Wild Oscar

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Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano Wild Oscar Diploma di II livello in Jazz contrabbasso Lorenzo Serafin Relatore M° Giustino Tracanna a.a. 2009/2010 musiche eseguite da: Marco Mariani, tromba Paolo Profeti, saxofono soprano Alex Sabina, saxofono tenore Francesca Petrolo, trombone Massimo Vescovi, chitarra Lorenzo Serafin, contrabbasso Michele Salgarello, batteria

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Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano

Wild Oscar

Diploma di II livello in Jazz contrabbasso Lorenzo Serafin Relatore M° Giustino Tracanna a.a. 2009/2010

musiche eseguite da: Marco Mariani, tromba Paolo Profeti, saxofono soprano Alex Sabina, saxofono tenore Francesca Petrolo, trombone Massimo Vescovi, chitarra Lorenzo Serafin, contrabbasso Michele Salgarello, batteria

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Indice

- Premessa – pag. 5

- Oscar is Wild, appunti per un ritratto di Oscar Pettiford a 50 anni dalla scomparsa – pag. 9

- Appendice. Colloquio con Franco Cerri Pettiford e gli anni ’50 – pag. 25

- Analisi delle tecniche di scrittura e arrangiamento - pag. 33

- Bibliografia – pag. 51

- Discografia di base – pag. 52

- Partiture – pag. 53

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Premessa

Il presente lavoro è un omaggio alla musica e lo stile di Oscar Pettiford, pioniere del bebop,

maestro indiscusso del contrabbasso, e tra i primi a impiegare il violoncello pizzicato nel jazz. Un musicista che è sempre stato per me fonte di ispirazione in particolare per la qualità melodica della sua improvvisazione.

Uno tra i brani che qui propongo, Blues in the Closet, è stato infatti per me un continuo riferimento nella costruzione melodica di un solo blues, tanto che credo che alcune frasi si siano naturalmente sedimentate nel mio fraseggio e per imitazione alcuni stilemi e modi di far stare le frasi sul tempo mi siano diventate familiari tanto da praticarle spontaneamente e inconsciamente in modo costante.

La scelta di “andare alle radici” è anche legata alla necessità di sostanziare il percorso di studi accademico con un una rinnovata consapevolezza dei fondamenti di questo linguaggio. Insegnamento che, com’è spesso sottolineato anche dai maestri di questa musica, passano imprescindibilmente attraverso l’ascolto dei dischi e dal tentativo di introiettare i moduli espressivi di un linguaggio per molti aspetti lontano alla tradizione e alla cultura musicale europea.

Pettiford, come si ha modo di scoprire anche attraverso i pochi cenni biografici che seguono questa breve nota introduttiva, per un ventennio circa rimane immerso in un milieu di grande fermento e di avanguardia. Parallelamente all’introduzione introdurre di un nuovo stile contrabbassistico, che poi era quello di Blanton, che consisteva nel fare emergere di questo strumento in ruolo solista secondo un fraseggio ricco di lirismo ma anche di spigolature armoniche, Pettiford seppe arricchire il suo strumento nel ruolo di accompagnamento introducendo una moltitudine innovazioni ritmiche, senza mai far mancare la sicurezza e il ruolo guida che gli è peculiare.

La valenza didattica che ha avuto per me questo studio credo inoltre possa essere riproposta con sistematicità, e per questa ragione credo che il lavoro meriti di coronare questo biennio di studi sulla musica jazz. Questa è inoltre un’occasione preziosa per approfondire il legame con questo musicista e indirettamente con l’immenso orizzonte che ruota attorno alla sua vita nel jazz.

Affrontare questo materiale musicale rivela così immediatamente un maggior legame con il passato piuttosto che con il presente di questa musica; anacronistico potrebbe sembrare l’approccio “filolologico” operato su alcune delle composizioni. In alcuni casi sono stati infatti riprodotti interamente i soli di Pettiford e in altri si è tratto liberamente spunto dagli arrangiamenti dell’epoca, riproponendone in alcuni casi lo sviluppo formale, in altri mutuandone le interpunzioni ritmiche per

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la messa a punto dei background, o utilizzando frammenti melodici di assolo per realizzare vamp o special. L’obbiettivo però è quello di creare una cornice coerente attorno alla ricca architettura degli assoli di Pettiford. In questo senso anche l’arrangiamento di Bohemia Afther Dark, un brano di grande semplicità organizzato originalmente attorno a un turnaround minore, vuole riattualizzare una sorta di modernità ante litteram, che potrebbe assurgere Pettiford a un ruolo di anticipatore del jazz modale… anticipatore per certi versi di bassisti come James Jamerson e dei suoi illustri discendenti, Jaco Pastorius fra tutti.

La riproposta di un contesto musicale radicato negli anni ‘50 può essere qui intesa anche come una ricerca sul tipo di tecniche da utilizzare per valorizzare e attualizzare questi materiali. Nel caso appena citato di Bohemia Afther Dark ad esempio, la struttura AABA del brano è stata alterata circoscrivendo due aree improvisative che estendono in senso modale la A e la B; vengono riproposte altresì le due battute di lancio che in un arrangiamento dell’epoca segnano la transizione dal tema all’improvvisazione. Più in generale i brani sono sviluppati cercando, come avviene spesso negli originali, di evitare la routine tema-soli-tema e proponendo transizioni tra un brano e l’altro. Il programma d’esame si apre ad esempio con una piccola suite di due blues legati uno all’altro da una transizione metrica che accompagna il passaggio netto tra la tonalità di sol e quella di fa: si tratta in realtà di tecniche in gran parte mutuate dall’ascolto delle musiche originali, alla ricerca di una coerenza stilistica d’insieme.

Un’altra scelta è quella di riproporre interamente alcuni soli di contrabbasso, rinunciando – ma solo in parte - a una delle componenti fondamentali del jazz che è la parte improvvisativa 1. Pur 1 Interessante in proposito una trattazione di Stefano Zenni dal titolo “La reinvenzione della musica: tra improvvisazione e composizione jazz” in cui l’autore mette in primo piano la necessità di non accontentarsi di storicizzare l’improvvisazione jazz come atto formale compiuto ma di tentare dal punto di vista critico di accogliere tutte le sfumature legate all’improvvisazione. Si consideri il classico caso di un assolo improvvisato sul giro armonico di una canzone, registrato e documentato su disco. L’ottica più consolidata è quella che considera l'assolo improvvisato quale prodotto (valutato) positivamente quanto più si avvicina alla coerenza formale di un lavoro meditato e scritto a tavolino. Questo approccio si fonda su un vistoso equivoco: confonde l'oggetto (l’assolo) e le circostanze in cui è stato creato con il supporto (la registrazione discografica), la cui natura durevole e definitiva viene proiettata sull' oggetto estemporaneo, reificandolo: insomma, è come se l'assolo fosse considerato come un prodotto di natura definitiva perché lo è il suo supporto. Da questa posizione si giunge inavvertitamente a costruire la storia del jazz fondandosi solo sulla musica contenuta nei supporti. I termini del problema vanno invece invertiti: è necessario inglobare nello studio della storia del jazz quei tratti apparentemente "extramusicali" che sono invece pertinenti del linguaggio e ne condizionano la sostanza. La produzione globale del rito musicale non ha senso senza la partecipazione attiva della risposta condizionante del pubblico.

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riconoscendo nell’hic et nunc la componente fondamentale del fare jazz penso tuttavia che esista un modo di costruire l’improvvisazione attraverso una serie progressiva di ripetizioni e di messe a punto. È questo ad esempio uno dei metodi peculiari adottati dalle culture musicali extraeuropee, come ad esempio quella araba, dove l’improvvisazione costruita su ogni singolo modo o scala (maquam) non è in realtà quasi mai legata all’estemporaneità ma è un complesso sviluppo tematico che si ripete secondo schemi prestabiliti e fatti propri da ogni singolo interprete e personalizzati. Credo che in qualche caso sia questa la linea seguita da molti improvvisatori delle origini del jazz e non solo2, in un contesto in cui tra l’altro la trasmissione della conoscenza musicale e l’arrangiamento avvenivano prevalentemente attraverso trasmissione di informazioni orali. E questa necessità di ripetere, e di perfezionare, è una caratteristica di molte discipline, come ad esempio il teatro. Mi viene in mente la testimonianza di Dario Fo sul perfezionamento graduale di un testo teatrale in base alle reazioni del pubblico… è proprio grazie a questo tipo di interazione che, in certi casi, anche una improvvisazione jazzistica può crescere e perfezionarsi. Dizzy Gillespie racconta nella sua autobiografia3 di aver iniziato a suonare (nelle esecuzioni dal vivo) a memoria i soli di Roy Eldrige modificandoli via via e personalizzandoli.

Questa idea dell’improvvisazione come “mantra” ripetuto e perfezionato col tempo è ben rappresentata a mio avviso nella interpretazione di Stardust che qui viene riproposta dalla trascrizione di una versione in studio con l’accompagnamento di solo pianoforte nel disco “Another One” del ’55. Il confronto con altre versioni, come per esempio quella in “Oscar Pettiford Memorial Album” rivela una rilevante coincidenza nello sviluppo tematico. Di volta in volta l’esecuzione si arricchisce di dettagli oppure si semplifica in alcuni punti, ma emergono continuamente frasi e frammenti ritmici e melodici ripetuti nello stesso punto della progressione armonica.

Un ultimo aspetto importante dell’estetica musicale di Oscar Pettiford è l’aderenza perfetta del suo fraseggio alle sequenze armoniche e la precisione ritmica di ogni sua frase. Questo tipo di intenzione e di rigore interpretativo credo sia peculiare dell’estetica musicale dell’epoca in cui Pettiford ha vissuto e sviluppato la sua musica. C’è nelle linee di Pettiford una coerenza costante, un intonazione perfetta e, ancora di più, c’è un respiro, che crea continui spazi, come se suonasse uno strumento a fiato. Già nel suo solo su The Man I Love, con Colema Hawkins, è possibile sentirlo. E’ 2 La trasmissione orale delle parti in un coplesso jazz del resto non appartiene solo al jazz delle origini, se come sostiene Zenni nello scritto sopra citato: Mingus abitualmente componeva al pianoforte, spesso cantando; in seguito appuntava su pentagramma la struttura del pezzo, gli accordi, la melodia ecc. Al momento delle prove con il suo gruppo, dettava le parti ai musicisti senza l'ausilio della notazione: cantava o suonava al pianoforte ogni parte più volte, e il musicista doveva impararla a memoria. 3 “To be or not to bop” (New York, 1979)

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un respiro che trova eco, e questo mi pare un fatto raro e straordinario, nel suono stesso del suo strumento: una serie di fruscii, che talvolta la critica ha giudicato negativamente, sono originati, come capita talvolta nelle esecuzioni di chitarra classica, dallo sfregamento delle dita sulle corde4. Personalmente viceversa ho sempre pensato che questa caratteristica non facesse che impreziosire ulteriormente le registrazioni di Pettiford.

E ancora del suono che otteneva dal suo strumento nelle incisioni possiamo dire che fosse sempre rotondo e preciso, senza mai che una corda sbattesse sulla tastiera (magari per vezzo, come capita talvolta anche ai migliori contrabbassisti). Il suono è sempre netto, e pieno, e si intuisce un settaggio dello strumento con le corde, in budello, molto alte. Si tratta di tecniche che successivamente molti contrabbassisti hanno abbandonato, optando per corde in metallo e action più basse e più agili. Un'altra caratteristica è quella di non superare, se non in rarissimi casi, la posizione centrale della tastiera, contenendo l’estensione dello strumento entro il G2 (il sol sotto il do centrale della pianoforte). Ritengo che la straordinarietà del suono e del fraseggio di Pettiford sia anche dovuta a questa capacità di far sentire sempre molto bene la voce del suo strumento e di saper farlo cantare in un registro così basso. Una delle ragioni però per cui decise di impiegare anche il cello, di cui si innamorò letteralmente durante una convalescenza per la rottura di un braccio, fu proprio la necessità di innalzare di un ottava il suo fraseggio perché fosse più apprezzabile e godibile. Adottò questo strumento più cantabile trasformandone però l’accordatura: per quarte come quella del contrabbasso.

