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1 CENTRO ALTI STUDI PER LA DIFESA CENTRO MILITARE DI STUDI STRATEGICI Osservatorio Strategico 2018 N. 2

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    CENTRO ALTI STUDI

    PER LA DIFESA

    CENTRO MILITARE

    DI STUDI STRATEGICI

    Osservatorio

    Strategico 2018

    N. 2

  • Il Centro Militare di Studi Strategici (CeMiSS) è un organismo istituito nel 1987 che gestisce,

    nell’ambito e per conto della Difesa, la ricerca su temi di carattere strategico. Tale attività permette

    di accedere, valorizzandoli, a strumenti di conoscenza ed a metodologie di analisi indispensabili

    per dominare la complessità degli attuali scenari e necessari per il raggiungimento degli obiettivi

    che le Forze Armate, e più in generale la collettività nazionale, si pongono in tema di sicurezza e

    difesa.

    La mission del Centro, infatti, nasce dalla ineludibile necessità del Ministero della Difesa di

    svolgere un ruolo di soggetto attivo all’interno del mondo della cultura e della conoscenza

    scientifica interagendo efficacemente con tale realtà, contribuendo quindi a plasmare un contesto

    culturale favorevole, agevolando la conoscenza e la comprensione delle problematiche di difesa e

    sicurezza, sia presso il vasto pubblico che verso opinion leader di riferimento.

    Più in dettaglio, il Centro:

    effettua studi e ricerche di carattere strategico politico-militare;

    sviluppa la collaborazione tra le Forze Armate e le Università, centri di ricerca italiani, stranieri

    ed Amministrazioni Pubbliche;

    forma ricercatori scientifici militari;

    promuove la specializzazione dei giovani nel settore della ricerca;

    pubblica e diffonde gli studi di maggiore interesse.

    Le attività di studio e di ricerca sono prioritariamente orientate al soddisfacimento delle esigenze

    conoscitive e decisionali dei Vertici istituzionali della Difesa, riferendosi principalmente a situazioni

    il cui sviluppo può determinare significative conseguenze anche nella sfera della sicurezza e

    difesa.

    Il CeMiSS svolge la propria opera avvalendosi di esperti civili e militari, italiani e stranieri, che sono

    lasciati liberi di esprimere il proprio pensiero sugli argomenti trattati.

  • OsservatorioStrategico

    2018N. 2

    CENTRO ALTI STUDIPER LA DIFESA

    CENTRO MILITAREDI STUDI STRATEGICI

  • Osservatorio StrategicoAnno XX numero II - 2018

    NOTA DI SALVAGUARDIA

    Quanto contenuto in questo volume riflette esclusivamente il pensiero dei singoli autori, e non quello delMinistero della Difesa né delle eventuali Istituzioni militari e/o civili alle quali gli autori stessiappartengono.

    NOTE

    Le analisi sono sviluppate utilizzando informazioni disponibili su fonti aperte.

    L’Osservatorio Strategico è disponibile anche in formato elettronico (file .PDF) e nel formato E-Book(file .epub) al seguente link:http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/OsservatorioStrategico/Pagine/default.aspx

    Osservatorio Strategico 2018

    Questo volume è stato curato dal Centro Militare di Studi Strategici

    DirettoreCA. Arturo FARAONE

    Vice Direttore Capo Dipartimento Monitoraggio StrategicoCol. A.A.r.n.n. Pil. (AM) Marco Francesco D’ASTA

    Progetto graficoMassimo Bilotta - Roberto Bagnato

    AutoriClaudia Astarita, Claudio Bertolotti, Claudio Catalano, Francesca Citossi, Marco Cochi, Raffaella Di Chio, Fabio Indeo, Gianluca Pastori, Luca Puddu, Paolo Quercia

    Stampato dalla tipografia del Centro Alti Studi per la Difesa

    Centro Militare di Studi StrategiciDipartimento Monitoraggio Strategico

    Palazzo SalviatiPiazza della Rovere, 83 - 00165 – Roma

    tel. 06 4691 3204 - fax 06 6879779e-mail [email protected]

    Chiuso ad gennaio 2019 - Stampato ad gennaio 2019

    ISBN 978-88-99468-88-0

    http://www.difesa.it/SMD_/CASD/IM/CeMiSS/Pubblicazioni/OsservatorioStrategico/Pagine/default.aspx

  • Osservatorio StrategicoIndice

    Euro/Atlantica (USA-NATO-Parteners) 8Il voto di midterm negli Stati Uniti: quali impatti per il Paese e per l’Europa?Gianluca Pastori

    Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico 13L’accordo per la Brexit: l’Europa in cerca di LeadershipClaudio Catalano

    Balcani e Mar Nero 20Tempesta geopolitica nel Mare di Azov: verso la marittimizzazione del conflitto russo – ucraino?Paolo Quercia

    Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele 26Israele ed Egitto: la soluzione per gli attacchi da Gaza passa dalla Siria. Tunisia: un difficile contrasto al terrorismo.Claudio Bertolotti

    Sahel e Africa Subsahariana 30Origini e sviluppi della crisi nella regione anglofona del CamerunMarco Cochi

    Corno d’Africa e Africa Meridionale 36La guerra all’Al Shabaab in Kenya e SomaliaLuca Puddu

    Russia, Asia centrale e Caucaso 44La conferenza di pace sull'Afghanistan: il “regionalismo” russoFabio Indeo

    Asia meridionale ed orientale 50Corea del Nord: nuovi ostacoli allontanano la distensionedi Claudia AstaritaClaudia Astarita

    America Latina 54La risposta agli effetti del cambiamento climatico nell’America Latina nel quadro della cooperazioneinternazionaleRaffaella Di Chio

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  • Area Tematica

    La sfida del cambiamento climatico

    Euro/Atlantica (USA-NATO-Parteners) 59Gianluca Pastori

    Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico 61Claudio Catalano

    Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele 63Claudio Bertolotti

    Sahel e Africa Subsahariana 65Marco Cochi

    Golfo Persico 67Francesca Citossi

    Corno d’Africa e Africa Meridionale 69Luca Puddu

    Russia, Asia centrale e Caucaso 72Fabio Indeo

    Asia meridionale ed orientale 76Claudia Astarita

    Sotto la lente

    Movimenti di popolazione e questioni di sicurezza nel contesto dell’accesso dei Paesidei Balcani Occidentali all’area Schengen 79Paolo Quercia

    Lista degli acronimi 81

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  • Osservatorio

    Strategico

  • Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners) Gianluca Pastori

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 8

    Il voto di midterm negli Stati Uniti: quali impatti per il Paese e per

    l’Europa?

    Le elezioni statunitensi di midterm dello scorso 6 novembre non sono state, per molti aspetti,

    l’evento traumatico che da alcune parti era stato pronosticato. Come era prevedibile, il Partito

    democratico è riuscito a conquistare una maggioranza significativa alla Camera dei rappresentanti,

    strappandola ai repubblicani che la detenevano dal voto di midterm del 2010. Di contro, il Partito

    repubblicano è riuscito a consolidare la già problematica presa sul Senato, delineando così uno

    scenario di “governo diviso” (“divided government”) potenzialmente foriero di una rinnovata

    instabilità. L’attesa “onda blu” non sembra, quindi, essersi manifestata anche se la consultazione ha

    confermato, sotto molti aspetti, il carattere di un referendum pro o contro l’attuale Presidente che

    diversi osservatori le avevano attribuito alla vigilia. Al momento, non è ancora possibile quantificare

    con esattezza l’entità del successo democratico, dal momento che diversi seggi risultano ancora

    contestati. Come accaduto anche in passato, in diversi Stati è stato, infatti, necessario procedere al

    riconteggio dei voti, sia per gli organi federali, sia per quelli locali. L’ultimo seggio del Senato è stato

    confermato solo il 28 novembre, in Mississippi, a vantaggio della repubblicana Cindy Hyde-Smith,

    candidata nell’elezione speciale destinata a confermarne il ruolo di sostituto al posto lasciato vacante

    per motivi di salute dal predecessore, Thad Cochran.

    Con la conferma della Hyde-Smith, gli equilibri del Senato sono, quindi, oggi, di 53 a 47 a

    favore del Partito repubblicano, che prima del voto, dopo il risultato a sorpresa delle suppletive in

    Alabama del dicembre 2017 (in cui il democratico Doug Jones aveva superato il rivale repubblicano

    Roy Moore in una delle tradizionali roccaforti del Grand Old Party), deteneva una risicata

    maggioranza di 51 a 49. E’ un risultato che consolida non soltanto il partito ma – a detta di vari

    osservatori – anche il Presidente, alla cui linea “dura”, soprattutto in materia d’immigrazione e

    cittadinanza, sarebbe da attribuire gran parte del merito del successo. Nei primi due anni alla Casa

    Bianca, Donald Trump ha dovuto, infatti, scontrarsi in varie occasioni con la freddezza (se non

    l’aperta opposizione) della maggioranza repubblicana in Congresso. La figura carismatica dell’ex

    Senatore dell’Arizona John McCain, morto lo scorso agosto, più volte candidato alla presidenza e

    forte critico delle posizioni trumpiane, rappresentava una sorta di catalizzatore di questa

    opposizione, che, tuttavia, non si esauriva nella sua figura. Solo gradualmente, la posizione del

    Presidente all’interno nel partito si è consolidata, promuovendo quella che, negli scorsi mesi,

    l’influente testata Politico ha definito come la nascita di un “nuovo Partito repubblicano”.

    Il voto di novembre ha quindi confermato solo in parte le attese. Se il successo democratico

    alla Camera dei rappresentanti, unito a quello per la corsa ai seggi governatoriali (in questa corsa, i

    candidati democratici hanno sottratto sette Stati al controllo repubblicano senza perderne alcuno,

    anche se, al momento, la maggioranza degli Stati – 27 a 23 – resta in mano al Grand Old Party), ha

    confermato la forza complessiva del partito, lo scacco subito al Senato ha messo, infatti, in luce

    come il sistema politico statunitense rimanga fortemente polarizzato e come, anzi, questa

    polarizzazione sembri destinata a crescere. Lo scarto ridotto di alcuni successi (in Florida, ad

    esempio, i candidati repubblicani al Senato e al seggio di Governatore, Rick Scott e Ron DeSantis,

    hanno vinto i loro scontri con un vantaggio, rispettivamente, di soli 0,2 e 0,4 punti percentuali sugli

    avversari democratici Bill Nelson e Andrew Gillum) non migliora le cose, lasciando prevedere una

    lotta accesa e il rischio concreto di contestazioni per la tornata del 2020.

  • Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners)

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 9

    E’ indicativo il fatto che, già nei giorni immediatamente successivi il voto, il tema del “gerrymandering”

    (la ridefinizione dei collegi elettorali in modo da favorire una delle parti) abbia ripreso ad attirare

    l’attenzione dei politici e degli osservatori, proprio in vista dell’appuntamento del 2020.

