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Rassegna bibliografica Organizzazioni e figure del socialismo italiano di Maurizio Degl’Innocenti Nella più recente storiografia sul movimento operaio e socialista in Italia, i contributi tra i più interessanti sono venuti dal genere bio- grafico, in passato troppo trascurato o la- sciato prevalentemente alle occasioni cele- brative, che ora ha trovato applicazioni assai diverse, nell’analisi di alcune tipiche istitu- zioni e nell’indagine della personalità e del ruolo carismatico di alcuni leader. Ci pare questo un terreno fertile, che meglio può consentire il superamento di talune incrosta- zioni ideologiche ancora perduranti e di con- tro l’applicazione di metodologie più per- meabili alle interrelazioni di campi diversi di indagine. Alla ricostruzione storica delle vicende di una società di mutuo soccorso in una perife- ria fiorentina di recente industrializzazione è dedicato l’interessante saggio di Luigi To- massini, Associazionismo operaio a Firenze tra ’800 e ’900. La società di mutuo soccorso di Rifredi (1883-1922), Firenze, Olschki 1984, pp. 412. Nella seconda metà dell’Otto- cento la diffusione della società operaia, con prevalenti finalità mutualistiche, obbediva alla ricerca di nuovi spazi di socialità, in anni di miseria radicata e di insufficiente iniziati- va previdenziale e assistenziale privata e so- prattutto pubblica, nonché di crisi dei tradi- zionali ordinamenti corporativi di mestiere in relazione allo sviluppo capitalistico e al consolidamento del mercato nazionale. Co- me già aveva sottolineato Rinaldo Rigola nel 1945, il movimento delle società di mutuo soccorso, nel suo insieme, acquisì un caratte- re prevalentemente operaio e nazionale, in quanto prima forma organizzativa dei lavo- ratori italiani: non a caso, la sua prevalente localizzazione fu nelle periferie urbane lungo le direttrici della industrializzazione. Da que- sto punto di vista il saggio di Tomassini af- fronta una tematica centrale, cogliendo bene la natura territoriale della Sms di Rifredi ri- spetto alle altre forme societarie — interna di fabbrica e professionale — e esaminandone i caratteri in rapporto al tessuto urbano citta- dino e di quartiere in particolare. Convincen- te appare la tesi che il mutualismo non rap- presentò solo la preistoria, cioè una fase in qualche modo propedeutica e in sé conclusa, del movimento operaio, ma ne costituì in molti casi una struttura permanente di aggre- gazione politica e sociale, specialmente quando evolse e si integrò con le funzioni ti- piche della casa del popolo. Sul ruolo di que- st’ultima possediamo ora alcune prime ricer- che che possono consentire di farne oggetto di una più approfondita indagine critica (cfr. ad esempio, Luigi Arbizzani, Sergio Bolo- gna, L. Testoni, Storie di case del popolo. Saggi, documenti e immagini d’Emilia-Ro- magna, Bologna, Grafis, 1982; e Le Case del popolo in Europa, a cura di Maurizio De- gl’Innocenti, Firenze, Sansoni, 1984, pp. 369, lire 30.000). La Sms di Rifredi assunse ben presto il ruolo della casa del popolo prevalentemente lungo tre direttrici di sviluppo, il quale fu

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Rassegna bibliografica

Organizzazioni e figure del socialismo italiano

di Maurizio Degl’Innocenti

Nella più recente storiografia sul movimento operaio e socialista in Italia, i contributi tra i più interessanti sono venuti dal genere bio­grafico, in passato troppo trascurato o la­sciato prevalentemente alle occasioni cele­brative, che ora ha trovato applicazioni assai diverse, nell’analisi di alcune tipiche istitu­zioni e nell’indagine della personalità e del ruolo carismatico di alcuni leader. Ci pare questo un terreno fertile, che meglio può consentire il superamento di talune incrosta­zioni ideologiche ancora perduranti e di con­tro l’applicazione di metodologie più per­meabili alle interrelazioni di campi diversi di indagine.

Alla ricostruzione storica delle vicende di una società di mutuo soccorso in una perife­ria fiorentina di recente industrializzazione è dedicato l’interessante saggio di Luigi To- massini, Associazionismo operaio a Firenze tra ’800 e ’900. La società di mutuo soccorso di Rifredi (1883-1922), Firenze, Olschki 1984, pp. 412. Nella seconda metà dell’Otto­cento la diffusione della società operaia, con prevalenti finalità mutualistiche, obbediva alla ricerca di nuovi spazi di socialità, in anni di miseria radicata e di insufficiente iniziati­va previdenziale e assistenziale privata e so­prattutto pubblica, nonché di crisi dei tradi­zionali ordinamenti corporativi di mestiere in relazione allo sviluppo capitalistico e al consolidamento del mercato nazionale. Co­me già aveva sottolineato Rinaldo Rigola nel 1945, il movimento delle società di mutuo

soccorso, nel suo insieme, acquisì un caratte­re prevalentemente operaio e nazionale, in quanto prima forma organizzativa dei lavo­ratori italiani: non a caso, la sua prevalente localizzazione fu nelle periferie urbane lungo le direttrici della industrializzazione. Da que­sto punto di vista il saggio di Tomassini af­fronta una tematica centrale, cogliendo bene la natura territoriale della Sms di Rifredi ri­spetto alle altre forme societarie — interna di fabbrica e professionale — e esaminandone i caratteri in rapporto al tessuto urbano citta­dino e di quartiere in particolare. Convincen­te appare la tesi che il mutualismo non rap­presentò solo la preistoria, cioè una fase in qualche modo propedeutica e in sé conclusa, del movimento operaio, ma ne costituì in molti casi una struttura permanente di aggre­gazione politica e sociale, specialmente quando evolse e si integrò con le funzioni ti­piche della casa del popolo. Sul ruolo di que- st’ultima possediamo ora alcune prime ricer­che che possono consentire di farne oggetto di una più approfondita indagine critica (cfr. ad esempio, Luigi Arbizzani, Sergio Bolo­gna, L. Testoni, Storie di case del popolo. Saggi, documenti e immagini d ’Emilia-Ro­magna, Bologna, Grafis, 1982; e Le Case del popolo in Europa, a cura di Maurizio De­gl’Innocenti, Firenze, Sansoni, 1984, pp. 369, lire 30.000).

La Sms di Rifredi assunse ben presto il ruolo della casa del popolo prevalentemente lungo tre direttrici di sviluppo, il quale fu

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massimo tra il 1907 e il 1914: il mutuo soc­corso, la cooperazione di consumo — a cui venne data autonomia sul piano amministra­tivo — e il circolo di lettura e di convegno, che gestiva la sala di lettura, il buffet-caffè, le sale da giuoco delle carte e del biliardo, l’attività teatrale e ricreativa. Si veniva così delineando quel fortunato intreccio tra soli­darismo assistenziale, iniziativa ricreativa e culturale, politica, su cui ancora troppo poco ha riflettuto la storiografia sul movimento operaio, ma che tanta importanza rivestì nel radicare nella società italiana una tradizione “di sinistra” . Non c’è da stupirsi allora, co­me bene evidenzia Tomassini, che un sodali­zio come la Sms di Rifredi, nato nel 1883 con il motto « Patria, Umanità, Progresso e La­voro », fosse diventato punto di riferimento per categorie di lavoratori in lotta a comin­ciare dagli operai delle vicine Officine Gali­leo, fattore propulsivo nella fondazione e nei primi passi della locale Camera del lavoro e elemento di forza dei socialisti nelle campa­gne elettorali del Terzo collegio dove veniva eletto quel Giuseppe Pescetti, consulente le­gale tra l’altro dello stesso sodalizio, e primo deputato socialista in Toscana.

Per lo studioso delle società operaie della seconda metà del secolo scorso resta ancora un campo di ricerca largamente inesplorato attinente al quesito relativo alla identità so­ciale, alla etica del lavoro, all’idea-forza del progresso tecnico e dello sviluppo economi­co, di cui esse erano portatrici e che in qual­che misura consegnavano alle generazioni future. È nostra convinzione che, sedimenta­ta negli anni della formazione della classe operaia, quell’eredità ebbe riflessi non mar­ginali nella storia del socialismo italiano e nella vita stessa del nostro paese.

