditutto perché Auschwitz è uncrimine che chiama in causal’intera umanità, e dunque

in quanto esseri umani siamo tut-ti un po’ complici dei carnefici.Ma soprattutto siamo complici inquanto europei e occidentali. Per-ché è stata l’Europa, e non altri, aprodurre Auschwitz. Dunque,nella misura in cui Israele sottoli-nea (legittimamente) la propriaidentità di Paese occidentale, de-mocratico e rispettoso dei dirittiumani, deve anche in parte farsicarico degli orrori che il mondooccidentale ha prodotto. Naturalmente non spetta a me de-cidere se i viaggi ad Auschwitzdei liceali israeliani siano o nonsiano opportuni. Mi permetto pe-rò di osservare che questi viagginon dovrebbero avere come unicoscopo il rafforzamento dell’identi-tà ebraica. Anzi, se fossi il mini-stro dell’Istruzione israeliano mipreoccuperei prima di tutto che adAuschwitz vadano i giovani pale-stinesi. Perché un futuro di convi-venza pacifica non potrà fare ameno di una memoria condivisa.

ú– LETTEREGrazie alle vostre testate, sono venuta a conoscenza dell’interessante dibattito apertosi all’interno della

società israeliana sull’opportunità dei viaggi della memoria organizzati dal governo. Come si pone l’ebraismo

italiano rispetto a questo dibattito?

Lucia Schwarz, Trento

ú–– Anna Segredocente

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pagine ebraiche n. 6 | giugno 2016 OPINIONI A CONFRONTO

ne che si è poi rivelata molto più dif-ficile e costosa del previsto. Il gover-no Netanyahu con una maggioran-za parlamentare di 61 a 59 era nu-mericamente fra i più precari nellastoria di Israele e si reggeva su sin-goli deputati lunatici o caratterial-mente marginali (come Oren Ha-zan) e comunque in grado di ricat-tare il primo ministro in cambio delproprio prezioso voto su qualsiasidecreto legge. Per stabilizzare la suacompagine, Bibi era in trattativacon l’Unione Sionista di ItzhakHerzog, anche se i principali diri-genti del partito – Amir Peretz,Shely Yechimivich, Tzipi Livni –erano tutti contrari a entrare nellagrande coalizione. Il metodo delPremier è di offrire ai potenzialinuovi soci ministeri e cariche masenza aggiornare le linee program-matiche del governo già concordatecon i suoi attuali alleati – HabaytHayehudi, Cahlon, i religiosi ashke-naziti, e i religiosi sefarditi. Si dice:la botte piena e la moglie ubriaca.Ma allo stesso tempo, diranno gliuni, dando prova di grande scaltrez-za politica o, diranno gli altri, conmassimo cinismo, Bibi stava trat-tando anche con Lieberman: in si-multanea col centro-sinistra e conl’estrema destra, con la stessa finez-za etica con cui si sostituisce un pa-io di pedalini rossi con un paio dicolore blu. Bene ha colto la situazio-ne uno dei caricaturisti su un quoti-diano israeliano che ritrae il culmi-

ne della cerimonia di nozze con lafigura piccola, magra ed elegante diHerzog, ma dalle retrovie arriva dicorsa la figura grossa, sudata e vol-gare di Lieberman che si aggiudical’inamidato e ambíto sposo Bibi.Affidare a Lieberman la difesa è diper sé un salto nel buio. Liebermanse vuole sa essere pragmatico ma in-dubbiamente ama le dichiarazioni

pompose. A suo tempo disse cheIsraele avrebbe dovuto far saltare ladiga di Assuan se l’Egitto avessecreato problemi. Più recentementeha affermato che se Hamas non re-stituirà i corpi di due soldati israe-liani uccisi nelle battaglie di due an-ni fa a Gaza, entro due giorni il pri-mo ministro Haniye sarà un uomo

morto. Staremo a vedere. Ma vi so-no altri due fattori da considerarenel valutare l’avvicendamento alladifesa. Il primo è che Liberman èstato ministro degli esteri, ma man-ca di qualsiasi esperienza militare.Da giovane nell’esercito faceva il fu-riere. Bibi per lo meno ha raggiuntoil grado di maggiore nelle truppescelte d’assalto. Altri due ministri

della difesa civili sono stati MosheArens che era stato tenente nel-l’esercito americano, e Amir Peretzche combatté e fu gravemente feritoin un mezzo cingolato della fante-ria. Il secondo fattore è che fra Neta-nyahu e Liberman, a parte i condi-visi interessi di potere politico, esi-ste una profonda inimicizia. Lieber-

man, dopo tutto, è stato l’autista diBibi, poi il suo segretario, poi il suodirettore generale, poi un suo depu-tato, poi uno scissionista che ha for-mato un partito concorrente, e poifinalmente uno dei suoi principalirivali per la leadership nazionale.Lieberman ha definito Netanyahu“pavido e bugiardo”. Sulle capacitàstrategiche del suo nuovo ministrodella difesa, la battuta dello stessoBibi è che le uniche palle che sonosibilate accanto alle orecchie di Li-berman sono quelle da tennis. E an-cora, secondo lo stesso Bibi, Lieber-man non avrebbe nemmeno le quali-fiche per fare il cronista militare, fi-guriamoci il ministro.Se poi il governo di Israele uscritàveramente rinforzato dall’operazio-ne Lieberman è tutto da vedere. Ladote dei sei deputati di Israel Beite-nu si è subito ridotta a cinque per-ché l’onorevole Orly Levy-Abecassis– che è unanimemente consideratauna parlamentare di grande bravu-ra e efficienza nelle questioni sociali,con al suo attivo ben 26 leggi – si èdimessa dal partito per protesta. Nelgoverno Netanyahu il premier ac-centra anche le mega-funzioni diministro degli esteri, dell’economia,delle comunicazioni e dello svilupporegionale, mentre vari altri ministriesercitano funzioni virtuali o imma-ginarie. Come Sara Gamliel, mini-stro per l’Eguaglianza sociale, che èun po’ come essere in Italia mini-stro per il Sud, e annunciare a fineanno che la principale attività mini-

steriale svolta è stata l’organizza-zione di un grande picnic in uno deiparchi nazionali. Gli ambiziosi luo-gotenenti Katz, Erdan e Hanegbi bi-sticciano fra di loro contendendosila successione ai succosi dicasteridetenuti dal leader. Poi, in sostitu-zione di Moshe Ya’alon, che si di-mette non solamente dal governoma anche dalla Knesset, subentra ilprimo dei non eletti Yehuda Glick,noto soprattutto per le sue fughesulla Spianata del Tempio e delleMoschee – notoriamente uno deipunti più delicati nella politica delMedio Oriente: un altro personag-gio da tenere strettamente sottocontrollo. Ya’alon si aggiunge allefile dei Likudisti scontenti di Bibi,che già includono il presidente RuviRivlin, Gideon Sa’ar, i Jabotinskia-ni classici come Dan Meridor eBenny Begin (che ha definito la no-mina di Lieberman allucinante), lostesso ministro del tesoro Kahlon, emolti altri.Alla fine del primo ventennio di Bi-bi, ci si può chiedere se ce ne saràun secondo, dato che l’uomo non haalcuna intenzione di smettere. Manegli attuali equilibri politici inIsraele, con tanti nemici dentro efuori il partito e dentro e fuori il go-verno, Netanyahu può essere quasicerto che la sua fine sarà simile aquella di Giulio Cesare: vittima diuna congiura in cui, ognuno per lesue ragioni, infierirà mentre lui,stupefatto, chiede: Anche tu, figliomio?