    Egualmente ambigue sono le ricadute del voto sul piano internazionale. Anche a questo

    proposito, la questione ha cominciato ad attirare l’attenzione degli osservatori già da diverse

    settimane, soprattutto per l’impatto che il cambiamento degli equilibri politici interni potrebbe avere

    sulla postura generale degli Stati Uniti, che sotto la nuova amministrazione sembrano avere

    accentuato i propri tratti unilateralisti sia nel rapporto con gli alleati, sia in quello con le organizzazioni

    internazionali. Per la loro natura di referendum pro o contro Trump, le elezioni di novembre hanno

    trovato facile inquadramento nel più ampio dibattito riguardo al l favore che sembrano avere

    incontrato le forze c.d. “populiste” sulle due sponde dell’Atlantico e non solo. A questo proposito,

    occorre tuttavia osservare come sia difficile parlare di “populismo”, nel significato che il termine ha

    assunto in Europaper una figura come quella di Donald Trump, che riflette, più che altro, tratti

    jacksoniani solidamente radicati nella cultura politica USA. Allo stesso modo, è difficile tracciare un

    paragone diretto fra Donald Trump e i leader “populisti” europei (fra l’altro molto diversi fra loro) o,

    ancora di più, con figure che gli sono state, spesso arbitrariamente, accostate come il Presidente

    filippino, Rodrigo Duterte, o il neo-eletto Presidente brasiliano, Jair Bolsonaro.

    Da questo punto di vista, anche se nel dibattito elettorale i temi internazionali non hanno

    sollevato particolare interesse, i buoni risultati conseguiti dalla “linea presidenziale” non potranno

    essere privi di ricadute. La scelta del candidato Trump di puntare, a suo tempo, su una politica

    “America first” rispecchia una convinzione ampiamente diffusa nell’opinione pubblica statunitense e

    una linea di condotta seguita -- seppure in modo più “soft”, soprattutto nei toni – da diverse

    amministrazioni precedenti. Il voto di novembre non ha apertamente sconfessato questa politica,

    anche se da alcune parti è stato rilevato come l’arrivo alla Camera dei rappresentanti di candidati

    definiti “radicali” potrebbe avere conseguenze sulla posizione di Washington rispetto a specifici

    dossier, in particolare quelli legati al Medio Oriente. Di contro, il consolidamento della posizione

    repubblicana al Senato potrebbe dare forza a una volontà di disimpegno che il Presidente ha

    espresso in diverse occasioni, anche se – nonostante la morte di McCain e l’uscita di scena del

    Senatore del Tennessee Bob Corker, già presidente della Commissione affari esteri e forte critico

    delle posizioni trumpiane -- le prospettive di quanti sono favorevoli a una robusta presenza

    statunitense “sulla scena del mondo” continuano ad essere ampiamente rappresentate.

    Fra gli esponenti di questa corrente, il voto di novembre ha, infatti, riconfermato il veterano

    Lindsey Graham in South Carolina, Senatore dal 2003 e considerato il più probabile successore al

    ruolo ricoperto sino a poco tempo fa da John McCain; Marco Rubio in Florida, Senatore dal 2011,

    già sfidante di Trump nelle primarie del 2016 e tradizionalmente favorevole a una politica “attiva” di

    Washington verso Cuba e Venezuela; Tom Cotton in Arkansas, Senatore dal 2015, e il “libertarian”

    Rand Paul in Kentucky, Senatore dal 2011, anch’egli sfidante di Trump nel 2016 per la nomination

    repubblicana e tradizionalmente considerato vicino alle posizioni del Tea Party. Vale comunque la

    pena di osservare come tutte queste figure -- nonostante divergenze su aspetti specifici -- abbiano

    spesso saputo trovare, in passato, punti di convergenza con la Casa Bianca e come, quindi, la loro

    presenza nel nuovo Senato non costituisca “a priori” un ostacolo al perseguimento delle politiche

    presidenziali. Non sembra un segno di particolare difficoltà nemmeno la convergenza bipartisan

    emersa in Senato alla fine di novembre intorno alla richiesta (approvata con una maggioranza di 63

    voti a 37) di sospendere il sostegno statunitense alla campagna militare a guida saudita in corso in

    Yemen, anche al fine di segnalare una presa di distanza da Riyadh dopo l’uccisione, agli inizi di

    ottobre, del giornalista dissidente Jamal Khashoggi.

  • Il voto di midterm negli Stati Uniti: quali impatti per il Paese e per l’Europa?

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 10

    Ovviamente, ciò non significa che tutto proseguirà come prima. Con ogni probabilità, il nuovo

    Congresso riporterà al centro della scena il tema delle presunte ingerenze russe nelle elezioni del

    2016, tema che rappresenta un tradizionale nervo scoperto della Casa Bianca. Negli scorsi mesi,

    inoltre, la minoranza democratica ha dedicato particolare attenzione al ruolo che altri Paesi

    potrebbero giocare nell’influenzare le scelte interne degli Stati Uniti, al tema dei diritti umani, al ruolo

    degli USA nella loro promozione (anche in risposta alle posizioni assunte dall’amministrazione su

    tali questioni), al rilancio del Dipartimento di Stato come luogo privilegiato per la produzione della

    politica estera nazionale, ai temi globali legati al cambiamento climatico e ai rapporti commerciali

    con i partner continentali (Canada e Messico) e con quelli dell’Asia-Pacifico. Sono tutte questioni

    destinate a riaffiorare nel dibattito politico e che, in alcuni casi, rischiano di portare allo scontro con

    l’amministrazione e con la maggioranza in Senato. Altra possibile fonte di scontro è rappresentata

    dalla volontà espressa da vari esponenti democratici di portare “maggiore trasparenza” nelle attività

    del Pentagono e del Dipartimento della Difesa e di sottoporre a puntuale scrutinio le decisioni prese

    dell’amministrazione, fra l’altro, in tema di impiego delle forze.

    È bene comunque osservare come – a eccezione (forse) della questione delle presunte

    ingerenze russe – si tratta soprattutto di temi di portata simbolica, che non toccano il “cuore” delle

    politiche presidenziali, né indeboliscono davvero la capacità della Casa Bianca di portare avanti la

    sua agenda. Ciò vale anche sul punto – apparentemente più delicato – delle politiche commerciali,

    da tempo cavallo di battaglia di Donald Trump. Fra il Presidente e diversi esponenti del Partito

    democratico esiste, infatti, una sostanziale convergenza di vedute rispetto alla necessità di difendere

    il “lavoro statunitense”, se necessario con l’adozione di politiche protezionistiche e di interventi tesi

    a limitare i processi di delocalizzazione. Questa convergenza si è espressa in passato (ad esempio,

    all’epoca della denuncia da parte del Presidente della Trans-Pacific Partnership) ed è riemersa

    recentemente, in occasione dello scontro verbale fra il Presidente e i vertici di General Motors sulla

    decisione dell’azienda di Detroit di chiudere nel breve periodo una serie di impianti in territorio

    statunitense. A conferma – ancora una volta – di come né la maggioranza democratica alla Camera

    dei rappresentanti, né quella repubblicana al Senato costituiscano dei blocchi compatti e di come

    l’attuale stato di cose lasci alla presidenza ampi spazi di manovra.

    A margine di tutto ciò si colloca il capitolo dei rapporti con l’Europa. In campagna elettorale, la

    questione non ha raccolto particolare interesse, né il nuovo Congresso sembra destinato a

    modificare in maniera significativa tale stato di cose, a conferma di una tendenza che pare essersi

    consolidata negli ultimi anni. Al contrario, la posizione di quanti sostengono la necessità di un più

    stretto rapporto fra le due sponde dell’Atlantico sembra essersi indebolita, da un lato a fronte del

    rafforzarsi della corrente “trumpiana” in Senato, dall’altra dell’enfasi posta sui problemi interni dalla

    maggioranza democratica alla Camera dei rappresentanti. Nonostante l’accordo sui dazi raggiunto

    lo scorso luglio, il tema dei rapporti commerciali fra le due sponde dell’Atlantico rimane spinoso e i

    negoziati in corso potrebbero riservare sorprese, soprattutto a causa delle divergenze esistenti

    intorno al settore agricolo e quello automotive, dove le posizioni delle parti rimangono distanti.

    Segnali di tensione sono affiorati in modo evidente a ottobre, quando la “reciproca intransigenza” ha

    condotto a una situazione di sostanziale stallo, e anche se la fase acuta della crisi sembra essere

    stata superata, sul tavolo negoziale continua a pesare la minaccia di nuovi dazi sull’import di vetture

    europee, ventilata dalla Casa Bianca e guardata con favore dai sindacati USA.

    Le cose non vanno meglio sul piano politico. La decisione di Washington di uscire dall’accordo

    sul nucleare iraniano (JCPOA – Joint Comprehensive Plan of Action) e di reintrodurre le sanzioni

    contro Teheran che erano state rimosse negli scorsi anni ha aperto un nuovo fronte di scontro, anche

    a causa della riattivazione dei provvedimenti secondari sospesi nel gennaio 2016, che colpiscono

  • Euro/Atlantica (USA-NATO-Partners)

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 11

    quanti – anche fuori dagli Stati Uniti – intrattengano diversi tipi di rapporti economici e commerciali

    con la Repubblica islamica. Lo scorso maggio, la decisione dell’amministrazione di trasferire a

    Gerusalemme la sede dell’ambasciata USA in Israele è stata accolta, in Europa, da critiche

    pressoché unanimi, seppure diverse nei toni da Paese a Paese. Anche il già ricordato “affaire

    Khashoggi” ha visto la Casa Bianca e gli alleati europei schierarti su fronti opposti, con la Germania

    fra le prime a sospendere le forniture di armi al governo di Riyadh dopo la morte del giornalista

    dissidente. La natura strutturale di queste fratture è stata evidenziata, fra gli altri, da Charles

    Kupchan, secondo cui, nelle crisi precedenti, [Stati Uniti ed Europa] si dividevano sui mezzi.” Questa

    è la prima volta in cui si dividono sui fini” (“During previous rifts, they parted company over means.

    This is the first time they are parting company over ends”).

