Padri Della Chiesa

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I Padri Apostolici S. Clemente Romano S. Ignazio di Antiochia Il Pastore d'Erma S. Policarpo I Padri della Chiesa Chi sono i Padri della Chiesa Clemente alessandrino S. Agostino S. Ambrogio S. Anselmo S. Benedetto S. Cirillo S. Giovanni Crisostomo S. Giustino S. Gregorio di Nissa S. Leone Magno Discorsi nel giorno della consacrazione Omelie sul Santo Natale Discorsi sull'Epifania Lettera a Flaviano Origene Tertulliano Cirillo d'Alessandria S. Basilio Atenagora di Atene

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S.Agostino e e San Benedetto da Norcia

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I Padri Apostolici

S. Clemente Romano

S. Ignazio di Antiochia

Il Pastore d'Erma

S. Policarpo

I Padri della Chiesa

Chi sono i Padri della Chiesa

Clemente alessandrino

S. Agostino

S. Ambrogio

S. Anselmo

S. Benedetto

S. Cirillo

S. Giovanni Crisostomo

S. Giustino

S. Gregorio di Nissa

S. Leone Magno

Discorsi nel giorno della consacrazione

Omelie sul Santo Natale

Discorsi sull'Epifania

Lettera a Flaviano

Origene

Tertulliano

Cirillo d'Alessandria

S. Basilio

Atenagora di Atene

Rufino di Aquileia

Guigo il certosino

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I Padri del deserto

Evagrio Pontico

S. Antonio Abate

I Padri esicasti

La Preghiera del cuore

Gregorio il sinaita

Niceforo il solitario

S. Barsanufio e Giovanni

Lo Pseudo Macario

Agostino nacque il 13 novembre 354 a Tagaste (Souk-Ahras) nella Numidia. Non sappiamo se i suoi genitori fossero di pura origine romana. Il padre, Patrizio, impiegato municipale, entrò nella Chiesa come catecumeno solo nei suoi ultimi anni e fu battezzato poco prima della morte (371). La madre, Monica, era invece cristiana zelante. Agostino ricevette a Tagaste la prima istruzione, e poiché, per volontà del padre, era destinato a diventare rètore, proseguì i suoi studi nella vicina Madaura. Di qui passò nel 371 a Cartagine per seguirvi i corsi di retorica e diritto. Là da una relazione irregolare - durata fino al 384 - ebbe nel 372 un figlio, Adeodato. Disprezzava, in quel tempo, la religione di sua madre, quasi fosse, lo dice egli stesso, un insieme di "leggende da vecchierelle". Allorché, nel 373, lesse, secondo il programma degli studi, il dialogo "Hortensius" di Cicerone, cominciò a sentire l'anelito verso una concezione del mondo fondata su basi filosofiche. Poco dopo si iscrisse come esterno (auditor) al Manicheismo, che a lui, superbo della sua scienza, appariva, in opposizione al Cristianesimo insegnato dalla Chiesa, come la religione dei lumi, libera da ogni autorità, vera forma di Cristianesimo. Nel 374/75, terminati gli studi, Agostino si stabilì a Tagaste come insegnante delle arti liberali, ma trasferì poco dopo la sua scuola a Cartagine (375/83). Sul finire di questo periodo della sua vita, i dubbi sulla verità del sistema manicheo andarono aumentando sempre più: quella cosmologia gli sembrò inconciliabile con la dottrina insegnata dalla filosofia greca, e si avvide che il dualismo insegnato dai Manichei era in contraddizione con il loro concetto della divinità.

Finì di disilluderlo un'intervista che ebbe col famoso vescovo manicheo Fausto di Milevi, nel quale egli non trovò che un parolaio poco dotto. Tuttavia anche a Roma, dove si era portato nel 383 contro la volontà della madre, avvicinò gli amici manichei. Agli inzi del 384, per i buoni uffici del prefetto pagano di Roma Simmaco, ottenne un posto di insegnante di retorica a Milano messo a concorso dallo Stato. Malgrado questa situazione sicura e onorata, e benché la madre ed altri prossimi parenti abitassero allora con lui, Agostino si sentiva nel suo interno più tormentato ed infelice che mai. Ma ascoltando i sermoni di S. Ambrogio, vescovo di Milano, che per lo più spiegava allegoricamente il testo biblico corrente, trovò una luce nuova. Nel decisivo 386, Agostino, che lottava per una nuova concezione del mondo, avrebbe conosciuto per la prima volta le dottrine neoplatoniche. La lettura dei trattati di Plotino già tradotti in latino, attraverso i quali incominciò a concepire Dio come sostanza puramente spirituale e il male come un nulla, gli recò un grande progresso intellettuale. Il sacerdote Simpliciano, di orientamento neoplatonico, che poi succederà ad Ambrogio nella sede vescovile di Milano, gli dimostrò come la speculazione sul Logos del prologo giovanneo completasse la dottrina di Plotino intorno al Nous. Così, attraverso la filosofia, gli si

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schiuse una via verso la fede nell'eterno Logos-Dio. Lo stesso Simpliciano attirò l'attenzione di Agostino sull'importanza della lettura delle lettere di Paolo. In esse capì che l'uomo, soltanto attraverso la grazia divina, riesce a raggiungere il fine cui tende: l'unione con Dio mediante la fede, che egli, come neoplatonico, aveva sperato di raggiungere con l'aiuto della meditazione filosofica.

In un'ora in cui la lotta tumultuava più violenta che mai nel suo spirito, gli fu additato da Simpliciano, con quale fermezza e risolutezza il celebre rètore Mario Vittorino avesse superato, alla fine, tutti gli impedimenti che si erano frapposti alla sua entrata nella Chiesa, e un'altra volta un amico gli narrò la vita di austero ascetismo dell'anacoreta Antonio e di altri monaci e romiti.Quella fu per lui l'ora della decisione. Pervaso da un’emozione profonda, si precipitò nel giardino e sentì ripetutamente una voce infantile che gli diceva: "Tolle, Lege". Aperse il libro delle epistole di S. Paolo e lesse il tratto di quella ai Romani 13, 13 s. D'improvviso "svanì ogni nebbia di dubbio" (Conf. 8, 12). Poche settimane più tardi, nell’autunno del 386, rinunziò all’insegnamento e si ritirò in campagna, a Cassiciacum, nel podere di un amico, in attesa di iscriversi, all'inizio della prossima quaresima, tra i catecumeni che si preparavano al battesimo. Chiari indizi ci dicono che Agostino già qualche tempo prima della suddetta "scena del giardino" era fermamente deciso a farsi cristiano e sottomettersi all'autorità della Chiesa, come quella che rappresentava la verità cui egli da molto tempo aspirava. Dalla commovente descrizione della sua conversione (Conf. 8, 6-12) noi apprendiamo anzitutto che il rètore, già intimamente credente, era pervenuto, rinunciando a ricchezza ed onori, a scegliere la via, che allora giudicava la più perfetta, della castità e della rinuncia al matrimonio. Con lo spirito libero dai ceppi della sensualità e della passione, volle poi dedicarsi tutto e per sempre alla ricerca della verità e così conseguire la felicità. Agostino ricevette il battesimo il Sabato santo, 23 aprile, del 387, assieme al figlio e all'amico Alipio, per mano di S.Ambrogio.

Alcuni mesi dopo intraprese il viaggio di ritorno in Africa, passando per Roma. Ad Ostia, poco prima di imbarcarsi, Monica si ammalò e dopo nove giorni morì. Allora Agostino tornò a Roma e qui si trattenne circa un anno, occupato in lavori letterari. Nell’autunno del 388 rientrò a Tagaste ove visse nella casa paterna per tre anni con alcuni amici, in claustrale ritiro. La fama della sua dottrina e della sua pietà era già così grande, che nel 391, durante un suo soggiorno ad Ippona, mentre assisteva, senza alcun sospetto, all’ufficio divino, il vescovo Valerio, su richiesta dei presenti, nonostante la sua resistenza, lo ordinò prete. Così ha inizio un nuovo periodo della sua evoluzione spirituale. L'interesse che portava agli studi filosofici e alla cultura delle arti liberali cedette il posto a un orientamento puramente teologico e all'attività apostolica inerente alla sua dignità nuova. Anche ad Ippona, come già a Tagaste, fondò un monastero ove viveva in comune con i vecchi amici e le nuove reclute. Nel 395 il vescovo Valerio lo fece consacrare suo ausiliare, cosicché alla sua morte (396) Agostino ne occupò il posto. Continuò col suo clero a condurre vita cenobitica. Si occupò con zelo particolare della predicazione e fu instancabile nella cura dei poveri. L'attività di scrittore impegnò sempre una gran parte delle sue forze, e furono soprattutto le questioni e controversie religiose del suo tempo ad assorbirlo. S.Agostino morì a Ippona il 28 agosto del 430, mentre i Vandali tenevano assediata la città. Dopo la caduta di questa, i suoi resti furono trasportati in Sardegna e, nel 722, da Liutprando a Pavia.

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AGOSTINO DI IPPONA

LA FEDE NELLE COSE CHE NON SI VEDONO

Niente di più certo dell’interiore visione dell’animo.

1. 1. Vi sono alcuni i quali ritengono che la religione cristiana debba essere derisa piuttosto che accettata, perché in essa, anziché mostrare cose che si vedono, si comanda agli uomini la fede in cose che non si vedono. Dunque, per confutare coloro ai quali sembra prudente rifiutarsi di credere ciò che non possono vedere, noi, benché non siamo in grado di mostrare a occhi umani le realtà divine che crediamo, tuttavia dimostriamo alle menti umane che si devono credere anche quelle cose che non si vedono. E, in primo luogo, a coloro che la stoltezza ha reso così schiavi degli occhi carnali che giudicano di non dover credere ciò che con quelli non scorgono, va ricordato quante cose non solo credano ma anche conoscano, che pure non possono vedere con tali occhi. Già nel nostro animo, che è di natura invisibile, ce ne sono innumerevoli. Per non parlare di altro, proprio la fede con la quale crediamo o il pensiero con il quale sappiamo di credere o di non credere qualcosa, sono totalmente estranei agli sguardi di codesti occhi; eppure che c’è di più manifesto, di più evidente, di più certo dell’interiore visione dell’animo? Come dunque possiamo non credere ciò che non vediamo con gli occhi del corpo, quando ci accorgiamo di credere o di non credere pur non potendo giovarci degli occhi del corpo?

Nessuna disposizione dell’animo si può vedere con gli occhi del corpo.

1. 2. Ma, essi dicono, queste cose che sono nell’animo, poiché le possiamo percepire con l’animo stesso, non c’è bisogno di conoscerle mediante gli occhi del corpo; quelle, invece, che ci proponete di credere, non le mostrate all’esterno in modo che le conosciamo mediante gli occhi del corpo, né sono interiormente, nel nostro animo, in modo che le vediamo con il pensiero. Questo è quanto dicono: come se si ordinasse a qualcuno di credere nel caso in cui potesse vedere davanti a sé l’oggetto del credere. Di certo, dunque, siamo tenuti a credere ad alcune realtà temporali che non vediamo, per meritarci di vedere anche quelle eterne nelle quali crediamo. Ma, chiunque tu sia, tu che non vuoi credere se non ciò che vedi, ecco, tu vedi con gli occhi del corpo i corpi presenti e vedi con l’animo, poiché sono nel tuo animo, le tue volontà e i tuoi pensieri del momento; ora dimmi, ti prego, la buona disposizione del tuo amico verso di te con quali occhi la vedi? Nessuna disposizione, infatti, si può vedere con gli occhi del corpo. O vedi forse con il tuo animo anche ciò che avviene nell’animo altrui? Ma se non lo vedi, come ricambi a tua volta la benevolenza dell’amico, dal momento che non credi ciò che non sei in grado di vedere? O, per caso, stai per dire che vedi la disposizione altrui dalle sue opere? Dunque, vedrai i fatti e sentirai le parole, ma, circa la disposizione dell’amico, tu sarai costretto a credere ciò che non si può né vedere né sentire. Quella disposizione, infatti, non è né un colore né una forma che si imponga agli occhi, non è un suono o una melodia che penetri negli orecchi, e non una tua disposizione, che sia percepita da un moto del tuo cuore. Non ti resta, pertanto, che credere ciò che non è né visto, né udito, né percepito dentro di te, affinché la

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tua vita non rimanga vuota, senza alcuna amicizia, o l’amore che hai ricevuto non sia, a tua volta, da te ricambiato. Dove è dunque quel che dicevi, e cioè che non devi credere se non ciò che vedi, all’esterno con il corpo o, all’interno, con il cuore? Ecco, a partire dal tuo cuore tu credi ad un cuore non tuo, e là dove non drizzi lo sguardo della carne e della mente, ci destini la fede. Tu, con il tuo corpo, scorgi il volto dell’amico, con il tuo animo discerni la tua fede: ma la fede dell’amico tu non puoi amarla se, a tua volta, non hai in te quella fede con la quale credi ciò che in lui non vedi. Sebbene l’uomo possa anche ingannare col fingere benevolenza o col nascondere la malvagità o, se non ha intenzione di nuocere, con l’aspettarsi da te qualche vantaggio, tuttavia egli simula perché manca di amore.

Nelle avversità si prova il vero amico.

1. 3. Ma, secondo quanto dici, tu credi all’amico, del quale non puoi vedere il cuore, perché lo hai sperimentato nelle tue situazioni difficili e hai conosciuto quale fosse la sua disposizione d’animo verso di te in occasione dei pericoli in cui non ti ha abbandonato. Forse dunque, a tuo parere, dobbiamo augurarci delle disgrazie per avere la prova dell’amore degli amici verso di noi? E nessuno proverà la felicità che proviene da amici fidatissimi, se non sarà stato infelice per le avversità, ovvero non potrà mai godere dell’amore collaudato di un altro, se non è stato tormentato dal proprio dolore o timore? E allora come si può desiderare, e non piuttosto temere, quella felicità che si prova nell’avere veri amici, quando solo l’infelicità può renderla certa? E tuttavia è indubbio che si può avere un amico anche nelle prosperità, sebbene è nelle avversità che ne abbiamo la prova più certa.

Crediamo al cuore degli amici anche prima di metterlo alla prova.

2. 3. Ma, comunque, per metterlo alla prova, tu non ti affideresti alle tue verifiche, se non credessi. Perciò, siccome tu lo fai per metterlo alla prova, tu credi prima di averne la prova. Di certo infatti, se non dobbiamo credere alle cose non viste, dal momento che crediamo ai cuori degli amici anche quando non ne abbiamo ancora prove certe, e dal momento che, anche quando abbiamo prove - a prezzo dei nostri mali - che sono buoni, anche allora, piuttosto che vedere, crediamo alla loro benevolenza verso di noi, tutto ciò accade soltanto perché in noi è così grande la fede che, in maniera del tutto conseguente, pensiamo di vedere, se si può dire, con i suoi occhi ciò che crediamo. E dobbiamo appunto credere, proprio perché non possiamo vedere.

Se scomparirà la fede, finirà del tutto l’amicizia.

2. 4. Se questa fede fosse eliminata dalle vicende umane, chi non si avvede di quanto scompiglio si determinerebbe in esse e di quale orrenda confusione ne seguirebbe? Se non devo credere a ciò che non vedo, chi infatti sarà riamato da un altro, dal momento che in se stesso l’amore è invisibile? Pertanto finirà del tutto l’amicizia, perché essa non consiste in altro che nell’amore reciproco. Quale amore infatti si potrà ricevere da un altro, se non si crede affatto che sia stato dato? Con la fine dell’amicizia poi non resteranno saldi nell’animo né i vincoli matrimoniali né quelli di consanguineità né quelli di parentela, poiché anche in essi vi è senz’altro un comune modo di sentire basato sull’amicizia. I coniugi dunque non potranno amarsi a vicenda, quando, non potendo vedere l’amore come tale, l’uno non crederà di essere amato dall’altro. Essi non desidereranno avere figli, poiché non credono che saranno da essi ricambiati. E costoro, se nascono e

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crescono, ameranno molto di meno i loro genitori, non vedendo nel loro cuore l’amore verso di sé, dato che è invisibile; naturalmente, però, qualora il credere le cose che non si vedono è segno di colpevole impudenza e non di lodevole fede. Che dire poi degli altri vincoli familiari - tra fratelli, tra sorelle, tra generi e suoceri, tra congiunti di qualsivoglia grado di consanguineità e affinità - se l’amore è incerto e la volontà è sospetta, tanto da parte dei genitori verso i figli quanto da parte dei figli verso i genitori, e quindi finché la dovuta benevolenza non è ricambiata, perché non la si ritiene dovuta quando, non vedendola, non si crede che vi sia nell’altro? D’altra parte, se non è ingenua, è quanto meno odiosa questa cautela per la quale noi non crediamo di essere amati per il fatto che non vediamo l’amore di chi ci ama, e pertanto non ricambiamo a nostra volta coloro che non ci riteniamo in dovere di ricambiare. Fino a tal punto perciò le cose umane sono sconvolte, non credendo ciò che non vediamo, da essere distrutte fino alle fondamenta, se non crediamo a nessuna volontà d’uomo, che di certo non possiamo vedere. Tralascio di dire quante cose della pubblica opinione, della storia ovvero di luoghi in cui non sono mai stati credano coloro che ci riprendono per il fatto che crediamo ciò che non vediamo, e come essi non dicano “ non crediamo perché non abbiamo visto ”. Se dicessero ciò, infatti, sarebbero costretti a confessare di non avere alcuna certezza sull’identità dei loro genitori, poiché, anche in questo caso, hanno creduto a quanto altri gli raccontavano, senza peraltro essere capaci di mostrarglielo perché era ormai passato; e, pur non conservando alcun ricordo del tempo della loro nascita, tuttavia hanno dato il pieno consenso a coloro che in seguito gliene hanno parlato. Se così non fosse, inevitabilmente si incorrerebbe in un’irriguardosa mancanza di rispetto nei confronti dei genitori, nel momento stesso in cui si cerca di evitare la temerità di credere in quelle cose che non possiamo vedere.

La presenza di indizi chiari ci sprona a credere.

3. 4. Se, dunque, con il non credere ciò che non possiamo vedere crollerà la stessa umana società, perché verrebbe a mancare la concordia, quanto più è necessario prestare fede alle realtà divine, sebbene siano realtà che non si vedono? Se non si prestasse loro fede, non l’amicizia di un uomo qualsiasi ma la stessa suprema religione sarebbe violata, in modo che ne consegue la somma infelicità.

3. 5. Ma, tu dirai, la benevolenza di un amico nei miei confronti, malgrado non possa vederla, tuttavia la posso ricercare attraverso molti indizi; voi, invece, non potete mostrare con nessun indizio le cose che volete che crediamo pur senza averle viste. Intanto, non è di poco conto che tu concedi che si debbano credere alcune cose, anche se non si vedono, quando si è in presenza di chiari indizi; già questo, infatti, è sufficiente per concludere che non ogni cosa che non si vede non deve essere creduta. Ed è così completamente screditato quel presupposto per cui si dice che non dobbiamo credere le cose che non vediamo. Però sbagliano di molto quelli che ritengono che noi crediamo in Cristo senza nessun indizio su di Lui. Quali indizi, infatti, sono più chiari delle cose che ora constatiamo che sono state predette e si sono realizzate?. Voi, dunque, che escludete l’esistenza di indizi perché dobbiate credere, relativamente a Cristo, quelle cose che non avete viste, considerate quelle che vedete. La Chiesa stessa, con parole di materno amore, vi conforta: “ Io, che vedete con meraviglia fruttificare e crescere per tutto il mondo, un tempo non fui quale ora mi ravvisate”. Ma, nel tuo seme saranno benedette tutte le genti. Quando Dio benediceva Abramo, prometteva me: io infatti mi diffondo fra tutte le genti nella benedizione di Cristo. Che Cristo è il seme di Abramo lo attesta l’ordine di successione delle generazioni. Per riassumere in breve, Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò dodici figli, dai quali è scaturito il popolo di Israele. Giacobbe stesso, anzi, ebbe il nome di Israele. Tra questi dodici figli generò Giuda, da cui è derivato

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il nome dei Giudei, fra i quali è nata la Vergine Maria, che partorì il Cristo. Ed ecco, in Cristo, cioè nel seme di Abramo, vedete che sono benedette tutte le genti e ne restate stupiti; eppure esitate ancora a credere in lui, nel quale piuttosto avreste dovuto temere di non credere. Mettete in dubbio o rifiutate di credere che una vergine abbia partorito, quando piuttosto dovreste credere che così si addiceva a Dio di nascere come uomo? Sappiate, infatti, che anche questo fu predetto mediante il profeta: Ecco una vergine concepirà e partorirà un figlio, che chiameranno Emmanuele, che vuol dire “ Dio è con noi ”. Non metterete, dunque, più in dubbio che una vergine possa partorire, se volete credere in un Dio che nasce e, senza abbandonare il governo del mondo, viene tra gli uomini nella carne, e che possa concedere alla madre la fecondità, senza toglierle l’integrità verginale. Così bisognava che nascesse come uomo, pur restando sempre Dio, perché nascendo sarebbe divenuto per noi Dio. Per questo il Profeta dice di nuovo di Lui: Il tuo trono, Dio, dura per sempre; è scettro di rettitudine lo scettro del tuo regno! Tu hai amato la giustizia e hai detestato l’iniquità; per questo Dio, il tuo Dio, ti ha consacrato con olio di letizia, a preferenza dei tuoi eguali. Questa è l’unzione spirituale con la quale Dio unse Dio, cioè il Padre il Figlio: donde sappiamo che Cristo prende il nome da crisma, che significa unzione. Io sono la Chiesa, della quale si parla in quel medesimo salmo, preannunziando come già avvenuto ciò che doveva avvenire: Stette la regina alla tua destra, in abiti d’oro, ornata di vari colori, cioè nel segno della sapienza, adornata dalla varietà delle lingue. Ivi mi si dice: Ascolta, o figlia, e guarda, porgi l’orecchio, e dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre, perché al re piacque la tua bellezza; poiché Egli è il Signore Dio tuo. A Lui si prostreranno dinanzi le figlie di Tiro con doni, tutti i ricchi del popolo supplicheranno il tuo volto. Tutta la gloria della figlia del re è all’interno; la avvolge un vestito dalle frange d’oro dai vari colori. Le vergini, al suo seguito, saranno condotte al re; a te saranno condotte le sue compagne; saranno condotte in gioia ed esultanza, saranno condotte nel tempio del re. Al posto dei tuoi padri ti sono nati i figli, li farai capi di tutta la terra. Si ricorderanno del tuo nome, di generazione in generazione. Perciò i popoli ti renderanno lode in eterno, nei secoli dei secoli.

Adempiute le profezie sulla Chiesa.

3. 6. Se non vedeste questa regina, ormai anche feconda di prole regale; se colei, alla quale fu detto: Ascolta, o figlia, e guarda, non vedesse realizzata la promessa un tempo udita; se colei, alla quale fu detto: Dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre, non avesse abbandonato le antiche consuetudini del mondo; se colei alla quale fu detto: Al re piacque la tua bellezza, poiché egli è il Signore Dio tuo, non riconoscesse ovunque che Cristo è Signore; se non vedesse che le città levano preghiere a Cristo ed offrono doni a Lui, del quale le fu detto: A lui si prostreranno dinanzi le figlie di Tiro con i doni; se anche i ricchi non deponessero la loro superbia e non supplicassero l’aiuto della Chiesa, a cui fu detto: Tutti i ricchi del popolo supplicheranno il tuo volto; se non riconoscesse la figlia del re, al quale le fu comandato di dire: Padre nostro, che sei nei cieli; e se colei della quale fu detto: Tutta la gloria della figlia del re è all’interno, non si rinnovasse di giorno in giorno nell’intimo attraverso i suoi santi, sebbene colpisca sfavillando anche gli occhi di gente estranea con la fama dei suoi predicatori, che si esprimono in diverse lingue, paragonabili alle frange dorate di un vestito dai vari colori; se, dopoché il suo buon profumo l’ha resa famosa in ogni luogo, giovani vergini non venissero condotte a Cristo per essere consacrate a Lui, del quale e al quale si dice: Le vergini, al suo seguito saranno condotte al re, a te saranno condotte le sue compagne; e, affinché non sembrasse che fossero condotte come prigioniere in un carcere, dice: Saranno condotte in gioia ed esultanza, saranno condotte nel tempio del re; se essa non desse alla luce figli, dai quali avere come dei padri, da farli ovunque suoi reggitori, lei alla quale si dice: Al posto dei tuoi padri ti sono nati i figli, li farai capi di tutta la terra; lei, madre, sovrana e suddita insieme, che confida nelle loro preghiere, per cui fu aggiunto: Si ricorderanno del tuo nome, di generazione in generazione; se, per la predicazione di questi

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padri, nella quale il suo nome è stato ricordato senza interruzione, moltitudini così grandi non si riunissero in essa e non rendessero incessantemente lode, ciascuna nella sua lingua, alla gloria di colei alla quale si dice: Perciò i popoli ti renderanno lode in eterno, nei secoli dei secoli.

Le cose che vedete sono state predette molto tempo prima e si sono compiute con tanta chiarezza. Altrettanto sarà per le cose future.

4. 6. Se queste cose non si rivelassero così evidenti che gli occhi dei nemici non trovano in quale parte volgersi per evitare di essere colpiti da tale evidenza e di essere da essa costretti ad ammetterle manifestamente; allora forse a buon diritto potreste dire che non vi vengono mostrati indizi di sorta, visti i quali possiate credere anche quelle cose che non vedete. Ma se queste cose che vedete sono state predette molto tempo prima e si sono compiute con tanta chiarezza; se la verità stessa vi si mostra sia con i suoi effetti antecedenti sia con quelli che ne sono seguiti, perché crediate quello che non vedete, o resti dell’infedeltà, vergognatevi per le cose che vedete.

4. 7. Guardate me, vi dice la Chiesa; guardateme, che vedete, ancorché non vogliate vedere. Coloro, infatti, che in quei tempi, in terra di Giudea, furono fedeli, appresero direttamente, come realtà presenti, la meravigliosa nascita da una vergine, la passione, la resurrezione, l’ascensione di Cristo, e tutte le cose divine da Lui dette e fatte. Tutto ciò voi non l’avete visto; è per questo che vi rifiutate di credere. Guardate dunque queste cose, prestate attenzione a queste cose, pensate a queste cose che vedete, che non vi sono narrate come fatti del passato, che non vi sono preannunziate come eventi del futuro, ma vi sono mostrate come realtà del presente. Vi pare una cosa vana o insignificante, e ritenete che non sia un miracolo divino o che lo sia ma di poco conto che, nel nome di un crocifisso, accorre tutto il genere umano? Non avete visto ciò che fu predetto e si è avverato della nascita umana di Cristo: Ecco una vergine concepirà e darà alla luce un figlio; ma vedete compiuto ciò che la parola di Dio predisse ad Abramo: Nel tuo seme saranno benedette tutte le genti. Non avete visto ciò che fu predetto dei miracoli di Cristo: Venite e vedete le opere del Signore, che ha compiuto prodigi sulla terra, ma vedete ciò che fu predetto: Il Signore mi disse: Tu sei mio figlio; io oggi ti ho generato: chiedimi e ti darò le genti in eredità, e i confini della terra come tuo possesso. Non avete visto ciò che fu predetto e si è avverato della passione di Cristo: Hanno trapassato le mie mani e i miei piedi, hanno contato tutte le mie ossa; essi mi hanno osservato e guardato; si sono divise le mie vesti e hanno tirato a sorte sulla mia tunica, ma vedete ciò che nello stesso Salmo fu predetto, e che ora appare avverato: Si ricorderanno del Signore e a Lui ritorneranno tutti i confini della terra e lo adoreranno, prostrati davanti a Lui, tutte le stirpi dei popoli, poiché del Signore è il regno ed Egli dominerà sulle genti. Non avete visto ciò che fu predetto e si è avverato della resurrezione di Cristo, secondo quanto il Salmo gli fa dire anzitutto riguardo al suo traditore e poi ai suoi persecutori: Uscivano fuori e tutti insieme sparlavano di uno solo; tutti i miei nemici contro di me mormoravano, contro di me meditavano il mio male; una parola iniqua contro di me hanno fatto circolare. Ove, per far vedere che nulla valse loro uccidere chi sarebbe risorto, continuò dicendo: Chi dorme non potrà forse rialzarsi? E poco dopo, avendo predetto, mediante la stessa profezia, del suo stesso traditore ciò che sta scritto anche nel Vangelo: Chi mangiava il mio pane, alzò sopra di me il calcagno, cioè, mi calpestò, subito aggiunse: Ma tu, o Signore, abbi pietà di me e resuscitami, e io li ripagherò. Ciò si è avverato: Cristo dormì e si risvegliò, ossia resuscitò; egli che, nella medesima profezia ma in un altro Salmo, dice: Io ho dormito e ho preso sonno; e mi sono levato su, poiché il Signore mi sosterrà. È vero, tutto ciò voi non lo avete visto, ma vedete la sua Chiesa, della quale fu detto in modo simile e si è avverato: O Signore mio Dio, a te le genti verranno dall’estremità della terra e diranno: “ In

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verità i nostri padri adorarono gli idoli menzogneri, che però non sono di nessuna utilità ”. Di certo ciò voi lo constatate, sia che lo vogliate sia che non lo vogliate, e, se ancora pensate che gli idoli siano o siano stati di qualche utilità, nondimeno di certo avete sentito che innumerevoli popoli, dopo aver abbandonato, rifiutato o distrutto simili vanità, dicono: In verità i nostri padri adorarono gli idoli menzogneri, che però non sono di nessuna utilità: se l’uomo può fabbricarsi i suoi dèi, ecco, essi non sono dèi. E poiché fu detto: A te le genti verranno dall’estremità della terra, non crediate che le genti predette sarebbero venute in un qualche luogo di Dio: capite, se vi riesce, che al Dio dei cristiani, che è sommo e vero Dio, le schiere dei popoli non vengono camminando ma credendo. La stessa cosa infatti fu così predetta da un altro profeta: Il Signore prevarrà su di loro e sterminerà tutti gli dèi dei popoli della terra; e tutte le isole della terra Lo adoreranno, ciascuna nel suo luogo. Come quello dice: A te verranno tutte le genti, questo dice: Lo adoreranno, ciascuna nel suo luogo. Dunque, verranno a Lui senza lasciare il loro luogo, perché chi crede in Lui lo troverà nel proprio cuore. Non avete visto ciò che fu predetto e si è avverato dell’ascensione di Cristo: Innalzati, o Dio, sopra i cieli, ma vedete ciò che viene subito dopo: e su tutta la terra sia la tua gloria. Tutto quel che, riguardo a Cristo, è avvenuto ed è passato, voi non lo avete visto, ma queste cose, che sono presenti nella sua Chiesa, non potete dire di non vederle. Le une e le altre noi ve le mostriamo come preannunciate, ma non possiamo presentarvele come avvenute e che è possibile vedere, perché non siamo capaci di riportare dinanzi agli occhi le cose passate.

Tanto le cose passate che quelle presenti e future le sentiamo o le leggiamo preannunciate prima che accadano.

5. 8. Ma, come per gli indizi che si vedono crediamo nelle volontà degli amici che non si vedono, così la Chiesa, che ora si vede, di tutte quelle cose che non si vedono ma che sono mostrate in quegli scritti in cui essa stessa è preannunciata, è segno di quelle passate, profezia di quelle future. Perché tanto delle cose passate, che ormai non si possono più vedere, quanto delle cose presenti, che non si possono vedere tutte, non si poteva vedere nulla quando furono preannunciate. Allorché, dunque, le cose preannunziate cominciarono ad accadere, da quelle già accadute a queste che stanno accadendo, tutte le cose predette riguardo a Cristo e alla Chiesa si sono susseguite in una serie ordinata. A questa serie appartengono quelle sul giorno del giudizio, sulla resurrezione dei morti, sull’eterna dannazione degli empi con il diavolo e sull’eterna ricompensa dei giusti con Cristo, cose che, anch’esse preannunciate, accadranno. Perché, dunque, non dovremmo credere le cose passate e quelle future che non vediamo, quando abbiamo come testimoni delle une e delle altre le cose presenti che vediamo e quando, nei libri dei profeti, tanto quelle passate che quelle presenti e future le sentiamo o le leggiamo preannunciate prima che accadano? A meno che per caso gli infedeli non ritengano che siano state scritte dai cristiani in modo che queste cose, che essi già credevano, avessero un peso maggiore in fatto di autorità, col ritenere che fossero state promesse prima che accadessero.

I Giudei nelle Scritture sono nostri sostenitori, nei cuori nemici, nei libri testimoni.

6. 9. Se hanno questo sospetto, esaminino attentamente i libri dei Giudei, nostri nemici. Vi leggeranno tutte le cose che abbiamo ricordato e troveranno che sono state preannunciate riguardo a Cristo, nel quale crediamo, e alla Chiesa, che vediamo dall’inizio faticoso della fede fino alla beatitudine sempiterna del regno. Ma, quando leggono, non si meraviglino se coloro che detengono questi libri non comprendono tali cose a causa delle tenebre dell’inimicizia. Che essi non avrebbero capito, infatti, era stato predetto dagli

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stessi profeti; e dunque era necessario che questo, come tutto il resto, si avverasse e che, secondo un segreto ma giusto giudizio di Dio, subissero la pena che avevano meritato. È vero, colui che crocifissero e al quale diedero fiele e aceto, benché pendesse dal legno, per coloro che avrebbe condotto dalle tenebre alla luce avrebbe detto al Padre: Perdona loro, perché non sanno quello che fanno; tuttavia per gli altri che, per più occulte ragioni, avrebbe abbandonato per bocca del profeta tanto tempo prima predisse: Hanno messo fiele nel mio cibo e quando avevo sete mi hanno fatto bere aceto. La loro mensa divenga per essi una trappola, come ricompensa e come motivo di scandalo. Si offuschino i loro occhi, affinché non vedano, e piegato per sempre sia il loro dorso. Così, benché i loro occhi siano offuscati, vanno in tutte le parti del mondo con le più illustri testimonianze della nostra causa, di modo che, per mezzo loro, sono confermate queste cose nelle quali invece essi sono smentiti. Ciò fu fatto per evitare che fossero distrutti e che della stessa setta non restasse nulla; ma essa fu dispersa per il mondo, affinché, portando le profezie della grazia a noi riservata, ci fosse dovunque di aiuto per convincere più fermamente gli infedeli. E ciò stesso che dico, sentite come è stato annunciato dal profeta: Non li uccidere - dice - perché non abbiano un giorno a dimenticare la tua legge; disperdili con la tua potenza. Dunque non furono uccisi in quanto non dimenticarono quelle cose che presso di loro si leggevano e si udivano. Se infatti, anche senza comprenderle, dimenticassero completamente le Sacre Scritture, verrebbero uccisi nello stesso rito giudaico, perché, non conoscendo nulla delle leggi e dei profeti, i Giudei non sarebbero stati di nessun giovamento. Costoro, dunque, non furono uccisi ma dispersi, affinché, pur non avendo la fede che li salverebbe, tuttavia conservassero la memoria dalla quale ci proviene l’aiuto: nelle Scritture sono sostenitori, nei cuori sono nostri nemici, nei libri testimoni.

La Chiesa si è diffusa mirabilmente in tutto il mondo.

7. 10. Del resto, anche se riguardo a Cristo e alla Chiesa non vi fossero state tante testimonianze precedenti, chi non dovrebbe sentirsi spinto a credere che la divina chiarezza all’improvviso ha cominciato a risplendere per il genere umano quando vediamo che, abbandonati i falsi dèi e distrutte dappertutto le loro statue, demoliti i templi o destinati ad altri usi ed estirpati tanti vani riti dalla ben radicata consuetudine umana, un solo vero Dio è invocato da tutti? E tutto ciò è accaduto per mezzo di un uomo deriso dagli uomini, catturato, legato, flagellato, schiaffeggiato, vituperato, crocefisso, ucciso. Per diffondere il suo insegnamento scelse come discepoli uomini semplici e senza esperienza, pescatori e pubblicani: essi annunziarono la sua resurrezione e ascensione, affermando di averla vista, e, riempiti di Spirito Santo, fecero risuonare questo messaggio in tutte le lingue, pur senza averle imparate. E tra quanti li ascoltarono alcuni credettero, altri non credettero, opponendosi ferocemente alla loro predicazione. In tal modo, in presenza di credenti capaci di lottare per la verità fino alla morte, non contraccambiando con i mali ma sopportandoli, e di vincere non con l’uccidere ma con il morire, il mondo si è talmente mutato in questa religione, i cuori dei mortali, uomini e donne, piccoli e grandi, dotti e ignoranti, sapienti e stolti, potenti e deboli, nobili e non nobili, di rango elevato e umili, si sono così ben convertiti a questo Vangelo e la Chiesa si è diffusa tra tutte le genti ed è cresciuta in modo tale che contro la stessa fede cattolica, non spunta nessuna setta perversa, nessun genere di errore che sia così ostile alla verità cristiana da non aspirare e ambire a gloriarsi del nome di Cristo. Di certo, non si consentirebbe a tale errore di diffondersi sulla terra, se la stessa opposizione non servisse da stimolo per la sana disciplina. Quel crocifisso come avrebbe potuto realizzare cose così grandi, se non fosse Dio fattosi uomo? E tutto ciò, anche se non avesse predetto mediante i Profeti nessuna di queste cose future. Ma, dal momento che un così grande mistero di amore è stato preceduto dai suoi profeti e araldi, dalle cui voci divine fu preannunciato ed è avvenuto così come è stato preannunciato, chi sarebbe così folle da dire che gli Apostoli hanno mentito su Cristo, quando ne

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annunciarono la venuta così come era stata predetta dai profeti, i quali non tacquero neppure gli eventi che sarebbero veramente accaduti riguardo agli Apostoli? Di essi infatti avevano detto: Non vi è idioma e non vi è discorso in cui non si senta la loro voce; in tutta la terra si sparge il loro strepito e sino ai confini del mondo le loro parole. Ciò di certo lo vediamo avverato in tutto il mondo, anche se non abbiamo ancora visto Cristo in carne. Chi pertanto, a meno che non sia accecato da una strana pazzia o non sia duro e inflessibile per una singolare caparbietà, si rifiuterà di credere alle Sacre Scritture, che predissero la fede di tutto il mondo?

Esortazione ad alimentare e accrescere la fede.

8. 11. Quanto a voi, o carissimi, questa fede che avete o che avete cominciato ad avere da poco, si alimenti e cresca in voi. Come infatti sono accaduti gli eventi temporali predetti tanto tempo prima, così accadranno anche le promesse sempiterne. Non vi ingannino né i vani pagani né i falsi Giudei né gli ingannevoli eretici e neppure, all’interno stesso della Chiesa cattolica, i cattivi cristiani, che sono nemici tanto più nocivi quanto più intimi. Perché neppure su questo punto, per non lasciare i deboli nel turbamento, la profezia divina tacque, laddove, nel Cantico dei Cantici, lo sposo parlando alla sposa, cioè Cristo Signore alla Chiesa, dice: Come un giglio in mezzo alle spine, così la mia amata in mezzo alle figlie. Non disse in mezzo alle estranee, ma in mezzo alle figlie: chi ha orecchi per intendere, intenda. E, quando la rete gettata in mare e piena di pesci di ogni genere, come dice il santo Vangelo, viene tratta a riva, cioè alla fine del mondo, essa si separi dai pesci cattivi col cuore non con il corpo, cioè cambiando i cattivi costumi e non rompendo le sante reti. In modo che i giusti, che ora sembrano mescolati con i reprobi, non ricevano una pena ma una vita eterna, quando sulla spiaggia comincerà la separazione.

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Commento alla prima lettera di S. Giovanni

PREFAZIONE

La vostra santità ormai conosce il sistema da noi tenuto nel commentare il Vangelo di Giovanni secondo il criterio della lettura continuata. Ma proprio ora intervengono i giorni delle solenni festività, durante i quali, ormai per tradizione, si leggono annualmente nella Chiesa particolari brani tratti dal Vangelo e non altri. Così dobbiamo momentaneamente interrompere il ciclo già iniziato. Ma non lo tralasceremo del tutto.

Mi chiedevo quali passi della Scrittura, intonati alla gioia di questi giorni, potessi commentarvi con l'aiuto del Signore nel corso di questa settimana, così da contenere la trattazione in sette o otto giorni, quando mi venne in mente l'Epistola del beato Giovanni. Era una buona occasione per ritornare a sentire, col commento della sua Epistola, la voce di colui di cui avevamo, per il momento, messo da parte il Vangelo. Il motivo principale è che in questa Epistola, così dolce a coloro che hanno conservato sano il palato del cuore e possono gustare il pane di Dio, e così conosciuta nella santa Chiesa, si tesse, più che in altri scritti, l'elogio della carità, su cui Giovanni ha detto molte cose, anzi pressoché tutto. Chi ha conservato in sè la capacità di comprendere, è logico che gioisca quando l'ascolta: per lui questa Epistola sarà come olio gettato sul fuoco. Se c'è in lui del fuoco che può essere nutrito, questo verrà nutrito, crescerà, durerà costante. Per altri la lettura sarà come una fiamma che viene accostata all'esca; se prima non bruciava, prenderà subito fuoco non appena le parole giungeranno ad essa. Per alcuni dunque sarà un recare alimento al fuoco che già esiste; per altri un accendere la fiamma che ancora manca: in modo che tutti possiamo gioire insieme della medesima carità. Dove è la carità, ivi è la pace; e dove è l'umiltà, ivi è la carità.

E' tempo ormai di ascoltare la sua parola, a commento della quale noi diremo quanto Dio ci suggerirà, in modo che possiate anche voi comprenderla bene.

I.

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LA STESSA VITA SI E' MANIFESTATA

Abbiamo toccato il Verbo di Dio

1. Quello che era da principio, quello che abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi e le nostre mani hanno toccato del Verbo di vita (1 Gv 1, 1). Uno che con le sue mani tocca il Verbo, può farlo unicamente perché "il Verbo si è fatto carne ed abitò tra noi" (Gv. 1, 14). Questo Verbo fatto carne fino a potersi toccare con le mani, incominciò ad essere carne nel seno della Vergine Maria. Non fu però allora che incominciò ad essere Verbo, perché lo stesso Giovanni dice che il Verbo "era da principio". Dal momento che avete appena da poco ascoltato le parole: "In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio" (Gv. 1, 1), potete confrontare se Giovanni nella sua Epistola sia in perfetta armonia col suo Vangelo. Qualcuno potrebbe prendere "Verbo di vita" come una certa espressione per designare il Cristo e non il corpo stesso di Cristo che fu toccato con le mani; ma osservate le parole che seguono: e la vita stessa si è manifestata (1 Gv. 1, 2). Dunque Cristo è il Verbo di vita. Ma come si è manifestata? Essa era fin dall'inizio, ma ancora non si era manifestata agli uomini; s'era invece manifestata agli angeli che la contemplavano e se ne cibavano come del loro pane. Ma che cosa afferma la Scrittura? "L'uomo mangiò il pane degli angeli" (Sal. 77, 25). Dunque la vita stessa si è manifestata nella carne. Si è fatta contemplare manifestandosi affinché fosse vista anche dagli occhi la realtà che solo il cuore può vedere, e così i cuori avessero a guarire. Solo col cuore si vede il Verbo, con gli occhi del corpo invece si vede anche la carne. Noi potevamo vedere la carne, ma per vedere il Verbo non avevamo gli occhi; per questo "il Verbo si è fatto carne", carne a noi visibile, affinché fossero risanati in noi quegli occhi che soli ci possono far vedere il Verbo.

Sposalizio tra il Verbo e la carne

2. Noi abbiamo veduto e siamo testimoni (1 Gv. 1, 2). Forse alcuni di voi, fratelli, ignari di greco, non sanno quale significato ha in greco il termine "testimoni", termine comunissimo entrato nel vocabolario religioso. Il greco chiama "martiri" quelli che noi latini diciamo "testimoni". E chi mai non sentì parlare di martirio? Su quali labbra di cristiano non risuona ogni giorno il nome dei martiri? Potesse quel nome stabilirsi anche nel nostro cuore, tanto da farci imitare le sofferenze dei martiri e non mettere invece sotto i piedi i loro esempi. Per questo Giovanni ci ha detto: "Noi abbiamo veduto e siamo testimoni": noi abbiamo veduto e siamo martiri. Essi, dando testimonianza sia di quanto videro come di quanto udirono da coloro che erano stati testimoni oculari, sopportarono tutte le sofferenze del martirio, perché quella testimonianza spiacque agli uomini contro i quali era diretta. I martiri sono i testimoni di Dio. Dio volle avere come suoi testimoni gli uomini, affinché a loro volta gli uomini avessero come loro testimone Dio stesso.

"Abbiamo veduto - dice Giovanni - e siamo testimoni". Dove videro? Nella sua manifestazione. Che significa nella sua manifestazione? Nel sole, cioè in questa luce visibile. Ma colui che fece il sole, come poté essere visto nel sole, se non perché egli "ha posto nel sole la sua tenda e, quale sposo che esce dal talamo, balzò

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innanzi, come un gigante, verso la sua meta" (Sal. 18, 6)? Chi fece il sole e prima del sole, prima della stella del mattino, prima degli astri tutti, prima di tutti gli angeli. Egli è il vero creatore, poiché: " Tutto per mezzo di lui fu fatto e senza di lui niente fu fatto" (Gv. 1, 3); ma perché anche con quegli occhi della carne che vedono il sole egli potesse essere visto, pose la sua dimora nel sole stesso, manifestò cioè la sua carne nel chiarore di questa luce terrena. L'utero della Vergine fu la sua stanza nuziale, poiché è là che si sono uniti lo Sposo e la sposa, il Verbo e la carne. Poiché sta scritto: " E saranno i due una sola carne" (Gen. 2, 24); ed anche il Signore dice nel Vangelo: "Dunque non sono due, ma una sola carne" (Mt. 19, 6). Molto opportunamente Isaia ricorda che quei due sono un solo essere; parlando in persona di Cristo dice: "Egli pose sul mio capo una mitra come al suo sposo e mi arricchì di un ornamento come la sua sposa" (Is. 61, 10). Qui, come si vede, è uno solo che parla e si dichiara insieme sposo e sposa, poiché non sono due, ma una sola carne. E ciò avviene perché "il Verbo si è fatto carne ed abitò tra noi". La Chiesa si unisce a quella carne, e si ha così il Cristo totale, capo e membra.

Conosciamo il Verbo con gli occhi della fede

3. Noi - dice Giovanni - siamo testimoni e vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e si è manifestata in noi, cioè in mezzo a noi; più chiaramente si direbbe: manifestata a noi. Le cose dunque che abbiamo visto e sentito le annunciamo a voi. Faccia bene attenzione la vostra carità: "Le cose che abbiamo visto e sentito le annunciamo a voi". Essi videro presente nella carne il Signore stesso, da quella bocca raccolsero le sue parole e ce le hanno trasmesse. Perciò anche noi abbiamo sentito, anche se non abbiamo visto. Siamo forse meno fortunati di quelli che videro e udirono? Ma perché allora aggiunse: Affinché anche voi abbiate comunione con noi (1 Gv. 1, 2-3)? Essi videro, noi no, e tuttavia noi e loro siamo una cosa sola; la ragione è questa, che abbiamo la stessa fede.

Ci fu un tale che, avendo visto, non credette e volle toccare con mano per arrivare in questo modo alla fede. Disse costui: "Io non crederò se non metterò le mie dita nel segno dei chiodi e non toccherò le sue cicatrici". Il Signore apparve all’improvviso per lasciarsi toccare dalle mani degli uomini, lui che sempre si offre allo sguardo degli angeli; il discepolo allora avvicinò la sua mano ed esclamò: "Signor mio e Dio mio!". Egli toccò l'uomo e riconobbe Dio. Il Signore allora, per consolare noi che non possiamo stringerlo con le mani, essendo egli già in cielo, ma soltanto raggiungerlo con la fede, gli disse: "Tu hai creduto, perché hai visto: beati quelli che credono senza vedere" (Gv. 20, 25-29). In questo passo siamo noi ad essere indicati. S'avveri dunque in noi quella beatitudine che il Signore ha preannunziato per le future generazioni; restiamo saldamente attaccati a ciò che non vediamo, perché essi che videro ce l'attestano. "Affinché - afferma Giovanni - anche voi abbiate comunione con noi". Che c'è di straordinario ad aver comunione con degli uomini? Aspetta ad obiettare; considera ciò che egli aggiunge: E la nostra comunione sia con Dio Padre e Gesù Cristo suo Figlio. Queste cose ve le scriviamo, affinché sia piena la vostra gioia (1 Gv. 1, 4). Proprio nella vita in comunione, proprio nella carità e nell'unità, Giovanni afferma che c'è la pienezza della gioia.

Anche noi possiamo divenire luce.

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4. Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui ed annunciamo a voi (1 Gv. 1, 5). Che cosa abbiamo qui? Essi videro e toccarono con le loro mani il Verbo di vita; toccarono Colui che dall'inizio era unico Figlio di Dio e divenne nel tempo visibile e tangibile. A quale scopo venne, quale novità ci annunciò? Che insegnamento volle impartirci? Perché mai fece ciò che fece, così che, essendo Verbo, divenne carne; essendo Dio, soffrì da parte degli uomini le cose più indegne, sopportò gli schiaffi da quelle stesse mani che egli aveva plasmato? Che cosa ci volle insegnare? Che cosa mostrare? Che cosa annunciare? Ascoltiamo. Se sentiamo discorrere di questi fatti, cioè della nascita e della passione di Cristo, senza ricavarne un insegnamento, perveniamo piuttosto a una distrazione che a un arricchimento dello spirito. Senti parlare di grandi cose? Bada con quale frutto ne senti parlare. Che cosa dunque volle insegnare il Verbo, che cosa annunciare? Ascolta cosa dice Giovanni: Che Dio è luce e in lui non ci sono tenebre (1 Gv. 1, 5; cf. Gv. 8, 12). Qui egli parla di luce, non c'è dubbio, ma le sue parole sono oscure: è bene allora che la luce stessa, di cui ci ha parlato l'apostolo, rischiari i nostri cuori per comprendere ciò che egli disse. E' questo il nostro annuncio: "Che Dio è luce e in lui non ci sono tenebre". Chi oserebbe dire che in Dio ci sono tenebre? Ma che cosa si intende per luce, che cosa per tenebre? Questo ad evitare che ci si limiti ad affermazioni unicamente pertinenti al nostro modo di vedere umano. Dio è luce, obietta uno qualsiasi, ma anche il sole è luce, anche la luna è luce, anche la lucerna è luce. La luce di Dio dev'essere evidentemente qualcosa di superiore a queste luci, di più prezioso ed eccellente. Tanto questa luce deve stare al di sopra delle altre, quanto Dio dista dalla creatura, quanto il creatore dalla sua creazione, la sapienza da ciò che per suo mezzo fu fatto. Potremo essere vicini a questa luce, se conosceremo quale essa è, se ad essa ci accosteremo per esserne illuminati; poiché in noi stessi siamo tenebre, ma, illuminati da essa, possiamo divenire luce e non essere da essa gettati nella confusione perché da noi stessi ci gettiamo nella confusione. Che vuol dire gettarsi nella confusione da se stessi? Significa riconoscersi peccatori. Chi non si lascia gettare nella confusione dalla luce? Chi ne è illuminato. Ma che significa esserne illuminati? Accorgersi di essere ricoperti dalle tenebre dei peccati e bramare di essere rischiarati da quella luce: ad essa ci s'accosta in questo modo. Perciò dice il salmo: "Accostatevi a lui e siatene illuminati e i vostri volti non arrossiranno" (Sal. 33, 6). Non arrossirai di essa, se nel momento in cui ti rivelerà la tua miseria, sentirai dolore di questo tuo stato e capirai la bellezza di quella luce. E' questo che Giovanni ci vuole insegnare.

Gesù, col suo sangue, cancella in noi ogni delitto

5. Forse ci si potrebbe chiedere se abbiamo dato un'interpretazione troppo precipitosa. Giovanni stesso ce lo dirà con le parole che seguono. Da quanto ho detto all'inizio del discorso, dovete ricordare che tutta questa Epistola è un elogio della carità. "Dio è luce - dice Giovanni - e in lui non ci sono tenebre". Che cosa aveva detto prima? "Affinché abbiate comunione con noi, e la nostra comunione sia con Dio Padre e Gesù Cristo suo Figlio". Pertanto se Dio è luce e in lui non ci sono tenebre e noi dobbiamo avere comunione con lui, le tenebre che sono in noi devono essere disperse, affinché in noi ci sia la luce; tenebre e luce non possono stare insieme. Fa' perciò attenzione a ciò che segue: Se diremo di essere in comunione con lui ma camminiamo nelle tenebre, siamo mentitori (1 Gv. 1, 6). Tu sai che anche Paolo dice: "Che comunanza c'è tra luce e tenebre?" (2 Cor. 6, 14). Tu sostieni di vivere con Dio e poi cammini nelle tenebre; ma "Dio è luce e in lui non ci sono tenebre". Come è possibile una convivenza tra luce e tenebre?

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Ognuno perciò dica: Che posso fare? Come sarò luce io che vivo nei peccati e nelle iniquità? Subentrano allora la tristezza e la disperazione. Non v'è salvezza fuor che nell'unione con Dio. "Dio è luce e in lui non ci sono tenebre". Ma i peccati sono tenebre: infatti l'Apostolo chiama il diavolo ed i suoi angeli i principi delle tenebre (cf. Ef. 6, 12); non li chiamerebbe in tal modo, se non fossero anche i maestri dei peccatori, i dominatori degli iniqui. Che possiamo fare, fratelli miei? Dobbiamo pervenire alla comunione con Dio, poiché non esiste altra speranza di vita eterna. Ma "Dio è luce e in lui non ci sono tenebre". Ogni iniquità è tenebra e noi siamo sommersi dalle iniquità, così che non possiamo avere comunione con Dio; che speranza ci resta allora? Non vi avevo forse promesso che vi avrei detto cose che procurano gioia? Non facendolo, siamo nella tristezza. "Dio è luce e in lui non ci sono tenebre". I peccati sono tenebre. Che sarà di noi?

Cerchiamo di ascoltare, perché quanto ci viene dicendo potrebbe arrecarci consolazione, sollevarci e darci speranza, così che non veniamo meno per strada. Sì, siamo impegnati in una corsa e siamo diretti verso la patria; se disperiamo di giungervi, questa disperazione ci fa fermare. Orbene: colui che desidera vederci giungere al termine, per averci con sè nella patria, ci somministra il cibo lungo il cammino. Perciò ascoltiamo le parole di Giovanni: "Se diremo di essere in comunione con lui ma camminiamo nelle tenebre, siamo mentitori, e non pratichiamo la verità". Non possiamo dire di essere in comunione con lui, se viviamo nelle tenebre. Se invece camminiamo nella luce, come lui stesso è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri (1 Gv. 1, 7). Camminiamo dunque nella luce, come lui è nella luce, per poter essere uniti a lui. Ma i peccati? Ascolta ancora: E il sangue di Gesù Cristo, suo Figlio, ci purificherà da ogni delitto (1 Gv. 1, 7). Dio ci ha dato una grande certezza. E' a buon diritto che noi celebriamo la Pasqua nella quale fu versato il sangue del Signore e per mezzo del quale siamo purificati da ogni delitto. Restiamo perciò nella pace: il diavolo aveva nei nostri riguardi e per nostro danno un credito di schiavitù, ma col sangue di Cristo questo fu cancellato per sempre. Dice infatti Giovanni: "Il sangue del Figlio suo ci purificherà da ogni delitto". Che significa: "Da ogni delitto"? Fate attenzione: è nel nome e per il sangue di Cristo, che questi "fanciulli" hanno appena professato, che tutti i loro peccati sono stati mondati. Sono entrati qua dentro come creature vecchie e ne escono creature nuove. Entrarono vecchi e ne escono fanciulli. La vecchiaia è disfacimento, vita decrepita: l'infanzia invece viene da una rigenerazione: è vita nuova. E noi, che faremo? Non sono stati condonati i peccati del passato solo ad essi, ma anche a noi; vivendo poi in mezzo al mondo forse abbiamo commesso altri peccati dopo che i precedenti ci erano stati totalmente condonati e cancellati. Veda perciò ciascuno di fare ciò che è in grado di fare; confessi le cose come sono, affinché colui che è sempre uguale a se stesso, ieri ed oggi, possa curare noi che un tempo non eravamo, e adesso invece siamo.

L'amore elimina i peccati

6. Fa' dunque attenzione a ciò che Giovanni dice: Se diremo che in noi non c'è peccato, ci inganniamo ed in noi non c'è verità. Se dunque ti confesserai peccatore, la verità è in te, poiché la verità è luce. Non splende ancora pienamente la tua vita dato che vi sono dei peccati; ma ecco, cominci ormai ad illuminarti poiché riconosci i tuoi peccati. Considera le parole che seguono: Se confesseremo i nostri delitti, egli è fedele e giusto per condonarceli e purificarci da ogni iniquità (1 Gv. 1, 9). Qui Giovanni non si riferisce soltanto ai peccati del passato, ma anche a quelli eventualmente commessi nel presente; l'uomo non può non avere

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almeno peccati lievi, fin quando ha il suo corpo. Tuttavia non devi dar poco peso a questi peccati che si definiscono lievi. Tu li tieni in poco conto quando li soppesi, ma che spavento quando li numeri! Molte cose leggere, messe insieme, ne formano una pesante; molte gocce empiono un fiume e così molti granelli fanno un mucchio. Quale speranza resta allora? Si faccia anzitutto la confessione dei peccati, affinché nessuno si reputi giusto, e l'uomo che prima non era ed ora è, non innalzi la cresta davanti a quel Dio che vede ciò che è. Prima di tutto ci sia dunque la confessione, poi l'amore: che cosa fu detto della carità? "La carità copre una moltitudine di peccati" (1 Pt. 4, 8).

Vediamo se appunto Giovanni non esorti proprio alla carità, in considerazione dei peccati che si annidano nascostamente dentro le nostre anime: solo la carità infatti elimina i peccati. La superbia spegne la carità: l'umiltà perciò ravviva la carità, e la carità spegne i peccati. L'umiltà è collegata alla confessione per mezzo della quale ci dichiariamo peccatori; ma l'umiltà non è quella per cui ci dichiariamo peccatori soltanto con la lingua, nel timore che, dichiarandoci giusti, non dispiacciamo agli uomini, a motivo della nostra arroganza. Questo lo fanno gli empi e i dissennati. Dicono: so di essere giusto, ma mi conviene non dichiararlo davanti agli uomini? Se mi proclamerò giusto, chi sopporterà questo, chi lo tollererà? Sia nota davanti a Dio la mia giustizia, io tuttavia mi dichiarerò peccatore; non già perché lo sono, ma perché l'arroganza non mi renda odioso. Di' agli uomini ciò che sei, e dillo a Dio. Se non dirai a Dio ciò che sei, Dio condannerà ciò che troverà in te. Vuoi che egli non pronunci condanne? Accusati da te stesso. Vuoi che ti perdoni? Guarda dentro di te, in modo da poter dire a Dio: "Distogli il tuo sguardo dai miei peccati". Ripeti a lui anche le altre parole di quel salmo: "Poiché io riconosco le mie iniquità" (Sal. 50, 5 e 11).

"Se confesseremo i nostri delitti, egli è fedele e giusto per condonarceli e purificarci da ogni iniquità". Ma se diremo che non abbiamo peccato, lo trattiamo da ingannatore e la sua parola non è in noi (1 Gv. 1, 9-10). Se dirai: non ho peccato, tratti lui da bugiardo, proprio quando vuoi presentare te come veritiero. Come è possibile che Dio sia bugiardo e l'uomo veritiero, dal momento che la Scrittura dice esattamente il contrario: "Ogni uomo è bugiardo, Dio solo è veritiero" (Rom. 3, 4)? Dio dunque è veritiero per se stesso, tu lo sei per mezzo di Dio; da te stesso sei invece bugiardo.