DELLA PERGOLA da P25 /

Vorrei raccontare di un’esperienzadi lettura. Probabilmente come tuttele esperienze di lettura tradisce ilsenso della scrittura dell’autore, lesue intenzioni, o i suoi percorsi .Scrivo probabilmente, perché comesosteneva Roland Barthes non èquasi mai vero che si leggono libri,mentre è quasi sempre vero che sonoi libri che leggono noi lettori. Il librodi cui vorrei parlare è Il bambinonella neve, di Wlodek Goldkorn(Feltrinelli). Il bambino nella neve èun libro che andrebbe letto con mol-ta calma, anche se è impossibile. Èun libro che racconta di come si fac-ciamo i conti con la memoria, e dicome sia sempre complicato avere ache fare con il passato, se lo si vuolaffrontare per davvero. Soprattuttose in quel passato c’è da scavare

molto per togliere l’opaco e il mitoche lo circondano. Il tema è la storiadegli ebrei dopo la Shoah e comequella storia abbia svolto un ruolo –o spesso nessun ruolo – in quellaparte di mondo ebraico che prova aricostruirsi una vita quando torna acasa, in Polonia. È un tentativo chesoffre di molti silenzi, di una altotasso di diffidenza, che vive di di“doppiezze” e di “rimosso” e in cuiriscoprire il passato e ritornare sultempo di eri è sempre moto proble-matico. Ma dove quella riscopertaimplica due percorsi spesso trascu-rati: da una parte il ritrovamento diun mondo scomparso che non haavuto eredi perché il dopo non hadato riscatto (è la storia di quellaparte di mondo ebraico che non sisente redento con la nascita delloStato di Israele, che prova a rico-struire quella scommessa con la sto-ria rappresentata dall’esperienza delBund, che mantiene contempora-neamente una proprio profilo cultu-rale, e contemporaneamente non haalcuna nostalgia del passato né in-

tende ricostruirlo o cantarlo) e,al tempo stesso, dall’altra noncostruisce, sulla catastrofe, unasua identità. Ne avverte la dram-maticità, il carattere di radicalesconvolgimento che ha avuto, masa che la storia è una scommessa e sitratta di pensare un modo per do-mani. Sono i due percorsi che Gol-dkorn affronta in questo suo libro.Un libro “fuori dal coro”, una“stecca”. Per molti aspetti un librocontro: contro il mito della memo-ria, contro la nostalgia, control’ideologia del fascino del passato,contro il vittimismo identitario.Credo che Wlodek Goldkorn abbia

tenuto dentro questo suo libro permolti anni. Non so quando sia natala scrittura di questo libro. Ma leprime tracce di questo suo sguardodisincantato, “sano”, comunque“non malato” di memoria, per mestanno in un suo testo di trenta an-ni fa. Si intitola L’ebreo felice,

scomparso e mai esistito,ed è uscito su “Re-

porter” nel maggio1985 (testo che mi piacerebbe fosseincluso in un’ipotetica antologiacontro la memoria). È una lunga re-censione, disincantata, icastica,graffiante, arrabbiata, come moltepagine di Un bambino nella neve,di Un mondo scomparso (e/o1985) di Roman Vishniac, forse iltesto che più di tutti ha indotto(non per intenzione del suo autore,

ma per la intenzione di noi lettori)la costruzione del mito della yiddi-schkeit. È un testo (o meglio gli ef-fetti di lettura di quel testo) che co-me pochi altri dice della funzionenarcotizzante della memoria e di checosa significhi costruire un mondodi cartapesta nella propria testa. Unmondo che, attraverso le foto di Vi-shniac, i lettori di Un mondoscomparso guardano con nostal-gia, ma da cui le persone che ci vi-vevano per davvero sognavano difuggire, di lasciarsi definitivamentedietro le spalle.Il viaggio nel passato come opera-zione contro la memoria, senza chesi dia né redenzione né salvezza.Un’eccezione in un’epoca di cultodella memoria e di egemonia dellafede. In breve un percorso struttu-ralmente laico. È la cifra di Unbambino nella neve. Un libro ra-ro, sottile, evocativo, inquieto chevive dell’occhio fotografico sensibiledi Neige De Benedetti, forse il mi-glior commento visuale che un au-tore possa capitare di ricevere.

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Noi, la Memoria e i conti con il passato che ritorna ú–– David Bidussa

Storico sociale delle idee

WlodekGoldkorn IL BAMBINO NELLA NEVE Feltrinelli

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraiche

Il calendario della Liberazione e la giostra degli anniversari

Negli ormai molti anni della miavita trascorsi in “Roma Capitale”,non ho mai incontrato nessuno,giovane o vecchio, popolare o in-tellettuale, dei Parioli o della Gar-batella, intelligente o fesso, di de-stra o di sinistra, che alla mia do-manda sulla data di fine dellaguerra, confondendosi con la datadella liberazione di Roma, non ri-spondesse con serena tranquillità: “4 giugno 1944”. Dopo molti an-ni di riflessione, ho dovuto con-cludere che anche la miarisposta: “25 aprile 1945” meriterebbe alcune criti-che. Ognuno risponde peri fatti suoi e di quelli deglialtri non gliene sbatte ungranché.Il settantunesimo anniver-sario del 25 aprile, que-st’anno 2016, ha assuntouna sua particolare impor-tanza perché l’Aned si èrifiutata di partecipare al-la solita pagliacciata dei“25 aprili”, e vedrete ilperché, mentre invecel’Anpi ha partecipato allasfilata come ogni anno ,benché la sfilata non cifosse, essendo il Comunedi Roma commissariatoper le ben note vicende diMafia Capitale.In queste turbolente vi-cende la riunione dellaComunità ebraica nei lo-cali del Circolo CulturalePitigliani ha finito per assumereun’importanza enorme accresciu-ta dal fatto che, dopo una mia bre-ve premessa, il rabbino capo Ric-cardo Di Segni ha voluto onorarcidel racconto documentato dei tra-scorsi partigiani della sua fami-glia, di suo padre, medico militaredi una Divisione Garibaldi.Ricominciamo da me, che sonostato il primo a parlare. Qualifi-candomi, non come testimone, macome attestatore, e la differenzasostanziale è venuta fuori per for-tuna proprio nel corso della ina-spettata tumultuosa serata. Intan-to ho attestato che il 20 aprile1945 si tacquero all’improvvisotutte le armi che riempivano nottee giorno di fracasso l’intera valla-ta e udimmo sopra di noi l’amabi-

le cinguettio del popolo degli uc-cellini che, con tanta grazia, rap-presentano ancor oggi i loro temi-bili antenati, i battaglieri Dino-sauri. Il cinguettio era il loro can-to di guerra forse perché erano ve-nuti a sapere par avion che l’Ar-mata Rossa aveva sfondato le lineenaziste e dilagava a cannonate perle vie di Berlino. E poi il 25 aprile1945 ci fu la discesa in pianuradella solita Divisione Garibaldi,diversa da quella di rav Riccardo,preceduta da una dibattito politicofra mio padre e mia madre sullaopportunità di festeggiare la no-stra Armata che scendeva a valleal canto di “Finiamola bastardich’a lé ura, orsù siamo giunti a lafin…”. A papà gli era presa la ter-ribile sindrome del ritorno dei na-

zisti, la mamma invece gli chiede-va: “Ma come puoi, per le tue in-giustificate paure, privare i ragaz-zi di quella che sarà certamente lapiù bella giornata della loro vi-ta?”. Papà si convinse alla fineche la mamma aveva ragione, mapretese una soluzione di compro-messo, che ci nascondessimo in unfitto cespuglio per vedere senza es-ser visti. Come vedete, i 25 aprilicrescono come funghi, ma non èancora finita perché il 30 aprile1945 il canto di guerra degli uc-cellini fu di nuovo zittito questavolta dallo scampanio festoso ditutte le chiese in tutte le vallate.Stavo in giro con la mammaquando vedemmo un prete che re-spirava a pieni polmoni con la fac-cia felice guardando il cielo, e la

mamma gli chiese: “È finita laguerra?” e il Prelato rispose: “No,signora, non è ancora finita, mac’è una gran buona notizia: queldelinquente del Führer si è suici-dato”. Altro che 4 giugno ‘44!.Dal 20 aprile 1945 il Pianeta bluaveva ricominciato a parlare dasolo, e passeri e campane, con me-todi digitali, inauguravano, conl’anticipo di 50 anni, l’Era dellaRete delle Reti , la nostra epoca fe-lice nella quale si difendono perfi-no gli elefanti, i visoni, gli zibetti,i topi muschiati, i leopardi… Mainessuno che si contenti! Sempretutti col mugugno!Dopo una breve storia della Briga-ta Ebraica, una volta pronunciatoil commovente ricordo di rav Ric-cardo, Fassina si alzò e se ne andò