All’emergere di una nuova etica sociale e del lavoro che sarebbe stata poi, dai primi anni del Novecento, l’anima del socialismo riformista turatiano, ha dedicato pagine molto informate e con equilibrio di giudizio Enrico Deeleva, in un saggio biografico su

un personaggio solo apparentemente minore del socialismo prefascista, Augusto Osimo, che fu dirigente appassionato e valido della Società Umanitaria (Etica del lavoro, sociali­smo e cultura popolare. Augusto Osimo e la Società Umanitaria, Milano, Angeli, 1985, pp. 284, lire 20.000). Deeleva ricostruisce be­ne i primi passi della formazione culturale e della militanza politica di Osimo tra Piacen­za e Venezia, soprattutto attraverso la corri­spondenza di questi con Riccardo Bachi e poi con Fausto Pagliari, C. Saldini e Alessandro Schiavi. Furono gli anni in cui ebbe modo di frequentare Matteo Matteotti, fratello di Giacomo, Giovanni Merloni, Fausto Paglia­ri, Giuseppe Prampolini, e di affinare le sue letture con testi di Stuart Mill, Loria, Geor­ge, Zola, e poi di Cossa, Ricca Salerno, Pan­taloni. In quel periodo, probabilmente, si radicò in Osimo quel culto del libro, che gli sarebbe stato costante per tutta la vita, riu­nendo in un unico interesse narrativa italiana e straniera, saggistica e economia politica. Su questo piano segnaliamo il grave ritardo degli studi sul retroterra culturale-economico del socialismo italiano: i titoli ascrivibili a questo settore sono ancora oggi molto pochi, e in una proporzione del tutto negativa ri­spetto a quelli della letteratura di tipo eti­co-politica. Di recente, segnaliamo tra gli al­tri gli studi di Paolo Favilli, tra cui II Sociali­smo italiano e la teoria economica di Marx (1829-1902), Napoli, Bibliopolis, 1980, e diD.Da Empoli sulla figura di Giovanni Mon- temartini (in “Economia Pubblica”, otto­bre-novembre 1980), al quale inoltre è stata dedicata una giornata di studi dall’Universi­tà di Pavia in collaborazione con l’Istituto socialista di studi storici (15 dicembre 1984), i cui atti sono in corso di stampa. Il saggio di Deeleva sull’Umanitaria colma almeno in parte la grave lacuna che aveva circondato perfino la storia di quella istituzione che, pur non essendo ufficialmente socialista, si con­figurava certamente come un perno fonda- mentale del socialismo riformista, e dove

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erano presenti e attivi personaggi come Luigi Della Torre, Alessandro Schiavi, Fausto Pa­gliari, Giovanni Montemartini, Massimo Sa- moggia, Dino Rondani, Angiolo Cabrini, Luigi Minguzzi, Angelo Omodeo. Nel volu­me di Deeleva è particolarmente felice il ca­pitolo dedicato all’incontro tra Osimo e l’U- manitaria, nel 1902, quando da poco la isti­tuzione milanese aveva rilanciato le proprie attività, ponendo fine alle precedenti polemi­che e agli strascichi giudiziari e ricostituendo gli organi direttivi sciolti nel ’98. Allora, per dirla con Turati, essa assunse “un indirizzo veramente positivo e sperimentale” (p. 45), diventando il vero e proprio laboratorio avanzato del socialismo italiano.

Osimo, prima contabile, poi segretario ge­nerale, ne fu veramente l’elemento propulsi­vo, con un attivismo instancabile: dalla co­stituzione della Casa del lavoro e dell’Ufficio del lavoro alla scuola laboratorio preferita alla scuola officina, al Museo sociale, alla Scuola di legislazione sociale, alla Casa del popolo, alle varie iniziative per l’educazione popolare; dovunque egli lasciò un’impronta originale e duratura.

Dalla lettura del saggio di Deeleva, almeno tre questioni emergono che rappresentano al­trettante direzioni di ricerca da approfondi­re. La prima riguarda i destinatari specifici dell’azione deH’Umanitaria. Da un lato era­no gli umili, gli emigrati, soprattutto i disoc­cupati, gli operai che vivevano in condizioni di sovraffollamento, i contadini inurbati; dall’altro il modello a cui sembrava ispirarsi era quello dell’operaio di mestiere, più con­sapevole e più istruito, e quindi potenziale portatore di una nuova etica sociale e del la­voro. Il secondo quesito è inerente alla con­sapevolezza çlella centralità del problema della produzione, inteso come esigenza del superamento delle istanze di categoria e co­me intrinseco allo sviluppo economico e al­l’ammodernamento di tutta la società italia­na. In questo contesto, riuscirebbe molto uti­le esaminare il ruolo dell’Umanitaria in gene­

rale, e degli Osimo, dei Minguzzi, dei Gorni, dei Samoggia in particolare nella promozio­ne delle cooperative e delle strutture associa­tive, economiche e ricreative — si pensi al­l’importante tessuto dei circoli familiari — in Lombardia. Lo stesso Osimo fu presidente della Federazione milanese delle cooperative a partire dagli anni che precedettero lo scop­pio della guerra mondiale, cioè in una fase di intensa ristrutturazione in senso consortile e imprenditoriale del movimento cooperativo. Anche per questa via, del resto, l’Umanitaria contribuiva a introdurre all’interno del mo­vimento operaio strumenti di emancipazione di natura non conflittuale.

Il terzo punto investe la scelta stessa delle forme di intervento, dall’uso moderno del­l’indagine statistica alla diffusione del libro, che obbedivano ad esigenze anche altrove profondamente avvertite, ma che a Milano trovavano uno spessore tutto particolare an­che per il rapporto molto stretto con la cultu­ra europea.

Al fondo, dunque, emergeva una visione del socialismo della quale erano elementi co­stitutivi il fattore uomo — “il rifare gli italia­ni” di Osimo! —, la cultura della produzione e dello sviluppo, lo sperimentalismo sociale, l’etica dove l’azione fosse premio a sé stessa, il senso profondo della giustizia sociale, il culto per l’educazione popolare, la costante ricerca di nuovi strumenti di ricomposizione del tessuto sociale. Era, in altre parole, il re­troterra politico e culturale animato dalla tu- ratiana “Critica sociale”, ma del quale anche essa si nutriva, e che ne spiegava la duratura fortuna nella storia del movimento operaio italiano. Ma era un programma in tutto o in prevalenza milanese o al massimo lombardo, oppure la punta avanzata e più consapevole di una strategia nazionale, attraverso la qua­le più e meglio il socialismo italiano si ricolle­gava con l’Europa?

All’ambiente milanese, oltreché a quello torinese, furono legate anche le vicende bio­grafiche di un leader storico come Claudio

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Treves, sul quale possediamo ora un agile profilo, con una ricca appendice antologica, a cura di Antonio Casali (Socialismo e inter­nazionalismo nella storia d ’Italia, Claudio Treves, 1869-1933, Napoli, Guida, 1985, pp. 248, lire 23.000). Il volume, ben scritto, for­nisce un primo sintetico profilo su un perso­naggio di primo piano del socialismo italia­no, e forse europeo, che la storiografia ha troppo spesso a torto appiattito sulla figura carismatica di Filippo Turati fino a negargli quasi una propria profonda originalità. Dal lavoro di Casali esce un quadro, largamente condivisibile, del socialismo riformista assai più articolato e complesso di quanto di solito si sia propensi a credere. Nella biografia di Treves fu decisiva la formazione politica — inizialmente aderì ad un repubblicanesimo radicaleggiante — e culturale nella Torino positivista dei Lombroso, dei Graf e dei Car­le; ma egli visse il positivismo non in un sen­so meccanicistico e puramente evoluzionisti­co, e vi colse sempre a fondamento una ten­sione etica e una funzione critica che solleci­tavano l’intervento politico, l’educazione e l’istruzione, e la propaganda. Aderente al comitato torinese per la pace, sentì l’ebrai­smo come un movimento tendenzialmente egualitario, volto all’emancipazione di tutta l’umanità. Ma la sua formazione politica si affinò soprattutto nella intensa attività di pubblicista, attraverso la collaborazione a “Ventesimo secolo”, a “Per l’Idea” ed infi­ne, tra il 1896 e il 1898, al “Grido del popo­lo” . Negli anni torinesi erano dunque tutti gli elementi distintivi della personalità di Tre­ves: la cultura positivista, l’accento posto sul rapporto tra democrazia radicale e repubbli­cana risorgimentale e socialismo, l’attenzio­ne ai problemi della cultura e dell’istruzione, il pacifismo, l’attività giornalistica.

Ma ciò che rese originale la posizione di Treves nel panorama del socialismo italiano fu la grande confidenza con la cultura euro­pea e con gli ambienti del socialismo interna­zionale, frutto questa, come opportunamen­

te ricorda il Casali, anche dei suoi viaggi all’estero, dei contatti costantemente man­tenuti con socialisti europei, della collabo- razione a numerose e importanti riviste straniere, collaborazione che negli anni del­l’esilio sarebbe divenuta addirittura freneti­ca ed infine della partecipazione attiva ai dibattiti che animavano allora la cultura europea democratica e socialista, primi fra tutti quello sul diritto civile e il Bernstein Debatte.

A Milano, in un felice rapporto di amicizia con Turati e la Kuliscioff che non si sarebbe mai incrinato, neppure nei momenti di mag­giore dissenso, Treves assunse un ruolo di importanza nazionale, prima (dal 1899) alla direzione del “Tempo”, poi nella stretta col­laborazione a “Critica sociale” , e nella dire­zione dell’“Avanti!” (dal 1910 al 1912), infi­ne come parlamentare (dal 1906). Il suo ri­formismo si nutriva, alla luce della esperien­za estera e della crisi del ’98, della consape­volezza che tra industrializzazione e forma­zione di una moderna borghesia, democra­tizzazione dello Stato anche in senso repub­blicano, crescita del proletariato e socialismo “pratico” vi fosse un nesso inscindibile. As­sai opportunamente Casali sottolinea che Treves fu l’uomo del dialogo con la sinistra liberale, e il fautore dell’alleanza fra sociali­sti, radicali e repubblicani, e che inoltre fu tra i pochi a non dare un giudizio aprioristi­camente negativo della democrazia cristiana. Ma il suo “sperimentalismo” socialista, che comunque non lo portava mai a perdere di vista “lo scopo finale” , lo indusse a denun­ciare il carattere tendenzialmente conserva­tore del giolittismo fin dal 1903, a sottolinea­re con maggiore forza il cambiamento del cli­ma politico italiano con l’ingresso dei cattoli­ci nell’agone elettorale dopo il 1904, a soste­nere con convinzione la proposta di Modi­gliani e di Salvemini del suffragio universale. Gli fu peculiare la difesa del primato della politica (e della cultura), di cui considerava espressione l’istanza partitica, sia nei con­

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fronti dei Bonomi, dei Graziadei, dei Rigola e dei Salvemini, sia nei confronti dei sindaca­listi rivoluzionari e dello stesso Mussolini. Ottimo parlamentare e brillante polemista nelle assisi congressuali, fu però innanzitutto un grande giornalista e pubblicista. Casali ne ricostruisce bene la fitta trama delle numero­se collaborazioni in riviste e quotidiani, ma due punti devono essere sottolineati a questo proposito: il primo è che Treves avvertì più di ogni altro la necessità di dare al movimen­to socialista un grande quotidiano, che sot­traesse quest’ultimo allo stato di inferiorità nei confronti della borghesia liberale nell’o­rientamento dell’opinione pubblica conside­rato come uno dei grandi problemi della so­cietà contemporanea (e fu un problema non risolto!); il secondo è nel fatto che Treves portò alle espressioni più alte quella commi­stione tra giornalismo e politica che fu tipica della democrazia e del socialismo della se­conda metà dell’Ottocento e dei primi decen­ni del Novecento.

