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Oxford Library * Silvana Cincotti e Livio Secco * Venerdì 26 giugno 2020 * N.14 [email protected] * [email protected]
Salvo diversamente indicato, le immagini sono tratte dal web
26 06 2020 Bere un quadro di Bellini, assaggiare una tela del Carpaccio
I segreti dell’oro bianco di Meissen
Roma: gradite un bicchiere d’acqua? Anno Domini 600
Civiltà, un insieme di Civiltà
Qualcosa di Kha e Meryt
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Giuseppe Cipriani, veronese nato nel
1900, forse è un nome che vi dirà poco
e probabilmente la vostra memoria do-
vrà scavare un po’ prima di trovare
qualche indizio utile. Qualche aiuto
potrebbero essere “Venezia”, “primi
anni del secolo scorso” e “Bellini”.
Giuseppe Cipriani fu il fondatore
dell’Harry’s Bar, famoso locale di Ve-
nezia, aperto ancora oggi, situato vici-
no Piazza San Marco.
Cipriani, uomo non comune, aveva
scelto per il suo locale non un luogo di
passaggio, dove gli avventori sarebbero
stati molti ma anonimi e frettolosi. Vo-
leva creare qualcosa di diverso, deci-
dendo in fatti di aprire il suo locale in
una strada che, all’epoca, era senza
uscita: non potevi “capitarci”, dovevi
“andarci”. I suoi clienti infatti non fu-
rono mai avventori qualsiasi; andavano
lì perché lì c’era lui.
L’Harry’s Bar racchiude in sé molto di
quanto è accaduto nella storia del No-
vecento. Inaugurato nel 1931 divenne
meta di uomini famosi, politici, attori e
capi di stato che si ritrovavano a di-
stendere le gambe sotto un tavolo, de-
gustando piatti prelibati in un ambiente
sereno e raffinato. Il locale era frequen-
tato anche da artisti e scrittori, primo
tra tutti Ernest Hemingway.
Giuseppe Cipriani aprì il suo locale
grazie ad un benefattore, un giovane
americano Harry Pickering, cui deve il
nome. Presso l'albergo in cui Cipriani
all’epoca lavorava, era ospite un'anzia-
na signora statunitense accompagnata
dal giovane nipote Harry.
Trovandosi improvvisamente da solo,
senza un soldo, Harry, che intanto era
diventato amico di Cipriani, ebbe da
quest’ultimo in prestito l’ingente som-
ma di 10.000 lire, in modo da poter tor-
nare in patria. Si trattava di una grossa
cifra che qualche anno dopo gli venne
rimborsata con gli interessi. Nel feb-
braio del 1931, Harry tornò a Venezia,
andò da Cipriani e gli restituì la somma
ricevuta con l'aggiunta di 30.000 lire.
Così Giuseppe realizzò il suo sogno,
licenziarsi dall’albergo e aprire un lo-
Bere un quadro di Bellini
Assaggiare una tela di Carpaccio
Giovanni Bellini, Autoritratto, 1500 circa, Roma,
Musei Capitolini.
Giuseppe Cipriani, davanti all’Harry’s Bar
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cale. Non gli mancava certo voglia di
lavorare e inventiva. Le sue due crea-
zioni più celebri sono il cocktail Bellini
e il piatto conosciuto come
“carpaccio”.
Il primo nasce dall’unione di vino bian-
co frizzante e polpa fresca schiacciata
di pesca bianca: lo inventò nel 1948 e
gli diede questo nome, Bellini, in onore
delle tenue tinte rosate del pittore vene-
ziano Giovanni Bellini.
Anche il carpaccio nasconde il nome di
un artista. Si tratta di un piatto partico-
lare, quelle fettine sottilissime di con-
trofiletto di manzo crudo disposte su un
piatto e decorate “alla Kandinsky”, con
una salsa chiamata “universale”, in-
ventata da Cipriani nel 1950.
Il nome Carpaccio gli venne dato per-
ché il rosso vivo della carne ricorda il
rosso acceso e smagliante, potremmo
dire lucido, di alcuni dipinti di Vittore
Carpaccio, altro artista veneziano.
È un piatto oggi talmente famoso da
indicare con questo nome non più sol-
tanto la ricetta originale dell'Harry's
Bar ma, genericamente, un piatto a ba-
se di fettine di carne o pesce crudi o
semi-crudi a cui vengono aggiunti olio
e scaglie di formaggio grana o altri in-
gredienti a seconda della versione.