meno cupo del solito; purtroppo siperse il meglio quando comparveuno strano personaggio dell’Anpi,travestito da gangster risorgimen-tale con uno strano enorme bava-glio tricolore a dire frasi ben pocoassennate come per esempio: “Il25 aprile è festa di tutti”. Di pre-ciso mi ricordo che gli dissi sbi-gottito: “Come? di tutti? Anchefesta dei fascisti?”. Poi persi ilsenno e mi tocca di ricorrere a miavolta ad attestatori e testimoni…Un peu d’histoire- diceva VictorHugo che non ne sbagliava una; eadesso aggrappatevi alle vostrepoltrone e tenetevi saldi perché staper accadere l’indicibile che vi rac-conterò con l’aiuto di chi c’era.Dovete sapere che da 30 o 40 an-ni, a ogni 25 aprile a Roma si

fronteggiano due squadre di men-tecatti, ovviamente convinti che laguerra sia finita il 4 giugno del‘44, una sventola le bandiere diIsraele, l’altra quelle della Palesti-na, due Stati che allora non esiste-vano perché stavano per esserecreati dalle Nazioni Unite seppurcon ben scarsi risultati inizialinell’ancora futuro novembre del1947. Non esistevano e neppuresognavano che sarebbero esistite,tuttavia a ogni 25 aprile che Dioci manda in Terra i mentecattidelle opposte fazioni si affrontanoa bandierate in testa, fischi, pugnie altri sgarbi, e la gente normalese ne torna a casa avvilita, rim-piangendo il 4 giugno’44 convintiche in quel giorno la guerra fossefinita e di lì a poco infatti sarebbe

stata inventata la pa-sta alla carbonara.Perché questo fenome-no abnorme si verifichianche in altre cittànon so e non voglio sa-perlo. Lasciamo andarela pasta e torniamo alnostro Victor Hugo:non passa giorno che,parlando della Shoah,gente anche assai perbene non abbia a dirci:“Ma santiddio, e voiperché non vi siete di-fesi?”. Ed è quello il tragicomomento nel quale noiebrei finiamo uccellaticome merli: “Ma co-me? La rivolta delghetto di Varsavia,quella di Treblinka,quella del Sonderkom-mando n.1 di Au-schwitz?” tutti attieroici, grandi batta-glie, ma finite sempre

in un unico modo, con la sconfit-ta, lo sterminio e la rinnovata ar-roganza dei nazisti. Mosso daquesti oscuri sentimenti e da que-ste confuse rimembranze, avevoormai perso il ben dell’intelletto,mentre la riunione si svolgevaanimata, ma non collerica, con lesolite argomentazioni di quelle chelasciano il tempo che trovano.Io invece non ero solo incollerito,ma inferocito e avevo scoperto percaso, o ispirazione suprema, unostrumento più che adatto a darefiato alla mia furia. La grande saladel Pitigliani era cosparsa di po-tenti microfoni WIFI e io li impu-gnavo a mazzi, mentre, messi indisparte i reumatismi, mi ergevosempre più nella mia statura d’untempo: 1, 82 alla visita di leva. In-

gigantito oltre ogni dire, a sentirei testimoni allibiti, gridavo neimicrofoni all’incirca le maledizio-ni del libro di Isaia: “Ungheresi,ungheresi, pagherete cari i vostrireticolati”, “Polacchi, Ucraini,Estoni, Lettoni, Lituani, finiretein un mazzo come questi microfo-ni”, “Holland, pfuah”, “FamigliaLe Pen, tutti dritti a bruciare al-l’infernaccio”.Intanto, rav Riccardo mi assistevacon la sua impassibilità, e, senzamuovere ciglio, sembrava dire:“Ascoltate il Profeta”. Sembrava ame, finito ormai in un turbine al-lucinato. Il compagno Anpi sgra-nava gli occhi sbalordito, mentreun signore non di origine ebraicachiedeva ad amici suoi: “Ma pervoi israeliti le funzioni si svolgonosempre con questo rituale?”.Riuscii, credo, a trasferire il miodolore agli altri che se ne stavanoandando anche loro berciando apugni alzati, fermandosi solo adabbracciare me e rav Riccardo:una specie di standing embrasse-tion. Senza che me ne avvedessiperché ho smesso di essere invasa-to solo due giorni dopo, era emer-sa la pochezza dei mentecatti dellebandiere, e probabilmente quellidelle bandiere palestinesi pensava-no: “Questi americani avevanogià vinto la guerra il 4 giugnodel’44 e allora perché hanno bom-bardato Hiroshima e Nagasaki il 7e l’8 agosto dell’anno dopo?”. Aparte il fatto che il 9 agosto 1945 èla vera fine della guerra, final-mente!, non c’è mai nessuno chesi ricordi che il 7 agosto è il miocompleanno.Non esiste pellerossa al mondoche, quando si dice “Little BigHorn” non s’illumini d’immenso,e noi ebrei italiani ce l’abbiamo, lanostra Little Big Horn: è la cam-pagna d’Italia, con la discesa dallevallate anche dei partigiani ebrei,con la salita lungo la Penisola del-la Brigata Ebraica, composta da5000 volontari, mentre, nei cimi-teri Alleati sotto la luna brillanonei nostri cuori le Stelle di Davidesparpagliate fra le migliaia di cro-ci e riempiono gli orizzonti dellenostre speranze non ancora svani-te. Conclusione: siccome in Italiaabbiamo vinto noi ebrei, s’intendeper quel poco che potevamo, nonaccetteremo mai più che si scambiil 25 aprile per la fondazione delloStato di Israele che avvenne, inuna nuova guerra, il 15 maggio1948 e attendiamo con speranzadi poter festeggiare un giorno lafondazione, nella pace, del nuovoStato di Palestina. Claro?

ú–– Aldo Zarganiscrittore

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Il primato cronologico europeo del nazismo nella costru-zione dello Stato antisemita moderno e la sua anticipazionedi cinque anni sulla data di decisione italiana hanno suscitatonumerosi interrogativi sulla causa principale dell'introduzionedell'antisemitismo di Stato in Italia. Testimoni e storici sisono dunque chiesti se Mussolini avesse ricevuto un ordineo qualche tipo di pressione da parte dell'alleato tedesco, ose il Duce avesse preso la decisione di allineare la sua politicaa quella del Führer e, in questo caso, per quali ragioni. Oancora, se questa svolta del 1938 non fosse il risultato diuna maturazione politica del pensiero antisemita di Mussolinie dunque di una decisione totalmente o largamente auto-noma rispetto all'alleato tedesco. Certamente, si trattavadi una decisione influenzata dall'esempio nazista, ma che

fu essenzialmente legata agli eventi na-zionali. La prima interpretazione – l'ordine– deve essere scartata senza esitazioni.Nessun documento d'archivio ha maiprovato che i nazisti fossero intervenutinelle decisioni del dittatore fascista, tantopiù che in quel periodo l'Italia non si tro-vava ancora in una situazione di vassal-laggio rispetto alla Germania. Anche la secondainterpretazione – la pressione – non è sostenuta da nessunafonte documentaria. […] Solo un esame approfondito per-metterà di determinare se la svolta del 1938 risponda allavolontà di Mussolini di allinearsi alla Germania nazista. E laprima domanda da porsi è se il Duce avesse la volontà di

intraprendere la via antisemita prima del 1938. E occorrechiedersi se la Germania costituisse all'epoca a tal punto unmodello per il regime di Mussolini. Del resto, era l'antise-mitismo il vero (e principale) punto di divergenza tra i due

dittatori e i due regimi? Poi si deve veri-ficare se la legislazione antiebraica ope-rata dalll'Italia non fosse che una sem-plice copia di quella tedesca, e se il go-verno fascista la applicasse con rigore.Infine, su scala europea, conviene com-parare i diversi tipi di legislazione antise-

mita applicati all'epoca. Questa serie di interrogativi, insiemea molti altri, ha lo scopo di verificare una quarta interpre-tazione, quella della maturazione del pensiero politico an-tisemita. -Brano tratto da La legislazione antiebraica nel contestoeuropeo, di Michele Sarfatti

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pagine ebraiche n. 6 | giugno 2016

pagine ebraicheu /P34SPORT

u /P30-31LIBRI

u /P32-33ISRAELE

“Le leggi razziali? Costituirono la dimostrazione per assurdo della stupidità del fascismo” (Primo Levi)