La guerra rappresentò per Treves la gran­de prova, che metteva in crisi antiche certez­ze e imponeva uno sforzo nuovo per com­

prendere, per non isolarsi: fu dunque il pe­riodo dei dubbi, anche delle contraddizioni che lo portarono dalle posizioni pacifiste e internazionaliste espresse al congresso di An­cona del 1914, alla tesi della guerra imperiali­sta e quindi dell’“ultra-imperialismo”, fino alla parola d’ordine “resistere, ma intende­re” dopo Caporetto. Tra i più solleciti a por­re in stretta correlazione quadro internazio­nale e politica interna, manifestò ben presto la propria disillusione per la pace di Versail­les che interpretò, come bene sottolinea Ca­sali, come il fallimento di un ordine demo­cratico internazionale. E assunse perfino una posizione molto originale alTinterno del ri­formismo italiano sulla rivoluzione russa, in polemica con Rodolfo Mondolfo, fino a por­si il problema della conquista del potere nel­l’estate del 1919.

Lo spessore di Treves in quanto “socialista europeo” emerse con tutta forza negli anni dell’esilio, quando in maniera indefessa e quasi frenetica si adoperò perché il sociali­smo internazionale privilegiasse la lotta con­tro il fascismo.

Maurizio Degl’Innocenti

Il “cavaliere dei Rossomori”di Gian Giacomo Ortu

Quando, sul principio degli anni sessanta, compiva le sue prime rimarchevoli esperienze narrative col romanzo Sonetàula (Roma, Ca- nesi, 1964) e col saggio-inchiesta Baroni in Laguna (Cagliari, Il Bogino, 1961), Giusep­pe Fiori proponeva al lettore e al critico co­me suoi principali riferimenti programmatici Lukàcs e Vittorini. Quell’abbozzo iniziale di un percorso letterario tutto realistico (Sone­tàula: Orgosolo e il banditismo; Baroni in Laguna: S. Giusta e lo stagno “infeudato”),

tracciato sulle linee ferme di una professio­ne, quella del giornalista, fortemente moti­vata e in presa diretta con le questioni più ur­genti di una Sardegna sulla soglia di una ra­pida e dolorosa modernizzazione, si è negli anni andato precisando come vocazione al racconto storico o alla storia come racconto. E se nella prima produzione di Giuseppe Fio­ri (le opere ricordate, ma ancora nel 1968 La società del malessere, Bari, Laterza) lo scru­polo documentario non inibiva del tutto un

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esito sociologico talora impressionistico (per quanto scaltrito ed efficace, poiché nell’isola se ne nutrì con qualche frutto la generazione del ’68 e dintorni), in quella successiva, pri­ma la Vita di Antonio Gramsci (Bari, Later­za, 1966), quindi L ’anarchico Schirru (Mila­no, Mondadori 1983) ed oggi II cavaliere dei Rossomori. Vita di Emilio Lussu (Torino, Einaudi, 1985, pp. 395, lire 15.000), il fatto o il personaggio storico risaltano con la con­cretezza e l’evidenza che può consentire sol­tanto un lavoro rigoroso sulle fonti. Anche se all’emergere di questa concretezza, al limi­te del rivissuto, Fiori porta come suo contri­buto personale, alquanto originale e singola­re nel panorama storiografico italiano, una capacità di immedesimazione, una sorta di comunicazione simpatica che gli consente di evitare gli impacci dei procedimenti analitici e notomizzanti della storia-scienza. D’al­tronde, almeno sinora, Fiori ha scelto di stu­diare e proporre figure umane e storiche che “sente”, personaggi in qualche modo indi­scutibili. Si potrebbe persino pensare che, per quelli che sono i nostri più comuni ed at­tuali parametri etici e mentali, le biografie che egli va ricostruendo introducano ad una galleria ideale di vite esemplari. Il che non si­gnifica che il comunista Gramsci, l’anarchi­co Schirru e il socialista Lussu appartengono realmente alla coscienza normale dell’italia­no medio, bensì che potrebbero appartenervi se... Ed è proprio in questa possibilità o idea­lità la grande carica pedagogica di quella gal­leria, a cominciare dal ritratto di Gramsci che ha superato i confini nazionali per acqui­stare dei connotati di classicità e di universa­lità che sarebbe difficile spiegare in termini soltanto storiografici.

Non è senza ragione, allora, che la biogra­fia di Lussu ne II cavaliere dei Rossomori sia poi una biografia incompleta e che il raccon­to di Fiori si interrompa proprio là dove sa­rebbe stato più difficile continuarlo: il Lussu nel Partito socialista, il Lussu che non è stato soltanto spettatore ma anche protagonista (e

cioè ancora uomo di parte) negli anni della ricostruzione (il Lussu che nello scontro par­lamentare sulla “legge truffa” schiaffeggia La Malfa e ne viene sfidato a duello), della guerra fredda (il Lussu che non soffre crisi di coscienza di fronte ai fatti d’Ungheria), del centrosinistra (il Lussu della scelta più sof­ferta quella di un Psiup minato da un operai­smo di ritorno). Anche Fiori è stato sociali­sta e forse questa storia più recente di Lussu era troppo coinvolgente per consentire quel reale ed effettivo distacco che solo può apri­re, nel fare storia, a processi di identificazio­ne psicologica e morale. Va comunque ag­giunto che il Lussu del trentennio repubbli­cano non è stato sinora oggetto di alcuna at­tenzione storiografica (se si eccettua la rac­colta di suoi scritti, Essere a sinistra, curata dal Collettivo Lussu nel 1976 per l’editore Mazzotta) e non erano quindi disponibili, al­la mano, quei materiali e quelle riflessioni che hanno generosamente sorretto la fatica di Fiori sino alla Costituente (soprattutto i lavori di Manlio Brigaglia, Giovanni De Lu­na, Antonello Mattone e gli atti dei due con­vegni lussiani del 1980, tenuti a Cagliari e a Nuoro).

Il cavaliere dei Rossomori può quindi chiudersi distillando la biografia di Lussu in un trittico di motivi etico-politici: Lussu o Dell’autonomia, Lussu o Del socialismo, Lussu o Della coerenza morale.

Fiori esplicita così meglio il suo intento di consegnarci un profilo umano e politico di Lussu trasparente per significati che sono in­sieme storici ed universali. Ed è difficile sot­trarsi alla duplice suggestione del personag- gio-Lussu e dello scrittore Fiori.

Nonostante ciò, tra il microcosmo di Ar- mungia, che è il punto di partenza de II cava­liere dei Rossomori e l’ultima militanza di Lussu nel Psiup, che ne resta fuori, si può di­stendere un filo di rapide, forse non inutili, riflessioni.

È indubbio, e Fiori gli attribuisce il giusto peso, che al fondo dell’autonomismo di Lus-

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su, del suo stesso socialismo, ci sia anche il microcosmo di Armungia, ma è più certo an­cora che le radici vere dell’autonomismo di Lussu affondino nel rapporto tutto storico, e cioè sociale e politico, non antropologico, con le masse dei contadini sardi, prima in ar­mi e poi organizzate nel movimento dei com­battenti e quindi nel Partito sardo d’azione. II ruolo di intellettuale e di leader politico di Lussu si definisce, insomma, non nel rappor­to di adeguazione ad una realtà sociale e cul­turale di tipo locale o regionale, ma nel supe­ramento di questa stessa realtà, nella pro­spettiva della sua trasformazione rivoluzio­naria. Che di questa tensione lussiana verso un futuro immaginato e progettato sia parte rilevante la volontà di contribuire anche allo sviluppo di una coscienza etnica della Sarde­gna non è dato dubitare, ma il fatto è che questa stessa coscienza deve aver come con­dizione una modificazione radicale degli as­setti economici e civili dell’isola, l’abbatti­mento di ogni confine sociale della stessa et- nicità. L’etnicità per Lussu, come per i diri­genti più avvertiti del primo sardismo, è in­fatti soprattutto un fatto di mobilitazione politica, è il simbolo unitario della volontà isolana di partecipazione non subalterna alla vita nazionale. Si legga al riguardo lo scritto L ’avvenire di Sardegna comparso su ”11 Ponte” nel 1951, dove tutti i dati di una tra­dizione culturale dagli stretti confini regiona­li sanno di immagini in dissolvenza per l’in­sorgere continuo dei problemi della trasfor­mazione sociale dell’isola.

