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Oxford Library Oxford Library - Silvana Cincotti e Livio Secco venerdì 24 aprile 2020 N.5 [email protected] * [email protected] Salvo diversamente indicato, le immagini sono tratte dal web 1 Non avere nulla nella tua casa che non sai essere utile o credi essere bello. William Morris è uno dei primi artisti ad essere riconosciuto come designer. Siamo nell’Ottocento, figura chiave nel movimento conosciuto come Arts & Crafts, egli sostenne sempre il principio di produzione artigianale nonostante l’entusiasmo e l’attenzione, in epoca vittoriana, sul processo di produzione industriale. Nacque a Walthamstow, nella zona est di Londra nel 1834 e il benessere economico della famiglia gli permise un'infanzia privilegiata nonché un'eredità abbastanza cospicua da permettergli di non avere bisogno di un reddito. Il tempo trascorso ad esplorare i parchi, le foreste e le chiese locali e l'entusiasmo per le storie di Walter Scott, lo aiutarono a sviluppare una forte affinità con il paesaggio, gli edifici e il romanticismo storico. Iniziò gli studi all'Università di Oxford e qui incontrò alcuni amici che divennero fondamentali per la sua formazione artistica, tra cui Edward Burne-Jones, che sarebbe diventato uno dei pittori più famosi dell'epoca. Nel 1855, Morris e Burne-Jones intrapresero un tour architettonico nel nord della Francia, comprendendo entrambi quanto fossero più attirati dall’architettura che dallo studio all’università. Poco dopo, Morris iniziò a lavorare nell'ufficio di George Edmund Street, il principale architetto neo- gotico dell'epoca ma lasciò l'ufficio di Street dopo soli otto mesi, per iniziare una carriera come artista. Il contatto con Burne-Jones e con il celebre Dante Gabriele Rossetti, portò presto a Morris a maturare uno stile decorativo personale. Mentre lavorava a Oxford, ebbe l'opportunità di conoscere Jane Burden,

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Oxford Library Oxford Library - Silvana Cincotti e Livio Secco – venerdì 24 aprile 2020 – N.5

[email protected] * [email protected]

Salvo diversamente indicato, le immagini sono tratte dal web

1

Non avere nulla nella tua casa

che non sai essere utile o credi essere bello.

William Morris è uno dei primi artisti ad essere

riconosciuto come designer. Siamo nell’Ottocento,

figura chiave nel movimento conosciuto come Arts &

Crafts, egli sostenne sempre il principio di produzione

artigianale nonostante l’entusiasmo e l’attenzione, in

epoca vittoriana, sul processo di produzione industriale.

Nacque a Walthamstow, nella zona est di Londra nel

1834 e il benessere economico della famiglia gli permise

un'infanzia privilegiata nonché un'eredità abbastanza

cospicua da permettergli di non avere bisogno di un

reddito. Il tempo trascorso ad esplorare i parchi, le

foreste e le chiese locali e l'entusiasmo per le storie di

Walter Scott, lo aiutarono a sviluppare una forte affinità

con il paesaggio, gli edifici e il romanticismo storico. Iniziò gli studi all'Università di Oxford e qui

incontrò alcuni amici che divennero fondamentali per la sua formazione artistica, tra cui Edward

Burne-Jones, che sarebbe diventato uno dei pittori più famosi dell'epoca.

Nel 1855, Morris e Burne-Jones intrapresero un tour architettonico nel nord della Francia,

comprendendo entrambi quanto fossero più attirati dall’architettura che dallo studio all’università.

Poco dopo, Morris iniziò a lavorare nell'ufficio di George Edmund Street, il principale architetto neo-

gotico dell'epoca ma lasciò l'ufficio di

Street dopo soli otto mesi, per iniziare

una carriera come artista. Il contatto con

Burne-Jones e con il celebre Dante

Gabriele Rossetti, portò presto a Morris

a maturare uno stile decorativo

personale.