Abbiamo un avvocato presso il Padre

7. Ma perchè non sembri che Giovanni abbia lasciato via libera ai peccati, dicendo: "Egli è fedele e giusto per purificarci da ogni iniquità ", e ad evitare che gli uomini non concludano: dunque pecchiamo pure, facciamo con tranquillità ciò che vogliamo, poiché Cristo ci purifica - egli è fedele e giusto, e ci purifica da ogni iniquità -, Giovanni viene a toglierti ogni falsa sicurezza e a procurarti un opportuno timore. Vai in cerca di una pericolosa tranquillità: sii piuttosto preoccupato. Egli, fedele e giusto, può scioglierci dai nostri delitti, se costantemente sarai addolorato di te stesso e cambierai condotta, migliorandoti. Che cosa aggiunge poi Giovanni? Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate. Ma nell'ipotesi che il peccato torni a insinuarsi nella vita di un uomo, che farà costui? Che farà? S'abbandonerà alla disperazione? Ecco, ascolta: Se uno - dice Giovanni - peccherà, abbiamo presso il Padre un avvocato, Gesù Cristo, il giusto; e lui stesso è vittima di propiziazione per i nostri peccati (1 Gv. 2, 1-2). Lui dunque è l'avvocato, tu bada di non peccare. Ma se il peccato s'insinuerà ugualmente, data la debolezza della natura, subito fa' di sentirne

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dolore, subito condannalo; se lo condannerai, potrai presentarti al giudizio con animo tranquillo. Vi troverai l'avvocato; non temere di perdere la causa, una volta che avrai confessato il tuo peccato. Se può capitare in questa vita che uno, mettendosi nelle mani di un avvocato eloquente, riesca ad essere assolto, tu, che fai affidamento sul Verbo, potrai forse correre il rischio di perderti? Grida forte: "Abbiamo un avvocato presso il Padre".

Solo Cristo ci può giustificare

8. Considera come Giovanni stesso si mantenga nell'umiltà. Egli certamente era un uomo giusto e grande, poiché attingeva dal petto del Signore i segreti di alti misteri. Attingendo dal suo petto, fu lui, proprio lui, a predicare la divinità del Signore: "In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio" (Gv. 1, 1). Grande qual era, quest'uomo non disse: - avete un avvocato presso il Padre, ma: "Se uno peccherà, abbiamo un avvocato". Non disse: - avete; e neppure: - avete me; e neanche: - avete il Cristo stesso. Egli ha messo avanti il Cristo, non sè, e ha detto: - abbiamo; non già: - avete. Preferì mettersi nel numero dei peccatori, per avere nel Cristo il suo avvocato, piuttosto che presentare se stesso come avvocato invece di Cristo e trovarsi poi tra i superbi degni di condanna.

Fratelli, ecco chi abbiamo per avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. Egli è la vittima di propiziazione per i nostri peccati. Chi ha accettato questa verità, non ha provocato né eresie né scismi. Da dove son nati gli scismi? Dal fatto che gli uomini dicono: noi siamo giusti; e aggiungono: siamo noi a santificare gli immondi, noi a rendere giusti gli empi, noi ad innalzare preghiere, noi ad impetrare grazie. Che cosa disse invece Giovanni? "Se uno peccherà, abbiamo presso il Padre un avvocato, Gesù Cristo, il giusto".

Qualcuno potrebbe obiettare: dunque i santi non intercedono per noi? i vescovi e i presbiteri non chiedono in nome del popolo? Esaminate la Scrittura e vedete come anche chi comanda si raccomandi alle preghiere del popolo. Paolo apostolo dice ai fedeli: "Pregate in pari tempo anche per noi" (Col. 4, 3). Prega l'Apostolo per i fedeli, pregano questi per l'Apostolo. Noi, o fratelli, preghiamo per voi, ma voi pregate per noi. Le membra preghino per se stesse, vicendevolmente; la testa interceda per tutti. Nessuna meraviglia perciò che Giovanni con le parole successive voglia chiudere la bocca a quanti portano divisioni nella Chiesa di Dio. Dopo aver detto: "Abbiamo Gesù Cristo, il giusto; e lui stesso è vittima di propiziazione per i nostri peccati", avendo di mira coloro che si sarebbero divisi ed avrebbero detto: "Eccolo qui il Cristo, eccolo là " (Mt. 24, 23), coloro cioè che avrebbero preteso di mostrare rinchiuso in una conventicola colui che tutti riscattò e tutto ha in suo potere, subito Giovanni aggiunse: Non solo per i nostri peccati, ma per i peccati di tutto il mondo (1 Gv. 2, 2). Che significa questo, fratelli? Certamente anche noi "l'abbiamo trovato nelle distese di regioni boscose" (Sal. 131, 6) , abbiamo trovato la Chiesa in tutte le nazioni. Questo dunque è il Cristo, "vittima di propiziazione per i nostri peccati, non solo per i nostri, ma per i peccati di tutto il mondo". Poiché trovi la Chiesa in tutto il mondo, non seguire quelli che falsamente si presentano come giustificatori, ma in realtà sono causa di divisioni. Resta su quel monte che ha coperto tutta la terra (cf. Dan. 2, 35): poiché Cristo è "vittima di propiziazione per i nostri peccati, non solo per i nostri, ma per i peccati di tutto il mondo", da lui riscattato col suo sangue.

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Il comandamento nuovo

9. Proseguendo, Giovanni dice: In questo lo conosciamo, se osserveremo i suoi comandamenti. Quali comandamenti? Chi dice di conoscerlo e non osserva i suoi comandamenti è bugiardo e in lui non c'è verità. Ma tu torni a chiedere: quali comandamenti? Giovanni ti dice: Chi osserverà la sua parola, veramente in lui è perfetto l'amore di Dio (1 Gv. 2, 3-5). Vediamo se questo comandamento non sia l'amore. Ci domandavamo quali fossero questi comandamenti e Giovanni ci risponde: "Chi osserverà la sua parola, veramente in lui è perfetto l'amore di Dio". Esamina il Vangelo e vedi se non è questo precisamente quel comandamento: "Vi dò un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda" (Gv. 13, 34). Da questo noi conosciamo di essere in lui, se in lui saremo perfetti (1 Gv. 2, 5). Egli parla di perfetti nell'amore. Ma qual è la perfezione dell'amore? E' amare anche i nemici, ed amarli perché diventino fratelli. Il nostro amore infatti non deve essere carnale. E' buona cosa chiedere per un fratello la salute del corpo; ma se questa mancasse, non deve scapitarne la salute dell'anima. Se auguri a un tuo amico la vita, fai bene. Se ti rallegri per la morte di un tuo nemico, fai male. Forse la vita che auguri all'amico è inutile, mentre quella morte del nemico di cui ti rallegri può essere a lui utile. Non è certo se questa vita sia utile a qualcuno o inutile, mentre la vita vissuta in comunione con Dio è certamente utile. Ama i nemici desiderando che diventino tuoi fratelli; amali fino a farli entrare nella tua cerchia. Così ha amato colui che, pendendo sulla croce, disse: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Lc. 23, 34). Li volle preservare da una sorte perpetua con una preghiera piena di misericordia e di forza. Molti tra essi credettero e fu loro perdonato di aver versato il sangue di Cristo. Quando si mostrarono crudeli, versarono quel sangue; quando credettero, lo bevvero. "Da questo noi conosciamo di essere in lui, se in lui saremo perfetti". Il Signore ci ammonisce ad essere perfetti quando ci parla del dovere di amare i nemici: "Siate dunque perfetti, come è perfetto il vostro Padre celeste" (Mt. 5, 48).

Dunque chi dice di rimanere in lui, deve camminare come lui camminò (1 Gv. 2, 6). Che ci ammonisce forse di camminare sul mare? No, evidentemente. Ci ammonisce invece di camminare nella via della giustizia. Quale via? L'ho ricordato. Egli, pur essendo inchiodato alla croce, camminava proprio su questa via, che è la via della carità. "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno ". Se dunque imparerai a pregare per il tuo nemico, camminerai sulla via del Signore.

10. Dilettissimi, non vi scrivo un comandamento nuovo, ma un comandamento antico, che avevate fin dall'inizio. Quale antico comandamento intende ricordare? "Quello che avevate - dice - fin dall'inizio. Esso è vecchio in quanto già l'avete udito. Altrimenti Giovanni sarebbe in contraddizione col Signore che disse: "Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate a vicenda". Ma perché lo chiama vecchio comandamento? Non perché riguarda l'uomo vecchio. Perché allora? Perché è: "quello che avevate fin dall'inizio". Il comandamento antico è la parola che avete udito (1 Gv. 2, 7). Vecchio dunque perché già l'udiste. Ma Giovanni ci mostra che si tratta anche di un comandamento nuovo, quando dice: D'altra parte è un comandamento nuovo quello che vi scrivo. Non un altro comandamento, ma quel medesimo che chiamo vecchio ed è ad un tempo vecchio e nuovo. Perché? Che si è verificato in lui ed in voi. Avete udito perché esso viene detto vecchio: perché già lo conoscevate. Perché allora viene detto nuovo? Perché: le tenebre se

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ne sono andate ed ormai splende la luce vera (1 Gv. 2, 8). Da ciò deriva che si tratta di un comandamento nuovo: le tenebre riguardano l'uomo vecchio, la luce l'uomo nuovo. Che dice l'apostolo Paolo? "Spogliatevi dell'uomo vecchio e rivestitevi dell'uomo nuovo" (Col. 3, 9-10). Che dice ancora? "Un tempo voi foste tenebre, ora siete luce nel Signore" (Ef. 5, 8).

Chi ama cammina nella luce

11. Chi dice di essere nella luce - ecco che si rivela tutto il suo pensiero -, "chi dice di essere nella luce" ed odia il proprio fratello è ancora nelle tenebre (1 Gv. 2, 9). Ahimé, fratelli, fin quando vi dovremo dire "Amate i nemici " (Mt. 5, 44)? Guardatevi almeno dall'odiare il fratello, che è cosa peggiore. Se amate soltanto i fratelli, perfetti non sarete, ma se li odiate, che siete mai? Dove siete? Ciascuno guardi nel suo cuore; non tenga odio contro il fratello per qualche dura parola che ha ricevuto; per litigi terreni non dobbiamo diventare terra. Chi odia il fratello, non può dire di camminare nella luce. Anzi, non dica nemmeno di camminare in Cristo. "Chi dice di essere nella luce e odia il proprio fratello è ancora nelle tenebre".

Poniamo che un pagano diventi cristiano. Capitemi: quando era pagano, era nelle tenebre, ora è diventato cristiano. - Sia lode al Signore, dicono tutti, e si congratulano e ripetono le parole augurali dell'Apostolo: "Un giorno foste tenebre, ora invece siete luce nel Signore". Colui che adorava gli idoli, ora adora Dio; adorava cose da lui fatte, adora adesso chi lo creò. E' cambiato. Sia lode a Dio; tutti i cristiani se ne rallegrano. Perché? Perché adesso egli è adoratore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e detesta e i demoni e gli idoli. Giovanni è in ansia per questo individuo e, nonostante la festa che tutti gli fanno, nutre qualche preoccupazione per lui. Fratelli, accettiamo volentieri questa sollecitudine materna. Non senza motivo nostra madre ha delle apprensioni per noi, anche quando gli altri si congratulano con noi, e questa madre è la carità. Essa era nel cuore di Giovanni, quando faceva queste raccomandazioni. E perché le fa, se non perché teme per qualcosa che è in noi, anche se gli altri ci fanno congratulazioni? Che cosa teme? "Chi dice di essere nella luce". Che significano queste parole? Significano: colui che dice di essere cristiano e "odia il proprio fratello, è ancora nelle tenebre". Qui non occorrono spiegazioni, ma c'è da gioire se la cosa non s'avvera, c'è da piangere se essa si avvera.

12. Chi ama il fratello suo, resta nella luce, e in lui non c'è scandalo (1 Gv. 2, 10; cf. Gv. 13, 34). Vi scongiuro in nome di Cristo: è Dio che ci nutre, tra poco ristoreremo i nostri corpi in nome di Cristo, come già abbiamo fatto un poco, e come sempre va fatto; ma anche la mente abbia il suo ristoro. Questo affermo, non perché debba ancora parlare a lungo; il testo della lettura sta per finire: ma per evitare che la stanchezza non diminuisca la nostra attenzione per queste cose che hanno grandissima importanza.

"Chi ama il fratello suo, resta nella luce ed in lui non c'è scandalo". Chi sono coloro che patiscono o danno scandalo? Coloro che trovano motivo di scandalo in Cristo e nella Chiesa. Chi trova motivo di scandalo in Cristo, è come colui che viene scottato dal sole, mentre colui che trova motivo di scandalo nella Chiesa, è

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come colui che viene scottato dalla luna. Dice il salmo: "Di giorno il sole non ti brucerà, né di notte la luna" (Sal. 120, 6) e significa: se avrai mantenuto la carità, non soffrirai scandalo né a motivo di Cristo, né a motivo della Chiesa. Non abbandonerai Cristo, né la Chiesa. Chi abbandona la Chiesa, come può essere nel Cristo, dato che non appartiene alle membra di lui? Come può essere nel Cristo, dato che non fa parte del corpo di lui? Subiscono dunque lo scandalo quelli che abbandonano o Cristo o la Chiesa. Da che cosa desumiamo che il salmo dicendo: "Di giorno il sole non ti brucerà, né di notte la luna" vuole indicare col verbo "bruciare " lo scandalo? Innanzi tutto fai attenzione alla similitudine: colui che viene scottato dice: Non riesco a sopportare, non ce la faccio, e perciò si allontana; così coloro che non sopportano alcune cose nella Chiesa e si allontanano dal nome di Cristo o della Chiesa, patiscono scandalo.

Osservate infatti quale scandalo hanno subito, come scottati dal sole, quegli uomini carnali ai quali Cristo predicava di dare la sua carne dicendo: "Chi non mangerà la carne del Figlio dell'uomo e non berrà il suo sangue, non avrà in sé la vita". Circa una settantina di persone dissero: "Che discorso duro è questo" e si allontanarono da lui. Rimasero i dodici. Quelli furono tutti scottati dal sole e se ne andarono, non riuscendo a sopportare la forza della parola di Cristo. Rimasero dunque i dodici. E perché non pensassero di fare un favore a Cristo credendo in lui, mentre invece era Cristo a compiere per loro un beneficio, ai dodici rimasti il Signore disse: "Volete andarvene anche voi?". Sappiate infatti che non siete voi indispensabili per me, ma io per voi. Ma essi, che non erano stati scottati dal sole, risposero per bocca di Pietro: "Signore, tu hai parole di vita eterna: dove potremo noi andare?" (Gv. 6, 54-69).

E chi sono quelli che vengono scottati dalla Chiesa, come dalla luna nel corso della notte? Quelli che hanno fatto scisma. Ascoltate la parola stessa dell'Apostolo: "Chi è ammalato e non lo sono anch'io? Chi patisce scandalo e io non brucio?" (2 Cor. 11, 29). Come avviene che non c'è scandalo in colui che ama i fratelli? Perché chi ama i fratelli sopporta tutto per l'unità, perché l'amore fraterno consiste nell'unità della carità. Supponiamo che ti offenda uno che é cattivo, o che tu giudichi cattivo o anche soltanto immagini tale: abbandoni forse per questo tanti altri che son buoni? Ma che carità fraterna è quella che si mostra in questi donatisti? Accusano i cristiani di Africa e per questo abbandonano l'intera terra. Non c'erano più santi nel mondo? E come avete potuto condannarli, senza nemmeno averli ascoltati? Ma se amate i fratelli, non ci sarebbe scandalo in voi.

Ascolta la voce del salmo: "Quanta pace a chi ama la tua legge, e non c'é scandalo per lui" (Sal. 118, 165). Annunzia gran pace a coloro che amano la legge di Dio e perciò soggiunge che non c'è scandalo per loro. Coloro infatti che si scandalizzano, perdono la pace. E chi (è detto nel salmo) non patisce scandalo o non lo fa? Chi ama la legge di Dio, chi è dunque nella carità. Obietterà qualcuno: il salmo parla di chi ama la legge di Dio e non di chi ama i fratelli. Ascolta allora ciò che dice il Signore: "Un comando nuovo io vi dò, di amarvi gli uni gli altri". La legge non è forse un comando? E come evitare lo scandalo, se non sopportandosi scambievolmente? Dice l'apostolo Paolo: "Sopportatevi l'un l'altro nell'amore, cercando di conservare l'unità dello spirito nel vincolo di pace" (Ef. 4, 2-3). E che questa sia la legge di Cristo lo si deduce dalle parole stesse dell'Apostolo che questa legge raccomanda: "Portate - dice - l'uno il peso dell'altro e così adempirete la legge di Cristo" (Gal. 6, 2).

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Chi odia si separa da Cristo e dalla Chiesa

13. Poiché chi odia il proprio fratello sta nelle tenebre e cammina nelle tenebre e non sa dove va. E' una cosa importante, fratelli miei; fate attenzione, ve ne preghiamo. "Chi odia il proprio fratello cammina nelle tenebre e non sa dove va", perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi (1 Gv. 2, 11). Chi è più cieco di costoro che odiano i propri fratelli? E lo vedete che sono ciechi, poiché sono andati a sbattere contro la montagna. Vi ripeto le medesime cose perché non vi sfuggano. Questa pietra che si è staccata dal monte senza concorso di mano umana non è forse il Cristo, nato dalla stirpe regale di Giuda, senza concorso di uomo? Non è lui questa pietra che ha infranto tutti i regni del mondo, cioè tutte le dominazioni degli idoli e dei demoni? Non è lui questa pietra che, cresciuta fino a divenire un gran monte, ha riempito tutto l'universo (cf. Dan. 2, 34-35)? Forse che noi mostriamo a dito questo monte, così come facciamo con la luna, quando è al terzo giorno? Se c'è qualcuno, ad esempio, che vuol vedere la luna nuova, gli si dice: Ecco la luna, eccola là; se poi ci sono persone incapaci di individuarla e che dicono: Dove è?, allora si punta il dito perché la vedano. A volte capita che alcuni, vergognosi di apparire ciechi, affermino di vederla, mentre non è vero. E' forse così, fratelli, che noi mostriamo la Chiesa? Non è essa forse visibile chiaramente? Non ha essa raccolto nel suo seno tutte le genti? Non si è compiuta la promessa fatta tanto tempo fa ad Abramo: che le genti sarebbero state benedette nel suo seme? La promessa fu fatta ad un solo credente, ma il mondo si è riempito di migliaia di credenti. Ecco il monte che copre tutta la superficie della terra: ecco la città della quale fu detto: "Non può una città, edificata sopra una montagna, restare nascosta" (Mt. 5, 14). Ma costoro vengono a urtare contro la montagna. E quando si dice loro: Salite!, essi rispondono: Dove, se non c'è monte? Trovano più facile sbattere la testa contro di essa, che non cercarvi rifugio. Ieri è stato letto Isaia: chiunque di voi era attento, ha compreso non solo con gli occhi ma con gli orecchi, né solo con gli orecchi del corpo, ma con quelli del cuore: "Negli ultimi giorni, sarà visibile il monte della casa del Signore, stabilito sulla cima delle montagne". C'è qualcosa che sia più visibile di una montagna? Ma ci sono anche monti sconosciuti perché occupano uno spazio limitato della terra. Chi di voi conosce il monte Olimpo? Parimenti la gente che abita là, non conosce il nostro monte Giddabam. Questi monti occupano zone limitate. Ma il monte di cui parliamo non è così: esso occupa tutta la superficie della terra; di esso si dice: "è stabilito sulla cima delle montagne". Esso dunque sorpassa le cime di tutti gli altri monti. "E tutte le nazioni accorreranno verso di esso ", dice Isaia (Is. 2, 2). Chi può sbagliare sentiero su questo monte? Chi si rompe la testa cozzando contro di esso? Chi non vede la città che sorge sulla sua cima? Non meravigliatevi se esso non è visto da questi tali che odiano i fratelli: costoro infatti camminano nelle tenebre, e non sanno dove vanno, perché le tenebre hanno accecato i loro occhi. Essi non vedono il monte: c'é motivo di meravigliarsene, dal momento che non hanno occhi? Ma perché non hanno occhi? Perché le tenebre li hanno accecati. Ne abbiamo una prova? Sì: essi odiano i loro fratelli. Urtatisi coi loro fratelli d'Africa, si separano da tutti gli altri, perché non sopportano per la pace di Cristo quelli che essi infamano, mentre sopportano, per sostenere Donato, quelli che essi condannano.

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II.

SCRIVO A VOI, FIGLIOLI

La Scrittura parla di Cristo

1. Bisogna ascoltare con attenzione quanto si legge nelle Sacre Scritture a nostra istruzione e salvezza. Ma è soprattutto necessario affidare alla nostra memoria quelle pagine che più ci sono d'aiuto nella confutazione degli eretici. Costoro non cessano con insidie di ingannare i più impreparati e trascurati. Ricordate: Cristo è morto ed è risorto per noi, è morto per i nostri peccati ed è risorto per la nostra giustificazione (cf. Rom. 4, 25). Avete sentito poco fa come i due discepoli che il Signore incontrò sulla strada non riuscivano a riconoscerlo poiché i loro occhi erano impediti. Egli li trova sfiduciati riguardo alla redenzione operata da Cristo, convinti invece che il Cristo avesse sofferto e fosse morto come uomo. Pensavano che Cristo fosse morto nel corpo in modo da non poter più tornare alla vita, quasi fosse uno dei profeti.

Poco fa avete potuto sentire la loro opinione. Ma egli spiegò loro le Scritture, partendo da Mosé giù giù fino ai Profeti, per dimostrare loro che quanto era accaduto, compresa la sua passione e la sua morte, già era stato predetto. Lo fece soprattutto per evitare che la stessa sua Risurrezione, se non fossero stati preannunciati tutti i particolari di essa, non finisse con l'aggravare il loro turbamento e accrescere il loro dubbio. La fermezza della fede sta appunto in questo, che ogni fatto accaduto al Cristo fu predetto. Perciò i discepoli lo riconobbero solo al gesto dello spezzare del pane. E veramente lo riconosce a questo gesto anche chi mangia e beve di lui, ma in modo che non gli sia a condanna.

Anche gli undici pensavano, in altra occasione, di vedere uno spirito. Egli allora si lasciò toccare, lui che si era fatto crocifiggere. Volle che lo crocifiggessero i nemici, e lo toccassero gli amici. Era però medico di tutti, dell'iniquità dei primi, dell'incredulità dei secondi. Durante la lettura degli Atti, voi avete sentito quante migliaia degli uccisori di Cristo credettero in lui (cf. Atti, 2, 41). Se in seguito credettero in lui quelli che l'avevano ucciso, come pensare che non gli avrebbero creduto quelli che solo per un momento avevano dubitato? Ma fate bene attenzione e tenete bene a mente che Dio volle mettere nella Scrittura il rimedio contro insidiosi errori, dato che contro la Scrittura nessuno, se vuole apparire cristiano, osa parlare: quando dunque il Signore volle farsi toccare da quei suoi discepoli, non si preoccupa d'altro che di confermare con le Scritture il cuore dei credenti. Egli aveva dinanzi alla sua mente noi che saremmo venuti dopo, noi che non abbiamo nessuna possibilità di toccare qualche parte del suo corpo, ma abbiamo la possibilità di leggere quello che è stato scritto. Se quei discepoli dunque credettero, perché lo ebbero in mezzo a loro e

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lo toccarono, noi che faremo? Cristo è già salito al cielo e non ritornerà che alla fine dei tempi, per giudicare i vivi e i morti. Su quali fondamenta poggeremo la nostra fede, se non su quelle stesse fondamenta per mezzo delle quali il Signore ha voluto che si rafforzassero nella fede loro che avevano potuto toccarlo? Rivelò ad essi il senso nascosto delle Scritture e mostrò che il Cristo doveva soffrire, e che le cose predette su di lui nella Legge di Mosé, nei Profeti e nei Salmi, dovevano avverarsi. Nessuno dei testi delle antiche Scritture fu da lui tralasciato. Tutto nelle Scritture parla di Cristo, purché ci siano orecchi disposti ad ascoltare. Egli allora svelò il senso delle Scritture in modo che quei discepoli le comprendessero. Dobbiamo anche noi pregare affinché ci riveli lui stesso il senso delle Scritture.

La Sposa si fa uno con lo Sposo

2. Che cosa mostrò il Signore che era scritto su di sé nella Legge di Mosé, nei Profeti e nei Salmi? Che cosa rivelò? Ci risponda lui stesso. L'Evangelista su questo punto è stato breve affinché imparassimo da noi stessi che cosa dobbiamo capire e credere tra tanti e così estesi testi delle Scritture. Anche se molte sono le pagine e molti i libri, tutti contengono ciò che il Signore disse in poche parole ai suoi discepoli. Che cosa? Che "il Cristo doveva patire e risorgere il terzo giorno" (Lc. 9, 22; 24, 7; Mt. 16, 21; 17, 21; Mc. 8, 31; 9, 30). A proposito dello Sposo senti dire che "il Cristo doveva patire e risorgere". Eccoti dunque descritto lo Sposo. Vediamo che cosa dice la Scrittura della sposa: così, conoscendo lo Sposo e la sposa, verrai alle nozze ben istruito. Ogni celebrazione liturgica è infatti una festa nuziale; la festa delle nozze della Chiesa. Il figlio del re deve prendere moglie e questo figlio del re è lui stesso; la sua sposa sono quelli che partecipano alle sue nozze. Coloro che nella Chiesa partecipano alle celebrazioni liturgiche, se vi partecipano bene, diventano la sposa, a differenza di quanto succede nelle nozze umane, dove altri sono quelli che assistono, e altra è colei che si sposa. Tutta la Chiesa infatti è sposa di Cristo, dalla cui carne essa prende l'inizio e ne rappresenta la primizia: in quella carne la sposa si è congiunta allo Sposo. Giustamente spezzò il pane, quando volle mostrare la realtà della sua carne; e giustamente gli occhi dei discepoli si aprirono al segno della frazione del pane ed essi lo riconobbero. Che cosa dunque disse il Signore che era scritto su di lui nella Legge, nei Profeti, e nei Salmi? Che "il Cristo doveva patire". Se non avesse aggiunto anche "e risorgere", giustamente avrebbero avuto motivo di piangere quelli i cui occhi erano impediti. Ma anche il risorgere fu predetto. E perché? Perché bisognava che il Cristo patisse e risorgesse? E' detto in quel salmo che vi abbiamo con gran cura spiegato, mercoledì, nella prima riunione della scorsa settimana. Perché occorreva che il Cristo patisse e risorgesse? Perché "tutti i confini della terra si ricorderanno del Signore e a lui torneranno, e tutte le nazioni si prostreranno al suo cospetto" (Sal. 21, 28). Anche qui il salmo, affinché comprendiate che Cristo doveva patire e risorgere, aggiunge dell'altro per attirare la nostra attenzione sopra la sposa, dopo averci fatto riflettere sopra lo Sposo. Dice dunque: "La penitenza e la remissione dei peccati saranno predicate nel suo nome fra tutte le genti, incominciando da Gerusalemme" (Lc. 24, 47). Fratelli, queste parole fissatele bene nella memoria. Nessuno può mettere in dubbio che la Chiesa è presente in tutto il mondo; nessuno può dubitare che essa è nata a Gerusalemme ed ha raggiunto tutte le nazioni. Conosciamo il campo dove fu piantata la vite, ma una volta che si è sviluppata, non riconosciamo più il campo, poiché essa tutto l'ha ricoperto. Da dove ha preso l'avvio? "Da Gerusalemme". Dove è giunta? "A tutte le genti". Poche ne mancano, ma presto le raggiungerà tutte. Frattanto mentre giunge a tutte, l'agricoltore ha ritenuto necessario tagliare alcuni rami inutili, che produssero eresie e scismi. Ciò che è stato tagliato non abbia influsso su di voi, per non correre il rischio che anche voi siate tagliati; pregate anzi perché le parti tagliate vengano di nuovo inserite. E' manifesto a tutti che Cristo è morto, è risorto ed è asceso al cielo: anche la

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Chiesa si è mostrata a tutti chiaramente poiché nel suo nome viene predicata la penitenza e la remissione dei peccati a tutti i popoli. Da dove la Chiesa ha avuto inizio? "Da Gerusalemme". Colui che sentendo queste cose non vede la grande montagna e chiude gli occhi davanti alla luce che brilla sul candelabro, è uno stolto, uno sciocco, e, soprattutto, un cieco.

La Sposa di Cristo è la Chiesa, e non può essere che una

3. Quando diciamo a questi tali: Se siete cristiani cattolici, dovete essere in comunione con quella Chiesa dalla quale il Vangelo viene diffuso in tutto il mondo; quando diciamo loro: Dovete essere uniti alla vera Gerusalemme; ci rispondono: Non vogliamo avere nulla a che fare con quella città nella quale è stato ucciso il nostro re, dove è stato ucciso il nostro Signore. Sembra dunque che essi odino la città dove il Signore è stato ucciso. I giudei l'hanno ucciso quando era sulla terra, costoro lo respingono quando ormai siede in cielo. Sono peggiori quelli che l'hanno disprezzato giudicandolo un uomo o quelli che rifiutano come sacrileghi i sacramenti di lui, che pure ritengono Dio? Essi odiano veramente la città in cui è stato ucciso il loro Signore. Uomini pii e misericordiosi quali sono, s'addolorano grandemente perché Cristo è stato ucciso, ma poi uccidono Cristo negli uomini. Cristo amò la sua città e ne ebbe misericordia; da essa ordinò che prendesse inizio la sua predicazione: "incominciando da Gerusalemme". Lì volle che si iniziasse a parlare del suo nome, e tu senti orrore ad esserne cittadino? Non c'è da meravigliarsi se tu, essendo stato reciso, hai in odio la radice. Non disse forse Cristo ai suoi discepoli: "Restate nella città fin quando manderò a voi colui che vi ho promesso" (Lc. 24, 43-49)? Questa è la città che essi odiano. Se l'abitassero i giudei, forse l'amerebbero, perché i giudei sono stati gli uccisori di Cristo. Tutti gli uccisori di Cristo, cioè i giudei, sono stati espulsi, come ben si sa, da quella città. Se prima essa ospitava quelli che infierirono contro Cristo, ora ospita coloro che adorano Cristo. Essi la odiano, perché vi trovano i cristiani. Cristo volle che in essa restassero i suoi discepoli, e in essa volle che ricevessero lo Spirito Santo. Da dove ebbe inizio la Chiesa se non dal luogo in cui scese dal cielo lo Spirito Santo, riempiendo di sè le centoventi persone che ivi si trovavano riunite? Il loro numero di dodici si era decuplicato. Stavano dunque insieme centoventi persone e venne lo Spirito Santo e riempì tutto il luogo dove s'udì un suono come di vento impetuoso e lingue come di fuoco andarono a posarsi sulle loro teste. Avete sentito leggere appunto questo brano degli Atti degli Apostoli: "Essi incominciarono a parlare in lingue diverse, come lo Spirito dava loro di parlare" (cf. Atti, 1, 15; 2, 1-13). Ciascuno dei presenti, che erano giudei provenienti da popoli diversi, riconosceva il proprio linguaggio e tutti si meravigliavano che persone non istruite e rozze avessero imparato non una o due lingue ma addirittura le lingue di tutti i popoli. Si mostrava così che in quel luogo dove tutte le lingue risuonavano, tutte avrebbero aderito alla fede. Ma costoro che amano tanto Cristo e non vogliono aver nulla a che fare con la città che l'uccise, onorano Cristo a loro modo, dicendo che egli ha dato la preferenza a due sole lingue, la latina e la punica, cioè l'africana. Cristo si sarebbe dunque legato a due sole lingue? Quelle che sono usate nel partito di Donato, dove non se ne conoscono altre? Stiamo all'erta, o fratelli, e consideriamo invece il dono dello Spirito di Dio; crediamo quanto di lui fu detto in precedenza, facendo sì di veder realizzato quanto già fu predetto nel salmo: "Non c'è lingua, non ci sono parole di cui non si è sentito il suono" (Sal. 18, 4). E perché tu non creda che le lingue si sono mosse verso uno stesso luogo, ma che è il dono di Cristo che si è esteso a tutte le lingue, ascolta ciò che segue: "in ogni luogo è giunto il suono della loro voce, le loro parole hanno raggiunto gli estremi confini del mondo" (Sal. 18, 5). Perché è avvenuto ciò? "Perché egli ha posato la sua dimora nel sole" (Sal. 18, 6), cioè sotto gli occhi di tutti. Questa dimora è la sua carne, cioè la sua Chiesa, ch'è posta sotto la luce del sole, non nelle tenebre della notte ma nella chiarezza

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del giorno. Perché allora quelli non la riconoscono? Ritornate con la mente al passo con cui ieri abbiamo chiuso il discorso e capirete perché non la riconoscono: "Chi odia il proprio fratello cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre l'hanno accecato" (1 Gv. 2, 9). Noi invece cerchiamo di vedere ciò che viene dopo per non rimanere nelle tenebre. Come evitare le tenebre? Amando i fratelli. Quale la prova che amiamo i fratelli? Questa: che non spezziamo l'unità ed osserviamo la carità.

Figli, perché nati in Cristo

4. Scrivo a voi, figlioli, perché vi sono rimessi i peccati nel suo nome (1 Gv. 2, 12). Per questo "figlioli", perché con la remissione dei peccati rinascete a nuova vita. Ma i peccati in nome di chi sono rimessi? Forse in nome di Agostino? no; e neppure in nome di Donato. Tu conosci Agostino e sai chi è Donato; ma neppure nel nome di Paolo e di Pietro sono rimessi i peccati. L'Apostolo infatti, pieno di quella materna carità nella quale ha generato i suoi figli, ci svela il suo cuore e in certo qual modo si squarcia il petto con le sue parole, piangendo i figli che vede rapiti da quanti seminano divisioni nella Chiesa e cercano in tutti i modi di fare a pezzi l'unità creando diverse fazioni. Egli riconduce ad un sol nome coloro che volevano assumersi molti nomi, cerca di allontanarli dall'amore verso la propria persona per volgerli all'amore di Cristo e grida loro: "Forse fu Paolo ad essere crocifisso per voi? O è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?" (1 Cor. 1, 13). Che dice dunque? Non voglio che siate miei ma che siate con me, poiché siamo tutti di colui che per noi è morto, per noi fu crocifisso. Perciò aggiunge: "e nel suo nome" - non nel nome di un uomo qualsiasi - "vi vengono rimessi i peccati".

Padri, perché avete conosciuto il Principio

5. Scrivo a voi, padri. Perché prima si è rivolto ai figli? "Perché a voi vengono rimessi i peccati nel suo nome", così che siete generati ad una nuova vita e perciò siete figli. Ma perché ora ai padri?. Perché avete conosciuto lui fin dal principio (1 Gv. 2, 13). Il principio è una prerogativa della paternità. Ora Cristo è nuovo nella carne, ma antico nella divinità. Quanto egli è antico? Di molti anni? E' prima di sua madre? Certo è prima di sua madre. "Tutte le cose infatti sono state create per mezzo di lui" (Gv. 1, 3). Se egli, l'antico, creò tutte le cose, creò anche sua madre dalla quale potesse nascere come nuovo. Lo crediamo anteriore soltanto a sua madre? No, poiché egli è prima ancora degli avi di sua madre. Abramo è l'avo di sua madre ed il Signore dice: "Prima di Abramo io sono" (Gv. 8, 58). Prima di Abramo soltanto? Cielo e terra furono creati prima che esistesse l'uomo. Prima di essi c'era il Signore, anzi prima di essi egli è. Disse bene perciò: non prima di Abramo io fui; ma "prima di Abramo io sono". Quando di una cosa si dice che fu, significa che non esiste più; quando si dice: sarà, significa che ancora non esiste; ma egli non conosce altra esperienza che quella dell'essere. Conosce l'essere in quanto è Dio; ma non sa che cosa significhi essere stato, né conosce l'attesa del dover essere. C'è in lui un giorno solo, ma sempiterno. Quel giorno non ha dietro di sè un ieri, né davanti a sè un domani. Il giorno di oggi fa seguito a quello di ieri e avrà termine con l'avvento del domani. Quel suo giorno unico è invece senza tenebre, senza notte, senza divisione di ore, di minuti o di altre unità di misura. Chiamalo come vuoi, chiamalo pure giorno, se ti piace, ma puoi chiamarlo anche anno ed attribuirgli il valore di anni ed anni. Di Cristo infatti è stato scritto: "I tuoi anni non finiranno" (Sal. 101, 28). E quando fu chiamato giorno? Quando al Signore fu detto: "Oggi ti ho generato" (Sal. 2, 7). Generato da

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un Padre eterno, eterna è pure la sua generazione: essa è senza inizio, senza termine, senza limiti di tempo, poiché egli è l'essere, egli è colui che è. Questo è il nome che disse a Mosé: "Dirai loro: Colui che è mi ha mandato a voi" (Es. 3, 14). Che cosa esisteva dunque prima di Abramo, prima di Noè, prima di Adamo? Ce lo dice la Scrittura: "Io ti ho generato prima dell'aurora" (Sal. 109, 3). Egli fu dunque generato prima del cielo e prima della terra. Perché? Perché "tutte le cose furono fatte per mezzo di lui e senza di lui niente fu fatto" (Gv. 1, 3). Voi che siete padri, riconoscetelo: padri si diventa riconoscendo colui che è fin dal principio.

Giovani, perché avete vinto il maligno

6. Scrivo a voi, giovani. Voi siete figli, siete padri, siete giovani; figli per effetto della nascita, padri perché riconoscete il principio. Ma perché giovani? Perché avete vinto il maligno (1 Gv. 2, 13). 7. Nei figli troviamo la nascita; nei padri l'antichità, nei giovani la fortezza. Se il maligno viene vinto dai giovani, questo significa che egli lotta contro di noi. Lotta, ma non vince. Perché? Perché siamo forti, ma ancor più perché in noi è forte colui che abbiamo visto inerme nelle mani dei persecutori. E' lui che ci fa forti, lui che non ha opposto resistenza ai persecutori. Crocifisso per la sua debolezza, egli vive per la potenza di Dio.

7. Scrivo a voi, fanciulli. Perché fanciulli? Perché avete conosciuto il Padre (1 Gv. 2, 14). Scrivo a voi, padri: lo ripete con insistenza ed aggiunge: perché avete conosciuto colui che è fin dal principio. Cioè: ricordate che siete padri, ma se dimenticate colui che è fin dal principio, perdete la vostra paternità. Scrivo a voi, giovani. Considerate con ogni attenzione e ricordate sempre che siete giovani. Combattete per poter vincere, raggiungete la vittoria per ottenere la corona; ma siate umili per non soccombere durante il combattimento. "Scrivo a voi, giovani", perché siete forti, e la parola di Dio rimane in voi, e avete vinto il maligno (1 Gv. 2, 14).

Non si può amare Dio e il mondo

8. Tutti questi privilegi sono nostri, fratelli, perché abbiamo conosciuto colui che è fin dal principio, perché siamo forti ed abbiamo conosciuto il Padre: tutte queste realtà allargano le nostre conoscenze ma devono anche sostenere la nostra carità. Se conosciamo, non possiamo anche non amare: una conoscenza senza amore non ci salva. "La scienza gonfia, la carità edifica" (1 Cor. 8, 1). Se professate la fede ma non amate, incominciate ad assomigliare ai demoni. Anche i demoni davano testimonianza al Figlio di Dio e dicevano: "Che abbiamo noi a che fare con te?" (Mt. 8, 29). Ma venivano da lui scacciati. Voi confessatelo ed abbracciatelo. Essi temevano a causa della loro iniquità; voi invece amatelo, perché vi ha perdonato le iniquità commesse.

Ma come ameremo Dio, se amiamo il mondo? Egli vuole farsi accogliere in noi mediante la carità. Ci sono due amori: quello del mondo e quello di Dio; se alberga in noi l'amore del mondo, non potrà entrarvi l'amore di Dio. Si tenga lontano l'amore del mondo e resti in noi l'amore di Dio; abbia posto in noi l'amore

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migliore. Se prima amavi il mondo, ora non amarlo più; se saziavi il tuo cuore con gli amori terreni, dissetati ora alla fonte dell'amore di Dio, e incomincerà ad abitare in te la carità, dalla quale nessun male può derivare. Date dunque ascolto alla voce di colui che ora vuol farvi puri. I cuori degli uomini sono per lui come un campo, ma in che stato lo trova? Se scorge in esso una selva, incomincia allora ad estirparla, ma se lo trova già dissodato, si da’ subito a seminarlo: vuole piantarvi l'albero della carità. E qual è la selva che vuole estirpare? L'amore del mondo. Senti come Giovanni parla di questa estirpazione: Non vogliate amare il mondo, e prosegue, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui (1 Gv. 2, 15).

La carità è la radice della virtù.

9. Dunque avete sentito: "Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui". Nessuno, fratelli, pensi che queste dichiarazioni siano false. E' Dio che parla, e lo Spirito Santo che ha parlato per mezzo dell'apostolo, e nulla v'è di più vero. "Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui". Vuoi avere l'amore del Padre, per poter essere coerede del Figlio? Non amare il mondo. Scaccia l'amore malvagio del mondo, per riempirti dell'amore di Dio. Sei come un vaso che è ancora pieno; butta via il suo contenuto, per accogliere ciò che ancora non possiedi. I nostri fratelli certo sono già rinati dall'acqua e dallo Spirito Santo; anche noi da un po' di anni siamo rinati dall'acqua e dallo Spirito Santo. E' bene per noi non amare il mondo, affinché i sacramenti non abbiano a risolversi nella nostra dannazione, cessando così di essere sostegni della nostra salvezza. Sostegno di salvezza significa possedere le radici della carità, la virtù della pietà e non soltanto la sua esteriore apparenza. Buona e santa è l'apparenza; ma che vale, se manca del suo sostegno? Il tralcio tagliato non viene forse gettato nel fuoco? Mantieni pure la forma esterna, ma che sia legata alla radice. In che modo staremo uniti alla radice, per non correre il rischio di venire da essa tagliati? Conservando la carità, come dice Paolo apostolo: "Radicati e fondati nella carità" (Ef. 3, 17). Come potrà mettere le sue radici la carità, là dove l’amore del mondo tutto copre al pari di una selva? Estirpate questa selva. State per seminare nel terreno un seme prezioso: nel campo nulla rimanga che possa soffocare quel seme. Le parole di Giovanni ci sollecitano ad operare questa estirpazione: "Non vogliate amare il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui".

Inseriti nel tempo e nell'eternità

10. Perché tutto ciò che è nel mondo, è desiderio della carne, concupiscenza degli occhi e ambizione terrena - dunque tre realtà - e queste non provengono dal Padre ma dal mondo. E il mondo passa, come passano i suoi desideri; ma chi avrà fatto la volontà di Dio, resterà in eterno, come Dio stesso rimane in eterno (1 Gv. 2, 16-17).

Perché non dovrei amare ciò che Dio ha fatto? Ebbene scegli: vuoi amare le cose temporali ed essere travolto dal tempo insieme con esse? O non è meglio odiare il mondo e vivere in eterno con Dio? La corrente delle cose temporali ci trascina dietro a sé, ma il Signore nostro Gesù Cristo nacque come l'albero

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presso le acque del fiume. Egli assunse la carne, morì, risorse, ascese al cielo. Volle in certo modo mettere le sue radici presso il fiume delle cose temporali. Sei trascinato con violenza dalla forza della corrente? Attaccati al legno. Ti travolge l'amore del mondo? Stringiti a Cristo. Per te egli è sceso nel tempo, perché tu divenissi eterno. E' sceso nel tempo, ma rimanendo eterno. Si è inserito nel tempo, ma senza staccarsi dall'eternità. Tu invece sei nato nel tempo, e sei diventato schiavo del tempo a causa del peccato. Sei diventato schiavo del tempo a causa del peccato; egli invece è sceso nel tempo, per esercitare la misericordia nel perdono dei peccati. Come è enorme la differenza tra il reo e chi è venuto in carcere per visitarlo — perché entrambi si trovano nel carcere. Un uomo un giorno si reca a visitare un suo amico. Entrambi sembrano carcerati, ma grande è la differenza che passa tra loro e li distingue. Il processo imminente riempie di angoscia il primo, mentre un senso di umanità ha mosso il secondo. Così nella nostra condizione mortale: noi eravamo in carcere a causa di un reato, ed egli, mosso da misericordia, è sceso fino a noi, è venuto a trovare, in veste di redentore, chi era prigioniero. Non è venuto ad opprimerci. Il Signore ha versato per noi il suo sangue, ci ha redenti, ha trasformato la nostra speranza. Mentre portiamo ancora con noi la carne mortale, possiamo alzare gli occhi a guardare la nostra immortalità futura; mentre ancora veniamo sballottati dai flutti del mare, abbiamo già fissato in terra l'ancora della speranza.

La vera Sposa ama lo Sposo più dell'anello donatole

11. Perciò non amiamo il mondo, né le cose del mondo. Queste sono: i desideri della carne, le concupiscenze degli occhi e le ambizioni terrene. Tre, dunque, le concupiscenze. Ma nessuno dica: non è opera di Dio tutto ciò che è nel mondo? Non sono opera di Dio il cielo, la terra, il mare, il sole, la luna, le stelle, lo splendore dei cieli? Ed i pesci, non sono l'ornamento del mare? Così dicasi degli animali, degli alberi, degli uccelli, per quanto riguarda la terra. Queste realtà sono nel mondo e le ha fatte il Signore. Perché allora non dovrei amare ciò che Dio ha fatto? Lo Spirito del Signore ti aiuti a vedere realmente perché queste cose son buone, ma guai a te se amerai le creature ed abbandonerai il Creatore. Queste cose ti appaiono belle, ma quanto più bello sarà l'autore della loro bellezza? Cerchi di comprendermi la vostra Carità. I paragoni possono servire ad istruirvi, affinché Satana non vi tragga in inganno, presentandovi la solita obiezione: — riponete la vostra felicità nelle creature; perché mai Dio le avrebbe create se non per la vostra felicità? Molti si lasciano persuadere a loro perdizione e dimenticano il Creatore: quando delle creature si fa un uso smodato, si reca offesa al Creatore. Di costoro dice l'Apostolo: "Onorarono e servirono le creature invece del Creatore, che è benedetto nei secoli" (Rom. 1, 25). No, Dio non ti proibisce di amare le sue creature, ti proibisce di amarle come ultima felicità. Stimale, lodale, ma per amare il Creatore.

Fratelli, se uno sposo si fa un anello destinato alla sposa e questa ama di più l'anello che non il suo sposo che lo costruì, forse che attraverso quel dono non risulta che la sposa ha un cuore adultero, anche se essa ama ciò che è dono del suo sposo? Certo essa ama ciò che ha fatto il suo sposo, ma se dicesse: —a me basta il suo anello e non mi interessa affatto di vedere lui, che sposa sarebbe mai costei? Chi non detesterebbe la sua stoltezza? Chi non porrebbe sotto accusa quest'animo di adultera? Invece del marito, tu che sei la sua sposa, ami l'oro, ami un anello. Se tali sono i tuoi sentimenti, che ami un anello invece del tuo sposo e lui non vuoi neppure vederlo, dovremmo dedurre che egli ti avrebbe dato questo dono non come legame d'amore, ma per perderti. Lo scopo per cui un fidanzato offre un dono invece è di ottenere l'amore della sposa, per mezzo di quel dono. Dio ti ha dunque dato le cose create, perché tu amassi chi le

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ha fatte. Egli ti vuole dare assai di più, vuol darti se stesso, che queste cose ha create. Ma se avrai amato le cose, pur fatte da Dio, se avrai trascurato il loro Creatore, per amare il mondo, il tuo non potrà essere giudicato altro che un amore adultero.

Significato del termine "mondo"

12. Col termine "mondo" vengono indicati non soltanto il cielo e la terra, le cose visibili ed invisibili, opere tutte del Signore, ma anche gli abitatori del mondo, così come il termine "casa" indica tanto l'edificio come i suoi abitanti. A volte ci capita di lodare la casa ma di biasimare i suoi abitanti. Diciamo: questa casa è bella, e ricca di marmi e di ornamenti. Ma possiamo anche dire, con altro significato: questa casa è buona, nessuno vi patisce ingiustizie, non vi avvengono rapine, né oppressioni. In questo caso, non lodiamo le pareti della casa ma i suoi abitanti; e tuttavia sia nel primo come nel secondo caso, noi usiamo lo stesso identico termine di "casa". Ora tutti coloro che amano il mondo - e quanti lo amano in esso abitano, come nel cielo abitano coloro che amano il cielo, anche se nel corpo camminano sulla terra - tutti costoro che amano il mondo vengono indicati col termine "mondo". Queste sono le loro tre aspirazioni: i desideri della carne, la concupiscenza degli occhi, l'ambizione terrena. Desiderano mangiare e bere, fornicare e darsi ad ogni voluttà. Ma queste cose non possono godersi con misura? Quando vi diciamo: "Non amate queste cose", intendiamo forse dirvi che non dovete nè mangiare, né bere, né procreare figli? No certamente: non è questa la nostra intenzione. Dobbiamo però usare moderazione, secondo l'idea del Creatore, affinché queste creature non abbiano a tenerci legati, se troppo le amiamo. Non dobbiamo amare per il solo piacere le cose che ci sono state date per nostro semplice uso. Ma poniamo il caso che vi troviate di fronte a due possibilità e siate così messi alla prova: vuoi essere giusto o ricco? Io non ho nulla per vivere - tu dici -, non ho nulla da mangiare, nulla da bere e non posso avere queste cose necessarie alla vita, se non commettendo azioni cattive! Non sarà meglio per te amare quel bene che non si perde, piuttosto che commettere il male? Sai misurare il lucro che ti viene dal denaro e non t'avvedi del danno che la tua fede subisce. Questo appunto vuol dirci Giovanni quando accenna al "desiderio della carne", cioè a tutte quelle realtà che sono in rapporto col nostro corpo, quali il cibo, gli amplessi sessuali e altre cose del genere.

La curiosità

13. L'apostolo ci parla anche della "concupiscenza degli occhi". Questa espressione indica la curiosità di ogni genere. E' vasto il campo su cui si estende la curiosità. La ritrovi negli spettacoli, nei teatri, nei riti demoniaci, nelle arti magiche, nei malefici. Si tratta sempre di curiosità. Essa tenta a volte gli stessi servi di Dio, inducendoli al desiderio di operare miracoli, per vedere se Dio li esaudisca concedendo portenti. Questa è la curiosità, cioè la concupiscenza degli occhi, e questa curiosità non viene dal Padre. Se Dio ti ha dato il potere di fare miracoli, adoperalo pure: per questo egli te lo ha dato; ma se uno non l'avesse, non per questo resta escluso dal Regno di Dio. Quando gli apostoli erano pieni di gioia, perché anche i demoni stavano loro soggetti, che cosa disse loro il Signore? "Non vogliate gioire di ciò, esultate invece perché i vostri nomi sono scritti in cielo" (Lc. 10, 20). Egli volle dunque che gli apostoli gioissero per qualcosa di cui anche tu puoi gioire. Guai a te, infatti, se il tuo nome non è scritto in cielo. Ti dovrei forse dire: guai a te se non avrai fatto risorgere i morti? se non avrai camminato sopra le acque del mare? se non avrai scacciato i

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demoni? Qualora però tu avessi ricevuto il potere di compiere queste cose miracolose, usalo con umiltà, non con sentimento di superbia. Il Signore, infatti, parlando di certi falsi profeti, disse che anch'essi avrebbero compiuto segni miracolosi e prodigi. Non sia in voi dunque l'ambizione terrena. Bramare questa gloria è segno di superbia. L'uomo vuole pavoneggiarsi con gli onori; crede di essere grande, se ha grandi ricchezze o una posizione di potere.

Cristo tentato

14. Ecco dunque le tre bramosie: ogni cupidigia umana è messa in moto dai desideri della carne, dalla concupiscenza degli occhi e dall'ambizione terrena. Il Signore stesso fu tentato dal diavolo su queste tre concupiscenze.

Fu tentato nei desideri della carne quando gli fu detto: "Se sei il Figlio di Dio, di' a queste pietre che diventino pane" (Mt. 4, 3). Dopo il digiuno infatti egli sentì fame. Ma in qual modo respinse il tentatore ed a noi, suoi soldati, insegnò a combattere? Fa' attenzione a quanto rispose: "L'uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola che viene da Dio" (Mt. 4, 4).

Fu tentato anche nella concupiscenza degli occhi e sollecitato a fare un miracolo, quando il tentatore gli disse: "Gettati giù, perché sta scritto: egli per te ha dato ordini ai suoi angeli, affinché ti sorreggano e il tuo piede non inciampi contro una pietra" (Mt. 4, 6; cf. Sal. 90, 11). Ma il Cristo si oppose al tentatore. Se avesse fatto quel miracolo, sarebbe parso che avesse ceduto alla tentazione o si fosse lasciato trascinare dalla curiosità; li operò invece i miracoli, quando volle agire come Dio e per curare gl'infermi. Se avesse compiuto il miracolo allora, si poteva credere che l'avesse fatto al solo scopo di fare un prodigio. Ma perché gli uomini non avessero a pensare ciò, senti bene quel che rispose al demonio, così che anche tu possa ripetere le stesse parole quando ti assalisse la medesima tentazione. Rispose dunque: "Vattene, Satana; sta scritto infatti: Non tenterai il Signore Dio tuo" (Mt. 4, 7). Cioè come se dicesse: se farò questo, tenterò il Signore. Gesù ti ha suggerito le parole che anche tu devi ripetere. Quando il nemico ti viene a dire: Che uomo sei tu, che cristiano sei? che miracoli hai fatto? quali morti sono risuscitati in forza delle tue orazioni? quale salute hai ridato ai febbricitanti? se fossi cristiano di valore, saresti in grado anche di fare dei miracoli; allora tu rispondi: Sta scritto: "Non tenterai il Signore Dio tuo" (Deut. 6, 16). Cioè: non tenterò Dio, quasi che soltanto facendo miracoli io appartenga a Dio, mentre non facendoli, non gli appartengo. Che significato avrebbero allora le parole: "Esultate perché i vostri nomi sono scritti in cielo"?

In che modo il Signore fu assalito con la tentazione dell'ambizione terrena? Essa avvenne quando il diavolo lo sollevò sopra un monte altissimo e gli disse: "Tutto questo ti darò se, prostrato, mi adorerai". Il diavolo volle tentare il Re dei secoli, dandogli la speranza di essere innalzato a re di tutta la terra; ma il Signore che creò il cielo e la terra, disprezzò il diavolo. C'è forse da meravigliarsi che il diavolo venga vinto dal Signore? Gesù rispose al diavolo ciò che tu stesso, come lui ti insegnò, devi rispondergli: "E' scritto: Adorerai il Signore Dio tuo e servirai a lui solo" (Mt. 4, 10).

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Se ricorderete queste parole e le praticherete, non avrete in voi la concupiscenza del mondo, non vi domineranno nè i desideri della carne, né la cupidigia degli occhi, né la brama dell'ambizione; allora farete maggiormente posto in voi alla carità che viene, e così amerete il Signore. Se invece ci sarà in voi l'amore del mondo, non potrà esservi l'amore di Dio. Conservate l'amore di Dio affinché restiate in eterno, così come Dio è eterno. Ciascuno è ciò che ama. Ami la terra? Sarai terra. Ami Dio? Dovrei concludere: sarai Dio, ma non oso dirlo io, e perciò ascoltiamo la Scrittura: "Io ho detto: Voi siete dei e figli tutti dell'Altissimo" (Sal. 81, 6). Se dunque volete essere dei e figli tutti dell'Altissimo, "non vogliate amare il mondo, né le cose che sono nel mondo. Poiché tutto ciò che è nel mondo, è desiderio della carne, concupiscenza degli occhi e ambizione terrena; e queste cose non provengono dal Padre, ma dal mondo": cioè dagli uomini che amano il mondo. E il mondo passa, come passano i suoi desideri; ma chi avrà fatto la volontà di Dio, resterà in eterno, come Dio stesso rimane in eterno (1 Gv. 2, 17).

III.

CRISTO E' NEI NOSTRI CUORI

Tocchiamo Cristo col cuore

1. Figlioli, questa è davvero l'ultima ora (1 Gv. 2, 18). Qui si rivolge ai fanciulli perché, essendo vicina l'ultima ora, si affrettino a crescere. L'età del nostro corpo non dipende dalla nostra volontà. Nessuno cresce nel corpo in conseguenza di un suo atto di volontà; allo stesso modo nessuno viene alla vita per effetto di un suo atto di volontà: dove invece la nascita dipende dalla volontà, da questa dipende anche la crescita. Ora nessuno nasce dall'acqua e dallo Spirito Santo, senza un suo atto di volontà. Perciò egli in questa vita cresce, se vuole, e parimenti, se vuole, decresce. Crescere significa progredire, decrescere significa regredire. Chi è conscio di aver avuto una nascita, si lasci chiamare fanciullo e infante, si attacchi con avidità alle poppe materne e subito crescerà. La Chiesa è una madre ed i suoi due Testamenti che formano le

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Scritture sono le mammelle. Da qui si attinga il latte dei misteri che sono avvenuti nel tempo per la nostra salvezza eterna; così ciascuno di noi, nutrito e corroborato, potrà giungere a mangiare quel cibo di cui è scritto: "In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio" (Gv. 1, 1). Cristo si è abbassato a divenire il nostro latte ed ancora lui stesso, che pure è uguale al Padre, è diventato nostro cibo. Ti nutre col latte affinché possa giungere anche a saziarti col pane. Toccare infatti Cristo spiritualmente col cuore, significa credere che egli è uguale al Padre.

2. Per questa ragione proibiva a Maria di toccarlo e le diceva: "Non mi toccare, poiché ancora non sono salito al Padre" (Gv. 20, 17). Che significano queste parole? Come mai si fece toccare dai discepoli e volle poi evitare il contatto con Maria? Non si tratta della stessa persona che disse al discepolo dubbioso: "Metti qui le tue dita e tocca le mie cicatrici" (Gv. 20, 27)? A quel tempo era forse già asceso al Padre? Perché dunque trattiene Maria e le dice: "Non toccarmi, non sono ancora asceso al Padre"? Dovremo forse dire che egli non ebbe timore di farsi toccare dagli uomini, mentre temette di farsi toccare dalle donne? Ma il suo contatto rende puro ogni corpo! Perché avrebbe dovuto temere di farsi toccare da quelli ai quali volle manifestarsi per primo? La sua risurrezione non fu forse rivelata agli uomini da alcune donne, cosicché il serpente venisse sconfitto dalla sua stessa tattica adoperata in modo opposto? Il serpente trasmise il suo messaggio di morte al primo uomo servendosi di una donna, ed è appunto per mezzo di una donna che fu annunciata agli uomini la vita. Perché dunque il Signore risorto non volle essere toccato? Per quest'unica ragione: voleva far capire che occorreva ormai toccarlo attraverso un contatto spirituale. Questo contatto appartiene soltanto al cuore puro. Tocca con cuore mondo il Cristo chi lo riconosce uguale al Padre. Chi ancora non riconosce la divinità di Cristo, si arresta alla sua carne e non raggiunge la sua divinità. Non è un gran chè arrivare a toccarlo come lo toccarono i persecutori che lo crocifissero. E' invece importante comprendere il Verbo, Dio presso Dio fin dal principio, per mezzo del quale tutte le cose sono state fatte; egli voleva essere conosciuto così, quando disse a Filippo: "Da tanto tempo, Filippo, sono con voi e non mi avete conosciuto? Colui che vede me, vede anche il Padre" (Gv. 14, 9).

3. Affinché nessuno sia pigro nel crescere, fate attenzione alle parole: "Figlioli, questa è davvero l'ultima ora. Orsù progredite, incominciate a correre, crescete: questa è l'ultima ora. E' un'ora assai lunga, ma è pur sempre l'ultima. Con queste parole l'apostolo intendeva indicarci gli ultimi tempi, poiché negli ultimi tempi verrà il Signore nostro Gesù Cristo. Alcuni potrebbero osservare: perché questi sarebbero gli ultimi tempi? Perché questa l'ultima ora? Prima deve venire l'Anticristo, poi il giorno del giudizio. Giovanni ha previsto queste obiezioni, e, affinché nessuno si sentisse tranquillo nella persuasione che questa non sia l'ultima ora, perché prima deve venire l'Anticristo, dice: e così come avete udito che verrà l'Anticristo, molti già fin d'ora sono divenuti anticristi (1 Gv. 2, 18). Sarebbe mai possibile che ci siano molti anticristi senza che sia giunta anche l'ultima ora?

Quanti si allontanano dall'unità non appartengono a Cristo

4. Ma chi sono quelli che l'apostolo chiama anticristi? 2. Lo dice in seguito. Da questo noi conosciamo che è l'ultima ora. Da che cosa dunque? "Dal fatto che molti sono diventati anticristi". Essi sono usciti dalle nostre file (1 Gv. 2, 18-19). Eccoli gli anticristi; essi "sono usciti dalle nostre file". Perciò piangiamo questa perdita.