Ed è proprio in questo l’attualità del ’’sar­dismo” di Lussu, nel fatto che ancora oggi il problema dell’identità etnica e culturale del­l’isola è quello della modificazione dei suoi assetti sociali e del rafforzamento delle sue strutture civili, è il problema non della con­servazione di un retaggio culturale ma della sua vivificazione al confronto con le esigenze del presente, ed è soprattutto il problema di una maggiore estensione della decisionalità politica. È insomma, ancora una volta, la

questione della democrazia partecipata che non può ridursi ad uno scenario politico di­segnato dal gioco esclusivo dei partiti e delle grandi centrali del potere economico ed isti­tuzionale.

Sulla concezione della democrazia e del so­cialismo in Lussu, e sul ruolo che questa con­cezione gioca prima in Gl e poi nel Pd’A, è stato già scritto abbastanza. Bisogna dare at­to, a Giovanni De Luna soprattutto, della chiarezza con la quale, prima in un interven­to al convegno cagliaritano del 1980 e poi nel libro sul Partito d’Azione (Storia del Partito d ’Azione. La rivoluzione democratica 1942/1947, Milano, Feltrinelli, 1982), ha evi­denziato il contributo originale e duraturo di Lussu al dibattito sulla costruzione della de­mocrazia in Italia. Lussu, è noto, ha finito col definirsi un marxista. Se il suo socialismo può datarsi alla prima esperienza sardista (e mi sembra che Fiori concordi) il suo marxi­smo no, esso è realmente l’approdo di un complesso itinerario politico ed intellettuale. Ci si può comunque autodefinire marxisti da più punti di vista e anche seguendo del mar­xismo percorsi diversi. Il marxismo di Lussu si caratterizza soprattutto per una assunzio­ne di principio fondamentale: la lotta di clas­se come opposizione essenziale e determinan­te tra borghesia e proletariato, tra capitale e lavoro. Non c’è scritto teorico di Lussu che non la presupponga.

Quello che Lussu non accetta mai è però che questa polarità strutturale si traduca im­mediatamente in uno scontro sociale del tipo “classe contro classe” e, ad un livello diver­so, in una dialettica politica tutta confinata nello spazio esclusivo dell’azione dei partiti. E se si intende questo si può forse accedere ad una comprensione migliore delle scelte di partito che Lussu ha via via operato. Dalla critica del sistema dei partiti d’età giolittiana al progetto dei partiti autonomistici all’ipo­tesi del grande partito di unificazione sociali­sta, sino alla confluenza nel Psi e poi alla scissione del Psiup, Lussu ha tenuto fede ad

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una visione della lotta politica profonda­mente democratica, che fugge dalle polariz­zazioni estreme e soprattutto dal miscono­scimento della complessità ed articolazione del corpo sociale. Una visione che tiene con­to dello spessore di certe stratificazioni so­ciali, delle loro condizioni ambientali e cul­turali.

Ne deriva che anche l’autonomismo e il federalismo di Lussu, nella loro fase più ma­tura, sono l’espressione di un modo di legge­re nel divenire sociale e di aderire a questo, piuttosto che lo svolgimento genetico di un originario nucleo sardista. Si vuole dire, cioè, che già il Lussu degli anni ’40, della battaglia per le autonomie, non intende più i problemi generali della democrazia alla luce della sua originaria esperienza sardista (qua­lunque sia il significato emblematico ed emotivo che quest’esperienza continua ad avere per lui), bensì rilegge gli stessi proble­mi dello specifico sociale e culturale dell’iso­la alla luce di una ormai consolidata ed uni­versale concezione della democrazia. E come potrebbe essere diversamente, del resto, per un uomo che nei lunghi anni dell’esilio ha sperimentato in tutta la sua violenza, e sulla scala internazionale, lo scontro mortale tra democrazia e reazione?

Dal libro di Fiori emerge in tutto il suo si­gnificato anche quello spirito di “resistenza” che caratterizza il lungo ed intenso impegno di Lussu. Esso è una sorta di rousseauniano senso di dedizione all’interesse comune e morale piuttosto che l’espressione di un’atti­tudine alla lotta e al rischio d’ascendenza pastorale, la balentia, sulla quale insiste troppo la letteratura regionale (e forse anche Fiori). È in una disposizione civile, e non antropologica, la radice di quella coerenza morale, di una certa “impolitica” intransi­genza che ha suscitato talora giudizi molto

diversi sull’attività di Lussu. Se ne possono qui riportare, a mo’ d’esemplificazione, due: uno di Giorgio Amendola ed uno di Tomaso Carini. Nella sua Intervista sull’an­tifascismo (Bari, Laterza, 1976) Amendola notava qualche anno fa come mentre altri dirigenti dell’antifascismo mostravano trop­po spesso una disposizione politica e psico­logica ad attendere il precipitare degli avve­nimenti — al momento, ad esempio, dell’in­vasione tedesca in Francia — Lussu, impa­ziente, passava subito all’illegalità. Di simili manifestazioni d’impazienza Lussu ne ha date parecchie, dalla reazione armata ad un’aggressione fascista, a Cagliari nel ’26, alla fuga di Lipari nel ’29, ad altre ancora nel corso della successiva attività in Gl e nel PdA. Al Carini, nel ’43, Lussu apparve “un personaggio fuori quadro, pericoloso per­ché divertente e divertente perché pericolo­so: un ardito delle brigate sarde. Una figura più letteraria che politica” . {Il partito d ’A- zione, Roma, De Luca, 1960, p. 22). Il giu­dizio ha la sua qualità espressiva, ma chi lo commisuri a tutto l’impegno antifascista di Lussu, nel corso di oltre vent’anni, non può non coglierne il segno urgentemente pole­mico.

Se Lussu poteva anche apparire un perso­naggio fuori quadro è perché aveva la capa­cità e la prontezza d’operare scelte assolute nel tempo della storia e spesso, come ha scritto una volta Manlio Brigaglia, proprio di “quella storia momentanea che è lo spa­zio dell’azione politica nel suo svolgersi più bruciante ed urgente”, {Emilio Lussu e “Giustizia e Libertà", Cagliari, Della Torre, 1976). E questa capacità non è né una forma di balentia né di arditismo, ma semplice e purissimo senso di responsabilità civile e morale.

Gian Giacomo Ortu

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Relazioni italo-francesi 1939-1945

di Giorgio Caredda

Ricostruendo i rapporti tra Italia e Francia durante la seconda guerra mondiale (Italia e Francia 1939-1945, a cura di Jean Baptiste Duroselle ed Enrico Serra, Milano, Angeli, Istituto per gli studi di politica internaziona­le, 1984, 2 voli., pp. 364 e 244 lire 18.000 e25.000), i relatori ai tre convegni organizzati tra il 1980 e il 1982 dal Comitato italo-fran- cese di studi storici (di cui i due volumi pub­blicano i contributi) si sono trovati di fronte due Italie (l’Italia fascista e quella antifasci­sta) e tre France (la Terza repubblica, Vichy e quella nata dalla Resistenza) diverse tra loro.

Per giunta, i gruppi dirigenti che si sono succeduti in ciascuna di queste fasi, sono quasi sempre stati su fronti differenti, hanno scelto alleati diversi, hanno inseguito disegni e prospettive contrastanti. La storia delle re­lazioni tra i due stati in questi sei anni non poteva non essere quindi che la descrizione di queste ostilità, incomprensioni, soperchierie reciproche.

L’acme della tensione è stato toccato, ov­viamente, con l’aggressione dell’Italia fasci­sta contro la Francia in gran parte già invasa dagli eserciti tedeschi, un’impresa che non copre certo di gloria le forze armate italiane. Mussolini non ebbe neanche le sue “poche” migliaia di caduti da far pesare sul tavolo delle trattative di pace: André Martel fa no­tare che le operazioni condotte sulle Alpi co­starono agli italiani 630 morti, 8.000 feriti (tra cui moltissimi congelati), 500 prigionieri o dispersi, contro i 20 caduti, i 94 feriti e i 152 prigionieri francesi (I, p. 211). E quest’e­sito disastroso fu raggiunto combattendo contro un’armata che negli stessi giorni do­veva pensare a difendersi dai tedeschi che ca­

lavano alle sue spalle dal nord: a riprova da un lato della serietà della preparazione fran­cese, almeno su questo settore — il che do­vrebbe portare, secondo lo stesso relatore, a sfumare il prevalente giudizio negativo su quelle forze armate, “un outil qui était utili­sable pour qui savait et voulait s’en servir” —, dall’altro della validità della dottrina strategica italiana, “costantemente e netta­mente contraria ad operazioni offensive sulle Alpi occidentali” (Vincenzo Gallinari, I, p. 114).

Prima del coup de poignard, parte impor­tante dei gruppi dirigenti politici, economici e militari dei due paesi non sembrava orien­tata ad un conflitto, del quale non si vedeva­no serie misure preparatorie: gli studi rac­colti nel primo volume ne offrono diversi esempi.

Si va dalla farraginosa e immobilistica strategia di Gamelin (qui richiamata da Guy Redroncini) che, in caso d’attacco italiano contro Gibuti — nessuna persona ragionevo­le poteva seriamente immaginare offensive italiane sulle Alpi —, suggerisce di strozzare l’Italia bloccando Suez e Gibilterra, in attesa che si verifichino “mouvements populaires” o pressioni della monarchia all’interno del paese (I, p. 217); agli orientamenti della mi­gliore pubblicistica economica italiana (ana­lizzata da Luigi De Rosa), che cerca di pesare “a favore di chi voleva evitare che l’Italia s’imbarcasse in una guerra con la Francia” (I, p. 51), presentando la solidità della strut­tura economica dei vicini d’Oltralpe; allo stes­so Badoglio che, il 1° settembre 1939, teme che, in caso d’intervento italiano, le armate francesi sfondino il fragile schieramento difen­sivo alpino e dilaghino in Valle Padana.

