Oscar Romero di Roberto Morozzo della Rocca - Estratto

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La biografia ufficiale di Mons. Oscar Romero, martire in odium fidei.

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OSCAR ROMEROLa biografia

Prefazione di AndreA riccArdi

Roberto Morozzo della Rocca

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OSCAR ROMEROLa biografia

Prefazione di AndreA riccArdi

Roberto Morozzo della Rocca

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ISBN 978-88-215-9524-0

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PREFAZIONE

Questo libro di Roberto Morozzo della Rocca è importante. Lo è per il tema trattato: la vita di mons. Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador in Centro America, ucciso il 24 marzo 1980 a sessantadue anni, mentre celebrava la Messa, dagli squadroni della morte legati al potere politico della destra salvadoregna. Ma il libro è anche importante per il suo autore, uno storico autorevole e di grande acume e serietà. La ricerca storica di Morozzo su mons. Romero (in questo e altri testi) ha consentito di ricostruire la vera immagine del vescovo assas-sinato, che era stata coperta da tante incrostazioni polemiche e ideologiche e per molti era divenuta una bandiera di parte. Va ricordato il contributo decisivo che le ricerche di Morozzo su Romero hanno dato alla ricostruzione della verità storica di que-sto personaggio e anche alla chiarificazione lenta e faticosa del suo processo di beatificazione, giunto a esito positivo solo con il pontificato di papa Francesco. Lo studio di Morozzo è stato importante per la causa di beatificazione di Romero, nella quale era indispensabile delucidare la ricchezza e la complessità di questa figura di cristiano latinoamericano e di vescovo cattolico.

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Il non riconoscimento del «martirio» di Romero, palesato dal fatto che il processo di beatificazione non progrediva, co-stituiva un grave problema per la Chiesa in Centro America e nell’intero continente latinoamericano. Era una madre che non riconosceva il sangue sparso da un suo figlio, che aveva vissuto per lei. Il motto episcopale di Romero rivela il senso della sua vita: «Sentir con la Iglesia». Ma perché il martirio di questo ve-scovo non veniva riconosciuto? Era l’effetto dell’opposizione tenace di alcuni vescovi latinoamericani, che lo consideravano una figura ideologica, vacuamente progressista, manipolata da gruppi di teologi della liberazione. Questa interpretazione veni-va rafforzata dal fatto che il nome di Romero era diventato un simbolo delle sinistre latinoamericane, che lo rappresentavano come un’icona «rivoluzionaria». Morozzo ha mostrato – lo ripeto – che Romero era una figura con un grande spessore spirituale, non un politico, ma un pastore. La storia e la ricerca storica hanno un loro valore, soprattutto quando ricostruiscono i tratti di una personalità di così grande significato.

Romero è stato un martire. Molti anni fa, una personalità della Curia romana, il brasiliano card. Lucas Moreira Neves, mi raccontò che il 30 gennaio 1980 ricevette Romero nel suo ufficio vaticano. Lo trovò preoccupato: «Io ritorno, ma verrò ucciso, non so se dalla sinistra o dalla destra». Neves aveva sempre conservato un dolore segreto per questa vicenda, tanto che andava alle celebrazioni in memoria del vescovo defunto. Romero era cosciente che in Salvador lo avrebbero ucciso ma escluse di restare qualche tempo a Roma, come pure gli veniva offerto. Ritornò come un pastore tra la sua gente. Fino alla morte. Il non riconoscimento del suo martirio aveva creato,

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lungo gli anni, come un «blocco» nelle profondità del mondo ecclesiale latinoamericano, avvertito solo dai più sensibili, che tuttavia ha avuto un ingente costo spirituale. Con la beatifica-zione di Romero, non solo viene fatta giustizia, ma splende la maternità della Chiesa per uno dei suoi figli migliori.