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Ma ascolta ciò che ci consola: ma non erano dei nostri. Tutti gli eretici, tutti gli scismatici sono usciti dalle nostre file," sono usciti cioè dalla Chiesa. Non ne uscirebbero se fossero dei nostri. Non erano dunque dei nostri già prima di uscire. Ma se già prima di uscire non erano dei nostri, molti ce ne sono dentro, che pur non essendo ancora usciti, sono anticristi. Osiamo fare una simile considerazione: perché mai? Perché ciascuno di voi che è dentro la Chiesa, non sia un anticristo. Giovanni, come ora vedremo, ci descrive e ci indica chi sono gli anticristi. Ciascuno deve interrogare la propria coscienza e chiedersi se anche lui non sia un anticristo. Vediamo appunto chi sono gli anticristi. Anticristo in latino significa avversario di Cristo. Alcuni intendono questo termine nel senso di uno che verrà prima di Cristo, o inversamente colui dopo il quale deve venire il Cristo. Ma non è questo il vero significato del termine, che non va spiegato in questo modo. Anticristo è chi si rivela contrario a Cristo. Ma chi dobbiamo intendere come contrario di Cristo? Ammaestrati da Giovanni voi capite che soltanto gli anticristi possono uscire dalla Chiesa. Chi non è contrario a Cristo non può in nessun modo uscire dalla Chiesa. Chi non è contrario a Cristo, si trova unito al suo corpo e viene valutato come un suo membro. Le membra di un corpo non si mettono in opposizione tra di loro. Un corpo è integro quando ha in sè tutte le sue membra. Che dice l'Apostolo circa la concordia delle membra? "Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; se un membro è trattato con onore, tutte le membra gioiscono" (1 Cor. 12, 26). Se per l'onore reso a un membro anche gli altri gioiscono, e per la sofferenza di un membro tutte le membra soffrono, la concordia delle membra non permette che esistano gli anticristi. Ma ci sono di quelli che si trovano nel corpo di Cristo come gli umori cattivi nei corpi mortali - anche il corpo di Cristo abbisogna di cure di quando in quando, poiché godrà perfetta salute soltanto nel giorno della risurrezione dei morti -, quando il corpo li espelle da sè, allora ne sente sollievo. Quando i cattivi si allontanano dalla Chiesa, allora questa prova sollievo. Quando il corpo espelle e rigetta gli umori cattivi, pare che dica: questi umori sono usciti da me, ma non facevano parte del mio essere. Che significano queste parole? Significano che quegli umori cattivi mi opprimevano mentre erano in me, non già che essi sono stati tagliati via dal mio corpo.

La tentazione prova chi sono gli anticristi

5. Costoro uscirono dalle nostre file. Ma non rattristiamoci, perché essi "non erano dei nostri". Che prova ne abbiamo? Se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi (1 Gv. 2, 19). Da qui deduca la vostra Carità che molti, pur non essendo dei nostri, ricevono i sacramenti insieme con noi, come il Battesimo, ed insieme con noi ricevono ciò che solo i fedeli possono ricevere: le benedizioni, l'Eucaristia e tutte le grazie contenute nei sacramenti; anche la comunione dell'altare la ricevono insieme a noi, ma non sono dei nostri. La prova della tentazione svela che non sono dei nostri. Quando la tentazione li assale, vengono gettati lontano, come da una folata di vento; essi non erano buon grano. Sì, tutti costoro saranno spazzati via (è cosa che spesso dobbiamo ripetere), quando l'aia del Signore incomincerà ad essere vagliata nel giorno del giudizio finale. "Essi sono usciti dalle nostre file, ma non erano dei nostri, poiché se fossero stati dei nostri sarebbero rimasti con noi".

Carissimi, volete sapere perché si può dire con tutta certezza che quanti uscirono dalla Chiesa ma poi vi sono ritornati, non sono anticristi, cioè non sono contrari a Cristo? Ebbene, coloro che non sono anticristi, non possono restare fuori della Chiesa. E’ con un atto della sua volontà che ciascuno di noi decide di essere anticristo oppure di restare legato a Cristo. O siamo uno dei suoi membri o siamo nel novero degli umori

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cattivi. Chi diventa migliore fa parte del corpo; chi resta nella sua malizia, è umore cattivo e, quando verrà scacciato, ne sentiranno sollievo coloro che ne erano oppressi. "Da noi uscirono ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti ancora con noi"; ciò avvenne affinché risultasse chiaro che non tutti erano dei nostri (1 Gv. 2, 19). Ha perciò aggiunto: "affinché risultasse chiaro", perché essi stanno dentro, eppure non sono dei nostri. Non si vedono cioè, ma uscendo si manifestano.

Ma voi avete l'unzione dello Spirito, che vi aiuta a rivelarvi a voi stessi (1 Gv. 2, 20). Questa unzione spirituale è lo stesso Spirito Santo, il cui sacramento consiste nell'unzione visibile. Giovanni afferma che tutti coloro i quali hanno questa unzione di Cristo, conoscono i cattivi ed i buoni e non c'è bisogno che siano ammaestrati, perché l'unzione stessa li ammaestra.

6. Scrivo a voi, non perché ignoriate la verità ma perché la conoscete, e sapete che nessuna menzogna può venire dalla verità (1 Gv. 2, 21). Eccoci dunque avvertiti in che modo possiamo conoscere l'Anticristo. Chi è Cristo? E' la verità. Lo afferma lui stesso: "Io sono la verità" (l Gv. 14, 6). "Nessuna menzogna può venire dalla verità" e perciò chiunque mente, non appartiene a Cristo. Giovanni non dice: c'è una menzogna derivante dalla verità e c'è una menzogna che non deriva dalla verità. Prestate attenzione a ciò che afferma per non adulare e blandire voi stessi, e non ingannarvi nè illudervi: "Nessuna menzogna può venire dalla verità". Vediamo perciò di comprendere in che modo mentono gli anticristi, dato che non esiste un tipo solo di menzogna. Chi è il bugiardo se non chi dice che Gesù non è il Cristo? (1 Gv. 2, 22). Il nome di Gesù e quello di Cristo hanno due diversi significati. Gesù Cristo, nostro Salvatore, è evidentemente una sola persona, tuttavia il suo nome proprio è quello di Gesù, come Elia, Mosè ed Abramo ebbero un loro proprio nome, così il Signore nostro ha un suo nome proprio, Gesù. Invece il nome di Cristo designa una funzione di carattere sacro. Come quando di uno si dice che è profeta o che è sacerdote, così Cristo significa l'Unto, colui per mezzo del quale si sarebbe attuata la redenzione di tutto il popolo d'Israele. Il popolo giudaico attendeva nella speranza la venuta di questo Cristo, ma perché egli venne in umile aspetto, non fu riconosciuto. Egli era una piccola pietra e per questo essi finirono per inciampare contro di essa e ne rimasero feriti. Ora la pietra si è ingrandita ed è divenuta un gran monte (cf. Dan. 2, 35). Che cosa afferma la Scrittura? "Chiunque inciamperà contro questa pietra, ne sarà sfracellato; essa schiaccerà qualunque persona sopra la quale cadrà" (Lc. 20, 18). E' necessario esaminare bene queste parole. Il testo dice che chi urterà contro di essa verrà sfracellato, ed aggiunge che sarà schiacciata la persona sulla quale quella pietra cadrà. Poiché da principio egli venne nella umiltà, gli uomini urtarono contro di lui; poiché verrà nella gloria il giorno del giudizio, su chi egli cadrà, lo schiaccerà. Ma quando Cristo verrà, non schiaccerà colui che non ha schiacciato al momento della sua venuta. Chi non si è scontrato con lui, quando si presentò umile, non avrà paura di lui, allorché si presenterà in tutta la sua grandezza. Avete dunque sentito, fratelli miei; chi non urtò contro di lui, quando si presentò umile, non avrà paura di lui quando si presenterà in tutta la sua grandezza. Cristo è pietra di inciampo per i malvagi e ogni parola di Cristo ha per essi un sapore amaro.

Saremo suoi eredi, se ci terremo uniti al suo corpo

7. Udite allora e vedete. Tutti quelli che escono dalla Chiesa e si staccano dalla sua unità, sono senza alcun dubbio anticristi. Nessuno dubiti, perché ce lo ha indicato Giovanni stesso: "essi uscirono da noi ma non

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erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, certamente sarebbero rimasti con noi". Dunque chiunque non resta con noi, ma si allontana, è evidentemente un anticristo. Ma quale prova abbiamo che è un anticristo? Questa: la sua falsità. "Chi mai è il bugiardo, se non colui che dice che Gesù non è il Cristo?". Interroghiamo gli eretici: quale è mai l'eretico che afferma che Gesù è il Cristo? Faccia attenzione la vostra Carità a questo grande mistero. Considerate che cosa mi ha ispirato nostro Signore, che cosa vorrei farvi comprendere.

Ecco, uscirono dalla nostra Chiesa e sono diventati donatisti. Interroghiamoli e chiediamo loro se Gesù è il Cristo; subito risponderanno: certo, Gesù è il Cristo. Se anticristo è colui che dice che Gesù non è il Cristo, né essi possono dire che noi siamo anticristi, né noi possiamo affermare questo di loro, perché entrambi professiamo la medesima verità. Se dunque essi non dicono di noi che siamo eretici né noi di loro, ne deriva che noi non ci siamo divisi da loro né loro da noi. Noi però non siamo usciti dai nostri ranghi e restiamo nell'unità; ma se restiamo nell'unità, che ci stanno a fare due altari in questa nostra città? Perché abbiamo famiglie divise, matrimoni disuniti? che significa avere in comune il letto e non credere allo stesso e identico Cristo? Per questo ci ammonisce l'apostolo e vuole che abbiamo a confessare la verità. Una delle due: o essi hanno abbandonato le nostre file o noi abbiamo abbandonato le loro. L'idea che noi abbiamo abbandonato loro non deve neppure sfiorarci: noi possediamo il testamento dell'eredità del Signore, lo leggiamo ad alta voce e vi troviamo queste parole: "Ti darò le genti come tua eredità ed il tuo regno raggiungerà i confini della terra" (Sal. 2, 8). Noi possediamo l'eredità di Cristo, mentre essi non l'hanno. Essi non hanno aderenti su tutta la faccia della terra, non sono in comunione con tutti gli uomini redenti dal sangue del Signore. Noi invece possediamo il Signore stesso, risorto da morte, che si offrì ai discepoli dubbiosi perché lo toccassero con le loro mani. E siccome dubitavano ancora disse loro: "Era necessario che il Cristo soffrisse e risorgesse da morte il terzo giorno e nel suo nome si predicasse la penitenza e la remissione dei peccati". Dove? In qual modo? A chi? "A tutte le genti, incominciando da Gerusalemme" (Lc. 24, 46-47). Siamo certi che l'eredità del Signore è una sola. Chiunque non si trova in comunione con questa eredità, ne è uscito fuori.

Accogliamo Cristo e con le parole e con la vita

8. Ma non angustiamoci: "Essi uscirono da noi, ma non erano dei nostri; se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi". Se dunque uscirono dalle nostre file, sono essi gli anticristi e, perché tali, sono bugiardi e dicono che Gesù non è il Cristo. Torniamo così al nodo del problema. Interrogali pure tutti, ognuno risponderà che Gesù è il Cristo. L'Epistola che stiamo esaminando mette qui alle strette la nostra intelligenza, a causa di questo passaggio difficile. Voi certamente vedete il problema ed è problema che, se non ben capito, turba noi e loro. O siamo noi gli anticristi o sono loro. Essi ci chiamano anticristi e dicono che ci siamo allontanati da loro; da parte nostra noi diciamo altrettanto di loro. Ma gli anticristi ci sono indicati chiaramente dall'Epistola stessa. E' anticristo chiunque dice che Gesù non è il Cristo. Chiediamo allora chi di noi lo nega, e non fermiamoci alle parole ma ai fatti.

Se tutti fossero interrogati, tutti a una sola voce proclamerebbero che Gesù è il Cristo. Ma tacciano le parole e si interroghi invece la vita. Se nella Scrittura saremo capaci di scoprire un solo passo in cui è detto che si può negare non solo con la bocca ma anche coi fatti, troveremo allora molti anticristi che professano Cristo con la bocca ma si sono staccati da lui a causa dei loro costumi. Esiste un tale passo della Scrittura? Ascolta

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l'apostolo Paolo che parla appunto di costoro e dice: "Essi affermano di conoscere Dio, ma lo negano coi fatti" (Tit. 1, 16). Eccoli gli anticristi; chiunque nega Cristo coi fatti, è un anticristo. Non mi fermo a sentire le sue parole, ma guardo come vive. Le opere parlano da se stesse e staremo ancora a esaminare le parole? Esiste forse un uomo malvagio che non ci tenga a parlare bene? Sentite però che cosa dice il Signore di costoro: "Ipocriti, come potete parlare bene voi che siete cattivi?" (Mt. 12, 34). Fate giungere le vostre voci fino alle mie orecchie, ma io leggo nei vostri pensieri: in essi vedo la vostra malizia, mentre fate bella mostra del vostri frutti ingannatori. So bene da dove posso raccogliere: non colgo fichi dai rovi, non uva dalle spine. Ogni albero si riconosce dai frutti. Colui che confessa Cristo con la bocca e lo nega coi fatti e un anticristo peggiore degli altri. Egli è un bugiardo, perché dice diversamente da quel che fa.

Siamo noi gli autori del peccato

9. Pertanto, fratelli, se dobbiamo interrogare i fatti, non solo scopriamo che ci sono molti anticristi usciti dalle nostre file, ma che altri ce ne sono nascosti e non sono ancora partiti da noi. Quanti spergiuri, quanti ingannatori, quanti malfattori, quanti che si dedicano alle pratiche magiche, quanti adulteri, ubriaconi, usurai, imbroglioni, quante persone del genere, che neppure conviene nominare, la Chiesa tiene nel suo seno! Le azioni di questa gente sono contrarie alla dottrina di Cristo, al Verbo di Dio. Cristo è il Verbo di Dio: tutto quanto è contrario al Verbo di Dio, appartiene all'Anticristo.

L'Anticristo infatti è contrario a Cristo. Volete vedere come costoro resistono apertamente a Cristo? Avviene a volte che facciano del male e si tenta dapprima di correggerli: essi ancora non osano bestemmiare Cristo ma imprecano contro i suoi ministri, quelli appunto dai quali vengono ripresi. Se poi spieghi loro che le tue parole non sono altro che le parole di Cristo, fanno di tutto per convincerti che si tratta di parole tue, non delle parole di Cristo. Ma quando risulta evidente che tu ripeti le parole stesse di Cristo si lanciano contro Cristo e lo accusano. Vanno ripetendo: Perché ci ha creati quali siamo? Non è questo il linguaggio che tengono quotidianamente gli uomini che vengono messi davanti alle loro malefatte? Nella loro perversa volontà essi lanciano accuse contro il loro Creatore. Ma il Creatore grida loro dal cielo (è lui infatti che ci ha creati, lui che ci ha redenti): Chi ho mai creato? Io ho creato l'uomo, non l'avarizia; ho creato l'uomo, non il ladrocinio; l’uomo, non l'adulterio. Tu sai che le mie opere cantano la mia lode. Era proprio questo l'inno, che usciva dalla bocca dei tre fanciulli e li proteggeva dalle fiamme (cf. Dan. 3, 24-90). Le opere del Signore lodano il Signore; il cielo, la terra, il mare, lo lodano; lo loda tutto quanto sta in cielo; lo lodano gli angeli, le stelle, gli astri; tutte le creature viventi nelle acque lo lodano, tutti i volatili, tutti gli animali che si muovono sulla terra, tutti i rettili; tutte queste creature lodano il Signore. S'è mai udito che l'avarizia lodi il Signore? che dia lode al Signore l'ubriachezza, la lussuria, la frivolezza? Tutto ciò che nell'universo non dà lode al Signore non è stato fatto dal Signore. Correggi ciò che hai fatto, affinché si salvi ciò che in te fece il Signore. Se questo non vuoi farlo, se ami e resti attaccato ai tuoi peccati, tu sei nemico di Cristo. Non importa che tu sia dentro o fuori la Chiesa, sei un anticristo; dentro o fuori che tu sia, sei paglia. Perché allora non sei fuori? Perché non hai ancora incontrato il vento.

Esaminiamoci attentamente e purifichiamoci

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10. Ora è tutto chiaro, fratelli miei. Nessuno dica: "Non venero Cristo ma adoro Dio suo Padre". Chiunque nega il Figlio, non possiede né il Figlio, né il Padre; chi confessa il Figlio, ha il Figlio ed il Padre (1 Gv. 2, 23). Giovanni si rivolge qui a voi, che siete buon grano. Quelli che un tempo erano paglia ascoltino anche loro, e diventino grano. Ciascuno esamini la propria coscienza e si converta, se scopre che ama il mondo; diventi un amatore di Cristo, se non vuol essere un anticristo. Se si dice a qualcuno che è un anticristo, subito questi si adira e pensa che gli sia fatta ingiuria; minaccerà perfino di denunciare l'interlocutore che lo chiama anticristo. Ma Cristo gli dice: Abbi pazienza, se si tratta di una falsità gioisci insieme con me, perché anch'io sento dire cose false nei miei riguardi dagli anticristi; se si tratta invece di un'accusa vera, rientra in te stesso e se hai timore di udire ciò, temi ancor più di esserlo.

La vita eterna

11. Rimanga dunque in voi ciò che avete sentito dall'inizio. Se resterà in voi ciò che avete udito dall'inizio, anche voi resterete nel Figlio e nel Padre. Questa è la promessa che egli ci ha fatto (1 Gv. 2, 24). Avresti intenzione di chiedere il compenso e ti verrebbe da dire: Ecco, ciò che ho udito fin dall'inizio lo custodisco in me e l'osservo; per conservarmi così sostengo pericoli, fatiche, tentazioni. Con che frutto? Con che ricompensa? Che cosa mi darà il Signore per il fatto che mi vedo continuamente travagliato dalle tentazioni di questa vita? Qui non trovo un solo momento di quiete, la condizione mortale mi grava sull'anima ed il corpo che si lascia allettare mi trascina in basso: ma tutto io sopporto, purché resti in me ciò che ho udito dall’inizio e possa così dire al mio Dio: "Per restare fedele alle tue parole, mi sono mantenuto costantemente su strade difficili" (Sal. 16, 4). Ma con quale ricompensa?

Ascolta e non venir meno. Se stavi cedendo in mezzo alle prove, fatti coraggio pensando alla ricompensa promessa. Chi mai, lavorando in una vigna, si scorda di pensare alla paga che dovrà ricevere? Fa' che si dimentichi della paga, anche le sue mani resteranno inoperose. Il ricordo della mercede promessa rende perseveranti nel lavoro, persino quando chi t'ha fatto la promessa è un uomo che potrebbe ingannarti. Con quanto maggiore entusiasmo devi lavorare nel campo di Dio, dato che la promessa della ricompensa proviene dalla Verità stessa, che non può ritirarsi, né morire, né ingannare colui al quale ha promesso? E che cosa è stato promesso? Vediamo. Si tratta forse di oro, amatissimo dagli uomini di quaggiù o di argento? Si tratta di proprietà per le quali gli uomini spendono il loro oro, che pure amano assai? Si tratta di ridenti campagne, di case confortevoli, di numerosa servitù, di ricchi greggi? No, non è questa la ricompensa, in vista della quale il Signore ci esorta a resistere nelle prove. In che cosa consiste allora questa ricompensa? Nella vita eterna. Avete udito, e per la gioia avete gridato; ciò è avvenuto perché amate quel che avete sentito e quando giungerà anche per voi il riposo della vita eterna, sarete liberati dalle presenti fatiche. Ecco quel che Dio promette: la vita eterna. Ecco quel che Dio minaccia: il fuoco eterno. Quali parole dirà a quelli che saranno messi alla sua destra? "Venite, benedetti dal Padre mio, ricevete il regno che vi è stato preparato fin dall'origine del mondo". E a quelli che saranno alla sua sinistra, che dirà? "Andate al fuoco eterno, che fu preparato per il diavolo e per i suoi angeli" (Mt. 25, 34-41). Se ancora non ami il premio, temi almeno il castigo.

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Promesse di Dio e promesse del mondo

12. Ricordate dunque, fratelli miei, che Cristo ci ha promesso la vita eterna. "Questa è la promessa - dice l'apostolo Giovanni - che ci ha fatto": la Vita eterna. Vi ho scritto queste cose a proposito di quelli che vi portano fuori strada (1 Gv. 2, 26). Che nessuno vi conduca a perdizione, seducendovi: desiderate invece la promessa della vita eterna. Che cosa può promettere il mondo? Prometta pure ciò che vuole, la sua promessa è rivolta ad uno che forse domani potrà morire. E costui, come se ne partirà da questo mondo, per presentarsi a colui che resta in eterno? Ma qui c'è un prepotente che mi minaccia perché compia il male. Che cosa ti minaccia: il carcere, le catene, il fuoco, i tormenti? le bestie? Ti minaccia forse il fuoco eterno? Tu, temi ciò che minaccia l'Onnipotente, ama ciò che l'Onnipotente promette; allora tutto il mondo diventerà per te un nulla, tanto quando promette, come quando minaccia. "Vi ho scritto queste cose a proposito di coloro che vi portano fuori strada", affinché sappiate che voi avete l'unzione e l'unzione che abbiamo ricevuto da lui resta dentro di noi (1 Gv. 2, 27). L'effetto sacramentale dell'unzione è la virtù invisibile, l'unzione invisibile, cioè lo Spirito Santo: unzione invisibile è quella carità che resta in chiunque si trova, come una radice non soggetta a disseccarsi nonostante l'ardore del sole. Tutto quanto ha profonde radici, riceve nutrimento dal calore del sole, ma non si dissecca.

Il vero maestro sta dentro, dove nessuno può penetrare

13. Voi non avete necessità che qualcuno vi istruisca, perché la sua unzione vi istruisce su tutto (1 Gv. 2, 27). Fratelli, che cosa facciamo quando vi diamo questi insegnamenti? Se è la sua unzione quella che vi istruisce su tutto, il nostro è come un lavoro inutile. Perché tanta insistenza nell'istruirvi? Non è meglio affidarvi alla sua unzione, cosicché sia essa ad istruirvi? E' una domanda che pongo a me ed all'apostolo Giovanni. Si degni l'apostolo di ascoltare questo fanciullo che gli rivolge una domanda. Domando dunque a Giovanni: Coloro ai quali tu rivolgevi queste parole, avevano già l'unzione? Tu hai detto: "la sua unzione vi istruisce su tutto". Perché allora hai scritto ad essi questa lettera? Perché istruirli? perché ammaestrarli? perché edificarli?

C’è qui un grande mistero sul quale occorre riflettere, fratelli. Il suono delle nostre parole percuote le orecchie, ma il vero maestro sta dentro. Non crediate di poter apprendere qualcosa da un uomo. Noi possiamo esortare con lo strepito della voce, ma se dentro non v'è chi insegna, inutile diviene il nostro rumore. Ne volete una prova, fratelli miei? Ebbene, non è forse vero che tutti avete udito questa mia predica? Quanti saranno quelli che usciranno di qui senza aver nulla appreso? Per quel che mi riguarda, ho parlato a tutti; ma coloro dentro i quali non parla quell'unzione, quelli che lo Spirito non istruisce internamente, se ne vanno via senza aver nulla appreso. L'ammaestramento esterno è soltanto un ammonimento, un aiuto. Colui che ammaestra i cuori ha la sua cattedra in cielo. Egli perciò dice nel Vangelo: "Non vogliate farvi chiamare maestri sulla terra: uno solo è il vostro maestro: Cristo" (Mt. 23, 8-9). Sia lui dunque a parlare dentro di voi, perché lì nessun uomo può penetrare. Se qualcuno può mettersi al tuo fianco nessuno può stare nel tuo cuore. Nessuno dunque vi stia nel tuo cuore, solo Cristo. Vi resti la sua unzione, perché il tuo cuore assetato non rimanga solo e manchi delle acque necessarie ad irrigarlo. E'

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dunque il maestro interiore colui che veramente istruisce, è Cristo e la sua ispirazione ad istruire. Quando manca la sua ispirazione e la sua unzione, le parole esterne fanno soltanto un inutile strepito.

Le parole che noi facciamo risuonare di fuori, fratelli, sono quello che un agricoltore è rispetto ad un albero. L'agricoltore lavora l'albero dall'esterno: vi porta l'acqua, lo cura con attenzione; ma, qualunque sia lo strumento esterno che usa, sarà mai lui a dar forma ai frutti dell'albero? lui a rivestire i rami nudi dell'ombra delle foglie? è forse lui che opera simili trasformazioni dall'interno? E chi è a compiere tali cose? Udite l'Apostolo che si paragona ad un giardiniere, considerate che cosa siamo, e ascoltate il maestro interiore: "Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che fa crescere. Né colui che pianta né colui che irriga conta qualcosa, ma colui che fa crescere, Dio" (1 Cor. 3, 6-7). Ecco ciò che vi diciamo: quando piantiamo ed irrighiamo, istruendovi con la nostra parola, non siamo niente; è Dio che fa crescere, è la sua unzione che su tutto vi istruisce.

IV.

ED E' VERACE

Dio parla all'anima

1. Ricordate, fratelli, che la lettura di ieri si è arrestata alle parole: "Voi non avete necessità che alcuno vi istruisca, perché la sua unzione vi istruisce su tutto" (1 Gv. 2, 27). Sono certo che vi ricordate di quanto vi ho spiegato: che cioè noi parliamo ai vostri orecchi dal di fuori e siamo come agricoltori che curano l'albero dall'esterno, incapaci di dare incremento e formare i frutti; colui che invece vi ha creato e redento, che vi ha chiamato ed abita in voi per mezzo della fede e dello Spirito Santo, se non è lui a parlarvi nell'intimo, un vano rumore saranno le nostre parole. Da che cosa risulta questa constatazione? Dal fatto che, pur essendo molti, gli ascoltatori non tutti si persuadono di quanto vien detto; restano persuasi soltanto quelli ai quali Dio stesso parla nell'intimo. Ma Dio parla nell'intimo a quelli che gli fanno posto; ora fanno posto a Dio quelli che non lasciano posto dentro di sè al diavolo. Il diavolo vuole abitare nel cuore degli uomini e da lì suggerire loro parole capaci di ingannarli. Ma sentite che cosa dice il Signore Gesù: "Il principe di questo mondo è stato cacciato fuori" (Gv. 12, 31). Da dove? Dal cielo o dalla terra? Fuori dal mondo creato? No, è

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stato cacciato via dal cuore dei credenti. Una volta estromesso l'invasore, è il Redentore che deve abitare nei cuori, poiché chi ci ha creati ci ha anche redenti. Il diavolo deve limitarsi ormai a combattere dal di fuori e non può vincere colui che regna nell'intimo. Egli combatte dal di fuori, insinuando tentazioni varie: ama colui al quale Dio parla nell'intimo e possiede quell'unzione di cui vi ho parlato, non lo ascolta.

Fedele è il Signore

2. Essa (la sua unzione) - dice Giovanni - è verace. Cioè, lo Spirito del Signore che ammaestra gli uomini non può mentire. Essa non è menzognera. Rimane nell'insegnamento che essa vi ha dato. O figlioli, rimanete in lui, affinché quando egli si manifesterà, possiamo avere fiducia di fronte a lui e non abbiamo a restare confusi nel giorno del suo ritorno (1 Gv. 2, 27-28). Ecco, fratelli miei: noi crediamo in quel Gesù che i nostri occhi non hanno veduto. A noi Gesù lo hanno annunciato coloro che l'hanno visto, l'hanno toccato con le loro mani, hanno udito le parole uscite dalla sua bocca. E perché comunicassero a tutti gli uomini queste verità, furono inviati da lui; non osarono infatti andare di loro iniziativa. Dove furono mandati? L'avete sentito dalla lettura del Vangelo: "Andate, predicate il Vangelo ad ogni creatura che è sotto il cielo" (Mc. 16, 15).

I discepoli furono dunque inviati in ogni parte del mondo, con la testimonianza di prodigi e segni miracolosi perché gli uomini credessero in loro, dato che riferivano cose da loro stessi viste. Noi crediamo in colui che non abbiamo visto coi nostri occhi, e ne aspettiamo il ritorno. Chiunque lo aspetta con fede, sarà ripieno di gioia, quando tornerà; ma quelli che sono senza fede, resteranno pieni di vergogna, quando tornerà colui che essi ora non vogliono vedere. La loro vergogna non durerà un giorno solo e subito finirà, come solitamente capita quando uno prova vergogna per essere stato sorpreso in qualche colpa ed è investito dal disprezzo degli altri; quella vergogna invece caccerà alla sinistra del giudice quelli che ne saranno colpiti per ascoltare le parole: "Andate al fuoco eterno, che fu preparato per il diavolo e per i suoi angeli" (Mt. 25, 41). Restiamo dunque fedeli alla sua parola, affinché non abbiamo a rimanere confusi quando tornerà. Egli infatti nel Vangelo a quelli che avevano creduto in lui dice: "Se rimarrete nelle mie parole, sarete veramente miei discepoli" (Gv. 8, 31). E quasi gli chiedessero: con quale vantaggio? "Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi" (Gv. 8, 32). Attualmente la nostra salvezza è oggetto di speranza, perché ancora non si è realizzata; ancora non possediamo ciò che è stato promesso, ma speriamo che si compirà. Colui che ha fatto questa promessa è fedele, non ti inganna: tocca a te unicamente non mancargli di fiducia, ma attendere la realizzazione delle sue promesse. La verità non conosce inganni. Non voler essere tu il bugiardo, altra cosa professando ed altra cosa facendo; conserva la fede e lui manterrà fede alla sua promessa. Se non avrai conservato la fede, sarai stato tu a defraudarti, non certo chi ti ha fatto la promessa.

Confessiamoci peccatori

3. Se voi sapete che egli è giusto, sappiate che chiunque si comporta giustamente, è nato da lui (1 Gv. 2, 29). Attualmente la nostra giustizia deriva dalla fede. La giustizia perfetta si trova solo negli angeli, e forse a

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stento anche in loro, se li paragoniamo con Dio. Ma se esiste una giustizia relativamente perfetta nelle anime e negli spiriti creati da Dio, questa si trova negli angeli buoni, santi e giusti, che non hanno abbandonato Dio con nessun peccato, non sono caduti in atti di superbia, ma sono sempre rimasti fedeli nella contemplazione del Verbo di Dio, non avendo altra consolazione che la visione di colui dal quale sono stati creati. In questi angeli noi troviamo la perfetta giustizia, mentre in noi si trova quella giustizia che ha avuto inizio dalla fede secondo lo Spirito.

Allorché leggevamo il salmo, avete sentito queste parole: "Incominciate a lodare il Signore con la confessione" (Sal. 146, 7). Il salmista dunque ci dice di incominciare: l’inizio della nostra giustizia e la confessione dei nostri peccati. Se hai incominciato a non scusare il tuo peccato, già hai dato inizio alla tua giustificazione: essa diventerà poi perfetta, quando il tuo unico diletto sarà la giustizia, e la morte sarà assorbita nella vittoria, nè più ti attirerà la concupiscenza, né si avrà più in te la lotta contro la carne ed il sangue e tu avrai la corona della vittoria, il trionfo sul nemico: allora ci sarà anche in te la perfetta giustizia. Per il momento dobbiamo ancora combattere e se combattiamo significa che ancora ci troviamo nello stadio; possiamo infliggere ferite ma anche essere feriti, ed aspettiamo di vedere chi sarà il vincitore. Ora vincitore è colui che riesce a ferire, non facendo affidamento sulle sue forze, ma sulla parola di Dio. Il diavolo ci combatte da solo. Noi vinciamo il diavolo, se stiamo vicini a Dio. Se pretendi di opporti da solo al diavolo, sarai sconfitto. Egli è un avversario avveduto ed esperto. Quante vittorie ha al suo attivo! Guarda da quale altezza ci ha precipitati: per farci nascere mortali, riuscì a scacciare dal paradiso i nostri progenitori. Che fare dunque, dal momento che egli è tanto agguerrito? Invochiamo l'Onnipotente contro il diavolo, contro un nemico così agguerrito. Abiti in te colui che non può essere vinto, e certamente vincerai chi è solito vincere. Su chi il diavolo riesce sempre a vincere? Su colui nel quale non abita il Signore. Adamo, infatti, mentre era nel paradiso disprezzò, come sapete, il comando del Signore e divenne superbo, desiderando essere indipendente, non più soggetto alla volontà di Dio; e così decadde dalla sua condizione di immortalità e di beatitudine. Ci fu un tempo un uomo agguerrito, anche se mortale, che, sedendo nello sterco tra putridi vermi, vinse il diavolo: fu Adamo stesso che lo vinse nella persona di Giobbe, essendo questi un suo discendente. Adamo, quando era nel paradiso, subì la sconfitta; quando invece si trovò nello sterco, conseguì la vittoria. Quando era nel paradiso diede ascolto alle parole seducenti della donna, che in lei erano state insinuate dal diavolo; ma quando si trovò in mezzo allo sterco, egli disse ad Eva: "Hai parlato da donnetta stolta" (Giob. 2, 10). Là, nel paradiso si lasciò suggestionare, ma qui seppe rispondere a tono; quando era in condizioni di felicità, si lasciò convincere; ma quando si trovò in mezzo alla prova, ottenne la vittoria. Fate perciò attenzione, fratelli, alle parole successive di questa Epistola; ci viene raccomandato di vincere il diavolo, ma non da soli. "Se sapete che egli è giusto - ci dice l'apostolo Giovanni - sappiate che chi agisce con giustizia è nato da lui cioè da Dio, da Cristo. Parlando di chi "è nato da lui", è a noi che si rivolge. Dunque, per il fatto di essere nati da lui, già siamo perfetti.

Cristiani di nome, non di fatto

4. Ascoltate: Ecco quale amore ci donò il Padre: che siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo in realtà (1 Gv. 3, 1). Quanti vengono chiamati figli e non lo sono, che vantaggio hanno dal nome, se manca in loro la realtà? Quanti si dicono medici, e non sanno curare i malati! Quanti hanno il nome di custodi, ma dormono tutta la notte! Allo stesso modo molti si dicono cristiani, ma in definitiva non lo sono, non sono ciò che il loro nome

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significa, non lo sono nella vita, non nei costumi, nella fede, nella speranza, nella carità. Ricordate, o fratelli, quanto avete udito: "Ecco quale amore ci donò il Padre: che siamo chiamati figli di Dio, e lo siamo in realtà". Per questo il mondo non ci conosce; dal momento che il mondo non ha conosciuto il Padre, non conosce neanche noi (1 Gv. 3, 1). Il mondo è tutto cristiano e in pari tempo è tutto empio; gli empi infatti sono sparsi in tutto il mondo e lo stesso si verifica per le persone pie: ma gli uni non conoscono gli altri. Come facciamo a dire che non si conoscono a vicenda? Per questo: che gli empi lanciano insulti contro coloro che vivono bene. Fate bene attenzione perché questi tali si trovano forse anche in mezzo a voi. Ciascuno di voi già vive religiosamente, già disprezza le cose del secolo, non va agli spettacoli, non si ubriaca come si trattasse di un rito, non si degrada nelle impudicizie (e la cosa è molto grave) durante le feste dei santi col pretesto di ottenere il loro patrocinio. Perché mai, dunque, chi non vuole più compiere tali azioni viene insultato da chi le compie? Chi li insulterebbe, se fossero rettamente conosciuti? Perché allora non sono conosciuti? Perché il mondo non conosce il Padre. Chi sono coloro che formano il mondo? Evidentemente quelli che abitano il mondo, così come diciamo "la casa" intendendo parlare dei suoi abitatori. Queste cose già le abbiamo dette e ripetute, né ci stanchiamo di ripeterle. Quando sentite parlare del mondo in senso cattivo, dovete intendere solo gli amatori del mondo. Essi abitano nel mondo in quanto lo amano; e poiché lo abitano, hanno anche meritato di assumerne il nome. Il mondo perciò non ci conosce, perché non conosce il Padre. Gesù stesso camminava per le strade del mondo ed era Dio in carne umana, Dio nascosto nella debolezza della carne. Perché mai non fu riconosciuto? Perché rimproverava a ciascuno i suoi peccati. Gli uomini, attaccati ai piaceri del peccato, non potevano riconoscere Dio: amando ciò che la febbre suggeriva loro, facevano ingiuria al medico.

Siamo figli di Dio

5. Ma noi che faremo? Già siamo nati da lui, ma poiché restiamo ancora nella speranza, l’apostolo ha aggiunto: Dilettissimi, ora siamo figli di Dio. Lo siamo già fin d'ora? Che cosa allora dobbiamo aspettare, se già siamo figli di Dio? Non ancora ci è stato rivelato ciò che saremo. Saremo qualcosa di diverso da ciò che sono i figli di Dio? Ascoltate le parole che seguono: Sappiamo che quando apparirà, saremo simili a lui, poiché lo vedremo così come egli è (1 Gv. 3, 2). Comprenda la vostra Carità la grandezza di questo concetto: "sappiamo che quando apparirà, saremo simili a lui, poiché lo vedremo così come egli è". Fate attenzione e vedete chi è qui indicato con la parola: "è". Già voi sapete chi viene così chiamato. Viene detto "è" non soltanto chi è di nome ma chi è anche di fatto; chi ha un essere immutabile, eterno, incorruttibile; un essere che non migliora perché già perfetto, né diminuisce perché eterno. Che significa: "In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio e Dio era il Verbo" (Gv. 1, 1)? Che significano queste altre parole: "Egli pur sussistendo in forma Divina non giudicò un'usurpazione essere uguale a Dio" (Fil. 2, 6)? I cattivi possono vedere Cristo nella sua forma divina, come il Verbo di Dio, l’Unigenito del Padre, l’uguale al Padre; ma i cattivi anche loro invece poterono vederlo come Verbo fatto carne: questo perché nel giorno del giudizio lo vedranno anche loro, perché allora verrà a giudicare, così come era venuto per essere giudicato. Egli è, nella medesima forma, uomo e Dio. Dice la Scrittura: "Sia maledetto l'uomo che mette la sua speranza nell'uomo" (Ger. 17, 5). Egli venne come uomo, per essere giudicato, e come uomo verrà a giudicare. Se fosse impossibile vederlo, perché mai è stato scritto: "Guarderanno a colui che hanno trafitto" (Gv. 19, 37)? Degli empi infatti è detto che lo vedranno e saranno confusi. In che senso allora, non potranno vederlo, quando il Signore metterà alcuni alla sua destra ed altri alla sua sinistra? A quelli che metterà alla sua destra dirà: "Venite, benedetti del Padre mio, possedete il Regno" (Mt. 25, 34). A quelli di sinistra dirà invece:

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"Andate al fuoco eterno" (Mt. 25, 41). Essi vedranno allora in Cristo solo l'aspetto del servo, non vedranno la sua forma di Dio. Perché? Perché sono empi ed il Signore stesso dice: "Beati i puri di cuore perché vedranno Dio" (Mt. 5, 8). Godremo dunque di una visione, fratelli, mai contemplata dagli occhi, mai udita dagli orecchi, mai immaginata dalla fantasia: una visione che supererà tutte le bellezze terrene, quella dell'oro, dell'argento, dei boschi e dei campi, del mare e del cielo, del sole e della luna, delle stelle e degli angeli; la ragione è questa, che essa è la fonte di ogni altra bellezza.

Il desiderio di Lui dilata le nostre anime

6. Che saremo dunque, allorché lo vedremo? Che ci è stato promesso? "Saremo simili a lui, perché lo vedremo com'è". La lingua non è riuscita ad esprimersi meglio, ma il resto immaginatelo con la mente. Che cosa sono le rivelazioni di Giovanni messe a confronto con Colui che è? Che cosa possiamo esprimere noi che siamo creature assolutamente impari alla sua grandezza?

Torniamo adesso a parlare della sua unzione, di quell'unzione che ci insegna interiormente ciò che a parole non possiamo esprimere. Non potendo voi ora vedere questa visione, vostro impegno sia desiderarla. La vita di un buon cristiano è tutta un santo desiderio.

Ma se desideri una cosa, ancora non la vedi, e tuttavia, attraverso il desiderio, dilati la tua capacità di comprensione, cosicché potrai essere riempito quando giungerai alla visione. Ammettiamo che tu debba riempire un grosso sacco e sai che è molto voluminoso l'oggetto che ti sarà dato; ti preoccupi di allargare il sacco o l'otre o qualsiasi altro tipo di recipiente, più che puoi; sai quanto hai da metterci dentro e vedi che il recipiente è piccolo; allargandolo lo rendi più capace. Allo stesso modo Dio con l'attesa allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l'animo e dilatandolo lo rende più capace. Viviamo dunque, o fratelli, di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti. Ammirate l'apostolo Paolo che dilata le capacità della sua anima, per poter accogliere ciò che verrà. Dice infatti: "Non ch'io abbia già raggiunto il fine o sia perfetto; non penso di avere già raggiunto la perfezione, o fratelli" (Fil. 3, 1). Ma allora che cosa fai, Paolo, in questa vita, se non hai raggiunto la soddisfazione del tuo desiderio? "Una sola cosa faccio: inseguo con tutta l'anima la palma della vocazione celeste, dimentico di ciò che mi sta dietro, proteso invece a ciò che mi sta davanti" (Fil. 3, 13-14). Ha dunque affermato di essere proteso in avanti e di tendere al fine con tutto se stesso. Comprendeva bene di essere ancora incapace di accogliere ciò che occhio umano non vide, né orecchio intese, né fantasia immaginò. In questo consiste la nostra vita: esercitarci col desiderio. Saremo tanto più vivificati da questo desiderio santo, quanto più recideremo i nostri desideri dall'amore del mondo. Già l'abbiamo detto più volte: il recipiente da riempire deve essere svuotato. Tu devi essere riempito dal bene: liberati dunque dal male. Supponi che Dio ti voglia riempire di miele: se sei pieno di aceto, dove metterai il miele? Bisogna gettar via il contenuto del vaso, anzi bisogna addirittura pulire il vaso, pulirlo anche a fatica coi detersivi, perché si presenti atto ad accogliere questa realtà misteriosa. La chiameremo impropriamente oro, la chiameremo vino. In qualunque modo cercheremo di definire questa realtà indefinibile, sappiamo che essa ha un nome: Dio. E quando diciamo Dio, che cosa intendiamo dire? Son forse queste due sillabe tutto quello che aspettiamo? Qualunque cosa dunque siamo stati capaci di dire,

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essa è al di sotto della realtà: dilatiamo la nostra anima in lui, così che ci possa riempire, quando verrà. "Saremo infatti simili a lui, perché lo vedremo così com'è."

La pazienza rafforza il desiderio

7. Ed ognuno che ha questa speranza in lui... (1 Gv. 3, 3). Vedete come ci ha posto nella speranza. Considerate la perfetta armonia tra il pensiero dell'apostolo Paolo e quello del suo confratello nell'apostolato. "Nella speranza - afferma san Paolo - noi siamo salvati. La speranza che si vede, non è speranza. Se uno vede qualcosa, come può sperarla? Se dunque speriamo ciò che non vediamo, attendiamolo nella pazienza" (Rom. 8, 24-25). La pazienza da parte sua mette in esercizio il desiderio. Anche a te tocca mantenerti costante, dal momento che Dio sempre resta; persevera nel cammino verso di lui, e lo raggiungerai; egli infatti, verso cui sei indirizzato, non si allontanerà. Vedete: "chiunque spera in lui", si rende puro, così come egli è puro (1 Gv. 3, 3). Vedete come Dio non distrugge il libero arbitrio; dice infatti "e si rende puro". Chi ci rende puri, se non Dio? Ma Dio non ti purifica, se tu non lo vuoi. Per il fatto che congiungi la tua volontà alla volontà di Dio, tu rendi puro te stesso. Questo non si verifica in forza della tua capacità, ma per merito di Colui che viene ad abitare dentro di te. Siccome però in questi atti c'è una parte che va ascritta alla tua volontà, anche a te ne è attribuito il merito. Ma in tal modo che tu debba dire col salmo: "Sii tu il mio aiuto, non abbandonarmi" (Sal. 26, 9). Se dici "Sii tu il mio aiuto", significa che qualche cosa stai facendo; perché se nulla fai, in che modo Dio potrebbe aiutarti?

8. Chiunque commette un peccato commette anche una iniquità (1 Gv. 3, 4). Nessuno dica: il peccato è una cosa, l'iniquità è un'altra; nessuno dica: io sono peccatore, ma non una persona iniqua. Perché: "chiunque commette un peccato, commette anche una iniquità". Il peccato è una iniquità. Che faremo dunque dei nostri peccati e delle nostre iniquità? Ascolta che cosa aggiunge Giovanni: Voi sapete che Gesù si è rivelato per togliere via il peccato, e che in lui non c'è peccato (1 Gv. 3, 5). Proprio colui che non ha in se peccato, è venuto a togliere il peccato. Se il peccato si trovasse anche in lui, occorrerebbe toglierlo da lui, ed egli non sarebbe in grado di toglierlo agli altri. Chiunque rimane in lui, non pecca. Nella misura in cui uno rimane in lui, non pecca. Chiunque pecca, non l'ha visto, né l'ha conosciuto (1 Gv. 3, 6). Qui sorge un grande problema: "Chiunque pecca, non l'ha visto, ne l'ha conosciuto". Non c'è da meravigliarsi per questo. Noi non l'abbiamo visto, ma lo vedremo un giorno; non l'abbiamo conosciuto, ma lo conosceremo; noi crediamo però in uno che non abbiamo conosciuto. Forse vuol dire che lo conosciamo per fede ma non lo conosciamo ancora nella visione? No, perché è nella fede che noi l'abbiamo visto e conosciuto. Se non lo vedessimo per mezzo della fede, perché saremmo detti "illuminati"? C’è una illuminazione che si attua con la fede e c’è una illuminazione che si attua nella visione diretta. Finché dura il pellegrinaggio terreno, noi non camminiamo nella visione, ma nella fede. Anche la nostra giustizia si attua dunque nella fede, non già nella visione, e sarà perfetta quando raggiungeremo la visione. Per ora non dobbiamo abbandonare la giustizia che proviene dalla fede, perché "il giusto vive di fede" (Rom. 1, 17), ci dice l'Apostolo. "Chiunque rimane in lui non pecca"; infatti "chi pecca, non l'ha visto, né l'ha conosciuto". Chi pecca è uno che non crede, perché se credesse, per quanto dipende dalla sua fede, non peccherebbe.

Divenire simili a Dio

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9. Figlioli, nessuno vi seduca. Chi fa la giustizia e giusto, proprio come lui è giusto (1 Gv. 3, 7). Sentendo dire che noi siamo giusti "come lui", ci riterremo forse uguali a Dio? Dovete capire bene il significato di quel "come". Giovanni aveva detto poco prima: "chi crede in lui si rende puro, così come egli è puro". La nostra purezza sarebbe uguale alla purezza di Dio, la nostra giustizia alla giustizia di Dio? Chi potrebbe affermare ciò? In realtà non sempre il "come" implica una eguaglianza. Poniamo il caso che qualcuno, dopo aver ammirato questa grande basilica, volesse costruirne una più piccola e tuttavia proporzionata alle misure di questa, in modo che se la lunghezza di questa è doppia della larghezza, anche l'altra rispetti le medesime proporzioni: noi potremmo dire che egli ha inteso costruire la seconda basilica come la prima. La prima tuttavia misura cento cubiti, mentre la seconda soltanto trenta; questa, nei confronti dell'altra, è dunque uguale e disuguale ad un tempo. Vedete allora che il "come" non sempre implica parità ed uguaglianza. Eccovi un altro esempio. Notate anche voi quanta differenza passi tra la faccia di un uomo e la sua immagine vista nello specchio: una faccia riflessa nell'immagine ed una che appartiene al corpo reale, l'immagine che è una realtà di imitazione e il corpo che è una vera sostanza. Che dire dunque? In una, come nell'altra, ci stanno gli occhi e così anche gli orecchi. Siamo di fronte a due realtà ben diverse ma il "come" viene usato per indicare una somiglianza. Anche noi dunque portiamo l'immagine di Dio; non è quella che possiede il Figlio, uguale al Padre, e tuttavia se anche noi, secondo la nostra umile proporzione, non fossimo come lui, non si potrebbe assolutamente dire che siamo simili a lui. Egli ci rende puri, come lui è puro: ma egli è puro fin dall'eternità, noi lo siamo per mezzo della fede. Siamo giusti come è giusto lui: ma egli lo è nella immutabilità e perpetuità della sua natura, noi lo siamo attraverso la fede in lui che non vediamo, affinché un giorno possiamo vederlo. E quando sarà perfetta la nostra giustizia, allorché saremo diventati simili agli angeli, neppure allora questa nostra giustizia sarà uguale alla sua. Quanto dunque distiamo da lui, se neppure allora si potrà parlare di uguaglianza?

10. Chi commette il peccato, viene dal diavolo, poiché il diavolo pecca fin dall'inizio (1 Gv. 3, 8). Questa frase, "viene dal diavolo", sapete che significa che il peccatore imita il diavolo. Nessuno di noi è stato fatto dal diavolo; egli non ha generato nessuno; nessuno ha creato; eppure chi imita il diavolo, è come se fosse nato da lui, diventa suo figlio imitandolo, anche se non nasce propriamente da lui. In che modo sei figlio di Abramo? Forse perché ti ha generato? Così i giudei, che erano figli di Abramo, non avendone imitata la fede, sono diventati figli del diavolo: essi sono nati da Abramo secondo la carne, ma non ne hanno imitato la fede. Se essi dunque, che da lui sono nati, sono stati diseredati per non averlo voluto imitare, tu diventi figlio suo, pur non essendo nato da lui, se lo imiti. E se avrai imitato il diavolo nella sua superbia e nella sua empietà contro Dio anche se egli non ti ha creato né ti ha generato, sarai figlio del diavolo, appunto perché lo imiti.

11. Per questo si è manifestato il Figlio di Dio (1 Gv. 3, 8). Tutti i peccatori dunque, fratelli, sono nati dal diavolo, proprio perché peccatori. Adamo fu creato da Dio, ma quando ascoltò il diavolo fu come se in quel momento fosse nato dal diavolo; e generò i suoi discendenti tutti uguali a sé. Siamo nati con la concupiscenza e, prima ancora di aggiungere i nostri debiti, nasciamo con quella condanna. Se nasciamo senza peccato, perché mai corriamo a far battezzare i bambini per liberarli dal peccato? Considerate dunque con attenzione, fratelli, queste due natività: quella di Adamo e quella di Cristo. Sono due uomini di cui l'uno è uomo soltanto, l'altro è uomo-Dio. Siamo peccatori, in quanto discendiamo da colui che è solo uomo, ma veniamo giustificati da colui che è uomo-Dio. La prima natività ci consegnò alla morte, questa ci

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ha innalzati alla vita; la prima porta con sé il peccato, la seconda ce ne libera. Cristo-uomo è venuto infatti per distruggere i peccati degli uomini. "Per questo si è manifestato il Figlio di Dio", per distruggere le opere del diavolo.

12. Affido alla vostra Carità le parti che rimangono da spiegare, perché non voglio esservi di peso. Perché ci diciamo peccatori? Ecco la questione che ci interessa e per risolvere la quale ci stiamo affaticando. Se uno dice di essere senza peccato è bugiardo. In questa stessa Epistola di Giovanni abbiamo trovato queste parole: "Se dicessimo di non aver alcun peccato inganneremmo noi stessi". Ricordatele bene queste parole, dette dianzi: "Se dicessimo di non aver alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi" (1 Gv. 1, 8). Ed ecco qui lo stesso pensiero, espresso nelle seguenti parole: chi è nato da Dio non pecca: chi fa il peccato non ha visto Dio, ne l’ha conosciuto. Chi fa il peccato viene dal diavolo (1 Gv. 3, 8-9). Il peccato non viene da Dio. Di nuovo, una questione che ci turba. Come è possibile che, essendo nati da Dio, ci confessiamo peccatori? Dovremmo dire che non siamo nati da Dio? Che cosa allora producono i Sacramenti nei bambini? Giovanni non ci ha forse detto che "chi nasce da Dio, non pecca"? Ma in altra occasione egli ci ha ammonito: "Se dicessimo di non aver alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi". La questione è grave e difficile. Richiamo l'attenzione della vostra Carità, perché v'impegniate a risolverla. La discuteremo domani nel nome del Signore e secondo i lumi che egli ci darà.

V.

CHI E' NATO DA DIO

Apparente contraddizione

1. Vi prego di ascoltarmi attentamente, perché dobbiamo trattare di un problema di non poca importanza. Ieri siete stati attenti, sono certo che siete venuti anche oggi disposti a prestare la massima attenzione. Questo è il nostro problema non piccolo: come conciliare due dichiarazioni contenute nella nostra Epistola. La prima è: "Chi è nato da Dio, non pecca" (1 Gv. 3, 9); la seconda, precedente a questa: "Se dicessimo di non aver alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi" (1 Gv. 1, 8). Che farà chi si sente coartato da queste due affermazioni della stessa Epistola? Se si confesserà peccatore, deve temere

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che gli si dica: è segno che non sei nato da Dio, perché sta scritto: "Chi è nato da Dio, non pecca". Se si dichiara giusto e senza peccato, viene colpito dall'altra frase della stessa Epistola: "Se dicessimo di non aver alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi". Posto in questa alternativa egli non sa che dire, ammettere o confessare. E' pericoloso ed anche falso dichiararsi senza peccato. "Inganneremmo noi stessi — dice l'Epistola — e la verità non sarebbe in noi, se dicessimo di non aver alcun peccato". Volesse il cielo che di peccati tu non ne avessi, e che potessi confessarlo! Saresti nella verità e, dicendo ciò che è vero, non commetteresti la più piccola iniquità! Ma appunto fai male a dire che non hai peccati, perché dici una menzogna: "Se dicessimo di non aver alcun peccato, la verità non sarebbe in noi". Il testo non dice: "non abbiamo avuto" peccati, per non farci credere che parli solo della nostra vita passata. Si potrebbe infatti pensare che questa persona abbia commesso peccati, ma da quando è nata da Dio, non ne ha più commessi. Se le cose stessero così, sarebbe eliminato ogni problema. Potremmo dire: siamo stati peccatori, ma ora siamo stati giustificati; abbiamo avuto il peccato, ma ora non più. Giovanni non si è espresso in questi termini. Che cosa ha detto? "Se dicessimo che non abbiamo alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi". Un poco più oltre afferma: "Chi è nato da Dio non pecca". Giovanni stesso, non si può dubitarlo, era nato da Dio. Se si dicesse che non era nato da Dio colui che posò il suo capo sul petto del Signore, chi mai potrà attendersi quel rinnovamento interiore di se stesso, che neppure riuscì a meritare chi posò il suo capo sul petto del Signore? E' mai possibile che il Signore non abbia rigenerato, per mezzo dello Spirito Santo, solo colui che più degli altri amava (Gv. 13, 23)?

Non amare è la radice di tutti i peccati

2. Prestate ora attenzione a queste parole; vi ripeto ancora le mie difficoltà, perché il Signore per merito appunto della vostra attenzione, che è preghiera per noi e per voi, voglia allargarci la via e condurci all'uscita. Questo anche perché non capiti che qualcuno trovi motivo di perdersi proprio per quella parola di Dio, che è stata predicata e scritta per la nostra guarigione e salvezza.

Dice dunque Giovanni: "Chiunque commette un peccato, commette una iniquità" (1 Gv. 3, 4). Non si possono separare: "l’iniquità è peccato". Non puoi dire: io sono peccatore, ma non sono iniquo. "Il peccato è una iniquità. Voi sapete che egli si è manifestato per togliere via il peccato, e che in lui non c'è peccato" (1 Gv. 3, 5). E quale vantaggio ci arreca il fatto che egli sia venuto senza aver peccati? Ecco: "Chi non pecca, rimane in lui; chiunque pecca, non l'ha visto, né conosciuto. Figlioli, nessuno vi inganni. Chi fa la giustizia, è giusto, al pari di lui" (1 Gv. 3, 6-7). Son cose che già abbiamo detto, ed abbiamo anche spiegato che questo "come" non implica uguaglianza ma solo una certa somiglianza. "Chi fa il peccato, viene dal demonio, perché il demonio pecca fin dall'inizio" (1 Gv. 3, 8). Abbiamo anche detto che il diavolo non ha creato, né generato nessuno. Ma i suoi imitatori sono come i figli che nascono da lui. "Per questo si è manifestato il Figlio di Dio, per distruggere le opere del diavolo" (1 Gv. 3, 8). Cioè: colui che non ha peccato è venuto a distruggere i peccati.

Giovanni, proseguendo, dice: "Chi è nato da Dio non pecca", perché in lui rimane il seme di Dio, ed egli non può peccare, perché viene da Dio (1 Gv. 3, 9). Queste parole "non pecca", ci legano strettamente e ci fanno sorgere il dubbio che egli abbia voluto riferirsi ad un peccato particolare e non al peccato in genere.

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Quando egli disse: "Chi è nato da Dio, non pecca", volle forse significare un determinato e preciso peccato, che l'uomo nato da Dio non può commettere: un peccato di tale natura che, commettendolo, riconferma anche tutti gli altri; non commettendolo, vengono distrutti ed eliminati anche tutti gli altri. Qual è questo peccato? Quello di operare contro il comandamento. Qual è il comandamento? Questo: "Io vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate l'un l'altro" (Gv. 13, 14). Comprendetemi: questo comandamento di Cristo si chiama amore ed in virtù di questo amore vengono eliminati i peccati. Non attuare questo amore è grave peccato e costituisce la radice di tutti gli altri peccati.

La carità copre la moltitudine dei peccati

3. Comprendetemi, fratelli; vi abbiamo proposto, se vi sforzate di capirla, la soluzione del nostro problema iniziale. Ma vogliamo forse avanzare soltanto con i più veloci, e abbandonare quelli che vanno più lenti? Chiariamo il nostro pensiero con parole che lo rendano accessibile a tutti. Sono certo, fratelli, che un uomo che pensi realmente agli interessi della sua anima, non entra con leggerezza a far parte della Chiesa, e lo fa per uno scopo ben preciso: non per ricercare le cose temporali e neppure perché voglia dedicarsi agli affari di questo mondo, ma perché vuol trovare la strada per giungere a possedere quel bene eterno che gli è stato promesso. Bisogna che ognuno osservi come procede nel suo cammino, se si arresta, se torna indietro, se sbaglia strada, se corre il rischio di non arrivare a causa del suo passo claudicante. L'uomo sollecito del proprio bene, sia che proceda lentamente, sia che corra, non deve abbandonare la giusta via. Ho detto dunque che le parole: "Chi è nato da Dio, non pecca", vanno riferite ad un determinato peccato, perché diversamente sarebbero in contraddizione con questa altra affermazione: "Se dicessimo di non aver alcun peccato, inganneremmo noi stessi, e la verità non sarebbe in noi". La soluzione del problema può essere questa. C'è un peccato che non può essere commesso da chi è nato da Dio: se uno si astiene da esso, sono tolti anche tutti gli altri peccati; ma se uno lo commette, anche tutti gli altri peccati vengono rafforzati.

Qual è questo peccato? Agire contro il comandamento di Cristo, contro il testamento nuovo. E qual è questo comandamento nuovo? "Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate l'un l'altro". Non osi gloriarsi e neppure dirsi nato da Dio, chi agisce contro la carità e l'amore fraterno: chi invece è costante nell'amore fraterno, certi peccati non li può commettere e particolarmente quello di odiare il proprio fratello. Che ne sarà allora degli altri peccati, dei quali fu detto: "Se dicessimo di non aver alcun peccato, inganneremmo noi stessi, e la verità non sarebbe in noi"? Ebbene c'è un'affermazione rassicurante al riguardo, contenuta in un altro passo della Scrittura: "La carità copre una moltitudine di peccati" (1 Pt. 4, 8).