Mentre lavorava a Oxford, ebbe

l'opportunità di conoscere Jane Burden,

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la figlia di uno stalliere locale. Disinteressato alle regole

sociali, Morris sposò Jane nel 1859 e la bellezza sorprendente

della donna, la pelle candida, la sua languida silhouette e la

folta chioma corvina, ne fecero un modello di bellezza

idealizzata dagli artisti dell’epoca per i successivi trent'anni.

Morris commissionò all'architetto Philip Webb, la

progettazione e la costruzione di una casa nelle campagne del

Kent; voleva realizzare una comunità artistica basata

sull'artigianato, un progetto di cui lui e Burne-Jones avevano a

lungo discusso. Il risultato fu la Red House, una proprietà che

sarebbe stata "medievale nello spirito" e in grado di ospitare

più di una famiglia. Morris e Jane si trasferirono nella Casa

Rossa nel 1860 e, scontenti di ciò che era in commercio, trascorsero i due anni successivi a arredare

e decorare gli interni con l'aiuto dei membri della loro cerchia artistica. Soprattutto iniziarono una

splendida produzione di tessuti ricamati a mano, creando l'atmosfera di un maniero storico. Spinti dal

successo dei loro sforzi e dall'esperienza di "gioia nel lavoro collettivo", Morris e i suoi amici decisero

nel 1861 di fondare una prima società di Studio di Interni, tra i primi nella storia del design. Sebbene

nei primi anni la compagnia non guadagnasse molto, vinse una serie di commissioni per decorare

chiese di nuova costruzione e divenne famosa per la creazione ed il restauro di vetrate. Nonostante il

desiderio di mantenere i laboratori nella Red House, le restrizioni pratiche di un piccolo laboratorio

rurale ne determinarono la chiusura. La Red House fu venduta nel 1865 e la famiglia tornò a Londra.

Alla fine del 1860, due prestigiose commissioni di decorazione contribuirono a stabilire la

reputazione del lavoro di Morris: una per una nuova sala da pranzo al South Kensington Museum

(che più tardi diventerà il celebre Victoria & Albert Museum) e

un'altra al St. James's Palace. Durante questo periodo, Morris

lavorò al progetto letterario The Earthly Paradise, un poema epico

con un messaggio anti-industriale e iniziò la produzione dei suoi

primi sfondi, i cui disegni erano ispirati ai giardini inglesi e alle

siepi. Per realizzarli riportò in vita antichi metodi di stampa e di

tintura e nel corso del decennio successivo continuò a progettarne

ad un ritmo impressionante, creando collezioni di tessuti stampati,

carte da parati, tappeti, moquette, ricami e arazzi. Con moderno

spirito imprenditoriale, tutto era acquistabile nel negozio che

Morris aprì a Oxford Street nel 1877, in uno spazio alla moda che

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offriva un nuovo tipo di esperienza di vendita, con

consulenti che potevano creare l’intero ambiente

di una casa. Nel 1881 Morris aveva accumulato

abbastanza capitale per comprare una fabbrica

tessile nel sud di Londra e ciò gli permise di riunire

tutti i workshop dell'azienda in un unico posto e di

avere un controllo più stretto sulla produzione.

Continuò il suo interesse per gli arazzi e negli

ultimi cinque anni della sua vita si dedicò alla

progettazione di un set di pannelli dedicato alla ricerca del Santo Graal. Negli ultimi anni della sua

vita si dedicò all’editoria, stampando e rilegando libri in stile medievale, disegnando caratteri, lettere

iniziali e bordi come un miniaturista medievale. La più famosa di queste edizioni venne pubblicata

nel 1896, pochi mesi prima della morte di Morris.