Nelle pagine che seguono viene proposto quindi un breve capitolo di introduzione storica in cui la figura di Pettiford si tratteggia attraverso alcune puntuali testimonianze e alcuni materiali interessanti che possono essere scaricati dal sito di Hans-Joachim Schmidt che ha raccolto una dettagliata cronistoria anno per anno dei concerti e delle vicende biografiche di Pettiford, con diversi link e rimandi significativi. In appendice aquesto breve excursus storico ho inserito la testimonianza di un musicista che ha vissuto intensamente quegli anni lasciandosi influenzare dal bebop e dalla musica di Pettiford: Franco Cerri ha accettato di raccontare alcune delle esperienze legate alla sua formazione musicale sulla falsa riga di una serie di temi legati alla biografia e alla estetica musicale di O.P. Conclude questo capitolo una breve bibliografia e una sceltissima discografia con i dischi per me più significativi. 4 Nelle liner notes al disco The Oscar Pettiford Memorial Album, scritte nel 1970 critico Ira Gitler sostiene che nel brano Stardust O.P. è al suo meglio, con il suo suono possente e il raffinato senso melodico che lo contraddistingue, e che la luminosità dell’interpretazione emerge nonostante le annoyng squeaking notes from the fingers on the strings.

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Oscar is Wild Appunti per un ritratto di Oscar Pettiford a 50 anni dalla scomparsa

Ha fissato lo standard per i bassisti bebop esplorando i limiti melodici e solistici del suo

strumento. In una serie di incisioni con Dizzy Gillespie, Telonious Monk, Sonny Rollins e con una serie di formazioni a suo nome, ha fissato e ampliato il vocabolario del contrabbasso che ha avuto così una crescita sia in senso melodico che armonico.

Con questo epitaffio si apre sul enciclopedia del jazz sul sito www.jazz.com il profilo biografico

di Oscar Pettiford, la leggenda del contrabbasso jazz per cui si sono celebrati nel 2010 i cinquant’anni dalla morte, avvenuta l‘8 settembre 1960 a Copenhagen.

Come capita spesso nell’affascinante storia della musica afroamericana affrontare la vita e la carriera artistica di uno dei suoi musicisti di rilievo può significare avventurarsi in una serie affascinante di scoperte. E questo è naturalmente il caso di Oscar Pettiford, il cui nome talvolta, nella memoria degli appassionati, rimane leggermente in secondo piano rispetto ad altri maestri come Jimmy Blanton, Charles Mingus, Paul Chambers, Ray Brown, Scott La Faro... Eppure questo sttraordinario virtuoso del contrabbasso ha segnato, a partire dai suoi esordi nell’orchestra di famiglia, una serie importante di collaborazioni e di incisioni. Barnett, Henderson, Hawkins, Gillespie, Monk, Rollins, Dorham, Thompson, Getz sono solo alcuni dei nomi importanti che hanno accompagnato la carriera di Pettiford. E il costante lavoro di sideman non gli ha impedito di condurre parallelamente diversi progetti come band leader. Pettiford è stato profondamente segnato dalla lezione di Charlie Christian con cui collabora negli anni della giovinezza5 e altrettanto

5 il 21 settembre 1939 Benny Goodman e la sua band avevano una settimana di repliche al teatro Orpheum di St. Paul. Una sessione di incisione a improptu si svolse in notturna all'Harlem Breakfast Club di Minneapolis. Suonano Jerry Jerome ts, Charlie Christian, el.g, Frankie Hines p, Oscar Pettiford b., senza batteria. Ne è la riprova una lettera datata 17 maggio 1972 in cui Jerome F. Newhouse rivendica il suo ruolo di tecnico del suono nella sessione avvenuta il 24 settembre 1939 da mezzanotte alle quattro del mattino presso la casa editrice Columbia chiedendo una serie di rimborsi spese: il trasporto dell'apparecchio per registrare, il viaggio al teatro Orpheum e il trasporto di Jerome e Christian fino all'Harlem Breakfast Club, tutti i set up per la registrazione, tutti i test effettuati per limitare il rumore del battito del piede di Charlie Christian, la costante opera di promozione della Columbia Records durante tutta la sessione di incisione, i quattro completi take finali ascoltabili nell'album di Charlie Christian G-30779 COLUMBIA dal titolo "Solo Flight" ovvero due take di Solo Flight, Star Dust e Tea For Two. Nelle spese elencate compaiono un disco

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profondamente legato alla figura di Jimmy Blanton, di tre anni più grande di lui, tanto da considerarsi in qualche modo suo erede6 dopo la prematura morte avvenuta nel luglio del ’42.

La vita e la musica di Pettiford sono ben riassunti in un articolo/interrvista dal titolo “Oscar is Wild” Leonard Feather pubblicò il 9 giugno 1951 sulla rivista specializzata Melody Maker riportato per intero qui di seguito. Qui emergono gli episodi rilevanti della vita di O.P. e che saranno poi ripresi nelle biografie ufficiali. Quello di Feather sembra essere in ultima istanza un appello affinché il pubblico voglia continuare a sostenere la carriera di questo musicista che già alla fine degli anni quaranta desiderava trasferirsi in Europa poiché negli USA non vedeva riconosciuto appieno il suo talento musicale.

Se il fato vi condurrà fino a Minneapolis in Minnesota e se andrete a visitare la piccola

comunità nera e farete il nome “Pettiford” sarete accolti a braccia aperte, quasi come uno di famiglia. Infatti Oscar, il famoso membro del clan Pettiford, è solo uno dei tredici musicisti di questa famiglia che hanno fatto musica per molti anni in giro per il freddo nord.

Straordinario. Come il resto della famiglia Oscar è un personaggio straordinario, infatti, come è stato recentemente osservato, Oscar è wild! E avendo saputo che ha messo assieme un nuovo combo che lo vede come protagonista del ruolo di violoncellista jazz, ho deciso di fargli visita. Le prove si svolgevano in un piccolo hotel nel centro di Manhattan, la stanza del vibrafonista Teddy Cohen, che recentemente ha lavorato con Oscar. E così sono scivolato dentro la piccola stanza immersa in una jam in cui una mezza dozzina di musicisti stavano studiando un arrangiamento di “Perdido”, il brano con cui Oscar ha fatto il suo debutto discografico col Cello. Oscar è uscito e in un racconto ispirato mi ha raccontato Pettiford: un soggetto corposo con un cast molto ampio e pieno di personaggi.

Insoddisfatto. Nato il 30 settembre del 1922 a Okmulgee in Oklahoma, Oscar si è spostato a Minneapolis ancora infante. Suo padre che era stato veterinario e sua madre insegnante di musica decisero di formare una family band col papà alla batteria e la mamma al piano, e nove dei fratelli e sorelle di Oscar nella line up.

"presto", un gallone di benzina, cinque gin, cinque rye, una cassa di birra, e il conto medico per il persistente mal di testa che ne è conseguito. 6 Una sera Duke Ellington mi sentì suonare in una jam e mi chiese di entrare nella sua orchestra. Era prima di Blanton e io avevo 14 o 15 anni e avrei violato le leggi se fossi stato assunto. Così non potei seguirlo. Andai a sentire Blanton quando ebbi 17 anni. Fu amore a prima vista. (...) Il nostro approccio era molto simile. (...) Quando Jimmy Blanton morì ebbi una ragione in più per emergere e far crescere quel modo di suonare (...). (Hans Joachim Schmidt, http://themenschmidt.de/oscar45.htm)

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Oscar entra nella piccola orchestra di famiglia nel 1936 in Georgia suonando dall’inizio su un un basso imprestato dal contrabbassista Kid Chocolate, e poi acquistato dal padre.

Insoddisfatto di esser stato spinto alla musica anziché alla medicina che avrebbe voluto studiare, Oscar se ne va a lavorare nel sud a quattordici anni per lavorare come scaricatore e poi se ne torna a casa per frequentare la scuola.

Quando ha vent’anni Oscar ha già lavorato con molti artisti locali e ha una buona reputazione a Minneapolis. Howard McGee conosce Oscar e lo introduce a Charlie Barnett, con cui sta lavorando, quando la band viene a Minneapolis. Una breve audizione convince Barnett a ingaggiare Oscar per attuare la vecchia idea ellingtoniana del doppio contrabbasso; l’altro contrabbassista nella band è Chubby Jackson.

Dopo aver lasciato Barnett, rimane abbastanza in città per ottenere la union card di New York e poter suonare con due eccellenti piccole formazioni con Roy Eldrige e Dizzy Gillespie.

Quest’ultima, di cui Oscar era co-leader, è stata poi considerata una delle prime formazioni bop in assoluto. Gli altri membri erano Don Byas Gorge Wallington e Max Roach.

Melodico. Con entrambi questi gruppi e con altri tra cui Joe Guy, Joe Sprinkler e Doc West, Oscar lavorò in tutti i piccoli club che fecero memorabile la 52ma nella metà degli anni quaranta. I musicisti erano incantati da questo bassista che spaccava nei fast e allo stesso tempo suonava così melodico nei soli.

Anche la critica lo notò e gli fu conferito l’oro al ballottaggio della prima edizione del premio Esquire.

Durante il 1944 Oscar effettua molte sedute di incisione tra cui alcune con Coleman Hawkins (assieme a McGee, Sir Charles Thompson e Denzil Best) col quale si muove verso la California nel gennaio del 1945.

Affannato. Dopo un tour da free lance attraverso la west coast con un trio a suo nome Oscar si unisce a Duke Ellington e ci rimane per due anni e quattro mesi, senza però importanti ed estese sedute d’incisione, fatta eccezione per “Swamp Fire” e “Suddenly It Jumped” e pochi altri brani. Per un anno dopo aver lasciato Duke, Oscar lavora ancora nella 52ma, prima con Errol Gardner e J.C. Heard, poi con lo struggente (e in america ancora sconosciuto) George Shearing. Per qualche tempo conduce un affannato ottetto bop al Clique Club, composto da ottimi musicisti ma completamente incontrollabili – gente come Fats Navarro, Dexter Gordon e Bud Powell.

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“Fu abbastanza per me” ricorda Oscar crucciato, “mi concessi una chance entrando nell’orchestra di Woody Herman, e fui felice di smettere di fare il leader, credimi”.

“Woody aveva una band straordinaria nel ’49, ma stetti con lui solo cinque mesi, fino a quando non avvenne l’incidente”.

L’incidente fu un fatto soprannaturale: Oscar stava giocando a soft ball con alcuni colleghi dell’orchestra, colpì la palla con una certa veemenza e si accorse che si era rotto il braccio. “Rimasi bloccato in California per il resto dell’anno, aspettando che guarisse. Woody fu grandioso: mi pagò le spese di degenza”.

Volubile. Fu durante la convalescenza che Oscar iniziò a giocare con un cello che gli fu dato da un vecchio amico insegnante di Minneapolis. Comprese che le idee solistiche che aveva sviluppato in un registro difficile da ascoltare col contrabbasso sarebbero state molto più comprensibili se trasferite sul registro medio del violoncello, più leggero e brillante. Così nacque l’idea del cello pizzicato jazz.

Oscar suonò per la prima volta questo strumento al Birdland con un piccolo gruppo che comprendeva Terry Gibbs.

Duke Ellington venne, vide, e fu conquistato. Mercer e io avevamo appena dato vita alla Mercer label e prenotammo Oscar e sia Duke che Strayhorn nella prima sessione di registrazione.

Oggi Oscar ha 28 anni, i suoi capelli sono così radi e sottili che può passare per un trentacinquenne. Ha una personalità volubile, talvolta affabile e talvolta turbolenta, sicuramente mai schiva. Se ha un sassolino nella scarpa è, comprensibilmente, quello di non avere ottenuto in seguito alla risonanza dei riconoscimenti ottenuti in gioventù la fama e il benessere economico che si sarebbe potuto aspettare.

Famoso. Oscar vorrebbe ora mettere il cello in valigia e volare in Europa, ma nessuno ancora l’ha invitato. Lui sa di avere un sound unico da offrire, e che in qualche luogo della scena jazz c’è un posto speciale per lui. Oggi che i suoi genitori sono morti e molti dei suoi fratelli si sono ritirati nelle riserve o in una relativa marginalità, può essere a ragione definito “l’ultimo dei Pettiford”. Non resta che augurarsi che il pubblico voglia contribuire a mantenere in vita questo illustre nome del jazz.

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Nato il 30 settembre 1922 in una riserva a Okmulgee, in Oklahoma, Pettiford è un mezzo sangue con antenati metà africani e metà nativo americani. Quando compie tre anni la sua famiglia si trasferisce a Minneapolis in Minnesota dove il padre abbandona la professione di veterinario e costituisce una “family band” che inizia a esibirsi pubblicamente. Fin da piccolissimo Oscar canta e a balla nella band, finché compiuti 12 anni comincia a suonare il piano e poi a 14 il contrabbasso7. Continuerà a suonare con i suoi famigliari anche dopo essersi diplomato alla Minneapolis North High School, molto spesso al “Swing City” nei sobborghi di St Paul. L’attrazione maggiore è la pianista Leontine, sorella maggiore dei Pettiford, che scrive anche gli arrangiamenti per i fiati. Oscar suonerà con la family band fino al 1941. Durante la seconda guerra mondiale la family band si riduce forzatamente a cinque soli elementi, e nonostante ciò fatica seriamente a trovare ingaggi. Oscar va a lavorare in una caserma e non tocca lo strumento per cinque mesi, finchè Milt Hinton arriva a Minneapolis con l’orchestra di Cab Calloway e lo incoraggia a tornare a suonare. Lo spinge ad andare a New York che fino ad allora gli era stato precluso.