Vittore Carpaccio, San Giorgio e il drago, 1502, tempera su te-
la, 141x360 cm, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia.
Vittore Carpaccio,
La Visione
di Sant’Agostino,
1502,
tempera su tela,
141x210 cm,
Scuola di San Giorgio
degli Schiavoni,
Venezia.
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Nel XVII secolo la porcellana orientale
era un prezioso prodotto di importazio-
ne, fornito per lo più dalla Compagnia
Olandese delle Indie Orientali, che ne
aveva stabilito il commercio nella città
di Delft.
Le porcellane cinesi e giapponesi erano
considerate in Europa uno status sym-
bol di ricchezza, importanza e gusto
raffinato.
La porcellana venne prodotta per la
prima volta in Cina, probabilmente du-
rante il dominio della dinastia Tang,
con una produzione limitata almeno
all’inizio a vasetti monocromatici.
Durante le epoche successive, verso
l’Anno Mille, la produzione cinese di-
venne di ottima qualità e conseguente-
mente l'imperatore decise di istituire
fabbriche imperiali per la realizzazione
dei pezzi destinati alla corte.
Con l'avvento della dinastia Ming la
porcellana in Cina raggiunse la mag-
gior produzione e diffusione.
Da noi in Europa le prime testimonian-
ze scritte relative alla porcellana risal-
gono al Milione di Marco Polo, che
descrivendo la città di Tiungu, narra
della raffinata produzione di scodelle
di porcellana.
A partire da questo periodo arrivarono
in Europa i primi oggetti di porcellana
attraverso la Persia, l'Egitto, Costanti-
nopoli e Venezia per entrare a far parte
dei tesori di nobili e potenti, tanto da
essere chiamata “oro bianco”.
Se i piatti di terraglia si impregnavano
degli odori del cibo nel giro di poco
tempo, quelli di porcellana avevano il
privilegio di restare intonsi e senza
contaminazione di alcun genere.
Nel corso del tempo, soprattutto a par-
tire dal Rinascimento, non erano man-
cati i tentativi di riproduzione locale
della porcellana, incontrando tuttavia il
fallimento.
A partire dalla fine del XVI secolo la
porcellana si diffuse tra le classi agiate
e divenne oggetto di uso quotidiano e
una delle principali cause della diffu-
sione della porcellana in Europa fu l'e-
stendersi dell'uso di bevande in tazza:
tè, caffè e sicuramente la cioccolata.
Gli europei tentarono più volte di rag-
I segreti dell’oro bianco di Meissen
Centrotavola e Stand con coppia di zucchero semolato olio e ace-
to o ampolla, circa 1737, Meissen manifattura di porcellana mo-
dellata da Johann Joachim Kandler, Art Institute of Chicago
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giungere la perfezione della porcellana
dura cinese, senza tuttavia riuscirci.
Risultati di qualche valore furono con-
seguiti solo nella Firenze del Cinque-
cento, grazie ad alcuni laboratori du-
rante il governo di Francesco I Medici,
che riuscirono ad ottenere un tipo di
porcellana a pasta tenera conosciuta
come Porcellana Medicea, non perfetta
sul piano tecnico ma in qualche modo
simile al modello originale.
Veniva spesso decorata con motivi blu
cobalto, vagamente ispirati alla con-
temporanea produzione cinese. Se ne
conoscono in tutto una cinquantina di
pezzi ma la produzione terminò poco
dopo la morte di Francesco I Medici.
La situazione cambiò alla fine del 1707
quando, alla corte dell'elettore di Sas-
sonia Augusto il Forte, il barone Eh-
renfried Walther von Tschirnhaus, aiu-
tato dall'alchimista Johann Friedrich
Böttger, trovò una formula per produr-
re la porcellana dura: bisognava ag-
giungere caolino.
Nel 1710 fu fondato il primo grande
centro di produzione di porcellana eu-
ropea a Meissen, vicino a Dresda.
Inizialmente la Manifattura di Meissen
poté godere di una forma di monopolio
sulla produzione di porcellana dura.
Successivamente, attraverso naturali
spostamenti e licenziamenti di collabo-
ratori, i segreti della produzione della
porcellana dura si diffusero nel resto
dell'Europa.
Lo stile della porcellana europea si
ispirò inizialmente ai modelli orientali
per forme e decorazioni; successiva-
mente gli artisti iniziarono una produ-
zione più originale, ispirandosi agli stili
dell'arte europea, al Barocco, al Roco-
cò e alle forme del Neoclassico.