“L'aggravarsi della crisi economica,sociale e culturale della fine deglianni Trenta ha aggravato il proble-ma dell'antisemitismo in Europa, inparticolare nell'Europa centrale eorientale dove vari stati promulga-rono una legislazione antisemita. Èil caso della Romania, dell'Ungheria,della Polonia, e poi della Slovacchia.Bisogna considerare questo ancheil caso dell'Italia nel 1938? Il dibat-tito fra gli storici è ben lontano dal-l'essere chiuso”. Ed è in questo di-battito che si inserisce il volume del-la Revue d'histoire de la Shoah de-dicato a L'Italia e la Shoah. Il fascismoe gli ebrei, come spiegano i curatori,lo storico Georges Bensoussan, di-rettore della rivista e responsabileeditoriale del Mémorial de la Shoahdi Parigi, e Laura Fontana. Un vo-lume che nasce dalla considerazioneche la storia della Shoah in Italiaoccupa ancora “un posto marginalenella storiografia internazionale”. Leragioni di tale carenza sono ricon-dotte al fatto che “esistono in effettipochissime traduzioni delle ricercheitaliane più recenti e significative”,ma anche alla “percentuale elevatadi sopravvissuti ebrei in Italia”, chesecondo i curatori ridimensionereb-be la lettura di una tragedia giudi-cata minore rispetto alle atrocità av-venute negli altri paesi. “Eppure –affermano – la persecuzione fu ap-

plicata con grande zelo dalle auto-rità fasciste italiane e tedesche, esebbene tardiva e limitata geogra-ficamente nella Penisola, la depor-tazione in Italia non fu meno dram-matica”. Per questo, il volume rac-coglie i saggi di vari storici italiani,dividendoli in tre parti, la prima de-dicata alla reazione degli ebrei ita-liani di fronte al fascismo, la secondaal processo di istituzionalizzazionedell'antisemitismo e infine un'ultimaalla persecuzione vera e propria de-gli ebrei in Italia. Tra i vari contributicompaiono un testo di Anna Foa,“Gli ebrei italiani tra il Risorgimentoe il fascismo: uno sguardo d'insie-

me”, uno dell'ex direttore delCentro di DocumentazioneEbraica Contemporanea Mi-chele Sarfatti, a proposito della“Legislazione antiebraica nelcontesto europeo”, e poi unostudio della ricercatrice delCdec Liliana Picciotto che de-scrive “Il ruolo del campo diFossoli nella Shoah italiana”e uno di Fabio Levi, direttoredel Centro Internazionale di StudiPrimo Levi, a proposito delle “Rea-zioni della società italiana di frontealla politica antiebraica del fascismotra gli anni 1930 e 1943”. Alla lucedelle opinioni presenti nella raccolta,

un dato emerge con chiarezza: lamaggior parte degli storici consideraoggi che esista una continuità fral'antisemitismo del 1938 e quellodel periodo anteriore, e non si deb-bono dissociare le due fasi della per-

secuzione, cioè quella tra il 1938 eil 1943 e la successiva tra il 1943 eil 1945. Certamente lo sterminio de-gli ebrei in Italia è direttamente le-gato all'occupazione tedesca, e i ra-strellamenti, le prime esecuzioni dimassa e le deportazioni non comin-ciarono che nel settembre del 1943.Tuttavia, ricordano i curatori, la so-luzione finale non si sarebbe potutaeffettuare se non in coordinamentocon le autorità fasciste, che cono-scevano il territorio nazionale e pos-sedevano tutti i dossier sugli ebrei.Del resto, sottolineano gli autori,“anche se è banale ricordarlo, la se-

conda non avrebbe po-tuto essere messa in at-to con una tale rapiditàdall'occupatore tedescose il terreno della discri-minazione non fossestato preparato dalleautorità italiane”. E per-ciò – la loro conclusio-ne – scindere radical-mente queste due tappeinduce in errore, e por-ta a occultare le respon-sabilità dell'Italia nella

deportazione dei suoi cittadini ebrei.

(nelle immagini, lo studio del Talmudnel campo di Ferramonti e una pagellascolastica con il segno della discrimi-nazione).

Discriminazione e sterminio, una Storia italiana

CULTURA / ARTE / SPETTACOLO

Autori vari L’ITALIE ET LA SHOAH Revue d’histoire

de la Shoah

L’ITALIA E LA SHOAH, SULLA REVUE D’HISTOIRE GLI STORICI A CONFRONTO

Le responsabilità del fascismo

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Leggenda dopo leggenda, l’uni-

verso delle tradizioni ebraiche

prende forma tra luoghi fantasti-

ci, personaggi affascinanti e sogni

misteriosi che popolano le pagine

di Miti ebraici, il nuovo libro della

narratrice, traduttrice e studiosa

di ebraistica Elena Loewenthal.

Dalla cacciata di Adamo ed Eva al-

la storia del Golem, dalla Torre

di Babele alla vera identità della

regina di Saba passando per Gog

e Magog e arrivando all’Angelo

della Morte, i racconti della tra-

dizione si fanno mito in un vo-

lume, pubblicato da Einaudi,

che ripercorre storie note e

meno note, che nei secoli

si sono sovrapposte a

formare un immagina-

rio ricchissimo e dal

sapore inconfondi-

bile. Eccone un

frammento.

«In principio il Signore creò i due

cieli e la terra. E la terra era caos

e tenebra sulla superficie del-

l’abisso e lo spirito di Dio aleg-

giava sulla superficie dell’acqua».

Tutto comincia cosí. Con un pri-

ma e un durante, con il disegno

di una condizione che viene pri-

ma dell’inizio e un tempo imper-

fetto che racconta Dio in forma

di spirito, alito, soffio che in-

crespa il pelo di un’acqua pri-

mordiale.

Dio crea i due cieli – in

ebraico è una parola in-

confondibilmente duale

– e una terra. Ma que-

st’ultima è ancora

soltanto tohu wa-

vohu, una fra-

seologia che

descrive un

caos artico-

lato e fatto

soprattutto di fiato leggero, di

con- sonanti dal suono sfuggen-

te, un caos onomatopeico privo

di luce e sul ciglio

di un precipizio che

senza dubbio ripor-

ta tutto – quel po-

co che c’è – nel nul-

la, nella dimenti-

canza, nel non esse-

re mai esistito.

Il racconto della

creazione, fin qui lapidario e in-

cisivo, quasi folgorante, dice

molto e altrettanto tace. Che co-

sa c’era prima del prima? Iddio

crea i due cieli e la sola terra co-

me presupposto di tutto il resto,

ma quella creazione è informe,

vuota, buia. È una specie di pre-

messa, piú che un’opera.

Questo «caos informe e vuoto»,

condizione originaria, grezza del

creato, lascia spazio a non poche

suggestioni. Intanto è ambiguo.

Sembra al tempo stesso il pro-

dotto del primo gesto divino ma

anche la condizione a esso

preesistente. Prima, la terra è

un caos

intraduci-

bile, per

il quale la

l i n g u a

della Bib-

bia usa un binomio di parole.

Chissà che cosa vuol dire – visto

che compare solo qui. Chissà che

tipo di disordine disegnano, il to-

hu e il vohu, visto che nel mondo

non c’è ancora nulla. Il disordine

è fatto di cose, movimento, ge-

sti, parole. Ma allora non c’era

nulla di tutto questo.

