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Oxford Library Oxford Library * Silvana Cincotti e Livio Secco * Venerdì 26 giugno 2020 * N.14 [email protected] * [email protected] Salvo diversamente indicato, le immagini sono tratte dal web 26 06 2020 Bere un quadro di Bellini, assaggiare una tela del Carpaccio I segreti delloro bianco di Meissen Roma: gradite un bicchiere dacqua? Anno Domini 600 Civiltà, un insieme di Civiltà Qualcosa di Kha e Meryt 14

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Oxford Library * Silvana Cincotti e Livio Secco * Venerdì 26 giugno 2020 * N.14 [email protected] * [email protected]

Salvo diversamente indicato, le immagini sono tratte dal web

26 06 2020 Bere un quadro di Bellini, assaggiare una tela del Carpaccio

I segreti dell’oro bianco di Meissen

Roma: gradite un bicchiere d’acqua? Anno Domini 600

Civiltà, un insieme di Civiltà

Qualcosa di Kha e Meryt

14

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Giuseppe Cipriani, veronese nato nel

1900, forse è un nome che vi dirà poco

e probabilmente la vostra memoria do-

vrà scavare un po’ prima di trovare

qualche indizio utile. Qualche aiuto

potrebbero essere “Venezia”, “primi

anni del secolo scorso” e “Bellini”.

Giuseppe Cipriani fu il fondatore

dell’Harry’s Bar, famoso locale di Ve-

nezia, aperto ancora oggi, situato vici-

no Piazza San Marco.

Cipriani, uomo non comune, aveva

scelto per il suo locale non un luogo di

passaggio, dove gli avventori sarebbero

stati molti ma anonimi e frettolosi. Vo-

leva creare qualcosa di diverso, deci-

dendo in fatti di aprire il suo locale in

una strada che, all’epoca, era senza

uscita: non potevi “capitarci”, dovevi

“andarci”. I suoi clienti infatti non fu-

rono mai avventori qualsiasi; andavano

lì perché lì c’era lui.

L’Harry’s Bar racchiude in sé molto di

quanto è accaduto nella storia del No-

vecento. Inaugurato nel 1931 divenne

meta di uomini famosi, politici, attori e

capi di stato che si ritrovavano a di-

stendere le gambe sotto un tavolo, de-

gustando piatti prelibati in un ambiente

sereno e raffinato. Il locale era frequen-

tato anche da artisti e scrittori, primo

tra tutti Ernest Hemingway.

Giuseppe Cipriani aprì il suo locale

grazie ad un benefattore, un giovane

americano Harry Pickering, cui deve il

nome. Presso l'albergo in cui Cipriani

all’epoca lavorava, era ospite un'anzia-

na signora statunitense accompagnata

dal giovane nipote Harry.

Trovandosi improvvisamente da solo,

senza un soldo, Harry, che intanto era

diventato amico di Cipriani, ebbe da

quest’ultimo in prestito l’ingente som-

ma di 10.000 lire, in modo da poter tor-

nare in patria. Si trattava di una grossa

cifra che qualche anno dopo gli venne

rimborsata con gli interessi. Nel feb-

braio del 1931, Harry tornò a Venezia,

andò da Cipriani e gli restituì la somma

ricevuta con l'aggiunta di 30.000 lire.

Così Giuseppe realizzò il suo sogno,

licenziarsi dall’albergo e aprire un lo-

Bere un quadro di Bellini

Assaggiare una tela di Carpaccio

Giovanni Bellini, Autoritratto, 1500 circa, Roma,

Musei Capitolini.

Giuseppe Cipriani, davanti all’Harry’s Bar

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cale. Non gli mancava certo voglia di

lavorare e inventiva. Le sue due crea-

zioni più celebri sono il cocktail Bellini

e il piatto conosciuto come

“carpaccio”.

Il primo nasce dall’unione di vino bian-

co frizzante e polpa fresca schiacciata

di pesca bianca: lo inventò nel 1948 e

gli diede questo nome, Bellini, in onore

delle tenue tinte rosate del pittore vene-

ziano Giovanni Bellini.

Anche il carpaccio nasconde il nome di

un artista. Si tratta di un piatto partico-

lare, quelle fettine sottilissime di con-

trofiletto di manzo crudo disposte su un

piatto e decorate “alla Kandinsky”, con

una salsa chiamata “universale”, in-

ventata da Cipriani nel 1950.

Il nome Carpaccio gli venne dato per-

ché il rosso vivo della carne ricorda il

rosso acceso e smagliante, potremmo

dire lucido, di alcuni dipinti di Vittore

Carpaccio, altro artista veneziano.