La carità perfetta

4. Vi raccomandiamo dunque la carità; essa costituisce la raccomandazione fondamentale di questa Epistola. Che cosa chiese il Signore, dopo la sua Risurrezione, a Pietro, se non: "mi ami tu?" e non si contentò di chiederglielo una volta, ma una seconda volta gli pose la stessa domanda, e una terza volta, ancora la stessa domanda. Anche se Pietro alla terza identica domanda si mostrò rattristato, quasi non

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ammettendo che il Signore ignorasse i suoi sentimenti, tuttavia il Signore gli pose questa domanda, e la prima, e la seconda, e la terza volta. La paura tre volte rinnegò e tre volte l'amore confessò. Pietro dunque ama il Signore. Che cosa si appresta a dare al Signore? Non avrà anch'egli avuto il suo cuore in pena, leggendo le parole del salmo: "Che cosa restituirò al Signore per tutto quello che mi ha dato?" (Sal. 115, 12). L'autore di queste parole del salmo sentiva quanto fossero grandi i doni ricevuti da Dio, per questo cercava che cosa restituire a Dio e non la trovava. Qualunque cosa si scelga per ricambiarlo, la si è ricevuta da lui, per ridarla a lui. Che cosa trovò il salmista per ricambiare il Signore? L'abbiamo già detto, proprio ciò che aveva ricevuto da Dio stesso, e perciò disse: "Prenderò il calice della salvezza ed invocherò il nome del Signore" (Sal. 115, 13). E chi gli aveva dato questo calice della salvezza, se non lo stesso Signore cui voleva restituirlo? Prendere il calice della salvezza ed invocare il nome del Signore significa essere ricolmi di carità in tale pienezza che si è pronti non solo a non odiare il fratello, ma a morire per lui. Sta qui la perfezione della carità, nell'esser pronti a morire per il fratello. Il Signore ha dato l'esempio di questa carità, morendo per tutti e pregando per quelli che lo crocifiggevano col dire: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Lc. 23, 24). Se fosse stato lui solo ad agire così, senza avere dei discepoli che lo imitassero, non sarebbe stato un vero maestro. I suoi discepoli invece, seguendo il suo esempio, fecero esattamente come lui. Mentre Stefano veniva lapidato, stando in ginocchio disse: "Signore, non imputare loro questo peccato" (Atti, 7, 60). Egli esercitava l'amore verso quelli che lo uccidevano, e per essi moriva. Hai l'esempio anche dell'apostolo Paolo, che dice: "Io mi sacrificherò interamente per le vostre anime" (2 Cor. 12, 15). Egli era tra coloro per i quali Stefano pregava, nel momento in cui essi lo facevano morire.

Questa dunque è la carità perfetta. Chi avesse una carità tanto grande da essere pronto a morire per i fratelli, avrebbe raggiunto la carità perfetta. Questa carità è forse già perfetta al momento stesso in cui nasce? No, nasce per diventare perfetta. Perciò, una volta nata viene nutrita, e nutrita si irrobustisce per diventare perfetta. Quando raggiunge la perfezione quali sono le sue parole? Queste: "Per me vivere è Cristo e la morte è un guadagno. Desidero morire per essere con Cristo, cosa di gran lunga migliore; tuttavia è necessario per il vostro bene ch'io rimanga nella carne" (Fil. 1, 21-24). Egli voleva vivere per quelli in favore dei quali era pronto a morire.

Imitare la carità di Cristo

5. Per far sapere che questa è la perfetta carità contro cui l'uomo nato da Dio non si oppone e contro la quale non pecca, il Signore disse a Pietro: "Pietro, mi ami tu?". E quello rispose: "Ti amo" (Gv. 21, 17). Non gli disse: — se mi ami, obbediscimi. Il Signore, quando era in questa nostra carne mortale, provò la fame e la sete e in quel tempo in cui provava la fame e la sete accettò l'ospitalità: quelli che ne avevano la possibilità gli offrirono le loro cose, come leggiamo nel Vangelo. Zaccheo lo ricevette in casa sua, e fu guarito dalla sua malattia dal medico che aveva accolto. Da quale malattia? Dall'attaccamento al denaro. Era una persona ricchissima, un capo dei pubblicani. Ma, eccolo risanato dalla malattia dell'avarizia. Disse: "Io dò ai poveri la metà dei miei beni, e se a qualcuno ho tolto qualcosa, gli restituisco il quadruplo" (Lc. 19, 6-8). Conserva per sé l'altra metà, non per godersela, ma per pagarsi i debiti. Egli accolse il medico in casa, infatti il Signore si era sottomesso alla fragile condizione carnale, cosicché gli uomini potessero prestargli tale aiuto materiale; e questo perché volle ricambiare coloro che lo accudivano: fu lui, infatti, a giovare loro, e non loro a lui. Non è lui il Signore al quale gli Angeli prestano servizio? Aveva forse bisogno di essere

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assistito dagli uomini? Neppure Elia, che era suo servitore, abbisognava di un'assistenza del genere, poiché Dio gli mandava pane e carne attraverso un corvo. Tuttavia, per portare a una pia vedova la divina benedizione, questo servo di Dio viene mandato da lei e si fa rifocillare da lei, lui che era nutrito segretamente dal Signore stesso (cf. 1 Re, 17, 4-9). E' vero che i soccorritori dei servi di Dio che prendono a cuore i loro bisogni, fanno il proprio interesse, perché hanno in mente il premio che il Signore promette loro nel Vangelo con chiarissime parole: "Chi accoglie un giusto, in quanto tale, riceverà la ricompensa del giusto; chi riceve un profeta, in quanto profeta, riceverà la ricompensa di un profeta; e chi darà un bicchiere di acqua fresca ad uno di questi piccoli, perché sono miei discepoli, vi assicuro, non perderà la ricompensa" (Mt. 10, 41-42). Benché dunque ricavino un loro vantaggio a comportarsi così, al Signore che doveva ascendere in cielo, essi non potevano più rendergli neppure questi servizi. Pietro, che l'amava, che cosa poteva fare per lui? Questo: "Pasci le mie pecore" (Gv. 21, 15), cioè cerca di fare ai fratelli quello che io ho fatto per te. Io li ho redenti tutti col mio sangue, voi da parte vostra non esitate a morire per confessare la verità, affinché gli altri vi imitino.

La carità è il distintivo del cristiano

6. Questa, o fratelli, come abbiamo detto, è la carità perfetta; la possiede chi è nato da Dio. Cerchi la vostra Carità di capire il mio pensiero. Il battezzato ha ricevuto il sacramento della sua nascita spirituale; possiede un sacramento, grande, divino, santo, ineffabile. Esso è tanto grande che fa nascere un uomo nuovo, con la remissione di tutti i peccati. Ma il battezzato deve esaminare se il rito del suo battesimo eseguito sul suo corpo sia perfetto anche nella sua anima; esamini se possiede la carità, e solo allora dica: —io sono nato da Dio. Se non la possiede, egli porta soltanto il carattere di cristiano, ma è un disertore che scappa. Gli occorre la carità, altrimenti non può definirsi nato da Dio. Il battezzato obbietta: ho o non ho ricevuto il sacramento? Ascolta l'Apostolo: "Se conoscessi tutti i misteri, se possedessi tutta la fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, sono un niente" (1 Cor. 13, 2).

7. Se ricordate, abbiamo già affermato, proprio all'inizio della lettura di questa Epistola, che essa null'altro raccomanda che la carità. Anche se Giovanni tratta ora questo, ora quest'altro argomento, sempre poi ritorna su questo punto, volendo ricondurre alla carità tutto quello che dice. Vediamo se anche ora fa così. Fa' attenzione a queste parole: "Chi è nato da Dio, non pecca". Ci domandiamo di quale peccato si tratti; non certo di qualunque peccato, perché saremmo in contraddizione con l'altro passo che dice: "Se dicessimo di non aver alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi". Ci dica dunque qual è questo peccato, ci istruisca, perché io non venga giudicato temerario nell'asserire che esso è la violazione della carità, come si può ricavare dalle sue stesse parole precedenti: "Chi odia suo fratello, è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre hanno accecato i suoi occhi" (1 Gv. 2, 11). Forse ha dato ulteriori spiegazioni affermando esplicitamente che si tratta della carità. Vedete che tutti questi diversi modi di esprimersi portano alla medesima conclusione. "Chiunque è nato da Dio, non pecca, perché in lui rimane il seme di Dio". Il seme di Dio è la parola di Dio, per cui l'Apostolo può dire: "Io vi ho generato per mezzo del Vangelo" (1 Cor. 4, 15). Quest'uomo non può peccare, perché nato da Dio. Ma ci dica l'apostolo in che senso non può peccare. A questo segno sono riconoscibili i figli di Dio e i figli del diavolo. Chi non è giusto, non viene da Dio ed altrettanto chi non ama il proprio fratello (1 Gv. 3, 9-10). E' ormai chiaro perché dica a chi non ama il proprio fratello: Solo l'amore dunque distingue i figli di Dio dai

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figli del diavolo. Se tutti si segnassero con la croce, se rispondessero Amen e cantassero tutti l'Alleluia, se tutti ricevessero il Battesimo ed entrassero nelle chiese, se facessero costruire i muri delle basiliche, soltanto la carità farebbe distinguere i figli di Dio dai figli del diavolo. Quelli che hanno la carità sono nati da Dio, quelli che non l'hanno non sono nati da Dio. E' questo il grande segno, il grande criterio di discernimento. Se tu avessi tutto, ma ti mancasse quest'unica cosa, a nulla ti gioverebbe ciò che hai; se non hai le altre cose, ma possiedi questa, tu hai adempiuto la legge. "Chi infatti ama il prossimo - l'Apostolo, - ha adempiuto la Legge; e il compimento della Legge è la carità" (Rom. 13, 8-10).

La carità è, a mio parere, la pietra preziosa, scoperta e comperata da quel mercante del Vangelo, il quale per far questo, vendette tutto ciò che aveva (Mt. 13, 46). La carità è quella pietra preziosa, senza la quale nulla ti giova qualunque cosa tu possegga; se invece possiedi soltanto la carità, essa sola ti basta. Adesso vedi per mezzo della fede, ma un giorno vedrai direttamente. Se amiamo fin da ora il Signore che non vediamo, come l’ameremo quando lo vedremo direttamente? Ma in quale campo dobbiamo esercitare questo amore? In quello della carità fraterna. Potresti dirmi: Non ho mai visto Dio; non potrai però dirmi: Non ho mai visto un uomo. Ama dunque il fratello. Se amerai il fratello che vedi, potrai contemporaneamente vedere Dio, poiché vedrai la carità stessa, e Dio abita nella carità.

La carità non è invidiosa.

8. Chi non è giusto, non viene da Dio; così chi non ama il fratello. Perché questo è il messaggio. Vedi come insiste: "questo è il messaggio" che abbiamo udito fin dall’inizio: di amarci scambievolmente (1 Gv. 3, 11). Ci svela la fonte di questo suo insegnamento: chi agisce contro questo mandato, si rende colpevole di un gravissimo peccato, in cui cadono quelli che non sono nati da Dio. Non come Caino che veniva dal maligno e uccise il proprio fratello.. Perché l’uccide? Perché le sue opere erano malvagie, giuste invece quelle del fratello (1 Gv. 3, 12). Se c’è invidia, non può esserci amore fraterno. Comprenda la Carità vostra. Chi è dominato dall’invidia, non è uno che ama. C’è in lui il peccato del diavolo che fece cadere l’uomo perché ne aveva invidia. Il diavolo era caduto e aveva invidia di quelli che rimanevano in piedi. Non fece cadere per potersi lui rialzare, ma per non cadere lui solo. Tenete bene in mente, conforme alle precisazioni dell’Apostolo, che nella carità non può esserci invidia. Egli te lo dice chiaramente quando fa l’elogio della carità: "La carità non è invidiosa" (1 Cor. 13, 4) Caino non aveva carità, e se anche Abele non l’avesse avuta, Dio non avrebbe gradito il suo sacrificio. Ambedue avevano offerto un sacrificio: il primo con i frutti della terra, il secondo con i capi del gregge; ma non dovete pensare che Dio abbia disprezzato i frutti della terra per preferire i capi di bestiame. Dio non guardò alle mani che offrivano, ma lesse nel cuore e guardò benevolo colui che gli offriva il sacrificio con un cuore pieno di amore; distolse invece gli occhi dall’altro che gli offriva sacrifici con cuore invidioso. Dunque le opere buone di Caino non sono altro, secondo Giovanni, che la sua carità; le opere cattive di Caino altro non sono che il suo odio contro il fratello. E’ troppo poco dire che odiò il fratello ed ebbe invidia delle sue opere: non volle imitarlo e per questo l’uccise. Da qui apparve figlio del diavolo, mentre l’altro apparve in quella occasione il giusto di Dio. Dalla carità, fratelli, si distinguono gli uomini. Nessuno si fermi alle parole, ma badi ai fatti ed ai sentimenti del cuore. Se uno non agisce rettamente verso i suoi fratelli, mostra che cosa porta dentro di sé. Gli uomini vengono messi alla prova per mezzo delle tentazioni.

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Il mondo ci odia.

9. Non vogliate meravigliarvi, fratelli, se il mondo ci odia (1 Gv. 3, 13). Bisogna forse ripetervi di continuo che cosa è il mondo? Non è il cielo, né la terra, né le opere fatte da Dio; sono invece gli uomini che amano il mondo. A qualcuno sembrerò noioso perché ripeto queste cose di continuo; ma il mio ripeterle non mi sembra inutile perché, se domandassi a qualcuno se ne ho mai parlato fino ad ora, temo che non saprebbe rispondermi. Dunque voglio che qualcosa resti, a furia di ripeterlo, nel cuore degli ascoltatori. Che cosa è il mondo? Il mondo, preso nel suo significato cattivo, sono gli amatori del mondo; nel suo significato buono esso è il cielo e la terra, sono le opere che vi si trovano; perciò si dice: "Il mondo è stato fatto per mezzo di lui" (Gv 1, 10). Così il mondo è tutta la terra, come lo stesso Giovanni ebbe a dire: "Egli non solo è propiziatore dei nostri peccati, ma di quelli di tutto il mondo "(1 Gv. 2, 2), cioè, di tutti i fedeli sparsi sulla terra. Ma il mondo, nel suo significato cattivo, sono gli amatori del mondo. Coloro che amano il mondo, non possono amare i fratelli.

Chi ama passa dalla morte alla vita

10. Se il mondo ci odia: noi sappiamo... che cosa sappiamo? ... che siamo passati dalla morte alla vita... da che cosa lo sappiamo?... perché amiamo i fratelli (1 Gv. 3, 14). Nessuno interroghi l'altro; Ciascuno invece rientri in se stesso: se vi troverà la carità fraterna, stia sicuro: è infatti passato dalla morte alla vita. Sta già "alla destra". Non badi se per il momento la sua gloria è ancora nascosta; quando verrà il Signore, allora apparirà nella gloria. Egli vive e cresce, ma siamo ancora nell'inverno; viva è la radice ma i rami sembrano aridi; dentro c'è il midollo vivo, dentro sono ancora racchiuse le foglie degli alberi; dentro si celano ancora i frutti; essi attendono l'estate. Dunque "noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli". Chi non ama, rimane nella morte. Perché non pensiate, fratelli, che sia cosa da nulla odiare o non amare, ascoltate quanto segue: Chiunque odia suo fratello, è un omicida. Se uno non dava peso finora all'odio fraterno, potrà ora dar poco peso all'omicidio che commette nel suo cuore? Ancora non ha alzato le mani per uccidere, ma già dal Signore viene considerato un omicida; la sua vittima vive ancora ed egli è già stato giudicato come un omicida. "Chiunque odia suo fratello è un omicida". E voi sapete che ogni omicida non ha in se stesso la vita eterna (1 Gv. 3, 15).

11. Noi conosciamo il suo amore a questo segno. Qui vuole intendere la perfezione dell'amore, quella perfezione che vi abbiamo raccomandato. "Noi conosciamo il suo amore a questo segno", che cioè egli ha dato la sua vita per noi, e anche noi dobbiamo dar la vita per i nostri fratelli (1 Gv. 3, 16). Ecco da dove veniva quella domanda: "Pietro, mi ami? pasci le mie pecore" (Gv. 21, 15). Perché comprendiate che voleva che Pietro pascesse le sue pecore fino a dare per esse la vita, subito gli disse: "Quando eri giovane, ti cingevi e andavi dove volevi; quando invece sarai vecchio, un altro ti cingerà e ti porterà dove non vorrai. Questo disse - aggiunge l'evangelista - per indicare la morte con la quale avrebbe glorificato il Signore" (Gv. 21, 18-19). Egli insegnava a dare la vita per le pecore a colui al quale aveva detto: "Pasci le mie pecore".

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L'inizio della carità

12. Da dove ha inizio la carità, fratelli? Prestate un poco di attenzione: voi avete sentito in che consiste la sua perfezione; il Signore nel Vangelo ci ha presentato il fine e la misura della carità: "Non c'è carità più grande di chi dà la vita per i suoi amici" (Gv. 15, 13). Nel Vangelo dunque ci rivelò la perfezione della carità, e qui ce la raccomanda. Ma interrogate voi stessi e chiedetevi: Quando possiamo avere questa carità? Non voler disperare troppo presto di te stesso: la carità in te forse è appena nata, non s'è ancora perfezionata; nutrila, perché non abbia a venir meno. Forse potrai dirmi: da dove traggo la conoscenza di essa? Abbiamo sentito in che consiste la sua perfezione; sentiamo da dove trae inizio.

Giovanni prosegue e dice: Se uno possiede dei beni di questo mondo e vede il proprio fratello nel bisogno e gli chiude il cuore, come l'amore di Dio può essere in lui? (1 Gv. 3, 17). Ecco da dove prende inizio la carità. Se ancora non sei pronto a morire per il fratello, sii disposto a dare al fratello un poco dei tuoi beni. La carità scuota il tuo cuore, così che ti faccia agire non con iattanza d'animo ma con interiore abbondanza di misericordia; allora la tua attenzione si volgerà sopra chi si trova nel bisogno. Se non riesci infatti a dare il superfluo al fratello, come potrai dare per lui la tua vita? Hai addosso del denaro che i ladri ti possono sottrarre e se non te lo toglieranno i ladri lo lascerai alla tua morte, quand'anche non sia lui ad abbandonarti, mentre sei ancora in vita. Che ne farai poi? Tuo fratello ha fame, vive nel bisogno, forse attende con ansietà, forse è assalito da un creditore. Lui non ha nulla, tu hai; è tuo fratello, siete stati insieme redenti, medesimo il prezzo del vostro riscatto, ambedue redenti dal sangue di Cristo: vedi dunque di aver misericordia di lui) se possiedi beni di questo mondo. Ma forse dirai: che me ne importa? Dovrei io dare il mio denaro, perché quello non soffra molestie? Se la tua coscienza ti suggerisce queste domande, l'amore del Padre non abita in te. Ma se non abita in te l'amore del Padre, tu non sei nato da Dio. Come potrai gloriarti di essere cristiano? Ne porti il nome, ma non ne possiedi i fatti. Se invece le opere terranno dietro al nome, ti chiamino pure pagano: da parte tua dimostra di essere cristiano coi fatti. Se non ti mostri cristiano coi fatti e tutti ti chiamano cristiano, che giovamento ti reca il nome, quando ad esso non corrisponde nulla? "Se uno possiede beni di questo mondo, e vede il proprio fratello nel bisogno e gli chiude il cuore, come l'amore di Dio può essere in lui?". E segue: Figlioli, non amiamo con le parole soltanto e con la lingua, ma con le opere e la verità (1 Gv. 3, 18).

13. Credo di avervi mostrato, fratelli miei, un grande, indispensabile e misterioso sacramento. Ogni passo della Scrittura insegna quanto vale la carità; ma non so se vi è al riguardo un ammaestramento maggiore di quello che ci offre questa Epistola. Vi preghiamo e vi scongiuriamo nel Signore di conservare nella memoria le cose che avete udite: vi preghiamo di ritornare con volontà attenta per udire ciò che ancora resta da dire a commento di tutta l'Epistola. Aprite il vostro cuore al buon seme; estirpate le spine, affinché quanto viene seminato non abbia ad esserne soffocato, ma cresca piuttosto in messe buona; ne goda l'agricoltore e vi prepari il granaio come si fa per il frumento, non il fuoco come si fa per la paglia.

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VI.

FIGLIOLI, NON AMIAMO...

Carità incipiente e carità perfetta

1. Ricordate, fratelli, che ieri abbiamo chiuso il nostro discorso con il seguente passo dell'Epistola, che indubbiamente deve essere rimasto e deve rimanere ancora nel nostro cuore, perché fu proprio l'ultimo che avete ascoltato: "Figlioli, non amiamo soltanto con le parole e con la lingua, ma con le opere e la verità". Poi prosegue: A questo segno conosciamo che siamo dalla verità e rassicureremo davanti a lui il nostro cuore: infatti, se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa, Dio è più grande del nostro cuore e tutto conosce (1 Gv. 3, 18-20). L'apostolo aveva detto: "Non amiamo con le parole soltanto e con la lingua, ma con le opere e la verità!". Il problema è di sapere attraverso quali opere ed attraverso quali verità si riconosce colui che ama Dio ed il proprio fratello. Già in precedenza aveva detto a quali altezze giunge la carità nella sua perfezione, e ciò che anche il Signore dice nel Vangelo: "Non c'è amore più grande di chi dà la propria vita per i suoi amici" (Gv. 15, 13). Anche Giovanni aveva detto la stessa cosa: "Come egli diede la propria vita per noi, così anche noi dobbiamo dare la nostra vita per i fratelli" (1 Gv. 3, 16). Questa è veramente la perfezione della carità; e non può essercene una maggiore.

Ma poiché la carità non è perfetta in tutti, colui che ancora non l'ha portata a perfezione, non deve disperare, se essa, destinata poi ad essere perfezionata, già è nata in lui. Se è nata, va nutrita e portata alla sua perfezione con gli alimenti che le sono adatti. Ci siamo domandati da dove trae origine la carità e subito nell'Epistola abbiamo trovato questa risposta: "Se uno possiede dei beni di questo mondo e vede il proprio fratello nel bisogno e gli chiude il cuore, come l'amore di Dio può essere in lui?" (1 Gv. 3, 16-17). Da qui comincia dunque questa carità: dare all'indigente i beni superflui, quando costui si trova stretto dalle angustie; liberare il fratello dalle tribolazioni temporali, usando quei beni temporali di cui disponiamo in abbondanza. Da qui comincia la carità. Se, così iniziata, la nutrirai con la parola di Dio e con la speranza della vita futura, raggiungerai la perfezione della carità che ti renderà pronto a dare la tua vita per i fratelli.

Testimonianza interiore

2. Ma considerando che un tale genere di atti sono compiuti anche da chi ha tutt'altre aspirazioni e non ama i fratelli, richiamiamoci alla testimonianza della coscienza. Come provare che molte di queste azioni vengono compiute da coloro che non amano i fratelli? Quanto sono numerosi quelli che, pur essendo tra gli eretici e gli scismatici, si dicono martiri! Credono di dar la vita per i fratelli. Ma se dessero la vita per i

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fratelli, non si staccherebbero dalla universale comunità dei fratelli. Inoltre, quanta gente, per ostentazione, non si dà a distribuire e a donare beni e ricchezze: ma in questo loro fare non cercano altro che la lode degli uomini e il plauso popolare fatto di vento, estremamente instabile! Quale sarà il banco di prova della carità fraterna, dato che esistono persone simili? Giovanni vuole che la carità sia sottoposta alla prova e perciò ammonisce: "Figlioli, non amiamo soltanto con la parola e con la lingua, ma con le opere e la verità". Ma quali sono queste opere, in che consiste questa verità? Può esserci un'opera più evidentemente caritatevole del soccorrere i poveri? Molti lo fanno per essere ammirati, non per amore. Può esserci maggiore amore del morire per i fratelli? Molti vogliono far apparire che fanno questo, per l'ambizione di farsi un nome, non per viscere d'amore. Non resta che questa conclusione: ama il fratello colui che, davanti a Dio, là dove soltanto penetra il suo sguardo, rassicura il suo cuore e si chiede nell'intimo se veramente è mosso ad agire così per amore del fratello; e quell'occhio che penetra nel cuore, là dove l'uomo non può giungere, gli rende testimonianza. Per questo l'apostolo Paolo, poiché era pronto a morire per i fratelli, poteva dire: "Io darò tutto per le vostre anime" (2 Cor. 12, 15), ma poiché Dio solo vedeva queste disposizioni del suo cuore, non già gli uomini a cui si rivolgeva, egli dice loro: "Per me conta assai poco essere giudicato da voi o da un tribunale umano" (1 Cor. 4, 3). Egli in un altro passo dimostra ancora che tali gesti clamorosi a volte nascono dalla vanagloria, non dal fondamento della carità: quando infatti fa l'elogio della carità afferma: "Se distribuissi ai poveri tutti i miei beni, e dessi il mio corpo alle fiamme, se non ho la carità, questo non mi giova a nulla" (1 Cor. 13, 3). Può qualcuno fare queste cose, senza avere la carità? Sì, lo può. Quanti non hanno la carità, hanno rotto l'unità: cercate fra loro e vedrete che molti di loro danno tanti dei loro beni ai poveri; vedrete altri pronti ad accettare la morte così che, poiché manca chi li perseguita, essi stessi fanaticamente la ricercano. E' fuori dubbio che questi tali agiscono senza carità.

Ritorniamo dunque alla coscienza, della quale dice l'Apostolo: "La nostra gloria è questa: la testimonianza della nostra coscienza" (2 Cor. 1, 12). Ritorniamo alla coscienza, della quale egli dice ancora: "Ciascuno esamini dunque le sue opere, ed allora "avrà in se stesso l'occasione di gloriarsi, e non in un altro" (Gal. 6, 4). Ognuno di noi dunque esamini le sue opere, se provengono dalla sorgente della carità, se i rami delle buone opere fioriscono dalla radice dell'amore. "Ciascuno dunque esamini le sue opere, ed allora avrà in se stesso l'occasione di gloriarsi e non in un altro": non quando la lingua di un altro dà a lui testimonianza, ma quando gliel'offre la sua coscienza.

Possiamo nasconderci agli uomini, non a Dio

3. Ecco dunque quanto Giovanni ci raccomanda: "A questo segno conosciamo che siamo nati dalla verità" quando cioè amiamo non soltanto con le parole e con la lingua ma con le opere e nella verità —, "e rassicureremo davanti a lui il nostro cuore" (1 Gv. 3, 19). Che significa: "davanti a lui"? Là dove lui solo vede. Per cui il Signore stesso nel Vangelo dice: "Guardatevi dal praticare la vostra giustizia davanti agli uomini, per essere veduti da loro, altrimenti non avrete ricompensa dal Padre vostro che è nei cieli" (Mt. 6, 1). Che significano le parole: "La tua sinistra non sappia quel che fa la tua destra" (Mt. 6, 3), se non questo: che la destra rappresenta la coscienza pura, la sinistra invece rappresenta la brama delle cose di questo mondo? Molti fecero cose meravigliose sotto la spinta della cupidigia mondana; ma è questa l'attività della mano sinistra, non della destra. La destra deve operare all'insaputa della sinistra, affinché la concupiscenza di questo mondo non abbia alcuna parte allorquando l'amore ci fa compiere il bene. Ma come saperlo? Sei qui

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davanti al Signore, ebbene interroga il tuo cuore. Guarda che cosa hai fatto, che cosa hai desiderato nel tuo agire, la tua salvezza oppure la lode degli uomini che si disperde al vento. Guarda dentro la tua coscienza, poiché l'uomo non può giudicare colui che non riesce a vedere. Se vogliamo rassicurare la nostra coscienza, facciamolo davanti a lui. "Se il nostro cuore ci rimprovera qualcosa" - se cioè ci accusa interiormente, perché non agiamo con quella intenzione che dovremmo avere -, "Dio è più grande del nostro cuore e tutto conosce" (1 Gv. 3, 20). Tu sei capace di nascondere il tuo cuore agli uomini, nascondilo a Dio, se puoi. Come potrai nasconderlo a lui, a cui un certo peccatore, timoroso, confessò: "Dove troverò un rifugio, lontano dal tuo spirito, lontano dal tuo volto?" Costui cercava un luogo dove fuggire e sottrarsi al giudizio di Dio, ma non lo trovava. Dove infatti non è Dio? "Se salirò fino al cielo, là sei tu; se scenderò negli abissi, tu sei presente" (Sal. 138, 7-8). Dove andrai, dove fuggirai? Se vuoi un consiglio, fuggi verso di lui, quando vuoi da lui fuggire. Fuggi presso di lui con fiducia, e non sottrarti al suo sguardo: non lo potresti fare, mentre puoi a lui aprire con fiducia il tuo cuore. Digli dunque: "Tu sei il mio rifugio" (Sal. 31, 7), di te alimenterò quell'amore che solo porta alla vita. Sia la tua coscienza a darti la buona testimonianza che quanto è in te viene da Dio. Se viene da Dio non sbandierarlo con vanto davanti agli uomini: non sono infatti le lodi degli uomini che ti portano in cielo e non sono i loro biasimi che ti fanno escludere dal cielo. Ti veda invece colui che ti darà la corona del premio; ti sia testimone quel giudice che ti darà la palma della vittoria: "Dio è più grande del nostro cuore e tutto conosce".

L'autentica carità ottiene tutto da Dio

4. Carissimi; se la nostra coscienza non ci rimorde, abbiamo piena fiducia in Dio (1 Gv. 3, 21). Qual è il significato di queste parole: "Se la nostra coscienza non ci rimorde"? Che la coscienza ci risponda in tutta verità che noi amiamo i fratelli, che in noi c'è l'amore fraterno, non finto ma sincero, quello che ricerca il bene del fratello, senza aspettare da lui nessuna ricompensa, ma solo la sua salvezza. "Noi abbiamo piena fiducia in Dio"; e qualunque cosa domanderemo, l'avremo da lui, perché ne osserviamo i comandamenti (1 Gv. 3, 21-22). Questo facciamo noi, non davanti agli uomini, ma là dove Dio ci vede, cioè nel cuore. "Noi abbiamo piena fiducia in Dio e qualunque cosa domanderemo, l'avremo da lui"; e questo perché "osserviamo i suoi comandamenti". Quali sono i suoi comandamenti? Bisogna sempre ripeterlo? "Vi dò un comandamento nuovo, che vi amiate l'un l'altro" (Gv. 13, 34). E' la carità questo comandamento di cui si parla e che tanto è raccomandata. Chi dunque avrà la carità fraterna, e l'avrà questa carità davanti a Dio, là dove vede il Signore; chiunque, interrogando il proprio cuore con retto giudizio si sentirà rispondere che la vera radice della carità fraterna, da cui nascono frutti di bontà, è in lui, costui riscuoterà la fiducia piena di Dio, e Dio gli accorderà tutto ciò che gli domanderà, perché egli osserva i suoi comandamenti.

5. Si presenta qui un problema, che non riguarda questa o quella persona, né me, né te; se io chiedo qualcosa al Signore Dio nostro e non ottengo nulla, è facile dire di me: non è stato ascoltato, perché non possiede la carità; cosa che può ripetersi di qualsiasi altra persona che vive oggi. Ma lasciamo che si dica ciò di questo o di quello, il problema si pone quando ci riferiamo a quelle persone che sappiamo che erano sante allorché scrivevano, e che ora si trovano nella pace di Dio. Chi mai può avere la carità se pensassimo che neppure Paolo l'aveva, lui che affermava: "Vi parlo a cuore aperto, Corinti, il mio cuore si è dilatato: non abbiate motivi di angustia per noi" (2 Cor. 6, 11-12); lui che affermava: "Io mi darò tutto per le vostre anime" (2 Cor. 12, 15), e nel quale era tanta grazia divina da dimostrare chiaramente ch'egli aveva la carità?

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Abbiamo tuttavia scoperto che egli aveva chiesto e non ricevuto. Che cosa dobbiamo dire, fratelli? Qui nasce il problema. Prestate ascolto a Dio. Si tratta di un grosso problema. Riguardo al peccato, quando incontrammo le parole: "Chi è nato da Dio, non pecca" (1 Gv. 3, 9), abbiamo capito allora che si trattava del peccato contro la carità e che in quelle parole era appunto designato questo peccato; così anche adesso ci chiediamo che cosa Giovanni abbia voluto significare. Se fai attenzione alle parole, tutto è chiaro; ma se sposti la tua attenzione sugli esempi, la cosa si fa oscura. Niente di più facile di queste parole: "Qualunque cosa domanderemo, l'avremo da lui; perché osserviamo i suoi comandamenti" e davanti a lui facciamo ciò che a lui piace (1 Gv. 3, 22) . "Qualunque cosa domanderemo" - dice - "l'avremo da Lui".

Queste parole ci mettono in gravi angustie. Ci avrebbe dato difficoltà anche il testo precedente, se avesse inteso parlare di qualsiasi peccato in genere; ma abbiamo trovato una spiegazione, per cui sappiamo che egli ha inteso parlare non di ogni peccato in generale, ma di un peccato ben definito, quel peccato che non commette chiunque è nato da Dio; ed abbiamo trovato che quel peccato appunto è il peccato contro la carità. Abbiamo nel Vangelo un chiaro esempio, quando il Signore dice: "Se non fossi venuto, essi non avrebbero peccato" (Gv. 15, 22). Che vuol dire dunque? Era forse venuto, visto che parla così, in mezzo ad ebrei innocenti? E che, se non fosse venuto, non avrebbero peccato? Allora, la presenza del medico avrebbe ottenuto che si divenisse malati, e non ha tolto la febbre? Neppure un pazzo potrebbe dire ciò. Egli non è venuto se non per curare e sanare i malati. Perché allora disse: "Se non fossi venuto, essi non avrebbero peccato", se non per farci intendere che si tratta di un peccato ben definito? E' quel peccato che in realtà i giudei non avrebbero commesso. Quale peccato? Quello per cui essi non credettero in lui, e per il quale lo trattarono con disprezzo quando era tra loro. Come dunque nell'altro passo parlo di un peccato particolare, e conseguentemente non possiamo intendere che abbia parlato di tutti i peccati, ma di un peccato ben definito; così anche in questo passo non dobbiamo pensare a qualsiasi peccato, perché non ci sia contraddizione con quel passo in cui dice: "Se dicessimo di non avere alcun peccato, inganneremmo noi stessi e la verità non sarebbe in noi" (1 Gv. 1, 8); dobbiamo invece pensare ad un peccato ben definito, al peccato contro la carità. Ma qui ci ha posto una condizione più precisa: se domanderemo, se il nostro cuore non ci accuserà e ci testimonierà davanti a Dio che in noi c'è la vera carità, "qualunque cosa domanderemo l'avremo da lui".

6. Vi ho già detto, fratelli carissimi, che la questione non riguarda tanto noi personalmente. Che siamo noi? che siete voi? che altro, se non la Chiesa di Dio, a tutti nota? A lui piacendo ne siamo membri; e noi, che per amore dimoriamo in essa, continuiamo a restarvi con perseveranza, se vogliamo mostrare la carità che è in noi. Che cosa di male potremmo pensare dell'apostolo Paolo? Forse che non amasse i fratelli? Che mancasse la testimonianza della sua coscienza davanti a Dio? Che non ci fosse in Paolo quella radice della carità da cui provengono tutti i buoni frutti? Chi potrebbe affermare tali cose, se non uno stolto? Dove allora troviamo che l'Apostolo ha chiesto e non ha ottenuto? Lui stesso dice: "Perché non mi glori della grandezza delle rivelazioni avute, mi fu dato un pungolo nella mia carne, un ministro di Satana, che mi schiaffeggia; per questo ho pregato tre volte il Signore perché me lo togliesse; ma egli mi ha detto: Ti basta la mia grazia, perché è nella debolezza che si mostra tutta intera la mia forza" (2 Cor. 12, 7-9).

Così egli non fu esaudito e non gli fu tolto l'angelo di Satana. Ma perché? Perché quella richiesta non gli sarà di vantaggio. Fu dunque esaudito in vista della salvezza, ma non secondo la sua volontà. Comprenda la

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Carità vostra questo grande mistero, che vi chiediamo di non dimenticare in mezzo alle vostre prove. I santi vengono esauditi in tutto quando si tratta della salute dell'anima. E' la salvezza eterna che essi desiderano, e rispetto ad essa vengono sempre esauditi.

7. Ma passiamo in rassegna i vari modi con cui Dio ci esaudisce. Troviamo infatti alcuni che non vengono esauditi secondo la propria volontà, ma in vista della propria salvezza; d'altra parte troviamo alcuni esauditi secondo la loro volontà e non in vista della loro salvezza. Considerate e tenete presente questo caso, di chi è esaudito non secondo la propria volontà ma in vista della propria salvezza. Consideriamo l'apostolo Paolo; Dio gli mostrò che lo esaudiva in vista della sua salvezza, dicendogli: "Ti basta la mia grazia, perché è nella debolezza che si mostra tutta intera la mia forza". Hai chiesto, hai gridato, tre volte hai ripresentato la tua preghiera; ho udito ciò che hai chiesto ogni volta, e non ho distolto da te le mie orecchie; so quel che faccio: tu vuoi tolto quel medicamento da cui ti senti bruciare ed io conosco l'infermità che ti fa soffrire. Paolo dunque fu esaudito in vista della salvezza, non secondo la sua volontà.

Chi sono quelli che troviamo esauditi secondo la loro volontà, ma non in vista della loro salvezza? Troviamo forse qualche uomo malvagio, qualche empio esaudito da Dio secondo la sua volontà umana, e non invece in vista della sua salvezza? Se portassi l'esempio di qualche uomo, potresti dirmi: per te costui è un malvagio, e invece era un giusto; se non fosse stato un giusto, non sarebbe stato esaudito da Dio. Ma ti porterò l'esempio di un tale della cui iniquità ed empietà nessuno può dubitare. Il diavolo in persona chiese di tentare Giobbe e ne ebbe il permesso. E voi non avete udito proprio in questa Epistola, a proposito del diavolo, che "chi fa il peccato, viene dal diavolo" (1 Gv. 3, 8)? Non già perché lo abbia creato il diavolo, ma perché costui lo imita. Non è stato detto forse del diavolo che "non rimase nella verità" (Gv. 8, 44)? Non è lui appunto quell'antico serpente che, servendosi della donna, propinò il veleno al primo uomo? Fu lui che lasciò in vita la moglie di Giobbe, perché fosse non di conforto al marito, ma causa di tentazione. Il diavolo dunque chiese di tentare quel santo uomo, e ne ebbe il permesso, l'Apostolo chiese invece che gli fosse tolto il pungolo della carne, e non l'ottenne. Eppure fu esaudito più che non il diavolo. L'Apostolo infatti fu esaudito in vista della salvezza; anche se non secondo la propria volontà: il diavolo fu esaudito secondo la sua volontà, ma in vista della sua dannazione. Se Giobbe fu lasciato in balia delle tentazioni di costui, ciò avvenne perché il diavolo si sentisse tormentato dalla costanza di quel giusto nella prova. Troviamo tali esempi, fratelli, non solo nei libri del Vecchio Testamento ma anche nel Vangelo. I demoni chiesero al Signore, quando egli li scacciò da un uomo, di poter entrare nel corpo dei porci. Il Signore non avrebbe forse potuto impedire loro di avvicinarsi a quegli animali? Se non avesse voluto, essi non si sarebbero potuti ribellare contro il re del cielo e della terra. Ma, in forza di un misterioso suo disegno, e per positiva volontà sua, lasciò che i demoni entrassero nei porci, per mostrare che il diavolo domina su quanti conducono una vita simile a quella dei porci. I demoni furono dunque esauditi, e non fu esaudito l'Apostolo? O non è più giusto dire: l'Apostolo fu esaudito e i demoni non lo furono? La volontà dei demoni si è realizzata, ma nell'Apostolo si è compiuta la salvezza.

Fiducia in Dio

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8. In conformità a questa spiegazione, dobbiamo capire che Dio, anche quando non viene incontro alla nostra volontà, ci esaudisce in vista della salvezza. Facciamo l'ipotesi che tu chieda qualcosa che ti reca danno, e che il tuo medico sia informato di ciò. Non dirai che il medico rifiuta di esaudirti se, quando chiedi dell'acqua fresca, te la dà subito se ti fa bene, mentre te la nega se può farti male. Per il fatto che si è opposto alla tua volontà, dirai che in tal caso non ti ha esaudito, o non piuttosto che ti ha esaudito in vista della tua salute? Perciò sia in voi la carità, fratelli; sia in voi e siate sereni: quando non vi è dato ciò che chiedete, voi siete esauditi, ma non lo sapete. Molti vengono lasciati in balia di se stessi per la loro rovina; di essi dice l'Apostolo: "Dio li ha consegna ti ai desideri del loro cuore" (Rom. 1, 24). Uno ha chiesto una forte somma di denaro, l’ha ricevuta per suo danno. Quando non l’aveva, viveva senza molti timori; avutala divenne preda di chi era più potente di lui. Costui non fu forse esaudito a suo danno, avendo voluto avere ciò che attirò contro di lui la cupidigia del ladro, mentre nessuno l'avrebbe molestato se fosse rimasto povero? Imparate a chiedere a Dio allo stesso modo con cui vi rivolgete ad un medico: che egli faccia ciò che giudica bene. Da parte tua, confessa la tua malattia, e sia lui ad applicare il rimedio. Tu soltanto mantieni la carità. Egli infatti vuole incidere e bruciare; se, nonostante le tue grida, egli non cede alle tue preghiere, e continua a incidere, a bruciare, a farti soffrire, è perché sa fin dove si estende la cancrena. Tu vuoi che ritragga la sua mano, ma egli allarga l'apertura della ferita: sa bene dove deve giungere. Egli non ti esaudisce secondo la tua volontà, ma ti esaudisce in vista della tua salute.

Siate dunque certi, fratelli miei, che sono vere le parole dell'Apostolo: "Noi non sappiamo che cosa chiedere nella preghiera in modo conveniente; ma lo Spirito stesso si interpone con gemiti inenarrabili, poiché lui stesso si fa intercessore in favore dei santi" (Rom. 8, 26-27). Che significano le parole: "Lo Spirito stesso... si fa intercessore in favore dei santi"", se non che la carità presente in te è frutto dello Spirito Santo? Perciò lo stesso Apostolo dice: "La carità di Dio è diffusa nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che fu dato a noi" (Rom. 5, 5). La carità stessa geme, la carità prega; di fronte ad essa colui che l'ha data non può chiudere le orecchie. Sta’, sicuro: la carità stessa prega; e ad essa sono intente le orecchie di Dio. Non avviene ciò che tu vuoi, ma avviene ciò che per te è bene. Perciò "ogni cosa che avremo chiesta, la riceveremo da lui". Ho già detto che se consideri la salvezza dell’anima, non sorge nessun problema da queste parole; se invece non consideri la salvezza dell’anima, allora il problema c’è, e grande, tanto che ti mette a rischio di far apparire l’apostolo Paolo come un bugiardo per aver lui detto: "Ogni cosa che avremo chiesta, la riceveremo da lui; perché osserviamo i suoi comandamenti e davanti a lui facciamo ciò che a lui piace". "Davanti a lui", cioè nell'intimo, dove penetra il suo occhio.

Carità e intelligenza interiore

9. Quali sono poi i suoi comandamenti? Giovanni dice: Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del suo Figlio Gesù Cristo e ci amiamo l'un l'altro. Vedete che è questo il suo comandamento; vedete come chi agisce contro questo comandamento, fa quel peccato dal quale è esente chiunque è nato da Dio. Secondo come ci ha dato il comandamento: che ci amiamo a vicenda. E chiunque avrà osservato il suo comandamento resterà in Dio e Dio in lui. Da questo conosciamo che rimane in noi, per lo Spirito che ci ha dato (1 Gv. 3, 23-24; Gv. 13, 34; 15, 12). Non è chiaro che l’opera dello Spirito Santo nell’uomo consiste nel mettere in lui la carità e l’amore? Non è chiaro ciò che dice l’apostolo Paolo: "L’amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo che fu dato a noi"? Egli parlava senza dubbio della carità, e diceva

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che dobbiamo interrogare il nostro cuore davanti al Signore. "Che se il nostro cuore non ci rimprovera": cioè se ci testimonia che l'amore fraterno è la sorgente di ogni nostro buon agire. Quando parla del comandamento egli aggiunge: "Questo è il suo comandamento: che crediamo al nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo a vicenda. E chiunque avrà osservato il suo comandamento resterà in Dio e Dio in lui. Da questo conosciamo che rimane in noi, per lo Spirito che ci ha dato". Se infatti troverai di possedere la carità tu hai lo Spirito di Dio che ti aiuta a comprendere: ed è questa la cosa assolutamente necessaria.

La carità è il carisma più grande

10. Nei primi tempi lo Spirito Santo scendeva sopra i credenti, ed essi parlavano in varie lingue che non avevano mai appreso, così come lo Spirito dava loro da pronunziare. Quei segni miracolosi erano opportuni a quel tempo. Era infatti necessario che in tutte le lingue si manifestasse lo Spirito Santo, perché il Vangelo di Dio per mezzo appunto di tali lingue doveva diffondersi su tutta la terra. Quel segno fu dato e passò. Forse che oggi da coloro cui si impongono le mani perché ricevano lo Spirito Santo, ci si aspetta che parlino diverse lingue? Quando noi imponemmo le mani a questi fanciulli, ciascuno di voi si aspettava forse che parlassero in varie lingue? E quando ci si accorse che non parlavano queste varie lingue, ci fu forse qualcuno di voi tanto perverso da dire: costoro non hanno ricevuto lo Spirito Santo, perché se l'avessero ricevuto parlerebbero diverse lingue, come avvenne allora? Se dunque adesso la prova della presenza dello Spirito Santo non avviene attraverso questi segni, da che cosa ciascuno arriva a conoscere di aver ricevuto lo Spirito Santo?

Ognuno di noi interroghi il suo cuore: se ama il fratello, lo Spirito di Dio rimane in lui. Esamini e metta alla prova se stesso davanti a Dio: veda se c'è in lui l'amore della pace e dell'unità, l'amore alla Chiesa diffusa in tutto il mondo. Non si limiti ad amare soltanto quel fratello che gli si trova vicino; ci sono molti nostri fratelli che non vediamo, eppure siamo a loro uniti nell'unità dello Spirito. Perché meravigliarsi se non si trovano vicini a noi? Siamo nello stesso corpo ed abbiamo in cielo un unico capo. Fratelli, i nostri occhi non si vedono l'un l'altro, e quasi non si conoscono. Ma forse che con la carità che li unisce al corpo non si conoscono? Infatti, perché sappiate che essi si conoscono nell'unione della carità, quando ambedue stanno aperti non può avvenire che l'occhio destro fissi un punto, senza che il sinistro faccia altrettanto. Prova, se puoi, ad indirizzare l'occhio destro ad un punto senza il concorso dell'altro. Ambedue vanno insieme, ed insieme muovono nella stessa direzione; una sola la loro direzione, anche se da luoghi diversi. Se dunque tutti quelli che con te amano Dio hanno con te la stessa aspirazione, non badare se col corpo sei loro lontano; insieme avete puntato la prora del cuore verso la luce della verità. Se dunque vuoi sapere se hai ricevuto lo Spirito, interroga il tuo cuore, per non correre il rischio di avere il sacramento ma non l'effetto di esso. Interroga il tuo cuore, e se vi trovi la carità verso il fratello sta tranquillo. Non può esserci l'amore senza lo Spirito di Dio, perché Paolo grida: "L’amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori attraverso lo Spirito Santo che fu dato a noi" (Rom. 5, 5).

Non ha lo Spirito di Dio chi ostacola l’unità

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11. Carissimi, non vogliate credere ad ogni spirito. Giovanni aveva detto: "Da questo segno conosciamo che rimane in noi, per lo Spirito che ci ha dato". Guardate da dove riconosce lo stesso Spirito: "Carissimi, non vogliate credere ad ogni spirito", ma provate gli spiriti, se vengono da Dio (1 Gv. 4, 1). Chi prova gli spiriti? Giovanni ci presenta un problema difficile, fratelli miei. E’ bene per noi che sia lui stesso a dirci in che modo possiamo discernerli. Ce lo dirà, non temete; ma prima di ogni cosa fate attenzione: osservate che è da queste parole che gli eretici prendono lo spunto per lanciare le loro accuse. Fate attenzione e sentite che cosa dice: "Carissimi, non vogliate credere ad ogni spirito, ma provate gli spiriti, se vengono da Dio".

Lo Spirito Santo è designato nel Vangelo col nome di acqua, quando il Signore dice a gran voce: "Se uno ha sete, venga da me e beva; chi crede in me, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno". Ora l’evangelista ci spiega a che cosa il Signore fa allusione; aggiunge infatti subito dopo: "Questo diceva riferendosi allo Spirito Santo che avrebbero ricevuto quelli che avrebbero creduto in lui". Perché il Signore non battezzò molti? Quale la risposta? "Lo Spirito Santo ancora non era stato dato, perché Gesù non era stato glorificato" (Gv. 7, 37-39). Essi avevano già il Battesimo, ma non ancora avevano ricevuto lo Spirito Santo, che il Signore mando dal cielo nel giorno di Pentecoste. Si attendeva la glorificazione del Signore, affinché venisse dato lo Spirito Santo. Ma, prima che egli fosse glorificato e prima che ce lo inviasse, invitava gli uomini perché si preparassero a ricevere quell’acqua circa la quale aveva detto: "Se uno ha sete, venga da me e beva; chi crede in me, fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno". Che cosa significa: "fiumi di acqua viva"? Che cosa è quell’acqua? Nessuno mi interroghi, interroghi il Vangelo. "Egli diceva ciò parlando dello Spirito Santo che avrebbero ricevuto quanti avrebbero creduto in lui". Altra cosa è l’acqua del sacramento, altra l’acqua che significa lo Spirito di Dio. L’acqua del sacramento è visibile; l’acqua dello Spirito è invisibile. Questa pulisce il corpo ed è segno di ciò che avviene nell'anima; per mezzo dello Spirito l’anima stessa viene mondata e alimentata. E’ proprio lo Spirito di Dio che non possono avere gli eretici e chiunque si separi dalla Chiesa. Quanti non si separano apertamente, ma si staccano per colpa del loro peccato e pur rimanendo dentro si agitano come paglia senza essere grano, costoro non hanno lo Spirito Santo. Questo Spirito è stato indicato dal Signore col nome di acqua. Abbiamo udito in questa Epistola: "Non vogliate prestar fede ad ogni spirito"; ci sono anche le parole di Salomone a testimoniare ciò: "Astieniti dall'acqua straniera". Cosa è quest'acqua? Lo Spirito. L'acqua significa sempre lo Spirito? Non sempre; ma in alcuni passi significa lo Spirito, in altri il battesimo, in altri i popoli, in altri la sapienza. In un certo passo trovi detto: "La sapienza è una sorgente di vita per quelli che la possiedono" (Prov. 16, 22). Nei diversi passi delle Scritture, dunque, il termine acqua ha diversi significati. Qui però col nome di acqua avete sentito indicato lo Spirito Santo, non per una nostra interpretazione, ma per testimonianza del Vangelo, che dice: "Questo diceva parlando dello Spirito che avrebbero ricevuto quelli che avrebbero creduto in lui". Se dunque col termine di acqua si indica lo Spirito Santo, e se questa Epistola ci dice: "Non vogliate prestar fede ad ogni spirito, ma provate gli spiriti, se vengono da Dio" dobbiamo comprendere che identico è il senso della frase: "Astieniti dall'acqua straniera e non bere ad una fonte straniera" (Prov. 9, 18). Che cosa significa: "Non bere ad una fonte straniera"? Significa: non fidarti di uno spirito estraneo.

Gli eretici riconoscono l'incarnazione...

12. Resta da vedere quali siano le prove per stabilire che si tratta dello Spirito di Dio. Giovanni ci ha dato un segno probabilmente difficile da interpretare. Tuttavia esaminiamolo. Dobbiamo ritornare alla carità: è la

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carità che ci istruisce, perché essa è l'unzione di Dio. Tuttavia che cosa ci dice Giovanni? "Provate gli spiriti, se vengono da Dio", poiché molti falsi profeti sono sorti in questo mondo. Sono compresi qui tutti gli eretici e gli scismatici. In che modo dunque si prova uno spirito? Giovanni prosegue: Da questo si conosce lo Spirito di Dio. Drizzate le orecchie del cuore. Stavamo faticando e dicevamo: Chi conosce queste cose, chi sa distinguerle? E ecco che egli ce ne offre il segno. "Da questo si conosce lo Spirito di Dio": ogni spirito che confessa che Gesù Cristo è venuto nella realtà della carne, viene da Dio. Ed ogni spirito che non confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne, non viene da Dio; e costui è un anticristo sul quale avete sentito dire che verrà, ed ora si trova in questo mondo (1 Gv. 4, 1-3). Le nostre orecchie si drizzano per comprendere il discernimento degli spiriti, ma ciò che abbiamo udito non ci sembra tale da facilitarci tale discernimento. Che cosa dice infatti? "Ogni spirito che confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne, viene da Dio". Dunque lo spirito che è negli eretici viene da Dio, dal momento che confessano che Gesù Cristo è venuto nella carne? Anzi, mi pare di vederli alzati contro di noi e dirci: Siete voi a non avere lo Spirito di Dio, noi invece confessiamo che Gesù Cristo è venuto nella carne. Giovanni dunque nega che abbiano lo Spirito di Dio coloro che non confessano che Gesù è venuto nella carne. Domanda agli ariani: essi confessano che Gesù Cristo è venuto nella carne; interroga gli eunomiani: confessano che Cristo è venuto nella carne; interroga i macedoniani: confessano che Gesù Cristo è venuto nella carne; interroga i catafrigi: confessano che Gesù Cristo è venuto nella carne; interroga i novaziani: confessano che Gesù Cristo è venuto nella carne. Tutte queste eresie hanno forse lo Spirito di Dio? Non sono falsi profeti? Non vi è in loro nessuna seduzione, nessun inganno? Ma sì essi sono gli anticristi, essi che sono usciti dalle nostre file, ma non erano dei nostri.

...ma non hanno la carità...

13. Che cosa dunque fare? Da dove derivare i criteri per il discernimento? Cercate di capire: andiamo insieme uniti col cuore e bussiamo. Vigila la carità stessa, poiché sarà essa a picchiare, essa ad aprire: tra poco comprenderete, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Già avete udito prima che fu detto: "Chi nega che Gesù Cristo è venuto nella carne... costui è un anticristo" (1 Gv. 2, 22). Allora ci siamo chiesti chi è che lo nega; poiché noi non lo neghiamo e neppure loro. Trovammo che alcuni lo negano coi fatti (cf. III, 7-9); ci servimmo allora della testimonianza dell’Apostolo che dice: "Confessano di conoscere Dio, ma coi fatti lo negano" (Tit. 1, 16). Continuiamo perciò a investigare sui fatti e non sulle parole.

Chi è lo spirito che non proviene da Dio? "Chi nega che Gesù Cristo è venuto nella carne". E chi è lo spirito che proviene da Dio? "Quello che confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne". Ma chi confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne? Orsù, o fratelli, fissiamo la nostra attenzione sulle opere, non sul suono delle parole. Cerchiamo perché Cristo è venuto nella carne e troveremo chi è colui che nega che egli è venuto nella carne. Se infatti presti attenzione alle parole, potrai udire molte eresie che asseriscono che Cristo è venuto nella carne; ma la verità le smaschera. Perché Cristo è venuto nella carne? Non era forse Dio? Non è stato scritto di lui: "In principio era il Verbo ed il Verbo era presso Dio ed il Verbo era Dio" (Gv. 1, 1)? Non pasceva gli angeli e non li pasce ancora? Non venne forse quaggiù senza allontanarsi da lassù? Non è asceso là in modo da non lasciarci? Perché dunque venne nella carne? Perché era necessario che additasse ai nostri occhi la speranza della risurrezione. Era Dio e venne nella carne; Dio infatti non poteva morire, la carne poteva morire; perciò venne nella carne, per morire per noi. In che modo è morto per noi? "Non c’è

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carità più grande di chi dà la vita per i suoi amici" (Gv. 15, 3). La carità dunque lo spinse ad incarnarsi. Dunque chi non ha carità, nega che Cristo è venuto nella carne. Poni una domanda ora a tutti gli eretici: - Cristo venne nella carne? - Sì, venne; lo credo e lo confesso. - E invece lo neghi. - Ma in che modo lo nego? - Ascolta e te lo dico, anzi ti farò convinto che lo neghi. Tu l’affermi con la voce, ma lo neghi col cuore; lo affermi con le parole ma lo neghi coi fatti. - Ma in che modo, mi chiedi, io lo nego coi fatti? - Perché Cristo venne nella carne per morire per noi. Egli è morto per noi, proprio per insegnare a noi una carità immensa: "Non c'è carità più grande di chi dà la vita per i suoi amici". Tu non hai la carità, perché per una questione di amor proprio rompi l’unità. Comprenderete dunque da questo principio qual è lo spirito che proviene da Dio. Battete con le nocche questi vasi di creta per assicurarvi che non portino delle crepe e non suonino male; controllate se suonano bene, vedete se in essi c'è la carità. Ti sottrai all'unità di tutta la terra, dividi la Chiesa con gli scismi, strazi il corpo di Cristo. Egli venne nella carne per portare tutti all’unità: tu sbraiti per dividere. Lo Spirito di Dio è dunque quello che dice che Gesù è venuto nella carne; che fa questa affermazione non con la lingua ma coi fatti; che lo dice non col suono della parole, ma con l’amore. Non è spirito di Dio quello che nega che Gesù Cristo è venuto nella carne; quello che lo nega appunto non con le parole ma con la vita, non con le parole ma coi fatti. E’ dunque chiaro il criterio di discernimento, fratelli. Molti sono dentro la Chiesa, ma soltanto in apparenza; nessuno vi è fuori, se non realmente.

...e rompono l’unità della Chiesa...

14. Volete una prova che Giovanni fa riferimento ai fatti? Egli dice: "Ogni spirito, che dissolve il Cristo, negando che è venuto nella carne, non proviene da Dio". "Dissolvere" è un verbo che ha riferimento coi fatti. Con questo verbo chi viene indicato? Colui che nega. Per questo ha detto: "dissolve". Egli è venuto a unire insieme, tu vieni a disgregare. Vieni a disgregare le membra di Cristo. Puoi dire di non negare che Cristo è venuto nella carne, tu che spezzi l’unità della Chiesa di Cristo, che lui aveva raccolto? Tu dunque vai contro Cristo; sei un anticristo. Sia tu dentro o fuori, sei un anticristo; ma quando sei dentro, stai nascosto; quando sei fuori ti rendi manifesto. Tu distruggi Gesù e dici che non è venuto nella carne; tu non provieni da Dio. Perciò Cristo dice nel Vangelo: "Chiunque avrà sciolto uno solo di questi pur piccoli comandamenti e così avrà insegnato, sarà chiamato il più piccolo del Regno dei cieli". Che significa qui "sciogliere"? Che significa "insegnare"? Si scioglie coi fatti e si insegna normalmente con le parole. "Tu che predichi di non rubare, rubi" (Rom. 2, 21). Chi ruba, scioglie coi fatti il comandamento e per così dire insegna. "Egli sarà chiamato il più piccolo del Regno dei cieli", cioè della Chiesa di quei tempi. Di lui fu detto: "Fate le cose che dicono; le cose che fanno, non fatele (Mt. 23, 3). Chi invece avrà fatto e così avrà insegnato a fare, sarà detto grande nel Regno dei cieli" (Mt. 5, 19). Qui la parola "fare" il Signore la oppone a "dissolvere", cioè a "non fare" e ad "insegnare così". Dissolve dunque chi non fa. Che cosa ci insegna, se non di interrogare i fatti e di non credere alle parole?

L'oscurità dell'argomento ci costringe a numerose puntualizzazioni: soprattutto perché ciò che il Signore si degna di rivelare, giunga anche ai fratelli più lenti a comprendere; poiché tutti sono stati pagati col sangue di Cristo. Per questo temo che non si possa terminare in questi giorni il commento di questa Epistola , come avevo promesso; ma, come piace al Signore, è meglio accantonare il rimanente, piuttosto che aggravare i cuori con cibo eccessivo.

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VII.

VOI GIA' SIETE DA DIO...

La carità ristora le nostre forze

1. Questo mondo è per tutti i fedeli che cercano la patria ciò che fu il deserto per il popolo d'Israele. Essi vagavano per il deserto e cercavano la patria: ma, sotto la guida del Signore, non potevano fallire la meta. La loro strada era il comando stesso del Signore. Sebbene andassero vagando in quei luoghi per quarant'anni, quel loro cammino oggi può essere compiuto in pochissime tappe, note a tutti. Si attardarono non perché abbandonati dal Signore, ma perché Dio voleva provarli. Ciò che anche a noi il Signore promette, è una dolcezza ineffabile, un bene, come dice la Scrittura e come spesso vi abbiamo ricordato, "che occhio umano non vide, ne orecchio udì, né mai cuore di uomo ha potuto gustare" (Is. 64, 4; 1 Cor. 2, 9). Siamo provati dalle tribolazioni della vita temporale e le tentazioni della vita presente ci aprono gli occhi. Ma se non volete morire di sete in questo deserto della vita presente, bevete l'acqua della carità. Essa è la fonte che il Signore ha voluto apprestarci quaggiù affinché non venissimo meno lungo la strada: beviamone in abbondanza e quando saremo arrivati in patria, ne berremo ancor più abbondantemente.