Piccolo e prezioso

Edo è il vecchio nome della città che oggi conosciamo come Tokyo. Siamo in una forbice temporale

compresa tra l’inizio del 1600 e la prima metà dell’Ottocento. In questo sofisticato centro urbano, in

cui gli uomini indossano abiti alla moda e accessori scelti con cura per dimostrare il loro status e stile

personale, il kimono è d’obbligo. Tuttavia questa veste, a forma di T, non prevede tasche. Potete

immaginare, soprattutto per un uomo d’affari, la limitazione: divenne allora ben presto abitudine

portare appesa alla fascia stretta in vita un sacchetto contenente beni personali, tra cui l’occorrente

per fumare. Dall’altra parte della fascia spuntava, come contrappeso per tenere ferma la borsetta di

tessuto, un piccolo ciondolo, che divenne un vero e proprio status symbol, piccole opere d’arte

finemente lavorate e cesellate: i netuske.

I netsuke (il cui significato è “bottone di legno”) erano utilizzati da tutte le classi sociali, soprattutto

dai commercianti che volevano dimostrare la loro ricchezza, proprio

come gli orologi e i gemelli rivelano nel mondo occidentale il gusto

sartoriale di chi li indossa. Questi monili erano disponibili in una varietà

di forme e materiali; legno, avorio, porcellana, argento e sono oggi di

alto valore collezionistico, apprezzati dai musei ed esposti in tutto il

mondo. I netsuke sono piccoli, possono variare dai quattro ai cinque

centimetri, vere e proprie sculture in miniatura: figure umane, fantasmi,

animali, scheletri, soggetti botanici e maschere. Sapientemente lavorati,

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questi oggetti forniscono una finestra sulla cultura e la vita quotidiana

giapponese. Non sono importanti solo i soggetti, ma come i soggetti

stessi sono trattati: quali abiti indossano i vari personaggi, quali arnesi

o strumenti sono talvolta raffigurati, Alcuni erano talmente tanto

preziosi da riportare la firma dell’artigiano che li aveva creati ed in

questo modo oggi gli studiosi possono ricostruire la presenza sul

territorio delle diverse botteghe d’arte. Quando il Giappone prese parte

all'Esposizione Mondiale di Parigi del 1867 e di Vienna del 1873, le arti

e i manufatti giapponesi divennero di gran moda e i netsuke assunsero

un ruolo principale. Era la stagione dell’Impressionismo e i quadri degli artisti, ricordiamo ad esempio

Van Gogh, si popolarono di motivi che guardavano al Sol Levante. I netsuke divennero presto oggetto

di collezione e le Case d’Asta li quotano oggi per un valore che può raggiungere anche i quattromila

dollari. Un vero e proprio piccolo tesoro.

Una delle collezioni più interessanti è quella posseduta da Edmund de Waal, storico dell’arte e

professore di ceramica alla Università di Westmister, in Inghilterra. Nel suo libro Un’eredità di avorio

e ambra (Bollati Boringhieri, 2011) racconta come queste 264 straordinarie sculture giapponesi, non

più grandi di una scatola di fiammiferi, siano finite in suo possesso. Oggi sono conservati all’interno

di una vetrina, i figli di de Waal possono giocare con questi minuscoli oggetti, come facevano, ha

scoperto l’autore, i piccoli figli di Viktor e Emmy von Ephrussi, suoi bisnonni, nella camera della

madre, in un fastoso palazzo viennese della Ringstrasse, un secolo prima. Prima che Hitler entrasse

in trionfo a Vienna e avessero inizio le persecuzioni e i saccheggi nelle case degli ebrei. Ebrei di

Odessa erano appunto gli Ephrussi, commercianti di cereali e poi banchieri ricchi e famosi quanto i