Proviamo a immaginarlo, questo

ú–– Ada Treves

Dalle origini, quando nacque perspiegare e approfondire il significatodella legge rabbinica, a quando ac-quisì maggiore importanza in seguitoalla distruzione del Secondo Tempioper mano dei Romani nel 70 EV, nelmomento in cui l’ebraismo non po-tendo più contare sulla centralità delTempio si trovò a dover fare riferi-mento ai testi, fino alla nascita dellescuole rabbiniche, e oltre. La Storia del Talmud di Harry Fre-edman, pubblicata da Bollati Borin-ghieri, e tradotta dallo storico GadiLuzzatto Voghera, appena nominatodirettore del Centro di documenta-zione ebraica contemporanea di Mi-lano, ha come sottotitolo “Proibito,censurato e bruciato. Il libro che nonè stato possibile can-cellare”, e si potreb-be forse catalogareome una “bibliobio-grafia”. Non vuole spiegarecosa si trovi nellepagine del Talmud,ma ne racconta lastoria, e il ruolo nellastoria delle religioni e della cultura,a livello mondiale. Dalle origini mesopotamiche al rap-porto con gli arabi, dall’incontro coicristiani alle dispute medievali, dalcommento di Rashi, alla prima ver-sione a stampa pubblicata a Venezia,passando attraverso i molti roghiche tentarono di arginarne l’insegna-mento, le condanne papali, e poi l’Il-luminismo, l’Ottocento e la Nottedei Cristalli, per Freedman la storia

del Talmud è paradigmatica di ciòche può accadere quando la “lette-ratura” propria di una cultura vienein contatto o in conflitto con le cre-denze e i valori di un’altra. Simme-tricamente la sua storia è un esempiodi come una società chiusa e au-

tonoma sitrasformiquando isuoi testifondamen-tali entra-no in rela-

zione con idee nuove e provenientidall’esterno.Il volume di Freedman non è - néambisce ad essere - qualcosa di si-mile a The Essential Talmud di ravAdin Steinsaltz, introduzione magi-strale a un testo con cui l’ebraismosi è confrontato, ha vissuto e com-battuto nel corso dei secoli. Stein-saltz riesce a rendere sia lo spiritoche il sapore del Talmud, arrivandoanche a riassumerne i principi fon-damentali. Freedman invece raccon-

ta la storia della stessa opera, ma daun punto di vista molto differente:narra come vi si trovino contrapposti

in un dialogo vivace e certamentefecondo autori che hanno vissuto inluoghi lontanissimi, o anche in tempi

diversi, riportati però come se si trat-tasse della trascrizione fedele di unaconversazione. Impressiona la storia infinita di comele sue pagine siano state bandite, lostudio vietato, i volumi bruciati, eciononostante il Talmud non solosia sopravvissuto sino a oggi, ma for-se non ci sono mai state tante per-sone dedite allo studio e alla sua tra-duzione. Scrive Freedman: “Questa è la storiadi un libro. Un libro che definisce lareligione degli ebrei. Si potrebbe direche si tratta di un libro che definiscegli ebrei. Per la maggior parte, i librinon hanno una loro propria storia;al più esiste una narrativa a propositodella loro pubblicazione e della rice-zione del pubblico. Al contrario, ilTalmud non solo ha una storia, maè una storia turbolenta. Una storiache per certi versi viaggia in parallelocon la storia del popolo ebraico”. A differenza della Torah, il Talmudnon è mai stato un testo fisso. Le-gato alla storia del popolo ebraicoe alle sue vicissitudini, ha profittatograndemente - scrive Freedman - diquell’arricchimento reciproco dovuto

ú– LIBRI

La storia del Libro in fiamme

/ P30 CULTURA / ARTE / SPETTACOLO

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraiche

Harry FreedmanSTORIA DELTALMUDBollatiBoringhieri

ElenaLoewenthalMITI EBRAICIEinaudi

La Creazione, un processo verbale

u Yonah Lavery-Yisraeli ha

iniziato a disegnare tavole basate

sul trattato Berachot come

sistema per ricordare meglio

quanto studiato.

Il suo incontro con il Talmud

risale agli anni dell’università.

u Gadi Luzzatto Voghera

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alla condivisione e allo scambio diidee e prospettive con i popoli vicini.L’intensa e reciproca contaminazionecon l’islam ebbe effetti che si posso-no rintracciare ancora adesso nellelegislazioni sia islamica che talmu-dica, mentre l’incontro con il cristia-nesimo, avvenuto nel Medioevo, eb-be esiti del tutto diversi. Per la Chie-sa il Talmud era soprattutto un osta-colo alla possibilità di convertire gliebrei, e ne risultarono dispute feroci,e poi roghi, espulsioni e censure. In seguito, e in particolare nell’Eu-ropa protestante, furono in molti a

studiare il Talmud per ricavarne ideeadatte ai propri propositi: filosofi epoeti, repubblicani e monarchi, sa-cerdoti e professori, in tanti si im-pegnarono a mettere alla prova lesue pagine cercandovi ispirazione,soprattutto però per supportare econvalidare il proprio punto di vista.Per gli ebrei invece, ricorda Freed-man, “Lo studio del processo cheha condotto alla compilazione delleleggi assume lo stesso valore dellaconoscenza delle leggi stesse. Anzi,si dice che studiarle è perfino piùimportante che rispettarle. Perchéstudiarle conduce a rispettarle”.

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pagine ebraiche n. 6 | giugno 2016

Proprio nel periodo in cui leggia-mo le parashot del libro di Vaiqrà,viene alla luce il terzo volume dellacollana “La mia Torah” parte pro-getto editoriale promosso dall’AreaEducazione e Cultura Ebraicadell’Unione delle ComounitàEbraiche Italiane. “La mia Torah. Le parashot di Vai-qrà per i ragazzi”, come i prece-denti volumi dedicati a Bereshit eShemot, è un testo ideato per of-frire uno strumento di studio di-namico, attuale, ricco di spunti eapprofondimenti, e allo stesso tem-po adattato in maniera da rima-nere rigorosamente fedele al testo originale. Le autrici, Anna Coen eMirna Dell’Ariccia, inse-gnanti dalla lunga espe-rienza didattica, prose-guono il lavoro iniziatoalcuni anni fa con Bere-shit, affrontando il com-plesso compito di avvi-cinare i ragazzi ai temidel libro di Vaiqrà, riccodi argomenti non facilmente com-prensibili e di non semplice tra-smissione. Le norme legate al Santuario, leofferte e i sacrifici, le norme che

devono osservare i Sacerdoti o iconcetti di purità e impurità sonoindubbiamente temi lontani dal rit-

mo narrativo e coinvolgen-te dei primi due libri della

Torah. Il volume è un progetto realiz-

zato grazie al contributo derivantedall’otto per mille e edito da So-vera Edizioni, e lo sforzo delle au-trici ha portato a un arricchimento

ulteriore del lavoro già svolto peri primi due volumi. Tutte le dieciparashot di Vaiqrà, suddivise in al-trettanti capitoli, sonospiegate, com-mentate e pronteper essere utiliz-zate in contestieducativi chespaziano dallascuola alle attivitànon formali peruna didattica a piùlivelli pensata siaper la trasmissionedagli insegnanti ai ragazzi, che perle famiglie, come spunto di discus-

ú–– OdeliaLiberanomepedagogista

La mia Torah, Vaiqrà spiegato ai ragazzi

Anna Coen,Mirna Dell’AricciaLA MIA TORAH. LEPARASHOT DI VAIQRÀSovera edizioni

sione o per stimolare giochi tra iragazzi stessi. Ogni parashah è strutturata in di-

verse sezioni che per-mettono sia diconoscere leparti testualidella Torà, chemolti termini

specifici e pro-pongono ai ra-

gazzi alcunicommenti scelti dei

Maestri, un glossarioprincipale e vogliono

far comprendere il contesto dellanarrazione biblica, in una alternan-za tra immagini ideali di ciò che èdescritto e la trasposizione dellemitzvot e della vita ai giorni nostri,anche grazie alla particolare curaposta nell’elaborazione delle illu-strazioni e del progetto grafico.Possiamo concludere, con le pa-role delle autrici: “L’intento di que-sto libro è quello di continuare l’in-segnamento della Torà scopren-done i valori universali, rafforzarel’identità ebraica, educare all’osser-vanza delle mitzvot e stimolare ilpiacere di saperne di più”. Così, dopo la presentazione delprimo volume con le parashot diBereshit, pubblicato nel 2011 e do-po Shemot, arrivato nel 2014, si èora arrivati al terzo libro di un’ope-ra basata su tre direttrici: il rac-conto, con i riassunti di tutte la pa-rashot, l’approfondimento, con ilmetodo dell’ipertesto, e le attività,con giochi e esercizi per impararesenza mai annoiarsi. E il lavorocontinua.

caos di prima che esistesse la ma-

teria. Come quando una tempe-

sta scompone il confine tra cielo

e mare e tutto diventa la stessa

cosa, un intruglio di schiuma e

aria e luce e ombra. Un deserto

di sabbia dove ogni tanto si leva

un alito di vento che solleva qua

e là un mulinello giallo, ma c’è

una luce pura, senz’ombra, e sot-

to la luce vento e materia diven-

tano la stessa cosa, un istante di

rifrazione e poi piú niente. O

l’istante in cui il sole tramonta

dietro la collina ed è come se al

mondo non ci fosse piú nulla o

forse non ancora nulla, solo un

alito d’aria che non si sa da dove

venga ma è come il rintocco di

un tempo senza tempo, strappa

il giorno e saluta il sole.