E' stato letto da poco il Vangelo (cf. Mt. 6, 12); nelle stesse parole con cui si è conclusa la lettura del brano evangelico, di che cosa avete sentito parlare se non di carità? In realtà noi abbiamo stretto un patto con Dio per cui, se vogliamo che egli ci condoni i peccati, anche noi dobbiamo perdonare i peccati che sono stati commessi contro di noi. Ma è solo la carità che fa perdonare i peccati. Togli dal cuore la carità, e questo sarà pieno di odio e non saprà perdonare. Se c'è la carità, questa sicuramente perdona, perché non si chiude in se stessa. Tutta quanta questa Epistola, che abbiamo voluto commentarvi, non fa altro, come vedete, che raccomandarci quell'unico bene che è la carità. Non bisogna neanche temere che, ripetendo sempre la stessa raccomandazione, la carità venga in odio. Che cosa si può mai amare, se la carità diventa oggetto di odio? Questa carità che ci fa amare rettamente tutte le altre cose, come dovremmo amarla? Ciò che non deve mai star lontano dal cuore, non stia lontano neppure dalla bocca.

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2. Voi, miei figlioli, già siete da Dio e l'avete vinto (1 Gv. 4, 4): chi, se non l'anticristo? Poco prima Giovanni aveva affermato: "Ogni spirito che dissolve il Cristo negando che è venuto nella carne, non proviene da Dio" (1 Gv. 4, 3). Vi abbiamo spiegato, se ricordate, come tutti coloro che violano la carità negano che Gesù Cristo sia venuto nella carne. Non c'era bisogno che Gesù venisse sulla terra se non per la carità. Egli ci raccomanda quella carità di cui parla lui stesso nel Vangelo: "Non c'è amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici" (Gv. 15, 13). Il Figlio di Dio avrebbe mai potuto dare per noi la sua vita, senza rivestirsi della carne nella quale potesse morire? Chi dunque viola la carità, qualunque cosa dica con la lingua, nega con la sua vita che Cristo è venuto nella carne, ed è un anticristo, dovunque si trovi, in qualsiasi luogo sia entrato. Che cosa dice Giovanni a quelli che sono cittadini della patria alla quale sospiriamo? "Voi l'avete vinto". Come l'hanno vinto? Perché Colui che sta in voi è più grande di colui che è nel mondo (1 Gv. 4, 4). Perché costoro non attribuissero alle proprie forze la vittoria, e non venissero vinti dall'arroganza che è frutto della superbia (il diavolo riporta la sua vittoria su chi riesce a rendere superbo), ma conservassero, secondo il suo volere, l'umiltà che cosa dice loro? "L'avete vinto". Chiunque sente dire: "avete vinto", alza la testa, si pavoneggia, vuol essere lodato. Ma non esaltarti, considera invece chi ha vinto in te. Perché hai vinto? "Perché Colui che sta in voi è più grande di colui che è nel mondo". Sii umile, porta il Signore Dio tuo, sii la cavalcatura di colui che ti monta. E' un bene per te che sia lui a dirigerti e a guidarti nel cammino. Se non avessi lui seduto in sella, potresti alzare la testa, potresti scalciare: ma guai a te, se resterai senza un reggitore; perché questa libertà ti conduce alle belve per essere da loro divorato.

3. Essi sono del mondo. Chi? Gli anticristi. Avete già udito chi siano. E li riconoscete, se non siete dei loro: chi infatti è dei loro, non li riconosce. "Essi sono del mondo": perciò parlano delle cose del mondo e il mondo li ascolta (1 Gv. 4, 5). Chi sono quelli che parlano delle cose del mondo? Badate a quelli che parlano contro la carità. Avete sentito le parole del Signore: "Se perdonerete agli uomini i loro errori, il vostro Padre celeste perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete, nemmeno il Padre vostro vi perdonerà i vostri peccati..." (Mt. 6, 14-15). E' la verità che lo afferma; certo, se non credi che è la verità, puoi pure contraddire. Ma se sei cristiano e credi a Cristo, sai che fu lui a dire: "Io sono la verità" (Gv. 14, 6). Si tratta, dunque, di un'affermazione vera e sicura. Ascolta invece gli uomini che parlano il linguaggio del mondo. Ti dicono: perché non ti vendichi e lasci che l'altro si glori d'averti trattato così? Orsù! fagli capire che ha a che fare con un uomo. Parole del genere si sentono dire tutti i giorni. Quelli che le dicono parlano il linguaggio del mondo; e il mondo li ascolta. Soltanto quelli che amano il mondo pronunciano parole del genere e soltanto quelli che amano il mondo le ascoltano. E chi ama il mondo e disprezza la carità nega, come avete sentito, che Gesù sia venuto nella carne. Che forse il Signore ha agito così mentre era nella carne? Quando fu schiaffeggiato, volle forse vendicarsi? Quando pendeva dalla croce, non disse forse: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Lc. 23, 24)? Se lui, in cui è ogni potere, non minacciava, come pretendi tu di minacciare, come avvampi d'ira tu che sei sottoposto all'autorità altrui? Egli è morto perché così volle, e non minacciava; tu non sai quando morirai, e minacci?

4. Noi siamo da Dio. Per qual ragione? Vedete se c'è altra ragione che non sia la carità. "Noi siamo da Dio". Chi conosce Dio ci ascolta: chi non è da Dio, non ci ascolta. Questo è il segno che ci fa riconoscere lo spirito di verità e lo spirito dell'errore (1 Gv. 4, 6). Chi ci ascolta ha lo spirito di verità; chi non ci ascolta ha lo spirito di errore. Vediamo di che cosa ci ammonisce e ascoltiamo piuttosto lui che ammonisce in spirito di verità; non gli anticristi, non gli amatori del mondo, non il mondo. Se siamo nati da Dio, Dilettissimi..., prosegue Giovanni, stiamo attenti: "Noi siamo da Dio. Chi conosce Dio, ci ascolta; chi non è da Dio, non ci ascolta.

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Questo è il segno che ci fa riconoscere lo spirito di verità e lo spirito dell'errore". E così ci aveva reso attenti al fatto che chi conosce Dio l'ascolta, chi non lo conosce non l'ascolta; e questo è il criterio in base al quale distinguiamo tra spirito di verità e d'errore. Vediamo dunque l'insegnamento che si appresta a darci, le parole che dobbiamo accogliere da lui. "Dilettissimi", amiamoci a vicenda. Perché? Perché forse è un uomo ad ammonirci? Perché l'amore viene da Dio. Ha fatto un grande elogio della carità dicendo che essa "viene da Dio": ma ci dirà ancora qualcosa di più; ascoltiamo attentamente. Ha appena detto: "L'amore viene da Dio"; e chiunque ama è nato da Dio e ha conosciuto Dio. Chi non ama, non conosce Dio. Perché? Perché Dio è amore (1 Gv. 4, 8). Che cosa poteva dire di più, o fratelli? Se non ci fosse in tutta questa Epistola e in tutte le pagine della Scrittura nessuna lode della carità all'infuori di questa sola parola che abbiamo intesa dalla bocca dello Spirito, che cioè "Dio è carità", non dovremmo chiedere niente di più.

L'offesa alla carità è un'offesa a Dio

5. Vedete dunque che agire contro l'amore, significa agire contro Dio. Nessuno dica: Io pecco soltanto contro un uomo quando non amo il fratello. Sentitelo! Peccare contro un uomo dunque è cosa da poco, purché non si pecchi contro Dio! Ma come fai a dire che non pecchi contro Dio, quando pecchi contro l'amore? "Dio è amore". Siamo forse noi a dirlo? Se fossimo noi a dire: "Dio è amore", forse qualcuno di voi si scandalizzerebbe e direbbe: che dice mai? Che vuol dire, affermando che "Dio è amore"? Dio ci ha dato il suo amore, ci ha donato il suo amore. "L'amore viene da Dio: Dio è amore". Eccovi, fratelli, nelle vostre mani le Scritture di Dio: questa Epistola è una di quelle canoniche; si legge in tutte le chiese, è ammessa sull'autorità del mondo intero, essa stessa ha edificato il mondo. Senti ciò che ti vien detto da parte dello Spirito di Dio: "Dio è amore". Ormai, se ne hai il coraggio, agisci pure contro Dio, rifiuta di amare il fratello.

La carità è da Dio, perché lo Spirito è Dio da Dio

6. Come conciliare le due espressioni appena ricordate: "L'amore viene da Dio", e "Dio è amore"? Dio è Padre e Figlio e Spirito Santo: il Figlio è Dio da Dio e lo Spirito Santo è Dio da Dio; questi tre sono un solo Dio, non tre dei. Se il Figlio è Dio, se lo Spirito Santo è Dio, e se ad amare è solo colui nel quale abita lo Spirito Santo, allora veramente l'amore è Dio; Dio però perché procede da Dio. L'Epistola ha le due espressioni: "L'amore viene da Dio" e "Dio è amore". La Scrittura solo del Padre non afferma che viene da Dio. Quando ti incontri nelle parole "da Dio", o s'intende parlare del Figlio o dello Spirito Santo. Dice l'apostolo Paolo: "L'amore di Dio è diffuso nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato" (Rom. 5, 5); e da qui comprendiamo che l'amore è lo Spirito Santo. E' esso, infatti, quello Spirito Santo che i cattivi non possono ricevere; è esso la fonte di cui la Scrittura dice: "Abbi una sorgente d'acqua in tua esclusiva proprietà e nessun estraneo la usi con te" (Prov. 5, 16-17). Tutti quelli che non amano Dio sono estranei, anticristi. E anche se entrano nelle basiliche, non possono annoverarsi tra i figli di Dio; non appartiene loro questa fonte di vita. Anche il malvagio può avere il battesimo; può avere anche il dono della profezia. Sappiamo che il re Saul aveva il dono della profezia; egli perseguitava il santo David e tuttavia fu ripieno dello spirito di profezia e incominciò a profetare. Anche il malvagio può ricevere il sacramento del corpo e del sangue del Signore: di costoro infatti è detto: "Chi mangia e beve indegnamente, mangia e beve la propria condanna" (1 Cor. 11, 29). Anche il malvagio può portare il nome di Cristo, dirsi cioè cristiano ed

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essere malvagio; di costoro è detto: "Disonoravano il nome del loro Dio" (Ez. 36, 20). Anche il malvagio dunque può avere parte in tutti questi sacramenti; ma avere la carità, ed essere malvagio, questo non è possibile. E' questo il "dono proprio", questa la "fonte riservata". Lo Spirito di Dio vi esorta a bere di questa fonte; lo Spirito di Dio vi esorta a bere di se stesso.

E' l'intenzione a dar valore all'opera

7. In questo si è manifestata la carità di Dio per noi. Abbiamo in queste parole l'esortazione ad amare Dio. Potremmo forse amarlo, se non ci avesse amato lui per primo? Se siamo stati pigri nell'amarlo, cerchiamo di non esserlo più nel corrispondere al suo amore. Egli ci ha amati per primo, di un amore a noi ignoto, e neppure ora siamo disposti ad amarlo. Ci ha amati quando eravamo peccatori, ma ha distrutto la nostra iniquità; ci ha amati quando eravamo peccatori, ma non ci ha riuniti perché commettessimo peccati; ci ha amati quando eravamo ammalati, ma è venuto a visitarci per guarirci. "Dio" dunque "è amore". "In questo si è manifestato l'amore di Dio in noi", che egli ha mandato in questo mondo il suo Figlio Unigenito, affinché potessimo vivere per mezzo suo (1 Gv. 4, 9). Il Signore stesso ha detto: "Non c'è amore più grande di colui che dà la sua vita per i suoi amici", e l'amore di Cristo per noi si dimostra nel fatto che è morto per noi. Qual è invece la prova dell'amore del Padre verso di noi? Che egli ha mandato il suo unico Figlio a morire per noi. Così afferma l'apostolo Paolo: "Egli che non ha risparmiato il suo proprio Figlio, ma che lo ha sacrificato per tutti noi, come non sarà disposto a darci insieme con lui tutti i doni?" (Rom. 8, 32). Ecco, il Padre consegnò Cristo e anche Giuda lo consegnò; forse che il fatto non appare simile? Giuda è traditore; dunque anche il Padre è traditore? Non sia mai, tu dici. Non lo dico io ma l'Apostolo: "Lui che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo diede per tutti noi". Il Padre lo consegnò e Cristo stesso si consegnò da sé. L'Apostolo infatti dice: "Colui che mi amò e diede se stesso per me" (Gal. 2, 20). Se il Padre consegnò il Figlio e il Figlio se stesso, Giuda che cosa fece? Una consegna è stata fatta dal Padre, una dal Figlio, una da Giuda: si tratta di una identica cosa: ma come si distinguono il Padre che dà il Figlio, e il Figlio che dà se stesso e Giuda il discepolo che dà il proprio maestro? Il Padre e il Figlio fecero ciò nella carità; compì la stessa azione anche Giuda, ma nel tradimento. Vedete che non bisogna considerare che cosa fa l'uomo ma con quale animo e con quale volontà agisca. Troviamo Dio Padre nella stessa azione in cui troviamo anche Giuda: benediciamo il Padre, detestiamo Giuda. Perché benediciamo il Padre e detestiamo Giuda? Benediciamo la carità, detestiamo l'iniquità. Quanto vantaggio infatti venne al genere umano dal fatto che Cristo fu tradito? Forse che Giuda ebbe in mente questo vantaggio nel tradire? Dio ebbe in mente la nostra salvezza per la quale siamo stati redenti; Giuda invece ebbe in mente il prezzo che avrebbe ricavato dalla vendita del Signore. Il Figlio ebbe in mente il prezzo che diede per noi. Giuda pensò al prezzo che ricevette per venderlo. Una diversa intenzione, dunque, generò fatti diversi. Se misuriamo questo identico fatto dalle diverse intenzioni, una di esse deve essere amata, l'altra condannata; una deve essere glorificata, l'altra detestata. Tanto vale la carità! Vedete che essa sola valuta e distingue i fatti degli uomini.

8. Abbiamo parlato di fatti simili, se consideriamo modi di agire diversi, troviamo un uomo che si mostra duro per motivo di carità ed uno affabile per motivo di iniquità. Un padre percuote il figlio e un mercante di schiavi invece tratta con mille riguardi. Se fai scegliere tra queste due cose, le percosse e le carezze, chi non preferisce le carezze e fugge le percosse? Se guardi alle persone, la carità colpisce, l'iniquità blandisce. Considerate bene quanto vogliamo sottolineare, che cioè i fatti degli uomini non si differenziano se non

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partendo dalla radice della carità. Possono infatti accadere molti fatti che hanno l'apparenza buona, ma non procedono dalla radice della carità. Anche le spine hanno i fiori: alcune cose sembrano aspre e crudeli, ma si fanno per instaurare una disciplina, sotto il comando della carità. Una volta per tutte dunque ti viene dato un breve precetto: ama e fa' ciò che vuoi; se taci, taci per amore; se parli, parla per amore; se correggi, correggi per amore; se perdoni, perdona per amore. Sia in te la radice dell'amore, poiché da questa radice non può nascere che il bene.

Dio ci ha amati per primo

9. In questo consiste l'amore. "In questo si è manifestato l'amore di Dio in noi: che Dio ha mandato in questo mondo il suo Figlio Unigenito affinché potessimo vivere per mezzo suo". "In questo consiste l'amore": non siamo stati noi ad amarlo, ma è stato lui che ci ha amati. Noi non abbiamo amato lui per primi: infatti egli per questo ci ha amati, perché l'amassimo. E Dio mandò il Figlio suo quale propiziatore per i nostri peccati: propiziatore, sacrificatore. Egli lo immolò quale vittima per i nostri peccati. Dove trovò la vittima? Dove trovò quella vittima pura che voleva offrire? Non la trovò fuori di sé, offrì se stesso. Carissimi, se Dio così ci amò dobbiamo anche noi amarci vicendevolmente (1 Gv. 4, 9-11). "Pietro - egli chiese - mi ami?". E Pietro rispose: "Ti amo". - "Pasci le mie pecore" (Gv. 21, 15-17).

La carità ci fa vedere Dio

10. Dio nessuno l'ha visto mai (1 Gv. 14, 12). Dio è una realtà invisibile, non bisogna cercarlo con gli occhi, ma col cuore. Allo stesso modo che, per vedere questo nostro sole, liberiamo da ogni imperfezione gli occhi del corpo, con cui possiamo vedere la luce; così se vogliamo vedere Dio, purghiamo quell'occhio con cui Dio può essere visto. Dove si trova questo occhio? Ascolta il Vangelo: "Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio" (Mt. 5, 8). Nessuno si faccia un'idea di Dio seguendo il giudizio degli occhi. Questo tale, o si farebbe l'idea di una forma immensa, oppure immaginerebbe negli spazi una grandezza immensurabile, come questa luce che colpisce i nostri occhi e che egli prolunga all'infinito quanto può, oppure si farebbe di Dio l'idea di un vecchio dall'aspetto venerando. Non immaginare nulla di simile. Se vuoi vedere Dio, hai a disposizione l'idea giusta: "Dio è amore". Quale volto ha l'amore? quale forma, quale statura, quali piedi, quali mani? Nessuno lo può dire. Tuttavia ha i piedi, che conducono alla Chiesa, ha le mani, che donano ai poveri, ha gli occhi, coi quali si viene a conoscere colui che è nel bisogno - è detto: "Beato colui che pensa al povero e all'indigente" (Sal. 40, 2) -, ha orecchi, di cui parla il Signore: "Colui che ha orecchi da intendere, intenda" (Lc. 8, 8). Queste varie membra non si trovano separate in luoghi diversi, ma chi ha la carità vede con un colpo d'occhio della sua mente tutto l'insieme. Tu dunque abita nella carità ed essa abiterà in te; resta in essa ed essa resterà in te.

E' mai possibile, fratelli, che uno ami ciò che non vede? Perché allora, quando si fa la lode della carità, vi alzate in piedi, acclamate, osannate? Che cosa vi ho mostrato? Vi ho forse mostrato dei colori? Vi ho messo innanzi oro e argento? Ho portato alla luce forse delle gemme traendole da un tesoro? Che cosa di grande

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ho mostrato ai vostri occhi? Forse che il mio volto nel parlarvi si è mutato? Io sono qui in carne ed ossa, sono qui nello stesso aspetto con cui ho fatto il mio ingresso; anche voi siete qui tali e quali come siete venuti. Ma si fa la lode della carità e scoppiate in acclamazioni. Certamente i vostri occhi non vedono nulla. Ma come provate gioia nell'esaltarla, così vi piaccia di conservarla nel cuore. Capite, fratelli, ciò che voglio dire: io vi esorto, per quanto il Signore lo concede, a procurarvi un grande tesoro. Se si mostrasse a voi un vaso d'oro cesellato, di perfetta fattura, ed esso attraesse i vostri occhi e attirasse a sè il desiderio del vostro cuore e la mano dell'artista vi piacesse così come il peso della materia e lo splendore del metallo, forse che ciascuno di voi non direbbe: "oh, se avessi quel vaso"? Ma lo avreste detto inutilmente, poiché non era in vostro potere averlo. Oppure, se uno volesse averlo, penserebbe di rubarlo dalla casa di un altro. A voi vien fatto l'elogio della carità; se essa vi piace, sia vostra, possedetela; non è necessario che facciate un furto a qualcuno, non è necessario che pensiate di comprarla. La si ottiene gratis. Tenetela, abbracciatela : niente è più dolce di essa. Se è tale quando se ne parla, quale sarà il suo pregio, se posseduta?

Non amare l'errore nell'uomo, ma l'uomo

11. Se per avventura volete conservare la carità, fratelli, innanzi tutto non pensate che essa sia una cosa avvilente e noiosa; non pensate che si conservi in forza di una certa mansuetudine, anzi di remissività e di mollezza. Non così essa si conserva. Non credere di amare il tuo servo, per il fatto che non lo percuoti, oppure che ami tuo figlio, per il fatto che non lo castighi, o che ami il tuo vicino perché non lo rimproveri: questa non è carità, è mollezza. Sia ardente la carità nel correggere, nell'emendare; se i costumi sono buoni, questo ti rallegri; se sono cattivi, vengano emendati, corretti. Non amare l'errore nell'uomo, ma l'uomo; Dio infatti fece l'uomo, l'uomo invece fece l'errore. Ama ciò che fece Dio, non amare ciò che fece l'uomo stesso. Amare una cosa significa distruggere l'altra: quando ami l'una, correggi l'altra. Anche se qualche volta ti mostri spietato, ciò avvenga per il desiderio di correggere.

Ecco perché la carità è simboleggiata dalla colomba che venne sopra il Signore. Fu sotto quest'aspetto di colomba, che lo Spirito Santo è sceso per infondere in noi la carità. Perché questo? Una colomba non ha fiele: tuttavia in difesa del nido combatte col becco e con le penne, colpisce senza amarezza. Anche un padre fa questo; quando castiga il figlio, lo castiga per correggerlo. Come ho detto, il mercante, per vendere, blandisce, ma è duro nel cuore: il padre per correggere castiga, ma è senza fiele. Così comportatevi anche voi verso tutti. Ecco, fratelli, un grande esempio, una grande regola: ciascuno ha figli o vuole averli; oppure, se ha deciso di non avere assolutamente figli nella carne, desidera per lo meno averne spiritualmente: chi è che non corregge il proprio figlio? Chi è quel padre che non dà castighi? E tuttavia sembra infierire. L'amore infierisce, la carità infierisce: ma infierisce, in certo qual modo, senza veleno, al modo delle colombe e non dei corvi.

Questo mi spinge, fratelli miei, a dirvi che sono violatori della carità quanti hanno operato scisma: come hanno odiato la carità, così hanno odiato la colomba. Ma la colomba li accusa: essa proviene dal cielo, i cieli si aprono, resta sopra la testa del Signore. E perché? Per dirci: "Questi è colui che battezza" (Gv. 1, 33). Allontanatevi, predoni; allontanatevi, invasori della proprietà di Cristo! Nelle vostre proprietà, dove volete farla da padroni, avete osato affiggere i titoli di proprietà del Signore. Egli conosce i suoi titoli, rivendica la

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sua proprietà, non distrugge i titoli, ma entra e prende possesso. Così non viene distrutto il battesimo di chi ritorna alla Chiesa Cattolica, affinché non venga distrutto il titolo del suo Re. Ma che cosa avviene nella Chiesa Cattolica? Il titolo viene riconosciuto; il possessore legittimo entra sotto i suoi propri titoli, mentre il predone entrava sotto titoli non suoi.

VIII.

MAI NESSUNO HA VEDUTO DIO

La lode di Dio

1. Amore, parola dolce, ma realtà ancora più dolce. Non possiamo parlare sempre di essa. Siamo infatti occupati in molte cose e diverse attività c'impegnano ovunque, cosicché la nostra lingua non sempre ha tempo di parlare dell'amore; anche se non c'è cosa migliore che parlare di tale argomento. Ma quella carità della quale non sempre è possibile parlare, sempre la si può custodire. Così l'Alleluia che abbiamo or ora cantato, lo cantiamo forse sempre? A stento il canto dell'Alleluia dura, non dico un'ora intera, ma pochi minuti; e poi ci occupiamo di altro. Alleluia, come già sapete, significa: "Lodate Dio". Chi loda Dio con la lingua, non sempre può farlo; chi lo loda invece con la vita, può sempre farlo. Non dobbiamo dimenticarci delle opere di misericordia, dobbiamo nutrire costantemente sentimenti di carità, possedere in noi la pietà, la castità che non viene mai meno, la sobrietà modesta; sia che siamo in pubblico, o in casa, in mezzo agli uomini, nella nostra stanza, quando parliamo e quando tacciamo, quando siamo impegnati in qualche lavoro o siamo liberi da impegni, sempre bisogna osservare quei doveri: perché queste virtù che ho nominato sono dentro di noi. E potrei mai nominarle tutte? Esse sono come un esercito agli ordini di un generale che ha il suo comando dentro la tua mente. Come il generale, servendosi del suo esercito, attua ciò che più gli piace, così il Signore nostro Gesù Cristo, quando comincia ad abitare nell'intimo dell'uomo, cioè nella nostra mente per mezzo della fede, dispone di queste virtù come di suoi ministri. E per mezzo di queste virtù che non possono essere viste con gli occhi, e che tuttavia, se nominate, vengono lodate (non verrebbero lodate se non fossero amate, non sarebbero amate se non si vedessero, e si vedono con un altro occhio, cioè con l'occhio interiore del cuore), per mezzo di queste virtù invisibili vengono mosse in modo visibile le membra, ad esempio i piedi per camminare, ma dove? dove li possa muovere la buona volontà che milita sotto un buon generale. Ad esempio le mani per operare, ma che cosa? ciò che la carità

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avrà comandato, interiormente suscitata dallo Spirito Santo. Le membra dunque si vedono quando si muovono, ma colui che comanda dal di dentro non si vede. E chi sia da dentro a comandare, lo sa propriamente solo colui che comanda e colui che dentro riceve il comando.

L'umiltà

2. Infatti, fratelli, avete da poco udito leggere il Vangelo; l'avete però veramente udito solo se avete prestato non solo l'orecchio del corpo, ma anche quello del cuore. Quale il suo insegnamento? "Guardatevi dal fare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere veduti da loro" (Mt. 6, 1). Forse voleva ammonirci che se compiamo qualche opera buona, dobbiamo sottrarci agli occhi degli uomini e temere di essere visti? Se temi quelli che ti guardano, non avrai nessun imitatore: devi dunque essere visto. Ma non devi agire per questo scopo, cioè per essere visto. Non deve essere questo il fine della tua gioia, non deve essere questo il termine della tua letizia, sì da ritenere di aver conseguito tutto il frutto della tua buona opera, una volta che sei stato visto e lodato. Tutto ciò è niente. Disprezza te stesso, quando vieni lodato; sia lodato in te colui che opera il bene per mezzo tuo. Non voler dunque operare a tua lode il bene che fai, ma a lode di colui che ti consente di fare il bene. Da te hai solo il potere di compiere il male; da Dio il potere di compiere il bene. Al contrario gli uomini perversi vedete come pensano diversamente. Vogliono attribuire a sé quel bene che fanno; se compiono il male ne accusano Dio. Raddrizza questa specie di stortura e perversione che mette, in certo qual modo, tutto sottosopra: metti sotto ciò che è sopra e viceversa. Vuoi abbassare Dio e innalzare te? Ma allora precipiti, non ti elevi; egli infatti sta sempre in alto. Che dunque? A te forse il bene, a Dio il male? Di’ questo, piuttosto, con maggiore verità: A me il male, a lui il bene; e quel bene che ho io, deriva da lui, infatti qualunque cosa io faccia da me, è male. Questa confessione rafforza il cuore e pone il fondamento dell'amore. Se infatti dobbiamo nascondere le nostre opere buone, affinché non vengano viste dagli uomini, che pensare del precetto contenuto nel sermone che il Signore pronunciò sul monte? Un po' prima aveva detto: "Risplendano le opere vostre davanti agli uomini". Né si fermò qui, ma aggiunse: "E glorifichino il Padre vostro che è nei cieli" (Mt. 5, 16). E l'Apostolo che cosa dice? "Io ero un volto sconosciuto alle Chiese della Giudea, che sono in Cristo; ma avevano soltanto sentito dire che chi una volta li perseguitava, ora evangelizzava quella fede che un tempo tentava di distruggere, e davano gloria a Dio a causa mia" (Gal. 1, 22-24). Vedete in che modo anche lui, facendosi conoscere, non si propone la propria lode, ma quella di Dio. E per quanto lo riguarda, lui stesso si confessa devastatore della Chiesa, persecutore insaziabile e malvagio; non siamo noi a incriminarlo. Paolo preferisce che siano i suoi peccati ad essere da noi ricordati, affinché venga glorificato colui che sanò tale malattia. La mano del medico infatti incise la vasta ferita e la risanò. Quella voce proveniente dal cielo prostrò il persecutore e fece sorgere il predicatore; uccise Saulo, diede vita a Paolo. Saul era persecutore di un uomo santo, questo il suo nome quando perseguitava i cristiani; poi da Saulo divenne Paolo. Che significa Paolo? "Piccolo". Dunque quando era Saulo, era superbo ed altero; quando fu Paolo, divenne umile e piccolo. Anche noi diciamo parlando: ti vedrò tra un po', cioè tra un "piccolo" intervallo. Sentilo come afferma di essere diventato "piccolo": "Io infatti sono il più piccolo degli apostoli" (1 Cor. 15, 9); ed ancora: "A me, il più piccolo di tutti i santi" (Ef. 3, 8), come afferma in un altro luogo. Egli era, tra gli apostoli, come la frangia di un vestito; ma la Chiesa delle genti, come l'emorroissa, toccò quest'umile frangia e guarì (Mt. 9, 20-22).

La carità non venga mai meno

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3. Dunque, fratelli, questo ho voluto dirvi, questo vi ripeto, questo, se potessi, non vorrei mai cessare di dire: fate l'una o l'altra opera secondo le circostanze, le ore, i tempi. Forse che si può sempre parlare? sempre tacere? sempre mangiare? sempre digiunare? sempre dare del pane ai poveri? sempre vestire gli ignudi? sempre visitare gli ammalati? sempre pacificare i litiganti? sempre seppellire i morti? Ora si fa una cosa, ed ora un'altra. Questi atti cominciano e finiscono, ma il generale che li comanda non deve né cominciare, né cessare. La carità non venga mai a cessare nell'animo, mentre le opere della carità vengano attuate secondo l'opportunità. "Rimanga", come è stato scritto, "la carità fraterna" (cf. Ebr. 13, 1).

Amore dei nemici e dei fratelli

4. C'è un interrogativo che forse ha turbato qualcuno di voi, in questo tempo che abbiamo dedicato alla trattazione dell'Epistola di san Giovanni; e l'interrogativo è perché mai egli non faccia altro che raccomandare la carità fraterna. Dice infatti: "Chi ama il fratello" (1 Gv. 2, 10); e poi: "A noi è stato dato un comandamento, che ci amiamo a vicenda" (1 Gv. 3, 23). Non ha smesso di ricordare la carità fraterna, mentre l'amore di Dio, cioè la carità con cui dobbiamo amare Dio, non l'ha nominato così spesso, anche se non l'ha del tutto passato sotto silenzio. Non ha accennato affatto invece all'amore verso il nemico in quasi tutta l'Epistola; mentre con tanta forza ci predica e ci raccomanda la carità, non ci dice di amare i nemici. Ci dice invece di amare i fratelli. Poco fa, nella lettura del Vangelo, abbiamo sentito: "Se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avrete? Non fanno questo anche i pubblicani?" (Mt. 5, 46). Perché dunque Giovanni ci raccomanda tanto l'amore fraterno per acquistare la perfezione, mentre il Signore dice che non è sufficiente amare i fratelli, ma dobbiamo spingere il nostro amore fino ad amare i nemici? Chi si spinge fino ad amare i nemici, non dimentica per questo di amare i fratelli. Deve anzi fare come fa il fuoco che prima si attacca alle cose vicine e poi si propaga a quelle più lontane. Il fratello ti è più vicino di qualsiasi altro uomo. A sua volta ti è più vicino colui che non conosci e tuttavia non ti è nemico, che non il nemico il quale si oppone a te. Estendi il tuo amore verso i più vicini, ma non pensare che sia solo un estendersi; se ami quelli che ti sono vicini, ami in pratica te stesso. Spingiti ad amare quelli che non conosci, che non ti fecero nulla di male. Ma va’ anche oltre; spingiti ad amare i nemici. Questo con certezza ti comanda il Signore. Perché dunque Giovanni ha taciuto sull'amore al nemico?

Carità e amicizia

5. Ogni dilezione, anche quella carnale, che abitualmente si chiama amore e non dilezione (dilezione si dice di solito dei sentimenti spirituali e ad essi piuttosto si estende il suo significato), ogni dilezione, fratelli carissimi, suppone una certa benevolenza verso quelli che amiamo. Infatti non dobbiamo provare verso gli uomini una dilezione - possiamo dire provare una dilezione, o amare, per servirci della parola usata dal Signore quando chiese a Pietro: Pietro, mi ami tu? (Gv. 21, 17) - non dobbiamo, dico, provare questo amore per gli uomini come fanno i golosi che dicono: amo i tordi. Li amano infatti per ucciderli e divorarli. Il goloso dice di amarli e li ama perché non siano più, li ama per eliminarli. Tutto ciò che amiamo per cibarcene, lo amiamo al fine di consumarlo e di venirne ristorati. Gli uomini devono forse essere amati in questo modo,

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come per essere divorati? Esiste invece una amicizia di benevolenza per la quale a volte offriamo dei doni a quelli che amiamo. E se non ci fosse nulla da donare? A chi ama basta la sola benevolenza.

Non dobbiamo certo desiderare che ci siano dei bisognosi, per poter così esercitare le opere di misericordia. Tu dai del pane a chi ha fame, ma sarebbe meglio che nessuno avesse fame, anche se in tal modo non si avrebbe nessuno cui dare. Tu offri dei vestiti a chi è nudo, ma quanto sarebbe meglio se tutti avessero i vestiti e non ci fosse questa indigenza. Tu dai sepoltura a chi è morto, ma quanto sarebbe meglio che giungesse quella vita in cui nessuno più morirà.

Tu metti d'accordo i litiganti, voglia il cielo che si stabilisca quella eterna pace di Gerusalemme, dove nessuno potrà litigare! Sono doveri legati a particolari necessità. Elimina i bisognosi, cesseranno le opere di misericordia. Ma se cesseranno le opere di misericordia, si estinguerà forse l'ardore della carità? Più genuino è l'amore che porti verso un uomo che non ha bisogno di nulla, al quale non devi dare nulla; questo amore sarà più puro e molto più sincero. Se infatti dai in prestito ad un miserabile, può capitare che desideri esaltarti di fronte a lui e averlo a te soggetto, lui che ti ha fatto compiere quell'atto benefico. Si trovò nel bisogno e tu l'hai aiutato; sembri essergli superiore, perché hai dato a lui. Desidera che ti sia eguale, affinché ambedue siate soggetti ad un solo Signore, al quale nulla si può dare.

Obbedisci a chi è sopra di te

6. L'anima orgogliosa proprio in ciò ha sorpassato la misura ed è diventata in certo qual modo avara; perché "radice di tutti i mali è l'avarizia" (1 Tim. 6, 10). Fu anche detto che "principio di ogni peccato è la superbia" (Sap. 10, 15). Ci domandiamo a volte come possono accordarsi queste due proposizioni: "radice di tutti i mali è l'avarizia", e quest'altra: "principio di ogni peccato è la superbia". Se la superbia è il principio di ogni peccato, è per ciò stesso la radice di tutti i mali. Ma è anche certo che pure l'avarizia è radice di tutti i mali: concludiamo perciò che nella stessa superbia c'è l'avarizia, in quanto l'uomo oltrepassa la misura. Che significa essere avari? Cercare al di là del sufficiente. Adamo cadde per la superbia: è detto infatti che "principio di ogni peccato è la superbia". Cadde forse per avarizia? Chi più avaro di colui al quale Dio non basta? Abbiamo letto, fratelli, che l'uomo è stato fatto ad immagine e somiglianza di Dio. Che cosa disse Dio dell'uomo? "Abbia potere sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutti gli animali che strisciano sulla terra" (Gen. 1, 26). Il Signore ha forse detto: l'uomo abbia potere sugli uomini? Disse soltanto: "abbia potere", un potere conforme alla natura, ma potere su chi? "Sui pesci del mare, sugli uccelli del cielo e su tutti gli animali che strisciano sulla terra". Perché su questi esseri è naturale che l'uomo abbia potere? Perché l'uomo deriva questo suo potere dal fatto che fu creato ad immagine di Dio. In che cosa fu fatto ad immagine di Dio? Nell'intelligenza, nella mente, nell'uomo interiore, nel fatto che l'uomo capisce la verità discerne la giustizia e l'ingiustizia, sa da chi è stato fatto, può conoscere il suo creatore e lodarlo. Possiede questa intelligenza chi possiede la saggezza. Poiché molti, per colpa delle cattive passioni, corrompono in se stessi l'immagine di Dio e spengono in certo qual modo la fiamma dell'intelligenza con la perversità della loro condotta, la Scrittura grida loro: "Non diventate come un cavallo ed un mulo che non hanno intelligenza" (Sal. 31, 9). E' come se dicesse: ti ho messo al di sopra del cavallo e del mulo, ti ho fatto a mia immagine, ti ho dato potere sopra questi esseri; e questo è possibile perché le bestie non hanno un'anima

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razionale, mentre tu coll'anima razionale comprendi la verità, capisci ciò che sta sopra di te. Assoggettati dunque a colui che sta sopra di te e ti staranno soggetti quegli esseri sopra i quali sei stato preposto. Avendo l'uomo con il peccato abbandonato colui sotto il quale doveva stare, venne assoggettato a quegli esseri sui quali doveva comandare.

Liberazione spirituale

7. Cercate di comprendere ciò che voglio dire: Dio, l'uomo, gli animali. Dio sta sopra di te, gli animali sotto di te. Riconosci colui che sta sopra di te, affinché ti riconoscano le creature che stanno sotto di te. Per questa ragione, avendo Daniele riconosciuto Dio sopra di sè, i leoni riconobbero che lui stava sopra di loro. Se invece tu non riconosci colui che sta sopra di te, disprezzando chi ti è superiore, ti assoggetti a un inferiore. Che cosa contribuì a domare la superbia degli egiziani? Le rane e le mosche. Dio poteva mandare loro anche i leoni, ma il leone è per spaventare personaggi importanti. Quanto più gli egiziani erano superbi, tanto più la loro vanagloria fu infranta da esseri disprezzabili ed abbietti. I leoni riconobbero invece Daniele perché egli era soggetto a Dio.

E allora, i martiri che combatterono contro le bestie e sono stati straziati dai morsi delle belve, non erano sottomessi a Dio? Oppure bisognerà dire che i tre fanciulli della fornace erano servi di Dio, mentre non lo erano i fratelli Maccabei? Il fuoco mostrò che quei tre fanciulli erano servi di Dio, perché non li bruciò né consumò i loro vestiti (cf. Dan. 3, 50), e non avrebbe manifestato quali servi di Dio i Maccabei? Certo che li manifestò. Sì, manifestò anch'essi, fratelli (cf. 2 Macc. 7). Ma c'era bisogno di una prova permessa dal Signore, come dice la Scrittura: "Dio percuote con la verga ogni uomo che accoglie nel numero dei suoi figli" (Ebr. 12, 6). Fratelli, ritenete che la lancia avrebbe mai trapassato il petto del Signore, se lui stesso non avesse permesso ciò? Credete che egli sarebbe rimasto sospeso alla croce, senza la sua volontà? Le sue stesse creature non l'avrebbero riconosciuto? O non ha voluto piuttosto presentare ai suoi fedeli un esempio di pazienza? Dio ha liberato alcuni in modo visibile, altri li ha liberati, ma non in modo visibile: tutti invece ha liberato spiritualmente; spiritualmente non ha abbandonato nessuno. Parve che avesse abbandonato alcuni, dal punto di vista dell'aiuto esterno, mentre avrebbe salvato altri. Egli ha appunto salvato costoro perché non si credesse che ciò non è in suo potere. Ti ha dato una prova della sua onnipotenza, cosicché, quando non interviene, tu capisca che questo avviene per un suo disegno a te nascosto e non già per qualche sua difficoltà. Ma che significa questo, fratelli? Quando ci saremo liberati da tutti i nodi della nostra condizione di mortali, quando passeranno i tempi della tentazione, quando il fiume di questa storia terrena avrà compiuto il suo corso e riprenderemo quella veste primitiva che è l'immortalità, da noi perduta col peccato, quando questo nostro essere corruttibile, e cioè la nostra carne, avrà assunto qualità incorruttibili e questa nostra carne mortale avrà ottenuto l'immortalità (cf. 1 Cor. 15, 53-54), allora ogni creatura riconoscerà in noi i perfetti figli di Dio, quando non sarà più necessario essere tentati e provati. Allora tutto sarà a noi sottomesso, se qui siamo stati sudditi di Dio.

Vanagloria

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8. Il cristiano deve essere tale da non gloriarsi sopra gli altri uomini. Dio ti ha dato di essere al di sopra delle bestie, di essere cioè superiore alle bestie. Questo lo hai dalla natura: sarai sempre superiore alle bestie. Ma se pretendi di essere superiore a un altro uomo, gli porterai invidia, poiché vedi che è uguale a te. Devi invece volere che tutti gli uomini ti siano uguali. Se superi un altro in saggezza, devi desiderare che anche lui sia saggio. Fin quando resta meno avveduto, deve imparare da te; fin quando è ignorante, ha bisogno di te; e tu sembri il maestro, lui lo scolaro; tu dunque superiore perché maestro, lui inferiore perché discepolo. Se non desideri che lui ti sia uguale, vorrai che egli resti sempre tuo discepolo. Ma se vuoi averlo sempre tuo discepolo, sei un maestro invidioso. E se sei tale, come puoi dirti maestro? Ti supplico, non insegnargli la tua invidia. Senti l'Apostolo che dice nella sua grande carità: "Vorrei che tutti gli uomini fossero come me" (1 Cor. 7, 7). Come mai voleva che tutti gli fossero uguali? Egli era superiore a tutti proprio perché nella sua carità desiderava che tutti fossero uguali. L'uomo dunque ha oltrepassato la misura, volle essere troppo avido, ponendosi sopra gli altri uomini, mentre aveva ricevuto soltanto una superiorità sopra gli animali: e questa è la superbia.

Motivazione interiore

9. Considerate le opere grandi che la superbia sa compiere; considerate come appaiano simili e quasi pari a quelle della carità. La carità offre cibo all'affamato, ma lo fa anche la superbia: la carità lo fa, perché venga lodato il Signore, la superbia per dar lode a se stessa. La carità veste chi è nudo e lo fa anche la superbia; la carità digiuna, ma digiuna anche la superbia; la carità seppellisce i morti, ma li seppellisce anche la superbia. Tutte le opere buone che la carità vuole fare e fa, le medesime vengono messe in atto dalla superbia che le mena attorno come suoi cavalli. Ma la carità è nel cuore: non lascia spazio all'attivismo della superbia che si muove scompostamente. Guai all'uomo che tiene la superbia a proprio auriga, perché necessariamente finirà nel precipizio.

Ma come sapere se è la superbia a compiere le azioni buone? Chi la vede? Quale il segno di riconoscimento? Vediamo le opere: la misericordia offre cibo, lo fa anche la superbia; la misericordia accoglie un ospite, lo fa anche la superbia; la misericordia intercede per un povero, lo fa anche la superbia. Che significa ciò? Che non riusciremo a capire, se esaminiamo le opere. Arrivo a dire - ma non sono io, è lo stesso Paolo -: la carità accetta la morte, cioè l'uomo, che ha la carità, confessa il nome di Cristo e va al martirio; ma anche la superbia confessa Cristo e va al martirio. Il primo uomo ha la carità, il secondo non ha la carità. Ma chi non ha la carità ascolti che cosa dice l'Apostolo: "se distribuissi tutti i miei beni ai poveri, e se dessi il mio corpo perché sia bruciato, ma non avessi la carità nulla mi vale" (1 Cor. 13, 3).

La divina Scrittura, dunque, da questa ostentazione esteriore c'invita a rientrare in noi stessi; a tornare nel nostro intimo da questa superficialità che fa sfoggio di sè innanzi agli uomini. Torna all'intimo della tua coscienza, interrogala. Non guardare a ciò che fiorisce di fuori, ma alla radice che sta nascosta in terra. Ha preso radici in te l'avidità del denaro? In tal caso potrà dirsi che ci sia un'apparenza di opere buone, ma opere veramente buone non potranno esserci. Ha preso radici dentro di te la carità? Sta' sicuro, nessun male ne può derivare. Il superbo accarezza, l'amore castiga. L'uno riveste, l’altro colpisce. Il superbo dona dei vestiti per piacere agli uomini; chi possiede l'amore invece colpisce per correggere con la disciplina. Si

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riceve di più dal castigo che proviene dall'amore, che dall'elemosina che proviene dalla superbia. Ritornate in voi stessi, fratelli. In tutte le cose che fate, guardate a Dio come a vostro testimone. Esaminate con quale animo agite, dal momento che Dio vi vede. Se il vostro cuore non vi accusa di agire superbamente, bene, state sicuri. Non temete, quando agite bene, che altri vi vedano. Temi invece di agire allo scopo di essere lodato. Gli altri vedano, ma ne lodino il Signore. Se ti nascondi agli occhi dell'uomo, ti nascondi in realtà all'imitazione dell'uomo e sottrai la lode dovuta a Dio. Hai davanti a te due persone cui fare l'elemosina: entrambe hanno fame, l’uno di pane, l’altro di giustizia. Tra questi due affamati - poiché è stato detto: "Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia perché saranno saziati" (Mt. 5, 6) - tra questi due affamati sei stato posto tu come operatore di bene. Se la carità muove il tuo agire, essa deve aver pietà di ambedue e portare aiuto ad entrambi. Il primo chiede qualcosa da mangiare, il secondo chiede qualcosa da imitare. Dai da mangiare al primo, dai te stesso come esempio all'altro. Hai dato l'elemosina ad entrambi: hai reso il primo più sollevato, per aver eliminato la sua fame; hai reso il secondo tuo imitatore, proponendogli l'esempio da imitare.

Misericordia

10. Siate dunque misericordiosi, abbiate sentimenti di pietà, perché amando i nemici, amate i fratelli. Non pensate che Giovanni non abbia detto nulla sull'amore dei nemici: lo ha fatto parlando della carità fraterna. Voi amate i fratelli: in che modo - domanderai - io amo i fratelli? Ti chiedo: perché ami un nemico? Perché lo ami? Perché abbia la salute in questa vita? - Che vale, se non gli giova? Perché sia ricco? - Che vale, se da queste stesse ricchezze sarà accecato? Perché si sposi? - Che vale, se poi soffrirà una vita di pena? Perché abbia figli? - Che vale, se questi saranno cattivi? Incerti sono tutti questi beni che, per il fatto che lo ami, ti pare di dover desiderare per il nemico, questi beni sono proprio incerti. Desidera invece che egli ottenga insieme con te la vita eterna; desidera che egli ti diventi fratello. Se dunque questo desideri mentre ami il nemico, che ti diventi fratello, quando lo ami, ami un tuo fratello. Non ami in lui ciò che è, ma quel che tu desideri che divenga.

Se non sbaglio, ho già ripetuto alla Carità vostra questo esempio: immaginiamo di avere davanti agli occhi un tronco di quercia; un bravo falegname vede questo tronco non ancora lavorato, appena tagliato dal bosco, e lo vuole per sé, per farne non so che. Certo non s'è interessato a quel legno perché rimanga sempre lo stesso. E' la sua arte che gli fa intuire ciò che il legno sarà; il suo interesse non è rivolto al tronco in sé, come è ora, lo ama per quel che ne farà, non per quello che è. Così Dio ci ha amati, pur essendo noi peccatori. Ripeto, Dio ha amato noi peccatori. Disse infatti: "Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma gli ammalati" (Mt. 9, 12). Forse ha amato noi peccatori perché restassimo tali? Questo falegname ci ha guardati come si guarda a un tronco tagliato dal bosco, avendo in mente l'opera che avrebbe saputo trarne fuori, non il tronco grezzo. Così tu vedi il nemico che ti avversa, ti aggredisce e ti azzanna con le sue parole, ti esaspera coi suoi insulti, non ti dà pace col suo odio. Ma non devi dimenticare di vedere in lui un uomo. Vedi le opere avverse compiute dall’uomo, ma vedi ciò che in lui è stato fatto da Dio: il fatto che è un uomo, proviene da Dio. Il fatto che ti odia e ti invidia proviene da lui. Che cosa dici nel tuo animo? "Signore, sii a lui propizio, perdona i suoi peccati, incutigli terrore, trasformalo". Non ami in lui ciò che è, ma ciò che vuoi che divenga. Perciò quando ami il nemico, ami il fratello.

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Di conseguenza il perfetto amore è l'amore del nemico: e questo perfetto amore è incluso nell'amore fraterno. Nessuno dica che l'apostolo Giovanni ci ha ammonito un po' meno su questo punto, mentre Cristo nostro Signore ci ha ammonito di più: Giovanni ci ha ammonito di amare i fratelli, Cristo ci ha ammonito di amare anche i nemici. Fa' attenzione al perché Cristo ci ha ammonito di amare i nemici. Forse perché restino sempre nemici? Se ti ha dato questo comando perché i tuoi nemici rimangano nemici, tu li odi, non li ami. Guarda come ha amato Gesù i suoi nemici, desiderando che essi non restassero suoi persecutori; disse: "Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno" (Lc. 23, 34). Quelli per cui chiese il perdono volle che venissero trasformati interiormente, e costoro si è degnato di cambiarli da nemici in fratelli, e così veramente fece. Egli fu ucciso, fu sepolto, risorse, ascese al cielo, mandò sui discepoli lo Spirito Santo; questi incominciarono a predicare fiduciosi il suo nome, fecero dei miracoli in nome di lui crocifisso e ucciso: gli uccisori del Signore videro queste cose ed essi, che infierendo contro di lui avevano versato il suo sangue, convertendosi alla fede lo bevvero.

11. Vi ho detto queste cose, fratelli, tirando le cose un po' per il lungo: tuttavia poiché era necessario raccomandare alla Carità vostra la stessa carità, così abbiamo fatto. Se in realtà la carità non è in voi, è come se non avessimo detto nulla. Se essa è in voi, abbiamo per così dire aggiunto olio alla fiamma e forse, con queste parole, l'abbiamo accesa anche in chi non l'aveva. In uno s'accrebbe ciò che vi era; in un altro iniziò ad esserci ciò che non c'era. Abbiamo detto queste cose affinché non siate pigri nell'amare i nemici. C'è qualcuno che ti perseguita? Egli ti perseguita e tu prega; egli odia e tu abbi pietà. E' la febbre della sua anima che ti odia, ma diventerà sano e ti ringrazierà. I medici, come amano i malati? Amano forse le persone perché ammalate? Se le amassero così, desidererebbero che restassero sempre ammalate. Essi amano i malati affinché da malati diventino sani, non perché restino ammalati. Quanti fastidi devono sopportare i medici dalle persone frenetiche! Quanti insulti! Spesse volte vengono anche percossi. Il medico combatte la febbre, ma perdona alle persone. E che dirò, fratelli? Il medico ama il suo nemico? Odia anzi il suo nemico ch'è la malattia: odia la malattia ed ama la persona che lo percuote; egli odia la febbre. Da che infatti viene colpito? Dalla malattia, dall'infermità, dalla febbre. Il medico elimina ciò che arreca danno alla persona, perché rimanga ciò per cui la persona possa congratularsi con lui. Fa' così anche tu: se il nemico ti odia e ti odia ingiustamente, sappi che regna in lui la bramosia del mondo, da lì nasce il suo odio. Se anche tu lo odi, rendi male per male. Che cosa produce rendere male per male? Prima compiangevo un solo malato, colpito dalla malattia dell’odio; ora devo compiangerne due, se anche tu rispondi con l'odio. Ma quell'uomo s'impossessa del tuo patrimonio, ti sottrae non so quale tuo bene che possiedi qua in terra; per questo lo odi, appunto perché qua in terra ti fa penare. Non soffrirne angustia, portati su in alto, nel cielo: il tuo cuore sarà dove c'è ampiezza di spazi, tanto che non soffrirai più alcuna angustia nella speranza della vita eterna. Esamina ciò che il nemico ti ha tolto; egli non potrebbe toglierti neppure questi beni, se non lo permettesse colui che "percuote di verga ogni uomo che accoglie nel numero dei suoi figli" (Ebr. 12, 6). Proprio quel nemico è in certo modo il ferro che Dio adopera per sanarti. Se Dio vede utile che il nemico ti spogli, lo lascia fare; se vede che è utile che il nemico ti colpisca, gli permette di colpirti; per mezzo di lui Dio ti cura; tu desidera che anche lui sia sanato.

Dio abita in noi per la carità

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12. "Dio nessuno l'ha visto mai". Ecco, dilettissimi: Se ci amiamo scambievolmente, Dio resterà in noi, e il suo amore in noi sarà perfetto. Comincia ad amare e giungerai alla perfezione. Hai cominciato ad amare? Dio ha iniziato ad abitare in te. Ama colui che iniziò ad abitare in te, affinché abitando in te sempre più perfettamente, ti renda perfetto. Da questo conosciamo che rimaniamo in lui e lui in noi, dal fatto che ci ha dato il suo Spirito (1 Gv. 4, 12-13). Bene, sia ringraziato il Signore! Ora sappiamo che egli abita in noi. E questo fatto, cioè che egli abita in noi, da dove lo conosciamo? Da ciò che Giovanni afferma, cioè che egli "ci ha dato il suo Spirito". Ed ancora, da dove conosciamo che "ci ha dato il suo Spirito"? Ripeto, che ci ha dato il suo Spirito, come lo sappiamo? Interroga il tuo cuore: se esso è pieno di carità, hai lo Spirito di Dio. Da dove sappiamo che è proprio quello il segno che lo Spirito di Dio abita in noi? Interroga l'apostolo Paolo: "L'amore di Dio è stato diffuso nei nostri cuori, attraverso lo Spirito Santo che a noi fu dato" (Rom. 5, 5).

Cristo nostra speranza

13. E noi abbiamo visto e siamo testimoni che il Padre ha mandato il Figlio suo, quale Salvatore del mondo. Voi che siete ammalati, abbiate fiducia: è venuto un tal medico e voi ancora disperate? I malanni erano grandi, le ferite insanabili, la malattia disperata. Tu guardi alla gravità del tuo male e non consideri l'onnipotenza del medico? Il tuo caso è disperato, ma egli è onnipotente; ne fanno testimonianza coloro che per primi sono stati guariti e ci hanno fatto conoscere in lui il medico; essi tuttavia furono salvati più nella speranza che nella realtà. Così infatti dice l'Apostolo: "Nella speranza siamo salvati" (Rom. 8, 24). Abbiamo cominciato ad essere guariti nella fede; la nostra salvezza perciò sarà portata a termine quando questo nostro corpo corruttibile si rivestirà di incorruttibilità e questo nostro corpo mortale si rivestirà d'immortalità. Questa è speranza, non ancora realtà. Ma chi gode nella speranza, avrà un giorno anche la realtà; chi invece non ha speranza, non può arrivare alla realtà.

Dio ci ha cercati...

14. Chiunque confesserà che Gesù è Figlio di Dio, Dio rimarrà in lui e lui in Dio. Possiamo ormai commentare con poche parole. "Chiunque confesserà", non con le parole ma coi fatti, non con la lingua ma con la vita. Molti infatti "confessano" a parole e negano coi fatti. Noi abbiamo conosciuto e creduto quale amore Dio ha verso di noi. Ancora ti chiedo: da dove hai questa conoscenza? Dio è amore. Già ha fatto questa affermazione e qui la ripete. Non poteva Giovanni raccomandarti la carità in modo più incisivo che chiamandola Dio. Forse eri tentato di disprezzare un dono di Dio, ma disprezzerai anche Dio? "Dio è amore". E chi resta nell'amore, resta in Dio, e Dio rimane in lui (1 Gv. 4, 15-16). Abitano l'uno nell'altro, chi contiene e chi è contenuto. Tu abiti in Dio ma per essere contenuto da lui; Dio abita in te, ma per contenerti e non farti cadere. Non devi credere che tu diventi casa di Dio, così come la tua casa contiene il tuo corpo. Se la casa in cui abiti crolla, tu cadi; se invece tu crolli, Dio non cade. Egli resta se stesso, se tu l'abbandoni; resta se stesso quando ritorni a lui. Se diventi sano, non gli aggiungi nulla: sei tu che ti purifichi, ti ricrei e ti correggi. Egli è una medicina per il malato, una regola per chi è disviato, una luce per il cieco, per l'abbandonato una casa. Tutto dunque vien dato a te. Cerca di capire che non sei tu a dare qualcosa a Dio, allorché vai a lui, neppure la proprietà di te stesso. Dio dunque non avrà dei servi, se tu non vorrai e se nessuno vorrà? Dio non ha bisogno di servi, ma i servi hanno bisogno di Dio; perciò un salmo dice: "Dissi al

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Signore: tu sei il mio Dio". E' lui il vero Signore. E che cosa aggiunge il salmista? "Tu non hai bisogno dei miei beni" (Sal. 15, 2). Tu, uomo, hai bisogno delle prestazioni del tuo servo, il servo ha bisogno dei tuoi beni, che tu gli offra da mangiare; tu da parte tua hai bisogno dei suoi servizi, che ti accudisca. Non puoi da te attingere l'acqua, non puoi cucinare, non puoi portare per la briglia, né strigliare il tuo cavallo. Ecco dunque che hai bisogno dell'opera del tuo servo, hai bisogno dei suoi servizi. Non sei dunque un vero signore, perché hai bisogno di un inferiore. Lui è il vero Signore, che non ci domanda nulla; e, sventurati noi, se non cerchiamo lui. Non cerca nulla da noi, cerca noi, e ci ha cercato quando noi non cercavamo lui. Una pecora si era smarrita, egli la ritrovò e pieno di gaudio la riportò sulle sue spalle. Era forse necessaria al pastore quella pecora o non piuttosto il pastore alla pecora?

Quanto più godo di parlare della carità, tanto meno vorrei che questa Epistola finisse. Nessuna è più ardente nel raccomandare la carità. Nulla di più dolce vi può essere detto, nulla di più salutare può essere bevuto dalla vostra mente, purché però confermiate in voi il dono di Dio con una santa vita. Non siate ingrati a questa immensa grazia di Colui che, avendo un Figlio Unigenito, non volle che rimanesse solo, ma, perché avesse dei fratelli, adottò dei figli che potessero con lui possedere la vita eterna.

IX.

IN QUESTO IL NOSTRO AMORE E' PERFETTO

Dio è amore

1. Ricorda la Carità vostra che ci rimane da trattare ed esporre l'ultima parte dell'Epistola dell'apostolo Giovanni; lo facciamo con l'aiuto che il Signore vorrà concederci. Siamo ben consapevoli di questo nostro debito e voi d'altra parte dovete ricordarvi di esigerne il pagamento. Proprio questa carità, che è il principale e quasi l'unico argomento di questa Epistola, rende noi debitori scrupolosissimi e voi graditissimi esattori. Vi ho definito esattori graditissimi perché dove manca la carità l'esattore diventa persona assai sgradita. Ma dove c'è carità l'esattore è persona gradita; e, a sua volta, colui dal quale si esige, pur essendo costui costretto a qualche fatica, anche lui viene aiutato dalla carità stessa che riesce ad alleggerire e persino ad annullare la fatica di lui. Non vediamo forse negli stessi animali, che pure non parlano e non

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hanno la ragione, e nei quali non vige la carità spirituale bensì una carità carnale e naturale, con quanto affetto i piccoli chiedono il latte alle mammelle della madre? E sebbene con forza il piccolo dia dei colpi contro le mammelle, la madre non ci bada, purché il piccolo venga a succhiare e ad esigere ciò che la carità impone di dare. Spesso osserviamo vitelli già divezzati percuotere con la testa le mammelle delle loro madri e sollevare i corpi di esse con impeto da terra, senza che esse tentino di allontanarli con le zampe; anzi, se il piccolo non s'è avvicinato a succhiare, vanno muggendo per richiamarlo a sè. Se dunque c'è in noi quella spirituale carità cui accenna l'Apostolo quando dice: "Mi son fatto piccolo in mezzo a voi, come una nutrice che circonda di tenerezza i suoi figli" (1 Tess. 2, 7), allora vi amiamo, quando vi mostrate esigenti. Non amiamo i pigri, poiché per i tiepidi nutriamo apprensione.

Abbiamo dovuto mettere da parte il testo di questa Epistola, perché nelle recenti festività abbiamo dovuto leggere altri importanti testi liturgici, che non si poteva tralasciare di leggere e spiegare. Ma adesso ritorniamo al programma interrotto e la Santità vostra presti tutta l'attenzione a quest'ultima parte.