Servizio da tavola in porcellana di Meissen decorato in blu cobalto, XIX-XX secolo,
per ventisei commensali. Battuto ad una recente asta a 18.500€.
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La Storia insegna che l’acqua è un be-
ne prezioso, talvolta in grado di sov-
vertire le sorti di una guerra.
La caduta dell'Impero Romano d’Occi-
dente vide l’inizio della graduale di-
struzione dei celebri acquedotti romani;
i primi danneggiamenti furono legati
alle calate dei barbari, i Visigoti di Ala-
rico nel 410 d. C., i Vandali di Genseri-
co nel 455 e gli Eruli di Odoacre nel
476.
Ma è nel 534, in occasione dell'assedio
di Roma posto dal re dei Goti, che gli
acquedotti svolsero un ruolo fonda-
mentale nelle vicende belliche.
La guerra gotica contro i bizantini di
Giustiniano è certamente una delle pa-
gine più tragiche della storia di Roma.
I Goti si accamparono nella campagna
romana, area presso la quale si incro-
ciavano più acquedotti; qui possenti
arcate sostenevano l’Acquedotto
dell'Acqua Marcia, Tepula, Giulia,
Claudia e l'Anio Novus.
Sia gli assedianti che gli assediati mu-
rarono in più punti gli acquedotti, nel
tentativo di mettere in difficoltà il ne-
mico, riuscendo più che altro a mettere
in ginocchio la popolazione.
L'assedio fu tolto nel 538 d.C. ma da
allora, e per quasi mille anni, Roma fu
in gran parte privata delle sue acque.
Una nuova figura si disegnò allora nel-
lo scenario sociale dell’epoca: coloro
che vendevano acqua.
Durante il Medioevo l'approvvigiona-
mento idrico fu garantito ai pochi abi-
tanti rimasti dagli acquarioli o acquare-
nari che distribuivano casa per casa
l'acqua proveniente probabilmente dal-
le poche fontane rimaste in funzione.
La Fontana del Facchino, sita in Via
Lata, potrebbe esser stata dedicata a
questa singolare figura di imprenditore.
Roma: gradite un bicchiere d’acqua?
Anno Domini 600.
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Secondo alcuni fu opera di Michelan-
gelo. Sorvolerei su questa attribuzione
avvicinandomi invece al nome di Iaco-
pino del Conte, artista al quale è con
più sicurezza assegnata (anno 1580).
La decadenza della Roma medievale
portò allo smantellamento definitivo
delle fontane monumentali per il recu-
pero dei materiali mentre vasche e ba-
cini vennero riutilizzati a fini agricoli
come abbeveratoi per il bestiame.
L'unico acquedotto più o meno funzio-
nante a quell’epoca era quello dell'A-
qua Virgo.
Dei pozzi vennero scavati soprattutto
nei pressi di conventi e chiese, per assi-
curare un minimo livello igienico e l'ir-
rigazione di orti e giardini dei religiosi.
La più nota e famosa fontana della cri-
stianità romana è quella dell'antica ba-
silica di San Pietro in Vaticano, con-
temporanea all'edificazione della prima
basilica in epoca paleocristiana, com-
posta da un tempietto colonnato conte-
nente una vasca quadrata al cui centro
era posizionata un’enorme pigna bron-
zea. Quella stessa posta oggi nel Corti-
le del Belvedere, all'interno della Città
del Vaticano, dopo lo smantellamento
seguito, nel XVI secolo, alla completa
riedificazione della basilica all’epoca
di Michelangelo prima e Bernini poi.
Dalla pigna, dotata di minuscoli forelli-
ni, l’acqua usciva in sottili rivoli.
In modo simile, fino al 1936, funziona-
va la fontana denominata Meta Sudans.
Costruita nei pressi dell'Arco di Co-
stantino, nel punto in cui il corteo
trionfale svoltava per imboccare la Via
Sacra, questa fontana venne costruita
da Domiziano forse su una struttura
preesistente, per essere poi purtroppo
distrutta nel 1936 per problemi viari
connessi con l'apertura di via dell'Im-
pero durante il periodo fascista.
Un disco in pietra ne segna oggi la po-
sizione.
Si trattava di una struttura conica, so-
migliante alle “metae” poste alle estre-
mità della pista dei circhi da cui l'ac-
qua, anziché zampillare, stillava diret-
tamente dalla pietra porosa, come se
questa “sudasse”.