Cosí doveva essere, quel caos

senza materia, lo scompiglio del

mondo prima che il Signore si ap-

prestasse a creare.

La creazione biblica è un insieme

di parole. Dio fa il mondo dicen-

dolo e vedendo che è buono, di

volta in volta. C’è solo una cosa

che è costretto a creare con ma-

teriale preesistente, cioè di se-

conda mano... ma non è ancora

tempo per questo.

«Dio disse» è il ritornello delle fa-

si della creazione, dal firmamen-

to – che è una cupola scura sotto

la quale esiste la terra – alla se-

parazione delle acque di sopra

da quelle di sotto (piogge e ma-

ri). Dio dice ogni volta e dopo

aver detto «chiama», cioè dà un

nome alle cose. La creazione è un

processo verbale: al mondo per

esistere basta la parola divina.

Ed è una parola breve, essenziale,

senza aggettivi.

Elena Loewenthal

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraiche

Davvero un’ottima scelta quelladell’Editrice milanese Proedi (di-retta, com’è noto, da Andrea Ja-rach, grande promotore di culturae informazione nel nostro Paese)di raccogliere in un unico, ponde-roso volume (oltre 600 pagine) gliarticoli pubblicati, dal febbraio del2009 alla fine del 2015, sul sito diInformazione Corretta (diretto, co-m’è parimenti noto, da AngeloPezzana, da sempre protagonistairriverente, scomodo e graffiantedel nostro dibattito politico e gior-nalistico), da Ugo Volli, semiologodi fama internazionale, e dedicatialle molteplici, controverse tema-tiche del Medio Oriente (tanto nel-lo specifico contesto di quell’areageografica, quanto nei suoi riflessi

nella politica e nell’informazioneitaliana, europea e nel resto delmondo). Un libro dal titolo elo-quente, esplicito “biglietto da visita”di Volli, uno che non le manda adire, e che non si tira mai indietro,quando c’è da difendere i diritti mi-nacciati di Israele, e da denunciarela violenza e la pericolosità dei suoinemici, l’ipocrisia e la falsa coscien-za dei finti neutrali, o dei presuntiarbitri, la viltà e l’ingenuità dei se-dicenti amici: Israele, diario di unassedio. Sottotitolo: La cronacapuntuale di come terrorismo, po-litica internazionale e media col-laborano a combattere la sola de-mocrazia del Medio Oriente.Il libro, per il numero e il livellodei commenti in esso riprodotti,nonché l’ampiezza e la problema-ticità delle tematiche affrontate,rappresenta un momento di rifles-sione particolarmente importante,e l’auspicio è che esso possa essereletto da un numero ampio di per-sone, di diverso orientamento po-

litico e ideologico, perché tutti, an-che coloro che non saranno d’ac-cordo con le analisi di Volli, nonpotranno che trarre giovamentodall’impegno di un osservatore cosìlucido e appassionato, che potràmagari essere giudicato eccessiva-mente partigiano nelle analisi e nel-le denunce, o esageratamente sfer-zante nella critica e nella polemica,ma a cui nessuno potrà certamentenegare il dono della chiarezza, edella più rigorosa onestà intellet-tuale. Perché il libro, a mio avviso,si presta a essere giudicato su tredistinti piani: la qualità della scrit-tura; i fatti esposti; i giudizi formu-lati sugli stessi.Sul primo piano, quello della scrit-tura, non c’è dubbio che lo stile diVolli, anche quando – e accademolto spesso – gli argomenti trat-tati sono tutt’altro che piacevoli,appare sempre coinvolgente nellacapacità di conquistare il lettorecon una prosa lucida, penetrante,corrosiva, che può magari turbare

o irritare, ma difficilmente lasciareindifferente. L’autore non è un pe-dagogo, non si atteggia a maestroo a dispensatore di morale, inquanto il suo principale obiettivoappare piuttosto quello di solleci-tare una reazione, di svegliare lecoscienze, di scuotere dal torporee dall’assuefazione. In quanto se-miologo e studioso della comuni-cazione, egli costringe il lettore, sipuò dire, a formulare un giudiziopersonale sulle notizie, smuoven-dolo dalla comoda e passiva rice-zione del pensiero tralaticio e dellavulgata dominante. E credo chetutti, al di là delle personali opinio-ni, gli debbano un ringraziamentoper una parola che può essere con-testata o contraddetta, ma che dif-ficilmente può essere lasciata ca-dere come superflua o insignifican-te. Per quanto riguarda i fatti espo-sti da Volli, la sua appare una crudarappresentazione della realtà, cosìcome essa è andata svolgendosi inquesti ultimi anni. La descrizione

dell'‘assedio’, nelle sue molteplicimanifestazioni (militari, diploma-tiche, politiche, mediatiche...), ap-pare precisa, lucida, sempre pun-tualmente documentata, e pare at-testare in modo inequivocabile uncostante peggioramento, a tutti ilivelli, dell'atteggiamento del "restodel mondo" nei confronti di Israele,che corrisponde poi, ovviamente,a un parallelo incremento dell'an-tisemitismo mondiale, nelle sue va-rie e molteplici manifestazioni. Cipiacerebbe molto dire che Volliesagera, e che la situazione non èpoi così nera come la descrive, mapurtroppo non lo pensiamo. Anzi,l'autore va ammirato per il fattoche questa desolante rappresenta-zione non lo spinge mai verso losconforto o la rinuncia, ma paresempre sollecitarne lo spirito com-battivo, il desiderio di reazione, lavigilanza e l'impegno civile.Sul piano, infine, dell'analisi sog-gettiva, dell'attribuzione delle di-verse responsabilità e dell'indica-

Il libro raccoglie una selezionescelta degli interventi pubblicatidal professor Ugo Volli, uno deipiù noti ed autorevoli semiologiitaliani, nella sua giornaliera rubrica"Cartoline da Eurabia", sul sito In-formazione Corretta.Le cartoline più importanti sonofortunatamente titolate in grasset-to. Esse sono presentate in ordinecronologico, con una piccola cro-nografia ad indicare gli eventi piùimportanti avvenuti nello scacchie-re mediorientale ogni anno.L'autore, come chi scrive, è schie-rato, senza se e senza ma, dallaparte di Israele, e in particolaredella destra israeliana.Una scelta questa, assai coraggiosa,in un mondo culturale ed accade-mico che spesso pone a un ebreo,quale condizione per esservi ac-

cettato e riconosciuto, l'eserciziodi un autodafé inquisitorio in cuigli si chiede di prendere le distanzedallo Stato ebraico e dal governodi esso democraticamente eletto.L'autore mostra con grande com-petenza e maestria (purtroppo nonsupportata, nella versione cartacea,dei preziosissimi link presenti sulsito Informazione Corretta) comeil mondo arabo non abbia mai ri-nunciato alla distruzione di Israelee concepisca un eventuale "accor-do di pace" con esso, esercitandola tattica della taqqya (dissimula-zione) espressamente codificatadal Corano, come un accordo diHudaybyya (la tregua stipulata daMaometto, nel 628 era volgare, eda questi violata, conseguendo lavittoria militare sui suoi nemici,l'anno seguente) come lo stessoYasser Arafat ebbe modo di chia-rire nel sermone pronunciato il 10maggio 1994 in una moschea diJohannesburg facendo riferimento

all'accordo di pace di Oslo firmatoil 13 settembre 1993 (riguardo alquale mi permetto di suggerirel'ascolto della splendida canzone"A ieladim shel Oslo" della semprespassosissima Latma Tv).Quanto, in particolare, ciò sia veroper quanto attiene i cosiddetti pa-lestinesi, si evince palesemente dal-la consultazione del sito PalestinianMedia Watch curato da ItamarMarcus che palesa come le cartineufficiali della Palestina pubblicatedall'Autorità Nazionale Palestineseguidata dai "moderati" di Al Fatahindichino tutto il territorio com-preso fra il fiume Giordano ed ilMar Mediterraneo.E, affrancandosi dal perbenismoideologico e dalla dittatura del po-liticamente corretto imperanti inlarga parte della sinistra (ancheebraica), egli mostra con erudizio-ne e competenza lo strutturale an-tisemitismo cesellato nei testi dot-trinali islamici e ben compendiato