L’anno successivo nel gennaio del 1943 parte con l’orchestra del sassofonista Charlie Barnett (qui a fianco un immagine d’epoca: da sinistra Howard McGee tp, Trummy Young t.ne, Oscar Pettiford db, Peanuts Holland tp, e il leader Charlie Barnett) seguendolo in tour fino a New York come contrabbassista, a maggio arriva a New York.

Nel 1943 registra anche “The Man I Love” assieme a Coleman Hawkins: il brano diventa una hit e contribuisce a far emergere il nome di Pettiford nella comunità jazz.8 Inizia a frequentare la jam alla Minton’s Playhouse di Harlem dove incontra Telonious Monk e altri pionieri del bebop. Poco dopo inizierà a suonare a Manhattan sulla 52 ª all’Onyx Club, in un gruppo guidato da Roy Eldrige col sassofonista Budd Johnson, il pianista Sir Charles Thompson e il batterista Harold “Doc” West. È qui che nasce il quintetto di cui sarà co-leader assieme a Dizzy Gillespie e che ospiterà personaggi come Lester Young, George Wallington e Doc West, Don Byas e Max Roach.

Questo è quanto racconta Dizy Gillespie nella sua autobiografia “To Be or not to Bop”9:

7 Nelle liner notes al disco “The Oscar Pettiford Memorial Album”, Ira Gitler spiega che Dizzy aveva potuto ascoltare la bando di Doc Pettiford a Cheraw, sua città natale. 8 I due chorus di assolo di Oscar Pettiford contenuti in “The Man I Love” sono stati motivo di studio per intere generazioni di contrabbassisti bebop, anche se pochi hanno raggiunto l’intensità del suo suono e la sua chiarezza espositiva. L’intera seduta del 23.12.1943 assieme a Coleman Hawkins ts, Eddie Heywood p e Shelly Manne d. è interamente riprodotta sulla raccolta “Coleman Hawkins - Ben Webster - Julian Dash. Sax Vol. 1.” EPM (F) FCD 5008. The Man I Love è ascoltabile anche su “Ken Burns Jazz: Coleman Hawkins.” Verve 549 085-2. 9 “To be or not to bop” (New York, 1979)

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Il miglior contrabbassista del nostro giro era Oscar Pettiford. Ry Brown fece la sua

comparsa soltanto dopo: all’epoca era Oscar il contrabbassista di riferimento. Non consosco bene l’evoluzione del contrabbasso prima di lui, visto che non ho mai suonato con Jimmy Blanton. Ma si Oscar posso dire che era un grande appassionato di Charlie Christian. Il suo stile si basava molto su quello di Charlie. Un sacco di contrabbassisti quando fanno un assolo ragionano in termini di toniche. Il primo che io abbia sentito suonare in modo diverso fu Jimmy Blanton, ma mi hanno detto che Oscar adottava il nuovo stile già prima di arrivare a New York, quando stava a Minneapolis. Rifacendosi a Charlie Cristian, suonava delle melodie al contrabbasso, come un solista con una tromba o qualsiasi altro strumento melodico. Ripeto, ci sono tanti contrabbassisti, ancora oggi, che al momento dell’assolo li senti fare bum, la tonica. Fanno una frasetta e poi di nuovo bum la nuova tonica. Seguono schematicamente le fondamentali perché credono di dover interpretare un ruolo di supporto. Ma non c’è bisogno della tonica quando fai un solo. Non ce n’è bisogno. Molti contrabbassisti, a parte la nuovissima generazione, non lo capiscono. (...)

Nel lasciare l’orchestra di Billy Eckstine, nel 1944, raccomandai Fats Navarro per il mio posto nella sezione trombe, e lui si dimostrò un sostituto più che degno. Io andai a lavorare con Oscar Pettiford. Diventammo i co-leader di un gruppo che si esibiva all’Onix Club, sulla 52ma strada. Ovviamente il gruppo ideale siamo sempre stati io e Charlie Parker, ma anche quella prima formazione con Oscar Pettiford era magnifica. Fù così che ci affaccviammo ufficialmente sulle scene: il debutto all’Onyx Club rappresentò la nascita dell’era bebop. Durante la lunga permanenza sulla Cinquantaduesima il nostro messaggio raggiunse un pubblico molto più largo.

Io e Oscar decidemmo di prendere con noi Charlie Parker. Gli inviammo un telegramma da Kansas City, perchè era tornato per un periodo a casa. Per mesi non avemmo sue notizie, così il gruppo fu composto inizialmente da Max Roach, Oscar Pettiford, George Wallington e me. Volevamo a tutti i costi Charlie Parker e gli spedimmo quel telegramma, che però non gli arrivò. Sono sicuro che se l’avesse ricevuto sarebbe venuto. Per un pò fu soltanto un quartetto, ma nel frattempo l’Onyx assunse Don Byas come sax tenore solista. Andavamo così forte che Don Byas, il quale doveva suonare nel trio di Al Casey che si alternava nel locale con noi disse: “Mh-hm”, venne alle prove ed entrò nel gruppo.

(...) Era stato Sy Barron, il proprietario dell’Onyx, a chiederci di mettere su il gruppo, perchè Oscar aveva vinto il Gold Award e io il New Star Award nel sondaggio sui migliori

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artisti jazz del 1944 promosso dalla rivista Esquire. I musicisti dell’Onyx avavano tutti vinto un premio quell’anno. Billie Holiday aveva vinto il Gold Award, e anche il trio di Al Casey aveva vinto un premio, per cui l’Onyx aveva in cartellone tre o quattro vincitori.

(...) Mi ricordo che all’Onyx veniva sempre Leonard Feather. “Ehi, perchè una volta di queste non scrivi un articolo su Dizzy?” Gli chiese Oscar. (...) Si divertiva a metterlo in imbarazzo. Leonard Feather scriveva quasi sempre sui musicisti della vecchia scuola, Teddy Wilson, Coleman Hawkins, Benny Goodman. Non era molto aggiornato su di noi e sulla nostra musica.

(...) Oscar Pettiford era indiano; cioè era di sangue misto, nero per lo più, ma almeno in piccola parte indiano. Proveniva da una famiglia di musicisti; avevano una band chiamata Doc Pettiford, che girava per tutto il Sud. Erano venuti spesso nel mio paese a Cheraw, ma non mi era mai capitato di incontrarlo. Musicalmente tutta la sua famiglia era molto dotata. Le sorelle, la madre, il fratello, suonavano tutti nella stessa band. Oscar si affermò come il contrabbassista di riferimento nella nostra musica.

(...) George Wallington, un ragazzo bianco, era un seguace della nostra musica e la studiava con diligenza. Voleva imparare a suonare il piano nello stile jazz moderno, aveva sentito parlare di me e mi era venuto a cercare. La nostra scuola di musica era sempre aperta, così lo presi nel gruppo. Ma ogni tanto George sbagliava un accordo e Oscar gli saltava alla gola: “Quel bianco del cazzo non sa proprio suonare!”. Più e più volte mi toccò difenderlo da Oscar. (...)

In generale, c'erano pochi problemi di discriminazione razziale nei club della Cinquantaduesima, perché le band erano in gran parte nere. E tra la loro clientela non c'era tanto razzismo. Era l'unico punto di New York dove ci fosse poca discriminazione. Ma una volta che ti allontanavi dalla Cinquantaduesima, occhio.

Avevo l'abitudine di prendere la metropolitana, perché come tutti gli altri vivevo ad Harlem. Andavamo a piedi alla fermata tra la Sesta Avenue e la Cinquantesima, dietro l'angolo. In quel periodo Madame Bricktop era tornata dall'Europa, e una sera io e Oscar Pettiford ci fermammo di fronte all'RKO Theater a parlare con lei. Bricktop aveva i capelli rossi e la pelle chiara. Oscar, come sempre, era ubriaco. Ci si avvicinarono tre marinai, tre bianchi con l'aria da bifolchi del Sud. Uno di loro disse: «Ehi, brutti negri, che ci fate con una donna bianca? » Oscar fece per colpirlo ma stramazzò al suolo. La Strada era il punto di ritrovo di tutti i marinai del profondo Sud che da New York dovevano partire per le diverse destinazioni oltreoceano. Venivano sulla Cinquantaduesima a cercare guai; e li trovavano senza problemi, perché laggiù stavano tutti sul chi vive. Io avevo con me la mia

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tromba ma anche un coltello, uno di quelli che si usano per tagliare la moquette, con la punta a uncino. Sissignore, stavo anch'io sul chi vive.

Quando Oscar si avventò contro questo tizio e cadde a terra, ero intenzionato a lasciarli fare. Volevo che se la vedessero tra loro. Se Oscar era sbronzo, fatti suoi. Ma gli altri marinai cominciarono ad avvicinarsi. A quel punto, mi piazzai accanto a Oscar, che stava a terra, ed estrassi il coltello. Fecero un passo verso di me, ma uno di loro intravide il luccichio della lama.

«Attenti, ha un coltello! » «Alzati, Oscar », dissi io. «Forza, alzati! » «Aaah, aaah», grugniva lui. Ma riuscì a tirarsi su. Corse in mezzo alla strada e cercò di

fermare un taxi. Ne trovò uno, e intanto io tenevo a bada questi tizi. Salimmo a bordo del taxi, ma il tassista non voleva portarci ad Harlem. Nel frattempo si avvicinavano sempre più marinai. Chiedemmo al tassista di portarci almeno fuori dal quartiere, ma lui si rifiutò. Allora scendemmo al volo e corremmo verso la metropolitana, dall'altra parte della strada. Ci precipitammo giù per la scalinata. «Non fermarti, Oscar, continua a correre», gridai. «A loro ci penso io». E lo lasciai scappare. Lui scavalcò il cancelletto e sparì. lo avevo il mio coltello e mi dicevo: «Li fermo io questi qua ».

I marinai si toglievano i cappotti e me li lanciavano addosso, cercando di farmi mollare il coltello. Un cappotto mi colpì la mano e il coltello cadde in fondo ai gradini. Mi abbassai per cercarlo, ma non lo riuscivo a trovare. Mentre ero lì che ravanavo per terra alzai gli occhi e vidi un marinaio che mi stava saltando addosso, con un placcaggio volante. Mi tirai su appena in tempo, irrigidendomi tutto, lui incocciò contro la mia schiena e rovinò a terra, in fondo alla scalinata. Nella custodia avevo la tromba. Gli bloccai il collo, presi la tromba e gliela sbattei in faccia. Un colpo dietro l'altro, con la base dei pistoni, manca poco che il naso gli va a finire al posto dell'orecchio. C'era sangue dappertutto. E mentre lo colpivo con la tromba, gli altri marinai mi martellavano di pugni sulla schiena. lo cercavo di proteggermi la bocca con la mano, e loro mi riempivano di cazzotti, finché non mi liberai e cominciai a correre. Con un salto superai il muretto in fondo al binario. Presi a correre sul camminatoio, quello laterale, dove si vedono sempre gli operai. Mi nascosi. Era tutto buio e c'era pochissimo spazio, giusto mezzo metro di larghezza. Se avessero provato a seguirmi, dovevano venire uno alla volta, perché altrimenti finivano sulla terza rotaia, quella elettrificata. lo li aspettavo con la mia tromba. Uno alla volta. Ne avrei fatto fuori uno e l'avrei buttato sui binari, poi un altro e così via. Ma poi venne la polizia e li arrestò prima che mi tròvassero.

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Qualche tempo dopo io e Oscar ci separammo. Lui beveva un po' troppo per i miei gusti. Una volta stava suonando, ubriaco come al solito. Gli dissi: «Lo sai qual è il tuo problema? Sei una primadonna». Ragazzi, quanto se la prese.

«Una volta mio padre mi ha chiamato primadonna », rispose, «e io me ne sono andato di casa».

«Chiudi bene la porta quando esci», gli dissi. «Ero qui prima che tu arrivassi, e ci resterò dopo che te ne sarai andato».

Non passò molto che decidemmo di interrompere la nostra collaborazione. Mi trasferii di fronte, sempre sulla Cinquantaduesima, al Downbeat, dove misi su un gruppo con Budd Johnson. Oscar prese Joe Guy al posto mio e continuò a lavorare all'Onyx. Il whisky gli faceva fare cose assurde, cose che non avevano niente a che vedere con la musica.