Le meraviglie dell’Italia, presenti o no,
distrutte o ancora in piedi, non smette-
ranno mai di stupirci.
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In Sicilia, la presenza araba venne so-
stituita dal potere cristiano per azione
di Ruggero d’Altavilla, che conquistò
prima Messina nel 1061 e successiva-
mente Palermo circa dieci anni dopo.
Durante la dominazione normanna,
grazie alla tolleranza di Ruggero II, re
di Sicilia tra il 1130 e il 1154, la Sicilia
divenne il centro di una cultura se vo-
gliamo molto moderna, un mix di mon-
do arabo e cristiano che riusciva a fon-
dere armoniosamente le correnti bizan-
tine e musulmane.
Scienziati e poeti convergevano verso
questo regno, dove gli europei poteva-
no attingere alle fonti del sapere antico
grazie alla mediazione degli scrittori e
dei traduttori arabi.
Sotto Guglielmo II, successore di Rug-
gero II, la situazione rimase in equili-
brio, deterioratasi successivamente a
causa della presenza di cristiani france-
si che imposero un clima da Crociata:
alla morte del sovrano, nel 1189, si
scatenarono sanguinose persecuzioni
contro i musulmani.
L’arte palermitana mostra l’influenza
araba in una serie di edifici tra cui la
celebre Cappella Palatina, in altri luo-
ghi e nel celebre palazzo della Zisa.
Costruito nel 1185 ha un aspetto mas-
siccio, con l’alta facciata divisa nei tre
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piani. Dall’ingresso si accede ad una
lunga e vasta sala che si conclude con
una nicchia, una sorta di iwan, elemen-
to tipico dell’architettura islamica, de-
corato con un mosaico bizantino e che
rappresenta una scena di caccia reale su
fondo oro.
Questa decorazione è posta sopra una
fontana interna che sgorga sotto una
volta di stallatiti scolpite: i getti d’ac-
qua scorrevano lungo un piano inclina-
to, riprendendo una consuetudine già
attestata nella rotonda dalle Domus
Aurea di Nerone a Roma.
Il nome deriva dall’arabo, al-ʿAzīza,
ovverosia "la splendida".
La storia di questa straordinaria struttu-
ra architettonica, che andremo ad ap-
profondire, insegna quanto ogni civiltà
affondi le proprie radici in quella del
vicino: lo sa bene chi è appassionato di
arte e di archeologia!
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Ritornare a visitare il Museo Egizio di
Torino non è replicare una visita
museale già fatta. La suggestione che
mi evoca è sempre quella della prima
volta e quindi si tratta di un fascino che
si attualizza costantemente.
La Fondazione fa del suo meglio per
presentare una collezione sempre
diversa nei temi e negli
approfondimenti. Questo permette
all’appassionato di replicare le proprie
visite perché sa che troverà, ogni volta,
qualcosa di nuovo che non aveva
ancora visto. D’obbligo poi una visita
al bookshop per scoprire gli ultimi testi
pubblicati e aggiornati.
Una delle cose, fra le molte, che rende
unico il museo torinese è l’esibizione
permanente della tomba di Kha.
Riepiloghiamo brevemente le vicende
che portarono alla scoperta della TT8.
Fino al 15 febbraio del 1906
dell’architetto Kha e della sua sposa
Meryt si conosceva perfettamente
l’ubicazione della cappella funeraria
catalogata appunto con il codice
Theban Tomb 8. Dei due coniugi si
sapeva lo status sociale e alcuni
dettagli della loro vita privata anche
per via di una stele funeraria che
faceva parte della collezione Drovetti.
Si trattava della collezione che,
acquistata dai Savoia, diede origine al
Museo Egizio di Torino.
Perciò nel capoluogo piemontese
l’architetto reale Kha non era
propriamente uno sconosciuto. Ciò che
lo rendeva particolare era il fatto che,
pur avendo repertate una sua stele e la
cappella, al di sotto di questa non era
stato ritrovato nessun pozzo funerario.
La situazione cambiò improvvisamente
il 15 febbraio del 1906 quando l’allora
Direttore del Museo Egizio di Torino,
Ernesto Schiaparelli (1856-1928) e
l’Ispettore delle Antichità Arhtur
Weigall (1880-1934) aprirono la porta
che sigillava una tomba trovata in
fondo ad un pozzo venticinque metri
più a Nord della cappella di Kha e
Meryt . Si trattava effettivamente del
loro ipogeo e, per la sua posizione non
ortodossa, si trattò di una scoperta
assolutamente eccezionale perché la
sua ubicazione inusuale l’aveva messa
al sicuro dalle predazioni.