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Soprattutto, durante i nove mesi di guerra che hanno preceduto l’aggressione alla Fran­cia, il sostegno dell’industria italiana all’eco­nomia del paese vicino, in guerra con l’allea­to dell’Asse non venne meno. Anzi, come nota De Rosa, “la gamma dei prodotti espor­tati dall’Italia si era ampliata fino a com­prendere prodotti industriali di notevole li­vello” (I, p. 53), ivi comprese importanti for­niture militari. Pierre Guillen riporta una no­ta del ministero delle Finanze francese da cui risulta che, fino al 23 aprile 1940, gli italiani hanno venduto alla Francia centinaia d’aerei (per un miliardo di franchi); obici, pallotto­le, bombe, mine sottomarine, munizioni an­ticarro (664 milioni); camion Fiat, per 457 milioni; navi da guerra, per 381 milioni; esplosivi, per 312 milioni, più una miriade di altri materiali direttamente legati allo sforzo bellico dell’industria d’Oltralpe: macchine utensili, petroliere, vagoni-cisterna, acciai speciali, ecc. In altre parole, l’industria ita­liana rifornisce, rispettando scrupolosamen­te le scadenze, l’arsenale del futuro nemico fino al 24 maggio 1940, quando il governo vieta l’esportazione di manufatti in Francia. Quindici giorni dopo, il coup de poignard, andato a buon esito grazie alla richiesta d’ar­mistizio presentata da Pétain ai tedeschi.

Con il crollo della Francia e l’occupazione tedesca, con l’industria francese alle dipen­denze del Reich, l’Italia ha ben poco da gua­dagnare: De Rosa fa notare che “nei mesi successivi all’armistizio, il volume degli scambi italo-francesi fu inferiore a quello re­gistrato negli anni prebellici” , già esiguo; e i rapporti economici e finanziari tra Roma e Vichy non sono certo comparabili a quelli franco-tedeschi. “Tandis que l’Allemagne exigeait et obtenait — nota Guillen a p. 177 — l’Italie fasciste faisait mine d’exiger, puis négociait, transigeait et parfois même battait en retraite” . Non che l’Italia non si sia “ser­vita”: nel 1943, a titolo di spese d’occupazio­ne, la Francia ha versato all’Italia 8,2 miliar­di di franchi, gran parte dei quali (da 5,5 a 6

miliardi) furono in realtà utilizzati per opera­zioni finanziarie da parte di alcune succursali francesi di banche italiane (la Banque ita- lo-française de credit, la Banca commerciale, il Banco di Roma). Ma in definitiva, l’8 set­tembre del 1943 il clearing italo-francese era praticamente in pareggio; l’Italia, a differen­za della Germania, non è dunque riuscita ad avere forniture senza contropartite: “rien de comparable à l’exploitation systématique à laquelle se sont livrés les Allemands” (I, p. 177).

Dopo l’8 settembre, gli avversari di Vichy ed i successori di Mussolini, rappresentanti di due popoli che non erano divisi né da fiu­mi di sangue, né da un’occupazione eccessi­vamente rigida, si sono venuti a trovare nello stesso campo, e avrebbero dunque potuto ra­gionevolmente intendersi, per darsi sostegno contro l’invadente tutela angloamericana. Gli studi raccolti in questi due volumi (e in particolare il secondo di essi, interamente oc­cupato dal saggio di Enrico Serra, La diplo­mazia italiana e la ripresa dei rapporti con la Francia (1943-1945), rivelano che così non fu, e perché.

Nell’estate del 1943, i due interlocutori (il Comitato di Algeri e il governo Badoglio) non sono affatto omogenei; De Gaulle e i suoi compagni hanno più d’un motivo per diffidare d’un governo con molte caratteri­stiche “darlaniste” . Questa diffidenza di fondo emerge chiaramente da uno dei primi documenti che René Massigli, Commissario agli esteri del Cfln, dedica all’esame della si­tuazione italiana, e alle sue prospettive: se­condo Jean-Baptiste Duroselle, che vi fa rife­rimento, in questa nota del 18 agosto 1943 era auspicata una trasformazione interna dell’Italia, l’abdicazione di Vittorio Ema­nuele di Savoia, l’istituzione d’una Repub­blica, qualche rettifica di frontiera in favore della Francia, sulle Alpi e nel Fezzan (I, p. 100). Per Serra invece, proprio quel 18 ago­sto del 1943 Massigli propone al Cfln un’ipo­tesi di trattato di pace “duro e punitivo con

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l’Italia, tale da far scomparire quest’ultima dal ruolo delle grandi potenze” (II, p. 37).

C’è alla base una divergenza politica seria. Il governo Badoglio, e in particolare il segre­tario generale del ricostruendo ministero de­gli Esteri, Prunas, non parvero in grado di trovare i mezzi per impostare con Algeri seri rapporti politici, tali da far attenuare la du­rezza delle posizioni francesi: il fatto è che quel governo e quel funzionario ben si adat­tarono alle informazioni ed ai desideri degli angloamericani, ostili a De Gaulle e sospet­tosi delle potenzialità politiche inconsuete che si raccoglievano nella Resistenza, perché quest’ostilità e questo sospetto li condivide­vano essi stessi per quanto riguardava l’Ita­lia. L’unico terreno d’intesa possibile passa­va per la rivendicazione d’una fraternità di lotta contro il nazifascismo, e per il ricono­scimento del primato di De Gaulle nell’aver intrapreso da subito questa via: in altre paro­le, come opportunamente nota Serra, al con­trario della giunta esecutiva dei Cln (che, da Bari, inviano un caloroso saluto a De Gaul­le), Prunas “vide il tema dei rapporti ita- io-francesi come un problema diplomatico, mentre era soprattutto un grosso problema politico, con spazi che si andavano sempre più restringendo” (II, p. 58).

Questa incomprensione politica provoca la perdurante cecità della diplomazia italiana, che crede addirittura di potersi “servire degli americani per indurre la Francia a miglior consiglio” , mostrando d’ignorare “il disa­stroso stato dei rapporti tra gli Stati Uniti e il generale De Gaulle” (II, p. 75). Inefficace per la soluzione dei problemi più impellenti (è il caso del trattamento inumano riservato dai francesi ai soldati italiani loro prigionieri in Tunisia), questa cecità impedisce al gover­no italiano di cogliere gli importanti (perché rari) momenti d’apertura accennati da De Gaulle, come quando il generale, venuto a Roma alla fine del giugno 1944, comunica il suo desiderio d’avere rapporti “diretti, segre­ti, senza terzi ingombranti” col governo ita­

liano, non nasconde il suo rancore verso l’In­ghilterra e gli Stati Uniti, si dichiara convinto che gli Alleati avrebbero fatto di tutto non per facilitare, ma per ostacolare i rapporti tra Francia e Italia. Questa disponibilità di De Gaulle non fu raccolta, e fu persa una ra­ra occasione d’impostare rapporti proficui, perché Prunas era convinto che il neonato governo provvisorio francese fosse in realtà più debole e impotente di quello italiano. Non capiva cioè, per usare le parole di Serra, che “bisognava, soprattutto, puntare sull’av­venire”, riconoscere “con gesto unilaterale e realistico” da subito il Comitato d’Algeri co­me il governo legittimo della Francia, nono­stante le cautele e gli interessi temporeggiato­ri degli angloamericani, nel momento in cui De Gaulle avrebbe apprezzato qualsiasi ap­poggio.

L’incomprensione del governo italiano fu ripagata della stessa moneta. Dopo la libera­zione di Parigi, il governo francese si consi­dera — una volta decaduto l’armistizio del ’40 — ancora in stato di belligeranza con l’I­talia e, non senza paradosso, non risparmia ostilità e persecuzioni nei confronti di quegli stessi italiani che hanno combattuto, ed an­cora combattono, contro il comune nemico: “Partigiani della IV Divisione Garibaldi, che operava nel Canavese, costretti dopo duri combattimenti con i tedeschi a rifugiarsi in Francia, dovettero rientrare in Italia sotto minaccia d’internamento da parte del co­mandante del maquis di Bourg St. Maurice, che si rifiutò di dar loro viveri e munizioni”; o ancora: “I patrioti italiani che combatteva­no nelle valli del Piemonte, tra cui 2.000 uo­mini della IV divisione ‘Garibaldi’, costretti a sconfinare in Francia, erano stati disarmati ed internati, talvolta negli stessi campi di concentramento in cui si trovavano soldati tedeschi” (II, pp. 100-101).