Il gruppo con Dizzy Gillespie è forse il primo combo organizzato per suonare il nuovo stile

chiamato Bebop, concepito con l’idea di far suonare i temi all’unisono ai fiati in prima linea. Lui e il tenorista Budd Johnson scrivono molti dei temi che vengono suonati all’inizio come head arrangements.

Quando il gruppo si scioglie Gillespie va a suonare allo “Yact Club” e Pettiford fonda il suo quintetto all’Onyx assieme a West e al trombettista Joe Guy. A breve Pettiford andrà in tournée in California con il gruppo Coleman Hawkins di cui fanno parte il trombettista Howard McGhee e il batterista Denzil Best. Assieme a Hawkins lo si può vedere in azione in un video tratto dal film del 1945 di John Hoffman “The Crimson Canary”... nel sonoro però O.P. è doppiato dal poco conosciuto bassista Budd Hatch.

Da novembre del ’45 fino a marzo del ’48, Pettiford collabora con l’orchestra di Duke Ellington realizzando una sua ambizione di sempre10 e nell’aprile del ’48 suona nel trio di Erroll Garner assieme a J.C.Heard al Three Deuces Club dove verso la fine di quell’anno suonerà assieme a Kai Winding e Miles Davis. Poco dopo formerà un all stars al Clique Club con Davis, Fats Navarro, Lucky Thompson, Dexter Gordon, Milt Jackson, Bud Powell e Kenny Clarke.

10 In realtà l’esperienza con Ellington delude in parte Pettiford innanzi tutto perchè non vi trova i musicisti con cui aveva sognato di suonare, e cioè Cotie Wiliams, ben Webster e Rex Stewart che hanno appena lasciato l’orchestra; e poi perché a parte i concerti, dove il repertorio capitava venisse ampliato, nei teatri e nelle sale da ballo si suonavano sempre le stesse musiche. “Non c’era niente che ti ispirasse” dice Pettiford (liner notes al disco The Oscar Pettiford Memorial Album – Ira Gitler, 1970).

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A Febbraio del 1949 si unisce all’orchestra di Woody Herman dove trova una più forte vocazione alla modernità e alla sperimentazione.11

Come racconta nell’intervista a Leonard Feather, durante una tournèe si rompe un braccio giocando a softball assieme ai colleghi. Rimane bloccato circa un anno e ne approfitta per concentrarsi nell’apprendimento del cello che inizia a suonare con ancora il braccio fasciato. Più tardi introdurrà il cello nelle sue performances come strumento solista tanto da essere spesso accreditato come il primo violoncellista jazz della storia.

Dopo la convalescenza Pettiford si unisce a un sestetto che guiderà assieme a Louis Bellson e a Charlie Shavers. Nel 1953 suona con Bud Powell al Birdland e nel 1955 guida un quintetto con Jimmy Cleveland, Jerome Richardson, Horace Silver e Kenny Clarke che farà base al Café Bohemia, al Greenwich Village a New York. Nel Marzo del ’56 un trio col pianista Phineas Newborn Jr. e con Kenny Clarke farà base al Basin Street West Club. A dicembre dello stesso anno risale l’incisione di Brillant Corners di Thelonious dove la sicurezza ritmica e armonica di Pettiford costituiscono un sicuro ancoraggio alle variazioni metriche, consentendo a Max Roach di manipolare liberamente il ritmo. Quello con Monk è un sodalizio che risale ai tempi della 52ma e che ha dato vita a incisioni capitali, come ad esempio “Monk plays the music of Duke Ellington” del ‘55 dove assieme al Kenny Klarke da vita a una sostegno ritmico dalla fantasia inesauribile.

Dal ’56 al ’57 Pettiford guida la sua propria big band con buoni riconoscimenti per la creatività degli arrangiamenti e dell’organico. La formazione risulta piuttosto instabile, in parte anche a causa del carattere del suo leader. Tra i sidemen si annoverano Cleveland, Art Farmer, Donald Byrd e il French hornist David Amram, Gigi Gryce, Shaib Shihab, Benny Golson, Dick Katz e Gus Johnson. Quella che segue è una testimonianza dell’allora giovanissimo David Amram tratta dalla sua autobiografia “The adventures and musical times of David Amram”:

Ero al verde e cercavo lavori giornalieri e Oscar Pettiford mi chiamò. Mi disse che la sua

all-star band stava partendo per un tour. Fui felice di andare. Anche se sapevo che non avrei guadagnato gran che, volevo suonare ancora con quei musicisti. Mi avrebbe dato uno scossone, dopo essere stato tutto quel tempo con Shakespeare , tornare nel pieno del ventesimo secolo. Sentivo anche che mi avrebbe aiutato a scrivere il mio trio.

11 E’ la formazione di Hermann anche nota come “Four Brothers” band, e proprio Chaloff e Chon vengono ingaggiati nell’incisione del ‘49 che riempirà il lato A e un brano del lato B del sucitato “The Oscar Pettiford Memorial Album”

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Fu una delizia vedere tutti i musicisti. Mi assorbii completamente nelle prove che iniziarono presto in modo che potemmo sospendere a fare quattro chiacchere. Alcuni di loro avevano sentito la mia musica per il Festival di Shakespeare.

"Yeah, I heard you. Ya-bah-dup-a-deee," Mi disse Jerome Ritchardson, tenorista, cantando una fanfara che avevo scritto qualche anno prima. Questo fatto rallegrò tutta la mia settimana perchè avevo jammato con Jerome al Minton’s nel 1955 quando lavorava lì. Lui conosceva parecchio sia di musica classica che di jazz, e aveva una formazione teorica completa ed era un ottimo polistrumentista. Tutta la band aveva una formazione qualificata, se è per quello.

“Ci sarà poca trippa per gattti” ci avvertì Oscar dopo la prova. Nessuno disse niente. Lo amavamo tutti. Quando non raggiungeva il compenso minimo per tutti quelli senza famiglia prendevano qualcosa di meno. Quando i soldi c’erano ci pagava sempre adeguatamente. Avere una band come la sua era un continuo tormento. In ogni caso eravamo sempre in palla.

Il nostro viaggio in Florida è stato il più lungo one-nighter che io abbia mai fatto. Il trombonista titolato sparì e al suo posto ne venne un altro soprannominato Porkchops.

Prendemmo il treno alla stazione di Washington attorno alle due del pomeriggio raggiungemmo una qualche sperduta stazioncina. Fummo trasportati con un vecchio bus malandato all’aeroporto. Da lì volammo in Florida e all’atterraggio ci venne a prendere un altro bus ancora più disastrato. Poi fummo portati all’Everglades senza fermate intermedie. L’autista dagli occhi blu acciaio spiegò a Ed London e J.R.Montrose, gli unici bianchi nella band oltre a me, che se ci fossimo fermati da qualche parte “Sareste morti in un minuto”. Ci guardava come se volesse completare lui stesso la profezia.

Notai alla fermata del bus che la gente nera della Florida – e questo avveniva ben prima delle freedom marches – era contrariata nel vedere un leader nero di una band di neri con tre musicisti bianchi alle sue dipendenze. I musicisti che erano di New York erano mortificati nel vedere la miseria che c’era in Florida e dal terrore che leggevano nella maggior parte delle facce della gente di colore. Era un brutto spettacolo.

Finalmente arrivammo all’università. Oscar era in uno stato d’animo pessimo e si rifiutò di uscire dal bus. “Mi faccio una dormita qui” borbottò. Si sdraiò e crollò addormentato. Ci avevano dato una stanza per cambiarci e un po’ di cena visto che erano le sei e di lì a poco avremmo dovuto suonare. Alcuni dei musicisti sostituiti all’ultimo momento, come Porkchops non avevano mai visto le musiche prima e avremmo pensato di fare una prova supplementare ma Oscar stava dormendo nel bus, così mangiammo e ci riposammo per

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circa un ora. Poi svegliammo Oscar e iniziammo il nostro lavoro. Per via dei nuovi arrivati la band non suonò bene come al Birdland. I ragazzini del pubblico comunque ballarono e apprezzarono il concerto e riconobbero per nome molti dei musicisti della band che erano famosi nella scena jazz e ci fecero un sacco di feste.

Poi il preside del college diede il benvenuto alla band in modo formale. Oscar intanto se ne stava imbronciato in un angolo, incazzato per come la musica era stata suonata.

Finalmente uno dei musicisti andò verso Oscar assieme al preside e disse “Oscar vorrei presentarti il preside del college”

Improvvisamente sulla faccia di Oscar si produsse un sorriso demoniaco. Afferrò repentinamente il preside sbigottito e gli disse “Ehi, motherfucker, che diavolo è successo?”. E cominciò a stringerlo come un orso e a urlare beffardo come sa fare solo lui. Il preside e i membri del college erano esterrefatti ma questa cosa in realtà ruppe il ghiaccio e dopo tenemmo palla per il resto della serata. Oscar era l’uomo più onesto e di animo buono per cui io abbia mai lavorato. La sua follia era parte del suo grande talento, e questa è la ragione per cui i musicisti avrebbero fatto qualsiasi cosa per lui. Alla fine della serata aveva catturato tutti i membri della facoltà e stemmo alzati fino alle quattro del mattino. Poi prendemmo il bus diretti a New York dove arrivammo quindici ore dopo con una serie interminabile di treni, aerei e piccole fermate.

(...) Una settimana dopo avemmo il nostro ultimo lavoro importante. Era un concerto a

Springfield, in Massachussets, dove Dinah Washington suonava spesso. C’erano in tutto otto cartelli a Springfield che annunciavano la serata, nessun annuncio sui giornali o alla radio. Solo 25 persone al botteghino, nessuno sapeva del concerto. Oscar aveva una buona fama in quel periodo, ma soprattutto Dinah era una personalità e avrebbe potuto riempire la sala. Anche lei era contrariata. Le due band si mischiarono e passammo la serata intera a suonare così. Solo i padri di famiglia ebbero il compenso che Oscar riuscì a raccimolare, gli altri spiccioli per il resto della band li tirò fuori lui direttamente dalle sue tasche.

Sapevamo tutti che al ritorno da Springfield la band avrebbe terminato. Eravamo tristi e quando Oscar se ne accorse si mise a ridere spronandoci a rimanere allegri. Non era disposto a lasciare che nessuno fosse dispiaciuto per lui.

“Andrai a fare ancora un po’ di Shakespeare?” mi chiese, mentre camminavo con lui nella 28ma dopo che la band si era accomiatata.

“Certo” gli risposi. “Spero però di suonare ancora con te. Se posso aiutarti in qualche modo – sai tipo copiare parti o qualsiasi...”

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“Aiutarmi? Aiutarmi?” urlò Oscar come se fosse stato attaccato da un armata di venusiani. “Che diavolo stai blaterando? Io avrei bisogno di aiuto? Ascolta, Dave, tu aiuta te stesso! Organizzati. Cerca di essere migliore che puoi. Scrivi le cose più belle che puoi. Ce la puoi fare. Non ti preoccupare di aiutare nessuno. Questa è la danza e tu lo sai. Vai avanti a scrivere e non lasciare che nessuno interferisca con quello che tu stai facendo. Siamo tutti benedetti da Dio per il fatto di fare musica. O.K., vieni su a casa mia a farti un croissant. Quando suoneremo ancora, non voglio che tu perdi più il filo e ci metti nei guai. Io ascolto, lo sai, ascolto ogni cosa.”

Salimmo a casa di Oscar e iniziammo a bere birra. “La vita non è meravigliosa?” urlò Oscar. “Abbiamo la più rigogliosa band del mondo.

Yeah! E non fare casino” ringhiò ingurgitando un altra boccata. “Mio figlio sta dormendo e deve andare a scuola domani. Salute, Dave.”

“Salute, Oscar,” bisbigliai. Ce ne stemmo alzati tutta notte e oscar mi spiegò una danza indiana che aveva imparato

da bambino. Quando il figlio si alzò per andare a scuola stavamo danzando in circolo. Sua moglie ci cucinò la colazione e alla fine me ne andai a casa. Sarei potuto stare lì per giorni. Oscar era la miglior compagnia al mondo. Aveva un cuore grandissimo. È stato una di quelle persone che mi hanno insegnato che esiste un approccio positivo a ogni cosa. Impiegando le tue proprie energie e le tue forze vitali puoi influenzare gli altri musicisti e le altre persone e trasformare una condizione di negatività in una forma più gioiosa.

A maggio del 1957 Pettiford suona nell’album di Kenny Dohram “Jazz Contrasts”: qui Pettiford

introduce “I’ll Remember April” con un ostinato di basso solo in cui effettua transizioni ritmiche complesse che lungi dall’intaccarla rinforzano piuttosto l’integrità del brano. A febbraio del 58 Pettiford è ospitato nell’album Freedom Suite di Sonnny Rollins dove assieme a Max Roach supporta le esplorazioni melodiche di Rollins coronando l’obbiettivo reso esplicito nel titolo dell’album. In tutta la suite Pettiford supporta con cura il solista sostenendolo con una tessitura dal forte sostegno armonico.