Pur non essendo una sepoltura reale,
ma quella infinitamente più semplice di
un funzionario, la sua importanza resta
tutt’ora notevole visto che sono
rarissime le tombe egizie ritrovate
intatte specie quelle del Nuovo Regno.
Dato che i suoi titoli non sono
Qualcosa di Kha e Meryt
Entrata della cappella di Kha, oggi. Non è il pozzo funerario. Fonte: https://egyptmyluxor.weebly.com/kha-tomb-tt8---deir-el-medina---luxor.html
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numerosi e particolarmente elevati, si
ritiene che Kha non fosse di nobile
lignaggio ma che nonostante ciò sia
arrivato a ricoprire il ruolo di Direttore
delle opere reali di Deir el Medina,
cioè costruttore delle tombe della Valle
dei Re! Una responsabilità così elevata,
partendo da un rango modesto, non può
che indicare una forte valutazione
meritocratica del nostro architetto.
Kha servì ben tre re: Amenhotep II,
Thutmose IV e Amenhotep III. Siamo
quindi in pieno Nuovo Regno e XVIII
dinastia. Indubbiamente la più celebre
di tutta la storia egizia.
* * *
Che aspetto aveva? Facendo le
opportune considerazioni sul fatto che
la plastica egizia non era propriamente
ritrattistica come la intendiamo noi
oggi, possiamo averne visione da una
piccola statua che lo immortala e che
era posta su una sedia vicino al
sarcofago di Meryt.
Essa riporta una colonna di geroglifici
che si legge da destra a sinistra e
dall’alto verso il basso:
prrt nbt Hr wDHw n imn (ny-)swt nTrw pereret nebet her ugehu en imen ni-sut neceru Ciò che esce tutto sulla tavola d’offerta di Amon, re degli dèi,
n kA n Hry st aA xa mAa-xrw en ca en heri set aa kha maa-cheru per il ka del Custode del Luogo Grande, Kha, giusto di voce.
Statuetta di Kha, rinvenuta stante su una sedia nell’ipogeo. Fonte: https://egyptianhistorypodcast.com/2020/01/15/kha-and-merit/
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Con le parole Luogo Grande si definiva
la tomba del re. In questo caso quindi
Kha è identificato come l’architetto
incaricato alla costruzione della tomba
del re che era in carica in quel periodo.
La dizione Giusto di voce si attribuisce
invece al defunto che non mente in
merito alla sua buona condotta in vita
durante la psicostasia. Al momento
della pesatura dell’anima il suo cuore è
leggero come la piuma della dea Maat
e quindi non è carico di cattive azioni
(non si parla di peccati nell’antico
Egitto). Pertanto può restare per
l’eternità con gli dèi che lo hanno
appena giudicato positivamente.
L’integrità del sacello ha permesso di
catalogare più di cinquecento oggetti
tra quelli specifici dell’inumazione e
quelli invece di uso comune. Questi
ultimi permettevano al defunto di
continuare la propria attività anche
nell’Aldilà.
Tra gli oggetti repertati sono
particolarmente importanti i due
sarcofagi a forma parallelepipeda,
maggiore quello di Kha, più piccolo
quello di Meryt. La mummia della
sposa è contenuta, a sua volta, in un
sarcofago antropomorfo che è di molto
più grande e ciò significa che Meryt
morì prima di Kha. Questi, infatti, le
donò un sarcofago che era stato
preparato per lui. Ne deduciamo,
perciò, che la morte di Meryt fu
inaspettata poiché il suo corredo
funerario non era ancora pronto.
Kha e Meryt ebbero almeno tre figli,
due maschi e una femmina. Uno dei
maschi, Amenemopet proseguì la
carriera del padre, mentre del secondo,
Nakhteftaneb non sappiamo che
professione abbia fatto. La figlia, che
portava lo stesso nome della madre e
che gli egittologi hanno ribatezzato
Meryt II, divenne una cantatrice di
Amon, rivestendo un ruolo cultuale.
Il mobile porta parrucca di Meryt. Si legge perfettamente
il nome della proprietaria nell’etichetta posta davanti. Fonte: https://egyptianhistorypodcast.com/2020/01/15/kha-and-merit/
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Tutti sopravvissero alla madre.