dallo sterminio, perpetrato daMaometto nel 627 era volgare, del-la tribù ebraica medinese dei BanuQuraiza su cui il professor BernardLewis ha speso parole magistrali.Particolare acume l'autore rivelanel decostruire la orwelliana neo-lingua con cui i sostenitori dellacausa palestinese mistificano la ve-rità storica: locuzioni ideologichemolto in voga nella sinistra (ancheebraica ed israeliana senza contarepaesi islamici non arabi come l'Irananch'essi ostili allo Stato ebraico)come "Israele deve restituire i Ter-ritori Occupati" non reggono auna rigorosa analisi storica che ri-corda come la Cisgiordania e laStriscia di Gaza furono sottratteda Israele, nella Guerra dei SeiGiorni del 1967 non già ad un fan-tomatico ed inesistente "popolopalestinese" quanto invece, rispet-tivamente, alla Giordania e all'Egit-to che a loro volta le avevano oc-cupate illegalmente nel 1948.

Se “l'identità palestinese" non fossesolo un'arma propagandistica delmondo arabo volta a capovolgerel'immagine del conflitto arabo-sio-nista (un minuscolo Stato ebraicodi 28.000 Kmq, che solo la cattivafede della propaganda filoarabapuò denotare con la locuzione mi-stificatoria "Grande Israele", abi-tato da 8.3 milioni di abitanti, in-cluso un un milione e mezzo diarabi israeliani, circondato da unoceano di stati arabi ostili che siestendono per 8 milioni di Kmq,duecentocinquanta volte tanti, eabitati da 320 milioni di abitanti,quaranta volte tanto) dal 1948 al1967 il sedicente "popolo palesti-nese" avrebbe dovuto lottare con-tro l'occupazione giordana dellaCisgiordania e contro l'occupazio-ne egiziana della Striscia di Gaza,cosa che si guardò bene dal fareessendo a lui assolutamente con-geniale l'occupazione di "fratelliarabi". E a tante anime belle della

ú– ISRAELE Israele. Diario di un assedio, del semiologo Ugo Volli, raccoglie molti scritti apparsi precedentemente sul web ededicati alla situazione del conflitto in Medio Oriente. Per gli argomenti trattati e per lo stile espressivo appas-sionato e a tratti estremo adottato dall’autore, si tratta di un libro ben rappresentativo di una certa modalità divedere e di raccontare la situazione di Israele. In questa pagina due pareri sul libro. Altri seguiranno, per svilup-pare una riflessione quantomai urgente sulle strategie utili a salvaguardare la sola democrazia del Medio Orientee il popolo ebraico nel suo complesso dalle minacce che provengono da diversi fronti.

L’appassionato diario dell’assedio a Israele

“Una Cassandra che ha il coraggio di stare a destra”

Ugo VolliISRAELEDIARIO DI UN ASSEDIOProedi

ú–– Gavriel Segre fisico-matematico

ú–– FrancescoLucrezi storico

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zione delle possibili risposte utili,non si può essere, naturalmente,sempre d'accordo con Volli. Nonsempre mi trovo in sintonia conlui, per esempio, sull'individuazionedi quelle che possono apparire leradici del problema e quindi i pos-sibili antidoti. Volli, com'è noto,usa ricorrentemente, in tono pole-mico, il termine Eurabia per de-nunciare la deriva rinunciataria cheavrebbe preso il Vecchio Continen-te, abdicando ai suoi tradizionalivalori - ancorati ai concetti occi-dentali di libertà, democrazia, ra-zionalità, diritto, per piegarsi perviltà, miopia, calcolo, debolezzaalle ben diverse istanze segnate daarretratezza culturale, fondamen-talismo politico, oscurantismoideologico, che proverrebbero dallesocietà islamiche, i cui costumi ecomportamenti parrebbero esten-dersi, anche in ragione dell'immi-grazione incontrollata, sempre piùnelle nostre città, portando con sé,tra le molte cose negative, anchemassicce dosi di antisemitismo eantisionismo. In quello che dice lo studioso c'èmolto di vero, ed è purtroppo undato di fatto come dalle comunitàislamiche europee si levino ricor-renti voci di intolleranza e di inci-tamento alla violenza, e come dallestesse provengano anche molti au-tori, a vario livello, di attentati ter-roristici. Questo è un mero dato difatto, nessuno lo può negare, come

è anche vero, purtroppo, che le vo-ci moderate e ragionevoli – chepur sussistono, anche autorevoli -appaiono, in quel campo, minori-tarie, così come le nette ed esplicitedenunce della violenza. Una Eura-bia, nel senso di un continente po-co incline a contrastare le pulsioniaggressive e violente serpeggiantinel mondo arabo-islamico – cheoggi è anch’esso, piaccia o nonpiaccia, un mondo europeo - esistee preoccupa. Ma, ciò nonostante,non credo che la riposta possa es-sere una chiusura e un arrocca-mento dell’Europa, della "vecchia"Europa (se esiste ancora), una scis-sione tra le due componenti dellaparola composta ‘Eurabia’. Questa,a mio avviso, non può rappresen-tare una soluzione, non solo inquanto ormai impossibile (il flussomigratorio non si fermerà, è un fe-nomeno epocale di cui bisogna so-lo prendere atto), ma perché sonoalquanto pessimista – sul punto so-no forse ancora più pessimista diVolli – riguardo alla volontà del-l’Europa di recuperare la propriaanima democratica e liberale, fon-

data sul rispetto e la valorizzazionedelle differenze, sulle idea del-l'uguaglianza e della dignità dellasingola persona umana, sulla nettaseparazione tra Chiesa e stato.Quanto è forte, quanto è viva,quanto è condivisa quest’anima, tragli europei di oggi (non gli islamici,ma gli europei-europei)? Basta ve-dere quel che accade a Parigi, a Bu-dapest, a Bruxelles, a Vienna perfarsi un’idea al riguardo. Ed è forsetutta colpa dell’Arabia Saudita? Ècolpa degli arabi se xenofobia, po-pulismo, razzismo dilagano nellestrade e nelle piazze d’Europa? Inquesto brodo malefico, ovviamente,l’antisionismo e l’antisemitismo cre-scono rigogliosi, e non potrebbenon essere così, ma io credo chesia semplicemente impossibile iso-lare chirurgicamente il cancro del-l’antisemitismo, lasciando intattotutto il resto. Io credo, forse inge-nuamente, che la battaglia perIsraele coincida, semplicemente,con la battaglia a difesa dei dirittidi tutti, a cominciare dai soggettiminoritari, colpiti, discriminati eminacciati. Israele lo è, e anche per

questo va difeso, ma sono colpitie vilipesi anche coloro che vengo-no a richiedere da noi asilo, pro-tezione e accoglienza, scappandoda guerre, dittature e miseria. An-che loro, musulmani o altro chesiano, sono soggetti vulnerabili, an-che la loro voce va ascoltata. Nonmi piace la retorica dei “ponti an-ziché muri” (c'è almeno un muroche ha salvato Dio sa quante viteumane), e so bene quanto sia dif-ficile coniugare tutela umanitariae intransigente vigilanza contro lapredicazione dell’odio, la violenzae l’antisemitismo, ma non credoche ci sia un’altra strada percorri-bile. Ottant’anni fa, in Europa nonc’era forse neanche un musulmano,e l’Europa era quello che era. La strada, secondo me, non è, nonpuò essere quella di fare diventarel'Europa una fortezza: sarebbe unabrutta fortezza, e non credo affattoche sarebbe più vicina a Israele, an-zi. Nessuno meglio di me sa comel'antifascismo sia stato spessissimoun alibi per coprire le peggiori ne-fandezze, ma, ciò nonostante, talevalore dovrebbe restare sempre,

per la particolare me-moria storica europea,un anticorpo essenzia-le a tutela di libertà edemocrazia, e il fattoche si stia invece com-pletamente perdendoè una cosa cattiva perl'Europa e pessima per