A settembre del 1958 parte in tour per la Germania e la Francia e nel 1959 si stabilisce a Copenhagen in Danimarca. Durante i pochi anni di vita che gli rimangono suona col sassofonista Hans Koeller, col chitarrista Attila Zoeller12 e con Kenny Clarke o Jimmy Pratt alla batteria. Nel 12 In un intervista effettuata da Bill Donaldson per il Cadence Jazz Magazine, Attila Zoeller, il leggendario chitarrista ungherese, pochi giorni prima della sua morte avvenuta il 25 gennaio 1998, racconta alcune brevi immagini della sua esperienza con O.P.

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1958 viene coinvolto in un incidente d’auto e riporta un trauma cranico. Sempre nel 1958 registra assieme a Stan Getz alla colonna del film di Sven Methling “Soldatekammerater” e dalla fine del ’59 suonerà stabile con il quartetto di Stan Getz (nella foto a fianco alla Tivolis Koncertsal a Copenhagen 1959; da sinistra Jan Johansson, Oscar Pettiford, Stan Getz e Joe Harris) al Montmartre Club di Copenhagen.13

L’ultimo concerto risale al 4 settembre del 1960, all’inaugurazione di una mostra d’arte. Il giorno seguente viene accompagnato in ospedale dove cade in coma. Muore 4 giorni dopo, l’8 settembre, all’ospedale Fiedfrederiksberg di Copenhagen all’età di 37 anni. I medici danesi decidono di non rendere pubblica la causa della sua morte14. Nell’immediato si spargono voci, che raggiungono New Incontrai O.P la seconda volta che venni negli States e poi partimmo per la Germania in tour alla fine del ’58. Poi ad Amburgo mi disse che gli sasrebbe piaciuto rimanere in Europa. (...) Nel ’59 facemmo quel disco per la Black Lion a Vienna, in un paio di pezzi suonai io il contrabbasso (in All The Things You Are e Oscar Blues O.P. suona il Cello). Non c’erano contrabbassisti nei paraggi e in realtà non pensavamo che il disco sarebbe stato pubblicato, altrimenti non avrei suonato il contrabbasso, non mi piacciono le critiche negative. Qualcun disse “quel ragazzo doveva essere agitato per il fatto di suonare il basso con Oscar Pettiford”. Ma io stavo solo cercando di dare un aiuto. Suonai semplicemente le note giuste. Alla batteria c’era Jimmy Pratt. In 1959 was when we made that record (Black Lion) in Vienna. That's when I had to play double bass on a couple of tunes. There was no bass player around. But we never thought that it was going to come out. I wouldn't have played bass then if I knew they would release this album. I don't like to be put down. Somebody said, "That guy has some nerve playing bass with Oscar Pettiford." I mean, it was just a helping out. I played the right notes. It was Jimmy Pratt on drums at that time. 13 In questo periodo O.P. non smette di svolgere una brillante attività concertistica come testimonia quanto è possibile leggere sulla rivista "Jazz di ieri e di oggi", 3 marzo 1960 a p. 22 a commento concerto del 21 febbraio di quell’anno al Festival del Jazz di S. Remo con Barney Wilen al tenore e Kenny Klarke: "Devo fare un discorso assai diverso per il bassista Oscar Pettiford che ha preso due assoli di gran classe, segnatamente quello su Willow Weep For Me, che ne fanno decisamente uno dei migliori improvvisatori del Festival e forse il miglior contrabassista di jazz che abbiamo mai ascoltato in Italia". (Livio Cerri). - P. 24: "A questo punto capitò il fantastico a solo di Oscar Pettiford, ed il pubblico capì di trovarsi di fronte a qualcosa di veramente speciale: si sarebbe sentito cadere uno spillo e l'esplosione del pubblico alla fine, fu forse l'applauso più entusiastico di tutto il festival." (Francis Thorne). 14 Dalla testimonianza di Attila Zoeller (vedi nota 4) la causa della morte sarebbe effettivamente legata all’incidente occorso nel ’58 e al fatto che O.P. non adottò nessuna cautela e anzi beveva troppo... Non si prese cura di se stesso dopo quello stupido incidente in auto, così come del resto io non mi sto prendendo cura di me oggi. Era in auto con Hans Koeller (...) Oscar aveva un taglio sull’occhio destro (...) sembrava come se l’occhio rimanesse aperto senza pelle sopra (...) in un paio di giorni tutto andò a posto. (...) più

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York, che insinuano sia stata una morte violenta. Uno dei sintomi apparenti riscontrati è una forma di paralisi, che ha fatto pensare a una infezione virale simile alla Poliomelite. Un altra ipotesi è che la morte sia correlata con l’incidente stradale occorso due anni prima. Lascia una moglie e tre figli.

Dalle brevi note biografiche e dai ritratti sopra riportati emerge una complessa e controversa

personalità, inserita in un mondo musicale dinamico e fertile in cui però il pieno riconoscimento del talento artistico passava attraverso il retaggio pesante della discriminazione. Anche se non ho trovato note biografiche a riguardo posso avanzare l’ipotesi che, così come avvenne per Charles Mingus15, suo stimato collega e in alcune registrazioni coadiutore16 al basso delle sue performance al cello, su Pettiford pesasse ulteriormente l’essere mezzo sangue. Interessante in tema di integrazione un articolo apparso su una rivista d’epoca in cui Pettiford appare in copertina con la moglie Harriett, in cui si cita la testimonianza di diversi musicisti, tra cui Stuff Smith, che senza tanti giri di parole dichiara che “aver sposato una donna bianca ha direttamente aiutato la sua carriera musicale”. 17

Tra i luoghi di una possibile emancipazione e promozione, dove gli sarebbe stato riconosciuto il ruolo e il valore artistico che gli spettava, c’è l’Europa, vagheggiata già nei primi anni ’50 nell’intervista a Leonard Feathe. È il desiderio di spazi nuovi e di uscire dai limiti, talvolta angusti, di una carriera musicale e di un ruolo gregario che Pettiford, forse per il suo retaggio di nativo americano non accetta. E’ probabilmente questa l’essenza del suo essere “Wild”, come lo definisce Feather nel simpatico calembour che da il titolo al suo articolo18 e probabilmente è proprio questa la molla che lo ha mosso ancora diciassettenne a staccarsi dall’orchestra di famiglia per seguire una

tardi ci prendemmo cura di lui. Tutto andava bene ma non riusciva a smettere con tutto quel vino. Non prese per buone le prescrizioni del suo dottore. Diceva “Dai su ancora uno! Un piccolo bicchierino.” Non senti il dolore e ne bevi ancora un altro. (...) 15 Charles Mingus “Peggio di un bastardo” autobiografia (Dellai, 2005) 16 29.12.1953 NYC. The New Oscar Pettiford Sextet. Oscar Pettiford cello (b on Tamalpais), Phil Urso ts, Julius Watkins fr-h, Walter Bishop p, Charles Mingus b, Percy Brice d. Quincy Jones arr. 17 Il numero di gennaio del ’53 della rivista JET (the weekly African American pamphlet) ha come titolo di copertina un articolo dal titolo “perché i musicisti neri scelgono mogli bianche”. La copertina è scaricabile dal sito di Hans Joachim Schmidt all’indirizzo http://themenschmidt.de/jet53.jpg riporta la testimonianza di diversi artisti afro americani che hanno sposato una (o più) donne bianche: Stuff Smith, Bill Kenny, Teddy Wilson, Herb Jeffries, Billy Daniels, Ry Nance, Donald Millls, Sidney Bechet, oltre naturalmente a oscar Pettiford. 18 Op.cit.

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sua propria carriera musicale. E ancora dev’essere questo temperamento ad averlo spinto a imbracciare un violoncello e inventarsi una nuova voce, che sapesse mediare in qualche modo tra il registro troppo basso del contrabbasso e il modello chitarristico di Charlie Christian.

E’ infine una finestra sull’Europa e sul rapporto tra musicisti jazz europei e le loro fonti di ispirazione d’oltreoceano che si apre con l’intervista che segue a Franco Cerri. La sua testimonianza è importante poiché conferma alcune delle ipotesi e dei percorsi tematici enunciati in questo breve saggio. Da una parte l’importanza dell’Europa, dei paesi del Nord Europa in particolare, per aver saputo valorizzare e apprezzare questa musica senza limitarsi a circoscriverla a un semplice fenomeno più o meno esotico, ma trovando spazio per il suo insegnamento e per la sua diffusione in segmenti più ampi della società. Dall’altro la condivisione per l’aspetto lirico dell’improvvisazione di Petiford, la contabilità dei suoi solo, e la continua ricerca di essenzialità e di verità, contrapposte a modalità espressive che Cerri non ha condiviso e che polemicamente associa a una cattiva qualità di comunicazione.

Vorrei quindi ribadire che questo principio di verità traspare in tutto il percorso musicale di Oscar Pettiford. Abituati oggi a leggere il Bebop come una forma musicale storicizzata, e ad affrontare certe asperitudini e difficoltà intrinseche nella sua disciplina come una sorta di ricetta per accedere a una forma corretta di improvvisazione jazzistica da digerire per passare poi ad altro, talvolta non riusciamo a cogliere l’aspetto fortemente innovativo che questo linguaggio ebbe alla metà degli anni ’40. Un innovazione che non sapeva ancora emanciparsi dalle strutture e dalle forma tipiche del jazz di allora e che quindi le erodeva dall’interno. Per questo forse è importante notare che tutte le energie di Pettiford sono orientate ad ampliare e arricchire il fraseggio sul suo strumento, mirando all’essenzialità. Essenziale è il suono, mantenuto in un equilibrio dinamico su tutta l’estensione utilizzata (che in genere non supera il G2), limitando al minimo le vibrazioni indotte dallo sbattimento delle corde sulla tastiera, e concentrandosi sulla potenza e sulla rotondità. E in questo registro, senza oltrepassare quasi mai il capotasto (solo successivamente i contrabbassisti jazz si sono avventurati fin lassù) oltre il quale probabilmente O.P. sapeva di trovare un suono difficilmente valorizzabile attraverso la tecnica del pizzicato, come in effetti è, Pettiford sa collocare interamente tutta la sua poetica improvvisativa, senza mai stravolgere lo sviluppo armonico del pezzo, senz’amai abbandonare la ricerca di una consequenzialità e logicità della frase musicale, a discapito di trucchi e trovate che nella loro psettacolarità spesso non aiutano la musica.

Senza voler circoscrivere lo studio dello strumento al campo di azione delineato da Pettiford mi auguro tuttavia infine di aver in parte tradotto in un progetto musicale almeno una piccola parte del suo genio musicale e della sua irrequietezza .

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APPENDICE 18 gennaio 2011 Colloquio con Franco Cerri Pettiford e gli anni ’50, e sul suo modo suonare e di intendere il jazz

- Non ti sembra che a nel 2010, a 50 anni dalla sua scomparsa, Pettiford sia stato un po’ dimenticato... qualcosa si è fatto negli Stati Uniti e probabilmente in Danimarca dove lui ha passato diversi anni... e qui in Italia?

- Sono stato molto in Danimarca e Svezia e Norvegia e ti posso confermare che se Pettiford si è fermato lì è perché si poteva trovar bene. Soprattutto in Danimarca gente è cresciuta e la politica l’ha aiutata a crescere: è stato tra i primi paesi europei a coltivare il jazz, a differenza del nostro che sta davvero agli ultimi posti. Oscar Pettiford è stato soprattutto noto, da quello che mi risulta, agli appassionati, che già all’epoca era un piccolo gruppo. Molto pochi lo conoscono adesso, men che meno i giovani. Lo stesso, se vogliamo fare un paragone, vale per Gorni Kramer: spesso i ragazzi l’hanno appena sentito nominare, mentre possiamo considerarlo a tutti gli effetti un eroe del jazz in Italia. Era un musicista estremamente preparato, che amava la musica ed era sempre interessato alle novità. Di Pettiford come di altri musicisti forse si parla più oggi che ci sono più giornali e più possibilità di ascolto, ma finisce qui. Da noi tra l’altro l’educazione musicale nelle scuole è sempre stata deficitaria - lo dico col magone – per una precisa volontà politica: più rimaniamo imbecilli e più chi ha in mano il potere fa quello che gli pare e piace sulla nostra pelle. Tra undici giorni compio ottantacinque anni e ne ho viste di cose... pensa con il passato italiano cosa potrebbe essere la musica in Italia. Niente da togliere ai cantautori ma da noi purtroppo è troppo poca la gente che si interessa alla musica contro quello che succede all’estero.