Neanche la ripresa dei rapporti diretti (lo scambio degli ambasciatori) tra i due paesi, alla fine di febbraio del 1945, sembra far fare passi avanti significativi al contenzioso (sta­

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tuto degli italiani in Tunisia; trattamento dei prigionieri che, ancora a luglio del 1945, è considerato inumano dalla Croce Rossa in­ternazionale; misure contro i cittadini italia­ni in Francia, assurdamente considerati cit­tadini d’un paese nemico; rettifiche di fron­tiera più o meno importanti). Nei giorni del­la liberazione del nostro paese, De Gaulle passa alle vie di fatto: “Le direttive del gene­rale De Gaulle al generale Doyen erano pre­cise: al momento della ritirata dei tedeschi, essere pronti ad occupare in Italia una zona che ‘superi largamente l’attuale frontiera’ [...]. Ad operazione iniziata, fu lo stesso De Gaulle ad ordinare al generale Doyen di oc­cupare la Val d’Aosta e di spingersi fino a Torino” (II, p. 149). Ci vogliono consistenti minacce di rappresaglia da parte degli ame­ricani per far ritirare i soldati francesi. I di­segni di spezzettamento dell’Italia non si li­mitano peraltro alla sola Val d’Aosta, o ai pochi comuni di frontiera, che poi passe­ranno effettivamente alla Francia: anche in Alto Adige, i servizi segreti francesi la­vorano verso i maggiorenti cattolici locali, in vista di costituire “uno stato cattolico indipendente raggruppante la Baviera, il Tirolo austriaco e quello italiano” (II, p. 201) .

In definitiva, è certamente vero, come conclude Serra, che se la diplomazia italiana

“avesse puntato subito su De Gaulle e se avesse collaborato con questi in quel disegno di raggruppamento dei popoli latini e medi- terranei sotto la guida della Francia, forse le cose sarebbero andate diversamente” (II, p. 235); ma è anche vero che il governo francese, ed in particolare De Gaulle, vedono il proble­ma dei loro rapporti con l’Italia all’interno d’un’ottica più vasta, che è quella che poi inte­ressa veramente Parigi, e cioè la riconquista da parte della Francia del ruolo di grande poten­za che le era appartenuto nel mondo d’ante­guerra. Sembra dunque che l’errore d’in­comprensione del mondo uscito dalla guerra sia stato condiviso, in momenti diversi, da entrambi i versanti delle Alpi. Come spiegarsi altrimenti le lunghe diatribe sul possesso dei comuni alpini, per non parlare dei progetti d’annessione della Val d’Aosta? O le preoccu­pazioni per la Tunisia, che di lì a pochi anni mostreranno tutto il loro anacronismo?

La liberazione della Francia mostra, in questa vicenda dei rapporti con l’Italia, il volto gollista della ricostruzione del vecchio Stato, con la vecchia diplomazia ed i vecchi stati maggiori. Gli studi raccolti in questi vo­lumi mostrano bene una questione importan­te: la politica estera, i rapporti tra gli stati, non possono essere ridotti all’angusto terre­no della diplomazia.

Giorgio Caredda

Relazioni internazionali

G i u l i a n o P r o c a c c i , Dalla par­te dell’Etiopia. L ’aggressione italiana vista dai movimenti an­ticolonialisti d ’Asia, d ’Africa, d ’America, Milano, Feltrinelli, 1984, pp. 385, lire 33.000.

L’avventura fascista in Etio­pia è stata e continua ad essere oggetto di particolare attenzio­ne da parte della pubblicistica

italiana e straniera perché, no­nostante il suo carattere anacro­nistico, essa suscitò una vasta eco internazionale e fini con l’assumere un aspetto almeno parziale di anticipo del secondo conflitto mondiale. Produzione abbondante ma sostanzialmente di non grande livello, limitata soprattutto per la produzione italiana a contributi memoriali- stici o alla ricostruzione in larga misura cronachistica degli av­

venimenti diplomatico-militari (fanno eccezione nella produ­zione più recente i volumi di Angelo Del Boca, Giorgio Ro- chat e Carlo Zaghi); gli studiosi stranieri hanno invece in genere privilegiato gli aspetti interna­zionali del conflitto, in un’otti­ca fondamentalmente eurocen­trica.

I due testi che Giuliano Pro­cacci ha ultimamente dedicato all’Etiopia colmano entrambi

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una lacuna, pur restando in so­stanza nell’ambito delle reazioni internazionali al conflitto ita- lo-etiopico. Il primo, Il sociali­smo internazionale e la guerra d ’Etiopia, Roma, Editori Riuni­ti, 1978, a suo tempo recensito su queste colonne (cfr. IC, n. 133, ottobre-dicembre 1978, pp. 103-104), concerneva l’atteggia­mento della sinistra e del movi­mento operaio europeo e resta a mio avviso il più importante; il secondo, di cui qui si tratta, ne rappresenta in un certo senso l’ideale continuazione sia per l’allargamento del tema ai mo­vimenti, in questo caso quelli anti-colonialisti di tutti i conti­nenti extra-europei, sia almeno in parte per la ricerca documen­taria su cui sono fondati en­trambi i testi, in particolare l’Archivio del ministero degli Affari esteri di Roma e l’Archi­vio del Partito comunista italia­no, Istituto Gramsci, Roma; si sono aggiunti per il secondo saggio quelli del ministero del­l’Africa italiana e parzialmente gli archivi nazionali coloniali francesi ed inglesi.

In questo vasto ma tuttavia non esauriente impianto docu­mentaristico sta da un lato l’in­teresse del saggio, che affronta il tema da un’angolazione del tutto inedita ed inesplorata — l’atteggiamento tenuto dai prin­cipali movimenti anticolonialisti del tempo; ma, e questo è il li­mite che lo stesso autore piena­mente avverte e che più volte sottolinea, sulla scorta della do­cumentazione presente negli ar­chivi italiani, rappresentativa dell’ottica della nostra diploma­zia al tempo del conflitto, diplo­mazia che assolveva il suo com­pito d’informazione e di soste­gno alla politica del governo.

Una ricerca di più ampio re­spiro sarebbe stata molto diffi­cile e probabilmente caratteriz­zata da un’eccessiva sproporzio­ne tra la vastità e le difficoltà dell’ambito da indagare e l’esi­guità dei probabili risultati, da­to il tipo della documentazione da cercare (volantini, giornaletti clandestini o quasi, ecc.).

II saggio in esame si presenta essenzialmente come una ricerca comparata e in quanto tale arti­colata in capitoli e paragrafi de­dicati all’analisi delle singole si­tuazioni nazionali e regionali. È obiettivamente difficile una vi­sione d’insieme perché i movi­menti anti-colonialisti allora co­me oggi — e Procacci usa co­stantemente l’espressione al plurale proprio per sottolineare tale carattere — erano molto differenziati tra di loro e spesso chiusi in una sorta d’isolamento reciproco.

Una marcata divisione esiste­va poi tra quei movimenti — o quei leaders, dato che spesso i due aspetti si identificavano — che vedevano nella Terza Inter­nazionale un interlocutore vali­do e un possibile riferimento comune e quelli che all’inverso, come ad esempio i panafricani- sti, consideravano anche la sini­stra europea complice e suppor­to del colonialismo internazio­nale. Il capitolo finale — che ri­collega in maniera esplicita que­sto secondo saggio di Procacci al primo sopracitato — analizza le convergenze e le divergenze cui l’aggressione italiana all’E­tiopia dette luogo tra le sini­stre europee e quelle extra-euro­pee, mettendo in rilievo le per­manenti difficoltà ad un riav­vicinamento tra le posizio­ni. Neppure la comune opposi­zione all’aggressione italiana

verso l’Etiopia riuscì a promuo­verlo.

La sinistra europea vide in­fatti della questione soprattutto l’aspetto internazionale e una ulteriore manifestazione di ag­gressività da parte dei regimi fascisti, di conseguenza una minaccia per la pace; da qui il ruolo moderatore svolto dal­la Terza Internazionale e dal Partito comunista dell’Unio­ne Sovietica, preoccupato di non coinvolgere eccessivamente l’Urss in una questione che Mo­sca giudicava tutto sommato periferica. Ottica dunque so­stanzialmente eurocentrica che poneva in secondo piano l’a­spetto coloniale della questione.

I movimenti che operavano nel mondo coloniale videro in­vece ovviamente soprattutto ta­le aspetto e tesero a considerare il conflitto italo-etiopico un nuovo episodio nella “guerra dei bianchi contro i popoli di colore”; l’impatto emotivo in­dubbio di tale posizione non riuscì però a tradursi in una va­sta azione di persuasione politi­ca, sia perché la contrapposi­zione razziale finiva in un certo senso con l’avallare le dottrine razziste dei regimi fascisti — e Procacci giustamente cita la po­sizione di Garvey — sia per la questione del rapporto con il Giappone, potenza di colore ma facente parte del campo fa­scista. Uno dei principali motivi d’attrito con la Terza Interna­zionale fu infatti la questione del cosiddetto “nemico princi­pale”, identificato dall’Interna­zionale nel fascismo. Ma fu so­prattutto nei confronti dell’idea di un nuovo conflitto mondiale che le posizioni si divaricarono maggiormente, orientata verso la prevenzione la sinistra euro-

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pea, anche se non sempre com­patta; oscillanti tra la posizione di Nehru, che pur deprecandolo considerava il conflitto inevita­bile, quella del panafricanista Padmore, che invece lo riteneva un passaggio obbligato sulla via di una palingenesi rivoluziona­ria universale, e quella maggio­ritaria di coloro che scorgevano nella guerra d’Etiopia [’“occa­sione” per promuovere la pro­pria indipendenza nazionale, i movimenti anticolonialisti.

Il saggio del Procacci contri­buisce così anch’esso a sfatare quel mito di un Terzo mondo compatto e perpetua vittima che tanto peso esercitò in un recente passato, ma che appare ormai superato e ostacolo ad una più profonda conoscenza dei pro­blemi esistenti, gravi ma anche diversificati e specifici. E il caso Etiopia è ancor oggi uno di essi.