È un piatto oggi talmente famoso da

indicare con questo nome non più sol-

tanto la ricetta originale dell'Harry's

Bar ma, genericamente, un piatto a ba-

se di fettine di carne o pesce crudi o

semi-crudi a cui vengono aggiunti olio

e scaglie di formaggio grana o altri in-

gredienti a seconda della versione.

Vittore Carpaccio, San Giorgio e il drago, 1502, tempera su te-

la, 141x360 cm, Scuola di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia.

Vittore Carpaccio,

La Visione

di Sant’Agostino,

1502,

tempera su tela,

141x210 cm,

Scuola di San Giorgio

degli Schiavoni,

Venezia.

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Nel XVII secolo la porcellana orientale

era un prezioso prodotto di importazio-

ne, fornito per lo più dalla Compagnia

Olandese delle Indie Orientali, che ne

aveva stabilito il commercio nella città

di Delft.

Le porcellane cinesi e giapponesi erano

considerate in Europa uno status sym-

bol di ricchezza, importanza e gusto

raffinato.

La porcellana venne prodotta per la

prima volta in Cina, probabilmente du-

rante il dominio della dinastia Tang,

con una produzione limitata almeno

all’inizio a vasetti monocromatici.

Durante le epoche successive, verso

l’Anno Mille, la produzione cinese di-

venne di ottima qualità e conseguente-

mente l'imperatore decise di istituire

fabbriche imperiali per la realizzazione

dei pezzi destinati alla corte.

Con l'avvento della dinastia Ming la

porcellana in Cina raggiunse la mag-

gior produzione e diffusione.

Da noi in Europa le prime testimonian-

ze scritte relative alla porcellana risal-

gono al Milione di Marco Polo, che

descrivendo la città di Tiungu, narra

della raffinata produzione di scodelle

di porcellana.

A partire da questo periodo arrivarono

in Europa i primi oggetti di porcellana

attraverso la Persia, l'Egitto, Costanti-

nopoli e Venezia per entrare a far parte

dei tesori di nobili e potenti, tanto da

essere chiamata “oro bianco”.

Se i piatti di terraglia si impregnavano

degli odori del cibo nel giro di poco

tempo, quelli di porcellana avevano il

privilegio di restare intonsi e senza

contaminazione di alcun genere.

Nel corso del tempo, soprattutto a par-

tire dal Rinascimento, non erano man-

cati i tentativi di riproduzione locale

della porcellana, incontrando tuttavia il

fallimento.

A partire dalla fine del XVI secolo la

porcellana si diffuse tra le classi agiate

e divenne oggetto di uso quotidiano e

una delle principali cause della diffu-

sione della porcellana in Europa fu l'e-

stendersi dell'uso di bevande in tazza:

tè, caffè e sicuramente la cioccolata.

Gli europei tentarono più volte di rag-

I segreti dell’oro bianco di Meissen

Centrotavola e Stand con coppia di zucchero semolato olio e ace-

to o ampolla, circa 1737, Meissen manifattura di porcellana mo-

dellata da Johann Joachim Kandler, Art Institute of Chicago

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giungere la perfezione della porcellana

dura cinese, senza tuttavia riuscirci.

Risultati di qualche valore furono con-

seguiti solo nella Firenze del Cinque-

cento, grazie ad alcuni laboratori du-

rante il governo di Francesco I Medici,

che riuscirono ad ottenere un tipo di

porcellana a pasta tenera conosciuta

come Porcellana Medicea, non perfetta

sul piano tecnico ma in qualche modo

simile al modello originale.

Veniva spesso decorata con motivi blu

cobalto, vagamente ispirati alla con-

temporanea produzione cinese. Se ne

conoscono in tutto una cinquantina di

pezzi ma la produzione terminò poco

dopo la morte di Francesco I Medici.

La situazione cambiò alla fine del 1707

quando, alla corte dell'elettore di Sas-

sonia Augusto il Forte, il barone Eh-

renfried Walther von Tschirnhaus, aiu-

tato dall'alchimista Johann Friedrich

Böttger, trovò una formula per produr-

re la porcellana dura: bisognava ag-

giungere caolino.

Nel 1710 fu fondato il primo grande

centro di produzione di porcellana eu-

ropea a Meissen, vicino a Dresda.

Inizialmente la Manifattura di Meissen

poté godere di una forma di monopolio

sulla produzione di porcellana dura.