Rothschild, con ville e palazzi sparsi in tutta Europa. L’imponente edificio di Vienna, dove i netsuke

arrivano nel 1899 da Parigi, dono di nozze di Charles Ephrussi, famoso

collezionista, mecenate, amico di Renoir, Degas e Proust, conteneva

tante e tali opere d’arte che i minuscoli oggetti sfuggirono all’attenzione

dei nazisti. Affascinato dall’eleganza, dalla precisione, dalle

straordinarie qualità tattili delle sculture, l’autore, decide di ricostruire

la storia dei loro passaggi da una città all’altra, da un palazzo all’altro,

da una mano all’altra. Cercando e trovando così le radici della sua

famiglia. Viaggiando per anni tra l’Europa e il Giappone, attingendo a

disparati materiali d’archivio ma soprattutto rivivendo le vicende dei

suoi antenati nei luoghi da loro abitati, osservandole con gli occhi

dell’artista, l’autore dà voce a questi straordinari oggetti d’arte.

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Riprendiamo la lezione su Caravaggio…

Durante i primi anni di permanenza a Roma, Caravaggio

dipinse alcune opere che annunciarono di punto in bianco la

presenza di un talento libero e geniale:

- Giovane che sbuccia un frutto (del quale abbiamo allo stato

attuale solo copie)

- Giovane (forse Bacco) con un grappolo d’uva in mano

- Giovane con cesto di frutta

- Fanciullo morso da un ramarro.

Giovane (forse Bacco) con un grappolo d’uva in mano:

questo quadro è uno dei primi tra quelli realizzati da

Caravaggio. Rappresenta forse un Bacco, un giovinetto con

edera sul capo e un grappolo d’uva in mano. Probabilmente

Caravaggio la dipinse al termine di una convalescenza. Il

soggetto stesso rappresenta una sfida alle convenzioni: Bacco

dio del vino, della danza e della musica era sempre ritratto in

perfetta salute, rubicondo e gioviale, Caravaggio invece lo

trasforma in un malato dalle labbra grigie (forse lui stesso

uscito dall’ospedale), la pelle gialla, la ghirlanda talmente

carica da risultare eccessiva. Una divinità mitica diventa qui

un mortale in ghingheri, immagine non di immortalità ma del

suo opposto, di decadenza, con unghie sporche il dio ci offre

dell'uva talmente matura da essere guasta. Al 1595 risale il

Fanciullo morso da un ramarro. L'opera è un attento

campionario di tutti i talenti che l'artista stava sviluppando, il

riflesso sul vaso di vetro pieno d'acqua, la resa per effetto

dell'improvviso gesto, la pelle arrossata e poi la luce,

straordinaria, netta, concentrata con sapiente intensità sulla

figura. L'abilità dell'artista è chiara da queste prime tele: se

spesso i pittori di genere affollavano la scena con una

moltitudine di personaggi Caravaggio sovverte questa

tendenza, lo spazio pittorico si svuota, poche figure restano

titaniche tanto da essere opprimenti per chi osserva.

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A Roma all'epoca la regola numero uno era il

disegno, saper disegnare permetteva all’artista

di possedere le competenze primarie e

necessarie. Se, nell'ultimo decennio del ‘500, vi

foste aggirati fra le collezioni di statue classiche

appartenenti a papi e cardinali avreste visto

giovani artisti intenti a disegnare studi anatomici

dell'Ercole Farnese, del Laocoonte, dell'Apollo

del Belvedere. Per l'Accademia di San Luca non

poteva esistere arte senza un addestramento

rigoroso al disegno. Di Caravaggio non ci resta

alcun suo schizzo preparatorio tanto meno un

suo disegno di antichità. Queste prime opere (tra cui I bari e La Buona Ventura) stupirono tanto il

mercante d'arte Costantino Spata (suo compagno di bevute, tra l'altro) da fargliele esporre nel suo

negozio in piazza San Luigi dei Francesi. Lì I bari 1596, furono visti e acquistati da qualcuno che

avrebbe cambiato la vita di Caravaggio per sempre: il cardinale Francesco Maria Del Monte. Non era

il cardinale più ricco di Roma, la sua famiglia non era allo stesso livello delle grandi dinastie dei

Farnese, Orsini, Colonna, ma possedeva qualcosa che molti gli invidiavano, un legame diretto con i