- Charlie Christian è stato un vero precursore. A lui si rifà esplicitamente Oscar Pettiford quando nel 1950 incide assieme a Ellington e a Strayhorn il cello pizzicato. Come spiega Leonard Feather in un intervista del ‘51 Pettiford “comprese che le idee solistiche che aveva sviluppato in un registro difficile da ascoltare col contrabbasso sarebbero state molto più comprensibili se trasferite sul registro medio del violoncello, più leggero e brillante. Così nacque l’idea del cello pizzicato jazz”. La preoccupazione maggiore sembra comunque quella di far cantare lo strumento. Non è stato un po’ così anche per te che hai suonato il

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basso coltivando in parallelo la chitarra, più duttile e consona al tuo modo di cantare la musica?

- Certamente... a me piace tra l’altro cantare mentre improvviso, mi aiuta e mi dà l’impressione di non essere solo: sto suonando con qualcun’altro... che poi sono sempre io. Dico sempre ai ragazzi “provate a canticchiare mentre fraseggiate sullo strumento: vedrete che migliorerete l’intonazione e sarete più convincenti ritmicamente. Charlie Christian è un personaggio fondamentale, ha vissuto poco e registrato poco, era con Benny Goodman in un orchestra di bianchi e lui era avanti di anni, anche di lui si parla poco anche se è stato un grande precursore del bebop. Poi sono venuti Gillespie e Parker che ne sono stati gli alfieri. Sia al contrabbasso che alla chitarra io sono sempre stato autodidatta, e ascoltando i dischi di quel periodo ho imparato tante cose, potrei dire che sia partito tutto da lì... ma senza mai copiare, senza trascrivere i soli ma lasciandomi ispirare dalle cose che sentivo più affini e interiorizzandole. Per me è naturale evitare di copiare e cerco di produrre sempre qualcosa di originale. Se ascolti ad esempio Bill Evans o Oscar Peterson è troppo difficile poi risuonare i loro soli, però possiamo cercare di catturare l’impronta del loro modo di fare musica. È un aiuto importantissimo anche per vincere le timidezze: a volte non abbiamo il coraggio di provare una cosa nuova per paura delle reazioni del pubblico, e quando poi la sentiamo fare da qualcun altro abbiamo delle conferme importantissime... Dai più disparati musicisti possiamo trarre le cose che più si avvicinano alla nostra sensibilità. Ho avuto la fortuna di conoscere Leonardo Sciascia. Una sera l’ho avuto ospite a cena assieme al pittore Giancarlo Cazzaniga. Mi sono felicitato con lui per la bellezza della sua prosa e del suo linguaggio, per il suo italiano così lineare ed esatto e allo stesso tempo così straordinariamente ricco di vocaboli. “Lei deve sapere che io ho letto più di 2000 libri” mi ha risposto. La musica così come la letteratura si nutre continuamente di altra musica. Se noi ci rendiamo disponibili a ricercare continuamente, e costantemente a incuriosirci per ogni cosa che ascoltiamo, il nostro linguaggio gradualmente si forma. Attraverso le continue stratificazioni emergono i dettagli più importanti, che sono stati fermati dalla nostra attenzione.

- Dizzy Gillespie nella sua biografia riporta che Oscar Pettiford adottava il “nuovo stile” prima di aver sentito Blanton perchè era un grande appassionato di Charlie Christian. “Ci sono tanti contrabbassisti ancora oggi che al momento di fare il solo suonano bum la tonica (...) non c’è bisogno della tonica quando fai un solo”. Condividi?

- Dipende un po’anche dal tuo stato d’animo. Se in un certo momento non ti senti sicuro di fare una frase e pensi “chissà se le dita andranno al punto giusto?” allora la tonica ti può dare un aiuto. Però più sai dove mettere le dita, cercando nella tua mente e traducendo sulla

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tastiera quelle idee musicali, più puoi avvicinarti alle linee più lontane ed evitare la tonica... Sì, condivido in pieno le parole di Dizzy, trovare la frase più ricca armonicamente e più interessante melodicamente e ritmicamente è una delle priorità assolute nel mio modo di improvvisare. A volte però anche le musiche che ho suonato più volte e che dovrei poter affrontare con una certa facilità, nascondono delle insidie. Per me è importante anche poter chiudere gli occhi: così mi concentro, ed evito che mentre improvviso mi vengano in mente telefonate o impegni vari. A volte poi guardo il pubblico e cerco di capire se si stanno annoiando, e mi preoccupo... e allora non sono più concentrato e può capitare che improvvisi veramente quel che arriva arriva. Allora può capitare di mettere una tonica...

- Come sei entrato nel magico mondo del jazz, cosa ha rappresentato per te Gorni Kramer?

- Io ho cominciato nel ‘45 con Kramer, il quartetto Cetra, Natalino Otto. Si suonava da ballo però ogni tanto si faceva qualche pezzettino “jazzino”, era Kramer a spingere in quella direzione. A lui serviva anche per far canzoni: e su colorazioni jazz ne ha fatte di bellissime che gli hanno fatto guadagnare molti diritti d’autore. Suonava uno strumento che non ha mai conquistato il jazz, uno strumento legato alla tradizione popolare e contadina. Pensa che Chet Beker una volta, ospite di una trasmissione condotta da Kramer e Luttazzi, ha tirato fuori la tromba per suonare, ha visto la fisarmonica, e ha fatto per rimetterla nell’astuccio... non è stato facile convincerlo. Kramer però ha sempre superato questa diffidenza perchè era innamorato del suo strumento. Raramente purtroppo ai trova un gruppo di jazz con fisarmonica, ed è un peccato perchè è uno strumento completo.

- Ho trovato su Pettiford una bella testimonianza di David Amram, compositore eclettico e polistrumentista che negli anni ’50 giovanissimo frequentava i boppers e andò in turnée con l’orchestra di Pettiford. Una turnée disastrosa con poco compenso alla fine della quale Pettiford mostrò tutta la sua burberitudine e assieme una profonda umanità (pagando di tasca sua gli ammanchi degli ingaggi ad esempio). Emergono tutte le difficoltà della turnee, il pubblico che cambia e a volte non c’è...

- Chi è il pubblico? Non possiamo conoscerlo con esattezza. Quando si fa una scaletta si tira sempre a indovinarne i gusti e le preferenze e a volte ci si pente della scelta della sequenza dei brani perché si producono reazioni completamente diverse da quelle che ti apettavi. Il Pubblico cambia continuamente di serata in serata, di luogo in luogo; cambia anche la sala e di conseguenza l’acustica e a volte devi lottare per trovare un suono e per sentire bene gli altri strumenti. È brutto dover tirare a indovinare, se stare col bassista o col batterista quando c’è un quarto di differenza! Quando però il talento ti accompagna la musica

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viene comunque fuori. Guarda Pettiford che cosa andava a trovare sullo strumento e che fraseggio aveva in testa! Ogni volta bisogna cercare di fare una bella cosa, sul disco o in concerto. Alla fine di un concerto io sono quasi sempre arrabbiato con me stesso. Qualcuno ti dice “ma che bello!” e tu sorridi ma pensi tutto il contrario. Bisogna dire anche che oggi è più facile riascoltarsi dal vivo e a volte a distanza si apprezzano delle cose che al momento sembravano malriuscite. Oppure all’istante sei soddisfatto, poi ti risenti e quello che hai suonato non appare più così buono... Può accadere di tutto, e il palcoscenico ti da delle soddisfazioni incredibili, l’affetto del pubblico, ad esempio. Oppure riuscire a rimediare quando ci si rende conto di aver sbagliato a fare la scaletta, superare le difficoltà di concentrazione: il palco è la sfida e la soddisfazione più grande.

- Sempre Leonard Feather afferma che Pettiford nonostante i successi giovanili non aveva agli inizi degli anni ’50 il riconoscimento anche economico che si meritava e per questo pianificava di venire in Europa. L’Europa in generale era meglio? E il Nord Europa, la Danimarca? Erano meglio meglio? E l’Italia?

- All’inizio il jazz è stata una novità in tutta Europa, tanto che anche uno dei suoi maggiori ambasciatori come Duke Ellington faceva fatica a fare le scalette per i suoi primissimi concerti a Londra. Però una differenza c’è sempre stata e l’Italia purtroppo era ed è rimasta è un fanalino di coda. In Svezia Inghilterra Germania Olanda, in Belgio e in Francia il pubblico ha sempre partecipato di più, è sempre stato più abituato e predisposto. È piuttosto nel sud dell’Europa che il jazz non è stato capito. Del resto a fronte di un ora di musica nelle scuole di alcuni paesi del nord Europa qui ne abbiamo normalmente una a settimana. Del resto anche negli Stati Uniti, dove io son stato almeno cinque volte, non è che ci fosse una cultura jazzistica così estesa: Ella sapevano tutti chi era mentre Sara Vaughan già meno, e i nomi tipo Pettiford non erano neanche lì molto conosciuti, nonostante la popolazione sia molto più numerosa e il jazz sia nato lì. Ti racconto un piccolo aneddoto: un gruppo di pittori italiani è stato chiamato in uno stato del centro degli Sati Uniti per una mostra. Avvicinati da belle signore di mezza età che offrivano loro un “orgia” accettarono. Cos’era l’orgia? Un sacco di gente partecipava a questo rito di uccidere un cavallo. Roba da far accapponare la pelle. Sono un po’ barbari anche loro.

- Ti riconoscevi nel percorso di ribellione e di rinnovamento che Dizzy e i boppers portavano avanti nella musica e in qualche modo anche nella società. E quando poi è arrivato il free jazz?

- Il bebop è contenuto ancora in una serie di regole. Io non mi sono mai avvicinato al free così come, confesso, alla musica contemporanea classica. Sono sempre un melodico e

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amo le armonie che si avvicinano al modale. Fa parte della mia sensibilità e alla mia epoca. Anche con Kramer la cantabilità era il requisito essenziale.

- È anche vero che in quell’ambiente tu sei stato più pronto a seguire un linguaggio nuovo, e cioè il bebop...

- La prima volta che ho sentito i boppers pensavo che suonassero degli strumenti modificati. La chitarra suonava la nona bemolle... chissà che tipo di accordatura si doveva usare, mi chiedevo. Così provo sempre a immedesimarmi in chi ascolta jazz magari senza una buona preparazione musicale: è così difficile che colga le sfumature! Oltretutto mancano completamente le guide all’ascolto, che dovrebbero essere condotte da persone preparate e con una buona dialettica. La televisione poi latita completamente su questo fronte. Il pubblico quindi finisce oggi per ascoltare produzioni musicali dove la cosa più importante è il testo e la musica è fatta magari da una nota sola che cambia alla fine della frase.

- Riescono talvolta a spacciarla per una “specialità” italiana e a guadagnare fette di mercato estero...

- Devo dire che dappertutto c’è stato un calo di gusto... - Elettrificazione e sovraincisione: Pettiford è stato come altri della sua generazione un

pioniere su questo fronte. Come è andata la registrazione di Blues Italiano con Cazzola? - Sono quattro pezzi tra cui c’è anche Perdido, All The Way e Foxology, un brano mio.

Prima ho inciso il contrabbasso con Cazzola e poi ho sovrainciso una o due chitarre. Era il ’58, ci siamo divertiti un mondo.

- Come è cambiato in questi anni il modo di amplificare e registrare il jazz, le tecniche di manipolazione digitale, la possibilità di intervenire su alcuni dettagli attraverso l’editing, di migliorare l’intonazione e di correggere gli errori tende a snaturare la musica il suono – peraltro già non più fedele per via del procedimento digitale?

- È cambiato decisamente in positivo ma il risultato è meno veritiero. Oggi ad esempio, con certi accorgimenti, puoi far diventare un assolo se non bello per lo meno corretto, ma io sento colpa ogni volta che penso “pazienza poi lo mettiamo a aposto nel mixaggio”. Quando ho iniziato a registrare nel ’45 non c’era ancora il Revox, che è stata una grandissima innovazione. La cera si poteva ascoltare una sola volta, e l’ascolto serviva per calibrare meglio i livelli o migliorare attraverso alcuni accorgimenti l’acustica della sala: dopo un solo ascolto non era più utilizzabile. Di cere se ne facevano anche due o tre fino a produrre “quella buona”: i musicisti consultavano la regia e la regia consultava i musicisti e se c’era una buona soddisfazione da parte di tutti si teneva. Prima di poterla riascoltare dovevi aspettare che fosse pubblicata. Una bella differenza con quanto avviene oggi che si può risentire più e

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più volte tutto ciò che si vuole, si può tagliare, spostare, correggere... erano in qualche modo tempi più eroici. Però c’è da dire sempre che quando incidi se riascolti subito dopo o sei entusiasta poi dopo qualche tempo ti penti... oppure non ti va bene niente e poi a distanza riesci ad apprezzare meglio. È molto umano tutto questo: siamo esseri in continua evoluzione e trasformazione.