    La profondità di questa frattura è ancora tutta da verificare. Nonostante le divergenze, Europa

    e Stati Uniti condividono interessi e priorità che è difficile sottovalutare. La comune appartenenza

    all’Alleanza Atlantica e alla NATO, per quanto soggetta anch’essa a tensioni, garantisce, inoltre, la

    condivisione di un foro che, in diverse occasioni, ha agito da “camera di compensazione” delle

    rispettive posizioni. Si tratta di capire quanto questo foro potrà continuare a fornire un contributo

    valido di fronte al progressivo distanziarsi delle priorità di sicurezza degli alleati. Lo scorso 12

    novembre, al rientro dalla visita in Europa compiuta in occasione del centenario della fine della Prima

    guerra mondiale, il Presidente Trump ha rilanciato per l’ennesima volta le sue critiche all’“iniqua”

    distribuzione degli oneri per la sicurezza comune. Nonostante la visibilità assunta, il tema della

    “divisione del fardello” (“burden sharing”) non è, tuttavia, quello centrale. Piuttosto, le recenti difficoltà

    del rapporto Stati Uniti-Europa sembrano riflettere l’attuale insoddisfazione di Washington per un

    multilateralismo percepito come non più “pagante”. Una posizione che ha trovato riflesso, ad

    esempio, anche nelle critiche rivolte dalla Casa Bianca ad altre organizzazioni internazionali, prime

    fra tutte le Nazioni Unite e le varie agenzie che a queste si legano.

    Difficilmente i nuovi equilibri congressuali potranno influire a un livello così profondo. Piuttosto,

    una delle priorità sembra essere quella di fissare subito i paletti legislativi che delimiteranno il campo

    delle prossime elezioni. L’ambizioso “H.R. 1”, anticipato alla fine di novembre e del quale il

    Congresso comincerà a discutere a gennaio 2019, non sembra avere speranze di approvazione da

    parte del Senato né di ratifica da parte della Casa Bianca; tuttavia, la sua lettura fornisce indicazioni

    importanti sulla direzione in cui sembra incamminato il Partito democratico. Unica significativa

    eccezione appare la posizione del Senatore del Massachusetts Elizabeth Warren (già indicata come

    possibile “ticket” di Hillary Clinton nella campagna del 2016 e vista da più parti come un eventuale

    concorrente alla prossima corsa presidenziale), che, insieme a quella esposta da Bernie Sanders

    nel discorso tenuto lo scorso 9 ottobre alla Johns Hopkins University, fornisce, al momento, la cosa

    più simile a una piattaforma di politica estera. In entrambi i casi, si tratta soprattutto di tentativi di

    tracciare – in una prospettiva “liberal” – una forma di connessione fra politica estera e politica interna.

    Essi offrono, comunque, materiale per un dibattito che, in vista dell’appuntamento elettorale del

    2020, dovrà essere affrontato nel prossimo futuro.

    A breve si apriranno, infatti, i giochi per le nomination presidenziali. Già negli scorsi mesi ci

    sono state le prime manifestazioni di interesse, sul fronte repubblicano da parte di Bob Corker, del

    Governatore del Maryland, Larry Hogan; del Governatore dell’Ohio e candidato alla presidenza nel

    2000 e nel 2016, John Kasich, e di Bill Kristol, già capo dello staff del Vicepresidente Dan Quayle

    ed eminente figura dell’ambiente neoconservatore negli anni di George W. Bush. Sul fronte

    democratico, diviso dalla frattura “centristi”/“progressisti” rispecchiata dal confronto Clinton/Sanders

    nel 2016, sono circolati -- oltre ai nomi dei già ricordati Warren e Sanders e di un buon numero di

    figure delle professioni, dello sport, dello spettacolo e della società civile -- quelli dell’ex

    Vicepresidente, Joe Biden; dell’ex Segretario di Stato, John Kerry; dell’ex sindaco di New York,

  • Il voto di midterm negli Stati Uniti: quali impatti per il Paese e per l’Europa?

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 12

    Michael Bloomberg, e di una lunga lista di Rappresentanti e di Senatori di varie parti del Paese, fra

    cui la “stella nascente” del partito in Texas, Robert “Beto” O’Rourke. In futuro, la rosa dei possibili

    candidati è destinata a sfoltirsi. La corsa, tuttavia, è partita, come ha dimostrato anche il modo in cui

    il Presidente e i suoi avversari hanno affrontato il voto di novembre, e rischia di esacerbare le tensioni

    che hanno punteggiato i mesi scorsi, proprio come, anche in questo caso, l’esperienza del voto di

    midterm pare avere confermato.

  • Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico Claudio Catalano

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 13

    L’accordo per la Brexit: l’Europa in cerca di Leadership

    Nel corso del Consiglio Europeo straordinario a Bruxelles, il 25 novembre 2018, si è giunti a

    un accordo sulla Brexit tra i 27 Stati Membri dell’Unione Europea (UE) e il Regno Unito. Il

    raggiungimento di un accordo tecnico per i negoziati tra UE e Regno Unito è stato annunciato quasi

    a sorpresa dal primo ministro britannico Theresa May, il 13 novembre 2018, che il giorno successivo

    lo ha illustrato al Parlamento britannico in vista del Consiglio Europeo straordinario tenutosi il 24

    novembre 2018.

    L’accordo consiste in un Withdrawal Agreement (WA) di 585 pagine, come base per un futuro

    trattato, e una dichiarazione politica di 26 pagine sulle relazioni future.1

    Gli accordi hanno stabilito un periodo di transizione per l’applicazione della Brexit

    (Implementation Period) che va fino al 1 gennaio dicembre 2021. Durante questo periodo verrà

    mantenuta l’unione doganale.

    I tre punti principali per il negoziato, lo status dei cittadini europei, il “divorce bill” e lo status dei

    confini irlandesi hanno trovato una soluzione nel Consiglio Europeo.

    Riguardo ai diritti dei cittadini comunitari residenti in UK è stabilito che avranno gli stessi diritti

    di cui godono attualmente fino alla fine del periodo di transizione e saranno sottoposti alla

    giurisdizione della Corte di Giustizia dell’UE per almeno 8 anni. UK accetta anche di applicare

    l’interpretazione di norme comunitarie della Corte di Giustizia dell’UE oltre il periodo di transizione.

    Riguardo il “Divorce Bill”, il conto che UK deve pagare per onorare tutti gli impegni su bilancio, fondi

    e programmi europei in quanto Stato Membro UE è stato fissato in una cifra variabile compresa tra

    i 35 e 39 miliardi di sterline, molto inferiore rispetto ai 60 miliardi richiesti inizialmente dalla

    Commissione Europea. La questione dei confini irlandesi ha trovato una soluzione che sarà descritta

    nel prossimo paragrafo.

    Gli accordi raggiunti dovranno essere approvati dalla Camera dei Comuni che avrebbe dovuto

    votare il Withdrawal Agreement (WA) l’11 dicembre 2018, votazione poi spostata al 15 gennaio 2019.

    Tuttavia, il governo May sembra non avere in Parlamento la maggioranza necessaria per

    l’approvazione e due viceministri e due ministri, il ministro per gli affari europei e la Brexit, Dominic

    Raab, e il ministro del lavoro, Esther McVey, si sono dimessi per protesta contro l’accordo. Da questo

    punto di vista, la strada per il primo ministro May sembra essere ancora tutta in salita.

    Le questioni geopolitiche legate alla Brexit

    La Brexit ha aperto il “vaso di Pandora” riproponendo questioni geopolitiche che erano ormai

    superate in Europa, oltre alla riapertura della questione dell’Irlanda del Nord, i possedimenti

    britannici a Gibilterra e Cipro, retaggi della strategia imperiale marittima “hubs and spokes”, sono

    stati posti in discussione dopo secoli.

    Il Regno Unito è stato messo all’indice da parte di alcuni Stati Membri come l’Irlanda, la

    Francia, la Spagna e Cipro che hanno sollevato questioni territoriali piuttosto spinose da risolvere,

    che hanno richiesto uno sforzo anche d’ngegno da parte britannica.

    Per risolvere la questione irlandese, è stato creato un legally operative Backstop in base al

    quale, in caso di mancato accordo sui confini irlandesi entro il periodo di transizione, il Regno Unito

    rimarrà nell’unione doganale per ulteriori 21 mesi, sia per evitare la creazione di un “hard border”

    con la Repubblica d’Irlanda, sia per assicurare le comunicazioni marittime nord-sud, sia, e

    1 Withdrawal Agreement e dichiarazione politica sono scaricabili dal sito del governo britannico:

    https://www.gov.uk/government/publications/withdrawal-agreement-and-political-declaration

    https://www.gov.uk/government/publications/withdrawal-agreement-and-political-declaration

  • Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 14

    soprattutto, per rispettare gli accordi del “Venerdì Santo” (Good Friday) del 1998 che avevano

    stabilito frontiere flessibili per porre fine alla guerra civile. Il mancato rispetto dell’accordo del Good

    Friday avrebbe potuto dare fuoco alle polveri, riaccendendo le tensioni tra unionisti e cattolici.

    Saranno anche attivate clausole di salvaguardia speciale per l’Irlanda del Nord.

    Il presidente francese, Emmanuel Macron, considerando la soluzione del legally operative

    Backstop, ha sollevato la questione delle attività di pesca, richiedendo l’accesso alle acque territoriali

    del Regno Unito per i pescatori francesi, in base al mantenimento temporaneo dell’unione doganale.

    La Spagna ha sollevato la questione di Gibilterra, poiché il promontorio su cui sorge la Rocca

    che domina l’omonimo stretto è dominio della corona britannica dalla pace di Utrecht del 1713, che

    mise fine alla guerra di successione spagnola.

    L’art.182 del WA prevede un Protocollo su Gibilterra come parte di un pacchetto di accordi

    previsti anche dalla dichiarazione politica.

    A tale riguardo l’art.184 del WA sui negoziati per la relazione futura stabilisce:

    “The Union and the United Kingdom shall use their best endeavours, in good faith and in full

    respect of their respective legal orders, to take the necessary steps to negotiate expeditiously

    the agreements governing their future relationship referred to in the political declaration of

    25/11/ 2018 and to conduct the relevant procedures for the ratification or conclusion of those

    agreements, with a view to ensuring that those agreements apply, to the extent possible, as

    from the end of the transition period.”

    L’art.184 del WA su Gibilterra, sarebbe stato inserito da dopo la dichiarazione del ministro

    degli esteri spagnolo, Josep Borrell, al comitato Articolo 50 del Consiglio “Affari Generali” dell’UE.

    Per questo motivo, fin dal 19 novembre 2018, la Spagna ha bloccato il negoziato tra il Regno

    Unito e gli Stati Membri dell’UE, chiedendo la soluzione della questione di Gibilterra. Alla fine la

    situazione è stata sbloccata nel Consiglio Europeo e si è pervenuti al WA e alla dichiarazione politica,

    solo dopo che la Spagna ha ricevuto la promessa che il destino della Rocca non sarà legato al WA,

    ma sarà regolato attraverso un accordo separato negoziato esclusivamente tra Spagna e Regno

    Unito.2

    Il presidente del Consiglio Europeo, Donald Tusk e il presidente della Commissione Europea,

    Jean-Claude Juncker, hanno dovuto mettere per iscritto la promessa alla Spagna, affinché gli

    spagnoli abbandonassero l’intenzione di porre il veto. Tuttavia, gli spagnoli hanno ottenuto delle

    dichiarazioni politiche sull’interpretazione dell’art.184 WA, una “vittoria di bandiera” perché il WA e

    la dichiarazione politica non sono state modificate.3

    Un protocollo specifico del WA, come previsto dall’art.182 del WA, si applica alla Sovereign

    Base Areas (SBA) britanniche, Akrotiri e Dhekelia a Cipro, che è uno Stato Membro dell’UE. Lo

    status delle basi è regolato da un accordo del 1960, modificato all’atto dell’adesione di Cipro all’UE.