Quella di Romero è una grande storia in un Paese che ha avuto anni terribili. Mostra come un vescovo e una Chiesa possono essere uno spazio di pace, mentre tutto crolla sotto i colpi di una violenza insensata. In questa situazione difficile, Romero fu un vescovo e un amico dei poveri. Infatti i poveri erano al centro delle sue preoccupazioni, perché egli ricono-sceva in loro la misteriosa presenza del Signore. La vicinanza ai poveri fu la bussola della sua vita. Come predicava il 5 febbraio 1978: «C’è un criterio per sapere se Dio sta vicino o lontano da noi: chiunque si preoccupi dell’affamato, del nudo, del povero, dello scomparso, del torturato, del prigioniero, di tutta questa carne che soffre, ha vicino Dio».

Leggere questo libro mette a contatto con una delle pagi-ne più avvincenti della storia della Chiesa del Novecento e mostra come una grande avventura cristiana possa avvenire in un paese piccolo, El Salvador, allora sconosciuto ai più. Rivela anche il volto segreto ma reale di un cattolicesimo di popolo e di «povera gente», forte e resistente, più capace di comprendere la realtà nazionale di tante forze politiche che si sono combattute e hanno egemonizzato la vita del Salvador.

AndreA riccArdi

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I

I PRIMI CINQUANT’ANNI (1917-1967)

Da Ciudad Barrios a Roma

Oscar Romero fu ucciso il 24 marzo 1980 da uno squadrone della morte, mentre celebrava all’altare. Da tre anni era arci-vescovo di San Salvador, la capitale del Salvador. A lungo la sua figura è rimasta controversa. Romero è stato trasformato da una parte politica in un simbolo rivoluzionario, mentre la parte avversa lo vedeva come un agitatore comunista. Già all’indomani della morte esisteva un mito politico di Romero, accostato messianicamente a personaggi come Camilo Torres, «Che» Guevara o Salvador Allende. Questo produceva una reazione negativa in chi non si riconosceva in tale pantheon politico.

Le contrapposizioni sul nome di Romero sono state vivissi-me soprattutto all’epoca della guerra civile del Salvador, du-rata dal 1980 al 1992, con un saldo di 80.000 morti su quattro milioni di abitanti. Oggi si riconosce che Romero, sebbene uomo pubblico determinante per le sorti del suo Paese, era un personaggio della Chiesa prima che della politica, e che le sue

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visioni e amicizie si muovevano molto al di là delle divisioni fra conservatori e progressisti. Finché Romero visse, il Sal-vador non precipitò nella guerra civile. Questa iniziò proprio all’indomani della morte, venendo meno il suo impegno di pacificatore al di sopra delle parti.

La beatificazione di Romero nella Chiesa cattolica, a se-guito del riconoscimento del martirio in odium fidei, avviene allorché molti animi sono rasserenati, essendo ormai lonta-ne le tensioni della guerra civile salvadoregna e del cruento scontro, in America Latina, fra regimi militari e guerriglie. Le strumentalizzazioni del vescovo martire sono molto ridotte. In tutto il mondo Romero riceve onori imparzialmente decretati. A lui sono dedicati monumenti, piazze, università, aeroporti, ospedali. Lo rievocano libri, film e opere teatrali.

Ma chi fu veramente Romero?Oscar Arnulfo Romero y Galdámez era nato il 15 agosto

1917 a Ciudad Barrios, cittadina dell’«Oriente» del Salvador, a 900 m di altitudine, non lontano dalla frontiera con l’Hon-duras. Il padre, Santos Romero, era il locale telegrafista. Non aveva un buon carattere ed era facile all’ira. Un podere, dote della madre Guadalupe de Jesús Galdámez assieme alla casa sulla piazza del paese, aiutava la famiglia a vivere con dignità. Vi lavoravano dei braccianti. Rispetto al loro ambiente, i Ro-mero non potevano dirsi poveri. Come tutti a Ciudad Barrios, non avevano elettricità. I bambini dormivano insieme in letti comuni. Le foto della famiglia Romero mostrano volti dai trat-ti meticci come la stragrande maggioranza dei salvadoregni.