Chiara Robertazzi

M a r i o T o s c a n o , Corsivi di po­litica estera 1949-1968 per la “Rivista di studi politici interna­zionali”, presentazione di G. Vedovato, Milano, Giuffrè, 1981, pp. 391 (Università di Ro­ma - Facoltà di Scienze Politi­che - n. 39), lire 18.000.

Mario Toscano ha rappresen­tato per un lungo periodo di tempo uno degli esponenti più rappresentativi della storia delle relazioni internazionali. Sebbe­ne questa disciplina stia attra­versando una fase di mutamenti che non escludono innovazioni e sperimentazioni, i lavori di Toscano, a oltre quindici anni dalla sua scomparsa, possono essere considerati utili punti di riferimento per gli studiosi di

politica estera. In questo volu­me, la cui pubblicazione è stata promossa dall’Istituto di studi storici della Facoltà di scienze politiche dell’Università di Ro­ma, un “gruppo di colleghi e di amici” ha inteso fornire alcuni esempi, non della produzione storiografica di Toscano, bensì delle sue qualità di commenta­tore di politica internazionale. Nell’opera sono stati infatti rac­colti i “corsivi” trimestrali che Toscano pubblicò tra il dicem­bre 1949 e il giugno 1968 nella “Rivista di studi politici interna­zionali”. Questi brevi saggi so­no stati suddivisi per argomenti ed essi spaziano dalla questione di Trieste (e più in generale dei rapporti con la Jugoslavia), al problema altoatesino (di cui To­scano non si occupò solo nelle vesti di storico), alle relazioni Est-Ovest, all’unità europea, al disarmo, al Medio Oriente ecc. Ogni gruppo di “corsivi” è pre­ceduto da una sintetica introdu­zione a cura di diplomatici, qua­li Guidotti, Gaja, Mondello, Catalano, Dainelli, nonché di storici e di studiosi delle relazio­ni internazionali, quali Spadoli­ni, Pastorelli, Vaisecchi, Cata­lano, André ed Anchieri.

Come è ovvio, alcuni articoli appaiono “datati” e particolar­mente legati a una realtà contin­gente, ma nel complesso nume­rose osservazioni di Toscano mantengono intatta gran parte della loro originalità e suscitano ancora interesse. Né d’altro canto si può trascurare come Toscano, docente universitario, abbia ricoperto, tra l’altro, l’in­carico di capo del Servizio studi del ministero degli Esteri e di delegato italiano all’Assemblea generale delle Nazioni unite “con rango e titolo di ambascia­

tore”. I “corsivi” raccolti in questo volume offrono dunque utili indicazioni sulle opinioni di Palazzo Chigi e della Farnesina e rappresentano un “documen­to” per la comprensione di alcu­ni aspetti dell’azione internazio­nale della Repubblica italiana tra la fine degli anni quaranta e gli anni sessanta.

Antonio Varsori

E g i d i o O r t o n a , Anni d ’Ameri­ca. La ricostruzione; 1944-1951, Bologna, II Mulino, 1984, pp. 447, lire 30.000.

Le brillanti e letterariamente vive pagine che Egidio Ortona (addetto all’ambasciata italiana a Washington dal 1944 al 1959 e ambasciatore presso la stessa se­de dal 1967 al 1975) ha tratto dal suo “diario” costituiscono un interessante documento della mentalità e dell’azione politica ed economica che caratterizza­rono l’azione dell’ambasciata italiana negli Stati Uniti (e non solo) durante gli anni della rico­struzione. E se qualcosa soprat­tutto viene messo in rilievo è certamente nel fatto che la scel­ta occidentale, l’adesione al Patto atlantico e la subordina­zione politico-economica agli Usa dell’Italia non furono de­terminati soltanto dagli accordi fra le grandi potenze stabiliti da Casablanca a Yalta, in quanto i diplomatici, da Ortona a Tar- chiani, si mostrarono in ogni momento pronti ad orientare l’opinione pubblica “verso quel­le forze che apparivano più pro­pense a tenere in conto le istanze a sfondo antisovietico” (p. 108) e si mostrarono sempre più preoccupati per il “neutralismo

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crescente” fra le masse italiane (p. 369) che, “indifferenti e as- senteiste”, apparivano sempre meno propense a partecipare ad una guerra “a difesa del sistema di vita occidentale” (p. 386). Ed in effetti furono proprio Tar- chiani ed Ortona che ripetuta- mente sollecitarono Sforza e De Gasperi affinché l’Italia, “come atto di solidarietà con gli Stati Uniti” (p. 347), partecipasse ad­dirittura alle operazioni militari in Corea (pp. 347, 360, 367). Nonostante Mario Ferrari Ag­gradi, nell’agosto 1950 (ma lo aveva già fatto un anno prima, p. 308), sostenesse la necessità di “proteggerci e difenderci dal­le ‘pretese’ americane” (p. 366) che rischiavano di trasformare l’egemonia in “colonialismo”, Ortona sottolinea una scelta americana condotta, malgrado tutto, fino in fondo da lui e Tar- chiani e durante la campagna elettorale del 1948 (gestita in stretta collaborazione fra l’am­basciata e i funzionari america­ni, pp. 223-225) e nell’insistere lungamente e ripetutamente af­finché l’Italia aderisse al Patto atlantico (“Per l’ambasciata ciò che contava era indurre Roma a partecipare”, pp. 278-279; “Fu necessario esercitare una co­stante pressione sul governo di Roma nel quale, malgrado le fa­vorevoli personali convinzioni di De Gasperi e Sforza, alligna­vano incertezze e allergie a im­pegni del genere”, p. 291).

Grazie all’“importante e de­terminante azione degli Stati Uniti” (anche se oggi è stato se­condo Ortona, purtroppo, se­polto “nel dimenticatoio il con­tributo dato dagli Usa all’esito di quelle elezioni”, p. 237) si ot­tenne nel 1948 un risultato che potè “paragonarsi all’arresto

dei turchi ad opera di Sobiewski di fronte a Vienna nel 1683” (p. 236).

Preoccupato delle proprie ca­micie di seta (indumento “nor­male” in Italia nel 1944, p. 40) e dal “fanatismo” mostrato dai partigiani che, “offendendo l’e­stetica” (?), avevano fucilato Benito Mussolini (p. 133), lega­to a Dino Grandi da “schietta e affettuosa amicizia” dal 1932 per oltre 50 anni (p. 6-7), la fi­gura di Ortona, nelle sue scelte operate congiuntamente a Tar- chiani e tese a forzare ripetuta- mente la mano al governo italia­no rappresenta in maniera esemplare la continuità nei mo­di e modelli delle scelte politiche e diplomatiche, sia pure nel nuovo campo d’azione costitui­to dagli Stati Uniti e con saldi ri­ferimenti alle qualità “carisma­tiche” di De Gasperi.

Siamo convinti che proprio queste caratteristiche, del resto puntualmente coerenti con le fonti documentarie (comprese le memorie di Tarchiani) e la sag­gistica già note facciano del vo­lume di Ortona un contributo importante, soprattutto là dove viene sottolineato il ruolo deter­minante della diplomazia italia­na nelle scelte governative italia­ne e dove, attraverso il resocon­to puntuale di episodi e partico­lari, si suffraga, si conferma e, in qualche modo, si “spiega” la documentazione ufficiale.

Luciano Casali

V a l d o F e r r e t t i , Il Giappone e la politica estera italiana 1935- 41, Milano, Giuffrè, 1983, pp. 254 (Università di Roma - Fa­coltà di scienze politiche - n. 42), lire 14.000.

Il volume di Ferretti si basa su una ricca documentazione, in gran parte inedita, proveniente da archivi italiani, britannici e — elemento di particolare inte­resse — nipponici. Scopo del­l’autore è far luce su un aspetto meno noto, ma non per questo secondario, della politica estera fascista nella seconda metà degli anni trenta: il ruolo svolto dal governo di Roma in Estremo Oriente e, in modo specifico, l’atteggiamento nei confronti del Giappone e della sua politica imperialistica.

Dopo aver delineato sintetica­mente i caratteri dell’espansio­nismo giapponese e la situazio­ne internazionale in cui esso venne a inserirsi, Ferretti sotto- linea l’esistenza di particolari interessi italiani nell’area estre- morientale, nonché l’attenzione di Roma nei confronti della si­tuazione cinese. L’autore d’al­tro canto ricorda, nel corso del suo studio, l’esperienza “cine­se” nei periodi 1927-29 e 1930- 32 di Galeazzo Ciano, dal 1936 alla guida del ministero degli Esteri. Sino alla guerra d’Etio­pia, comunque, le valutazioni italiane sulla politica nipponica e sulla situazione cinese non parvero discostarsi da quelle di altre potenze europee, in modo particolare della Gran Breta­gna. Con l’aperto manifestarsi dell’aggressività italiana in Afri­ca e il conseguente scontro con gli interessi mediterranei di Londra, nacque nella capitale italiana la tendenza a individua­re una comunanza di interessi e obiettivi tra l’imperialismo ita­liano e quello di Tokyo. In real­tà Ferretti dimostra che l’ag­gressione contro l’Etiopia, le sanzioni e la tensione nel mar Mediterraneo con l’Inghilterra

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non furono elementi tali da de­terminare un netto “rapproche­ment” italo-nipponico. L’atteg­giamento di Tokyo si mantenne cauto, anche se non mancarono simpatie verso l’Italia a causa delle posizioni ostili alla Gran Bretagna e alla Società delle na­zioni. Furono il tentativo bri­tannico di coinvolgere l’Unione Sovietica in alcune questioni in­ternazionali (la conferenza na­vale del 1935-1936), l’apparente influenza sovietica sulla Cina, la debolezza dei gruppi cinesi su cui sembrava aver fatto affida­mento il governo fascista e la rinnovata aggressione nipponi­ca gli elementi che condussero i governi di Roma e di Tokyo a un effettivo avvicinamento. I due regimi infatti ritennero di dover contrastare non solo la Gran Bretagna, ma finirono con il condividere un profondo ti­more nei riguardi dell’Unione Sovietica, del ruolo che questa avrebbe potuto svolgere sia in Europa, sia in Estremo Oriente. È in questo contesto che Ferretti interpreta l’adesione italiana al Patto anti-Komintern del 1937. Questa scelta spinse inoltre il governo di Roma a raffreddare sempre più le proprie simpatie nei confronti dei nazionalisti ci­nesi e ad assumere una posizio­ne coerente con gli interessi di Tokyo nell’ambito della confe­renza di Bruxelles (novembre 1937).