Medici granduchi di Firenze. Combinazione vincente di conoscitore d’arte e ecclesiastico aveva

appreso la cultura e la vita di corte nel luogo e dall’uomo che la definirono: ad Urbino, da Baldassarre

Castiglione. Legato alla famiglia Medici (e quindi ai francesi, mentre la famiglia Farnese aveva

legami con gli spagnoli ed avevano assoldato i Carracci), vicino alle posizioni degli Oratoriani, era

rimasto folgorato dalla rivelazione di queste opere. Propose all’autore del quadro vitto, alloggio, uno

studio all’interno di Palazzo Madama (dove

oggi ha sede il Senato) e la possibilità di vivere

alla sua corte. Caravaggio si trasferirà qui e qui

rimase per sei anni a partire dal 1595. Molti

dipinti di questo periodo riflettono la cultura

raffinata e colta in cui si trovò presto ad operare.

Appassionato di musica il cardinale acquistava

strumenti d’ogni genere e provenienza,

commissionava pezzi ai cantanti e ai musicisti

dell’epoca e assoldava i famosi castrati per

organizzare a proprie spese concerti.

I bari, Michelangelo Merisi da Caravaggio, 1594, olio su tela,

94×131 cm, Kimbell Art Museum, Fort Worth

Buona Ventura (prima versione), Caravaggio, tra il 1593 ed il 1595,

Olio su tela, 115×150 cm, Pinacoteca Capitolina, Roma

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UN DIO, UN RE (web liviosecco.it)

Molti sono i gruppi statuari egizi che riempiono di grande emozione gli appassionati che vanno a

visitarli. Saranno le loro dimensioni, oppure i materiali o anche l’abilità dell’artigiano che li

suggestiona quando si pongono davanti ad essi per osservarli!

Un gruppo che da sempre mi ha particolarmente colpito è proprio a Torino e fa bella mostra di sé

nella Galleria dei Re. Il suo numero di catalogo è 768 (RCGE 5488).

È un gruppo importante ma non tra i maggiori. I colossi egizi ci hanno abituato a ben altre dimensioni.

In ogni caso la sua fattura è notevole e la prima impressione nasconde che le misure restano comunque

ragguardevoli essendo 209 cm di altezza, 90 cm di larghezza e 112 cm di profondità.

Pur essendo avvezzi alla qualità della statuaria egizia mi ha sempre impressionato la pulizia di questo

gruppo ricavata da un unico blocco di calcite alabastrina. Le linee sono precise. Reali. Naturali.

Ancora molto amarniane. I due personaggi comunicano immediatamente, al visitatore, tutta la loro

importanza infondendo un atteggiamento di rispetto senza ingenerare timore.

Gli sguardi sono aristocratici. Non comunicano democraticità, ma sudditanza. Sanno di essere

superiori a tutto ciò che li circonda. E nobili lo sono davvero. Assiso è il dio Amon, a lato è il

governatore dell’Egitto unito.

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Amon è facilmente riconoscibile per la tipica corona piumata che indossa. Il modio traccia la forma

base della corona rossa ma al di sopra di essa si innalzano le due piume affiancate tipiche della

divinità. Amon, il nascosto, il dio del vento. Il dio dinastico che, con la XVIII dinastia, permise al suo

clero di assurgere ad una potenza economica mai vista precedentemente e che ben presto sconfinò

nella politica in competizione con la monarchia. Questa sembra essere la ragione della celeberrima

eresia amarniana di Akhenaton.

Accanto, per dimensione e stile delle figure, c’è Tutankhamon. Per gli egittologi il gruppo è databile

proprio alla XVIII dinastia (1550-1295 a.C.), al regno di Tutankhamon (1336-1327 a.C.). Il sovrano

è in piedi accanto al dio. Il suo braccio destro si allunga passando dietro le spalle divine cingendolo

in un abbraccio che testimonia una ritrovata riconciliazione. Il re indossa la nemes con l’uraeus, il

cobra reale, che ne determina la funzione. Le due barbe posticce indossate stabiliscono che stiamo

assistendo ad un importante momento liturgico.