    Secondo il protocollo annesso al WA, le basi britanniche a Cipro sono parte dell’unione doganale e

    i traffici di persone e beni devono transitare per gli aeroporti e i porti ciprioti, poiché il Regno Unito

    ha anche il divieto di stabilire aeroporti o porti civili, anche all’interno delle sue strutture che possono

    perseguire esclusivamente attività militari e non commerciali. I beni britannici importati o esportati

    nelle basi sono autorizzati solo per beni di uso militare o ufficiale, ovvero per il bagaglio individuale

    del personale britannico delle basi e sono sottoposti ai comuni controlli di dogana. Cipro può

    applicare anche l’Iva all’interno delle basi.

    In ogni caso, il Regno Unito si trova ad arretrare rispetto ai privilegi di cui ha goduto finora.

    2 Vedi i documenti preparati dal governo britannico per il Memorandum of understanding

    https://www.gov.uk/government/publications/eu-exit-negotiations-gibraltar-memoranda-of-understanding 3 Beatriz Rios “Spain strikes last-minute deal on Gibraltar and unlocks Brexit deal” in Euractiv, 25 novembre 2018

    https://www.euractiv.com/section/uk-europe/news/spain-strikes-last-minute-deal-on-gibraltar-and-unlocks-brexit-deal/

    https://www.gov.uk/government/publications/eu-exit-negotiations-gibraltar-memoranda-of-understandinghttps://www.euractiv.com/section/uk-europe/news/spain-strikes-last-minute-deal-on-gibraltar-and-unlocks-brexit-deal/

  • L’accordo per la Brexit: l’Europa in cerca di Leadership

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 15

    Le implicazioni per la difesa

    Per la Politica Comune di Sicurezza e Difesa (PCSD) sarà negoziato un accordo specifico che

    abrogherà gli obblighi UK derivanti dal Trattato UE in materia di difesa, secondo l’art.127 WA. Per

    la cooperazione militare nella PCSD si pensa di stabilire una cooperazione “scalabile”.4

    In base agli art.75 e 76 del WA, le regole degli appalti pubblici derivanti dal diritto europeo,

    inclusa la direttiva 2009/81/CE per gli appalti della difesa, continueranno ad applicarsi fino al termine

    del periodo di transizione e per le commesse assegnate durante questo periodo, senza pregiudizio

    per normative UE o UK su dogane, servizi, riconoscimento dei titoli professionali e proprietà

    intellettuale. In caso di mancato accordo oltre il periodo di transizione, si applicherà comunque il

    GPA del WTO.

    Secondo l’art.4 dell’allegato 2 del WA, il regime dei trasferimenti per la difesa derivante dalla

    direttiva 2009/43/EC si applicherà all’unione doganale, prevista dall’allegato 2 del WA. L’UE dovrà

    informare UK di ogni iniziativa presa nei trasferimenti di beni militari. Sei mesi prima della fine del

    periodo di transizione il Joint Committee UK-UE dovrà adottare le relative procedure di applicazione.

    Secondo art 122 del WA, UK continuerà a far parte e versare i fondi a tutte le agenzie UE in

    materia di difesa, inclusa l’EDA, fino al 31 dicembre 2020.

    La dichiarazione politica suggerisce la continuazione della collaborazione nella EDA attraverso

    un “administrative arrangement” e la partecipazione di enti qualificati UK a progetti del Fondo

    Europeo per la Difesa e la partecipazione di UK a progetti della Cooperazione Strutturata

    Permanente (PESCO) su invito del Consiglio UE in formato PESCO. È prevista anche la

    collaborazione nella cyber security e nello spazio.

    Secondo i britannici, le capacità militari e di intelligence permetteranno al Regno Unito di avere

    un ruolo maggiore al di fuori dell’UE e della PCSD.

    Il primo ministro May sembra aver sottolineato il ruolo che avrà la Royal Navy per un Regno

    Unito fuori dall’UE:

    “As Britain steps up to forge a new, positive, confident role for our country on the global stage,

    the Royal Navy will play an important part in our vision – pursuing our objectives of security on

    land and on sea and helping to ensure the free flow of international trade.”5

    Royal Navy tornerà ad avere quel ruolo di forza di spedizione che aveva durante l’Impero

    Britannico, fino alla seconda Guerra mondiale e alla decolonizzazione. Fino alla prima guerra

    mondiale, la flotta mercantile e la Royal Navy assorbivano il 50% del Pil britannico.

    In un articolo per il Financial Times, il deputato conservatore Tom Tugendhat ha sottolineato

    la necessità di prioritizzare gli investimenti navali, perché la Royal Navy è “troppo piccola per poter

    fare la differenza” e perché le unità navali sono qualcosa di più di semplici sistemi d’arma:

    “(le unità navali) permettono di condurre intelligence e diplomazia (..) costruiscono alleanze e

    relazioni a vantaggio sia del commercio, sia della difesa.”6

    A tal fine, l’on. Tugendhat raccomanda di raddoppiare il numero di fregate tipo 26 da otto a16

    per sostenere l’industria cantieristica britannica.

    Tuttavia, non è così realistico che la rievocazione dell’Impero britannico attraverso la

    ricostituzione della flotta navale sia una strada percorribile nel XXI° secolo, considerato che il Regno

    Unito rischia oggi di perdere anche Gibilterra, uno degli ultimi retaggi dell’epoca imperiale.

    4 Cfr. Documento del governo britannico: “EU Exit Assessment of the security partnership” Cm 9743, 28 novembre

    2018 http://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/759760/28_November_EU_Exit_-_Assessment_of_the_security_partnership__2_.pdf

    5 Ministry of Defence “Brexit: The impact on the Defence industry” in Defence Online https://www.contracts.mod.uk/do-

    features-and-articles/brexit-the-impact-on-the-defence-industry/

    6 Citato in Defence Online

    http://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/759760/28_November_EU_Exit_-_Assessment_of_the_security_partnership__2_.pdfhttp://assets.publishing.service.gov.uk/government/uploads/system/uploads/attachment_data/file/759760/28_November_EU_Exit_-_Assessment_of_the_security_partnership__2_.pdfhttps://www.contracts.mod.uk/do-features-and-articles/brexit-the-impact-on-the-defence-industry/https://www.contracts.mod.uk/do-features-and-articles/brexit-the-impact-on-the-defence-industry/

  • Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 16

    Il Regno Unito, però, potrebbe mantenere la leadership nell’industria aeronautica con il Team

    Tempest. Secondo la UK Combat Aircraft Strategy, pubblicata a luglio 2018, il programma

    d’investimento Future Combat Air System Technology Initiative (FCAS IT) è la risposta del Regno

    Unito alla Brexit, per mantenere l’edge tecnologico nella difesa.

    Ciò considerando anche che il programma SCAF sta soffrendo limiti nella cooperazione

    franco-tedesca, tanto che la Francia ha deciso di mantenere il finanziamento annuo di € 25 milioni

    per lo studio franco-britannico Future Combat Air System (FCAS) sul velivolo da combattimento

    senza pilota (UCAV) e potrebbe decidere di abbandonare lo SCAF e aderire al Tempest se le

    controversie con i tedeschi non troveranno presto soluzione.7

    Il Tempest potrebbe divenire dal 2040, il successore del caccia da difesa aerea Eurofighter

    Typhoonper e affiancare quindi il Lockheed Martin F-35 nelle linee caccia del Regno Unito e

    potenzialmente di altri paesi che hanno una linea caccia basata su Eurofighter e F-35, come l’Italia.

    Allo stesso modo come complemento del F-35, il Tempest, potrebbe essere adottato anche dai paesi

    NATO che hanno deciso di fare proprio il caccia americano come Belgio, Paesi Bassi, Norvegia e

    potenzialmente la Turchia, ma potrebbe essere adottato anche da paesi non NATO, interessati al

    progetto tecnologico Tempest, come la Svezia e il Giappone.

    Se lo SCAF fallirà, salirà sul carro del Tempest, anche la Francia, mentre la Germania deve

    trovare però una soluzione temporanea tra Eurofighter e F-35 per sostituire il Tornado e la Spagna,

    che ufficialmente oggi sta aderendo allo SCAF e non intende acquistare il F-35.

    Analisi, valutazioni e previsioni

    Il voto alla Camera dei Comuni per l’approvazione di WA e dichiarazione politica è stato fissato

    per il 15 gennaio 2019. In caso di approvazione del WA, le norme applicative di ricezione

    nell’ordinamento UK dovrebbero essere approvate prima del 29 marzo 2019 per avere efficacia

    giuridica. Il WA sarà sottoposto anche al Constitutional Reform and Governance Act del 2010.

    Tuttavia, il governo conservatore sembra non avere la maggioranza necessaria per

    l’autorizzazione. Almeno 91 deputati conservatori voteranno contro, mentre i 10 deputati del partito

    unionista nord-irlandese (DUP), che garantisce al governo May la maggioranza ai Comuni, sono

    contrari alla modifica della situazione in Irlanda del Nord e il leader del DUP, Arlene Foster, ha

    dichiarato che il partito vorrebbe anche rivedere l’accordo di governo con i conservatori. È contrario

    anche lo Scottish National Party, mentre i laburisti di Jeremy Corbyn sono contrari al WA e

    propongono un secondo referendum.

    Secondo il Sunday Telegraph, alcuni politici conservatori “soft Brexiteers”, come il ministro

    dell’economia e finanze Philip Hammond, avrebbero ideato un “piano B” alternativo, in caso il WA

    fosse bloccato in Parlamento. Il piano B consisterebbe in un accordo per uno status di associazione

    del Regno Unito alla UE simile a quello della Norvegia e una estensione del periodo di transizione.8

    La Norvegia partecipa allo Spazio economico europeo (SEE), ha accesso al mercato unico, al

    passaporto europeo, ha accesso ai fondi di ricerca per formazione e per l’impresa (Horizon 2020,

    Erasmus, Galileo etc.), ma contribuisce al bilancio comunitario. L’accesso al mercato unico

    presuppone l’obbligo di recepimento delle regole comunitarie, ma permette un limitato potere

    d’influenza dato dalla consultazione nel proprio processo decisionale.