Non so come Giovanni avrebbe potuto farci l'elogio della carità con parole più sublimi di queste: "Dio è carità" (1 Gv. 4, 16). C'è qui una lode tanto breve eppure tanto grande: breve nelle parole, grande nella penetrazione. Si fa tanto presto a pronunciare la frase: "Dio è amore"! Una frase breve, di un solo periodo, ma se la soppesi, quante cose contiene! "Dio è amore"; e Giovanni aggiunge: "Chi resta nell'amore, resta in Dio e Dio rimane in lui" (1 Gv. 4, 16). Dio sia la tua casa e tu sii la casa di Dio; resta in Dio e che Dio resti in te. Dio resta in te per contenerti; tu resti in Dio per non cadere. L'apostolo Paolo dice infatti della carità: "La carità non viene mai meno" (1 Cor. 13, 8). Come è possibile che cada colui che è contenuto da Dio?

La carità scaccia il timore

2. In questo consiste la perfezione dell'amore in noi, nel fatto che abbiamo fiducia nel giorno del giudizio: come è lui, così siamo anche noi in questo mondo (1 Gv. 4, 17). Ci dice qui in che modo ciascuno può esaminarsi sul progresso fatto in lui dalla carità, o piuttosto sul suo progresso nella carità. Infatti, se è vero che Dio è carità, Dio, né progredisce, né regredisce; dicendo allora che in te progredisce la carità, si vuol intendere che sei tu a progredire in essa. Chiediti dunque quanto sia il tuo progresso nella carità, ascolta quanto può risponderti la coscienza per conoscere la misura dei tuoi progressi.

Giovanni ci ha promesso di mostrare il segno da cui possiamo cogliere il nostro progresso con le parole: "In questo consiste la perfezione dell'amore". Chiedi pure: in che? "Nel fatto che abbiamo fiducia nel giorno del giudizio". Chi appunto ha fiducia nel giorno del giudizio, costui ha raggiunto la perfezione della carità. Ma che significa avere fiducia nel giorno del giudizio? Significa non temerne l'arrivo. Alcuni non credono nel giorno del giudizio; essi non possono certo avere fiducia in quel giorno in cui non credono. Ma costoro lasciamoli pure da parte. Dio un giorno li susciterà alla vita, ma ora a che pro interessarci di morti, quali essi sono? Essi non credono che ci sarà un giorno del giudizio, non lo temono e naturalmente neppure lo desiderano, tutto questo perché non credono. Se uno comincia a credere che verrà il giorno del giudizio, da

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quel momento comincerà anche a temerlo; ma se uno teme, non ha fiducia nel giorno del giudizio, né la carità in lui è ancora perfetta. Che fare allora? Disperarsi? Ma perché non sperare che ci sarà la fine in ciò che vedi che c'è stato l'inizio? Quale inizio? mi chiederai. Quello del timore. Senti cosa dice la Scrittura: "Il timore di Dio è il principio della sapienza" (Sap. 1, 16). Quando si incomincia a temere il giorno del giudizio, ci si incomincia anche ad emendare, ed a combattere i nemici che sono i propri peccati. Si incomincia a risuscitare interiormente e a mortificare le proprie membra terrene, secondo le parole dell'Apostolo: "Mortificate le vostre membra terrene" (Col. 3, 5). Membra terrene sono - a detta dello stesso Apostolo - i desideri colpevoli, come spiega subito dopo, "l'avarizia", "l'impurità", ed altri vizi di cui ci dà l'elenco. Chi ha incominciato a temere il giorno del giudizio, quanto più mortifica le membra terrene tanto più risuscita ed irrobustisce quelle celesti. Membra celesti sono tutte le opere buone. Sviluppandosi le membra celesti, si incomincia anche a desiderare ciò che prima si temeva. Chi prima temeva il ritorno di Cristo, perché pauroso che Cristo avrebbe trovato in lui un empio da condannare, ora desidera che egli venga, poiché potrà trovare in lui un giusto da premiare. Dal momento in cui un'anima casta desidera il ritorno di Cristo, desiderando l'abbraccio dello sposo, lascia gli amori adulteri; si fa interiormente vergine ad opera della fede, della speranza e della carità. Essa allora si sente tutta fiduciosa pensando al giorno del giudizio. Quando prega e dice: "Venga il tuo regno" (Mt. 6, 10), non entra in conflitto con se stessa. Chi teme che venga il Regno di Dio, teme che questa preghiera venga esaudita. Che preghiera è questa, se si ha timore di essere esauditi? Chi prega nella fiducia che nasce dalla carità, brama che il Regno di Dio venga già fin d'ora. Mosso da tale desiderio, così pregava il salmista: "Tu, Signore, perché tardi? Volgiti, e chiama a te l'anima mia" (Sal. 6, 4-5). Gemeva perché Dio tardava a mostrarsi. Certi uomini sopportano la morte; altri, che hanno raggiunto la perfezione, sopportano la vita.

Mi spiego. Chi ama ancora questa vita mortale, quando giunge la morte l'accetta con pazienza, lotta contro se stesso, rassegnandosi alla volontà di Dio. Agisce così più per fare la volontà di Dio che non la propria: e dal desiderio della vita presente sorge una lotta tra lui e la morte; ha bisogno di pazienza e fortezza per morire in serenità d'animo. Costui muore rassegnato. Ma chi è attratto dal desiderio della morte e brama, come dice l'Apostolo, "di sciogliersi dal corpo per essere con Cristo", non muore con rassegnazione; anzi, dopo aver sopportato la vita, muore con gioia. Ecco l'esempio dell'Apostolo, che ha vissuto sopportando la vita, non amando cioè la vita presente, ma tollerandola. "E' molto meglio - afferma lui stesso - sciogliermi dal corpo per essere con Cristo; ma è pur necessario, a causa vostra, restare nella carne" (Fil. 23, 24). Orsù dunque, miei fratelli, fate che sorga dentro di voi il desiderio del giorno del giudizio. Non si dà prova di perfetta carità, se non quando si incomincia a desiderare il giorno del giudizio. Ma lo desidera questo giorno chi ha fiducia in esso; e questo avviene in coloro la cui coscienza non è agitata da timore, perché confermata dalla perfetta e sincera carità.

Simili a Dio, se preghiamo per i nemici

3. "In questo consiste la perfezione dell'amore in noi, nel fatto che abbiamo fiducia nel giorno del giudizio". Perché abbiamo fiducia? " Perché come è lui, così siamo anche noi in questo mondo" (1 Gv. 4, 17). Tu hai così conosciuto il motivo della tua fiducia: che cioè "come è lui, così siamo anche noi in questo mondo". Non pare che qui Giovanni dica qualcosa di impossibile? Può l'uomo essere mai come Dio?

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Già vi ho spiegato che questo "come" non sempre sta per indicare uguaglianza, ma una certa rassomiglianza. Sarebbe come se si dicesse: questa immagine ha orecchie, come le ho io. Evidentemente questo paragone non comporta una stretta eguaglianza e tuttavia tu lo esprimi col "come". Ma se siamo fatti ad immagine di Dio, perché esitare nel dire che siamo come Dio? Siamo immagine di Dio secondo il modo umano, non nell'uguaglianza perfetta. Da dove dunque ci deriva la fiducia nel giorno del giudizio? Da questo: "Come è lui, così siamo anche noi in questo mondo". Dobbiamo mettere queste parole in rapporto con la carità, ed esaminarle bene. Dice il Signore nel Vangelo: "Se amate quelli che vi amano, che ricompensa meritate? Non fanno così anche i pubblicani?" (Mt. 5, 46). Che cosa vuole da noi il Signore? "Io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori" (Mt. 5, 44). Se comanda di amare i nemici, quale esempio ci dà su questo punto? Quello di Dio stesso. Dice ancora il Signore: "Affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli". In che modo Dio ci dà questo esempio? Egli ama quelli che gli sono nemici perché "fa sorgere il suo sole sui buoni e sui cattivi e fa piovere sui giusti e sugl'ingiusti" (Mt. 5, 45). Se dunque Dio ci invita alla perfezione di amare i nostri nemici così come lui ha amato i suoi, questa è la nostra fiducia nel giorno del giudizio, che cioè "come è lui, così siamo anche noi in questo mondo". Come lui ama i propri nemici, facendo sorgere il sole su buoni e cattivi, mandando la pioggia su giusti ed ingiusti, così noi, poiché ai nostri nemici non possiamo offrire il sole e la pioggia, offriamo le nostre lacrime pregando per loro.

Il timore via alla carità

4. Di questa fiducia, che stiamo esaminando, vedete ora quel che ha da dirci Giovanni. Qual è il segno della carità perfetta? Ci risponde negativamente: Nella carità non c'è timore. Che diremo di chi comincia a temere il giorno del giudizio? Se fosse in lui la carità perfetta, egli non avrebbe questo timore. La perfetta carità lo renderebbe perfetto nella giustizia e gli toglierebbe perciò ogni motivo di timore; anzi lo porterebbe a desiderare che passi l'ora dell'iniquità e venga il Regno di Dio. "Nella carità" dunque "non c'è timore". In quale carità? Non certo in quella che è agli inizi: in quale dunque? La perfetta carità - dice Giovanni - scaccia via il timore (1 Gv. 4, 18). All'inizio ci sia pure il timore, perché "il timore di Dio è il principio della sapienza": il timore in certo senso prepara il posto alla carità. Dal momento in cui la carità incomincia ad abitare nel cuore, viene scacciato il timore che le ha preparato il posto. Quanto più cresce la carità, altrettanto diminuisce il timore; più la carità penetra dentro di noi, più il timore viene espulso. Maggiore è la carità, minore il timore; minore la carità, maggiore il timore. Se non v'è alcun timore la carità non ha via di accesso. Così vediamo che si introduce un filo di lino per mezzo di un filo di seta, quando si ha da cucire; si fa prima entrare la seta, ma se poi non la si fa uscire, non si può far entrare il lino; allo stesso modo dapprima il timore occupa la mente, ma non vi resta, perché vi è entrato per questo preciso scopo, di far strada alla carità. Stabilita ormai nel nostro animo la sicurezza, quale sarà la gioia in questa e nella vita futura? Chi potrà nuocerci, in questo secolo, così ripieni come siamo di carità? Guardate l'esultanza dell'Apostolo, quando parla della carità: "Chi ci separerà dalla carità di Cristo? la tribolazione? le angustie? la persecuzione? la fame? la nudità? i pericoli? la spada?" (Rom. 8, 35). E Pietro da parte sua afferma: "Chi vi potrà nuocere, se sarete zelanti nel bene?" (1 Pt. 3, 13).

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"Nell'amore non c'è timore; anzi l'amore perfetto scaccia il timore", perché il timore arreca tormento. Tormenta il cuore la coscienza dei peccati: la giustificazione non è ancora compiuta. C'è qualcosa che lo rode e lo punge. Che cosa si dice nel salmo circa la perfezione della giustizia? "Tu hai cambiato in gaudio il mio lutto, hai stracciato il mio sacco di penitenza e mi hai riempito di letizia perché il mio canto ti dia lode e io non resti nell’amarezza" (Sal. 29, 12-13). Che significa questo "non restare nell'amarezza"? Che più nulla tormenta la mia coscienza. Il timore tormenta la coscienza, ma tu non temere; ecco la carità che subentra, per risanare ciò che è ferito dal timore. Il timore di Dio arreca ferite come fa il ferro del chirurgo, toglie il marcio e sembra quasi che allarghi la ferita. Quando era nel corpo questo marcio, la ferita era meno larga ma più pericolosa; interviene il ferro del chirurgo e la ferita comincia a dolorarne più di prima. Essa duole di più quando viene curata che non quando la si lascia com’è; ma appunto quando si applica la medicina, duole di più, affinché conseguita la salute più non dolga. Il timore dunque entri nel tuo cuore per preparare il posto alla carità, al ferro del chirurgo subentri la cicatrice. Qui si tratta poi di un medico così bravo che fa scomparire anche le cicatrici. Da parte tua non devi far altro che affidarti alla sua mano. Se non hai il timore, impossibile per te la giustificazione. C’è un testo delle Scritture ad affermarlo: "Chi è senza timore, non potrà essere giustificato" (Sap. 1, 28). Bisogna dunque che il timore entri per primo ed attraverso il timore arrivi la carità. Il timore è medicina, la carità è salute. Ma chi teme non è perfetto nell'amore (1 Gv. 4, 18). Perché? "perché il timore arreca tormento", allo stesso modo che l'incisione del chirurgo arreca dolore.

Il timore casto

5. C'è tuttavia un'altra affermazione che sembra contraria a questa, se non sarà convenientemente compresa. In un certo passo del salmo si dice: "Il timore di Dio è casto, esso dura nei secoli dei secoli" (Sal. 18, 10). Il salmista ci mostra qui un timore eterno, ma casto. Se il timore è eterno, tale affermazione non è forse in contraddizione con questa Epistola, in cui si afferma: "Nella carità non c'è timore, anzi la perfetta carità scaccia il timore"?

Vediamo di penetrare a fondo queste due divine dichiarazioni. Si tratta del medesimo Spirito che parla, anche se la sua parola è riferita in due libri diversi, da due diverse bocche, da due diverse lingue. La prima affermazione è di Giovanni, la seconda di David; ma non dovete credere che si tratti di diverse ispirazioni. Se un unico fiato può far suonare due flauti, non potrà forse un unico Spirito riempire due cuori e muovere due lingue? Se due flauti ripieni di uno stesso fiato emettono insieme lo stesso suono, avverrà forse che due lingue, ripiene dello stesso Spirito, possano dissentire? Le due affermazioni che abbiamo ricordato hanno dunque una loro consonanza, una loro segreta concordanza che esige però un buon intenditore. Ecco dunque che lo Spirito ha soffiato e riempito due cuori, due bocche, ha mosso due lingue. Dalla prima lingua abbiamo udito queste parole: "Nella carità non c'è timore, anzi la perfetta carità scaccia il timore". Dall'altra lingua abbiamo invece sentito queste altre parole: "I1 timore di Dio è casto, esso dura nei secoli dei secoli". Sembra che le due affermazioni discordino tra loro. Ma non è così. Apri bene le tue orecchie, ascolta la melodia. Non è senza motivo che in una delle espressioni è definito "casto" il timore, perché evidentemente c'è anche un timore non casto. Vediamo di tener ben distinti questi due tipi di timore e capiremo che i due flauti suonano in perfetta armonia. Come capire, come discernere? Faccia attenzione la Carità vostra. Certi uomini temono Dio, perché non vogliono cadere nell'inferno e bruciare col diavolo nel

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fuoco eterno. Questo appunto è il timore che prepara il posto alla carità ma esso entra nell'anima per poi uscirne. Se ancora temi il Signore a causa dei suoi castighi, non lo ami ancora, non desideri il bene, ma ti astieni unicamente dal male. Ma per il fatto che ti astieni dal male, ti correggi e cominci a desiderare il bene; e quando cominci a desiderare il bene, il tuo timore diventa un timore casto. Quale timore è casto? Quello che ti fa temere di perdere gli stessi beni. Comprendetemi: altra cosa è temere Dio perché non ti mandi all'inferno, altra cosa temerlo perché egli non si allontani da te. Il primo timore, che ti porta a scongiurare di non essere condannato all'inferno insieme con il diavolo, non è ancora un timore casto, non deriva infatti dall'amore di Dio, ma dal timore del castigo. Ma quando temi il Signore, nella paura che la sua presenza ti abbandoni, allora tu l'abbracci e desideri godere di lui.

Due generi di spose: la fedele e l'adultera

6. Non è possibile spiegare meglio la differenza tra questi due timori, quello che esclude la carità e quello "casto" che resta per sempre, se non ricorrendo all'esempio di due donne sposate di cui una è intenzionata a commettere adulterio e trovare gioia nell’iniquità, ma è timorosa delle vendette del marito. Costei teme il marito, ma lo teme precisamente perché ama ciò che è disonesto. La presenza del marito non le è gradita, anzi la opprime, e se per caso la sua condotta è cattiva, essa teme di essere sorpresa dal marito. Simili a questa donna sono quelli che temono la venuta del giorno del giudizio. L'altra donna, che abbiamo preso come esempio, ama il suo sposo, lo circonda di casti amplessi, non si macchia di nessun adulterio, brama la presenza del marito. Come si distinguono questi due tipi di timore? Soggetta al timore è la prima, come la seconda donna. Interrogale: ti daranno quasi la stessa risposta. Interroghiamo la prima: —temi il marito? Essa risponderà: —sì, lo temo. Interroga la seconda: — temi tuo marito? Ti risponderà ugualmente: —lo temo. La risposta e identica, ma diverso lo spirito. Interroghiamole ancora, domandando loro perché temono il marito. La prima risponde: —temo il ritorno di mio marito. La seconda invece: —temo che si allontani. La prima: —temo di essere castigata; e la seconda: —temo di esserne abbandonata. Riporta questi sentimenti nell'anima cristiana e scoprirai il timore che esclude la carità, e il "casto" timore che resta per sempre.

7. Ci rivolgiamo dapprima a quelli che temono Dio alla maniera della donna disonesta: essa teme che il marito la condanni. Parliamo dunque a costoro. O anima che temi Iddio per paura che ti condanni — proprio come quella donna che agisce disonestamente e teme il marito per paura di essere castigata —, come ti dispiace il comportamento di quella donna, così devi dispiacerti di te stessa. Se sei sposato, non vuoi certo una moglie che ti teme per paura del castigo e che è ben contenta di fare il male, ma se ne astiene per la paura che ha di te, non perché condanna il male. La vuoi casta, perché ti ami, non già perché ti tema. Anche tu offriti così a Dio, come vorresti che fosse la tua sposa. Se ancora non hai moglie ma pensi di averla, è così che la vuoi. Che cosa stiamo dicendo, fratelli? Quella moglie che teme il marito solo per timore del castigo, probabilmente si astiene dall’adulterio per timore di venire scoperta e di essere uccisa. Il marito potrebbe anche ingannarsi; è infatti un uomo, come colei che può ingannarlo. Orbene, quella donna teme un marito, ai cui sguardi potrebbe sottrarsi, e tu non temi gli sguardi del tuo sposo sempre fissi su di te? "La faccia del Signore è sempre rivolta sopra coloro che fanno il male" (Sal. 33, 17). La donna adultera spia l'assenza del marito ed è sollecitata forse dal piacere dell'adulterio, tuttavia dice a se stessa: —non lo farò: egli è assente, è vero, ma la cosa non potrà non essere risaputa da lui. Essa dunque si trattiene dal

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male per paura che le cose siano sapute da un uomo, soggetto all'ignoranza ed all'errore, che potrebbe ritenere buona anche una donna malvagia, ritenere casta una donna adultera. E tu, non temi gli occhi di Dio che nessuno può ingannare? Non temi la presenza del Signore che non può mai essere allontanato da te? Prega il Signore che rivolga il suo sguardo su di te e allontani il suo volto dai tuoi peccati. "Allontana la tua faccia dai miei peccati" (Sal. 50, 11). Come puoi meritare che egli distolga la sua faccia dai tuoi peccati? L'otterrai se non allontani tu il volto dai tuoi peccati. Sono le parole stesse del salmo che lo dicono: "Io riconosco la mia iniquità ed il mio peccato sta sempre davanti a me" (Sal. 50, 5). Riconosci dunque i tuoi peccati, ed egli te li condonerà.

8. Abbiamo parlato a quell'anima che ancora ha in sè il timore che non può durare per l’eternità, quel timore cioè che viene scacciato e bandito dalla carità. Rivolgiamo la parola anche all'anima che già possiede il timore casto, che durerà nei secoli eterni. Pensiamo di poterla trovare per parlarle? Si troverà in mezzo a questo popolo? In questa sala? Su questa terra? Non può non esserci, e tuttavia resta nascosta. Siamo d'inverno ed il verde delle foglie sta ancora tutto dentro la radice. Può darsi però che le nostre parole giungano alle sue orecchie. Dovunque si trovi quell'anima, possa io giungere a scoprirla, per ascoltare io la sua voce, non lei la mia. Essa mi istruirebbe piuttosto che imparare da me. Un’anima santa, un'anima di fuoco che desidera il regno di Dio! Non sono io a rivolgerle la parola, ma Dio stesso che la consola, mentre sopporta pazientemente la presente vita terrena, con queste parole: —Tu vuoi che io già venga a te, ed io lo so bene; so che sei tale da poter aspettare con serenità la mia venuta. So della tua pena, ma attendi ancora un poco, sopporta: ecco vengo, vengo presto. Ma per l'anima che ama pesa l'attesa. Odila cantare, come fosse un giglio tra le spine; odila sospirare e dire: "Io canterò e accrescerò la mia conoscenza sulla via dell'innocenza. Quando verrai da me?" (Sal. 100, 1-2). A ragione essa non teme, stando sulla via dell'innocenza, perché "la perfetta carità scaccia ogni timore". Quando quest'anima giungerà all'amplesso del Signore, teme, ma è sicura. Che cosa teme? Starà attenta a togliere da sè ogni macchia di peccato, per non peccare più: non per la paura di essere mandata al fuoco, ma per non essere abbandonata da lui. E che cosa ci sarà in lei, se non "il casto timore che resta per sempre"?

Abbiamo ascoltato dunque i due flauti suonare in perfetto accordo. La prima anima parla del timore come la seconda; ma la prima parla del timore che ha l'anima di essere condannata, l'altra del timore di essere abbandonata. Il primo è il timore che viene eliminato dalla carità, il secondo è quello che rimane per sempre.

L'amore ci rende belli

9. Amiamolo, dunque, perché egli per primo ci ha amati (1 Gv. 4, 19). Realmente, come potremmo amarlo, se non ci avesse lui amati per primo? Amandolo, siamo diventati amici; ma egli ha amato noi, quando eravamo suoi nemici, per poterci rendere amici. Ci ha amati per primo e ci ha donato la capacita di amarlo. Ancora noi non l'amavamo; amandolo, diventiamo belli. Che fa un uomo brutto e deforme, quando ama una bella donna? Che fa, a sua volta, una donna brutta, sciatta e nera se ama un bell'uomo? Potrà diventare forse bella, amando quell'uomo? Potrà l'uomo a sua volta diventare bello, amando una donna bella? Ama costei e quando si guarda allo specchio, arrossisce di sollevare il suo volto verso la bella donna che ama.

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Che farà per essere bello? Si mette ad aspettare forse che sopraggiunga in lui la bellezza? Nell'attesa, al contrario, sopravviene la vecchiaia che lo rende più brutto. Non c'è dunque nulla da fare, non c'è possibilità di dargli altro consiglio che ritirarsi, perché, non essendo all’altezza, non osi amare una donna a lui superiore. Ma se persiste ad amarla e desidera ad ogni costo prenderla in moglie, ami in lei la castità, non la bellezza del corpo. La nostra anima fratelli, è brutta per colpa del peccato; essa diviene bella se ama Dio. Quale amore è capace di far bella l'anima che ama? Dio è la Bellezza, in lui non c’è deformità o mutamento. Per primo ci ha amati, lui che sempre è bello; e come eravamo noi quando ci ha amati se non brutti e deformi? Non l'ha fatto per lasciarci brutti come prima eravamo, ma per trasformarci e renderci belli, da brutti che eravamo. In che modo diventeremo belli? Amando lui, che è sempre bello. Più cresce in te l'amore, più cresce la bellezza: la carità è appunto la bellezza dell'anima. "Noi, dunque, amiamolo, perché egli per primo ci ha amati". Ascolta l'apostolo Paolo: "Dio ha dimostrato il suo amore per noi in questo che, quando ancora eravamo peccatori, Cristo è morto per noi" (Rom. 5, 8-9), lui giusto per noi ingiusti, lui bello per noi brutti. Quale fonte ci afferma che Gesù è bello? Le parole del salmo: "Egli è il più bello tra i figli degli uomini; sulle sue labbra ride la grazia" (Sal. 44, 3). Dove sta il fondamento di questa asserzione? In queste parole: "Egli è il più bello tra i figli degli uomini" perché "In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio" (Gv. 1, 1). Assumendo la carne, prese sopra di sé la tua bruttezza, cioè la tua mortalità, per adattare se stesso a te, per rendersi simile a te e spingerti ad amare la bellezza interiore. Ma quali altre fonti ci rivelano un Gesù brutto e deforme, come queste ce l'hanno rivelato il più bello e grazioso dei figli degli uomini? Dove è detto che è deforme? Interroga Isaia. "Lo abbiamo visto: non aveva più né bellezza né decoro" (Is. 53, 2). Queste affermazioni scritturistiche sono come due flauti che suonano in modo diverso ma uno stesso Spirito vi spira dentro l'aria. La prima dice: "Egli è il più bello tra i figli degli uomini"; e la seconda, con Isaia, dice: "Lo abbiamo visto: non aveva più né bellezza né decoro". I due flauti son suonati da un identico Spirito; essi dunque non discordano nel suono. Non devi rinunciare a sentirli, ma cercare di capirli. Interroghiamo l'apostolo Paolo per sentire come ci spiega la perfetta armonia dei due flauti. Suoni il primo: "Il più bello tra i figli degli uomini"; "Benché avesse la natura di Dio, non ritenne un geloso tesoro la sua uguaglianza con Dio". Ecco in che cosa sorpassa in bellezza i figli degli uomini. Suoni anche il secondo flauto: "Lo abbiamo visto; non aveva più né bellezza né decoro": questo perché egli "annichilò se stesso, prendendo la natura di schiavo, divenendo simile agli uomini. All'aspetto trovato qual uomo..." (Fil. 2, 6-7). "Egli non aveva né bellezza né decoro", per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L'amore della carità, affinché tu possa correre amando e possa amare correndo. Già sei bello, ma non guardare te stesso, per non perdere ciò che hai ricevuto; guarda a colui dal quale sei stato fatto bello. Sii bello in modo tale che egli possa amarti. Da parte tua volgi tutto il tuo pensiero a lui, a lui corri, chiedi i suoi abbracci, abbi timore di allontanarti da lui, affinché sia in te il timore casto che resta in eterno. "Noi amiamolo, perché lui stesso ci ha amati per primo".

Amare il prossimo è amare Dio

10. Se uno dirà: io amo Dio. Quale Dio? Perché amarlo? "Perché lui stesso ci ha amati per primo" e ci ha dato di amarlo. Egli ha amato noi che eravamo empi, per renderci pii; noi che eravamo ingiusti, per renderci giusti; che eravamo ammalati, per renderci sani. Dunque anche noi "amiamolo, perché lui stesso ci ha amati per primo". Interroga ciascuno singolarmente e fatti dire se ama Dio. Ciascuno grida e confessa: "io lo amo, lui lo sa". Ma c'è un’altra domanda da fare. Dice Giovanni: "Se uno dirà: io amo Dio", ma poi odia suo fratello, è un bugiardo. Quale prova si ha di ciò? Eccola: "Chi non ama il fratello che vede, come potrà

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amare Dio, che non vede?" (1 Gv. 4, 20). Dunque, chi ama il fratello, ama anche Dio? Sì, necessariamente ama Dio, necessariamente ama l'amore stesso. Si può forse amare il proprio fratello e non amare l'amore? E' necessario che ami l'amore. Ma costui ama Dio appunto perché ama l'amore stesso? Proprio così. Amando l'amore, ama Dio. Hai forse dimenticato che poco prima Giovanni ha detto: "Dio è amore"? (1 Gv. 4, 8-16). Se Dio è amore, chiunque ama l'amore ama Dio. Ama dunque tuo fratello e sta, sicuro. Tu non puoi dire: amo il fratello, ma non amo Dio. Allo stesso modo che menti quando dici: "Amo Dio", se non ami il fratello; così ti inganni, quando dici: io amo il fratello, e poi ritieni di non amare Dio. Necessariamente, amando il fratello, ami l'amore stesso. "L'amore" infatti "è Dio"; e chi ama il proprio fratello, necessariamente ama Dio. Ma se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi? Perché quest'uomo non vede Dio? Perché non possiede l'amore stesso. Perciò non vede Dio, perché appunto non possiede l'amore; e non possiede l'amore perché non ama il fratello; quindi non vede Dio, proprio perché non possiede l'amore. Ma se ha l'amore, vede Dio, perché "Dio è amore"; ed il suo occhio viene sempre più purificato dall'amore, per essere in grado di vedere quella sostanza incommutabile che è Dio, e per poter sempre godere della sua presenza e in eterno gioirne insieme con gli angeli. Ma che corra ora, in modo che possa poi rallegrarsi, quando sarà nella patria. Non ami il pellegrinaggio, non ami la via: tutto consideri amaro, ad eccezione di colui che lo chiama, fino al momento in cui non ci congiungeremo con lui e potremo dire ciò che fu detto nel salmo: "Hai mandato in perdizione tutti quelli che si sono prostituiti lontano da te". Chi sono questi fornicatori? Quelli che se ne vanno via da lui per amare il mondo. Tu, in che posizione sei? Prosegue il salmo: "Per me è buona cosa stare vicino al Signore" (Sal. 72, 27-28). Tutto il mio bene è questo: attaccarmi a Dio disinteressatamente. Se tu interrogassi il salmista e gli dicessi: —perché aderisci a Dio? e ti rispondesse: —per avere dei doni da lui, e tu gli chiedessi: —quali doni? Lui stesso ha fatto il cielo e la terra, che cos'altro dovrebbe ancora donarti? — già aderisci a lui; trova di meglio, ed egli te lo dona.

"Il mio comandamento"

11. Chi non ama il fratello che vede, come può amare Dio che non vede? Da lui abbiamo ricevuto questo comandamento: chi ama Dio, ami anche il proprio fratello (1 Gv. 4, 20-21). Tu hai detto molto bene: "Amo Dio", ma odi il fratello! Omicida, in che modo puoi amare Dio? Non hai sentito le parole precedenti dell'Epistola? "Chi odia il suo fratello, è un omicida" (1 Gv. 3, 15). Ma io continuo ad amare Dio, pur odiando il fratello. Decisamente tu non ami Dio, se odi il fratello. Adesso ve lo dimostro con un altro passo. Giovanni ha detto: "Cristo ci ha dato il precetto di amarci scambievolmente" (1 Gv. 3, 23): come puoi amare quel Dio di cui tieni in odio il comandamento? Chi mai direbbe: io amo l'imperatore, ma ne odio le leggi? L'imperatore capisce che lo si ama da questo, se le sue leggi sono osservate nelle province. Qual è la legge del nostro sovrano? "Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate l'un l'altro" (Gv. 13, 34). Tu affermi di amare Cristo: osserva il suo comandamento, ed ama il tuo fratello. Se non ami il fratello, come puoi amare uno di cui disprezzi il comandamento?

Fratelli, non mi sazio di parlare della carità, nel nome di Cristo. Più voi siete attaccati a questo bene, più speriamo che esso cresca in voi, scacci il timore, in modo che rimanga quel casto timore che dura per sempre. Cerchiamo di tollerare il mondo, le tribolazioni, gli scandali delle tentazioni. Non abbandoniamo la giusta via, manteniamo l’unità della Chiesa, teniamoci uniti a Cristo, conserviamo la carità. Non separiamoci dalle membra della sua sposa, non strappiamoci dalla fede, affinché possiamo gloriarci quando egli si farà

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presente. Resteremo in lui senza turbamenti, ora con la fede, più tardi con la visione di cui abbiamo come caparra certissima il dono dello Spirito Santo.

X.

CHIUNQUE CREDE CHE GESÙ E' IL CRISTO

Fede e amore

1. Credo che ricordiate, voi qui presenti ieri, dove siamo giunti nella spiegazione dell'Epistola, cioè là dove si dice: "Chi non ama il fratello che vede, come può amare Dio che non vede? Da lui abbiamo ricevuto questo comandamento: chi ama Dio, ami anche il proprio fratello" (1 Gv. 4, 20-21). Eravamo giunti fin qui. Esaminiamo ora con ordine quel che segue.

Chi crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio (1 Gv. 5, 1). Chi è colui che non crede che Gesù è il Cristo? Chi non vive così come Cristo ha comandato. Molti dicono infatti: io credo, ma la fede senza le opere non ci salva. L'amore stesso è opera di fede, secondo le parole di Paolo apostolo: "la fede che opera attraverso l'amore" (Gal. 5, 6). Le tue opere precedenti alla fede o non erano buone o, se apparivano buone, erano inutili. Se non avevi opere buone, eri come un uomo senza piedi o incapace di camminare a causa dei piedi piagati. Se invece le tue opere parevano buone, prima che avessi la fede certo correvi, ma fuori strada, e dunque vagavi più che tendere alla meta. Dobbiamo dunque correre, ma sulla giusta strada. Chi corre fuori strada, corre inutilmente, anzi lo fa con danno. Tanto più erra quanto più corre fuori strada. Qual è la strada sulla quale dobbiamo correre? Cristo disse: "Io sono la via". Qual è la patria verso la quale corriamo? Cristo disse: "Io sono la verità" (Gv. 14, 6). Noi corriamo sulla strada che è lui, corriamo alla meta che è lui, ed in lui troviamo il nostro riposo. Ma affinché ci servissimo di lui come della nostra strada, egli è arrivato fino a noi che eravamo lontani da lui e andavamo errando fuori strada. E' poco dire che erravamo lontano; in realtà a causa del nostro languore, non potevamo neppure muoverci. Egli venne a noi, quale medico agli ammalati, quale via aperta a noi pellegrini. Che ci sia dato di avere da lui la guarigione, e camminare in lui.

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Questo significa credere che Gesù è il Cristo. Così credono i cristiani che non sono cristiani solo di nome ma lo sono coi fatti e con la vita; e non già come credono i demoni. Anch'essi infatti "credono e tremano!" (Giac. 2, 19), come dice la Scrittura. Che cosa potevano credere di più i demoni di quanto affermavano con le loro parole: "Sappiamo chi sei, il Figlio di Dio"? Ciò che dissero i demoni, lo disse anche Pietro. Quando il Signore domandò chi egli fosse, e che cosa pensasse di lui la gente, quei discepoli risposero: "Alcuni dicono che sei Giovanni Battista, altri Elia o Geremia o uno dei Profeti". E Gesù riprese: "Ma voi, chi dite ch'io sia?". Rispose Pietro: "Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivo"; e si sentì dire dal Signore: "Beato sei, Simone figlio di Giona, perché non la carne o il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli". Vedete quale lode ottiene questa fede di Pietro: "Tu sei Pietro e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa" (Mt. 16, 13-18). Che significano le parole: "Su questa pietra edificherò la mia Chiesa"? Significano: su questa fede che confessa: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo". Dice dunque il Signore: "Su questa pietra io edificherò la mia Chiesa". Quale lode grandiosa! Pietro dice: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivo"; anche i demoni dicono: "Sappiamo chi sei: il Figlio di Dio, il Santo di Dio". Quello che dice Pietro, lo dicono anche i demoni; ma se le parole sono le stesse, l'animo è diverso. Da dove abbiamo la prova che Pietro qui parlava con sentimento di amore? Da questo, che la fede di un cristiano è sostenuta dall'amore, quella di un demonio è priva di amore. Perché senza amore? Perché Pietro pronunciava quelle parole con lo scopo di aderire a Cristo, mentre i demoni le pronunciavano con lo scopo di allontanare Cristo da loro. Prima di dire: "Sappiamo chi sei, il Figlio di Dio", essi avevano detto: "Che c'è in comune fra te e noi? Perché sei venuto prima del tempo a perderci?" (Mt. 8, 29; Mc. 1, 24). Altro è infatti rendere testimonianza a Cristo per aderire a lui, altro è rendergli testimonianza per allontanarlo da noi. Vedete dunque che nelle parole: "colui che crede", si indica una fede certa, non una fede comune a molti. Perciò nessun eretico, fratelli, vi dica: —anche noi crediamo. Vi ho portato l'esempio dei demoni proprio perché non vi rallegriate delle parole di quelli che credono; ma esaminiate i fatti delle persone che vivono la loro fede.

Chi ama il Padre ama anche il Figlio

2. Vediamo dunque che cosa significa credere in Cristo: che cosa significa credere che Gesù è il Cristo. Giovanni aggiunge: "Chi crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio". Ma che cosa significa credere ciò? Chiunque ama colui che l'ha generato, ama anche colui che è stato da lui generato (1 Gv. 5, 1). Giovanni ha subito collegato la fede con l'amore, perché senza l'amore la fede è vana. La fede del cristiano è accompagnata dall'amore, la fede del demonio è senza amore; quelli che però non credono sono peggiori del demonio, più tardi a capire che non il demonio. Ammettiamo che ci sia uno che non voglia credere in Cristo, questo tale non giunge neppure ad imitare i demoni. Ammettiamo però che creda in Cristo, ma lo odi, in tal caso fa confessione di fede per timore del castigo, non per amore del premio; anche i demoni temevano di essere puniti. Aggiungi ad una fede siffatta l'amore, ed essa diventerà una fede quale ce la descrive l'apostolo Paolo: "La fede che opera per mezzo dell'amore" (Gal. 5, 6); hai così scoperto il cristiano, hai trovato il cittadino di Gerusalemme, il concittadino degli angeli, il pellegrino che sospira lungo la via. Aggregati a lui, perché è tuo compagno di viaggio; corri con lui, purché anche tu sia quello che è lui. Chiunque ama colui che l'ha generato, ama anche colui che è stato da lui generato. Chi ha generato? I1 Padre. Chi è stato generato? Il Figlio. Che cosa ha voluto dire con queste parole? Chiunque ama il Padre, ama anche il Figlio.

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Chi ama il Figlio ama anche i figli di Dio

3. Da questo conosciamo che amiamo i figli di Dio (1 Gv. 5, 2). Che significa questo, o fratelli? Poco prima Giovanni aveva parlato del Figlio di Dio, non dei figli di Dio. Solo Cristo ci era stato proposto da contemplare e ci fu detto: "Chi crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio; e chiunque ama colui che l'ha generato", cioè il Padre, "ama colui che è stato da lui generato", cioè il Figlio, il nostro Signore Gesù Cristo. Giovanni prosegue dicendo: "Da questo conosciamo che amiamo i figli di Dio"; come se volesse dire: Da questo conosciamo che amiamo il Figlio di Dio. Prima aveva parlato del "Figlio di Dio", ora parla dei "figli di Dio"; i figli di Dio infatti sono il corpo dell'unico Figlio di Dio: lui il capo, noi le membra, ma unico Figlio di Dio. Chi dunque ama i figli di Dio, ama il Figlio di Dio; chi poi ama il Figlio di Dio, ama il Padre; nessuno può amare il Padre, se non ama il Figlio; e chi ama il Figlio, ama anche i figli di Dio.

Quali figli di Dio? Le membra del Figlio di Dio. E amando, anch'egli diventa un membro e per mezzo dell'amore viene ad appartenere alla unità del Corpo di Cristo; e sarà un solo Cristo, il quale ama se stesso. Poiché le membra si amano a vicenda, conseguentemente il corpo ama se stesso. "Se un membro soffre, tutte quante le membra soffrono insieme. E se un membro è onorato, tutte le altre membra godono con lui". E che cosa aggiunge? "Voi siete il corpo di Cristo e le sue membra" (1 Cor. 12, 26-27). Giovanni, parlando poco prima dell'amore fraterno, diceva: "Chi non ama il fratello che vede, come potrà amare Dio che non vede?" (l Gv. 4, 20). Se pertanto ami il fratello, forse che nello stesso tempo non ami anche Cristo? E' mai possibile il contrario, dal momento che tu ami le membra di Cristo? Se ami le membra di Cristo, ami Cristo; e quando ami Cristo, ami il Figlio di Dio; ami perciò anche il Padre. L'amore non può dunque essere diviso. Scegli pure ciò che vuoi amare: il resto seguirà da sè. Potresti dire: io amo soltanto Dio, Dio Padre. Tu menti. Se ami, non puoi amare solo lui; se ami il Padre, ami anche il Figlio. Sì, tu dici, amo il Padre e il Figlio, e basta; amo Dio Padre e Iddio Figlio, Gesù Cristo, Signore nostro, che ascese al cielo e siede alla destra del Padre, Verbo per mezzo del quale tutto fu fatto, Verbo fatto carne, che abitò tra noi; soltanto loro io amo. Tu menti. Se ami il capo, ami anche le membra; se poi non ami le membra, non ami neppure il capo. Non senti spavento alla voce del capo che parla anche per le membra? "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" (Atti, 9, 4). Quella voce ha definito come proprio persecutore il persecutore delle sue membra; ha invece chiamato suo amico l’amico delle sue membra. Voi già sapete quali sono le sue membra, fratelli; sono la Chiesa stessa di Dio.

"Da questo conosciamo che amiamo i figli di Dio", dal fatto che amiamo Dio (1 Gv. 5, 2). In che modo? i figli di Dio non sono forse diversi da Dio? Ma chi ama Dio, ama i suoi precetti. E quali sono i precetti di Dio? "Vi dò un comandamento nuovo, che vi amiate scambievolmente" (Gv. 13, 34). Nessuno si scusi in nome di un altro amore, per darsi ad un altro amore. L'amore ha in sè una forza attrattiva. Come esso è sostanzialmente uno, così fonde in unità tutti quelli che da esso dipendono, a somiglianza del fuoco li salda in una medesima realtà. Prendiamo degli spezzoni di oro, fondiamoli insieme, si trasformano in un tutt'uno compatto; ma, se non s'accende il fuoco della carità, quei molti non possono fondersi in unità. "Dal fatto che conosciamo Dio, abbiamo la prova che noi amiamo anche i figli di Dio".

Dolcezza dell'amore di Dio

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4. Su che cosa ci fondiamo per sapere che amiamo i figli di Dio? Su questo: "che amiamo Dio" e osserviamo i suoi precetti (1 Gv. 5, 2). Qui ci vien fatto di angustiarci per la difficoltà di mettere in pratica il precetto di Dio. Senti ciò che voglio dire. O uomo, perché trovi pena nell'amare? Perché tu ami l'avarizia. Non si ama che con fatica quel che tu ami; ma, amando Dio, non si prova fatica. L'avarizia non farà altro che comandarti fatiche, pericoli, rischi, tribolazioni, e tu obbedirai. Per qual fine? Per avere ricchezze da riempire le tue casse e perdere la tranquillità. Prima di possederle eri probabilmente più tranquillo di adesso che ti sei dato ad ammassare. Ecco che cosa ti ha imposto l'avarizia: hai riempito la casa, ma sei in trepidazione per i ladri; hai ammucchiato oro, ma hai perso il sonno. Questo ti ha comandato di fare l'avarizia. Ti ha detto: fa' questo, e tu l'hai fatto. Dio che cosa ti comanda? Amami. Se tu sei attaccato all'oro, cercherai l'oro e magari non lo troverai; chi cerca invece me, ecco ch'io sono con lui. Se ti metti ad amare gli onori forse non li raggiungerai; chi invece ha amato me, non è forse giunto fino a me? Dio ti dice: tu sogni un padrone o un amico potente; lo corteggi per mezzo di un'altra persona a lui inferiore. Ama me — ti dice il Signore —: non si giunge a me per mezzo di un altro, è l'amore stesso che mi fa presente a te. Che cosa è più dolce di questo amore, fratelli? fratelli, non senza motivo avete da poco udito nel salmo: "Gli iniqui mi hanno raccontato i loro divertimenti, ma non sono belli come la tua legge, Signore" (Sal. 118, 85). Quale legge del Signore? I1 comandamento di Dio. Qual è il comandamento di Dio? Quel comandamento nuovo, che è detto nuovo proprio perché rinnova: "Vi dò un comandamento nuovo, che vi amiate scambievolmente". Senti come questa viene dichiarata legge stessa di Dio, nelle parole dell'apostolo Paolo: "Portate i pesi gli uni degli altri e così adempirete la legge di Cristo" (Gal. 6, 2). I1 compimento di tutte le nostre opere è l'amore. Qui è il nostro fine: per questo noi corriamo; verso questa meta corriamo; quando saremo giunti vi troveremo riposo.

Non c'è altra meta che l'amore

5. Avete udito le parole del salmo: "Ho visto la fine di ogni opera" (Sal. 118, 96). Dicendo: "ho visto la fine di ogni opera", che cosa dunque ha visto il salmista? Mettiamo che sia salito sulla cima di un altissimo monte e da quel vertice abbia contemplato e visto tutto l'orizzonte della terra ed i cerchi dell’universo; forse per questo ha detto: "Io ho visto la fine di ogni opera"? Se è questo lo spettacolo da lui esaltato, domandiamo al Signore occhi di carne così acuti che una volta trovato un altissimo monte, ci consentano di vedere la fine di ogni opera. Non andare tanto lontano, dico a te, sali sul monte e vedrai questa "fine". Cristo è il monte. Vieni a Cristo e vedrai la fine di ogni opera. Che cosa è questa "fine"? Interroga san Paolo: "I1 fine del precetto è la carità che viene da un cuore puro, da una coscienza retta, da una fede sincera" (1 Tim. 1, 5). In un altro passo egli dice: "L'amore è la perfezione della legge" (Rom. 13, 10). C'è qualcosa di più finito, di più completo della perfezione? A ragione dunque il salmista ha usato il termine "fine". Non pensate che egli abbia inteso parlare di distruzione, ma di compimento. Diverso è il senso in cui diciamo "ho finito il pane" da quello in cui diciamo "ho finito la tunica" (cf. Esp. s. Sal. 31, 2, 5). Ho finito il pane mangiando, ho finito la tunica tessendo. In ambedue i casi abbiamo usato il termine "fine". Ma il pane finisce perché viene mangiato, la tunica è finita perché venga usata; il pane finisce e non c'è più, la tunica è finita perché è stata portata a termine. Intendete dunque in questo ultimo senso il termine "fine" quando leggendo il salmo sentite dire: "in fine del salmo di Davide". Molte volte infatti avete udito questa frase nel corso della lettura dei salmi e dovete capire le cose sentite. Che significa dunque "in fine"? "Fine della legge è Cristo, per offrire la giustizia a chiunque crede" (Rom. 10, 4). Che significa allora che Cristo è "fine"? Significa che Cristo

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è Dio, e fine del precetto è la carità, e che Dio è carità: perché Padre e Figlio e Spirito Santo sono una sola cosa. Qui è il tuo fine: fuori di qui non c'è altro che la strada. Non fermarti sulla strada perché altrimenti non giungerai al tuo fine. In qualunque altro luogo tu sia giunto, passa oltre finché non giungerai al fine. Che cosa è il fine? "Per me è una buona cosa stare unito al Signore" (Sal. 72, 28). Hai aderito al Signore, sei giunto al termine della strada: rimarrai in patria.

Cercate di comprendere. Qualcuno va in cerca del denaro: ma questo non sia il tuo fine; devi passare oltre, come il pellegrino. Cerca la strada per dove passare, non il posto dove rimanere. Se ami il denaro, resti imbrigliato nell'avarizia; l'avarizia sarà la catena ai tuoi piedi e non potrai più avanzare. Passa dunque oltre questo ostacolo; cerca la fine del viaggio. Tu cerchi la salute del corpo; ma anche qui non arrestarti: che cosa è questa salute del corpo, che può essere distrutta dalla morte, indebolita dalla malattia? Cosa instabile, mortale, caduca. Cercala, ma per evitare che una salute precaria non ti impedisca di compiere opere buone. I1 tuo fine dunque non è qui; la salute viene infatti cercata in vista del fine. Tutto ciò che noi cerchiamo in vista di un altro bene, non costituisce il fine; tutto ciò che si cerca per se stesso e senza uno scopo di utilità, quello è il fine. Cerchi gli onori: può darsi che li cerchi per attuare qualche tuo progetto, forse per piacere a Dio. Non amare l'onore in se stesso per non fermarti lì. Cerchi la lode? Se cerchi quella di Dio, fai bene; se cerchi la tua lode, fai male; ti fermi per strada. Ecco, sei amato e lodato: non congratularti se ti lodano; lodati nel Signore, perché ti sia lecito cantare: "Nel Signore alla mia anima si darà lode" (Sal. 33, 3). Pronunci un magnifico discorso, che viene applaudito? Fa' che non venga applaudito come tuo, perché non è questo il fine. Se qui poni il tuo fine, anche tu sei finito; e non sei finito perché hai raggiunto la perfezione, ma perché sei giunto alla tua distruzione. Non venga applaudito dunque il tuo discorso come qualcosa che derivi solo da te, come cosa tua. Come deve allora essere lodato? Come dice il salmo: "In Dio io loderò il mio discorso, in Dio loderò le mie parole". E con ciò si realizza quanto segue: "Ho sperato in Dio, non temerò ciò che l'uomo potrà farmi" (Sal. 55, 5, 12). Se tutte le tue opere vengono lodate in Dio, non devi temere di perdere la lode a te dovuta. Dio infatti non viene mai meno. Fa' dunque di andare oltre, anche per quanto riguarda la lode.

Chi ci può togliere colui che amiamo?

6. Vedete, fratelli, quanti beni dobbiamo oltrepassare, che non sono il nostro fine. Di essi usiamone come quando ci troviamo per strada; rifocilliamoci, come si fa nella stazioni di ristoro lungo il cammino, ma poi andiamo oltre. Dov'è dunque il fine? "Dilettissimi, noi siamo figli di Dio e non ancora si è mostrato quello che saremo": sono parole di questa Epistola. Siamo dunque ancora in cammino; dovunque giungeremo, ancora dobbiamo proseguire, finché giungeremo ad un fine. "Sappiamo che quando apparirà saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è" (1 Gv. 3, 2). Questo è il fine: là ci sarà perpetua lode, là un Alleluia senza fine.

Nel salmo è perciò indicato questo stesso fine: "Ho visto il fine di ogni operazione". E' come se si domandasse al salmista: —qual è questo fine che hai visto? "Assai vasto è il tuo comandamento" (Sal. 118, 96). Questo è il fine: l'ampiezza del comandamento. Questo comandamento ampio è la carità, perché dove c'e la carità, non ci sono angustie. Proprio in questa ampiezza di carità si trovava l'Apostolo quando diceva:

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"La nostra bocca ha parlato per voi, o Corinti: il nostro cuore si è allargato; voi non state allo stretto dentro di noi" (2 Cor. 6, 11-12). Per questo "assai vasto è il tuo comandamento". Qual è questo comandamento sì ampio? "Vi dò un comandamento nuovo, che vi amiate scambievolmente". La carità dunque non soffre strettezze. Vuoi non soffrire angustie in terra? Abita dove c'è ampiezza di spazi. Qualunque cosa uno ti faccia, non deve essere motivo di angustia per te. Infatti tu ami ciò che l'uomo non può danneggiare, ami Dio, ami la fratellanza, ami la legge di Dio, ami la Chiesa di Dio, un amore che sarà eterno. Soffri sulla terra, ma giungerai al premio promesso. Chi ti può togliere ciò che ami? Se nessuno ti può togliere ciò che ami, tu dormi tranquillo; o meglio vigili nella tranquillità, affinché, dormendo, non ti succeda di perdere ciò che ami. Non fu detto invano: "Illumina i miei occhi, perché non abbia a dormire nel sonno della morte" (Sal. 12, 4). Coloro che davanti alla carità chiudono gli occhi, si adagiano nelle concupiscenze dei piaceri carnali. Sta' dunque all'erta. Mangiare, bere, accontentare la carne, giocare, andare a caccia: sono attività piacevoli; ma ogni male vien dietro a queste vanità fastose. Diremo che non sono diletti? Chi lo può negare? Ma la legge di Dio, l'amiamo di più. Contro quelli che ti invogliano a cercare quei piaceri devi gridare: "Gli iniqui mi hanno raccontato i loro divertimenti, ma non sono belli come la tua legge, Signore". E' un diletto, quello della tua legge, che rimane. Non solo rimane perché tu lo possa raggiungere, ma ti richiama anche se da esso tu t'allontani.

Universalità dell'amore

7. Questo significa amare Dio: adempiere i suoi precetti (1 Gv. 5, 3). Già avete sentito: "In questi due precetti stanno tutta la Legge e i Profeti". Vedi come non ha voluto che ti smarrissi dietro a molte pagine di comandamenti: "In questi due precetti stanno tutta la Legge e i Profeti". In quali due precetti? "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente", e poi, "Amerai il prossimo tuo come te stesso. In questi due precetti stanno tutta la Legge e i Profeti" (Mt. 22, 40, 37). Ecco, di questi precetti ci parla tutta l'Epistola. Mantenete perciò l'amore, e state tranquilli. Perché temi di far del male a qualcuno? Chi fa del male a colui che ama? Ama, non può succedere se non che tu faccia del bene.

Ti tocca di riprendere qualcuno? E' l'amore che opera in te, non il risentimento. Devi dargli una punizione corporale? Lo fai per educarlo. L'amore della carità non ti consente di rimanere indifferente davanti alla sua disciplina. Così può succedere a volte che gli effetti siano quasi diversi ed anzi contrari alle loro cause, e cioè che l'odio, di quando in quando, blandisca e l'amore castighi. Un tale, ad esempio, odia il suo nemico e finge amicizia con lui; lo vede far qualcosa di male e lo loda; vuole che sia pronto nel male, che corra ciecamente nei precipizi delle sue cupidità da dove potrà non risalire più; lo loda "perché il peccatore trova lode nelle concupiscenze della sua anima" (Sal. 9, 3); l'avvolge con untuosa adulazione, in cuor suo lo odia, ma lo loda. Un altro vede un amico suo fare qualcosa di simile, e lo distoglie da quell'azione. Se l'amico non ascolta, pronuncia anche parole di riprovazione, lo sgrida, litiga; a volte è costretto proprio a litigare. Ecco come in questi casi l'odio blandisce e l'amore colpisce. Non badare alle parole di chi blandisce e all'apparente severità di chi rimprovera; guarda alla sorgente, cerca la radice da dove proviene quell'atteggiamento. Quello blandisce per ingannare, questo rimprovera per correggere.

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Non è necessario, fratelli, che siamo noi a dilatarvi il cuore; chiedete a Dio che vi conceda di amarvi scambievolmente. Amate tutti gli uomini, anche i vostri nemici, non perché sono fratelli, ma perché lo diventino; e sempre siate accesi di amore fraterno tanto verso il fratello già tale, quanto verso il nemico, affinché con l'amore diventi fratello. Sempre, quando ami il fratello, ami un amico. Già sta con te, già ti è unito nell'unità che si estende a tutti gli uomini. Se vivi bene, tu ami il fratello che prima ti era nemico. Amando qualcuno che ancora non crede in Cristo, o che crede in Cristo allo stesso modo dei demoni, gli rimproveri la vanità del suo atteggiamento. Da parte tua ama, ed ama con amore fraterno; quell'uomo non ancora ti è fratello, ma tu lo ami perché diventi tale. Tutto il nostro amore dunque è diretto verso i cristiani, verso tutte le membra di Cristo. La regola della carità, o miei fratelli, la sua forza, i suoi fiori, i suoi frutti, la sua bellezza, la sua attrattiva, il suo alimento, la sua bevanda, il suo cibo, il suo abbraccio, non conoscono sazietà. Se la carità ci riempie di diletto mentre ancora siamo pellegrini, quale sarà la nostra gioia in patria?

Non si può amare Cristo e disprezzare le sue membra

8. Corriamo dunque, fratelli miei, corriamo ed amiamo Cristo. Quale Cristo? Gesù Cristo. Chi è questi? I1 Verbo di Dio. In che modo egli venne presso noi malati? "I1 Verbo si fece carne e abitò tra noi" (Gv. 1, 14). Si è dunque adempiuto ciò che la Scrittura aveva predetto: "Bisognava che Cristo patisse e risorgesse il terzo giorno da morte". I1 suo corpo, dove giace? Le sue membra, dove soffrono? dove dobbiamo metterci per stare sotto l'influsso della testa? "Occorreva che si predicasse nel suo nome la penitenza e la remissione dei peccati a tutte le genti, incominciando da Gerusalemme" (Lc. 24, 46-47). Da qui deve diffondersi la tua carità. Cristo ed il salmo, cioè lo Spirito di Dio, dicono: "Assai vasto è il tuo comandamento!", e c'è gente che pretende di fissare nell'Africa i confini della carità. Estendi la tua carità su tutto il mondo, se vuoi amare Cristo; perché le membra di Cristo si estendono in tutto il mondo. Se ami solo una parte, sei diviso, non ti trovi più unito al corpo; se non sei unito al corpo, non dipendi dalla testa.

Che vale credere, se poi bestemmi? Adori Cristo nel capo e lo bestemmi nelle membra del suo corpo. Egli ama il suo corpo. Se ti sei separato dal suo corpo, il capo non si è separato da esso. Il capo dall'alto ti grida: —tu mi onori a vuoto e senza motivo. Sarebbe come se uno ti volesse baciare il capo ma pestarti i piedi. Se uno ti schiacciasse i piedi con scarpe chiodate mentre ti abbraccia e ti bacia, non gli grideresti nel bel mezzo delle sue effusioni di stima: —che fai? non vedi che mi schiacci? Certamente non gli dirai: —mi schiacci il capo, poiché in realtà egli tributa onore al tuo capo. Il capo in tal caso protesterebbe più perché le altre membra vengono calpestate che non per sè, che è anzi fatto oggetto di onore. I1 capo è il primo a dire: —non voglio questo tuo onore, cerca piuttosto di non calpestarmi. Difenditi dicendo, se puoi: —io, t'avrei calpestato? Rivolgendoti al capo insisti nel dire: —volevo solo baciarti volevo abbracciarti! Ma non vedi, o stolto, che, in forza della sua struttura unitaria, la parte che vuoi abbracciare è tutt'uno con quella che calpesti? Mi onori in alto, mi calpesti in basso. Sente più dolore la parte che calpesti di quanto non gioisca la parte che onori. La parte che onori prova dolore per la parte che calpesti. Che va gridando la lingua? grida: ahi che dolore! non grida: ahi che dolore al piede! ma semplicemente: ahi che dolore! O lingua, chi t'ha mai toccato? Chi t'ha percosso? Chi t'ha punto? Chi t'ha ferito? — Nessuno — risponderebbe —, ma sono unita alle membra che vengono calpestate. Come pretendi che non senta dolore, dal momento che non ne sono separata?

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"Ascendo al cielo, ma il mio corpo giace ancora quaggiù"

9. Perciò, il Signore nostro Gesù Cristo, salendo al cielo, il quarantesimo giorno, ci ha raccomandato il suo corpo che doveva restare quaggiù, perché prevedeva che molti avrebbero reso onore a lui appunto perché ascendeva al cielo, ma vedeva pure l'inconsistenza di tali onori resi a sè, dato che questi tali avrebbero calpestato le sue membra qui in terra. Affinché nessuno fosse tratto in errore — adorando il capo che sta in cielo ma calpestando i piedi che stanno in terra — ci ha precisato dove si sarebbero trovate le sue membra. Mentre ascendeva al cielo, disse le sue ultime parole, pronunciate le quali non parlò più qui in terra. Il capo che doveva salire in cielo raccomandò a noi le sue membra che restavano sulla terra e partì. Ormai non ti può accadere più di sentire Cristo che parla qui in terra. Puoi sentirlo parlare, ma dal cielo. E dal cielo, perché parlò? Perché le sue membra erano calpestate qui in terra. A Saulo, suo persecutore, disse dal cielo: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?" (Atti, 9, 4). Sono salito al cielo, ma rimango ancora in terra; siedo qui in cielo alla destra del Padre, ma 1ì in terra ancora patisco la fame, la sete, ancora son pellegrino. In che modo ci ha raccomandato il suo corpo in terra mentre stava per salire al cielo? Quando i discepoli lo interrogarono: "Signore, è forse venuto il momento in cui tu ristabilirai il regno di Israele?". Sul punto di partire, egli rispose: "Non tocca a voi sapere il tempo che il Padre ha posto in suo potere; ma riceverete la virtù dello Spirito Santo che verrà in voi e mi sarete testimoni". Vedete fin dove fa giungere il suo corpo, vedete dove non vuole essere calpestato: "Voi mi sarete testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea, in Samaria e in tutta la terra" (Atti 1, 68). Ecco dove rimango io, che pure ascendo in cielo; ascendo perché sono la testa, ma il mio corpo giace ancora quaggiù. Dove giace? Per tutta la terra. Vedi di non colpire, di non violare, di non calpestare il mio corpo. Sono queste le ultime parole di Cristo mentre ascende al cielo.