Successivamente, attraverso naturali

spostamenti e licenziamenti di collabo-

ratori, i segreti della produzione della

porcellana dura si diffusero nel resto

dell'Europa.

Lo stile della porcellana europea si

ispirò inizialmente ai modelli orientali

per forme e decorazioni; successiva-

mente gli artisti iniziarono una produ-

zione più originale, ispirandosi agli stili

dell'arte europea, al Barocco, al Roco-

cò e alle forme del Neoclassico.

Servizio da tavola in porcellana di Meissen decorato in blu cobalto, XIX-XX secolo,

per ventisei commensali. Battuto ad una recente asta a 18.500€.

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La Storia insegna che l’acqua è un be-

ne prezioso, talvolta in grado di sov-

vertire le sorti di una guerra.

La caduta dell'Impero Romano d’Occi-

dente vide l’inizio della graduale di-

struzione dei celebri acquedotti romani;

i primi danneggiamenti furono legati

alle calate dei barbari, i Visigoti di Ala-

rico nel 410 d. C., i Vandali di Genseri-

co nel 455 e gli Eruli di Odoacre nel

476.

Ma è nel 534, in occasione dell'assedio

di Roma posto dal re dei Goti, che gli

acquedotti svolsero un ruolo fonda-

mentale nelle vicende belliche.

La guerra gotica contro i bizantini di

Giustiniano è certamente una delle pa-

gine più tragiche della storia di Roma.

I Goti si accamparono nella campagna

romana, area presso la quale si incro-

ciavano più acquedotti; qui possenti

arcate sostenevano l’Acquedotto

dell'Acqua Marcia, Tepula, Giulia,

Claudia e l'Anio Novus.

Sia gli assedianti che gli assediati mu-

rarono in più punti gli acquedotti, nel

tentativo di mettere in difficoltà il ne-

mico, riuscendo più che altro a mettere

in ginocchio la popolazione.

L'assedio fu tolto nel 538 d.C. ma da

allora, e per quasi mille anni, Roma fu

in gran parte privata delle sue acque.

Una nuova figura si disegnò allora nel-

lo scenario sociale dell’epoca: coloro

che vendevano acqua.

Durante il Medioevo l'approvvigiona-

mento idrico fu garantito ai pochi abi-

tanti rimasti dagli acquarioli o acquare-

nari che distribuivano casa per casa

l'acqua proveniente probabilmente dal-

le poche fontane rimaste in funzione.

La Fontana del Facchino, sita in Via

Lata, potrebbe esser stata dedicata a

questa singolare figura di imprenditore.

Roma: gradite un bicchiere d’acqua?

Anno Domini 600.

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Secondo alcuni fu opera di Michelan-

gelo. Sorvolerei su questa attribuzione

avvicinandomi invece al nome di Iaco-

pino del Conte, artista al quale è con

più sicurezza assegnata (anno 1580).

La decadenza della Roma medievale

portò allo smantellamento definitivo

delle fontane monumentali per il recu-

pero dei materiali mentre vasche e ba-

cini vennero riutilizzati a fini agricoli

come abbeveratoi per il bestiame.

L'unico acquedotto più o meno funzio-

nante a quell’epoca era quello dell'A-

qua Virgo.

Dei pozzi vennero scavati soprattutto

nei pressi di conventi e chiese, per assi-

curare un minimo livello igienico e l'ir-

rigazione di orti e giardini dei religiosi.

La più nota e famosa fontana della cri-

stianità romana è quella dell'antica ba-

silica di San Pietro in Vaticano, con-

temporanea all'edificazione della prima

basilica in epoca paleocristiana, com-

posta da un tempietto colonnato conte-

nente una vasca quadrata al cui centro

era posizionata un’enorme pigna bron-

zea. Quella stessa posta oggi nel Corti-

le del Belvedere, all'interno della Città

del Vaticano, dopo lo smantellamento

seguito, nel XVI secolo, alla completa

riedificazione della basilica all’epoca

di Michelangelo prima e Bernini poi.

Dalla pigna, dotata di minuscoli forelli-

ni, l’acqua usciva in sottili rivoli.

In modo simile, fino al 1936, funziona-

va la fontana denominata Meta Sudans.

Costruita nei pressi dell'Arco di Co-

stantino, nel punto in cui il corteo

trionfale svoltava per imboccare la Via

Sacra, questa fontana venne costruita

da Domiziano forse su una struttura

preesistente, per essere poi purtroppo

distrutta nel 1936 per problemi viari

connessi con l'apertura di via dell'Im-

pero durante il periodo fascista.