* * *
La tomba ha restituito molti degli
oggetti di Meryt dalla biancheria agli
accessori di toelettatura.
Uno di questi è particolare.
Si tratta di un mobile la cui funzione è
quella di custodire la parrucca che
Meryt si era fatta fare. Non c’è dubbio
sulla proprietaria. Proprio nella parte
anteriore compare un’etichetta in
geroglifico che recita una consueta
formula offertoria funeraria in uno stile
molto abbreviato:
bordo sul quale si appoggia è formato
con la classica gola egizia.
Anche il coperchio riporta una colonna
di segni geroglifici, questa volta più
lunga di quella del lato frontale.
Essa recita:
Htp di (ny-)swt wsir hetep di ni-sut usir Un’offerta che il re dà ad Osiride
n kA n mryt en ca en merit per il ka di Meryt.
Il mobile è stato fabbricato in legno di
acacia. La sua altezza è pari a 110 cm
circa mentre la sua profondità e la
larghezza si avvicinano ai 50 cm.
Insomma, un armadietto in cui veniva
custodita un’acconciatura che doveva
avere anche un certo peso economico.
La sua forma è però particolare. Infatti
ci ricorda quella di un santuario egizio.
Il coperchio non è piatto e piano come
ci si aspetterebbe ma ha una curvatura
che lo fa sembrare ad un naos. Inoltre il
Htp di (ny-)swt wsir nTr aA HqA Dt hetep di ni-sut usir necer aa heca get Un’offerta che il re dà ad Osiride, dio grande, governatore dell’eternità,
rdi.f prt-xrw n kA n mryt redi.ef peret-cheru en ca en merit (affinché) dia egli un’invocazione d’offerta per il ka di Meryt.
Il coperchio del mobile porta parrucca di Meryt. Fonte: http://www.deirelmedina.com/lenka/TurinKha.html
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Anche questa, per essere una formula
offertoria funeraria, non è completa. È
già più estesa della precedente ma
manca di alcune parti classiche.
In ogni caso ci permette di
comprendere come il re fosse
intermediario tra il defunto e le
divinità. Il sovrano fa un’offerta ad
Osiride affinché questi esprima una
lista di beni di cui il defunto avrà
bisogno per continuare la sua esistenza
nell’Aldilà. Essendo scritta in
geroglifico, scrittura magica che invera
la realtà, questa dichiarazione
(letteralmente uscita di voce, peret-
cheru) di Osiride si tramuterà nei beni
materiali per il sostentamento del
trapassato.
Ai lati del geroglifico del remo
compaiono due teste: una bovina e una
avicola. Sono una sintesi per indicare
non solo carni specifiche, ma tutto
quanto il defunto avrà bisogno per
l’eternità, tessuti ed unguenti compresi.
* * *
Le mie visite da bambino al Museo
Egizio sono servite più ad aumentare le
domande che a trovare le risposte.
La curiosità era tanta ma la passione
doveva ancora esplodere e mio padre
non risolveva quesiti egittologici.
La tappa d’obbligo costante era la
collezione di Kha. Già solo il fatto che
sia stata trovata intatta la rende ancora
oggi speciale agli occhi dei bambini.
Un gioco infantile consisteva nel capire
Una strana custodia (vuota). Fonte: https://www.flickr.com/photos/menesje/5503383789 (Hans Ollermann, 2011)
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se un oggetto di Kha e Meryt fosse
ancora attuale. Se il suo uso avesse
attraversato secoli di storia e civiltà
diverse da essere anche mio: sgabello,
vestito, parrucca, letto, tazza… Per
contrasto quelli caduti in disuso:
sarcofago, cubito… e quello cos’è?
A leggere l’etichetta museale
dell’epoca c’è scritto Astuccio per
bilancia. Certo che come bilancia è
molto strana…
Anche se ci è voluto del tempo, il
destino di ogni quesito è quello di
essere risolto. Vediamo di focalizzare
meglio la questione.
Innanzi tutto è un astuccio, nel senso
che è solo un astuccio. Punto. Una
custodia vuota. E allora lo strumento
dov’è? Bella domanda. Qualcuno non
lo avrà rimesso nella custodia perché
gli sarà servito ancora. Vi ricordate che
uno dei figli maschi era anch’egli un
architetto? Se Kha fu seppellito con un
cubito reale d’oro, dono del re
Amenhotep II, e con un cubito
pieghevole con tanto di fodero in
cuoio, strumento tipico da cantiere,
vuol dire che questi erano strumenti
piuttosto comuni rispetto all’altro.