A 4 anni Oscar fu colpito da una poliomielite che incise a lungo sulla capacità di movimento e di parola. L’infermità avrà

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conseguenze sul suo carattere, accentuandone l’intelligenza riflessiva. Oscar aveva il gusto delle parole e dei loro signi-ficati, era avido di sapere. Debole fisicamente, giocava poco con i coetanei. A scuola non era interessato alla matematica ed era bravo in lingua spagnola. L’infanzia, a parte la malattia, fu serena. Oscar aveva cinque fratelli e due sorelle (ma una morì bambina).

La madre di Oscar era molto religiosa, non altrettanto il padre. Santos insegnò ai figli preghiere e catechismo, ma i compaesani lo ricordano poco fervente e di costumi disin-volti. Ogni sera nella famiglia Romero si recitava il rosario. Il piccolo Oscar amava ritirarsi in preghiera nella chiesa del villaggio e alzarsi di notte per pregare, come testimonia il fratello minore Mamerto, che divideva il letto con lui e, per quanto lo riguardava, preferiva dormire.

A 13 anni Oscar entrò nel seminario minore di San Miguel. Dalla fresca cittadina di mezza montagna, con un migliaio di abitanti, Oscar passò al capoluogo regionale, con 20.000 abi-tanti, nella calda pianura. La scelta avvenne perché il sindaco del paese, Alfonso Leiva, segnalò Oscar a padre Benito Cal-vo, il prete che da San Miguel regolarmente saliva a Ciudad Barrios ad assolvere le funzioni di parroco. Santos Romero aveva pensato per Oscar il mestiere di falegname e lo aveva già mandato a fare pratica in una bottega. Accettò che il figlio prendesse un’altra strada, ma ebbe poi un ripensamento e disse al vescovo di San Miguel che non intendeva più mantenere Oscar in seminario. Il vescovo non volle perdere il giovane e assunse parte delle spese. Anche Oscar lavorò per pagarsi il seminario. Passò tra l’altro un’estate in miniera.

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Il seminario piacque al giovane. Era tenuto con sentimenti paterni e spirito umanistico dai padri claretiani. L’ambien-te era provinciale nel senso migliore: quello della cura dei particolari, dell’apprendimento umile, della disciplina senza eccessi e senza ribellioni. Vivere con i compagni piaceva a Oscar. Amava l’idea di sacerdozio, la predicazione, la musica e il canto. Si rivelò presto un oratore non comune. La mode-stia dell’ambiente non impediva che i seminaristi venissero esortati a dare il meglio di sé. Il giovane Romero redigeva e rinnovava propositi e programmi di preghiera, di penitenza, di disciplina quotidiana, insomma di santificazione, come face-vano del resto i seminaristi volenterosi d’ogni dove. Devozioni privilegiate in seminario erano quelle alla migueleña Vergine della Pace e al Sacro Cuore di Gesù, cui Romero per tutta la vita sarebbe rimasto fedele.

Il vescovo di San Miguel, Juan Antonio Dueñas, volle for-mare a Roma i suoi due seminaristi più promettenti: Oscar Romero e Rafael Valladares. Quest’ultimo fu inviato a Roma sin dal 1934. Romero lo raggiunse nell’ottobre 1937. I due giovani salvadoregni, stretti in un comune sodalizio di vita e amicizia che sarebbe stato sciolto solo dalla morte di Valla-dares nel 1961, furono a Roma ospiti del Pontificio Collegio Pio Latino Americano. L’ordinazione sacerdotale di entrambi avvenne a Roma, il 23 marzo 1940 per Valladares, più anziano di quattro anni, il 4 aprile 1942 per Romero.

Valladares era un giovane intellettualmente fine, esigente, inquieto. La classe sociale, in Salvador, significava molto, e Rafael, nipote di Dueñas, era figlio di ricchi proprietari ter-rieri, a differenza degli altri seminaristi. Per Romero era un

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modello difficile da imitare ma Rafael, pur abituato a pri-meggiare, era abbastanza umile da voler bene a Oscar. Rafael manifestava sensibilità sociale, s’interessava alle novità, e ne parlava con Oscar. Era geniale e fantasioso, mentre Oscar aveva una maniera di pensare più sistematica.