Un disco in pietra ne segna oggi la po-

sizione.

Si trattava di una struttura conica, so-

migliante alle “metae” poste alle estre-

mità della pista dei circhi da cui l'ac-

qua, anziché zampillare, stillava diret-

tamente dalla pietra porosa, come se

questa “sudasse”.

Le meraviglie dell’Italia, presenti o no,

distrutte o ancora in piedi, non smette-

ranno mai di stupirci.

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In Sicilia, la presenza araba venne so-

stituita dal potere cristiano per azione

di Ruggero d’Altavilla, che conquistò

prima Messina nel 1061 e successiva-

mente Palermo circa dieci anni dopo.

Durante la dominazione normanna,

grazie alla tolleranza di Ruggero II, re

di Sicilia tra il 1130 e il 1154, la Sicilia

divenne il centro di una cultura se vo-

gliamo molto moderna, un mix di mon-

do arabo e cristiano che riusciva a fon-

dere armoniosamente le correnti bizan-

tine e musulmane.

Scienziati e poeti convergevano verso

questo regno, dove gli europei poteva-

no attingere alle fonti del sapere antico

grazie alla mediazione degli scrittori e

dei traduttori arabi.

Sotto Guglielmo II, successore di Rug-

gero II, la situazione rimase in equili-

brio, deterioratasi successivamente a

causa della presenza di cristiani france-

si che imposero un clima da Crociata:

alla morte del sovrano, nel 1189, si

scatenarono sanguinose persecuzioni

contro i musulmani.

L’arte palermitana mostra l’influenza

araba in una serie di edifici tra cui la

celebre Cappella Palatina, in altri luo-

ghi e nel celebre palazzo della Zisa.

Costruito nel 1185 ha un aspetto mas-

siccio, con l’alta facciata divisa nei tre

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piani. Dall’ingresso si accede ad una

lunga e vasta sala che si conclude con

una nicchia, una sorta di iwan, elemen-

to tipico dell’architettura islamica, de-

corato con un mosaico bizantino e che

rappresenta una scena di caccia reale su

fondo oro.

Questa decorazione è posta sopra una

fontana interna che sgorga sotto una

volta di stallatiti scolpite: i getti d’ac-

qua scorrevano lungo un piano inclina-

to, riprendendo una consuetudine già

attestata nella rotonda dalle Domus

Aurea di Nerone a Roma.

Il nome deriva dall’arabo, al-ʿAzīza,

ovverosia "la splendida".

La storia di questa straordinaria struttu-

ra architettonica, che andremo ad ap-

profondire, insegna quanto ogni civiltà

affondi le proprie radici in quella del

vicino: lo sa bene chi è appassionato di

arte e di archeologia!

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Ritornare a visitare il Museo Egizio di

Torino non è replicare una visita

museale già fatta. La suggestione che

mi evoca è sempre quella della prima

volta e quindi si tratta di un fascino che

si attualizza costantemente.

La Fondazione fa del suo meglio per

presentare una collezione sempre

diversa nei temi e negli

approfondimenti. Questo permette

all’appassionato di replicare le proprie

visite perché sa che troverà, ogni volta,

qualcosa di nuovo che non aveva

ancora visto. D’obbligo poi una visita

al bookshop per scoprire gli ultimi testi

pubblicati e aggiornati.

Una delle cose, fra le molte, che rende

unico il museo torinese è l’esibizione

permanente della tomba di Kha.

Riepiloghiamo brevemente le vicende

che portarono alla scoperta della TT8.

Fino al 15 febbraio del 1906

dell’architetto Kha e della sua sposa

Meryt si conosceva perfettamente

l’ubicazione della cappella funeraria

catalogata appunto con il codice

Theban Tomb 8. Dei due coniugi si

sapeva lo status sociale e alcuni

dettagli della loro vita privata anche

per via di una stele funeraria che

faceva parte della collezione Drovetti.

Si trattava della collezione che,

acquistata dai Savoia, diede origine al

Museo Egizio di Torino.

Perciò nel capoluogo piemontese

l’architetto reale Kha non era

propriamente uno sconosciuto. Ciò che

lo rendeva particolare era il fatto che,

pur avendo repertate una sua stele e la

cappella, al di sotto di questa non era

stato ritrovato nessun pozzo funerario.