    7 Cfr. Claudio Catalano “l’addio del cancelliere Merkel: l’Europea in cerca di leadership” OSS 1 2018. Jean-Charles

    Larsonneur “Avis fait au nom de la Commission de la défense nationale et des forces armées sur le projet de loi de finances pour 2019 (n° 1255) Tome VII, Défense Équipement des Forces – Dissuasion N° 1306” Assemblée Nationale Constitution du 4 Octobre 1958, XV legislature, registrato il 12 ottobre 2018. http://www.assemblee-nationale.fr/15/budget/plf2019/a1306-tVII.asp#P128_11349

    8 Edward Malnick, Harry Yorke e Peter Foster, “Secret 'Plan B' for Brexit: Cabinet and EU plot 11th-hour alternatives to Theresa May’s deal” in Sunday Telegraph, 24 novembre 2018 http://www.telegraph.co.uk/politics/2018/11/24/cabinet-eu-plot-11th-hour-alternatives-theresa-mays-deal-leaders/

    http://www.assemblee-nationale.fr/15/budget/plf2019/a1306-tVII.asp#P128_11349http://www.assemblee-nationale.fr/15/budget/plf2019/a1306-tVII.asp#P128_11349http://www.telegraph.co.uk/politics/2018/11/24/cabinet-eu-plot-11th-hour-alternatives-theresa-mays-deal-leaders/

  • L’accordo per la Brexit: l’Europa in cerca di Leadership

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 17

    Il modello Norvegia presuppone la libera circolazione delle persone, ovvero l’immigrazione di

    altri cittadini europei (non extracomunitari), una delle motivazioni principali per cui i cittadini britannici

    hanno votato per la Brexit. Inoltre, subire le normative europee, senza avere voce in capitolo, è

    un’ipotesi che gli “hard Brexiteer”, ma anche gran parte dell’opinione pubblica britannica trova

    inaccettabile.

    È poco raccomandabile anche l’opzione di dimissione del governo May ed eventuali elezioni

    anticipate, che creerebbe più instabilità.

    Proprio riguardo l’instabilità economica, il 28 novembre 2018 è stato pubblicato il rapporto della

    Banca d’Inghilterra circa gli scenari sulla stabilità monetaria e finanziaria per la Brexit, in risposta

    alla richiesta della commissione tesoro della Camera dei Comuni. Il rapporto illustra deglalcuni

    scenari fino a cinque anni, ma non delle stime o previsioni precise, anche sulla base

    dell’osservazione dei fenomeni economici verificatisi dopo il referendum del giugno 2016, con la

    caduta della Sterlina, l’aumento dell’inflazione e la diminuzione della produttività. La Brexit

    porterebbe a ostacoli al commercio e agli investimenti diretti esteri nel Regno Unito, la Sterlina

    verrebbe ulteriormente svalutata per far fronte al calo della produttività e questa svalutazione

    avrebbe effetti inflattivi sui prezzi al consumo, dovuti anche ai dazi e tariffe commerciali sui beni

    importati. L’incertezza finanziaria e monetaria aumenterebbero anche il tasso di disoccupazione.

    Non esistendo casi precedenti, gli effetti della Brexit possono essere studiati solo come effetti opposti

    e simmetrici a quelli dei modelli di integrazione economica e commerciale, ovvero il contrario della

    formazione del mercato unico europeo.

    Il problema principale è che le imprese, che fungono da catena di trasmissione dell’economia

    reale e del commercio, non hanno sviluppato modelli di business per affrontare la Brexit, né esistono

    a priori tali modelli. Una quasi certezza è che le catene di fornitura transnazionali affronteranno costi

    extra-dovuti ai dazi e alle tariffe commerciali e i tempi saranno dilatati dalle procedure doganali.

    La Banca d’Inghilterra ha predisposto scenari sia nel caso di approvazione del WA; sia nel

    caso di “no deal disruptive” sia in un “no deal disorderly”.

    Nel caso di “no deal disruptive” con l’interruzione dell’unione doganale sarebbero introdotti

    istantaneamente dazi e tariffe doganali, in assenza di un accordo, il Regno Unito manterrebbe le

    normative derivate dall’UE e riconoscerebbe gli standard UE, ma l’UE non riconoscerebbe un

    principio di reciprocità al Regno Unito.

    Nel caso di “no deal disorderly”, il Regno Unito perderebbe i diritti relativi agli accordi

    commerciali tra UE e paesi terzi, le frontiere non sarebbero in grado di assicurare i controlli doganali

    e vi sarebbero ripercussioni anche sulla tenuta della Sterlina.

    Gli effetti sul Pil sono illustrati nel seguente grafico della Banca d’Inghilterra:9

    9 Bank of England “EU withdrawal scenarios and monetary and financial stability, A response to the House of

    Commons Treasury Committee” pubblicato il 28 novembre 2018 https://www.bankofengland.co.uk/report/2018/eu-withdrawal-scenarios-and-monetary-and-financial-stability

    https://www.bankofengland.co.uk/report/2018/eu-withdrawal-scenarios-and-monetary-and-financial-stability

  • Iniziative di Difesa Europee e sviluppo tecnologico

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 18

    Si spera che gli effetti dovuti ad un “no deal” possano spaventare e convincere i deputati a

    votare il WA.

    Lo scenario “no deal” non è al momento ancora scongiurato, in tal caso non si applicherebbe

    il WA, il Regno Unito sarebbe fuori dal mercato unico e dall’unione doganale, tutta la normativa

    britannica di derivazione UE dovrebbe essere rivista dal Parlamento e si creerebbe un confine fisico

    tra il Regno Unito e gli Stati Membri UE, con la reintroduzione di tariffe doganali. Inoltre, un serio

    problema sarebbe il ripristino di “hard border” con l’Irlanda e la non conformità agli accordi Good

    Friday.

    Le implicazioni per la difesa del “no deal” presuppongono che il Regno Unito esca da tutte le

    strutture e le operazioni militari della UE, inclusa l’EDA e non possa partecipare, a meno di invito

    formale da parte dell’UE, ai progetti dell’EDA, ai fondi europei per la difesa né alla PESCO. Il Regno

    Unito dovrebbe finanziare con fondi nazionali anche la ricerca militare, non potendo più usufruire dei

    fondi europei per la ricerca di cui era il principale beneficiario nell’UE. La partecipazione del Regno

    Unito a NATO, ONU e OSCE rimarrebbero l’unico forum comune con l’UE e la cooperazione militare

    con gli Stati Membri UE avverrebbe su base bilaterale.10 Si ricorda, che per la cooperazione militare

    tra Francia e Regno Unito è tuttora in vigore il Trattato di Lancaster House del 2010.

    Secondo gli “Hard Brexiteers” lo scenario “No deal”, con una totale cesura dei rapporti UE-UK,

    sarebbe forse più semplice e chiaro per UK invece di una totale riorganizzazione dei rapporti con

    UE e permetterebbe anche a UK di voltare pagina più velocemente e avviare accordi commerciali

    con Stati Uniti, Australia, Arabia Saudita, Giappone e le altre potenze extraeuropee.

    Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che sostiene le posizioni degli “Hard Brexiteers”

    sostiene che il WA rende più difficile le relazioni commerciali tra Stati Uniti e Regno Unito.

    10 Cfr. EU security partnership cit.

  • L’accordo per la Brexit: l’Europa in cerca di Leadership

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 19

    La corte suprema scozzese ha richiesto alla Corte Europea di Giustizia di Strasburgo, il 27

    novembre, una sentenza interpretativa sull’art.50 del Trattato dell’Unione Europea (TUE) sulla

    possibilità di revoca del processo di uscita.11 Un’ipotesi suggerita in Italia del Prof. Giuliano Amato,

    che era stato tra gli estensori del testo del trattato durante la Convenzione di Roma.

    In ogni caso, per togliere ogni alibi ai deputati britannici, il primo ministro May sostiene che

    l’intesa raggiunta al Consiglio Europeo sia l’unica sul tavolo. Considerata la scadenza del 29 marzo

    2019, ogni altra opzione, come un secondo voto alla Camera dei Comuni o l’indizione di un secondo

    referendum, non è percorribile perché ormai si è fuori tempo massimo.

    L’accordo dovrebbe essere approvato anche dal Parlamento Europeo a inizio 2019, per essere

    in vigore alla data ufficiale della scadenza della Brexit.

    Tuttavia in caso di “no deal” non tutto potrebbe essere perduto e, anzi, il Regno Unito potrebbe

    raggiungere un accordo sul modello Norvegia, in maniera molto semplice e lineare. La “modesta

    proposta” sarebbe la seguente: con il “no deal” il Regno Unito esce dall’UE, sotto tutti i punti di vista,

    a questo punto può aderire all’EFTA (European Free Trade Association), organizzazione che fondò

    e di cui fu membro fino all’adesione alla Comunità Europea nel 1972. In quanto Stato partecipante

    all’EFTA, il Regno Unito potrebbe negoziare un accordo di associazione al SEE, come hanno fatto

    Islanda, Liechtenstein, Norvegia o Svizzera. Di fatto il modello “Norvegia” caro ai “Soft Brexiteers”

    uscirebbe dalla porta e rientrerebbe dalla finestra, garantendo al Regno Unito una valida uscita

    dall’UE, ma continuando a godere della partecipazione al SEE e di fatto al mercato unico, una

    soluzione “win-win” per Regno Unito e UE.

    11 “Exit Brexit? EU’s top court rules if this is legally possible” Euractiv, 26 novembre 2018

    https://www.euractiv.com/section/uk-europe/news/exit-brexit-eus-top-court-rules-if-this-is-legally-possible

    https://www.euractiv.com/section/uk-europe/news/exit-brexit-eus-top-court-rules-if-this-is-legally-possible

  • Balcani e Mar Nero Paolo Quercia

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 20

    Tempesta geopolitica nel Mare di Azov: verso la marittimizzazione

    del conflitto russo – ucraino?

    A partire alla primavera 2018, una crescente tensione si è registrata tra Russia e Ucraina nella

    parte Nord-orientale del Mar Nero, lungo lo stretto di Kerch che dà accesso al Mare di Azov. Al di là

    del valore strategico di quest’area legato al conflitto russo – ucraino sul Donbass e sulla Crimea, il

    Mare di Azov riveste un significato particolare per via degli interessi economici, tanto per Mosca,

    quanto per Kiev. Per la Russia, su questo mare interno vi è la foce del fiume Don, una fondamentale

    via di trasporto marittimo collegata con le maggiori aree industrializzate del Paese. Per l’Ucraina i

    porti del Mare di Azov – che hanno sempre rivestito un’importanza per la vicinanza alle aree

    carbonifere e industriali del bacino del Donbass e come canale di esportazione del grano – hanno

    perso traffico commerciale a causa del conflitto nell’hinterland, in particolar modo il porto di

    Mariuopol, ma hanno ulteriormente incrementato il proprio valore strategico dopo la perdita del

    controllo della Crimea e dunque del porto di Sebastopoli.