Nella biografia di Romero gli anni romani (1937-1943) sono fondamentali. La «romanità» costituì un elemento decisivo della formazione di Romero e poi della sua identità di sacer-dote e vescovo. Romero era della generazione di ecclesiastici coinvolta nel tentativo di riforma dello stato infausto, per non dire calamitoso, del clero latinoamericano sotto il profilo del-la disciplina e della spiritualità. Questa riforma si manifestò con la ferma volontà della sede centrale del cattolicesimo di dare un’impronta più romana alla Chiesa latinoamericana. Ciò significava la formazione di un personale ecclesiastico che fuoriuscisse da un certo provincialismo, che avesse un senso più universale della Chiesa, che avesse una salda disciplina morale, che distinguesse le sfere della Chiesa e dello Stato, che si discostasse dalla politica per dar primato all’ecclesiale e allo spirituale. Si trattava in qualche modo di rifondare la Chiesa latinoamericana, stante il decadimento delle strutture formative e la perdita del senso d’alterità della Chiesa rispetto alla società, dopo secoli di regime ispanico di Patronato e di commistioni tra sacro e profano. Madrid aveva escluso Roma dall’America Latina e lo stesso avrebbero tentato gli Stati nati dalla rivoluzione bolivariana, per tener soggetta la Chiesa.

Romero studiò all’Università Gregoriana, retta dai gesui-ti, come dai gesuiti era pure condotto il Pontificio Collegio Pio Latino Americano. Conobbe e assorbì la spiritualità della

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Compagnia. Iniziò a praticare periodicamente gli esercizi spi-rituali ignaziani. Cosa fossero per Romero lo dice lui stesso in una nota intima del 1972: «Gli esercizi di sant’Ignazio sono uno sforzo personale di vivere il cristianesimo. Non sono i grandi principi generali della rivelazione o del Magistero, ma la conversazione personale di Dio. “Ho visto Dio”, disse Giacobbe. Deve essere la mia aspirazione profonda: “Parlami Signore”».

Romero partecipò alla vita religiosa di Roma «italiana», come di regola accadeva ai chierici che venivano a studia-re e formarsi nella città. Prestò servizio in parrocchie della periferia di Roma. Un compagno messicano del Pio Latino Americano avrebbe così ricordato Romero:

Era di statura media, di carnagione bruna, con un portamento deciso, come uno che non ha fretta di arrivare perché sa che rag-giungerà la mèta. Con altre persone era pacifico, calmo […]. Le sue capacità intellettive, per quanto mi ricordo, erano superiori alla media. Definirei lo stile letterario della sua prosa elegante, con mutamenti di linguaggio e metafore che le conferivano grazia e scioltezza. Quando leggeva ciò che aveva scritto, il suo modo espressivo di parlare dava più vita allo scritto […]. Era rispettoso dei regolamenti, pio, preoccupato della propria formazione sacer-dotale sotto ogni aspetto. Con gli altri, sapeva stringere amicizia ed era apprezzato da noi che gli eravamo amici per la sua sem-plicità e il suo desiderio di rendersi utile.

Il soggiorno a Roma significò per Romero attaccamento affettivo alla figura del papa, mai dimesso nella sua vita, e