La situazione cambiò improvvisamente

il 15 febbraio del 1906 quando l’allora

Direttore del Museo Egizio di Torino,

Ernesto Schiaparelli (1856-1928) e

l’Ispettore delle Antichità Arhtur

Weigall (1880-1934) aprirono la porta

che sigillava una tomba trovata in

fondo ad un pozzo venticinque metri

più a Nord della cappella di Kha e

Meryt . Si trattava effettivamente del

loro ipogeo e, per la sua posizione non

ortodossa, si trattò di una scoperta

assolutamente eccezionale perché la

sua ubicazione inusuale l’aveva messa

al sicuro dalle predazioni.

Pur non essendo una sepoltura reale,

ma quella infinitamente più semplice di

un funzionario, la sua importanza resta

tutt’ora notevole visto che sono

rarissime le tombe egizie ritrovate

intatte specie quelle del Nuovo Regno.

Dato che i suoi titoli non sono

Qualcosa di Kha e Meryt

Entrata della cappella di Kha, oggi. Non è il pozzo funerario. Fonte: https://egyptmyluxor.weebly.com/kha-tomb-tt8---deir-el-medina---luxor.html

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numerosi e particolarmente elevati, si

ritiene che Kha non fosse di nobile

lignaggio ma che nonostante ciò sia

arrivato a ricoprire il ruolo di Direttore

delle opere reali di Deir el Medina,

cioè costruttore delle tombe della Valle

dei Re! Una responsabilità così elevata,

partendo da un rango modesto, non può

che indicare una forte valutazione

meritocratica del nostro architetto.

Kha servì ben tre re: Amenhotep II,

Thutmose IV e Amenhotep III. Siamo

quindi in pieno Nuovo Regno e XVIII

dinastia. Indubbiamente la più celebre

di tutta la storia egizia.

* * *

Che aspetto aveva? Facendo le

opportune considerazioni sul fatto che

la plastica egizia non era propriamente

ritrattistica come la intendiamo noi

oggi, possiamo averne visione da una

piccola statua che lo immortala e che

era posta su una sedia vicino al

sarcofago di Meryt.

Essa riporta una colonna di geroglifici

che si legge da destra a sinistra e

dall’alto verso il basso:

prrt nbt Hr wDHw n imn (ny-)swt nTrw pereret nebet her ugehu en imen ni-sut neceru Ciò che esce tutto sulla tavola d’offerta di Amon, re degli dèi,

n kA n Hry st aA xa mAa-xrw en ca en heri set aa kha maa-cheru per il ka del Custode del Luogo Grande, Kha, giusto di voce.

Statuetta di Kha, rinvenuta stante su una sedia nell’ipogeo. Fonte: https://egyptianhistorypodcast.com/2020/01/15/kha-and-merit/

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Con le parole Luogo Grande si definiva

la tomba del re. In questo caso quindi

Kha è identificato come l’architetto

incaricato alla costruzione della tomba

del re che era in carica in quel periodo.

La dizione Giusto di voce si attribuisce

invece al defunto che non mente in

merito alla sua buona condotta in vita

durante la psicostasia. Al momento

della pesatura dell’anima il suo cuore è

leggero come la piuma della dea Maat

e quindi non è carico di cattive azioni

(non si parla di peccati nell’antico

Egitto). Pertanto può restare per

l’eternità con gli dèi che lo hanno

appena giudicato positivamente.

L’integrità del sacello ha permesso di

catalogare più di cinquecento oggetti

tra quelli specifici dell’inumazione e

quelli invece di uso comune. Questi

ultimi permettevano al defunto di

continuare la propria attività anche

nell’Aldilà.

Tra gli oggetti repertati sono

particolarmente importanti i due

sarcofagi a forma parallelepipeda,

maggiore quello di Kha, più piccolo

quello di Meryt. La mummia della

sposa è contenuta, a sua volta, in un

sarcofago antropomorfo che è di molto

più grande e ciò significa che Meryt

morì prima di Kha. Questi, infatti, le

donò un sarcofago che era stato

preparato per lui. Ne deduciamo,

perciò, che la morte di Meryt fu

inaspettata poiché il suo corredo

funerario non era ancora pronto.

Kha e Meryt ebbero almeno tre figli,

due maschi e una femmina. Uno dei

maschi, Amenemopet proseguì la

carriera del padre, mentre del secondo,

Nakhteftaneb non sappiamo che

professione abbia fatto. La figlia, che

portava lo stesso nome della madre e

che gli egittologi hanno ribatezzato

Meryt II, divenne una cantatrice di

Amon, rivestendo un ruolo cultuale.

Il mobile porta parrucca di Meryt. Si legge perfettamente

il nome della proprietaria nell’etichetta posta davanti. Fonte: https://egyptianhistorypodcast.com/2020/01/15/kha-and-merit/

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Tutti sopravvissero alla madre.