    L’area, nonostante le tensioni che si sono registrate agli inizi del conflitto attorno alla città

    portuale di Mariuopol, è sostanzialmente rimasta lontana dal baricentro delle tensioni militari dopo il

    2014, ma ovviamente la striscia costiera dell’Ucraina è sotto pressione strategica per l’ampliamento

    della costa del Mar Nero sotto controllo russo, in Crimea e nella regione di Donetsk. La situazione

    si è ulteriormente deteriorata a partire dalla primavera di quest’anno con la decisione da parte russa

    di realizzare il ponte sullo stretto di Kerch che unisce la penisola di Crimea con la Russia. I porti di

    Mariupol e di Berdyansk, difatti, dipendono totalmente dal transito attraverso lo stretto di Kerch.

    Le aree di conflitto tra Ucraina e Russia nel Mare di Azov secondo una fonte ucraina, www.liveuamap.com

    http://www.liveuamap.com/

  • Balcani e Mar Nero

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 21

    Anche per Mosca il controllo degli stretti ha un valore strategico, non solo come strumento di

    pressione economica sull’Ucraina, perché il Mare di Azov rappresenta un’importante via di trasporto

    marittimo che collega Mosca e le aree più industrializzate della Russia con il Mar Nero e dunque con

    il Mediterraneo. Il Mar di Azov rappresenta dunque la principale porta di accesso dello sviluppato

    sistema di trasporto fluviale interno russo che collega la Russia centrale, gli Urali e l’Asia centrale

    con il Mediterraneo orientale e con l’Europa centrale attraverso il sistema di comunicazione Mar

    Nero – Danubio. Il Mare di Azov è lo sbocco del fiume Don che a sua volta è parte di un più

    importante sistema di trasporto fluviale collegato – attraverso il canale Volga/Don costruito negli anni

    cinquanta – con il fiume Volga, il più grande fiume europeo e importantissimo corridoio di trasporto

    fluviale russo.

    Uno scivolamento delle tensioni russo – ucraine dalla terra verso il mare è iniziato ad affiorare

    agli inizi del 2018, in particolare in concomitanza con l’avvio della costruzione da parte russa del

    ponte sullo stretto di Kerch che unisce la Crimea con la Russia.

    Un ponte strategico e i rischi di marittimizzazione del conflitto ucraino

    Nel mese di maggio, imprese russe hanno portato a termine la costruzione della parte stradale

    del ponte sullo stretto che è stato aperto al traffico e nominato “Ponte della Crimea”. L’Unione

    Europea ha condannato la realizzazione dell’opera, inserendo nella propria lista di sanzioni le 6

    aziende russe che avevano completato il progetto. La realizzazione dell’opera, contestata da Kiev e

    dalla UE, ha prodotto un aumento della tensione per il timore ucraino che essa potesse esse

    utilizzata per bloccare il transito delle proprie navi dal Mar Nero al Mare di Azov. Ovviamente la

    costruzione del ponte non va vista solo dal punto di vista marittimo, ossia come una restrizione

    ulteriore del choke point dello stretto di Kerch, ma anche come un’infrastruttura chiave per il supporto

    logistico/militare alla Crimea e come un canale di supporto vitale per acqua e gas verso la

    popolazione e l’industria della penisola, visto che le forniture da parte di Kiev verso la Crimea sono

    state interrotte dopo l’annessione russa.

    Concentrandosi solamente sul valore strategico dell’opera dal punto di vista del traffico

    marittimo verso i porti dell’Ucraina, è importante considerare che la costruzione del ponte di Kerch

    ha creato una ulteriore restrizione della tipologia di navi in grado di passare lo stretto, non

    particolarmente nella larghezza quanto nella altezza della campata del ponte.

    Le dimensioni del ponte, difatti, creano un ulteriore vincolo di transito rispetto allo stretto e non

    consentirebbero il passaggio del naviglio medio più grande, come lo standard Panamax che, pur

    non rappresentando la maggioranza del traffico verso i porti ucraini, potrebbe avere un impatto

    importante sul valore delle merci movimentate in questi porti. Secondo le autorità portuali ucraine,

    questo tipo di navi genererebbero oltre il 40% del fatturato dei porti del Mare di Azov. Le autorità

    portuali ucraine sostengono, ad esempio, che solo i provvedimenti di chiusura dello stretto (fino a

    72 ore), adottati durante il periodo della costruzione del ponte, abbiano già comportato un danno

    economico stimabile in 20 milioni di dollari, mentre più difficile da stimare è il danno economico di

    lungo periodo causato dalla grandezza della infrastruttura. È comunque verosimile che le navi più

    grandi che servivano i porti ucraini del Mare di Azov dovranno essere sostituite con navi più piccole

    con trasbordi che aumentano i costi della logistica, sia in entrata che in uscita.

  • Tempesta geopolitica nel Mare di Azov: verso la marittimizzazione del conflitto russo – ucraino?

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 22

    Immagine tratta dal sito ufficiale russo del progetto del Ponte sullo stretto di Kerch www.most.life

    Ci appare tuttavia che la vulnerabilità più rilevante per il sistema economico ucraino del Mare

    di Azov, anche dopo la costruzione del ponte, non sia tanto quella fisica legata alla nuova

    infrastruttura – che ha comunque un impatto – quanto quella “politica”, legata alle differenti forme di

    contingentamento, rallentamento e blocco del traffico che le autorità russe possono porre in essere

    a danno del transito dal Mar Nero al Mare di Azov. Questo anche in virtù del fatto che la struttura

    del ponte rappresenta una limitazione fisica nota, per superare la quale possono essere studiate

    opportune contromisure – che ovviamente hanno un costo. Ma per un flusso economico e

    commerciale, il costo più alto è quello dell’imprevedibilità degli ostacoli che possono produrre uno

    scorrimento a singhiozzo per numerosi motivi: da ispezioni capillari per motivi di sicurezza o

    ambientali, a code e attese per il pilotaggio delle navi attraverso lo stretto. Prima dell’annessione

    della Crimea da parte russa, questi problemi non si ponevano in quanto la situazione era inversa e

    il passaggio dello stretto di Kerch avveniva nella parte ucraina della linea di delimitazione delle acque

    territoriali ed era pertanto Kiev a gestire l’attraversamento e il pilotaggio delle navi attraverso lo

    stretto (riscuotendone anche i diritti). Tutto ciò è radicalmente cambiato dopo l’annessione e controllo

    della Crimea da parte di Mosca: ora la gestione del transito in entrata e in uscita è regolato dalle

    autorità di Mosca (la polizia di frontiera terreste e marittima russa è tornata ad essere, dal 2003, un

    ramo del FSB, i servizi di sicurezza russi). Ovviamente l’atteggiamento delle autorità russe sul

    transito delle navi ucraine attraverso lo stretto muta con il mutare dei rapporti politici e delle tensioni

    tra Kiev e Mosca, producendosi in costi diretti e indiretti per l’economia dei trasporti del Mare di Azov.

    Ai costi diretti dei ritardi e degli ostacoli va a sommarsi anche l’incremento dei costi assicurativi per

    via di un aumento del rischio politico.

    La questione travalica, ovviamente, il solo ambito dello stretto di Kerch e si estende più in

    generale alla problematica estremamente complessa dei contenziosi marittimi nel Mar Nero e nel

    Mare di Azov, in corso e potenziali, tra Russia e Ucraina, al punto che potrebbe quasi parlarsi di un

    frozen conflict economico tra i due Paesi, in cui la particolarità dell’ambiente marittimo, l’orografia

    delle coste, i meccanismi di funzionamento degli scambi marittimi e il diritto del mare creano un mix

    http://www.most.life/

  • Balcani e Mar Nero

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 23

    potenzialmente esplosivo in grado di danneggiare in particolare gli interessi economici e marittimi

    dell’Ucraina. Sono praticamente infinite le occasioni per bloccare o ritardare significativamente il

    traffico commerciale verso i porti del Mare di Azov al punto da renderlo incerto e non affidabile: dalle

    ispezioni ripetute e prolungate, alle norme ambientali, alle procedure di transito lungo i choke points,

    alle esercitazioni militari, alle interdizioni di accesso, alla ipotizzabile proclamazione di una Zona

    Economica Esclusiva. La questione era già emersa dopo il conflitto del 2014, al punto che nel 2016

    Kiev aveva aperto una disputa giuridica con Mosca, deferendo a una Corte arbitrale la decisione sui

    propri diritti sulle risorse naturali della zona economica esclusiva al largo della Crimea, nel Mar Nero

    e nel Mare di Azov, includendovi anche l’illegalità dell’iniziativa russa di costruire unilateralmente un

    ponte nello Stretto di Kerch.

    Fino agli inizi del 2018, i russi hanno mantenuto un approccio non orientato verso un’escalation

    dell’annessione con l’Ucraina nella dimensione marittima, consentendo alle navi di Kiev il transito

    verso il Mare di Azov senza particolari restrizioni.

    Come detto, tuttavia, dalla primavera del 2018, le tensioni sono notevolmente aumentate tra i

    due Paesi con il tentativo di Mosca di ribadire il suo controllo dello spazio marittimo nel Mare di Azov,

    anche attraverso la costruzione del ponte sullo stretto di Kerch. In ciò favorita dall’inesistenza della

    flotta militare ucraina che, già modesta, ha visto la defezione dei 4/5 delle sue navi verso la Russia

    durante la crisi del 2014, e dai meccanismi degli equilibri del potere marittimo garantiti dalla

    convenzione di Monteaux degli inizi del novecento, che fa del Mar Nero un co-dominio strategico

    turco – russo. In parallelo Kiev ha iniziato a spostare l’attenzione verso un allargamento del confronto

    militare nello spazio marittimo del Mare di Azov, puntando probabilmente al rafforzamento delle

    proprie capacità militari navali in questo mare interno, e avviando la costruzione di una nuova base

    navale nel Mare di Azov, presso il porto di Berdiansk. Le prime due unità navali, due motocannoniere

    classe Gyurza-M (Kremenchuk e Lubny) sono state costruite nei cantieri Kuzna on Ribalsky di Kiev

    (posti sul fiume Dnepr e fino al 2017 denominati Leniskaya Kuznya) e trasportate nel Mare di Azov

    via terra ai primi di settembre. Ad esse si sono aggiunte, a fine settembre, due altre navi militari, la

    U-500 Donbass, una vecchia unità di supporto trasformata in nave Comando, e il rimorchiatore

    militare Korets. Queste ultime due navi militari hanno attraversato lo stretto di Kerch il 23 settembre

    sotto il controllo e la scorta dalle autorità russe, rispettando le procedure di transito introdotte da

    Mosca. Esse sono le prime navi militari ucraine che transitano dal Mar Nero nel Mare di Azov dopo

    il conflitto del 2014 e dopo la costruzione del ponte sullo stretto.