Considerate un uomo che giace ammalato nella sua casa ed è consunto dal male, vicino alla morte, col respiro affannoso, con l'anima per così dire tra i denti; se gli viene in mente qualcosa che gli sta a cuore e che molto lo interessa, chiama i suoi eredi e dice loro: —vi prego, fate questa cosa. Egli trattiene la sua anima come a forza, perché non spiri prima che siano state espresse le sue ultime volontà. Dopo aver pronunciato le sue ultime parole, spira; il cadavere viene portato al sepolcro. Come non ricorderanno i figli le ultime parole del padre morente? Se uno dicesse loro: —non fate nulla di quanto vi ha detto! — che cosa dovrebbero rispondergli? — Non fare ciò che il padre mio mi ha comandato di fare al momento di lasciare questa vita? ciò che risuonò alle mie orecchie come sua ultima parola mentre lasciava questa terra? Potrei passar sopra ad ogni altra sua parola, ma le sue ultime parole mi obbligano di più. Fu l'ultima volta che lo vidi, che lo sentii parlare.

Fratelli, pensate con sentimenti cristiani. Se per un figlio sono tanto dolci, tanto care, tanto preziose le parole del padre che sta per scendere nel sepolcro, che cosa dovranno essere per gli eredi di Cristo le sue ultime parole, pronunciate non quando stava per scendere nel sepolcro ma per salire al cielo? L'anima di chi è vissuto ed è morto viene portata in altri luoghi, ed il suo corpo è deposto dentro la terra; a lui non interessa più se le sue parole sono attuate o no; ormai egli opera altre cose, altre cose soffre; o gode nel seno di Abramo, o stando nel fuoco eterno, desidera un poco di acqua. Nel suo sepolcro giace un cadavere insensibile; e tuttavia le sue ultime parole, pronunciate quando moriva, vengono custodite gelosamente.

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Che cosa potranno sperare quelli che non custodiscono le ultime parole di colui che siede in cielo? di colui che vede se quelle sue parole sono disprezzate o no, e che disse: "Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?", di colui che riserva al suo giudizio tutto ciò che vede inferto alle sue membra?

Vivere nel corpo di Cristo

10. Ma che cosa mai abbiamo fatto? — dicono costoro - abbiamo subito noi le persecuzioni, non le abbiamo inflitte agli altri! Infelici, siete stati voi gli autori della persecuzione, anzitutto perché avete diviso la Chiesa. E' più dannosa la spada della lingua che quella del ferro.

Agar, serva di Sara, fu superba e fu angariata dalla padrona a motivo della sua superbia. Quel trattamento aveva uno scopo disciplinare, non punitivo. Quando si allontanò dalla sua padrona, che cosa le disse l'angelo di Dio? "Ritorna dalla tua padrona" (Gen. 16 4-9). Dunque, o anima carnale, se hai sofferto, come quella serva superba, qualche molestia in vista della tua correzione, perché agisci stoltamente? Torna dalla tua padrona, mantieni la pace del Signore. Ecco, vengono portati i Vangeli e vi leggiamo fin dove la Chiesa è diffusa. Gli altri ci contestano e ci gridano Traditori! Traditori di chi? Cristo ti raccomanda la sua Chiesa e tu non vuoi credere in lui. Dovrei io credere a te mentre parli male dei miei padri? Vuoi che ti creda su questa accusa riguardante i traditori? Incomincia prima tu a credere a Cristo. Che cosa conviene fare? Cristo è Dio, e tu sei uomo: a chi bisogna credere per primo? Cristo ha diffuso la sua Chiesa per tutto il mondo. Lo dico io? Disprezza pure. Lo dice il Vangelo? Sta' attento. Che dice il Vangelo? "Era necessario che il Cristo patisse, risorgesse il terzo giorno da morte e fosse predicata la penitenza nel suo nome e la remissione dei peccati". Dove c'è la remissione dei peccati, là c'è la Chiesa. Perché? Perché ad essa fu detto: "A te darò le chiavi del Regno dei cieli; e tutto quello che avrai sciolto sulla terra, sarà sciolto anche in cielo; tutto quello che avrai legato sulla terra, sarà legato anche in cielo" (Mt. 16, 19). Fin dove giunge questa remissione dei peccati? "Fino a tutti i popoli, cominciando da Gerusalemme" (Lc. 24, 47). Credi dunque a Cristo! Ma poiché capisci che, se credi a Cristo, non puoi dir nulla contro i "traditori", pretendi che io creda a te che sparli dei miei padri, e tu non vuoi credere agli insegnamenti di Cristo!

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S.AMBROGIO

Ambrogio, appartenente ad una ricca ed importante famiglia romana, nacque nel 334 a Treviri, ove suo padre era un insigne personaggio pubblico, prefetto del pretorio per le Gallie. La morte prematura del capo famiglia spinse la sposa a ritornare a Roma con i suoi tre figli Marcellina, Satiro e Ambrogio. Marcellina si consacrò a Dio prendendo il velo delle vergini; Satiro, che per un certo tempo ricoperse un'alta carica statale, morì nel 378. Ambrogio, che possedeva una formazione retorica e giuridica, divenne amministratore della Liguria e dell'Emilia, con sede a Milano. Alla morte del vescovo ariano Aussenzio, scoppiarono a Milano tumulti tra cattolici e ariani per la nomina del successore. Ambrogio intervenne, in qualità di governatore, per riportare la concordia tra le parti, quando all'improvviso fu acclamato vescovo dai due partiti, nonostante fosse solo catecumeno e cercasse invano di sottrarsi alla nomina. Fu consacrato vescovo il 7 dicembre 374, solo otto giorni dopo il battesimo.

Sotto la direzione di Simpliciano, che fu poi suo successore, si occupò di studi teologici, distribuì tra i poveri il suo non indifferente patrimonio, ed improntò la sua vita ad una rigorosa ascesi. La sua influenza fu particolarmente decisiva nella situazione ecclesiastica e politica dei suoi tempi. Lottò strenuamente ed inflessibilmente per il riconoscimento esclusivo della Chiesa di fronte al paganesimo, all'arianesimo e alle altre eresie; come anche per la sua libertà e autonomia rispetto al potere politico.

Realizzò una delle forme più riuscite di pastore, e appartiene al numero di quei grandi che con il pensiero e con l'azione posero le basi all'edificio della cultura cristiana medievale. Fu iniziatore dell'innologia religiosa popolare. Morì nel 397.

Stupisce che Ambrogio, impegnato su tanti fronti, abbia potuto trovare il tempo per la composizione di tante opere. La maggior parte di esse non contiene speculazioni dogmatiche, ma è strettamente legato al suo ministero pastorale, e anche in questo Ambrogio rivela la sua forma mentis tipicamente romana, cioè pratica.

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S.ANSELMO

Anselmo d'Aosta - dottore della Chiesa (Aosta 1033 - Canterbury 1109).

Entrato nel 1060 nel monastero dei Benedettini di Bec in Normandia, nel 1063 succedette al maestro Lanfranco di Pavia nella carica di priore, e nel 1078 a Erluino in quella di abate. Nel 1093 fu nominato arcivescovo di Canterbury in Inghilterra, nel quale ufficio resistette con straordinaria fermezza all'invadenza del potere secolare.

Anselmo è uno dei più importanti precursori di quella corrente della teologia medievale che avrà il suo maggiore rappresentante in Tommaso d'Acquino. Suo motto fondamentale è il celebre credo ut intelligam, che significa insieme "per poter comprendere, credo" e "credo al fine di comprendere". Tutta la teologia di Anselmo tende ad un fine di giustificazione logica della fede. Nell'opera Perché un Dio uomo ? egli applica tale metodo al dogma stesso dell'Incarnazione del Figlio di Dio.

Nel "Proslogion" - che compie come appendice il "Monologion" - vuol fornire una prova dell'esistenza di Dio che rappresenti una necessità razionale tale da imporsi allo stesso ateo. Nonostante le critiche che si possono, ed effettivamente furono rivolte, ad Anselmo (fra gli altri ricordiamo S.Tommaso d'Acquino), l'argomento ontologico fu ripreso da molti scolastici agostiniani, fra cui S.Bonaventura e Duns Scoto.

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San Benedetto da Norcia Abate, patrono d'Europa

S. Benedetto da Norcia

E' il patriarca del monachesimo occidentale. Dopo un periodo di solitudine presso il sacro Speco di Subiaco, passò alla forma cenobitica prima a Subiaco, poi a Montecassino. La sua Regola, che riassume la tradizione monastica orientale adattandola con saggezza e discrezione al mondo latino, apre una via nuova alla civiltà europea dopo il declino di quella romana. In questa scuola di servizio del Signore hanno un ruolo determinante la lettura meditata della parola di Dio e la lode liturgica, alternata con i ritmi del lavoro in un clima intenso di carità fraterna e di servizio reciproco.

Nel solco di San Benedetto sorsero nel continente europeo e nelle isole centri di preghiera, di cultura, di promozione umana, di ospitalità per i poveri e i pellegrini. Paolo VI lo proclamò patrono d'Europa (24 ottobre 1964).

La sua memoria, a causa della Quaresima, è stata trasferita dalla data tradizionale del 21 marzo, ritenuto il giorno della sua morte, all'11 luglio, giorno in cui fin dall'alto Medioevo in alcuni luoghi si faceva un particolare ricordo del santo. (Mess. Rom.)

La sua nobile famiglia lo manda a Roma per gli studi, che lui non completerà mai. Lo attrae la vita monastica, ma i suoi progetti iniziali falliscono. Per certuni è un santo, ma c’è chi non lo capisce e lo combatte.

La voce di Benedetto comincia a farsi sentire da Montecassino verso il 529. Ha creato un monastero con uomini in sintonia con lui, che rifanno vivibili quelle terre. Di anno in anno, ecco campi, frutteti, orti, il laboratorio... Qui si comincia a rinnovare il mondo: qui diventano uguali e fratelli “latini” e “barbari”, ex pagani ed ex ariani, antichi schiavi e antichi padroni di schiavi. Ora tutti sono una cosa sola, stessa legge, stessi diritti, stesso rispetto. Qui finisce l’antichità, per mano di Benedetto. Il suo monachesimo non fugge il mondo. Serve Dio e il mondo nella preghiera e nel lavoro.

Irradia esempi tutt’intorno con il suo ordinamento interno fondato sui tre punti: la stabilità, per cui nei suoi cenobi si entra per restarci; il rispetto dell’orario (preghiera, lavoro, riposo), col quale Benedetto rivaluta il tempo come un bene da non sperperare mai. Lo spirito di fraternità, infine, incoraggia e rasserena l’ubbidienza: c’è l’autorità dell’abate, ma Benedetto, con la sua profonda conoscenza dell’uomo, insegna a esercitarla "con voce grande e dolce".

Il fondatore ha dato ai tempi nuovi ciò che essi confusamente aspettavano. C’erano già tanti monasteri in Europa prima di lui. Ma con lui il monachesimo-rifugio diventerà monachesimo-azione. La sua Regola non rimane italiana: è subito europea, perché si adatta a tutti.

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S. Benedetto

Due secoli dopo la sua morte, saranno più di mille i monasteri guidati dalla sua Regola (ma non sappiamo con certezza se ne sia lui il primo autore. Così come continuiamo ad essere incerti sull’anno della sua morte a Montecassino). Papa Gregorio Magno gli ha dedicato un libro dei suoi Dialoghi, ma soltanto a scopo di edificazione, trascurando molti particolari importanti.

Nel libro c’è però un’espressione ricorrente: i visitatori di Benedetto – re, monaci, contadini – lo trovano spesso "intento a leggere". Anche i suoi monaci studiano e imparano. Il cenobio non è un semplice sodalizio di eruditi per il recupero dei classici: lo studio è in funzione dell’evangelizzare. Ma quest’opera fa pure di esso un rifugio della cultura nel tempo del grande buio. La sua Festa liturgica si celebra l'11 luglio.

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LA "SANTA REGOLA" DI S. BENEDETTO

Prologo

Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno,

in modo che tu possa tornare attraverso la solerzia dell'obbedienza a Colui dal quale ti sei allontanato per l'ignavia della disobbedienza.

Io mi rivolgo personalmente a te, chiunque tu sia, che, avendo deciso di rinunciare alla volontà propria, impugni le fortissime e valorose armi dell'obbedienza per militare sotto il vero re, Cristo Signore.

Prima di tutto chiedi a Dio con costante e intensa preghiera di portare a termine quanto di buono ti proponi di compiere,

affinché, dopo averci misericordiosamente accolto tra i suoi figli, egli non debba un giorno adirarsi per la nostra indegna condotta.

Bisogna dunque servirsi delle grazie che ci concede per obbedirgli a ogni istante con tanta fedeltà da evitare, non solo che egli giunga a diseredare i suoi figli come un padre sdegnato,

ma anche che, come un sovrano tremendo, irritato dalle nostre colpe, ci condanni alla pena eterna quali servi infedeli che non lo hanno voluto seguire nella gloria.

Alziamoci, dunque, una buona volta, dietro l'incitamento della Scrittura che esclama: "E' ora di scuotersi dal sonno!"

e aprendo gli occhi a quella luce divina ascoltiamo con trepidazione ciò che ci ripete ogni giorno la voce ammonitrice di Dio:

" Se oggi udrete la sua voce, non indurite il vostro cuore!"

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e ancora: " Chi ha orecchie per intendere, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese!".

E che dice? " Venite, figli, ascoltatemi, vi insegnerò il timore di Dio.

Correte, finché avete la luce della vita, perché non vi colgano le tenebre della morte".

Quando poi il Signore cerca il suo operaio tra la folla, insiste dicendo:

"Chi è l'uomo che vuole la vita e arde dal desiderio di vedere giorni felici?".

Se a queste parole tu risponderai: "Io!", Dio replicherà:

"Se vuoi avere la vita, quella vera ed eterna, guarda la tua lingua dal male e le tue labbra dalla menzogna. Allontanati dall'iniquità, opera il bene, cerca la pace e seguila".

Se agirete così rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate vi dirò: "Ecco sono qui!".

Fratelli carissimi, che può esserci di più dolce per noi di questa voce del Signore che ci chiama?

Guardate come nella sua misericordiosa bontà ci indica la via della vita!

Armati dunque di fede e di opere buone, sotto la guida del Vangelo, incamminiamoci per le sue vie in modo da meritare la visione di lui, che ci ha chiamati nel suo regno.

Se, però, vogliamo trovare dimora sotto la sua tenda, ossia nel suo regno, ricordiamoci che è impossibile arrivarci senza correre verso la meta, operando il bene.

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Ma interroghiamo il Signore, dicendogli con le parole del profeta: "Signore, chi abiterà nella tua tenda e chi dimorerà sul tuo monte santo?".

E dopo questa domanda, fratelli, ascoltiamo la risposta con cui il Signore ci indica la via che porta a quella tenda:

"Chi cammina senza macchia e opera la giustizia;

chi pronuncia la verità in cuor suo e non ha tramato inganni con la sua lingua;

chi non ha recato danni al prossimo, né ha accolto l'ingiuria lanciata contro di lui";

chi ha sgominato il diavolo, che malignamente cercava di sedurlo con le sue suggestioni, respingendolo dall'intimo del proprio cuore e ha impugnato coraggiosamente le sue insinuazioni per spezzarle su Cristo al loro primo sorgere;

gli uomini timorati di Dio, che non si insuperbiscono per la propria buona condotta e, pensando invece che quanto di bene c'è in essi non è opera loro, ma di Dio,

lo esaltano proclamando col profeta: "Non a noi, Signore, non a noi, ma al tuo nome dà gloria!".

Come fece l'apostolo Paolo, che non si attribuì alcun merito della sua predicazione, ma disse:" Per grazia di Dio sono quel che sono"

e ancora: "chi vuole gloriarsi, si glori nel Signore".

Perciò il Signore stesso dichiara nel Vangelo: "Chi ascolta da me queste parole e le mette in pratica, sarà simile a un uomo saggio il quale edificò la sua casa sulla roccia.

E vennero le inondazioni e soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia".

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Dopo aver concluso con queste parole il Signore attende che, giorno per giorno, rispondiamo con i fatti alle sue sante esortazioni.

Ed è proprio per permetterci di correggere i nostri difetti che ci vengono dilazionati i giorni di questa vita

secondo le parole dell'Apostolo: "Non sai che con la sua pazienza Dio vuole portarti alla conversione?"

Difatti il Signore misericordioso afferma: "Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva".

Dunque, fratelli miei, avendo chiesto al Signore a chi toccherà la grazia di dimorare nella sua tenda, abbiamo appreso quali sono le condizioni per rimanervi, purché sappiamo comportarci nel modo dovuto.

Perciò dobbiamo disporre i cuori e i corpi nostri a militare sotto la santa obbedienza.

Per tutto quello poi, di cui la nostra natura si sente incapace, preghiamo il Signore di aiutarci con la sua grazia.

E se vogliamo arrivare alla vita eterna, sfuggendo alle pene dell'inferno,

finche c'è tempo e siamo in questo corpo e abbiamo la possibilità di compiere tutte queste buone azioni,

dobbiamo correre e operare adesso quanto ci sarà utile per l'eternità.

Bisogna dunque istituire una scuola del servizio del Signore

nella quale ci auguriamo di non prescrivere nulla di duro o di gravoso;

ma se, per la correzione dei difetti o per il mantenimento della carità, dovrà introdursi una certa austerità, suggerita da motivi di giustizia,

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non ti far prendere dallo scoraggiamento al punto di abbandonare la via della salvezza, che in principio è necessariamente stretta e ripida.

Mentre invece, man mano che si avanza nella vita monastica e nella fede, si corre per la via dei precetti divini col cuore dilatato dall'indicibile sovranità dell'amore.

Così, non allontanandoci mai dagli insegnamenti di Dio e perseverando fino alla morte nel monastero in una fedele adesione alla sua dottrina, partecipiamo con la nostra sofferenza ai patimenti di Cristo per meritare di essere associati al suo regno.

Capitolo I - Le varie categorie di monaci

E' noto che ci sono quattro categorie di monaci.

La prima è quella dei cenobiti, che vivono in un monastero, militando sotto una regola e un abate.

La seconda è quella degli anacoreti o eremiti, ossia di coloro che non sono mossi dall'entusiastico fervore dei principianti, ma sono stati lungamente provati nel monastero,

dove con l'aiuto di molti hanno imparato a respingere le insidie del demonio;

quindi, essendosi bene addestrati tra le file dei fratelli al solitario combattimento dell'eremo, sono ormai capaci, con l'aiuto di Dio, di affrontare senza il sostegno altrui la lotta corpo a corpo contro le concupiscenze e le passioni.

La terza categoria di monaci, veramente detestabile è formata dai sarabaiti: molli come piombo, perché non sono stati temprati come l'oro nel crogiolo dell'esperienza di una regola,

costoro conservano ancora le abitudini mondane, mentendo a Dio con la loro tonsura.

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A due a due, a tre a tre o anche da soli, senza la guida di un superiore, chiusi nei loro ovili e non in quello del Signore, hanno come unica legge l'appagamento delle proprie passioni,

per cui chiamano santo tutto quello che torna loro comodo, mentre respingono come illecito quello che non gradiscono.

C'è infine una quarta categoria di monaci, che sono detti girovaghi, perché per tutta la vita passano da un paese all'altro, restando tre o quattro giorni come ospiti nei vari monasteri,

sempre vagabondi e instabili, schiavi delle proprie voglie e dei piaceri della gola, peggiori dei sarabaiti sotto ogni aspetto.

Ma riguardo alla vita sciagurata di tutti costoro è preferibile tacere piuttosto che parlare.

Lasciamoli quindi da parte e con l'aiuto del Signore occupiamoci dell'ordinamento della prima categoria, ossia quella fortissima e valorosa dei cenobiti.

Capitolo II - L'Abate

Un abate degno di stare a capo di un monastero deve sempre avere presenti le esigenze implicite nel suo nome, mantenendo le proprie azioni al livello di superiorità che esso comporta.

Sappiamo infatti per fede che in monastero egli tiene il posto di Cristo, poiché viene chiamato con il suo stesso nome,

secondo quanto dice l'Apostolo: "Avete ricevuto lo Spirito di figli adottivi, che vi fa esclamare: Abba, Padre!"

Perciò l'abate non deve insegnare, né stabilire o ordinare nulla di contrario alle leggi del Signore,

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anzi il suo comando e il suo insegnamento devono infondere nelle anime dei discepoli il fermento della santità.

Si ricordi sempre che nel tremendo giudizio di Dio dovrà rendere conto tanto del suo insegnamento, quanto dell'obbedienza dei discepoli

e sappia che il pastore sarà considerato responsabile di tutte le manchevolezze che il padre di famiglia avrà potuto riscontrare nel gregge.

D'altra parte è anche vero che, se il pastore avrà usato ogni diligenza nei confronti di un gregge irrequieto e indocile, cercando in tutti i modi di correggerne la cattiva condotta,

verrà assolto nel divino giudizio e potrà ripetere con il profeta al Signore: "Non ho tenuto la tua giustizia nascosta in fondo al cuore, ma ho proclamato la tua verità e la tua salvezza; essi tuttavia mi hanno disprezzato, ribellandosi contro di me".

E allora la giusta punizione delle pecore ribelli sarà la morte, che avrà finalmente ragione della loro ostinazione.

Dunque, quando uno assume il titolo di Abate deve imporsi ai propri discepoli con un duplice insegnamento,

mostrando con i fatti più che con le parole tutto quello che è buono e santo: in altri termini, insegni oralmente i comandamenti del Signore ai discepoli più sensibili e recettivi, ma li presenti esemplificati nelle sue azioni ai più tardi e grossolani.

Confermi con la sua condotta che bisogna effettivamente evitare quanto ha presentato ai discepoli come riprovevole, per non correre il rischio di essere condannato dopo aver predicato agli altri

e di non sentirsi dire dal Signore per i suoi peccati: "Come ti arroghi di esporre i miei precetti e di avere sempre la mia alleanza sulla bocca, tu che hai in odio la disciplina e ti getti le mie parole dietro le spalle?"

e ancora: "Tu che vedevi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello, non ti sei accorto della trave nel tuo".

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Si guardi dal fare preferenze nelle comunità:

non ami l'uno piò dell'altro, a eccezione di quello che avrà trovato migliore nella condotta e nell'obbedienza:

non anteponga un monaco proveniente da un ceto elevato a uno di umili origini, a meno che non ci sia un motivo ragionevole per stabilire una tale precedenza.

Ma se, per ragioni di giustizia, riterrà di dover agire così lo faccia per chiunque; altrimenti ciascuno conservi il proprio posto,

perché, sia il servo che il libero, tutti siamo una cosa sola in Cristo e, militando sotto uno stesso Signore, prestiamo un eguale servizio. Infatti, "dinanzi a Dio non ci sono parzialità"

e una cosa sola ci distingue presso di lui: se siamo umili e migliori degli altri nelle opere buone.

Quindi l'abate ami tutti allo stesso modo, seguendo per ciascuno una medesima regola di condotta basata sui rispettivi meriti.

Per quanto riguarda poi la direzione dei monaci, bisogna che tenga presente la norma dell'apostolo: "Correggi, esorta, rimprovera"

e precisamente, alternando i rimproveri agli incoraggiamenti, a seconda dei tempi e delle circostanze, sappia dimostrare la severità del maestro insieme con la tenerezza del padre.

In altre parole, mentre deve correggere energicamente gli indisciplinati e gli irrequieti, deve esortare amorevolmente quelli che obbediscono con docilità a progredire sempre più. Ma è assolutamente necessario che rimproveri severamente e punisca i negligenti e coloro che disprezzano la disciplina.

Non deve chiudere gli occhi sulle eventuali mancanze, ma deve stroncarle sul nascere, ricordandosi della triste fine di Eli, sacerdote di Silo.

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Riprenda, ammonendoli una prima e una seconda volta, i monaci più docili e assennati,

ma castighi duramente i riottosi, gli ostinati, i superbi e i disobbedienti, appena tentano di trasgredire, ben sapendo che sta scritto: "Lo stolto non si corregge con le parole"

e anche: "Battendo tuo figlio con la verga, salverai l'anima sua dalla morte".

L'abate deve sempre ricordarsi quel che è e come viene chiamato, nella consapevolezza che sono maggiori le esigenze poste a colui al quale è stato affidato di più.

Bisogna che prenda chiaramente coscienza di quanto sia difficile e delicato il compito che si è assunto di dirigere le anime e porsi al servizio dei vari temperamenti, incoraggiando uno, rimproverando un altro e correggendo un terzo:

perciò si conformi e si adatti a tutti, secondo la rispettiva indole e intelligenza, in modo che, invece di aver a lamentare perdite nel gregge affidato alle sue cure, possa rallegrarsi per l'incremento del numero dei buoni.

Soprattutto si guardi dal perdere di vista o sottovalutare la salvezza delle anime, di cui è responsabile, per preoccuparsi eccessivamente delle realtà terrene, transitorie e caduche,

ma pensi sempre che si è assunto l'impegno di dirigere delle anime, di cui un giorno dovrà rendere conto

e non cerchi una scusante nelle eventuali difficoltà economiche, ricordandosi che sta scritto :"Cercate anzitutto il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in soprappiù"

e anche: "Nulla manca a coloro che lo temono".

Sappia inoltre che chi si assume l'impegno di dirigere le anime deve prepararsi a renderne conto

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e stia certo che, quanti sono i monaci di cui deve prendersi cura, tante solo le anime di cui nel giorno del giudizio sarà ritenuto responsabile di fronte a Dio, naturalmente oltre che della propria.

Così nel continuo timore dell'esame a cui verrà sottoposto il pastore riguardo alle pecore che gli sono state affidate mentre si preoccupa del rendiconto altrui, si fa più attento al proprio

e corregge i suoi personali difetti, aiutando gli altri a migliorarsi con le sue ammonizioni.

Capitolo III - La consultazione della comunità

Ogni volta che in monastero bisogna trattare qualche questione importante, l'abate convochi tutta la comunità ed esponga personalmente l'affare in oggetto.

Poi, dopo aver ascoltato il parere dei monaci, ci rifletta per proprio conto e faccia quel che gli sembra più opportuno.

Ma abbiamo detto di consultare tutta la comunità, perché spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore.

I monaci poi esprimano il loro parere con tutta umiltà e sottomissione, senza pretendere di imporre a ogni costo le loro vedute;

comunque la decisione spetta all'abate e, una volta che questi avrà stabilito ciò che è più conveniente, tutti dovranno obbedirgli.

D'altra parte, come è doveroso che i discepoli obbediscano al maestro, così è bene che anche lui predisponga tutto con prudenza ed equità.

Dunque in ogni cosa tutti seguano come maestra la Regola e nessuno osi allontanarsene.

Nessun membro della comunità segua la volontà propria,

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né si azzardi a contestare sfacciatamente con l'abate, dentro o fuori del monastero.

Chi si permette un simile contegno, sia sottoposto alle punizioni previste dalla Regola.

L'abate però dal canto suo operi tutto col timor di Dio e secondo le prescrizioni della Regola, ben sapendo che di tutte le sue decisioni dovrà certamente rendere conto a Dio, giustissimo giudice.

Se poi in monastero si devono trattare questioni di minore importanza, si serva solo del consiglio dei più anziani,

come sta scritto: "Fa' tutto col consiglio e dopo non avrai a pentirtene".

Capitolo IV - Gli strumenti delle buone opere

Prima di tutto amare il Signore Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutte le forze;

poi il prossimo come se stesso.

Quindi non uccidere,

non commettere adulterio,

non rubare,

non avere desideri illeciti,

non mentire;

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onorare tutti gli uomini,

e non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi.

Rinnegare completamente se stesso. per seguire Cristo;

mortificare il proprio corpo,

non cercare le comodità,

amare il digiuno.

Soccorrere i poveri,

vestire gli ignudi,

visitare gli infermi,

seppellire i morti ;

alleviare tutte le sofferenze,

consolare quelli che sono nell'afflizione.

Rendersi estraneo alla mentalità del mondo;

non anteporre nulla all'amore di Cristo.

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Non dare sfogo all'ira,

non serbare rancore,

non covare inganni nel cuore,

non dare un falso saluto di pace,

non abbandonare la carità.

Non giurare per evitare spergiuri,

dire la verità con il cuore e con la bocca,

non rendere male per male,

non fare torti a nessuno, ma sopportare pazientemente quelli che vengono fatti a noi;

amare i nemici,

non ricambiare le ingiurie e le calunnie, ma piuttosto rispondere con la benevolenza verso i nostri offensori,

sopportare persecuzioni per la giustizia.

Non essere superbo,

non dedito al vino,

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né vorace,

non dormiglione,

né pigro;

non mormoratore,

né maldicente.

Riporre in Dio la propria speranza,

attribuire a Lui e non a sé quanto di buono scopriamo in noi,

ma essere consapevoli che il male viene da noi e accettarne la responsabilità.

Temere il giorno del giudizio,

tremare al pensiero dell'inferno,

anelare con tutta l'anima alla vita eterna,

prospettarsi sempre la possibilità della morte.

Vigilare continuamente sulle proprie azioni,

essere convinti che Dio ci guarda dovunque.

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Spezzare subito in Cristo tutti i cattivi pensieri che ci sorgono in cuore e manifestarli al padre spirituale.

Guardarsi dai discorsi cattivi o sconvenienti,

non amare di parlar molto,

non dire parole leggere o ridicole,

non ridere spesso e smodatamente.

Ascoltare volentieri la lettura della parola di Dio,

dedicarsi con frequenza alla preghiera;

in questa confessare ogni giorno a Dio con profondo dolore le colpe passate

e cercare di emendarsene per l'avvenire.

Non appagare i desideri della natura corrotta,

odiare la volontà propria,

obbedire in tutto agli ordini dell'abate, anche se - Dio non voglia! - questi agisse diversamente da come parla, ricordando quel precetto del Signore:" Fate quello che dicono, ma non fate quello che fanno".

Non voler esser detto santo prima di esserlo, ma diventare veramente tale, in modo che poi si possa dirlo con più fondamento.

Adempiere quotidianamente i comandamenti di Dio.

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Amare la castità,

non odiare nessuno,

non essere geloso,

non coltivare l'invidia,

non amare le contese,

fuggire l'alterigia

e rispettare gli anziani,

amare i giovani,

pregare per i nemici nell'amore di Cristo,

nell'eventualità di un contrasto con un fratello, stabilire la pace prima del tramonto del sole.

E non disperare mai della misericordia di Dio.

Ecco, questi sono gli strumenti dell'arte spirituale!

Se li adopereremo incessantemente di giorno e di notte e li riconsegneremo nel giorno del giudizio, otterremo dal Signore la ricompensa promessa da lui stesso:

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"Né occhio ha mai visto, né orecchio ha udito, né mente d'uomo ha potuto concepire ciò che Dio ha preparato a coloro che lo amano".

L'officina poi in cui bisogna usare con la massima diligenza questi strumenti è formata dai chiostri del monastero e dalla stabilità nella propria famiglia monastica.

Capitolo V - L'obbedienza

Il segno più evidente dell'umiltà è la prontezza nell'obbedienza.

Questa è caratteristica dei monaci che non hanno niente più caro di Cristo

e, a motivo del servizio santo a cui si sono consacrati o anche per il timore dell'inferno e in vista della gloria eterna,

appena ricevono un ordine dal superiore non si concedono dilazioni nella sua esecuzione, come se esso venisse direttamente da Dio.

E' di loro che il Signore dice: " Appena hai udito, mi hai obbedito"

mentre rivolgendosi ai superiori dichiara: "Chi ascolta voi, ascolta me".

Quindi, questi monaci, che si distaccano subito dalle loro preferenze e rinunciano alla propria volontà,

si liberano all'istante dalle loro occupazioni, lasciandole a mezzo, e si precipitano a obbedire, in modo che alla parola del superiore seguano immediatamente i fatti.

Quasi allo stesso istante, il comando del maestro e la perfetta esecuzione del discepolo si compiono di comune accordo con quella velocità che è frutto del timor di Dio:

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così in coloro che sono sospinti dal desiderio di raggiungere la vita eterna.

Essi si slanciano dunque per la via stretta della quale il Signore dice: "Angusta è la via che conduce alla vita";

perciò non vivono secondo il proprio capriccio né seguono le loro passioni e i loro gusti, ma procedono secondo il giudizio e il comando altrui; rimangono nel monastero e desiderano essere sottoposti a un abate.

Senza dubbio costoro prendono a esempio quella sentenza del Signore che dice: "Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato".

Ma questa obbedienza sarà accetta a Dio e gradevole agli uomini, se il comando ricevuto verrà eseguito senza esitazione, lentezza o tiepidezza e tantomeno con mormorazioni o proteste,

perché l'obbedienza che si presta agli uomini è resa a Dio, come ha detto lui stesso: "Chi ascolta voi, ascolta me".

I monaci dunque devono obbedire con slancio e generosità, perché "Dio ama chi dà lietamente".

Se infatti un fratello obbedisce malvolentieri e mormora, non dico con la bocca, ma anche solo con il cuore,

pur eseguendo il comando, non compie un atto gradito a Dio, il quale scorge 1a mormorazione nell'intimo della sua coscienza;

quindi, con questo comportamento, egli non si acquista alcun merito, anzi, se non ripara e si corregge, incorre nel castigo comminato ai mormoratori.

Capitolo VI - L'amore del silenzio

Facciamo come dice il profeta: "Ho detto: Custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone".

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Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti in vista della pena riserbata al peccato!

Dunque l'importanza del silenzio è tale che persino ai discepoli perfetti bisogna concedere raramente il permesso di parlare, sia pure di argomenti buoni, santi ed edificanti, perché sta scritto:

"Nelle molte parole non eviterai il peccato"

e altrove: "Morte e vita sono in potere della lingua".

Se infatti parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare.

Quindi, se bisogna chiedere qualcosa al superiore, lo si faccia con grande umiltà e rispettosa sottomissione.

Escludiamo poi sempre e dovunque la trivialità, le frivolezze e le buffonerie e non permettiamo assolutamente che il monaco apra la bocca per discorsi di questo genere.

Capitolo VII - L'umiltà

La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran voce: "Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato".

Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia,

dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: "Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me".

E allora? "Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre".

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Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell'umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l'umiliazione della vita presente,

bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli.

Non c'è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l'umiltà si sale.

La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo;

noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l'anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.

Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione,

si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all'inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti.

In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne,

l'uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli.

E' ciò che ci insegna il profeta, quando mostra Dio talmente presente ai nostri pensieri da affermare: "Dio scruta le reni e i cuori"

come pure: "Dio conosce i pensieri degli uomini".

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Poi aggiunge: "Hai intuito di lontano i miei pensieri"

e infine: "Il pensiero dell'uomo sarà svelato dinanzi a te".

Quindi, per potersi coscienziosamente guardare dai cattivi pensieri, bisogna che il monaco vigile e fedele ripeta sempre tra sé: "Sarò senza macchia dinanzi a lui, solo se mi guarderò da ogni malizia".

Ci è poi vietato di fare la volontà propria, dato che la Scrittura ci dice: "Allontanati dalle tue voglie"

e per di più nel Pater chiediamo a Dio che in noi si compia la sua volontà.

Perciò ci viene giustamente insegnato di non fare la nostra volontà, evitando tutto quello di cui la Scrittura dice: "Ci sono vie che agli uomini sembrano diritte, ma che si sprofondano negli abissi dell'inferno"

e anche nel timore di quanto è stato affermato riguardo ai negligenti: "Si sono corrotti e sono divenuti spregevoli nella loro dissolutezza".

Quanto poi alle passioni della nostra natura decaduta, bisogna credere ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto del profeta: "Ogni mio desiderio sta davanti a te".

Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata sulla soglia del piacere.

Per questa ragione la Scrittura prescrive: "Non seguire le tue voglie".

Se dunque "gli occhi di Dio scrutano i buoni e i cattivi"

e se "il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per vedere se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio",

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se a ogni momento del giorno e della notte le nostre azioni vengono riferite al Signore dai nostri angeli custodi,

bisogna, fratelli miei, che stiamo sempre in guardia per evitare che un giorno Dio ci veda perduti dietro il male e isteriliti, come dice il profeta nel salmo e,

pur risparmiandoci per il momento, perché è misericordioso e aspetta la nostra conversione, debba dirci in avvenire: "Hai fatto questo e ho taciuto".

Il secondo grado dell'umiltà è quello in cui, non amando la propria volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri,

ma si imita il Signore, mettendo in pratica quella sua parola, che dice: "Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato".

Cosa" pure un antico testo afferma: "La volontà propria procura la pena, mentre la sottomissione conquista il premio".

Terzo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del quale l'Apostolo dice: "Fatto obbediente fino alla morte".

Il quarto grado dell'umiltà è quello del monaco che, pur incontrando difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell'esercizio dell'obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza

e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il monito della Scrittura: " Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà salvato".

E ancora: "Sia forte il tuo cuore e spera nel Signore".

E per dimostrare come il servo fedele deve sostenere per il Signore tutte le possibili contrarietà, esclama per bocca di quelli che patiscono: "Ogni giorno per te siamo messi a morte, siamo trattati come pecore da macello".

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Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina retribuzione, costoro soggiungono lietamente: "E di tutte queste cose trionfiamo in pieno, grazie a colui che ci ha amato",

mentre altrove la Scrittura dice: "Ci hai provato, Signore, ci hai saggiato come si saggia l'argento col fuoco; ci hai fatto cadere nella rete, ci hai caricato di tribolazioni".

E per indicare che dobbiamo assoggettarci a un superiore, prosegue esclamando: "Hai posto degli uomini sopra il nostro capo".

Quei monaci, però, adempiono il precetto del Signore, esercitando la pazienza anche nelle avversità e nelle umiliazioni, e, percossi su una guancia, presentano l'altra, cedono anche il mantello a chi strappa loro di dosso la tunica, quando sono costretti a fare un miglio di cammino ne percorrono due,

come l'Apostolo Paolo sopportano i falsi fratelli e ricambiano con parole le offese e le ingiurie.

Il quinto grado dell'umiltà consiste nel manifestare con un'umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell'animo o le colpe commesse in segreto,

secondo l'esortazione della Scrittura, che dice: "Manifesta al Signore la tua via e spera in lui".

E anche: "Aprite l'animo vostro al Signore, perché è buono ed eterna è la sua misericordia",

mentre il profeta esclama: "Ti ho reso noto il mio peccato e non ho nascosto la mia colpa.

Ho detto: "confesserò le mie iniquità dinanzi al Signore" e tu hai perdonato la malizia del mio cuore".

Il sesto grado dell'umiltà è quello in cui il monaco si contenta delle cose più misere e grossolane e si considera un operaio incapace e indegno nei riguardi di tutto quello che gli impone l'obbedienza,

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ripetendo a se stesso con il profeta: "Sono ridotto a nulla e nulla so; eccomi dinanzi a te come una bestia da soma, ma sono sempre con te".

Il settimo grado dell'umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell'esserne convinto dal profondo del cuore,

umiliandosi e dicendo con il profeta: "Ora io sono un verme e non un uomo, l'obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe";

"Mi sono esaltato e quindi umiliato e confuso"

e ancora: "Buon per me che fui umiliato, perché imparassi la tua legge".

L'ottavo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non fa nulla al di fuori di ciò a cui lo sprona la regola comune del monastero e l'esempio dei superiori e degli anziani.

Il nono grado dell'umiltà è proprio del monaco che sa dominare la lingua e, osservando fedelmente il silenzio, tace finché non è interrogato,

perché la Scrittura insegna che "nelle molte parole non manca il peccato"

e che "l'uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra".

Il decimo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: "Lo stolto nel ridere alza la voce".

L'undicesimo grado dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole assennate, senza alzare la voce,

come sta scritto: "Il saggio si riconosce per la sobrietà nel parlare".

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Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore,

in quanto durante l'Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell'orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi;

e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio,

ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: "Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo".

E ancora con il profeta: "Mi sono sempre curvato e umiliato".

Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore;

per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura;

in altre parole non più per timore dell'inferno, ma per timore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù.

Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati.

Capitolo VIII - L'Ufficio divino nella notte

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Durante la stagione invernale, cioè dal principio di novembre sino a Pasqua, secondo un calcolo ragionevole, la sveglia sia verso le due del mattino,

in modo che il sonno si prolunghi un po' oltre la mezzanotte e tutti si possano alzare sufficientemente riposati.

Il tempo che rimane dopo l'Ufficio vigilare venga impiegato dai monaci, che ne hanno bisogno, nello studio del salterio o delle lezioni.

Da Pasqua, invece, sino al suddetto inizio di novembre, l'orario venga disposto in modo tale che, dopo un brevissimo intervallo nel quale i fratelli possono uscire per le necessità della natura, l'Ufficio vigiliare sia seguito immediatamente dalle Lodi, che devono essere recitate al primo albeggiare.

Capitolo IX - I salmi dell'Ufficio notturno

Nel suddetto periodo invernale si dica prima di tutto per tre volte il versetto: "Signore, apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode",

a cui si aggiunga il salmo 3 con il Gloria;

dopo di questo il salmo 94 cantato con l'antifona oppure lentamente.

Quindi segua l'inno e poi sei salmi con le antifone,

finiti i quali e detto il versetto, l'abate dia la benedizione e, mentre tutti stanno seduti ai rispettivi posti, i fratelli leggano a turno dal lezionario posto sul leggio tre lezioni, intercalate da responsori cantati.

Due responsori si cantino senza il Gloria, ma dopo la terza lezione il cantore lo intoni

e allora tutti subito si alzino in piedi per l'onore e la riverenza dovuti alla Santa Trinità.

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Quanto ai libri da leggere nell'Ufficio vigilare, siano tutti di autorità divina, sia dell'antico che del nuovo Testamento, compresi i relativi commenti, scritti da padri di sicura fama e genuina fede cattolica.

Dopo queste tre lezioni con i rispettivi responsori, seguano gli altri sei salmi da cantare con l'Alleluia

e dopo questi una lezione tratta dalle lettere di S. Paolo, da recitarsi a memoria, il versetto, la prece litanica, cioè il Kyrie eleison,

e così si metta fine all'Ufficio vigilare.

Capitolo X - L'Ufficio notturno dell'estate

Da Pasqua fino al principio di novembre si mantenga lo stesso numero di salmi, che è stato prescritto sopra;

eccetto che, a causa della brevità delle notti, non si leggano le lezioni dal lezionario, ma, invece di tre, se ne reciti a memoria una sola dell'antico Testamento seguita da un responsorio breve;

tutto il resto si svolga, come è già stato prescritto, cioè nell'Ufficio vigiliare non si dicano mai meno di dodici salmi, senza contare i salmi 3 e 94.

Capitolo XI - L'Ufficio notturno nelle Domeniche

Per l'Ufficio vigilare della domenica ci si alzi un po' prima.

Anche in questo caso si osservi un determinato ordine, cioè, dopo aver cantato sei salmi come abbiamo stabilito sopra ed essersi seduti tutti ordinatamente ai propri posti, si leggano sul lezionario quattro lezioni con i relativi responsori, secondo quanto abbiamo già detto;

solo al quarto responsorio il cantore intoni il Gloria e allora tutti si alzino subito in piedi con riverenza.

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A queste lezioni seguano per ordine altri sei salmi con le antifone come i precedenti e il versetto.

Quindi si leggano di nuovo altre quattro lezioni con i propri responsori, secondo le norme precedenti.

Poi si recitino tre cantici, tratti dai libri dei Profeti a scelta dell'abate, che si devono cantare con l'Alleluia.

Detto quindi il versetto, con la benedizione dell'abate si leggano altre quattro lezioni del nuovo Testamento nel modo gi indicato.

Dopo il quarto responsorio l'abate intoni l'inno Te Deum laudamus,

finito il quale lo stesso abate legga la lezione dai Vangeli, mentre tutti stanno in piedi con la massima reverenza.

Al termine di questa lettura tutti rispondano Amen, poi l'abate prosegua immediatamente con l'inno Te decet laus e, recitata la preghiera di benedizione, si incomincino le lodi.

Quest'ordine dell'Ufficio vigiliare della domenica dev'essere mantenuto in ogni stagione, tanto d'estate che d'inverno,

salvo il caso deprecabile in cui i monaci si alzassero più tardi, nella quale circostanza bisognerà abbreviare le lezioni e i responsori.

Si stia però bene attenti che ciò non avvenga; ma se dovesse accadere, il responsabile di una simile negligenza ne faccia in coro degna riparazione a Dio.

Capitolo XII - Le lodi

Alle Lodi della domenica, prima di tutto si dica il salmo 66 tutto di seguito, senza antifona,

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quindi il salmo 50 con l'Alleluia,

poi il 117 e il 62

quindi il cantico dei tre fanciulli nella fornace (il Benedicite), i salmi di lode, una lezione dell'Apocalisse a memoria, il responsorio, l'inno, il versetto, il cantico del Vangelo (il Benedictus) e la prece litanica con cui si finisce.

Capitolo XIII - Le lodi nei giorni feriali

Nei giorni feriali le Lodi si celebrino nel modo seguente:

si dica il salmo 66 senza antifona, recitandolo lentamente in modo che tutti possano essere presenti per il salmo 50, che deve dirsi con l'antifona.

Dopo di questi, si dicano altri due salmi secondo la consuetudine e cioè

al lunedì i salmi 5 e 35,

al martedì il 42 e il 56,

al mercoledì il 63 e il 64,

al giovedì l'87 e l'89,

al venerdì il 75 e il 91

e al sabato il 142 con il cantico del Deuteronomio, diviso in due parti dal Gloria.

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In tutti gli altri giorni poi si dica il cantico profetico proprio di quel giorno, secondo l'uso della Chiesa romana.

Quindi seguano i salmi di lode, una breve lezione dell'Apostolo a memoria, il responsorio, l'inno, il versetto, il cantico del Vangelo, la prece litanica e così si termina.

Ma l'Ufficio delle Lodi e del Vespro non si chiuda mai senza che, secondo l'uso stabilito, alla fine, tra l'attenzione di tutti, il superiore reciti il Pater per le offese alla carità fraterna che avvengono di solito nella vita comune,

in modo che i presenti possano purificarsi da queste colpe, grazie all'impegno preso con la stessa preghiera nella quale dicono: "Rimetti a noi, come anche noi rimettiamo".

Nelle altre Ore, invece, si dica ad alta voce solo l'ultima parte del Pater, a cui tutti rispondano: "Ma liberaci dal male".

Capitolo XIV - L'Ufficio vigilare nelle feste dei Santi

Nelle feste dei Santi e in tutte le solennità si proceda come abbiamo stabilito per la domenica,

ad eccezione dei salmi, delle antifone e delle lezioni, che saranno proprie di quel giorno; si segua però l'ordine già fissato.

Capitolo XV - Quando si deve dire l'alleluia

L'Alleluia si dica sempre dalla santa Pasqua fino a Pentecoste, tanto nei salmi che nei responsori;

da Pentecoste poi sino al principio della Quaresima lo si dica soltanto negli ultimi sei salmi dell'Ufficio notturno.

Ma in tutte le domeniche che cadano fuori del tempo quaresimale i cantici, le Lodi, Prima, Terza, Sesta e Nona si dicano con l'Alleluia, mentre il Vespro avrà le antifone proprie.

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I responsori, invece, non si dicano mai con l'Alleluia, se non da Pasqua a Pentecoste.

Capitolo XVI - La celebrazione dei divini Offici durante le ore del giorno

"Sette volte al giorno ti ho lodato", dice il profeta.

Questo sacro numero di sette sarà adempiuto da noi, se assolveremo i doveri del nostro servizio alle Lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e Compieta,

perché proprio di queste ore diurne il profeta ha detto: "Sette volte al giorno ti ho lodato".

Infatti nelle Vigilie notturne lo stesso profeta dice: "Nel mezzo della notte mi alzavo per lodarti".

Dunque in queste ore innalziamo lodi al nostro Creatore "per le opere della sua giustizia" e cioè alle lodi, a Prima, a Terza, a Sesta, a Nona, a Vespro e a Compieta e di notte alziamoci per celebrare la sua grandezza.

Capitolo XVII - Salmi delle ore del giorno

Abbiamo già stabilito l'ordine della salmodia per l'Ufficio notturno e per le Lodi; adesso provvediamo per le altre Ore.

All'ora di Prima si dicano tre salmi separatamente, ciascuno con il proprio Gloria

e l'inno della stessa Ora segua il versetto Deus in adiutorium prima di iniziare i salmi.

Finiti i tre salmi, si reciti una sola lezione, il versetto, il Kyrie eleison e le preci finali.

A Terza, a sesta e a Nona si celebri l'Ufficio secondo lo stesso ordine e cioè il versetto iniziale, gli inni delle rispettive Ore, tre salmi, la lezione, il versetto, il Kyrie eleison e le preci finali.

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Se la comunità fosse numerosa, si salmeggi con le antifone, altrimenti si recitino i salmi tutti di seguito.

L'Ufficio del Vespro comprenda quattro salmi con le antifone,

dopo i quali si reciti la lezione, quindi il responsorio, l'inno, il versetto, il cantico del Vangelo, il Kyrie e il Pater, a cui segue il congedo.

Compieta, infine, consista in tre salmi di seguito, senza antifona,

ai quali segua l'inno della medesima ora, una sola lezione, il versetto, il Kyrie eleison e la benedizione con cui si conclude.

Capitolo XVIII - L'ordine dei salmi nelle ore del giorno

Prima di tutto si dica il versetto: "O Dio, vieni in mio soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi", il Gloria e poi l'inno di ciascuna Ora.

A Prima della domenica si dicano quattro strofe del salmo 118;

alle altre Ore, cioè a Terza, Sesta e Nona, si dicano tre strofe per volta dello stesso salmo.

A Prima del lunedì si recitino tre salmi e cioè il salmo 1, il 2 e il 6;

e così nei giorni successivi fino alla domenica si dicano di seguito tre salmi fino al 19, in modo però che il 9 e il 17 si dividano in due.

Così le vigilie domenicali cominceranno sempre con il salmo 20.

A Terza, Sesta e Nona del lunedì si dicano le ultime nove strofe del salmo 118, tre per ciascuna Ora.

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Esaurito questo salmo in due giorni, cioè alla domenica e al lunedì,

a Terza, Sesta e Nona del martedì si recitino rispettivamente tre salmi dal 119 al 127, cioè in tutto nove salmi.

Questi vengano sempre ripetuti allo stesso modo nelle medesime Ore fino alla domenica, lasciando però invariati gli inni, le lezioni e i versetti per tutte le Ore della settimana,

in modo che alla domenica si cominci sempre dal salmo 118.

Il Vespro poi si celebri ogni giorno con il canto di quattro salmi,

dal 109 fino al 147;

eccettuando quelli che sono riservati alle altre Ore, cioè i salmi 117-127, 133 e 142,

tutti gli altri si dicano a Vespro.

E poiché vengono a mancare tre salmi, si dividano i più lunghi del gruppo indicato, ossia il 138, il 143 e il 144.

Il 116, invece, che è il più breve, venga unito al 115.

Stabilito così l'ordine della salmodia vespertina, tutto il resto, cioè la lezione, il responsorio, l'inno, il versetto e il cantico, si dica come abbiamo disposto sopra.

A Compieta, infine, si ripetano tutti i giorni gli stessi salmi e cioè il 4, il 90 e il 133.

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Una volta fissato l'ordine della salmodia di tutti i salmi rimanenti vengano distribuiti in parti uguali nei sette Uffici notturni,

dividendo quelli più lunghi e assegnandone dodici per notte.

Ci teniamo però ad avvertire che, se qualcuno non trovasse conveniente tale distribuzione dei salmi, li disponga pure come meglio crede,

purché badi bene di fare in modo che in tutta la settimana si reciti l'intero salterio di centocinquanta salmi e con l'Ufficio vigiliare della domenica si ricominci sempre da capo.

Infatti i monaci, che in una settimana salmeggiano meno dell'intero salterio con i cantici consueti, danno prova di grande indolenza e fiacchezza nel servizio a cui sono consacrati,

dato che dei nostri padri si legge che in un sol giorno adempivano con slancio e fervore quanto è augurabile che noi tiepidi riusciamo a eseguire in una settimana.

Capitolo XIX - La partecipazione interiore all'Ufficio divino

Sappiamo per fede che Dio è presente dappertutto e che "gli occhi del Signore guardano in ogni luogo i buoni e i cattivi",

ma dobbiamo crederlo con assoluta certezza e senza la minima esitazione, quando prendiamo parte all'Ufficio divino.

Perciò ricordiamoci sempre di quello che dice il profeta: "Servite il Signore nel timore"

e ancora: "Lodatelo degnamente"

e ancora: " Ti canterò alla presenza degli angeli".

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Consideriamo dunque come bisogna comportarsi alla presenza di Dio e dei suoi Angeli

e partecipiamo alla salmodia in modo tale che l'intima disposizione dell'animo si armonizzi con la nostra voce.

Capitolo XX - La riverenza nella preghiera

Se quando dobbiamo chiedere un favore a qualche personaggio, osiamo farlo solo con soggezione e rispetto,

quanto più dobbiamo rivolgere la nostra supplica a Dio, Signore di tutte le cose, con profonda umiltà e sincera devozione.

Bisogna inoltre sapere che non saremo esauditi per le nostre parole, ma per la purezza del cuore e la compunzione che strappa le lacrime.

Perciò la preghiera dev'essere breve e pura, a meno che non venga prolungata dall'ardore e dall'ispirazione della grazia divina.

Ma quella che si fa in comune sia brevissima e quando il superiore dà il segno, si alzino tutti insieme.

Capitolo XXI - I decani del monastero

Se la comunità è abbastanza numerosa, si scelgano in essa alcuni monaci di buon esempio e di santa vita per costituirli decani;

essi vigileranno premurosamente, secondo le leggi di Dio e gli ordini dell'abate sui gruppi di dieci fratelli affidati alle loro rispettive cure.

Come decani devono essere eletti quei monaci con i quali l'abate possa tranquillamente condividere i suoi pesi

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e in tale scelta non bisogna tener conto dell'ordine di anzianità, ma regolarsi solo in considerazione della condotta esemplare e della scienza delle cose di Dio.

Se poi fra questi decani ce ne fosse qualcuno che, montato un po' in superbia, dovesse essere ripreso, sia rimproverato una prima, una seconda e una terza volta e, se non vorrà correggersi,

venga sostituito con un altro veramente degno.

La stessa cosa stabiliamo per il priore.

Capitolo XXII - Il dormitorio dei monaci

Ciascun monaco dorma in un letto proprio

e ne riceva la fornitura conforme alle consuetudini monastiche e secondo quanto disporrà l'abate.

Se è possibile dormano tutti nello stesso locale, ma se il numero rilevante non lo permette, riposino a dieci o venti per ambiente insieme con gli anziani incaricati della sorveglianza.

Nel dormitorio rimanga sempre accesa una lampada fino al mattino.

Dormano vestiti, con ai fianchi semplici cinture o corde, senza portare coltelli appesi al lato mentre riposano, per non ferirsi nel sonno.

Così i monaci siano sempre pronti e, appena dato il segnale, alzandosi senza indugio si affrettino a prevenirsi vicendevolmente per l'Ufficio divino, ma sempre con la massima gravità e modestia.

I più giovani non abbiano i letti vicini, ma alternati con quelli dei più anziani.

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Quando poi si alzano per l'Ufficio divino, si esortino garbatamente a vicenda per prevenire le scuse degli assonnati.

Capitolo XXIII - La scomunica per le colpe

Se qualche fratello si dimostrerà ribelle o disobbediente o superbo o mormoratore, o assumerà un atteggiamento di ostilità e di disprezzo nei confronti di qualche punto della santa Regola o degli ordini dei superiori,

questi lo rimproverino una prima e una seconda volta in segreto, secondo il precetto del Signore.

Se non si migliorerà, venga ripreso pubblicamente di fronte a tutti.

Ma nel caso che anche questo provvedimento si dimostri inefficace, sia scomunicato, purché sia in grado di valutare la portata di una tale punizione.

Se invece difetta di una sufficiente sensibilità, sia sottoposto al castigo corporale.

Capitolo XXIV - La misura della scomunica

La scomunica e, in genere, la punizione disciplinare dev'essere proporzionata alla gravità della colpa

e ciò è di competenza dell'abate.

Però il monaco che avrà commesso mancanze meno gravi sia escluso dalla mensa comune.

Il trattamento inflitto a chi viene escluso dalla mensa è il seguente: in coro non intoni salmo, né antifona, né reciti lezioni fino a quando non avrà riparato alle sue mancanze;

mangi da solo dopo la comunità,

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sicché se, per esempio, i monaci pranzano all'ora di Sesta, egli mangi a Nona; se pranzano a Nona, egli a Vespro,

fino a quando avrà ottenuto il perdono con una conveniente riparazione.

Capitolo XXV - Le colpe più gravi

Il monaco colpevole di mancanze più gravi sia invece sospeso oltre che dalla mensa anche dal coro.

Nessuno lo avvicini per fargli compagnia o parlare di qualsiasi cosa.

Attenda da solo al lavoro che gli sarà assegnato e rimanga nel lutto della penitenza, consapevole della terribile sentenza dell'apostolo che dice:

"Costui è stato consegnato alla morte della carne, perché la sua anima sia salva nel giorno del Signore".

Prenda il suo cibo da solo nella quantità e nell'ora che l'abate giudicherà più conveniente per lui;

non sia benedetto da chi lo incontra e non si benedica neppure il cibo che gli viene dato.

Capitolo XXVI - Rapporti dei confratelli con gli scomunicati

Se qualche monaco oserà avvicinare in qualche modo un fratello scomunicato, o parlare con lui, o inviargli un messaggio, senza l'autorizzazione dell'abate,

incorra nella medesima punizione.

Capitolo XXVII - La sollecitudine dell'abate per gli scomunicati

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L'abate deve prendersi cura dei colpevoli con la massima sollecitudine, perché "non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati".

Perciò deve agire come un medico sapiente, inviando in qualità di amici fidati dei monaci anziani e prudenti

che quasi inavvertitamente confortino il fratello vacillante e lo spingano a un'umile riparazione, incoraggiandolo perché "non sia sommerso da eccessiva tristezza",

in altre parole "gli usi maggiore carità", come dice l'Apostolo "e tutti preghino per lui".

Bisogna che l'abate sia molto vigilante e si impegni premurosamente con tutta l'accortezza e la diligenza di cui è capace per non perdere nessuna delle pecorelle a lui affidate.

Sia pienamente cosciente di essersi assunto il compito di curare anime inferme e non di dover esercitare il dominio sulle sane

e consideri con timore il severo oracolo del profeta per bocca del quale il Signore dice: "Ciò che vedevate pingue lo prendevate; ciò invece che era debole lo gettavate via".

Imiti piuttosto la misericordia del buon Pastore che, lasciate sui monti le novantanove pecore, andò alla ricerca dell'unica che si era smarrita

ed ebbe tanta compassione della sua debolezza che si degnò di caricarsela sulle sue sacre spalle e riportarla così all'ovile.

Capitolo XXVIII - La procedura nei confronti degli ostinati

Se un monaco, già ripreso più volte per una qualsiasi colpa, non si correggerà neppure dopo la scomunica, si ricorra a una punizione ancor più severa e cioè al castigo corporale.

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Ma se neppure così si emenderà o - non sia mai! - montato in superbia pretenderà persino di difendere il suo operato, l'abate si regoli come un medico provetto,

ossia, dopo aver usato i linimenti e gli unguenti delle esortazioni, i medicamenti delle Scritture divine e, infine, la cauterizzazione della scomunica e le piaghe delle verghe,

vedendo che la sua opera non serve a nulla, si affidi al rimedio più efficace e cioè alla preghiera sua e di tutta la comunità

per ottenere dal Signore che tutto può la salvezza del fratello.

Se, però, nemmeno questo tentativo servirà a guarirlo, l'abate, metta mano al ferro del chirurgo, secondo quanto dice l'apostolo: "Togliete di mezzo a voi quel malvagio"

e ancora: "Se l'infedele vuole andarsene, vada pure",

perché una pecora infetta non debba contagiare tutto il gregge.

Capitolo XXIX - La riammissione dei fratelli che hanno lasciato il monastero

Il monaco, che, dopo aver lasciato per propria colpa il monastero, volesse ritornarvi, prometta anzitutto di correggersi definitivamente dalla colpa per la quale è uscito

e a questa condizione sia ricevuto all'ultimo posto per provare la sua umiltà.

Se poi uscisse di nuovo sia riammesso fino alla terza volta, ma sappia che in seguito gli sarà negata ogni possibilità di ritorno.

Capitolo XXX - La correzione dei ragazzi

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Ogni età e intelligenza dev'essere trattata in modo adeguato.

Perciò i bambini e gli adolescenti e quelli che non sono in grado di comprendere la gravità della scomunica,

quando commettono qualche colpa siano puniti con gravi digiuni o repressi con castighi corporali, perché si correggano.