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particolare venerazione per Pio XI. Notò e ammirò la fermezza di colui che chiamava «Pontífice de talla imperial» dinanzi a ideologie e regimi totalitari. Il modello di vescovo forte rap-presentato da Pio XI fu ammirato e interiorizzato da Romero ventenne. In seguito, egli avrebbe reputato l’esempio vivo di Pio XI, visto da vicino, più importante per la sua formazione che non il ciclo intero degli studi condotti a Roma. Per ri-prendere sue parole, egli ebbe a «vivere in Roma il dramma della Chiesa dinanzi ai totalitarismi di Hitler e di Mussolini e apprese dall’imperiale Pio XI l’audacia di affrontare senza paura i potenti per dire loro: “Finché io sarò Papa nessuno riderà della Chiesa”». Nel 1963, in un articolo, descriverà la morte di Pio XI, avvenuta mentre scriveva un «trascendentale discorso […] che intendeva denunciare l’attitudine ipocrita dei moderni Nerone che martirizzano la Chiesa». «Questo è il papa che io ammiro di più» dirà Romero dinanzi alla tomba di Pio XI nel gennaio 1980, nell’ultima visita a Roma. Conosce-va bene quella tomba. Aveva assistito alla deposizione in essa del defunto pontefice, il 14 febbraio 1939: «Lo vedemmo da vicino: il suo volto pallido, la bocca già livida; gli toccammo la mano destra con un’emozione indescrivibile». Papa Pacelli non impressionò altrettanto il giovane Romero che sempli-cemente vi vedeva il pontefice adatto al suo tempo: nel suo cuore solo Pio XI era «imperial».

Roma confermò e accrebbe in Romero la deferenza verso il magistero della Chiesa. Era particolarmente impressiona-to dalle cerimonie solenni cui assisteva. Gli studi non erano orientati alla ricerca bensì alla formazione. Ma la formazione consisteva essenzialmente nello stare a Roma. Questo era un

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valore assoluto per se stesso, anteposto ai risultati scientifici degli studi. Vent’anni più tardi Romero avrebbe osservato:

Il privilegio di aver studiato a Roma non fu valido tanto per il suo aspetto scientifico quanto per l’apporto morale di un’edu-cazione sacerdotale completa nell’ambiente romano. Roma è il simbolo e la sintesi più bella della Chiesa. La Roma eterna, pur continuando a essere se stessa nei secoli, acquista le caratteristi-che storiche che sono proprie delle singole personalità dei papi. È un miracolo della provvidenza: ciascun papa incarna nel suo modo di essere l’aspetto che più necessita in quel tempo alla vita della Chiesa.

Era Roma stessa, secondo Romero, che preparava alla vita, quasi le sue istituzioni educative fossero secondarie:

Per un seminarista che si prepara devotamente alle esigenze della sua vocazione, che bella scuola osservare e vivere una Roma che si dispiega sotto la mano visibile di Dio che è il Papa […]. La primavera romana possiede un mistero di ineffabile dolcezza; per le storiche vie, alla luce dell’aurora, i neo sacerdoti vanno a celebrare le loro prime messe ai più famosi altari della cristia-nità: catacombe, tomba di san Pietro, di san Paolo, Santa Maria Maggiore, ecc. E nell’anima appena consacrata resuscita tutto il fervore di martiri e pellegrini la cui storia è legata a quei centri di attrazione spirituale.

La documentazione sul soggiorno romano di Romero mo-stra un giovane affascinato dalla città dei papi e al tempo stes-

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so intento con abnegazione ai suoi doveri di pietà religiosa e di studio. Semplicemente, Romero voleva essere santo. Scriveva alla madre una volta al mese, sottolineando di continuo che s’incamminava «verso la perfezione». Non avendo denaro per acquistare libri, Romero annotava manualmente schede di letture e pensieri che lo interessavano. La parte maggiore delle schede, da lui sempre conservate, riguardava la spiri-tualità, l’ascetica, la mistica. Non è insolito che l’interesse di un seminarista vada alla perfezione cristiana, ma in Romero questo interesse era molto pronunciato.