* * *

La tomba ha restituito molti degli

oggetti di Meryt dalla biancheria agli

accessori di toelettatura.

Uno di questi è particolare.

Si tratta di un mobile la cui funzione è

quella di custodire la parrucca che

Meryt si era fatta fare. Non c’è dubbio

sulla proprietaria. Proprio nella parte

anteriore compare un’etichetta in

geroglifico che recita una consueta

formula offertoria funeraria in uno stile

molto abbreviato:

bordo sul quale si appoggia è formato

con la classica gola egizia.

Anche il coperchio riporta una colonna

di segni geroglifici, questa volta più

lunga di quella del lato frontale.

Essa recita:

Htp di (ny-)swt wsir hetep di ni-sut usir Un’offerta che il re dà ad Osiride

n kA n mryt en ca en merit per il ka di Meryt.

Il mobile è stato fabbricato in legno di

acacia. La sua altezza è pari a 110 cm

circa mentre la sua profondità e la

larghezza si avvicinano ai 50 cm.

Insomma, un armadietto in cui veniva

custodita un’acconciatura che doveva

avere anche un certo peso economico.

La sua forma è però particolare. Infatti

ci ricorda quella di un santuario egizio.

Il coperchio non è piatto e piano come

ci si aspetterebbe ma ha una curvatura

che lo fa sembrare ad un naos. Inoltre il

Htp di (ny-)swt wsir nTr aA HqA Dt hetep di ni-sut usir necer aa heca get Un’offerta che il re dà ad Osiride, dio grande, governatore dell’eternità,

rdi.f prt-xrw n kA n mryt redi.ef peret-cheru en ca en merit (affinché) dia egli un’invocazione d’offerta per il ka di Meryt.

Il coperchio del mobile porta parrucca di Meryt. Fonte: http://www.deirelmedina.com/lenka/TurinKha.html

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Anche questa, per essere una formula

offertoria funeraria, non è completa. È

già più estesa della precedente ma

manca di alcune parti classiche.

In ogni caso ci permette di

comprendere come il re fosse

intermediario tra il defunto e le

divinità. Il sovrano fa un’offerta ad

Osiride affinché questi esprima una

lista di beni di cui il defunto avrà

bisogno per continuare la sua esistenza

nell’Aldilà. Essendo scritta in

geroglifico, scrittura magica che invera

la realtà, questa dichiarazione

(letteralmente uscita di voce, peret-

cheru) di Osiride si tramuterà nei beni

materiali per il sostentamento del

trapassato.

Ai lati del geroglifico del remo

compaiono due teste: una bovina e una

avicola. Sono una sintesi per indicare

non solo carni specifiche, ma tutto

quanto il defunto avrà bisogno per

l’eternità, tessuti ed unguenti compresi.

* * *

Le mie visite da bambino al Museo

Egizio sono servite più ad aumentare le

domande che a trovare le risposte.

La curiosità era tanta ma la passione

doveva ancora esplodere e mio padre

non risolveva quesiti egittologici.

La tappa d’obbligo costante era la

collezione di Kha. Già solo il fatto che

sia stata trovata intatta la rende ancora

oggi speciale agli occhi dei bambini.

Un gioco infantile consisteva nel capire

Una strana custodia (vuota). Fonte: https://www.flickr.com/photos/menesje/5503383789 (Hans Ollermann, 2011)

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se un oggetto di Kha e Meryt fosse

ancora attuale. Se il suo uso avesse

attraversato secoli di storia e civiltà

diverse da essere anche mio: sgabello,

vestito, parrucca, letto, tazza… Per

contrasto quelli caduti in disuso:

sarcofago, cubito… e quello cos’è?

A leggere l’etichetta museale

dell’epoca c’è scritto Astuccio per

bilancia. Certo che come bilancia è

molto strana…

Anche se ci è voluto del tempo, il

destino di ogni quesito è quello di

essere risolto. Vediamo di focalizzare

meglio la questione.

Innanzi tutto è un astuccio, nel senso

che è solo un astuccio. Punto. Una

custodia vuota. E allora lo strumento

dov’è? Bella domanda. Qualcuno non

lo avrà rimesso nella custodia perché

gli sarà servito ancora. Vi ricordate che

uno dei figli maschi era anch’egli un

architetto? Se Kha fu seppellito con un

cubito reale d’oro, dono del re

Amenhotep II, e con un cubito

pieghevole con tanto di fodero in

cuoio, strumento tipico da cantiere,

vuol dire che questi erano strumenti

piuttosto comuni rispetto all’altro.