- Immagino che a quei tempi la figura del direttore artistico o del produttore avesse un ruolo fondamentale per indirizzare le scelte durante la sessione di incisione...

- Il signor Fonit? Certo che era fondamentale! Stava in regia e premeva affinché tenessimo buona la prima. Devi sapere che i musicisti erano pagati a ora e quindi a un certo punto il produttore diceva “insomma dovete sbrigarvi, è cara l’orchestra!”. Ecco che c’era una preoccupazione in più: non far arrabbiare il discografico. Anche quello era un palcoscenico a tutti gli effetti.

- Non manca qualcosa nelle autoproduzioni di oggi: questo confronto appunto con il produttore?

- Certo, in qualche modo lui rappresenta il pubblico. Questi grandi produttori però non sempre sanno badare anche a certe sottigliezze che potuto migliorare notevolmente la qualità. A volte l’ultima frase è: ”tanto il pubblico non capisce”. Siccome io amo avere un rapporto moto intenso col pubblico e a volte ai concerti confesso anche gli errori, e mi applaudono anche per questo, capisci che non è un discorso che mi va tanto a genio.

- Da qualche lustro il jazz ha preso altre strade, oggi c’è una sorta di approccio “globalizzato” che fa si che la sua vocazione a esplorare altri universi musicali dia campo libero ad alcuni musicisti per prendere strade a volte molto distanti dallo swing e dal bop e dalle matrici peculiari della musica afroamericana. In questo contesto quale spazio c’è ancora, secondo te, per la rivalutazione di musicisti come Pettiford e per la riproposizione del loro fraseggio e del loro linguaggio. Lo si può fare anche senza essere Ron Carter (che abbastanza di recente ha dedicato proprio a Pettiford disco con uno splendido quintetto. Bass: Ron Carter. Drums: Lenny White. Piano: Sir Roland Hanna. Tenor Saxophone: Benny Golson. Vibraphone: Joe Locke)?

- Pettiford è uno di quelli che faceva musica. Non faceva frasi di effetto, miliardi di note come certi pianisti o sassofonisti, e cantava tutte cose che venivano da dentro. Incastonava le frasi come perle, non c’è mai una nota che non abbia un senso ritmico e armonico. A me piace insistere sul fraseggio, quando fai un solo è come se raccontassi una storia al pubblico con le note. È la frase che conta. Parker, Gillespie, Powell... Jim Hall... ci hanno insegnato e continuano a insegnarci proprio questo. Io ho vissuto il jazz in questo modo, e cerco di essere

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sempre me stesso. Però la società e il mondo attorno cambia e noi per vivere siamo costretti ad adeguarci a queste trasformazioni. Faccio un paragone: prendi la politica oggi, con tutti questi che fingono di litigare, poi vanno fuori a cena assieme, e intanto fanno i loro giochetti. Fanno un gran polverone per non far capire alla gente quali sono le vere questioni. Questo può succedere anche nella musica, e in particolare nell’improvvisazione, quando si fanno una valanga di note e non si fa capire il discorso. Almeno noi invece dobbiamo evitare di comportarci così, dobbiamo cercare di essere onesti.

- Sempre dalla testimonianza di Amram: “Oscar è stata una di quelle persone che mi hanno insegnato che esiste un approccio positivo per ogni cosa” dice Amram. Anche tu hai incontrato dei musicisti che ti hanno incoraggiato e aiutato nei momenti più difficili? Da chi hai ereditato la tua generosità e la tua capacità di incoraggiare e di valorizzare talenti e giovani musicisti?

- Piano piano anch’io frequentando Kramer e i musicisti stranieri con cui ho suonato, ho imparato molte cose. E ho sempre avuto la fortuna di trovare una grande disponibilità prima di tutto a livello umano. Gianpiero Boneschi ad esempio lo conosco da quando eravamo ragazzini. Mio papà mi aveva appena comprato la chitarra da 78 lire che al dodicesimo tasto invece di fare MI faceva MI bemolle. Non c’erano soldi per un maestro e non sapevo da che parte voltarmi. C’era il metodino che ti insegnava il DO maggiore: DO MI e DO e tutte le altre corde vuote... Mi ricordo che Boneschi aveva 16 anni e io 17 e studiava il “pianofovte”, anche lui aveva la erre di Kramer. Ebbe una trovata intelligente, mi disse che quand’ero a casa e trovavo sulla chitarra delle note interessanti che facevano piacere al mio orecchio potevo chiamarlo al telefono e fargliele sentire. Allora lo chiamavo e gli dicevo “Peo senti queste note”. Lui ci pensava un po’ e poi mi diceva “deve esseve un ve bemolle settima”, “si ma cosa vuol dire?” gli chiedevo, “dunque, conta fino a sette...”. Allora poi ho iniziato a scrivere musica, con molti tentennamenti, magari facevo le stanghette dalla parte sbagliata, mettevo le alterazioni dopo le note, o le legature dalla parte delle stanghette. La paletta però non mancava. Poi ho avuto un’illuminazione notturna: mi sono procurato una serie di spartiti di brani che conoscevo. Piano piano mi sono inventato tutto, ma fondamentale è stata la partenza, e l’apporto del mio amico Peo.

- Forse la didattica deve essere proprio così, potersi soffermare su ogni piccola cosa, fin dall’inizio.

- Sì ci vuole gradualità... e poi bisogna quali sono le capacità tecniche ed espressive di ogni allievo. Nella musica d’insieme che faccio qui alla civica noto che è sempre difficile mettere assieme un gruppo. Ci sono due o tre che sanno leggere bene e poi bisogna aspettare

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gli altri che imparino le loro parti. E questo è solo l’inizio... bisogna mettere a posto tutte le linee. Sai che non piace raddoppiare il la melodia al basso e quindi faccio grandi circonvoluzioni per evitare i raddoppi. Un conto è quando c’è un pianista che fa tante note e quindi ci mette anche quella del voicing un conto è un quartetto, come quello di chitarre a cui mi dedico da anni, con cui cerco sempre di sperimentare le linee migliori. Ho scritto tantissimi arrangiamenti in cui le quattro chitarre devono diventare una sorta di unico strumento. Addirittura ai concerti faccio mettere gli amplificatori tutti assieme. Poi cerco sempre di creare una varietà di situazioni, alternare per esempio delle parti di insieme con parti in cui c’è solo chitarra e contrabbasso che vanno tutti e due in quattro... allora con la chitarra faccio cantare delle altre linee parallele.

- Lo fai per stimolare continuamente il pubblico... - Sì, che poi è molto meno cretino di come ti immagini. Per catturarlo non è necessario a

tutti i costi fare una cosa effettistica o bislacca. Bisogna fare qualcosa che possa arrivare al suo orecchio.

- Il quartetto di chitarre è come una sorta di seconda grande chitarra con cui tu dialoghi.

- In certi arrangiamenti, come ad esempio Just Friends, c’è un introduzione ritmica con le chitarre e la batteria che lanciano il tema. Però non riempio mai troppo di background complicati, incarico un chitarrista di accompagnare in un certo modo. A volte bastano cose anche molto semplici al punto giusto, e che sono il frutto di un gusto preciso che in genere viene dalla propria epoca. Anche andare in quattro con la chitarra, come faceva ineguagliato Freddie Green, è un arte specialissima: bisogna lavorarci molto per trovare la chiave giusta. Di questi e di molti altri dettagli è fatta la costante ricerca di un musicista jazz...

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ANALISI DELLE TECNICHE DI SCRITTURA E ARRANGIAMENTO

1. Blues In The Closet (Oscar Petiford) 2. Don’t Squawk (Oscar Pettiford) 3. Bohemia After Dark (Oscar Pettiford) 4. Wild Oscar (Lorenzo Serafin) 5. Tricotism (Oscar Pettiford) 6. Stardust (Hoagy Carmichael)

N.B. I brani sono analizzati in ordine di esecuzione. L’ultimo brano Stardust ripropone integralmente l’esposizione tematica di Pettiford: si propone quindi un analisi puntuale della melodia eseguita al contrabbasso comparata con quella originale.

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Una “suite” in Blues Blues in the Closet e Don’t Squawk sono due blues di tipo convenzionale: si sviluppano in entrambi secondo lo schema tipico del blues: I7 per 4 battute, IV7 per 2 battute, I7 per 2 battute, II-7 per1 battuta, V7 per 1 battuta, I7 per 1 battuta, cadenza finale per 1 battuta. Nell’arrangiamento proposto i due brani sono accostati tra loro a formare una piccola suite. Il primo ha un tempo doppio del secondo: le velocità potrebbero essere rispettivamente un quarto=170 e un quarto=85. Il primo blues in tonalità di G è basato su una sorta di VAMP che si ripete con una piccola variazione melodica (B diventa Bb nelle battute di C7) e il brano è suonato normalmente a due o tre voci a distanza di terze seguendo diatonicamente l’andamento degli accordi. In questo caso solo la prima esposizione tematica di 12 battute eseguita da contrabbasso e chitarra è sviluppata secondo questo criterio, che convenzionalmente è impiegato in quasi tutte le esecuzioni sia “storiche” che più recenti. La seconda esposizione tematica è sviluppata secondo la tecnica dei block chords e introduce una maggiore ricchezza nello sviluppo armonico con accordi di passaggio per creare maggiori tensioni interne nei voicings (come esemplificato qui sotto sulle quattro voci Tp. – A.s - T.s. - T.ne ).

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Lo sviluppo successivo di Blues in the Closet è affidato a una serie di chorus di improvvisazione in cui a chiamata può essere suonato a tre fiati un vamp ottenuto da una frase del solo di O.P. tratto da una registrazione di un concerto a Essen il 02.04.1960 in trio con Bud Powell e Kenny Klarke (Hawk in Germany – Black Lion). Il vamp può essere utilizzato come hang per segnalare l’attacco del solo di contrabbasso che è interamente mutuato dal solo di O.P. sopra citato e che è stato tratto da una trascrizione a scopo didattico di Marco Vaggi. Attorno al solo che dura otto chorus sono stati organizzati una serie di interventi dei fiati intesi in parte a contrappuntare il solo con alcuni semplici back ground e in parte a rinforzare alcune frasi con degli interventi a block chords. L’ultimo chorus termina con la transizione al blues successivo che avviene con un cambio di tonalità da G a F e come si è detto con un dimezzamento del tempo. La tecnica usata per creare la maggior continuità possibile è quella di attaccare all’ultima battuta di Blues in the Closet una frase in terzine che fa da intro al blues successivo Don’t Squawk. Le terzine di quarto in Blues in The Closet si trasformano in terzine di ottavi in Don’t Squawk (modulazione metrica). Don’t Squawk prevede invece la vera e propria esposizione tematica – due chorus tratti penso originariamente da un solo di O.P. e trasformati in uno stupendo e discorsivo tema blues - posticipata alla fine del brano, lasciando voce a 2 + 2 chorus di assolo. Sul secondo chorus di ogni solo i fiati intervengono con dei back ground concepiti secondo il tipico schema “call and response” (vedi qui a fianco). L’arrangiamento è pressoché interamente mutuato dalla versione incisa nel disco “Another One” del 1955.

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Si tratta di un brano costruito su un turnaround minore (Gm – Am7b5 – D7) con una melodia semplice costruita su un arpeggio minore con uno spiccato andamento verticale (nel suo sviluppo completo ha un estensione di due ottave) che probabilmente è nata proprio sul contrabbasso, poiché sfrutta molto bene le corde vuote per ottenere un effetto che potremmo definire di proiezione verso l’alto. Nell’esecuzione di Pettiford nella prima A è affidata al basso l’esposizione melodica e nella seconda ai fiati accompagnati da un possente walkin’bass.

La struttura è AABA con l’aggiunta di due battute di lancio. La B ha una melodia di una semplicità disarmante ed è sostenuta da una batteria che marca ostinatamente i quarti su un tom, mentre Pettiford introduce al basso delle figure poliritmiche su gruppi di tre quarti.

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Nell’arrangiamento proposto viene abbandonata l’ossatura walking del turnaround e il tema A si appoggia su un pedale di Gm dorico (suona bene anche la minore melodica di G- che tra l’altro è percepibile anche nel tema per la presenza della sensibile F#) sostanziato da un groove in stile second line su un tempo tagliato. Una triade di C viene appoggiata sul levare del secondo quarto dell’ultima battuta, per creare maggiore varietà ritmica.