Qualcuno a cui serviva ancora lasciò
l’astuccio vuoto nella tomba ma si
tenne stretto stretto uno strumento che
non era facilmente sostituibile.
Effettivamente un’idea di equilibrio la
custodia la offre. C’è quella specie di
ruota di un certo spessore che potrebbe
stare in piedi da sola. Sul braccio
orizzontale ci sono una serie di
ventinove dischi o tacche ma solo
l’ottavo e l’undicesimo hanno una
cornice tonda doppia mentre tutti gli
altri segni hanno una cornice sola: per
quale motivo non è dato sapere.
Forse per pesare si ponevano delle
masse campionate su un braccio e
sull’altro i materiali da ponderare. Va
da sé che la bilancia è incompleta,
mancherebbero tutti gli accessori. Ma
perché un architetto doveva pesare in
prima persona dei materiali?
E poi le dimensioni della bilancia non
sono certo quello per valutare dei
materiali in un cantiere edile, piuttosto
sembrerebbe servire per misurazioni
fini. Ma Kha era un architetto e non un
farmacista!
Quando una domanda non dà una
risposta è opportuno sempre rovesciare
la prospettiva con la quale si guardano
le cose.
E se il modo con la quale la custodia è
esposta fosse sbagliato? Quando non
conosci la natura di un oggetto è
difficile prenderlo per il lato giusto! È
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un po’ la fatica che fanno coloro che
allestiscono le mostre di quadri astratti:
l’avrò appeso dal lato giusto?
Il quesito non me lo sono posto io ma
se lo pose la dottoressa Amelia
Carolina Sparavigna del Dipartimento
di Fisica del Politecnico di Torino.
Il 25 luglio del 2011 presentò una
relazione alla Cornell University di
Ithaca, nello Stato di New York.
Secondo la docente lo strumento va
usato diversamente: ce lo hanno fatto
sempre vedere rovesciato.
La Sparavigna inizia la sua analisi dalla
decorazione che appare sulla ruota. A
lei sembra di vedere una specie di rosa
dei venti. Il conteggio delle foglie
produce un 16 che le ricorda la
frazione 1/16, uno dei valori che
compone matematicamente l’Udjat,
l’Occhio di Horus.
Inoltre la rosa dei venti è circondata da
una cornice che presenta 18 angoli i
quali sono formati da 36 segmenti.
Anche questo è un valore che alla
Sparavigna richiama qualcosa: i
decani, i 36 gruppi di stelle che si
alzano in successione dall’orizzonte a
causa della rotazione terrestre.
Il risultato finale di queste analisi è che
la ruota supporti due scale di
misurazione: una basata sulle frazioni
egizie e l’altra basata sui Decani.
D’accordo, ma per misurare cosa?
La Sparavigna ci fa notare che
l’oggetto possiede un coperchio.
Rimuovendolo si mette in luce una
superficie perfettamente lineare che si
può appoggiare su una superficie liscia
in questo modo:
Se sovrapponiamo un filo a piombo e
questi attraversa le foglie 1-16 verso la
8-9, avremo la certezza che il piano su
cui abbiamo appoggiato lo strumento
sia perfettamente orizzontale.
Su un piano inclinato, però, la
situazione sarebbe la seguente:
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14-17
Se la superficie su cui è appoggiato lo
strumento è inclinata anche la
direzione della rosa dei venti è
inclinata formando un certo angolo
rispetto alla verticale, quest’ultima
sempre dimostrata dal filo a piombo.
A questo punto la Sparavigna ci aiuta a
capire facendo una similitudine:
L’angolo b evidenziato dal filo a
piombo sovrapposto allo strumento è
identico all’angolo a del piano
inclinato.
La considerazione alla quale arrivò la
docente torinese è che la geometria
nacque proprio come una scienza
pratica per misurare lunghezze,
superfici e volumi.
Pertanto la Sparavigna ne dedusse che
Kha, avrebbe potuto usare il suo strano
strumento, beninteso con il supporto di
un semplice filo a piombo, per una
misurazione pratica delle inclinazioni
da produrre in cantiere.
In soldoni, Kha era in possesso di uno
dei primi dispositivi atto a misurare gli
angoli: possedeva un goniometro!