    La situazione è invece precipitata due mesi dopo, il 25 novembre, quando un secondo

    convoglio composto da un rimorchiatore militare e altre due motocannoniere ucraine classe Gyurza-

    M (Nikopol e Berdyansk) hanno cercato di attraversare lo stretto di Azov senza richiedere

    l’autorizzazione al transito alle autorità russe, provocando l’intervento della guardia costiera del FSB

    che, dopo un breve conflitto a fuoco, ha catturato il rimorchiatore e le due navi militari di scorta. In

    seguito all’incidente, 24 militari ucraini sono stati arrestati, alcuni dei quali feriti. Secondo le autorità

    di Mosca le navi ucraine erano entrate illegalmente nelle acque territoriali russe senza rispettare gli

    ordini delle autorità dei guardia coste russi.

    Conseguenze dell’incidente, valutazioni e conclusioni

    L’incidente marittimo di fine novembre nello stretto di Kerch ha prodotto una forte reazione da

    parte del governo ucraino che ha messo le forze armate in massima allerta e ha introdotto la legge

    marziale per 30 giorni nelle aree del Paese che potrebbero essere interessate da un eventuale

    conflitto con Mosca (10 delle 24 regioni del Paese). È stato anche emesso un visa ban per i cittadini

    maschi russi tra i 16 ed i 60 anni. Da par suo Putin ha accusato l’Ucraina di una deliberata

    provocazione militare e le navi e gli equipaggi della marina ucraina sono ancora sotto arresto in

    Russia.

  • Tempesta geopolitica nel Mare di Azov: verso la marittimizzazione del conflitto russo – ucraino?

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 24

    Il cancelliere tedesco Angela Merkel ha attivato un’attività diplomatica di mediazione tra Kiev e

    Mosca, essendosi il presidente russo Putin rifiutato di parlare telefonicamente con il presidente

    ucraino Poroshenko.

    Il presidente americano Trump si è trovato costretto ad annullare il previsto incontro con il

    presidente russo al margine del G20, senza accusare in modo particolare nessuna delle due parti,

    ma richiedendo la liberazione dell’equipaggio ucraino. In seguito all’incidente le autorità russe hanno

    provveduto a bloccare lo stretto con una petroliera posta lungo tutta l’apertura del ponte,

    interrompendo per qualche giorno il traffico commerciale tra Mar Nero e Mare di Azov, dimostrando

    la loro capacità di produrre un importante danno economico all’ucraina senza la necessità di ricorrere

    allo strumento militare. L’Ucraina, difatti, trae una parte importante del bilancio dello Stato

    dall’economia marittima delle regioni del Mare di Azov, che Mosca ha sotto controllo economico

    detenendo le chiavi di entrata e di uscita da questo mare interno. In caso di rinnovata crisi Mosca

    potrà nuovamente avvalersi delle sue capacità di blocco economico della regione con il duplice

    obiettivo di danneggiare le capacità militari di Kiev e di dimostrare alla popolazione delle regioni

    costiere sul Mar di Azov la loro dipendenza economica dalla volontà di Mosca.

    Il transito ripreso nello stretto di Kerch dopo la crisi di fine novembre. fonte: MarineTrafic

    Infine, come bilancio di questa piccola crisi, va sottolineato come le reazioni internazionali

    siano state piuttosto misurate e la maggior parte dei Paesi terzi si sono posizionati per una

    descalation della tensione e per chiedere alla Russia di ristabilire il libero accesso alle acque del

    Mare di Azov alle navi ucraine, cosa che i russi hanno fatto. La posizione americana è stata più

    articolata. Più neutrale quella del presidente Trump, più assertiva quella dell’ambasciatore

    americano presso le Nazioni Unite Nikki Haley, che alle Nazioni Unite ha ricostruito la vicenda in

    maniera favorevole all’Ucraina, dando la colpa dell’incidente alla Russia e affermando che gli USA

    manterranno le sanzioni attualmente in essere contro Mosca e che episodi come l’incidente del 25

    novembre rappresentano un abuso e che producono un deterioramento delle relazioni con gli USA.

  • Balcani e Mar Nero

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 25

    Anche in questi termini, tuttavia, la reazione americana può considerarsicomplessivamente

    moderata. Leggermente più critica la dichiarazione del rappresentante inglese presso le Nazioni

    Unite che – tra l’altro – ha definito le azioni di Mosca al pari di un’aggressione economica contro

    l’Ucraina.

    Analisi, valutazione e conclusioni

    Complessivamente ci appare che l’incidente non vada classificato come uno scontro militare

    quanto piuttosto come un conflitto giuridico/economico con cui Kiev ha cercato di effettuare

    l’attraversamento dello stretto di Kerch senza richiedere il permesso alle autorità russe, perseguendo

    l’obiettivo di ristabilire una propria libertà di circolazione attraverso gli stretti e disconoscendo

    l’autorità che de facto Mosca ha assunto nel controllarne il transito; ciò ha attivato la violenta reazione

    di Mosca che ha dovuto pagare un piccolo prezzo di immagine internazionale. Allo stesso tempo,

    però, Kiev ha mostrato la sua vulnerabilità sia economica che militare, che Mosca può sfruttare nel

    caso in cui l’Ucraina tenti di rimettere in discussione il controllo russo della penisola della Crimea.

    L’esercizio del rigido controllo dell’accesso al Mare di Azov non rappresenta per Mosca solo

    l’affermazione della propria conquistata sovranità sulla penisola della Crimea e sulle sue “acque

    territoriali”, ma risponde anche a un preciso significato di condizionamento economico e

    commerciale della vicina Ucraina. Mosca non ha interesse ad attuare una strategia di

    “strangolamento” economico dei porti dell’Ucraina, ma piuttosto quello di mantenere il controllo

    tattico dell’accesso, consentendolo o bloccandolo a seconda di come si muove, agisce e reagisce il

    governo di Kiev sia nel Mare di Azov ma, potenzialmente, anche sul più ampio teatro del conflitto

    nel Donbass. In questo senso lo scontro marittimo di fine novembre tra Mosca e Kiev va

    probabilmente interpretato come una reazione/segnale russo all’Ucraina rispetto ai tentativi di

    spostare la conflittualità sul terreno marittimo costruendo una nuova base navale nel Mare di Azov

    e di concentrarvi assetti militari leggeri e rapidi.

  • Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele Claudio Berttolotti

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 26

    Israele ed Egitto: la soluzione per gli attacchi da Gaza passa dalla

    Siria. Tunisia: un difficile contrasto al terrorismo.

    Dopo una serie di lanci di razzi su Israele, il 27 ottobre il Movimento Jihad islamico – fazione

    militante che opera nell’area di Gaza governata da Hamas e che ha stretti legami con l'Iran e la Siria

    – ha temporaneamente interrotto gli attacchi in seguito alla mediazione dell’Egitto. L’Egitto, infatti, è

    intenzionato a perseguire l'obiettivo di una “riconciliazione palestinese” tra Hamas e

    l'amministrazione della West Bank, in Cisgiordania, retta dal Presidente dell’Autorità nazionale

    palestinese riconosciuto a livello internazionale, Mahmoud Abbas (Abu Mazen), ha perso il controllo

    di Gaza nel 2007. Una mediazione fortemente voluta dal presidente egiziano Abdel-Fattah al-Sissi,

    anche interessato all’apertura di un dialogo con Israele, che è naufragata di fronte a un’“escalation

    controllata” di violenza funzionale ai due contendenti sul piano politico interno.

    Nella notte tra il 26 e il 27 ottobre, sono stati lanciati 34 razzi contro Israele. Il sistema israeliano

    di difesa missilistica Iron Dome, dislocato su tutto il territorio per intercettare i missili che giungono

    da Gaza, ne ha fermati 13, due sono esplosi a Gaza e il resto è caduto in spazi aperti nel sud di

    Israele. Il confronto è seguito alle sanguinose proteste del giorno precedente – ma avviate il 30

    marzo scorso con le manifestazioni di massa ai confini israeliani – durante le quali le forze israeliane

    hanno ucciso quattro arabi palestinesi e provocato il ferimento di una trentina che, nell’ambito

    dell’iniziativa “marcia del ritorno”, protestavano e tentavano di superare il recinto perimetrale che

    divide Gaza da Israele.

    Nell’acceso scambio di accuse tra le parti, Hamas – il principale gruppo militante che controlla

    Gaza, indicato come gruppo terrorista da Israele, Stati Uniti e Unione Europea e che ha per obiettivo

    principale la “distruzione di Israele” – ha accusato gli israeliani di ricorrere all'escalation militare "per

    eludere gli obblighi" di un cessate il fuoco e, se da un lato ha chiesto che venisse sospeso il blocco

    israeliano-egiziano su Gaza, ha anche continuato a minacciare Israele attraverso il lancio di razzi.

    Sebbene il Movimento Jihad islamico agisca spesso indipendentemente da Hamas, Israele ha

    accusato quest’ultimo, che governa Gaza dal 2007, di essere il responsabile degli attacchi che sono

    stati lanciati dalle aree sotto il suo controllo. Israele ha inoltre accusato Hamas di usare le grandi

    manifestazioni di protesta come copertura per infiltrazioni e attacchi al confine israeliano, mettendo

    in pericolo la vita dei giovani manifestanti palestinesi.

    Sul piano operativo, la reazione israeliana agli attacchi del 26-27 ottobre si è concretizzata in

    azioni di bombardamento aereo mirato contro 80 obiettivi terroristici a Gaza, – inclusi campi di

    addestramento, strutture per il deposito di armi e un edificio della sicurezza di Hamas - mentre, sul

    piano politico, Israele ha accusato le forze iraniane delle “Guardie della Rivoluzione” Al Quds

    schierate in Siria in supporto diretto alle azioni contro Israele; accuse che hanno aggiunto una nuova

    dimensione al confronto tra Israele e i militanti di Gaza, perché l’apertura di un nuovo fronte in Siria

    potrebbe trascinare Israele in un confronto aperto con le forze armate iraniane e di Hezbollah, a cui

    si unirebbe l’incognita dei sistemi antiaerei russi S-300 ed S-400 (questi ultimi operativi dalla base

    navale di Tartus in seguito all’abbattimento dell’aereo russo avvenuto a settembre) recentemente

    schierati in aggiunta ai vecchi S-125 ed S-200 in dotazione alle forze siriane1.

    1 Russia claims Syria air defences shot down 71 of 103 missiles, The Guardian, 14 aprile 2018, in

    https://bit.ly/2EMdQ1c.

    https://bit.ly/2EMdQ1c

  • Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 27

    Il successivo 11 novembre Israele ha avviato un’operazione con forze speciali in territorio

    palestinese – a Khan Younis, nel sud di Gaza – che ha portato alla morte di sette esponenti di

    Hamas, tre di alto livello, tra i quali Nour al-Din Muhammad Salama Baraka, un comandante delle

    Brigate Izzedin al-Qassam, un caduto tra gli israeliani, un ufficiale delle forze speciali, e un ferito.