Terminati gli studi ordinari di teologia, Romero volle spe-cializzarsi per ottenere la laurea, con uno studio di ascetica. Non giunse alla discussione della tesi a causa della situazione di guerra, che lo sospingeva a ritornare in patria. Così Romero ricorderà quei giorni difficili:

L’Europa e quasi tutto il mondo erano un puro incendio durante la seconda guerra mondiale. Il timore, l’incertezza, le notizie di sangue creavano un clima di terrore. Nel Piolatino le razioni si riducevano ogni giorno di più. Il P. Rettore usciva per cercare qualcosa da mangiare e ritornava portando sotto la cappa zucche, cipolle, castagne, ciò che si poteva. La fame obbligò vari seminari italiani a chiudere. Il Piolatino doveva resistere perché tutti erano fuori dalla loro patria; quelli che potevano ritornare ai loro paesi rischiavano una pericolosa avventura. Quanti restavano soffrivano più che mai la separazione dalla patria. Le sirene annunciavano quasi tutte le notti incursioni di aerei nemici e bisognava correre nelle cantine; due volte non furono solo annunci ma le periferie di Roma furono colpite da orribili bombardamenti.

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Nell’agosto 1943 Romero lasciò Roma da alcuni mesi sottoposta a bombardamenti per fare ritorno in patria, sem-pre insieme a Valladares. Il viaggio fu lungo e travagliato. A Cuba, in quanto provenienti dall’Italia (Paese alleato della Germania), Romero e Valladares furono sospettati di spio-naggio e imprigionati in un campo di concentramento. Qui rischiarono la morte per fame, stenti e malattia. Riconosciuti come ecclesiastici da un prete cubano, i due vennero prima ricoverati in ospedale e poi liberati. Giunsero in Salvador nel dicembre 1943.

Sacerdote a San Miguel

Nella primavera 1944 il vescovo di San Miguel, Miguel An-gel Machado, succeduto a Dueñas scomparso nel frattempo, nominò Romero parroco di Anamorós, uno sperduto paesino. Ma in capo a due mesi lo volle accanto come segretario, in una funzione di fiducia. Romero e Valladares, accreditati dagli studi romani, rappresentavano un grosso investimento per la diocesi ed erano destinati a incarichi non secondari. Romero ricevette anche la responsabilità di una parrocchia di città, quella di Santo Domingo, la cui chiesa era provvisoriamente adibita a cattedrale. Poiché il vescovo, per il momento, non voleva avere un vicario generale, Romero fu incaricato an-che della segreteria della curia diocesana. Questo incarico gli rimase anche quando Valladares, migliorato nella salute, venne nominato vicario generale. Così Romero e Valladares ripresero a vivere l’uno accanto all’altro. Il vescovo, contento

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INDICE

Prefazione di Andrea Riccardi pag. 5

I. I PRIMI CINQUANT’ANNI (1917-1967) » 11

Da Ciudad Barrios a Roma » 11

Sacerdote a San Miguel » 20

Un uomo pugnace » 26

Romero e il Concilio Vaticano II » 32

II. «EL OBISPO QUE VAN A TENER ES PASTOR» » 41

Nella capitale » 41

Un ausiliare con le sue idee » 50

A Santiago de María » 61

Primate di un Paese in crisi » 69

III. ARCIVESCOVO DI SAN SALVADOR » 79

I primi giorni e la morte di Rutilio Grande » 79

L’urto con il governo » 86

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La misa única pag. 93

«Conversione»? » 94

Persecuzione della Chiesa e ingiustizia sociale » 102

La questione della violenza » 111

IV. FEDE E POLITICA » 119

Clero e fedeli di San Salvador » 119

L’ideologizzazione della speranza » 126

«Infinitamente politico». Suo malgrado. » 133

V. «SENTIR CON LA IGLESIA» » 145

Il vescovo dei poveri » 145

Il predicatore » 151

Romero privato » 158

Con i giornalisti » 163

Un uomo molto sollecitato » 168

Romero e la teologia della liberazione » 173

VI. ROMERO E ROMA » 185

Gelosie ecclesiastiche » 185

«Coraggio, è lei che comanda!» » 193

Chiarimenti in Vaticano » 198

La visita apostolica » 205

Romero e Giovanni Paolo II » 210

«La gloria più grande di un pastore» » 217

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VII. L’ULTIMO ROMERO pag. 223

Romero e la Giunta Rivoluzionaria di Governo » 223

Verso la guerra civile » 233

La Quaresima di Romero » 240

La morte » 243

Conclusioni » 259

Per approfondire » 269