Il gruppo riporta delle epigrafi geroglifiche che lo assegnano ad Horemheb, sovrano che è succeduto

ad Ay il quale era a sua volta succeduto a Tutankhamon. Il breve regno di Tutankhamon, circa nove

anni senza eredi, e quello minore ancora di Ay, quattro anni senza eredi, creò una potenziale crisi

dinastica che fu risolta, per fortuna dell’Egitto, con l’elevazione al trono del comandante dell’esercito

Horemheb. Storicamente Horemheb

conclude la XVIII dinastia che si estinse così

senza discendenti diretti. Essendo un militare

lo si può ritenere un colpo di stato, per buona

sorte, incruento. D’altra parte sul trono

doveva salire un personaggio dall’autorità

riconosciuta dalla monarchia e che fosse

gradito al clero. Il generale non si era fatto

coinvolgere in modo compromettente

dall’eresia di Akhenaton e pertanto risultava

l’individuo più papabile.

Si dimostrò un sovrano energico. Perseguì

pesantemente la corruzione che era diventata

opprimente e fuori controllo proseguendo la

ricomposizione dell’eresia amarniana con

polso. Al clero di Amon fu concesso solo

quanto non era possibile rifiutare senza farne

un avversario vittorioso in assoluto. Il culto

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di Amon fu ripristinato dopo quello di Ra e di Ptah e gli

interessi economici sequestrati da Akhenaton furono ristabiliti

senza sollecitudine.

Il clero di Amon riuscirà a rialzare la testa solo dopo la XX

dinastia ed allora per l’Egitto sarà davvero l’inizio di una

discesa lentissima, questa volta definitiva.

Veniamo ora, come di consueto, all’analisi filologia dei testi.

Sulla parte superiore, dietro al faraone, compare una zona

epigrafata della quale si distingue subito che i geroglifici

scolpiti sono posizionati su due colonne affiancate e poi su una

riga sotto i cartigli. La direzione di lettura la deriviamo dai

geroglifici asimmetrici, preferibilmente umani od animali.

Dalla posizione dell’ape e dell’anitra voltati verso sinistra

otteniamo quindi il senso di lettura: da sinistra a destra,

dall’alto verso il basso. Ricordiamo che i geroglifici guardano

l’inizio della frase e quindi vanno letti andando loro incontro.

Riconosciamo in prima battuta la presenza di due cartigli e quindi sappiamo di trovarci in presenza

del IV e del V Protocollo Reale; infatti sono gli unici racchiusi in questo tipo di cornici. In realtà i

cartigli sono dei nodi di corda normalmente arrotondati che qui risultano deformati ed ovalizzati per

contenere i nomi del sovrano.

Il suo significato è abbastanza evidente.

La corda fu uno strumento importantissimo del catasto egizio che era incaricato a ritracciare i confini

delle proprietà dopo che il Nilo, ritirandosi dalla sua piena, li aveva evidentemente cancellati. Quindi

il re è il padrone di ogni cosa che circonda il sole: il re è il signore di tutta la terra.

(ny-)swt-bit(y) nb tAwy nisut-biti il Re dell’Alto e Basso Egitto neb taui il Signore delle Due Terre

Si tratta di due titolature. La prima letteralmente identifica il sovrano come “Colui che appartiene al

carice e all’ape”. La giuncacea è un simbolo della Valle del Nilo mentre l’insetto è un emblema del

Delta. Nel tempo finiscono per diventare metafore araldiche di quelle che, nel secondo titolo, sono

chiamate appunto Due Terre. Quindi il sovrano regna su tutto l’Egitto unificato, sull’Alto e sul Basso.