Capitolo XXXI - Il cellerario del monastero

Come cellerario del monastero si scelga un fratello saggio, maturo, sobrio, che non ecceda nel mangiare e non abbia un carattere superbo, turbolento, facile alle male parole, indolente e prodigo,

ma sia timorato di Dio e un vero padre per la comunità.

Si prenda cura di tutto e di tutti.

Non faccia nulla senza il permesso dell'abate

ed esegua fedelmente gli ordini ricevuti.

Non dia ai fratelli motivo di irritarsi e,

se qualcuno di loro avanzasse pretese assurde, non lo mortifichi sprezzantemente, ma sappia respingere la richiesta inopportuna con ragionevolezza e umiltà.

Custodisca l'anima sua, ricordandosi sempre di quella sentenza dell'apostolo che dice: "Chi avrà esercitato bene il proprio ministero, si acquisterà un grado onorevole".

Si interessi dei malati, dei ragazzi, degli ospiti e dei poveri con la massima diligenza, ben sapendo che nel giorno del giudizio dovrà rendere conto di tutte queste persone affidate alle sue cure.

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Tratti gli oggetti e i beni del monastero con la reverenza dovuta ai vasi sacri dell'altare

e non tenga nulla in poco conto.

Non si lasci prendere dall'avarizia né si abbandoni alla prodigalità, ma agisca sempre con criterio e secondo le direttive dell'abate.

Soprattutto sia umile e se non può concedere quanto gli è stato richiesto, dia almeno una risposta caritatevole,

perché sta scritto: "Una buona parola vale più del migliore dei doni".

Si interessi solo delle incombenze che gli ha affidato l'abate, senza ingerirsi in quelle da cui lo ha escluso.

Distribuisca ai fratelli la porzione di vitto prestabilita senza alterigia o ritardi, per non dare motivo di scandalo, ricordandosi di quello che toccherà, secondo la divina promessa, a "chi avrà scandalizzato uno di questi piccoli".

Se la comunità fosse numerosa, gli si concedano degli aiuti con la cui collaborazione possa svolgere serenamente il compito che gli è stato assegnato.

Nelle ore fissate si distribuisca quanto si deve dare e si chieda quello che si deve chiedere,

in modo che nella casa di Dio non ci sia alcun motivo di turbamento o di malcontento.

Capitolo XXXII - Gli arnesi e gli oggetti del monastero

Per la cura di tutto quello che il monastero possiede di arnesi, vesti o qualsiasi altro oggetto l'abate scelga dei monaci su cui possa contare a motivo della loro vita virtuosa

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e affidi loro i singoli oggetti nel modo che gli sembrerà più opportuno, perché li custodiscano e li raccolgano.

Tenga l'inventario di tutto, in maniera che, quando i vari monaci si succedono negli incarichi loro assegnati, egli sappia che cosa dà e che cosa riceve.

Se poi qualcuno trattasse con poca pulizia o negligenza le cose del monastero, venga debitamente rimproverato;

nel caso che non si corregga, sia sottoposto alle punizioni previste dalla Regola.

Capitolo XXXIII - Il "vizio" della proprietà

Nel monastero questo vizio dev'essere assolutamente stroncato fin dalle radici,

sicché nessuna si azzardi a dare o ricevere qualche cosa senza il permesso dell'abate,

né pensi di avere nulla di proprio, assolutamente nulla, né un libro, né un quaderno o un foglio di carta e neppure una matita,

dal momento che ai monaci non è più concesso di disporre liberamente neanche del proprio corpo e della propria volontà,

ma bisogna sperare tutto il necessario dal padre del monastero e non si può tenere presso di sé alcuna cosa che l'abate che l'abate non abbia dato o permesso.

"Tutto sia comune a tutti", come dice la Scrittura, e "nessuno dica o consideri propria qualsiasi cosa".

Se poi si scoprisse qualcuno che si compiace in questo pessimo vizio, bisognerà rimproverarlo una prima e una seconda volta

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e, nel caso che non si corregga, infliggergli il dovuto castigo.

Capitolo XXXIV - La distribuzione del necessario

"Si distribuiva a ciascuno proporzionatamente al bisogno", si legge nella Scrittura.

Con questo non intendiamo che si debbano fare preferenze - Dio ce ne liberi! - ma che si tenga conto delle eventuali debolezze;

quindi chi ha meno necessità, ringrazi Dio senza amareggiarsi,

mentre chi ha maggiori bisogni, si umili per la propria debolezza, invece di montarsi la testa per le attenzioni di cui è fatto oggetto

e così tutti i membri della comunità staranno in pace.

Soprattutto bisogna evitare che per qualsiasi motivo faccia la sua comparsa il male della mormorazione, sia pure attraverso una parola o un gesto.

E, nel caso che se ne trovi colpevole qualcuno, sia punito con maggior rigore.

Capitolo XXXV - Il servizio della cucina

I fratelli si servano a vicenda e nessuno sia dispensato dal servizio della cucina, se non per malattia o per un impegno di maggiore importanza,

perché così si acquista un merito più grande e si accresce la carità.

Ma i più deboli siano provveduti di un aiuto, in modo da non dover compiere questo servizio di malumore;

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anzi, è bene che, in generale, tutti abbiano degli aiuti in corrispondenza alla grandezza della comunità e alle condizioni locali.

In una comunità numerosa il cellerario sia dispensato dal servizio della cucina, come anche i fratelli che, secondo quanto abbiamo già detto, sono occupati in compiti di maggiore utilità,

ma tutti gli altri si servano a vicenda con carità.

Al sabato il monaco che termina il suo turno settimanale, faccia le pulizie.

Si lavino gli asciugatoi usati dai fratelli per le mani e i piedi.

Tanto il monaco che finisce il servizio, quanto quello che lo comincia, lavino i piedi a tutti.

Il primo consegni puliti e intatti al cellerario tutti gli utensili di cui si è servito nel proprio turno.

A sua volta il cellerario li affidi al fratello che entra in servizio, in modo da sapere quello che dà e quello che riceve.

Un'ora prima del pranzo, ciascuno dei monaci di turno in cucina riceva, oltre la quantità di cibo stabilita per tutti, un po' di pane e di vino,

per poter poi all'ora del pranzo servire i propri fratelli senza lamentele né grave disagio;

ma nei giorni festivi aspettino fino al termine della celebrazione eucaristica.

Alla domenica, subito dopo le Lodi, quelli che iniziano e quelli che terminano il servizio della cucina si inginocchino in coro davanti a tutti, chiedendo che preghino per loro.

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Chi ha finito il proprio turno reciti il versetto: "Sii benedetto, Signore Dio, che mi hai aiutato e mi hai consolato".

E quando lo avrà ripetuto tre volte e avrà ricevuto la benedizione, continui il fratello che gli succede nel servizio, dicendo: "O Dio, vieni in mio soccorso; Signore, affrettati ad aiutarmi";

anche questo versetto sarà ripetuto tre volte da tutti, dopo di che il fratello riceverà la benedizione e inizierà il suo turno.

Capitolo XXXVI - I fratelli infermi

L'assistenza agli infermi deve avere la precedenza e la superiorità su tutto, in modo che essi siano serviti veramente come Cristo in persona,

il quale ha detto di sé: "Sono stato malato e mi avete visitato",

e: "Quello che avete fatto a uno di questi piccoli, lo avete fatto a me".

I malati però riflettano, a loro volta, che sono serviti per amore di Dio e non opprimano con eccessive pretese i fratelli che li assistono,

ma comunque bisogna sopportarli con grande pazienza, poiché per mezzo loro si acquista un merito più grande.

Quindi l'abate vigili con la massima attenzione perché non siano trascurati sotto alcun riguardo.

Per i monaci ammalati ci sia un locale apposito e un infermiere timorato di Dio, diligente e premuroso.

Si conceda loro l'uso dei bagni, tutte le volte che ciò si renderà necessario a scopo terapeutico; ai sani, invece, e specialmente ai più giovani venga consentito più raramente.

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I malati più deboli avranno anche il permesso di mangiare carne per potersi rimettere in forze; però, appena ristabiliti, si astengano tutti dalla carne come al solito.

Ma la più grande preoccupazione dell'abate deve essere che gli infermi non siano trascurati dal cellerario e dai fratelli che li assistono, perché tutte le negligenze commesse dai suoi discepoli ricadono su di lui.

Capitolo XXXVII - I vecchi e i ragazzi

Benché la stessa natura umana sia portata alla compassione per queste due età, dei vecchi, cioè, e dei ragazzi, bisogna che se ne interessi anche l'autorità della Regola.

Si tenga sempre conto della loro fragilità e, per quanto riguarda i cibi, non siano affatto obbligati all'austerità della Regola,

Ma, con amorevole indulgenza, si conceda loro un anticipo sulle ore fissate per i pasti.

Capitolo XXXVIII - La lettura in refettorio

Alla mensa dei monaci non deve mai mancare la lettura, né è permesso di leggere a chiunque abbia preso a caso un libro qualsiasi, ma bisogna che ci sia un monaco incaricato della lettura, che inizi il suo compito alla domenica.

Dopo la Messa e la comunione, il lettore che entra in funzione si raccomandi nel coro alle preghiere dei fratelli, perché Dio lo tenga lontano da ogni tentazione di vanità;

e tutti ripetano per tre volte il versetto: "Signore apri le mie labbra e la mia bocca annunzierà la tua lode", che è stato intonato dal lettore stesso,

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il quale, dopo aver ricevuta così la benedizione, potrà iniziare il proprio turno.

Nel refettorio regni un profondo silenzio, in modo che non si senta alcun bisbiglio o voce, all'infuori di quella del lettore.

I fratelli si porgano a vicenda il necessario per mangiare e per bere, senza che ci sia bisogno di chiedere nulla.

Se poi proprio occorresse qualche cosa, invece che con la voce, si chieda con un leggero rumore che serva da richiamo.

E nessuno si permetta di fare delle domande sulla lettura o su qualsiasi altro argomento, per non offrire occasione di parlare,

a meno che il superiore non ritenga opportuno di dire poche parole di edificazione.

Prima di iniziare la lettura, il monaco di turno prenda un po' di vino aromatico, sia per rispetto alla santa Comunione, sia per evitare che il digiuno gli pesi troppo,

e poi mangi con i fratelli che prestano servizio in cucina e in refettorio.

Però i monaci non devono leggere e cantare tutti secondo l'ordine di anzianità, ma questo incarico va affidato solo a coloro che sono in grado di edificare i propri ascoltatori.

Capitolo XXXIX - La misura del cibo

Volendo tenere il debito conto delle necessità individuali, riteniamo che per il pranzo quotidiano fissato - a seconda delle stagioni - dopo Sesta o dopo Nona, siano sufficienti due pietanze cotte,

in modo che chi eventualmente non fosse in condizioni di prenderne una, possa servirsi dell'altra.

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Dunque a tutti i fratelli devono bastare due pietanze cotte e se ci sarà la possibilità di procurarsi della frutta o dei legumi freschi, se ne aggiunga una terza.

Quanto al pane penso che basti un chilo abbondante al giorno, sia quando c'è un solo pasto, che quando c'è pranzo e cena.

In quest'ultimo caso il cellerario ne metta da parte un terzo per distribuirlo a cena.

Nel caso che il lavoro quotidiano sia stato più gravoso del solito, se l'abate lo riterrà opportuno, avrà piena facoltà di aggiungere un piccolo supplemento,

purché si eviti assolutamente ogni abuso e il monaco si guardi dall'ingordigia.

Perché nulla è tanto sconveniente per un cristiano, quanto gli eccessi della tavola,

come dice lo stesso nostro Signore: "State attenti che il vostro cuore non sia appesantito dal troppo cibo".

Quanto poi ai ragazzi più piccoli, non si serva loro la medesima porzione, ma una quantità minore, salvaguardando in tutto la sobrietà.

Tutti infine si astengano assolutamente dalla carne di quadrupedi, a eccezione dei malati molto deboli.

Capitolo XL - La misura del vino

"Ciascuno ha da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro"

ed è questo il motivo per cui fissiamo la quantità del vitto altrui con una certa perplessità.

Tuttavia, tenendo conto della cagionevole costituzione dei più gracili, crediamo che a tutti possa bastare un quarto di vino a testa.

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Quanto ai fratelli che hanno ricevuto da Dio la forza di astenersene completamente, sappiano che ne riceveranno una particolare ricompensa.

Se però le esigenze locali o il lavoro o la calura estiva richiedessero una maggiore quantità, sia in facoltà del superiore concederla, badando sempre a evitare la sazietà e ancor più l'ubriachezza.

Per quanto si legga che il vino non è fatto per i monaci, siccome oggi non è facile convincerli di questo, mettiamoci almeno d'accordo sulla necessità di non bere fino alla sazietà, ma più moderatamente,

perché "il vino fa apostatare i saggi".

I monaci poi che risiedono in località nelle quali è impossibile procurarsi la suddetta misura, ma se ne trova solo una quantità molto minore o addirittura nulla, benedicano Dio e non mormorino:

è questo soprattutto che mi preme di raccomandare, che si guardino dalla mormorazione.

Capitolo XLI - L'orario dei pasti

Dalla santa Pasqua fino a Pentecoste i fratelli pranzino all'ora di Sesta, cioè a mezzogiorno, e cenino la sera.

Invece da Pentecoste in poi, per tutta l'estate, se non sono impegnati nei lavori agricoli o sfibrati dalla calura estiva, al mercoledì e al venerdì digiunino sino all'ora di Nona, cioè fin dopo le 14

e negli altri giorni pranzino all'ora di Sesta.

Ma nel caso che abbiano da lavorare nei campi o che il caldo sia eccessivo, potranno pranzare tutti i giorni alle 12, secondo quanto stabilirà paternamente l'abate.

Così questi regoli e disponga tutto in modo che le anime si salvino e i monaci possano compiere il proprio dovere senza un motivo fondato di mormorazione.

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Dal 14 settembre fino all'inizio della Quaresima pranzino sempre all'ora di Nona.

Durante la Quaresima, poi, fino a Pasqua pranzino all'ora di Vespro:

questo Ufficio però dev'essere celebrato a un'ora tale da non aver bisogno di accendere il lume durante il pranzo e poter terminare mentre è ancora giorno.

Anzi, in ogni stagione, sia l'ora del pranzo che quella della cena devono essere fissate in maniera che tutto si possa fare con la luce del sole.

Capitolo XLII - Il silenzio dopo compieta

I monaci devono custodire sempre il silenzio con amore, ma soprattutto durante la notte.

Perciò in ogni periodo dell'anno, sia di digiuno oppure no, si procederà nel modo seguente:

se non si digiuna, appena alzati da cena, i monaci si riuniscano tutti insieme e uno di loro legga le Conferenze o le Vite dei Padri o qualche altra opera di edificazione,

ma non i primi sette libri della Bibbia e neppure quelli dei Re, perché ai temperamenti impressionabili non fa bene ascoltare a quell'ora i suddetti testi scritturistici, che però si dovranno leggere in altri momenti;

se invece fosse giorno di digiuno, dopo la celebrazione dei Vespri e un breve intervallo, vadano direttamente alla lettura di cui abbiamo parlato

e leggano quattro o cinque pagine o quanto è consentito dal tempo a disposizione,

perché durante questo intervallo della lettura possano radunarsi tutti, compresi quelli che fossero eventualmente stati occupati in qualche incombenza.

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Quando saranno tutti riuniti, dicano insieme Compieta, all'uscita dalla quale non sia più permesso ad alcuno di pronunciare una parola.

Chiunque sia colto a trasgredire questa regola del silenzio venga severamente punito,

eccetto il caso in cui sopraggiungano degli ospiti o l'abate abbia dato un ordine a un monaco;

ma anche in questa eventualità bisogna procedere con la massima gravità e il debito riserbo.

Capitolo XLIII - La puntualità nell'Ufficio divino e in refettorio

All'ora dell'Ufficio divino, appena si sente il segnale, lasciato tutto quello che si ha tra le mani, si accorra con la massima sollecitudine,

ma nello stesso tempo con gravità, per non dare adito alla leggerezza.

In altre parole non si anteponga nulla all'opera di Dio".

Se qualcuno arriva all'Ufficio notturno dopo il Gloria del salmo 94, che proprio per questo motivo vogliamo sia cantato molto lentamente e con pause, non occupi il proprio posto nel coro,

ma si metta all'ultimo o in quella parte che l'abate avrà destinato per questi negligenti, perché siano veduti da lui e da tutti,

e vi rimanga fino a quando, al termine del l'Ufficio divino, avrà riparato dinanzi a tutta la comunità con una penitenza.

Abbiamo ritenuto opportuno far rimanere questi ritardatari all'ultimo posto o in un canto, perché si correggano almeno per la vergogna di essere visti da tutti.

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Se, infatti, rimanessero fuori del coro, ci potrebbe essere qualcuno che ritorna a dormire o si siede fuori o si mette a chiacchierare, dando così occasione al demonio;

è bene invece che entrino, in modo da non perdere tutto l'Ufficio e correggersi per l'avvenire.

Nelle Ore del giorno, invece, il monaco che arriva all'Ufficio divino dopo il versetto o il Gloria del primo salmo, che segue lo stesso versetto, si metta all'ultimo posto, secondo la norma precedente,

e non si permetta di unirsi al coro dei fratelli che salmeggiano, fino a che non avrà riparato, a meno che l'abate gliene dia il permesso con il suo perdono;

ma anche in questo caso il ritardatario dovrà riparare la sua mancanza.

Per quanto riguarda il refettorio, chi non arriva prima del versetto in modo che tutti uniti dicano il versetto stesso, preghino e poi siedano insieme a mensa,

se la mancanza è dovuta a negligenza o cattiva volontà, sia rimproverato fino a due volte.

Ma se ancora non si corregge, sia escluso dalla mensa comune

e mangi da solo, separato dalla comunità e senza la sua razione di vino, fino a che non abbia riparato e si sia corretto.

Lo stesso castigo sia inflitto al monaco che non si trovi presente al versetto che si recita dopo il pranzo.

Nessuno poi si permetta di mangiare o di bere qualcosa prima dell'ora stabilita.

Ma il monaco che non avesse accettato ciò che gli era stato offerto dal superiore, quando desidererà quello che ha rifiutato in precedenza o altro, non ottenga assolutamente nulla fino a che non dimostri di essersi debitamente corretto.

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Capitolo XLIV - La riparazione degli scomunicati

Il monaco che per colpe gravi è stato escluso dal coro e della mensa comune, al termine dell'Ufficio divino si prostri in silenzio davanti alla porta del coro,

rimanendo lì disteso con la faccia a terra dinanzi a tutti quelli che escono

e continui a fare in questo modo fino a quando l'abate non giudichi che ha sufficientemente riparato.

Quando poi sarà chiamato dall'abate, si getti ai piedi di lui e di tutti i fratelli per chiedere le loro preghiere.

Allora, se l'abate vorrà, potrà essere riammesso in coro al suo posto o a quello designato dallo stesso abate,

senza permettersi, però, di recitare un salmo, una lezione o altro, a meno che l'abate glielo ordini.

Inoltre al termine di tutte le Ore dell'Ufficio divino, si prostri a terra lì dove si trova

e faccia così la sua riparazione, finché l'abate non metterà fine a questa penitenza.

Quelli, invece, che per colpe più leggere sono stati esclusi solo dalla mensa, facciano penitenza in coro per il tempo stabilito dall'abate

e la ripetano fin tanto che questi li benedica e dica: Basta!

Capitolo XLV - La riparazione per gli errori commessi in coro

Se un monaco commette un errore mentre recita un salmo, un responsorio, un'antifona o una lezione e non si umilia davanti a tutti con una penitenza, sia sottoposto a una punizione più severa,

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perché non ha voluto correggersi umilmente dell'errore commesso per negligenza.

Nel caso dei ragazzi, invece, per una colpa di questo genere si ricorra al castigo corporale.

Capitolo XLVI - La riparazione per le altre mancanze

Se, mentre è impegnato in un qualsiasi lavoro in cucina, in dispensa, nel proprio servizio, nel forno, nell'orto, in qualche attività o si trova in un altro luogo qualunque, un monaco commette uno sbaglio,

rompe o perde un oggetto o incorre comunque in una mancanza

e non si presenta subito all'abate e alla comunità per riparare spontaneamente e confessare la propria colpa,

sarà sottoposto a una punizione più severa, quando il fatto verrà reso noto da altri.

Ma se il movente segreto del peccato fosse nascosto nell'intimo della coscienza, lo manifesti solo all'abate o a qualche monaco anziano,

che sappia curare le miserie proprie e altrui senza svelarle e renderle di pubblico dominio.

Capitolo XLVII - Il segnale per l'Ufficio divino

Bisogna che l'abate si assuma personalmente il compito di dare il segnale per l'Ufficio divino, oppure lo affidi a un monaco diligente in modo che tutto avvenga regolarmente nelle ore fissate.

L'intonazione dei salmi e delle antifone, secondo l'ordine prestabilito, spetta, dopo l'abate, ai monaci appositamente designati.

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E nessuno si permetta di cantare o di leggere all'infuori di chi è capace di farlo in maniera da edificare i suoi ascoltatori;

inoltre questo compito dev'essere svolto con umiltà, gravità e reverenza e solo dietro incarico dell'abate.

Capitolo XLVIII - Il lavoro quotidiano

L'ozio è nemico dell'anima, perciò i monaci devono dedicarsi al lavoro in determinate ore e in altre, pure prestabilite, allo studio della parola di Dio.

Quindi pensiamo di regolare gli orari di queste due attività fondamentali nel modo seguente:

da Pasqua fino al 14 settembre, al mattino verso le 5 quando escono da Prima, lavorino secondo le varie necessità fino alle 9;

dalle 9 fino all'ora di Sesta si dedichino allo studio della parola di Dio.

Dopo l'Ufficio di Sesta e il pranzo, quando si alzano da tavola, riposino nei rispettivi letti in assoluto silenzio e, se eventualmente qualcuno volesse leggere per proprio conto, lo faccia in modo da non disturbare gli altri.

Si celebri Nona con un po' di anticipo, verso le 14, e poi tutti riprendano il lavoro assegnato dall'obbedienza fino all'ora di Vespro.

Ma se le esigenze locali o la povertà richiedono che essi si occupino personalmente della raccolta dei prodotti agricoli, non se ne lamentino,

perché i monaci sono veramente tali, quando vivono del lavoro delle proprie mani come i nostri padri e gli Apostoli.

Tutto però si svolga con discrezione, in considerazione dei più deboli.

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Dal 14 settembre, poi, fino al principio della Quaresima, si applichino allo studio fino alle 9,

quando celebreranno l'ora di Terza, dopo la quale tutti saranno impegnati nei rispettivi lavori fino a Nona, e cioè alle 14.

Al primo segnale di Nona, ciascuno interrompa il proprio lavoro per essere pronto al suono del secondo segnale.

Dopo il pranzo si dedichino alla lettura personale o allo studio dei salmi.

Durante la Quaresima leggano dall'alba fino alle 9 inoltrate e poi lavorino in conformità agli ordini ricevuti fino verso le 4 pomeridiane.

In quei giorni di Quaresima ciascuno riceva un libro dalla biblioteca e lo legga ordinatamente da cima a fondo.

I suddetti libri devono essere distribuiti all'inizio della Quaresima.

E per prima cosa bisognerà incaricare uno o due monaci anziani di fare il giro del monastero nelle ore in cui i fratelli sono occupati nello studio,

per vedere se per caso ci sia qualche monaco indolente, che, invece di dedicarsi allo studio, perda, tempo oziando e chiacchierando e quindi, oltre a essere improduttivo per sé, distragga anche gli altri.

Se si trovasse - non sia mai! - un fratello che si comporta in questo modo, sia rimproverato una prima e una seconda volta,

ma se non si corregge, gli si infligga una punizione prevista dalla Regola, in modo da incutere anche negli altri un salutare timore.

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Non è neppure permesso che un monaco si trovi con un altro fuori del tempo stabilito.

Anche alla domenica si dedichino tutti allo studio della parola di Dio, a eccezione di quelli destinati ai vari servizi.

Ma se ci fosse qualcuno tanto negligente e fannullone da non volere o poter studiare o leggere, gli si dia qualche lavoro da fare, perché non rimanga in ozio.

Infine ai monaci infermi o cagionevoli si assegni un lavoro o un'attività che non li lasci nell'inazione e nello stesso tempo non li sfinisca per l'eccessiva fatica, spingendoli ad andarsene,

poiché l'abate ha il dovere di tener conto della loro debolezza.

Capitolo XLIX - La quaresima dei monaci

Anche se è vero che la vita del monaco deve avere sempre un carattere quaresimale,

visto che questa virtù è soltanto di pochi, insistiamo particolarmente perché almeno durante la Quaresima ognuno vigili con gran fervore sulla purezza della propria vita,

profittando di quei santi giorni per cancellare tutte le negligenze degli altri periodi dell'anno.

E questo si realizza degnamente, astenendosi da ogni peccato e dedicandosi con impegno alla preghiera accompagnata da lacrime di pentimento, allo studio della parola di Dio, alla compunzione del cuore e al digiuno.

Perciò durante la Quaresima aggiungiamo un supplemento al dovere ordinario del nostro servizio, come, per es., preghiere particolari, astinenza nel mangiare o nel bere,

in modo che ognuno di noi possa di propria iniziativa offrire a Dio "con la gioia dello Spirito Santo" qualche cosa di più di quanto deve già per la sua professione monastica;

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si privi cioè di un po' di cibo, di vino o di sonno, mortifichi la propria inclinazione alle chiacchiere e allo scherzo e attenda la santa Pasqua con l'animo fremente di gioioso desiderio.

Ma anche ciò che ciascuno vuole offrire personalmente a Dio dev'essere prima sottoposto umilmente all'abate e poi compiuto con la sua benedizione e approvazione,

perché tutto quello che si fa senza il permesso dell'abate sarà considerato come presunzione e vanità, anziché come merito.

Perciò si deve far tutto con l'autorizzazione dell'abate.

Capitolo L - I monaci che lavorano lontano o sono in viaggio

I fratelli, che lavorano molto lontano e non possono essere presenti in coro nell'ora fissata per l'Ufficio divino,

se l'impossibilità in cui si trovano è stata effettivamente accettata dall'abate,

recitino pure l'Ufficio divino sul posto di lavoro, mettendosi in ginocchio per la reverenza dovuta a Dio.

Così pure quelli, che sono mandati in viaggio, non lascino passare le ore stabilite per l'Ufficio, ma lo recitino come meglio possono e non trascurino l'adempimento del dovere inerente al loro sacro servizio.

Capitolo LI - I monaci che si recano nelle vicinanze

Il monaco, che viene mandato fuori per qualche commissione e conta di tornare in monastero nella stessa giornata, non si permetta di mangiare fuori, anche se viene pregato con insistenza da qualsiasi persona,

a meno che l'abate non gliene abbia dato il permesso.

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Se contravverrà a questa prescrizione, sarà scomunicato.

Capitolo LII - La chiesa del monastero

La chiesa sia quello che dice il suo nome, quindi in essa non si faccia né si riponga altro.

Alla fine dell'Ufficio divino escano tutti in perfetto silenzio e con grande rispetto per Dio,

in modo che, se un monaco volesse rimanere a pregare. privatamente, non sia impedito dall'indiscrezione altrui.

Se, però, anche in un altro momento qualcuno desidera pregare per proprio conto, entri senz'altro e preghi, non a voce alta, ma con lacrime e intimo ardore.

Perciò, come abbiamo detto, chi non intende dedicarsi all'orazione si guardi bene dal trattenersi in chiesa dopo la celebrazione del divino Ufficio, per evitare che altri siano disturbati dalla sua presenza.

Capitolo LIII - L'accoglienza degli ospiti

Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo, poiché un giorno egli dirà: "Sono stato ospite e mi avete accolto"

e a tutti si renda il debito onore, ma in modo particolare ai nostri confratelli e ai pellegrini.

Quindi, appena viene annunciato l'arrivo di un ospite, il superiore e i monaci gli vadano incontro, manifestandogli in tutti i modi il loro amore;

per prima cosa preghino insieme e poi entrino in comunione con lui, scambiandosi la pace.

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Questo bacio di pace non dev'essere offerto prima della preghiera per evitare le illusioni diaboliche.

Nel saluto medesimo si dimostri già una profonda umiltà verso gli ospiti in arrivo o in partenza,

adorando in loro, con il capo chino o il corpo prostrato a terra, lo stesso Cristo, che così viene accolto nella comunità.

Dopo questo primo ricevimento, gli ospiti siano condotti a pregare e poi il superiore o un monaco da lui designato si siedano insieme con loro.

Si legga all'ospite un passo della sacra Scrittura, per sua edificazione, e poi gli si usino tutte le attenzioni che può ispirare un fraterno e rispettoso senso di umanità.

Se non è uno dei giorni in cui il digiuno non può essere violato, il superiore rompa pure il suo digiuno per far compagnia all'ospite,

mentre i fratelli continuino a digiunare come al solito.

L'abate versi personalmente l'acqua sulle mani degli ospiti per la consueta lavanda;

lui stesso, poi, e tutta la comunità lavino i piedi a ciascuno degli ospiti

e al termine di questo fraterno servizio dicano il versetto: "Abbiamo ricevuto la tua misericordia, o Dio, nel mezzo del tuo Tempio".

Specialmente i poveri e i pellegrini siano accolti con tutto il riguardo e la premura possibile, perché è proprio in loro che si riceve Cristo in modo tutto particolare e, d'altra parte, l'imponenza dei ricchi incute rispetto già di per sé.

La cucina dell'abate e degli ospiti sia a parte, per evitare che i monaci siano disturbati dall'arrivo improvviso degli ospiti, che non mancano mai in monastero.

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Il servizio di questa cucina sia affidato annualmente a due fratelli, che sappiano svolgerlo come si deve.

A costoro si diano anche degli aiuti, se ce n'è bisogno, perché servano senza mormorare, ma, a loro volta, quando hanno meno da fare, vadano a lavorare dove li manda l'obbedienza.

E non solo in questo caso, ma nei confronti di tutti i fratelli impegnati in qualche particolare servizio del monastero, si segua un tale principio

e cioè che, se occorre, si concedano loro degli aiuti, mentre, una volta terminato il proprio lavoro, essi devono tenersi disponibili per qualsiasi ordine.

Così pure la foresteria, ossia il locale destinato agli ospiti, sia affidata a un monaco pieno di timor di Dio:

in essa ci siano dei letti forniti di tutto il necessario e la casa di Dio sia governata con saggezza da persone sagge.

Nessuno, poi, a meno che ne abbia ricevuto l'incarico, prenda contatto o si intrattenga con gli ospiti,

ma se qualcuno li incontra o li vede, dopo averli salutati umilmente come abbiamo detto e aver chiesta la benedizione, passi oltre, dichiarando di non avere il permesso di parlare con gli ospiti.

Capitolo LIV - La distribuzione delle lettere e dei regali destinati ai singoli monaci

Senza il consenso dell'abate nessun monaco può ricevere dai suoi parenti o da qualunque altra persona lettere, oggetti di devozione o altri piccoli regali e neanche farne a sua volta o scambiarli con i confratelli.

E anche se i parenti gli mandassero qualche dono, non si permetta di accettarlo, senza averne prima informato l'abate.

Ma questi, anche nel caso che dia il suo consenso per ricevere il dono, può sempre assegnarlo a chi vuole

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e il monaco a cui era destinato non deve farsi di questo un motivo di afflizione, per non dare occasione al diavolo.

Se poi qualcuno si provasse a comportarsi diversamente, sia sottoposto ai castighi dalla Regola.

Capitolo LV - Gli abiti e le calzature dei monaci

Bisogna dare ai monaci degli abiti adatti alle condizioni e al clima della località in cui abitano,

perché nelle zone fredde si ha maggiore necessità di coprirsi e in quelle calde di meno:

il giudizio al riguardo è di competenza dell'abate.

Comunque riteniamo che nei climi temperati bastino per ciascun monaco una tonaca e una cocolla,

quest'ultima di lana pesante per l'inverno e leggera o lisa per l'estate;

inoltre lo scapolare per il lavoro e come calzature, scarpe e calze.

Quanto al colore e alla qualità di tutti questi indumenti, i monaci non devono attribuirvi eccessiva importanza, accontentandosi di quello che si può trovare sul posto ed è più a buon mercato.

L'abate però stia attento alla misura degli abiti, in modo che non siano troppo corti, ma della taglia di chi li indossa.

I monaci che ricevono gli indumenti nuovi, restituiscano i vecchi, che devono essere riposti nel guardaroba per poi distribuirli ai poveri.

Infatti a ogni monaco bastano due cocolle e due tonache per potersi cambiare la notte e per lavarle;

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il di più è superfluo e dev'essere eliminato.

Anche le calze e qualsiasi altro oggetto usato dev'essere restituito, quando ne viene assegnato uno nuovo.

I monaci, che sono mandati in viaggio, ricevano dal guardaroba gli indumenti occorrenti, che restituiranno poi lavati al ritorno.

Anche le cocolle e le tonache per il viaggio siano un po' migliori di quelle portate usualmente; gli interessati le prendano in consegna dal guardaroba, quando partono, e le restituiscano al ritorno.

Per la fornitura dei letti poi bastino un pagliericcio, una coperta di grossa tela, un coltrone e un cuscino di paglia o di crine.

I letti, però, devono essere frequentemente ispezionati dall'abate, per vedere se non ci sia nascosta qualche piccola proprietà personale.

E se si scoprisse qualcuno in possesso di un oggetto che non ha ricevuto dall'abate, sia sottoposto a una gravissima punizione.

Ma, per strappare fin dalle radici questo vizio della proprietà, l'abate distribuisca tutto il necessario

e cioè: cocolla, tonaca, calze, scarpe, cintura, coltello, ago, fazzoletti e il necessario per scrivere, in modo da togliere ogni pretesto di bisogno.

In questo, però, deve sempre tener presente quanto è detto negli Atti degli Apostoli e cioè che "Si dava a ciascuno secondo le sue necessità".

Quindi prenda in considerazione le particolari esigenze dei più deboli, anziché la malevolenza degli invidiosi.

Comunque, in tutte le sue decisioni si ricordi del giudizio di Dio.

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Capitolo LVI - La mensa dell'abate

L'abate mangi sempre in compagnia degli ospiti e dei pellegrini.

Ma quando gli ospiti sono pochi, può chiamare alla sua mensa i monaci che vuole.

Sarà bene tuttavia lasciare uno o due monaci anziani con la comunità per il mantenimento della disciplina.

Capitolo LVII - I monaci che praticano un'arte o un mestiere

Se in monastero ci sono dei fratelli esperti in un'arte o in un mestiere, li esercitino con la massima umiltà, purché l'abate lo permetta.

Ma se qualcuno di loro monta in superbia, perché gli sembra di portare qualche utile al monastero,

sia tolto dal suo lavoro e non gli sia più concesso di occuparsene, a meno che rientri in se stesso, umiliandosi, e l'abate non glielo permetta di nuovo.

Se poi si deve vendere qualche prodotto del lavoro di questi monaci, coloro, che sono stati incaricati di trattare l'affare, si guardino bene da qualsiasi disonestà.

Si ricordino sempre di Anania e Safira, per non correre il rischio che la morte, subita da quelli nel corpo,

colpisca le anime loro e di tutte le persone, che hanno comunque defraudato le sostanze del monastero.

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Però nei prezzi dei suddetti prodotti non deve mai insinuarsi l'avarizia,

ma bisogna sempre venderli un po' più a buon mercato dei secolari

"affinché in ogni cosa sia glorificato Dio".

Capitolo LVIII - Norme per l'accettazione dei fratelli

Quando si presenta un aspirante alla vita monastica, non bisogna accettarlo con troppa facilità,

ma, come dice l'Apostolo: "Provate gli spiriti per vedere se vengono da Dio".

Quindi, se insiste per entrare e per tre o quattro giorni dimostra di saper sopportare con pazienza i rifiuti poco lusinghieri e tutte le altre difficoltà opposte al suo ingresso, perseverando nella sua richiesta,

sia pure accolto e ospitato per qualche giorno nella foresteria.

Ma poi si trasferisca nel locale destinato ai novizi, perché vi ricevano la loro formazione, vi mangino e vi dormano.

Ad essi venga inoltre preposto un monaco anziano, capace di conquistare le anime, con l'incarico di osservarli molto attentamente.

In primo luogo bisogna accertarsi se il novizio cerca veramente Dio, se ama l'Ufficio divino, l'obbedienza e persino le inevitabili contrarietà della vita comune.

Gli si prospetti tutta la durezza e l'asperità del cammino che conduce a Dio.

Se darà sicure prove di voler perseverare nella sua stabilità, dopo due mesi gli si legga per intero questa Regola

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e gli si dica: "Ecco la legge sotto la quale vuoi militare; se ti senti di poterla osservare, entra; altrimenti, va' pure via liberamente".

Se persisterà ancora nel suo proposito, sia ricondotto nel suddetto locale dei novizi e si metta la sua pazienza alla prova in tutti i modi possibili.

Passati sei mesi, gli si legga di nuovo la Regola, perché prenda coscienza dell'impegno che sta per assumersi.

E se continua a perseverare, dopo altri quattro mesi, gli si legga ancora una volta la stessa Regola.

Se allora, dopo aver seriamente riflettuto, prometterà di essere fedele in tutto e di obbedire a ogni comando, sia pure accolto nella comunità,

ma sappia che anche l'autorità della Regola gli vieta da quel giorno di uscire dal monastero

e di sottrarsi al giogo della disciplina monastica che, in una così prolungata deliberazione, ha avuto la possibilità di accettare o rifiutare liberamente.

Al momento dell'ammissione faccia in coro, davanti a tutta la comunità, solenne promessa di stabilità, conversione continua e obbedienza,

al cospetto di Dio e di tutti i suoi santi, in modo da essere pienamente consapevole che, se un giorno dovesse comportarsi diversamente, sarà condannato da Colui del quale si fa giuoco.

Di tale promessa stenda un documento sotto forma di domanda, rivolta ai Santi, le cui reliquie sono conservate nella chiesa, e all'abate presente.

Scriva di suo pugno il suddetto documento o, se non è capace, lo faccia scrivere da un altro, dietro sua esplicita richiesta, e lo firmi con un segno, deponendolo poi sull'altare con le proprie mani.

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Una volta depositato il documento sull'altare, il novizio intoni subito il versetto: "Accoglimi, Signore, secondo la tua promessa e vivrò; e non deludermi nella mia speranza".

Tutta la comunità ripeta per tre volte lo stesso versetto, aggiungendovi alla fine il Gloria.

Poi il novizio si prostri ai piedi di ciascuno dei fratelli per chiedergli di pregare per lui e da quel giorno sia considerato come un membro della comunità.

Se possiede dei beni materiali, li distribuisca in precedenza ai poveri o li doni al monastero con un atto ufficiale senza riservare per sé la minima proprietà,

ben sapendo che da quel giorno in poi non sarà più padrone neanche del proprio corpo.

Quindi, subito dopo, sia spogliato in coro delle vesti che indossa e rivestito dell'abito monastico.

Ma gli indumenti di cui si è spogliato devono essere conservati nel guardaroba,

in modo che, se in seguito dovesse - Dio non voglia!- cedere alla suggestione diabolica e lasciare il monastero, sia mandato via senza l'abito monastico.

Non gli si restituisca invece la domanda che l'abate ha ritirato dall'altare, ma sia conservata in monastero.

Capitolo LIX - I piccoli oblati

Se qualche persona facoltosa volesse offrire il proprio figlio a Dio nel monastero e il ragazzo è ancora piccino, i genitori stendano la domanda di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente

e l'avvolgano nella tovaglia dell'altare insieme con l'oblazione della Messa e la mano del bimbo, offrendolo in questo modo.

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Per quanto riguarda poi i loro beni, o nella domanda suddetta promettano di non dargli mai nulla, né direttamente né per interposta persona, né in qualsiasi altro modo, e neanche di dargli mai l'occasione di procurarsi qualche sostanza,

oppure, se non intendono regolarsi secondo questa prassi e desiderano offrire qualche cosa al monastero per la salute dell'anima loro,

facciano donazione dei beni che vogliono regalare al monastero, riservandosene, se credono, l'usufrutto.

Così si precludano tutte le vie, in modo da non lasciare al ragazzo alcun miraggio da cui possa esser tratto in inganno e - Dio non voglia! - in perdizione, come ci ha insegnato l'esperienza.

La stessa procedura seguano anche i meno abbienti.

Quanto a coloro che non possiedono proprio nulla, facciano semplicemente la domanda e offrano il loro figlioletto con l'oblazione della Messa, alla presenza di testimoni.

Capitolo LX - I sacerdoti aspiranti alla vita monastica

Se qualche sacerdote chiede di essere ammesso nel monastero, non bisogna affrettarsi troppo ad accogliere la sua richiesta.

Ma se continua a insistere in questa preghiera, sappia che dovrà osservare tutta la disciplina della Regola,

senza la minima attenuazione, in modo che gli si possa dire con la Scrittura: "Amico, che sei venuto a fare?".

Gli si conceda tuttavia di prender posto dopo l'abate, di dare la benedizione e di recitare le preci finali, purché l'abate disponga così;

altrimenti non pretenda assolutamente nulla, anzi sia per tutti un esempio di umiltà, ben sapendo di essere soggetto alla disciplina della Regola.

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E se per caso nella comunità si dovesse trattare dell'assegnazione delle cariche o di qualche altro affare,

occupi il posto che gli spetta corrispondentemente al suo ingresso in monastero e non quello che gli è stato concesso in considerazione della sua dignità sacerdotale.

Se poi qualche chierico, spinto dallo stesso desiderio, volesse essere aggregato alla comunità, sia assegnato a un posto di un certo riguardo,

ma sempre a condizione che prometta anche lui l'osservanza della Regola e la propria stabilità.

Capitolo LXI - L'accoglienza dei monaci forestieri

Se un monaco forestiero, giunto di lontano, vuole abitare nel monastero in qualità di ospite

e si dimostra soddisfatto delle consuetudini locali,

accontentandosi con semplicità di quello che trova, senza disturbare la comunità con le sue pretese, sia accolto per tutto il tempo che desidera.

Nel caso poi che egli rilevi qualche inconveniente o dia qualche suggerimento, l'abate si chieda se il Signore non lo abbia mandato proprio per questo.

E se in seguito vorrà fissare la sua stabilità nel monastero, non si opponga un rifiuto a questa sua richiesta, tanto più che durante la sua permanenza si è avuto modo di studiarne il comportamento.

Se però, quando era ospite si è dimostrato pieno di pretese e di difetti, non solo non dev'essere aggregato alla comunità,

ma bisogna dirgli garbatamente di andarsene per evitare che le sue miserie contagino anche gli altri.

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Invece, se non merita di essere allontanato, non sia accolto e incorporato nella comunità solo nel caso che ne faccia domanda,

ma sia addirittura invitato a rimanere, perché gli altri possano trarre profitto dal suo esempio

e perché dappertutto si serve il medesimo Signore e si milita sotto lo stesso Re.

Anzi, se l'abate lo ritiene degno, può anche assegnargli un posto un po' elevato.

E non solamente un monaco, ma anche coloro che appartengono all'ordine sacerdotale o al chiericato, l'abate può destinare a un posto superiore a quello corrispondente al loro ingresso in monastero, se ha notato che la condotta lo merita.

Si guardi però sempre dall'ammettere stabilmente nella sua comunità un monaco proveniente da un monastero conosciuto, senza il consenso e le lettere commendatizie del suo abate,

perché sta scritto: "Non fare agli altri quello che non vuoi che sia fatto a te".

Capitolo LXII - I sacerdoti del monastero

Se un abate desidera che uno dei suoi monaci sia ordinato sacerdote o diacono per il servizio della comunità scelga in essa un fratello degno di esercitare tali funzioni.

Ma il monaco ordinato si guardi dalla vanità e dalla superbia

e non creda di poter fare altro che quello che gli ordina l'abate, tenendo sempre presente che d'ora in poi dovrà essere maggiormente sottomesso alla disciplina.

Né col pretesto del sacerdozio trascuri l'obbedienza alla Regola o la disciplina, ma anzi progredisca sempre più nelle vie di Dio.

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Conservi sempre il posto che gli spetta in corrispondenza del suo ingresso in monastero,

tranne che per il ministero dell'altare, oppure nel caso che la scelta della comunità o la volontà dell'abate l'abbiano promosso in considerazione della sua vita esemplare.

Sappia però che deve osservare la disciplina prestabilita per i decani e i superiori.

Se avrà la presunzione di agire diversamente, non sia più trattato come un sacerdote, ma come un ribelle.

E nell'eventualità che, dopo essere stato ammonito non si correggesse, si chiami a testimonio anche il vescovo.

Ma se neanche allora si emendasse e le sue colpe diventassero sempre più evidenti, sia espulso dal monastero,

purché però sia stato così ostinato da non volersi sottomettere e obbedire alla Regola.

Capitolo LXIII - L'ordine della comunità

Nella comunità ognuno conservi il posto che gli spetta secondo la data del suo ingresso o l'esemplarità della sua condotta o la volontà dell'abate.

Bisogna però che quest'ultimo non metta lo scompiglio nel gregge che gli è stato affidato, prendendo delle disposizioni ingiuste come se esercitasse un potere assoluto,

ma pensi sempre che dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni e azioni.

Dunque i monaci si succedano nel bacio di pace e nella comunione, nell'intonare i salmi e nei posti in coro, secondo l'ordine stabilito dall'abate o a essi spettante.

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E in nessuna occasione l'età costituisca un criterio distintivo o pregiudizievole per stabilire i posti,

perché Samuele e Daniele, quando erano ancora fanciulli, giudicarono gli anziani.

Quindi, a eccezione di quelli che, come abbiamo già detto, l'abate avrà promosso per ragioni superiori o degradato per motivi fondati, tutti gli altri occupino sempre i posti determinati dalla data del rispettivo ingresso,

in modo che il monaco, arrivato - per esempio - in monastero alle 9, sappia di essere più giovane di quello arrivato alle 8, quale che sia la sua età e dignità.

Per quanto riguarda i ragazzi, invece, si osservi in tutto e per tutto la relativa disciplina.

I più giovani, dunque, trattino con riguardo i più anziani, che a loro volta li ricambino con amore.

Anche quando si chiamano tra loro, nessuno si permetta di rivolgersi all'altro con il solo nome,

ma gli anziani diano ai giovani l'appellativo di "fratello" e i giovani usino per gli anziani quello di "reverendo padre", come espressione del loro rispetto filiale.

L'abate poi sia chiamato "signore" e "abate", non perché si sia arrogato da sé un tale titolo, ma in onore e per amore di Cristo del quale sappiamo per fede che egli fa le veci.

Da parte sua, però, rifletta sull'onore che gli viene tributato e se ne dimostri degno.

Dovunque i fratelli si incontrano, il più giovane chieda la benedizione al più anziano;

quando passa un monaco anziano, il più giovane si alzi e gli ceda il posto, guardandosi bene dal rimettersi a sedere prima che l'anziano glielo permetta,

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in modo che si realizzi quanto è scritto: "Prevenitevi a vicenda nel rendervi onore".

I ragazzi più piccoli e i giovanetti occupino in coro e in refettorio i posti loro spettanti secondo la Regola:

ma fuori di lì siano sorvegliati e tenuti dappertutto sotto la disciplina, finché non avranno raggiunto un età più matura.

Capitolo LXIV - L'elezione dell'abate

Nell'elezione dell'abate bisogna seguire il principio di scegliere il monaco che tutta la comunità ha designato concordemente nel timore di Dio, oppure quello prescelto con un criterio più saggio da una parte sia pur piccola di essa.

Il futuro abate dev'essere scelto in base alla vita esemplare e alla scienza soprannaturale, anche se fosse l'ultimo della comunità.

Se invece, - non sia mai! - la comunità eleggesse, sia pure di comune accordo, una persona consenziente ai suoi abusi,

e il vescovo della diocesi o gli abati o i fedeli delle vicinanze ne venissero comunque a conoscenza

devono impedire in tutti i modi che il complotto di quegli sciagurati abbia il sopravvento e nominare un degno ministro della casa di Dio,

ben sapendo che ne riceveranno una grande ricompensa, mentre invece sarebbero colpevoli, se non se ne curassero.

Il nuovo eletto, poi, pensi sempre al carico che si è addossato e a chi dovrà rendere conto del suo governo

e sia consapevole che il suo dovere è di aiutare, piuttosto che di comandare.

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Bisogna quindi che sia esperto nella legge di Dio per possedere la conoscenza e la materia da cui trarre "cose nuove e antiche", intemerato, sobrio, comprensivo

e faccia "trionfare la misericordia sulla giustizia", in modo da meritare un giorno lo stesso trattamento per sé.

Detesti i vizi, ma ami i suoi monaci.

Nelle stesse correzioni agisca con prudenza per evitare che, volendo raschiare troppo la ruggine, si rompa il vaso:

diffidi sempre della propria fragilità e si ricordi che "non bisogna spezzare la canna già incrinata".

Con questo non intendiamo che l'abate debba permettere ai difetti di allignare, ma che li sradichi - come abbiamo già detto - con prudenza e carità, nel modo che gli sembrerà più conveniente per ciascuno,

e cerchi di essere più amato che temuto.

Non sia turbolento e ansioso, né esagerato e ostinato, né invidioso e sospettoso, perché così non avrebbe mai pace;

negli stessi ordini sia previdente e riflessivo e, tanto se il suo comando riguarda il campo spirituale, quanto se si riferisce a un interesse temporale, proceda con discernimento e moderazione,

tenendo presente la discrezione del santo patriarca Giacobbe, che diceva: "Se affaticherò troppo i miei greggi, moriranno tutti in un giorno".

Seguendo questo e altri esempi di quella discrezione che è la madre di tutte le virtù, disponga ogni cosa in modo da stimolare le generose aspirazioni dei forti, senza scoraggiare i deboli.

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E soprattutto osservi e faccia osservare integramente la presente Regola

per potersi sentir dire dal Signore, al termine della sua onesta gestione, le parole udite dal servo fedele, che a tempo debito distribuì il frumento ai suoi compagni:

"In verità vi dico: - dichiara Gesù - gli diede potere su tutti i suoi beni".

Capitolo LXV - Il priore del monastero

Accade spesso che la nomina del priore dia origine a gravi scandali,

perché alcuni, gonfiati da un maligno spirito di superbia e convinti di essere altrettanti abati, si attribuiscono indebitamente un potere assoluto, fomentando litigi, creando divisioni nelle comunità,

specialmente in quei monasteri nei quali il priore viene nominato dallo stesso vescovo o dagli stessi abati a cui spetta l'elezione dell'abate.

E' facile rendersi conto dell'assurdità di una simile procedura, con cui si dà motivo al priore di insuperbirsi fin dal primo momento della sua nomina,

perché la considerazione di questo stato di cose può insinuare in lui l'idea di non essere più soggetto all'autorità dell'abate.

"Tu pure - dirà a se stesso - sei stato nominato da quelli che hanno eletto l'abate".

Di qui nascono invidie, liti, maldicenze, rivalità, divisioni e disordini di ogni genere,

per cui, mentre l'abate e il priore sono in disaccordo, le loro anime vengono necessariamente a trovarsi in pericolo a motivo di questo contrasto

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e i loro sudditi, parteggiando per l'uno o per l'altro, vanno in perdizione.

La responsabilità di questa perniciosa situazione ricade principalmente sugli autori di tanto disordine.

Quindi, per la tutela della pace e della carità ci è sembrato necessario far dipendere l'ordinamento del monastero unicamente dalla volontà del suo abate.

E, se è possibile, tutte le attività del monastero siano regolate - come abbiamo già stabilito in precedenza - per mezzo di decani, secondo quanto disporrà l'abate,

in modo che, ripartendo l'autorità fra varie persone, non si dia motivo a uno solo di insuperbirsi.

Ma se le condizioni locali lo esigono o la comunità lo chiede umilmente e con ragioni fondate e l'abate lo giudica opportuno,

nomini egli stesso priore quel monaco che avrà scelto con il consiglio di fratelli timorati di Dio.

Il priore, da parte sua, esegua con reverenza gli ordini del suo abate e non faccia nulla contro la volontà o le disposizioni di lui,

perché quanto più è stato elevato al di sopra degli altri, tanto maggior impegno deve dimostrare nell'osservanza delle prescrizioni della Regola.

Se poi questo priore si rivelerà pieno di difetti o, lusingato dalla vanità, monterà in superbia o darà prova manifesta di disprezzare la santa Regola, sia ammonito a voce per quattro volte,

ma, nel caso che non si corregga, si prenda nei suoi confronti il provvedimento disciplinare previsto dalla Regola.

Se neppure così si ravvederà, sia deposto dalla carica di priore e sostituito da un altro che ne sia degno.

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E se in seguito non intenderà starsene quieto e sottomesso in comunità, sia addirittura espulso dal monastero.

Ma l'abate, da parte sua, si ricordi sempre che un giorno dovrà rendere conto a Dio di tutte le sue decisioni, per evitare che la fiamma dell'invidia e della gelosia gli divori l'anima.

Capitolo LXVI - I portinai del monastero

Alla porta del monastero sia destinato un monaco anziano e assennato, che sappia ricevere e riportare le commissioni e sia abbastanza maturo da non disperdersi, andando in giro a destra e a sinistra.

Questo portinaio deve avere la sua residenza presso la porta, in modo che le persone che arrivano trovino sempre un monaco pronto a rispondere.

Quindi, appena qualcuno bussa o un povero chiede la carità, risponda: "Deo gratias!" Oppure: "Benedicite!"

e con tutta la delicatezza che ispira il timor di Dio venga incontro alle richieste del nuovo arrivato, dimostrando una grande premura e un'ardente carità.

Lo stesso portinaio, se ha bisogno di aiuto, sia coadiuvato da un fratello più giovane.

Il monastero, poi, dev'essere possibilmente organizzato in modo che al suo interno si trovi tutto l'occorrente, ossia l'acqua, il mulino, l'orto e i vari laboratori,

per togliere ai monaci ogni necessità di girellare fuori, il che non giova affatto alle loro anime.

Infine vogliamo che questa Regola sia letta spesso in comunità, perché nessuno possa giustificarsi con il pretesto dell'ignoranza.

Capitolo LXVII - I monaci mandati in viaggio

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I monaci, che sono mandati in viaggio, si raccomandino alle preghiere di tutti i confratelli e dell'abate;

e nell'orazione conclusiva dell'Ufficio divino si ricordino sempre tutti gli assenti.

Quelli, poi, che rientrano, nel giorno stesso del loro ritorno si prostrino in coro al termine di tutte le Ore canoniche,

implorando dalla comunità una preghiera per riparare le mancanze eventualmente commesse durante il viaggio, guardando o ascoltando qualcosa di male o perdendosi in chiacchiere.

E nessuno si permetta di riferire ad altri quello che ha visto o udito fuori del monastero, perché questo sarebbe veramente rovinoso.

Se poi qualcuno si provasse a farlo, sia sottoposto al castigo previsto dalla Regola.

Allo stesso modo sia punito chi osasse oltrepassare i confini del monastero o andare in qualunque luogo o fare qualsiasi cosa, sia pur minima, senza il consenso dell'abate.

Capitolo LXVIII - Le obbedienze impossibili

Anche se a un monaco viene imposta un'obbedienza molto gravosa, o addirittura impossibile a eseguirsi, il comando del superiore dev'essere accolto da lui con assoluta sottomissione e soprannaturale obbedienza.

Ma se proprio si accorgesse che si tratta di un carico, il cui peso è decisamente superiore alle sue forze, esponga al superiore i motivi della sua impossibilità con molta calma e senso di opportunità,

senza assumere un atteggiamento arrogante, riluttante o contestatore.

Se poi, dopo questa schietta e umile dichiarazione, l'abate restasse fermo nella sua convinzione, insistendo nel comando, il monaco sia pur certo che per lui è bene così

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e obbedisca per amore di Dio, confidando nel Suo aiuto.

Capitolo LXIX - Divieto di arrogarsi le difese dei confratelli

Bisogna evitare in tutti i modi che per qualsiasi motivo un monaco si provi a difendere un altro o ad assumerne in certo modo la protezione,

anche se ci fosse tra loro un qualsiasi vincolo di parentela.

I monaci si guardino assolutamente da un simile abuso, che può costituire una pericolosissima occasione di disordini o di scandali.

Se qualcuno trasgredisse queste norme, sia punito con la massima severità.

Capitolo LXX - Divieto di arrogarsi la riprensione dei confratelli

Nel monastero si deve sopprimere decisamente ogni occasione di arbitri e di soprusi;

perciò dichiariamo che non è permesso ad alcuno di infliggere la scomunica o un castigo corporale a un confratello, senza l'autorizzazione dell'abate.

I colpevoli di tale trasgressione siano rimproverati alla presenza dell'intera comunità, affinché anche gli altri ne abbiano timore.

I ragazzi, però, rimangano fino a quindici anni sotto la disciplina e l'oculata vigilanza di tutti,

ma sempre con grande moderazione e buon senso.

Chi poi si arrogasse una qualsiasi autorità sugli adulti, senza il comando dell'abate, o si inquietasse irragionevolmente con i ragazzi, sia sottoposto alla punizione prevista dalla Regola,

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perché sta scritto: "Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te".

Capitolo LXXI - L'obbedienza fraterna

La virtù dell'obbedienza non dev'essere solo esercitata da tutti nei confronti dell'abate, ma bisogna anche che i fratelli si obbediscano tra loro,

nella piena consapevolezza che è proprio per questa via dell'obbedienza che andranno a Dio.

Dunque, dopo aver dato l'assoluta precedenza al comando dell'abate o dei superiori da lui designati, a cui non permettiamo che si preferiscano ordini privati,

per il resto i più giovani obbediscano ai confratelli più anziani con la massima carità e premura.

Se qualcuno dà prova di un carattere litigioso sia debitamente corretto.

Se poi un monaco viene comunque rimproverato dall'abate o da qualsiasi anziano per un qualunque motivo

o si accorge semplicemente che un anziano è sdegnato o anche leggermente alterato nei suoi riguardi,

si inginocchi subito dinanzi a lui, senza la minima esitazione, e rimanga così per riparare, finché la benedizione dell'altro non sani quel lieve dissenso.

Se qualcuno si rifiutasse altezzosamente di farlo, sia sottoposto a un castigo corporale e, se si ostina in questo atteggiamento di ribellione, sia scacciato dal monastero.

Capitolo LXXII - Il buon zelo dei monaci

Come c'è un cattivo zelo, pieno di amarezza, che separa da Dio e porta all'inferno,

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così ce n'è uno buono, che allontana dal peccato e conduce a Dio e alla vita eterna.

Ed è proprio in quest'ultimo che i monaci devono esercitarsi con la più ardente carità

e cioè: si prevengano l'un l'altro nel rendersi onore;

sopportino con grandissima pazienza le rispettive miserie fisiche e morali;

gareggino nell'obbedirsi scambievolmente;

nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma piuttosto ciò che giudica utile per gli altri;

si portino a vicenda un amore fraterno e scevro da ogni egoismo;

temano filialmente Dio;

amino il loro abate con sincera e umile carità;

non antepongano assolutamente nulla a Cristo,

che ci conduca tutti insieme alla vita eterna.

Capitolo LXXIII - La modesta portata di questa regola

Abbiamo abbozzato questa Regola con l'intenzione che, mediante la sua osservanza nei nostri monasteri, riusciamo almeno a dar prova di possedere una certa rettitudine di costumi e di essere ai primordi della vita monastica.

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Del resto, chi aspira alla pienezza di quella vita dispone degli insegnamenti dei santi Padri, il cui adempimento conduce all'apice della perfezione.

C'è infatti una pagina, anzi una parola, dell'antico o del nuovo Testamento, che non costituisca una norma esattissima per la vita umana?.

O esiste un'opera dei padri della Chiesa che non mostri chiaramente la via più rapida e diretta per raggiungere l'unione con il nostro Creatore?

E le Conferenze, le Istituzioni e le Vite dei Padri, come anche la Regola del nostro santo padre Basilio,

che altro sono per i monaci fervorosi e obbedienti se non mezzi per praticare la virtù?

Ma per noi, svogliati, inosservanti e negligenti, ciò è motivo di vergogna e di confusione.

Chiunque tu sia, dunque, che con sollecitudine e ardore ti dirigi verso la patria celeste, metti in pratica con l'aiuto di Cristo questa modestissima Regola, abbozzata come una semplice introduzione,

e con la grazia di Dio giungerai finalmente a quelle più alte cime di scienza e di virtù, di cui abbiamo parlato sopra. Amen.

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