Al lavoro intellettuale della Sparavigna
mi sento di aggiungere solo un paio di
osservazioni.
Innanzi tutto quello che noi abbiamo
definito coperchio. Un coperchio
chiude e tappa un contenitore a
salvaguardia del contenuto. A me
sembra, invece, che la sua funzione
fosse quella di proteggere la parte più
Pozzo di
accesso
Scala
murata
Primo corridoio
murato
Secondo corridoio
murato
Camera
funeraria
Sezione del pozzo funerario di Kha e Meryt. Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=reKqnzgycZU
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delicata dello strumento: cioè la base
perfettamente piana sulla quale doveva
poggiare per svolgere la sua
funzionalità. Durante le attività di
cantiere il dispositivo avrebbe potuto
subire sfregamenti e urti che, con il
passare del tempo, ne avrebbero
sbeccato il piano d’appoggio rendendo
ben presto impreciso l’apparecchio. Il
coperchio, invece, ne tutelava la parte
sensibile e veniva rimosso solo in fase
operativa.
Da ciò deduciamo una seconda
osservazione.
Non è un contenitore, ma è proprio lo
strumento in sé. La faccenda del
coperchio lo fece considerare la
custodia di un attrezzo quando,
all’opposto, esso era proprio lo
strumento completo.
Sarcofago di
Kha
Sarcofago di
Meryt
Statuina di
Kha
Armadietto
porta parrucca
Restituzione grafica tridimensionale della camera funeraria di Kha e Meryt. Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=UkQ2AbgxxzQ
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La Repubblica promuove lo
sviluppo della cultura e la ricerca
scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio
storico e artistico della Nazione.
Articolo 9
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Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire."
Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, 1951.
26 06 20 14
Bere un quadro di Bellini, assaggiare una tela di Carpaccio Giuseppe Cipriani, veronese nato nel 1900, forse è un nome che vi dirà poco e probabilmente la vostra memoria dovrà scavare un po’ prima di trovare qualche indizio utile. Qualche aiuto potreb-bero essere “Venezia”, “primi anni del secolo scorso” e “Bellini”. Giuseppe Cipriani fu il fondatore dell’Harry’s Bar, famoso locale di Venezia, aperto ancora oggi, situato vicino Piazza San Marco. I segreti dell’oro bianco di Meissen Nel XVII secolo la porcellana orientale era un prezioso prodotto di importazione, fornito per lo più dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali, che ne aveva stabilito il commercio nella città di Delft. Le porcellane cinesi e giapponesi erano considerate in Europa uno status symbol di ricchezza, im-portanza e gusto raffinato. Roma: gradite un bicchiere d’acqua? Anno Domini 600 La Storia insegna che l’acqua è un bene prezioso, talvolta in grado di sovvertire le sorti di una guerra. La caduta dell'Impero Romano d’Occidente vide l’inizio della graduale distruzione dei celebri ac-quedotti romani; i primi danneggiamenti furono legati alle calate dei barbari, i Visigoti di Alarico nel 410 d. C., i Vandali di Genserico nel 455 e gli Eruli di Odoacre nel 476. Civiltà, un insieme di Civiltà In Sicilia, la presenza araba venne sostituita dal potere cristiano per azione di Ruggero d’Altavilla, che conquistò prima Messina nel 1061 e successivamente Palermo circa dieci anni dopo. Durante la dominazione normanna, grazie alla tolleranza di Ruggero II, re di Sicilia tra il 1130 e il 1154, la Sicilia divenne il centro di una cultura se vogliamo molto moderna, un mix di mondo arabo e cristiano che riusciva a fondere armoniosamente le correnti bizantine e musulmane. Qualcosa di Kha e Meryt Ritornare a visitare il Museo Egizio di Torino non è replicare una visita museale già fatta. La sugge-stione che mi evoca è sempre quella della prima volta e quindi si tratta di un fascino che si attualiz-za costantemente. La Fondazione fa del suo meglio per presentare una collezione sempre diversa nei temi e negli approfondimenti. Questo permette all’appassionato di replicare le proprie visite perché sa che tro-verà, ogni volta, qualcosa di nuovo che non aveva ancora visto. Fonte immagine copertina anteriore: https://stretchingtheboundaries.blogspot.com/2011/08/khas-protractor.html Fonte immagine copertina posteriore: https://en.wikipedia.org/wiki/File:Statuette_of_Kha_(TT8).jpg