Si ripropone lo schema originale che vuole il tema sulla prima A suonato dal contrabbasso, incorniciato in 24 battute alternandolo e sovrapponendolo a una serie back ground di fiati su moduli sincopati.

Il tema A è poi sviluppato all’unisono dai fiati con le parti finali delle cellule tematiche armonizzate.

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Il tema B è sviluppato dai fiati splittando la frase tra le voci due a due…

… per poi concludersi con una frase armonizzata a block chords, morbida, su intervalli diatonici.

La sezione B è accompagnata da basso e bateria con un obbligato ritmico funk sincopato. Gli stessi groove ritmici impiegati nel tema A e B saranno utilizzati anche per le improvvisazioni ad libitum sulle due sezioni. I fiati in improvvisazione collettiva sulla A e chitarra sulla B con un back ground di otto battute ritornellato che fa da hang al tema finale (solo le 8 battute di B con 2 battute di ending).

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Wild Oscar è un brano scritto da me e dedicato a Oscar Pettiford. Il brano è costruito su una singola frase ripetuta su una sequenza armonica basata su una serie di cadenze e di modulazioni su tonalità vicine (C - D - E)

Il tema viene ripetuto con variazioni finali quattro volte con l’aggiunta progressiva dei fiati secondo una forma di contrappunto che culmina nel tema A2 in una serie di frasi armonizzate a block chords. Un interludio modale crea una separazione tra il tema e la parte improvvisativa. Considerata la densità armonica e timbrica del tema non sono previsti special sui chorus di assolo. Al solo tema A3 è affidata la chiusura del brano, dedicando la coda modale dell’interludio a un assolo di batteria che conclude il brano.

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Wild Oscar, che in sede di esame finale è alla sua prima pubblica esecuzione, si rifà al gusto diffuso negli anni ’50 di introdurre nei temi jazz degli accenni di contrappunto (vedi ad esempio Lines For Lions di Mulligan o Nature Boy nell’arrangia-mento di Mingus per Miles Davis del 1955…). Anche se non ne costituisce diretta fonte di ispirazione è possibile ritrovare anche in questo Marcel The Furrier di Oscar Pettiford un brano originale con caratteristiche e si prestano a un trattamento contrappuntistico. Qui a fianco n’è riportata la mia trascrizione tratta dal disco The New Oscar Pettiford Sextet (un disco interessante anche perché vede la partecipazione di Mingus al basso nei brani in cui Pettiford suona il cello). Il brano è interessante anche per la sua sua struttura formale, struttura A - B su per un totale di 10 + 10 battute. La linea suonata dal trombone è prevalentemente basata sulle note guida con alcune frasi parallele a sottolineare le tensioni armoniche sui passaggi conclusivi. Il brano può essere in qualche modo paragonato a quello da me composto anche per la presenza di sequenze armoniche simili come ad esempio la cadenza II - V - I dal I grado al VI e subito dopo al IV della tonalità a inizio brano (sequenza peraltro abbastanza usuale nelle composizioni bop e impiegata ad esempio per arricchire il passaggio tra I e IV in Blues For Alice) .

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Tricotism Tricotism è un esempio eccellente di melodia bebop. Prevalentemente ha uno sviluppo melodico per ottavi con un paio di terzine ben piazzate per creare maggior dinamicità. La melodia contiene alcune sostituzioni di tritono, in particolare alla settima misura dove la melodia si muove su un A7 anticipando con una risoluzione di tritono la successiva cadenza Ebm7 Ab7 su Db. Uno degli argomenti su cui si può dibattere è se Tricotism sia o meno in una buona tonalità (Db) per i bassisti, con i suoi cinque bemolle in chiave... In realtà se si prova ad abbassarla di un semitono, per semplificarne la lettura, ci si accorge che vengono a mancare alcune posizioni chiave che grazie a corde libere di passaggio aiutano a suonare con più scioltezza la melodia. A parte il fatto che si tratta di un buon brano per mettere in rilievo le qualità solistiche del contrabbasso Tricotism possiede alcune peculiarità interessanti. Nelle prime due battute ad esempio la frase è ripetuta prima sul tetracordo superiore e poi su quello inferiore introducendo da subito una antifona che verrà sviluppata poi dialogicamente nel resto del brano

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Nell’introduzione di otto battute (ripresa dall’esecuzione di Tricotism nell’omonimo disco di Lucky Thompson) una frase cromatica ascendente viene progressivamente armonizzata con parallelismi cromatici di quarte, terze e settime, con una chiusa sempre cromatica su una sequenza

Eb7 – D7 – Db6 (una sequenza di due dominanti sostitutive di tritono che puntano sulla tonalità d’impianto). Il tema A è èseguito all’unisono con la chitarra e accompagnato da back ground di fiati. Il tema B è eseguito a block chords. Nei primi due chorus di improvvisazione di contrabbasso si alterna un chorus senza back ground e un chorus con back ground, nel chorus con back ground viene riproposto il chorus magistrale di solo che O.P. esegue nel summenzionato disco Tricotism del 1956. Lo stesso schema si propone per il tenore che potrà eseguire ad libitum una serie di chorus per finire con una sorta di special sulle prime due A del chorus con un call and response tra fiati armonizzati a blocchi e tenore. Le frasi utilizzate per i lanci sono tratte dal solo di Lucky Thompson dallo stesso disco citato. La B viene assegnata a un breve solo di chitarra, e l’ultima A è il tema finale a cui segue un ending uguale all’intro. Nell’arrangiare questo brano si è tentato quindi di usare il più possibile i materiali melodici e gli spunti ritmici originari.

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Stardust Stardust L’arrangiamento proposto per Stardust è mutuato da due esecuzioni di O.P. contenute rispettivamente in “Oscar Pettiford Memorial Album” (1954) e in “Another One” (1955). L’analisi armonico funzionale dell’impianto originario del brano mostra un largo uso di dominanti secondarie e la carratterzzante presenza di un interscambio modale (back door progression) nella terza battuta del chorus. Altrettanto caratteristico è l’andamento minore sul dorico di Db delle prime battute di A e di B che nelle esecuzioni di Pettiford viene evidenziato anche dai voicings usati nell’accompagna-mento.

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Stardust Analisi comparativa Qui a fianco è stata sviluppato su due righe parallele l’andamento melodico della melodia originale e le variazioni eseguite da Pettiford al contrabbasso nella versione incisa sul disco Another One del 1955 con l’accompagnamento di Don Abney al piano. L’arrangiamento proposto (vedi score) aggiunge alcune battute di introduzione ai fiati e un chorus finale (B) in cui i fiati accompagnano con un background “a tappeto”. Gli iserimenti dei fiati si rifanno all’esecuzione dell’anno precedente pubblicata nel disco del ’71 Oscar Pettiford Memorial Album.

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L’analisi cerca di mettere in evidenza attraverso l’individuazione delle note di approccio, la particolarità del fraseggio di O.P. Secondo la definizione di Jim Grantham (The Jazzmaster Cookbook) una delle particolarità del fraseggio bebop risiede in un uso piuttosto diffuso di note di approccio, che pur non avendo uno stretto legame con le dell’armonia sottesa, ampliano le possibililità melodiche agendo in senso orizzontale, come se fossero forme di ornamento, e risolvono sulle note di impianto dell’accordo atraverso uno o più movimenti contigui. Nella lezione di Grantham le note di approccio, chiamate anche turns o surround o hinges per sottolineare il loro ruolo nel introdurre nell’andamento melodico un gran numero di deviazioni e spigolature, sono preferibilmente cromatiche ascendenti e diatoniche discendenti.

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Nell’andamento del solo di Pettiford però questa “regola” sembra essere disattesa, e come è qui possibile osservare (le note approach sono identificate da frecce dal basso o dall’alto a indicarne la direzione verso le rispettive note target indicate numericamente con il grado dell’accordo che individuano) vi sono un gran numero di appoggiature cromatiche discendenti. Inoltre vi sono ripetutamente nel brano diverse frasi che incorporano brevi serie di cromatismi discendenti verso le rispettive note target. Possiamo identificare questo come carattere stilistico di O.P. anche se, va detto, chi conosce più in generale la tecnica contrabbassistica sa che su questo strumento i cromatismi sono spesso funzionali a una buona agilità esecutiva. Confrontando poi le armonie impiegate da O.P. con quanto precedentemente analizzato sulla trascrizione convenzionale del brano si rileva una sostanziale aderenza. Alcune modifiche vengono operate nelle prime cinque battute ripetute nella A e nella B. Nelle tre battute di G6 di A iniziali viene suonato l’arpeggio di Em

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presente nella melodia originale e il pianoforte accompagna sottolineando questo secondo grado della tonalità d’impianto il Bb7 dominante secondaria di Eb-7. A battuta 4 l’interscambio modale presente nelle armonie originali viene limitato al primo accordo di B7, inserendo poi sulla terza e quarta misura il Ab7, dominante di Db. Lo stesso schema si ripete nella B dove al Ab7 è sostituito per tritono il D7.

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Un’altra piccola precisazione armonica riguarda il modo di accompagnare la misura 9 della B dove al F#m7 è preferito un Absusb9, in assonanza con quanto suona il contrabbasso: una frase tipica di Pettiford che infatti è rintracciabile anche in altre versioni. A questo proposito è interessante notare come la fraseologia di un musicista sia costruita anche attraverso la ripetizione di frasi e di moduli che vengono di volta in volta precisati e migliorati fino a diventare patrimonio comune e forma eseguita. In questo caso questo ostinato di basso eseguito sulle tre corde superiori con una serie di “scivolate” verso il basso viene eseguito con una sorta di dilatazione ritmica. La trascrizione la propone schematicamente come quattro quarti nello spazio di tre

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La coda di contrabbasso solo è un espressione tra le più tipiche di O.P. e dimostra la pragmaticità del suo approccio allo strumento, la sua capacità di farlo cantare mantenendosi sempre all’interno di un contesto armonico tonale. In questo caso l’introduzione di una breve sequenza di accordi maggiori discendenti riporta l’orecchio alle sonorità coltraniane ma ancor prima a quelle ellingtoniane.

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L’arrangiamento è mirato a creare una cornice coerente con l’esposizione tematica di contrabbasso che, accompagnato da chitarra e batteria ripropone la linea eseguita da Pettiford nel ’55. L’intervento dei fiati è limitato a una breve introduzione di cinque battute e a un background nella ripresa del tema B, a disegnare sul registro alto una linea melodica a contrappunto dell’intricato fraseggio al basso. La linea e la disposizione dei fiati (rappresentata qui in basso) è mutuata dalla versione del ’49 edita in Oscar Pettiford Memorial Album.

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Bibliografia D. Gillespie, To be or not to bop (trad it. 2010) D. Amram, The adventures and musical times of David Amram (2001) P. Harris, Oscar Pettiford now on Cello Kick (1950) F. Appel, Jr, A New York City: le Grand Orchestre Oscar Pettiford (1957) N. Hentoff, An Oscar (1957) G. Hoefer, Oscar Pettiford (1966) I. Gitler, Jazz Masters of the Forties (New York, 1966/R 1983) D. C. Hunt, Oscar Pettiford: Absolute Artistic Clarity (1973) C. Canière, Pitter Panther Patter: les bassistes de Duke Ellington (1975) J. E. Berendt, Thank You, Oscar Pettiford (Germany, 1977) M. Hennessey, Klook: the story of Kenny Clarke (London, 1990) C. Gazdar, First Bass: The Oscar Pettiford Discography (Bangalore, India 1991) V. Franchini, In punta di dita, Franco Cerri (2005) WWW Hans Joachim Schmidt, http://themenschmidt.de/oscar45.htm

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Discografia di base A suo nome: First Bass (1953) The New Oscar Pettiford Sextet (1953, con Charles Mingus al basso) Another One (1955) Deep Passion (1956) Montmartre Blues (1959) My Little Cello (1960) Con Coleman Hawkins: The Hawk Flies High (1943) Con Bud Powell Essen Jazz Festival (1960) Con Duke Ellington e Billy Strayhorn: Great Times (1950) Con Lee Konitz e Warne Marsh: Lee Konitz/Warne Marsh (1955) Con Lucky Thompson: Accent on Tenor Sax (1954) Tricotism (1955) Con Kenny Dorham: Jazz Contrasts (1957) Con Thelonious Monk: Plays Duke Ellington (1955) Brilliant Corners (1956) The Unique Thelonious Monk (1956) Con Sonny Rollins: The Freedom Suite (1958)

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Partiture

musiche eseguite da: Marco Mariani, tromba Paolo Profeti, saxofono soprano Alex Sabina, saxofono tenore Francesca Petrolo, trombone Massimo Vescovi, chitarra Lorenzo Serafin, contrabbasso Michele Salgarello, batteria