Qualcuno a cui serviva ancora lasciò

l’astuccio vuoto nella tomba ma si

tenne stretto stretto uno strumento che

non era facilmente sostituibile.

Effettivamente un’idea di equilibrio la

custodia la offre. C’è quella specie di

ruota di un certo spessore che potrebbe

stare in piedi da sola. Sul braccio

orizzontale ci sono una serie di

ventinove dischi o tacche ma solo

l’ottavo e l’undicesimo hanno una

cornice tonda doppia mentre tutti gli

altri segni hanno una cornice sola: per

quale motivo non è dato sapere.

Forse per pesare si ponevano delle

masse campionate su un braccio e

sull’altro i materiali da ponderare. Va

da sé che la bilancia è incompleta,

mancherebbero tutti gli accessori. Ma

perché un architetto doveva pesare in

prima persona dei materiali?

E poi le dimensioni della bilancia non

sono certo quello per valutare dei

materiali in un cantiere edile, piuttosto

sembrerebbe servire per misurazioni

fini. Ma Kha era un architetto e non un

farmacista!

Quando una domanda non dà una

risposta è opportuno sempre rovesciare

la prospettiva con la quale si guardano

le cose.

E se il modo con la quale la custodia è

esposta fosse sbagliato? Quando non

conosci la natura di un oggetto è

difficile prenderlo per il lato giusto! È

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un po’ la fatica che fanno coloro che

allestiscono le mostre di quadri astratti:

l’avrò appeso dal lato giusto?

Il quesito non me lo sono posto io ma

se lo pose la dottoressa Amelia

Carolina Sparavigna del Dipartimento

di Fisica del Politecnico di Torino.

Il 25 luglio del 2011 presentò una

relazione alla Cornell University di

Ithaca, nello Stato di New York.

Secondo la docente lo strumento va

usato diversamente: ce lo hanno fatto

sempre vedere rovesciato.

La Sparavigna inizia la sua analisi dalla

decorazione che appare sulla ruota. A

lei sembra di vedere una specie di rosa

dei venti. Il conteggio delle foglie

produce un 16 che le ricorda la

frazione 1/16, uno dei valori che

compone matematicamente l’Udjat,

l’Occhio di Horus.

Inoltre la rosa dei venti è circondata da

una cornice che presenta 18 angoli i

quali sono formati da 36 segmenti.

Anche questo è un valore che alla

Sparavigna richiama qualcosa: i

decani, i 36 gruppi di stelle che si

alzano in successione dall’orizzonte a

causa della rotazione terrestre.

Il risultato finale di queste analisi è che

la ruota supporti due scale di

misurazione: una basata sulle frazioni

egizie e l’altra basata sui Decani.

D’accordo, ma per misurare cosa?

La Sparavigna ci fa notare che

l’oggetto possiede un coperchio.

Rimuovendolo si mette in luce una

superficie perfettamente lineare che si

può appoggiare su una superficie liscia

in questo modo:

Se sovrapponiamo un filo a piombo e

questi attraversa le foglie 1-16 verso la

8-9, avremo la certezza che il piano su

cui abbiamo appoggiato lo strumento

sia perfettamente orizzontale.

Su un piano inclinato, però, la

situazione sarebbe la seguente:

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Se la superficie su cui è appoggiato lo

strumento è inclinata anche la

direzione della rosa dei venti è

inclinata formando un certo angolo

rispetto alla verticale, quest’ultima

sempre dimostrata dal filo a piombo.

A questo punto la Sparavigna ci aiuta a

capire facendo una similitudine:

L’angolo b evidenziato dal filo a

piombo sovrapposto allo strumento è

identico all’angolo a del piano

inclinato.

La considerazione alla quale arrivò la

docente torinese è che la geometria

nacque proprio come una scienza

pratica per misurare lunghezze,

superfici e volumi.

Pertanto la Sparavigna ne dedusse che

Kha, avrebbe potuto usare il suo strano

strumento, beninteso con il supporto di

un semplice filo a piombo, per una

misurazione pratica delle inclinazioni

da produrre in cantiere.

In soldoni, Kha era in possesso di uno

dei primi dispositivi atto a misurare gli

angoli: possedeva un goniometro!

Al lavoro intellettuale della Sparavigna

mi sento di aggiungere solo un paio di

osservazioni.