gli ebrei e anche per Israele, nono-stante l'interessato filosionismo ditanti anti-islamici in servizio per-manente effettivo (non mi riferiscoovviamente a Volli), del quale, amio avviso, occorre diffidare. Hosempre pensato che la battaglia adifesa di Israele sia anche una bat-taglia a favore delle società islami-che, di una loro evoluzione in sen-so liberale, in quanto parte essen-ziale e qualificante di un'altra, piùgrande battaglia, che riguarda tuttie dovrebbe coinvolgere tutti, cheè, ripeto, quella per il diritto, per idiritti: dei popoli e degli individui,a Gerusalemme come a Teheran,a Riad come a Mosca e a Roma.Mi rendo conto di essere entratonei "massimi sistemi", lasciandomiandare a considerazioni in libertà.L'ho fatto in quanto sospinto daun libro che è innanzitutto un sol-lecitatore della nostra coscienza, eper questo deve essere letto e di-ventare oggetto di riflessione, daparte di chiunque voglia farsiun'idea propria (non condizionatadalle veline di regime) di quel cheaccade nel Medio Oriente e nelmondo. Perché è un volume chescuote, che chiede risposte urgenti,imponendo a tutti, anche a chi nonla pensi come l'autore, di interro-garsi sulla natura di quell'oscuroveleno che - ne sono profonda-mente convinto - non colpisce sologli ebrei, e non circonda - non "as-sedia" - soltanto Israele.

sinistra israeliana ed ebraica (comescrittori del calibro di David Gros-smann, Abraham Yehoshua eAmos Oz, assai meno ferrati inquestioni di strategia militare diquanto lo siano in questioni lette-rarie) che si ostinano a propugnareun ritiro israeliano entro la tantoidolatrata Linea Verde (che altronon è se non la linea armistizialerealizzatasi sul campo nel 1949 altermine della Guerra di Indipen-denza) e una cessione completaagli arabi della Cisgiordania, l'au-tore contrappone la ferrea logicamilitare che palesa come i "confinidel 1967", da Abba Eban chiamatisignificativamente i confini di Au-schwitz, non sono militarmentedifendibili poichè la geodetica (ilsegmento di retta più breve) chesepara la Cisgiordania dal MarMediterraneo è lunga solamente13 Km e verrebbe quindi percorsada un aereo militare moderno inpochi secondi e in soli venti minutida mezzi di terra agili e truppemotivate, con il devastante effettodi tagliare in due Israele e portare

a compimento la distruzione delloStato ebraico. Analogamente, seun missile può essere sparato dal-l'altura sovrastante l'aeroporto in-ternazionale Ben Gurion, quellaaltura deve essere difesa da possi-bili azioni terroristiche.Se la capitale Gerusalemme è le-gata al resto di Israele da una stri-scia di terra larga pochi chilometri,bisogna rendere impossibile taglia-re fuori la città. Cosi, dietro la valledel fiume Giordano, barriera na-turale contro gli attacchi di truppecorazzate, debbono esserci difeseche impediscano alle truppe attac-canti di avvicinarsi ai centri abitatiisraeliani (la geodetica che con-giunge il Giordano alla Linea Ver-de misura solo 55 chilometri). E,d'altro canto, come si può dimen-ticare che la piattaforma politica"due popoli due stati" è già stata

implementata dalla divisione dellaPalestina sotto mandato britannicoin uno Stato ebraico, edificato nel1948, e uno Stato arabo, la Gior-dania, edificato nel 1947 ed estesosul territorio della Transgiordaniacontravvenendo così alla letteradella Dichiarazione Balfour del 2novembre 1917, confermata poidallo stesso testo del mandato bri-tannico del 24 luglio 1922, cheprevedeva l'edificazione di un fo-colare nazionale ebraico sull'interaPalestina mandataria?Quale inascoltata quanto profeticaCassandra il professor Volli haespresso poi negli anni il suo scet-ticismo verso le "primavere arabe"presto trasformatesi in inverni isla-misti. La minaccia nucleare irania-na che incombe su Israele (resaancora più cogente dal sciaguratoAccordo di Vienna siglato da Ba-

rack Obama nel2015), è poi ricordatadal professore, chemostra come, poichéun missile interconti-nentale impiega solo

otto minuti dall'Iran a Israele e poi-ché i sistemi radar Nato situati inTurchia, per espressa volontà degli"islamici moderati" di Ankara, nonsono condivisi con Israele, lo Statoebraico rischia di trovarsi nella tra-gica situazione di avere solo quat-tro minuti di preavviso prima diuna apocalisse nucleare che si con-figurerebbe come una secondaShoah. Per quanto, invece, attienel'Europa l'autore si inscrive in unfilone intellettuale ebraico europeo,rappresentato anche da figure delcalibro di Bat Ye'Or, Alain Finkiel-kraut, Walter Laqueur e GeorgesBensoussan, che ha lucidamentedenunciato come le politiche diaccoglienza generalizzata dei mi-granti promossa dalle sinistre eu-ropee, aumentando la percentualearaba della popolazione europea,conducono fatalmente a un au-

mento dell'antisemitismo.Naturalmente tale coraggiosa ana-lisi è stata a lungo attaccata daiburocrati perbenisti del conformi-smo politicamente corretto comeislamofobia. A tale risibile accusal'autore risponde argutamente chel'Islam non è una razza, e neppuresolo una religione. È una regola divita, una ideologia che obbliga ipropri membri attivi a un progettodi conquista del mondo e distru-zione delle "menzogne" che locontraddicono (non solo le altrereligioni ma anche la modernitàlaica e lo spirito scientifico).Dire che l'opporsi all'Islam è raz-zismo è come dare del razzista an-tigermanico a chi è antinazista odel sarmatofobo a chi è stato an-ticomunista ai tempi dell'Urss.In sintesi, quello scritto dal profes-sor Volli, è un libro straordinario,assai utile per aiutare a decostruirela propaganda palestinista, da te-nere a lungo sul comodino insiemea Lettera ad un amico antisionista diPierluigi Battista e The case of Israeldi Alan Dershowitz.

© D

ean

Gah

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/ P34 SPORT

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n. 6 | giugno 2016 pagine ebraiche

Se ogni quattro anni l'Italia tantofedele al calcio si lascia trasportarenel tifo anche di atleti di disciplinemeno mainstream è certamentegrazie ai Giochi Olimpici. Ma sele gare arrivano in diretta nelle ca-se di tutto il mondo è senza dub-bio anche merito di Live U, unatecnologia brevettata in Israele, chegià dalle edizioni di Pechino 2008e poi di Londra 2012, offre un si-stema che sfrutta la rete di trasmis-sioni cellulari per inviare le imma-gini ai centri delle emittenti tele-visive. La soluzione funziona con

qualsiasitipo di te-lecamera,e si serve

di modem 3G e 4G che aggreganotutte le connessioni dati contem-poraneamente per ottenere un’ele-vata larghezza di banda e una tra-smissione senza intoppi. E per farequesto è sufficiente un dispositivodelle dimensioni all’incirca di uncomputer portatile. Prima che fos-se sviluppata questa soluzione lereti televisive si affidavano al sa-tellite per inviare i video ai centridi trasmissione, ma il collegamento

poteva saltare in ogni momentoin dirette da luoghi chiusi, sottoponti, o dentro grotte, e persinoquando il cielo è molto nuvoloso– per non parlare dei costi.Nata nel 2006, LiveU ha il suoquartier generale in Israele e unasuccursale negli Stati Uniti, nelNew Jersey, e ha portato una verarivoluzione. Fra i suoi clienti si

contano reti televisive di tutto ilmondo, e se ne servono tra le altrela statunitense Nbc, molte reti chetrasmettono in tutta l’America la-tina, come le brasiliane Globosate Tv Record e la messicana Tele-visa, e soprattutto la Bbc. E se inquesto modo sono andate in ondala visita in Irlanda della regina Eli-sabetta nel 2011, risultati elettorali

britannici e statunitensi, e poiGrammy Awards e serate degliOscar, sono gli eventi sportivi lasua vera specialità. Qualche esem-pio? Vari Super Bowl, i celebri AllStar Games dell’Nba e gli ultimiMondiali di calcio. E così, a di-stanza di soli due anni, Live U tor-na in Brasile.

f.m.

Rio 2016, uno sguardo d’eccellenza

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