    All’azione israeliana è seguita l’immediata reazione palestinese con il lancio, in meno di 24 ore, di

    oltre 400 razzi “Qassam” diretti verso le città di Sderot, Be’er Sheva, Ashdod e Ashqelon; un

    centinaio sono stati intercettati dal sistema Iron Dome, mentre l’aviazione israeliana ha compiuto

    circa 150 attacchi, colpendo postazioni di Hamas e di altri gruppi palestinesi tra Rafah, Gaza e Khan

    Younis. L’esercito ha rafforzato e messo in “stato di allarme” le unità corazzate e di fanteria

    dispiegate nel sud del paese (area di Sderot).

    Hamas ha, infine, posto la questione all’attenzione mediatica, chiedendo l’apertura di

    un’inchiesta internazionale.

    Analisi, valutazioni, previsioni

    Dal punto di vista di Israele, la sicurezza a livello regionale è minata dall’attivismo delle forze

    iraniane dispiegate in supporto a Damasco. Pertanto, la reazione israeliana potrebbe non “essere

    limitata geograficamente" alla striscia di Gaza2, ma potrebbe essere estesa colpendo le forze

    iraniane dispiegate in Siria e a quelle libanesi di Hezbollah e di altre milizie sciite impegnate a

    sostegno del presidente Bashar al-Assad nella guerra civile iniziata nel 2011. Un supporto iraniano

    a Damasco che potrebbe trasformarsi in una presenza stabile, una presenza stabile di unità militari

    iraniane, o ad esse associabili, è ciò che più preoccupa Israele.

    È evidente quanto la situazione che gravita attorno alla “questione palestinese”, per quanto

    ormai di secondaria importanza per la maggior parte degli storici supporter, continui a rappresentare

    un’opportunità per gli equilibri a livello regionale. Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Turchia,

    Qatar e Iran sono player regionali interessati, a diverso titolo, ad acquisire vantaggio e capacità di

    influenza sui dinamici quanto variabili equilibri medio e vicino-orientali. Non stupisce dunque il ruolo

    giocato dall’Egitto che, al fine di guidare un processo di pacificazione per la striscia Gaza, il 31

    ottobre ha inviato i propri funzionari intelligence per incontrare i rappresentanti delle due fazioni;

    l'ultimo di un giro di consultazioni “diplomatiche”.

    Un dialogo che si è dimostrato difficile fin dal primo momento, come dimostrato

    dall’atteggiamento di Hamas, il cui leader Yahya Sinwar ha dichiarato «che nessun dialogo con

    l’occupante Israele può essere avviato»3; dialogo che, al di là delle parole, ha visto sedersi al tavolo

    delle trattative l’Egitto, il Qatar e l’ONU con l’intento dichiarato di porre termine al blocco di Gaza e

    ristabilire il controllo dell’Autorità nazionale palestinese4. Dai colloqui era derivata, sebbene per un

    arco temporale limitato a poche ore, l’apertura dei passaggi di frontiera di Rafah e Erez, l’invio di

    aiuti umanitari e fondi economici pari a 15 milioni di dollari – prevalentemente fondi del Qatar

    destinati agli stipendi arretrati degli impiegati pubblici di Gaza5.

    Accuse reciproche e altri problemi di fondo hanno portato Israele e Hamas a impantanarsi in

    una spirale di violenza che ha causato tre guerre nell'ultimo decennio. Una situazione che rimane

    apparentemente irrisolvibile6.

    Hamas, nel corso degli anni, ha accumulato un vasto arsenale di razzi e altre armi che, anche

    insieme ad altri gruppi armati palestinesi, ha utilizzato prevalentemente contro obiettivi civili

    israeliani, in parte sfruttando una fitta rete di tunnel sotterranei per penetrare all’interno di Israele e

    2 Akram F. Federman J., After Gaza strikes, Israel threatens Iranian forces in Syria, in https://bit.ly/2PIgaRt. 3 Khoury J., Hamas Chief in Gaza: 'There Is No Deal or Understandings' With Israel, in https://bit.ly/2Dj2lRO. 4 Ibidem. 5 Dentice G., Israele-Hamas: tregua senza pace, Commentary Ispi, in https://bit.ly/2qUS4UB. 6 Goldenber T., Underlying issues keep Israel, Hamas locked in violent loop, Associated Press, 13 Novembre 2018, in

    https://bit.ly/2TqAm8w.

    https://bit.ly/2PIgaRthttps://bit.ly/2Dj2lROhttps://bit.ly/2qUS4UBhttps://bit.ly/2TqAm8w

  • Israele ed Egitto: la soluzione per gli attacchi da Gaza passa dalla Siria. Tunisia: un difficile contrasto al terrorismo.

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 28

    condurre azioni terroristiche; tunnel costruiti utilizzando parte degli aiuti della Comunità

    internazionale al popolo palestinese per la ricostruzione di Gaza. Al di là delle capacità militari, –

    comunque limitate – Hamas è in difficoltà per una grave crisi economica e per la sfida lanciata dagli

    altri gruppi jihadisti radicali palestinesi, tra i quali il citato Jihad islamico, i Comitati di resistenza

    popolare, ma anche lo stesso braccio armato di Hamas e le Brigate Izzedin al-Qassam, in fase di

    aperta contestazione alla leadership del gruppo dirigente di Hamas.7 Inoltre Sinwar, al pari del leader

    israeliano Benjamin Netanyahu, ha bisogno di dimostrare la propria disponibilità a una soluzione

    senza apparire debole, sia di fronte alla propria base, sia agli israeliani e al contempo non può o non

    vuole scontrarsi con i supporter arabi stranieri che potrebbero cessare di sostenerne la causa.

    Israele, da parte sua, riconosce che la situazione economica a Gaza rischia di sfociare in una

    crisi umanitaria, ma rimane ferma sulle proprie posizioni: nessuna risoluzione politica potrà essere

    raggiunta finché Hamas, che ha rifiutato di disarmarsi o rinnegare l’opposizione a Israele, sarà al

    potere.

    Dall’altro lato, l’Autorità nazionale palestinese. Ad aggravare la situazione è stata l’annosa

    frattura tra la fazione Fatah di Hamas e Mahmoud Abbas. I tentativi di riconciliazione tentati negli

    anni sono ripetutamente falliti, lasciando i palestinesi divisi tra governi rivali in Cisgiordania e Gaza;

    tentativi infranti sullo scoglio del rifiuto di Hamas di disarmare i propri militanti.

    Ciò di cui Abbas ha timore è che un accordo politico possa portare alla separazione formale tra Gaza

    e West Bank, a vantaggio di Hamas. Nel tentativo di isolare Hamas dal suo elettorato e dal consenso

    generale, Abbas, da un lato, ha avviato una politica di riduzione dei salari dei dipendenti governativi

    a Gaza e ha tagliato i sussidi per il carburante per pagare l'elettricità. Dall’altro lato, ha contrastato

    una serie di iniziative internazionali volte a riabilitare Gaza, nel timore che ciò potesse aiutare

    Hamas. Tali misure, sommate al blocco decennale, hanno provocato una crisi economica e sociale

    di Gaza e spinto un sempre più disperato Hamas ad alimentare ed organizzare le proteste di massa

    ai confini con Israele.8

    Terrorismo in Tunisia e riforma delle forze di sicurezza

    Il 29 ottobre, un attacco terroristico ha colpito il cuore della città di Tunisi: una donna si è fatta

    esplodere in avenue Habib Bourguiba, vicino al Ministero degli Interni e all'ambasciata di Francia,

    ferendo venti poliziotti e sei civili. L'attacco suicida è stato portato a termine da Mouna Guebla9,

    30anni, disoccupata con una laureata in economia aziendale, legata al gruppo Stato islamico e

    indottrinata all’uso degli esplosivi attraverso il Web.

    Un’azione che segue numerosi altri attacchi terroristici, tra cui quello del 2015 al museo

    nazionale del Bardo, che ha provocato la morte di 24 persone e il ferimento di altre 45; e ancora,

    sempre nel 2015, il massacro di Sousse con 38 vittime e l'attentato contro le guardie presidenziali.

    Quest'anno, il 7 luglio, sei agenti di polizia sono stati uccisi ad Ain Soltane, Jendouba, nel nord-ovest

    del Paese. Episodi che, tra i tanti, sono la manifestazione violenta di un crescente fenomeno jihadista

    che fa della Tunisia il paese musulmano maggior “contributore” di foreign fighter per lo Stato islamico

    in Siria, Iraq e Libia.

    Una situazione di sicurezza precaria che ha portato a uno stato di emergenza che ha inflitto

    un duro colpo alla fragile democrazia del Paese. L'attacco suicida, di natura improvvisata e di portata

    limitata, da un lato, non ha influito sulla vita quotidiana dei tunisini, che vivono in uno stato di

    emergenza dal 2015 e sono abituati alla notizia di attacchi mortali; dall’altro lato, ha messo in

    evidenza come l'apparato di sicurezza tunisino sia sempre più in difficoltà nel gestire efficacemente

    7 Dentice G., Israele-Hamas…, cit. 8 Goldenber T., Underlying issues keep Israel…, cit. 9 Tunisia minister: Woman bomber pledged allegiance to IS, Associated Press, 19 novembre 2018, in

    https://bit.ly/2Bp8WsG.

    https://bit.ly/2Bp8WsG

  • Mashreq, Gran Maghreb, Egitto ed Israele

    Osservatorio Strategico 2018– Anno XX n. II 29

    l'instabilità interna a causa di un fenomeno che interessa non solo la Tunisia, ma tutto il Nord Africa10

    e che si somma a dinamiche di contestazione politica e sociale.

    Analisi, valutazioni, previsioni

    È in discussione la capacità di controterrorismo dello Stato? Mentre la vita nella capitale è

    tornata alla normalità, dopo un paio di giorni dall'attentato, l'attacco ha fatto emergere le perplessità

    dei tunisini riguardo alle capacità di contro- e anti-terrorismo dello Stato. Un attacco mal pianificato

    e improvvisato che è riuscito a ferire 20 persone nel cuore della capitale ha portato l’opinione

    pubblica a chiedersi se le forze di sicurezza tunisine sono pronte ad affrontare altre e più gravi

    minacce per il paese11.

    La famosa avenue Habib Bourguiba, dove si è verificato l'attentato suicida, non è solo il cuore

    politico e culturale di Tunisi, ma ospita anche il quartier generale del ministero degli Interni. Dall'inizio

    dello stato di emergenza, iniziato nel 2015, la presenza di