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Dsr-xprw-ra stp-n-ra geser-cheperu-ra Sacre sono le manifestazioni di Ra setep-en-ra l’eletto di Ra

È il Quarto Protocollo Reale, il nome di intronizzazione con il quale il sovrano egizio è conosciuto

presso le corti straniere. Interessantissimo il fenomeno grafico di trasposizione del disco solare:

essendo il nome del dio Ra è posto davanti in prima posizione della rispettiva locuzione. Il fenomeno

prende il nome di metatesi onorifica. Al momento della lettura, però, va riposizionato correttamente

al suo posto nella frase. Infatti letteralmente, nella prima parte, si leggerebbe ra-geser-cheperu cioè

Ra sacre sono le manifestazioni di mentre, nella seconda parte incolonnata, si leggerebbe ra-setep-en

cioè Ra l’eletto di. Questo fenomeno fu riconosciuto solo all’inizio del XX secolo.

Leggiamo ora la seconda colonna.

sa rA nb xaw sa ra il Figlio di Ra neb cau il Signore delle Corone

Anche in questo caso si tratta di due titolature. La prima determina che il sovrano è figlio divino di

Ra, la seconda ribadisce che il re è il padrone di tutte le corone dell’Egitto unificato.

mry-n-imn Hrw-m-Hb meri-en-imen Colui che Amon ama heru-em-heb Horemheb

È il Quinto Protocollo Reale, il nome che i genitori assegnarono al re al momento della nascita. Anche

in questo caso, nella prima parte, notiamo una metatesi onorifica del nome divino Amon. La seconda

parte, Horemheb, significa letteralmente Horus è in festa. Quasi certamente il giorno in cui il re

nacque doveva essere un giorno di festa dedicato al dio Horus. Assegnare ai bambini il nome di

importanti feste che coincidono con la loro nascita è un’usanza che abbiamo ancora noi. Vedi i nostri

Natale, Natalino, Pasquale, Pasqualino, Stefano, Immacolata, ecc.

d(w) anx mi ra Dt du anc dotato (=gratificato) di vita mi ra come Ra get eternamente

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La formula eulogica finale riporta anch’essa una metatesi

onorifica. Infatti il disco solare precede la reticella del latte

facendoci leggere letteralmente ra mi Ra come.

Ora che abbiamo analizzato l’epigrafia in alto ci rendiamo

meglio conto che vicino alle gambe di Amon è nuovamente

riportato il protocollo reale del faraone con leggere varianti.

Lo riportiamo senza ulteriori dettagli.

Gamba sinistra (punto di vista del visitatore), lettura da destra

a sinistra, dall’alto verso il basso:

nTr nfr nb tAwy Dsr-xprw-ra stp-n-ra necer nefer il dio perfetto nb taui il Signore delle Due

Terre geser-cheperura Sono sacre le manifestazioni di Ra

setep-en-ra l’eletto di Ra.

mry imn-ra d(w) anx meri Amon-Ra Colui che Amon-Ra ama du anc dotato (=gratificato) di vita

Gamba destra (punto di vista del visitatore), da sinistra a destra, dall’alto verso il basso:

sA ra nb xaw mry-n-imn Hrw-m-Hb sa ra il Figlio di Ra neb cau il Signore delle Corone meri-en-amon Colui che Amon ama heru-

em-heb Horemheb

mry imn-ra d(w) anx meri amon-ra Colui che Amon-Ra ama du anc dotato (=gratificato) di vita.

Horemheb inaugurò una breve serie di sovrani di origine militare o di spiccate attitudini marziali.

Dopo di lui Ramesse I, Sethy I, Ramesse II. Più tardi ci sarà ancora Ramesse III.

Poi, per l’Egitto classico, c’è solo più una progressiva agonia.

(in verde la pronuncia, in blu la traslitterazione)

Quarto e Quinto Protocollo Reale vicino alla gamba sinistra e alla gamba

destra dal punto di vista del visitatore