Innanzi tutto quello che noi abbiamo

definito coperchio. Un coperchio

chiude e tappa un contenitore a

salvaguardia del contenuto. A me

sembra, invece, che la sua funzione

fosse quella di proteggere la parte più

Pozzo di

accesso

Scala

murata

Primo corridoio

murato

Secondo corridoio

murato

Camera

funeraria

Sezione del pozzo funerario di Kha e Meryt. Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=reKqnzgycZU

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delicata dello strumento: cioè la base

perfettamente piana sulla quale doveva

poggiare per svolgere la sua

funzionalità. Durante le attività di

cantiere il dispositivo avrebbe potuto

subire sfregamenti e urti che, con il

passare del tempo, ne avrebbero

sbeccato il piano d’appoggio rendendo

ben presto impreciso l’apparecchio. Il

coperchio, invece, ne tutelava la parte

sensibile e veniva rimosso solo in fase

operativa.

Da ciò deduciamo una seconda

osservazione.

Non è un contenitore, ma è proprio lo

strumento in sé. La faccenda del

coperchio lo fece considerare la

custodia di un attrezzo quando,

all’opposto, esso era proprio lo

strumento completo.

Sarcofago di

Kha

Sarcofago di

Meryt

Statuina di

Kha

Armadietto

porta parrucca

Restituzione grafica tridimensionale della camera funeraria di Kha e Meryt. Fonte: https://www.youtube.com/watch?v=UkQ2AbgxxzQ

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La Repubblica promuove lo

sviluppo della cultura e la ricerca

scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio

storico e artistico della Nazione.

Articolo 9

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Fondare biblioteche è come costruire ancora granai pubblici, ammassare riserve contro un inverno dello spirito che, da molti indizi, mio malgrado, vedo venire."

Marguerite Yourcenar, Memorie di Adriano, 1951.

26 06 20 14

Bere un quadro di Bellini, assaggiare una tela di Carpaccio Giuseppe Cipriani, veronese nato nel 1900, forse è un nome che vi dirà poco e probabilmente la vostra memoria dovrà scavare un po’ prima di trovare qualche indizio utile. Qualche aiuto potreb-bero essere “Venezia”, “primi anni del secolo scorso” e “Bellini”. Giuseppe Cipriani fu il fondatore dell’Harry’s Bar, famoso locale di Venezia, aperto ancora oggi, situato vicino Piazza San Marco. I segreti dell’oro bianco di Meissen Nel XVII secolo la porcellana orientale era un prezioso prodotto di importazione, fornito per lo più dalla Compagnia Olandese delle Indie Orientali, che ne aveva stabilito il commercio nella città di Delft. Le porcellane cinesi e giapponesi erano considerate in Europa uno status symbol di ricchezza, im-portanza e gusto raffinato. Roma: gradite un bicchiere d’acqua? Anno Domini 600 La Storia insegna che l’acqua è un bene prezioso, talvolta in grado di sovvertire le sorti di una guerra. La caduta dell'Impero Romano d’Occidente vide l’inizio della graduale distruzione dei celebri ac-quedotti romani; i primi danneggiamenti furono legati alle calate dei barbari, i Visigoti di Alarico nel 410 d. C., i Vandali di Genserico nel 455 e gli Eruli di Odoacre nel 476. Civiltà, un insieme di Civiltà In Sicilia, la presenza araba venne sostituita dal potere cristiano per azione di Ruggero d’Altavilla, che conquistò prima Messina nel 1061 e successivamente Palermo circa dieci anni dopo. Durante la dominazione normanna, grazie alla tolleranza di Ruggero II, re di Sicilia tra il 1130 e il 1154, la Sicilia divenne il centro di una cultura se vogliamo molto moderna, un mix di mondo arabo e cristiano che riusciva a fondere armoniosamente le correnti bizantine e musulmane. Qualcosa di Kha e Meryt Ritornare a visitare il Museo Egizio di Torino non è replicare una visita museale già fatta. La sugge-stione che mi evoca è sempre quella della prima volta e quindi si tratta di un fascino che si attualiz-za costantemente. La Fondazione fa del suo meglio per presentare una collezione sempre diversa nei temi e negli approfondimenti. Questo permette all’appassionato di replicare le proprie visite perché sa che tro-verà, ogni volta, qualcosa di nuovo che non aveva ancora visto. Fonte immagine copertina anteriore: https://stretchingtheboundaries.blogspot.com/2011/08/khas-protractor.html Fonte immagine copertina posteriore: https://en.wikipedia.org/wiki/File:Statuette_of_Kha_(TT8).jpg