Nel corso del 1938 il governo fascista, pur nutrendo la vaga aspirazione di svolgere una fun­zione mediatrice tra la Cina e il Giappone, esaminò la possibili­tà di concludere un vero e pro­prio accordo bilaterale di carat­tere militare con il governo giapponese; tale accordo avreb­be avuto funzione sia anti-in-

glese, sia anti-sovietica. Nel frattempo però l’iniziativa in campo internazionale, in parti­colare nell’ambito dell’Asse, era definitivamente passata alla Germania hitleriana e come gli eventi del 1938-1939 dimostra­rono, la politica di Mussolini e di Ciano finì con l’essere sostan­zialmente condizionata da quel­la di Berlino. Lo stesso progetto di accordo con il Giappone fu cancellato dalla rapida evoluzio­ne degli avvenimenti in Europa e in Asia orientale. La politica ita­liana in Estremo Oriente — co­me in Europa — si sarebbe alli­neata — seppur fra incertezze e ripensamenti — a quella della Germania.

Antonio Varsori

L u i g i B r u t i L i b e r a t i , II Cana­da, l ’Italia e il fascismo 1919- 1945, Roma, Bonacci, 1984, pp. 256, lire 24.000.

Il volume fa parte della colla­na “I fatti della storia” diretta da Renzo De Felice. Ne è autore un giovane ricercatore presso l’Università di Milano che ha già pubblicato numerosi contri­buti sulle relazioni italo-canade- si nel Novecento, tema che ha potuto approfondire nel corso di un lungo soggiorno in loco reso possibile da una borsa di studio del Canada Council. L’interesse del saggio deriva ol­tre che dal tema specifico — le ricerche europee ed italiane in particolare sui rapporti tra Eu­ropa e paesi del Nordamerica privilegiano quasi esclusivamen­te gli Stati Uniti — dalla utiliz­zazione di fonti documentarie canadesi che l’autore ha potuto consultare direttamente (Public Archives of Ottawa, Depart­

ment of External Affairs Re­cords e Norman Robertson Pa­pers) o indirettamente grazie al­la collaborazione di alcuni fun­zionari (Archivio storico della Royal Canadian Mounted Poli­cy, Ottawa, non aperto alla con­sultazione degli studiosi; per questa parte mancano le indica­zioni dell’esatta collocazione ar­chivistica). Altre fonti canadesi largamente utilizzate sono state i quotidiani e i periodici delle due province dell’Ontano e del Québec, privilegiate e come sede dei principali giornali a diffu­sione nazionale e come diremo per il contenuto della ricerca stessa. L’autore si è inoltre av­valso della documentazione rin­tracciabile in Italia presso l’Ar­chivio centrale e l’Archivio del ministero degli Affari esteri.

Tema della ricerca è la diffu­sione del fascismo tra le comu­nità italiane emigrate in Cana­da, i suoi rapporti con il gover­no e la società canadese nel suo complesso e in particolare con quella franco-canadese del Qué­bec, sulla quale si è appuntato maggiormente l’interesse del Bruti Liberati per un certo mag­gior non diciamo favore aperto ma almeno attenzione verso il fascismo, atteggiamento legato in certo qual modo alla rivalità con la comunità anglo-cana­dese.

Il saggio prende le mosse dal­le difficili condizioni della pri­ma emigrazione italiana nel Ca­nada agli inizi del Novecento, il­lustrate soprattutto attraverso lo spoglio della stampa, per ri­salire rapidamente all’irrigidi­mento e all’incomprensione del­l’opinione pubblica canadese verso le posizioni europee all’in­domani del primo conflitto mondiale in generale e la crisi

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del dopoguerra in Italia, inter­pretata come una radicalizza- zione della situazione e una cre­scente instabilità del sistema li­berale. Fu grazie a questo diffu­so atteggiamento che anche in Canada si vide nell’avvento del fascismo non tanto l’irrompere sulla scena di un fenomeno poli­tico nuovo e pericoloso ma una reazione al clima di anarchia che andava diffondendosi e per­tanto soluzione provvisoria fau­te de mieux per un paese come l’Italia, di cui tranne rarissime eccezioni stampa e opinione pubblica avevano un’immagine stereotipa e viziata da scarsa in­formazione. Da qui l’atteggia­mento sostanzialmente neutro delle autorità locali verso l’atti­vità di propaganda fascista con­dotta dai nostri consolati all’in­terno delle comunità italiane, anche se l’autore ne mette in ri­lievo la sostanziale cautela e moderazione che contribuirono a darle una certa efficacia e ad ostacolare la diffusione dell’an­tifascismo — del resto intrinse­camente debole e minoritario — tra queste stesse comunità.

Una svolta nell’atteggiamen­to canadese verso il fascismo si ebbe secondo l’autore ai mo­mento della guerra d’Etiopia, anche se subito dopo riconosce la singolarità ed anomalia del caso del Canada dove con l’av­vento al potere dei liberali nel 1935, la politica estera assunse un atteggiamento di maggior autonomia nei confronti di Londra, anche nella questione delle sanzioni. Le reazioni non furono sempre omogenee, nep­pure nell’opinione pubblica, e qui prende corpo la tesi del Bru­ti Liberati di un atteggiamento più favorevole e ancora attendi­sta verso il fascismo della comu­

nità francofona, tesi che egli stesso rileva non mancherà di suscitare accese discussioni con gli storici franco-canadesi.

Chiara Robertazzi

G i o v a n n a T o m a s e l l o , La lette­ratura coloniale italiana dalle avanguardie al fascismo, Paler­mo, Sellerio, 1984, pp. 140, lire 12.000.

Breve saggio sulle risposte “letterarie” italiane alla costru­zione di un impero coloniale, in particolare dell’impero fascista, seguito da una limitata raccolta documentaria. L’autrice prende le mosse dall’iniziativa assunta dalla rivista “L’Azione colonia­le” diretta da Mario Pomilio nel 1931 con l’invio di un questio­nario-referendum sulla lettera­tura coloniale e le caratteristiche che avrebbero dovuto esserle proprie, iniziativa ovviamente improntata da connotazioni agiografiche e da pedagogismo propagandistico. Nella stessa direzione si mossero le risposte — la scrittrice Clarice Tartafuri arrivò ad auspicare la creazione di un nuovo genere letterario ad hoc, il “romanzo di conquista” —; né realmente diversa fu la ri­sposta letteraria “alta” che sot­tolineava la necessità di mante­nere ad un livello genuinamente letterario la produzione auspi­cata, riferendosi esplicitamente al modello dannunziano delle Canzoni delle Gesta d’oltrema­re, e 1’“autoesaltazione” di Ma­rinetti che affermava la possibi­lità di una letteratura coloniale italiana solo in chiave futurista.

L’attenzione della Tomasello è volta soprattutto a mettere in rilievo lo stretto intrecciarsi an­

che in questo episodio margina­le dei rapporti o meglio della se­parazione netta tra cultura élita- ria e produzione volgarizzata ti­pica della situazione italiana. Muoversi in questa direzione è sfondare una porta aperta. Più interessante appare invece la tesi che il fascismo, con l’assunzio­ne di posizioni ideologiche raz­ziste alla metà degli anni trenta, chiuse paradossalmente lo spa­zio alla possibilità stessa di co­struzione del romanzo coloniale proprio al momento dell’inizio dell’impresa etiopica.

Chiara Robertazzi

E u g e n i a S c a r z a n e l l a , Italiani d ’Argentina. Storie di contadi­ni, industriali e missionari ita­liani in Argentina, 1850-1912, Venezia, Marsilio, 1983, lire 18.000.

Dopo un breve periodo di si­lenzio la storiografia italiana torna ad occuparsi dell’emigra­zione in America latina. Il libro di Eugenia Scarzanella si inseri­sce nel filone di quegli studi che, affrontando l’esame di un caso specifico, analizzano l’emigra­zione seguendo le fasi di adatta­mento all’ambiente sociale ed economico latinoamericano at­traverso le quali la manodopera italiana si è trasformata in un popolo nuovo.

È impossibile sintetizzare in poche righe il contenuto di que­sto libro perché, come il titolo suggerisce, l’autore ha ricostrui­to la storia degli emigrati nei di­versi settori della società argen­tina. L’ambito urbano e quello rurale vengono in questo modo esaminati in tutti i settori in cui gli italiani hanno operato: indu-

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striali, operai, coloni, mezzadri, intellettuali e missionari contri­buiscono alla formazione della società argentina, in un proces­so che mette in luce come non sia proficua, ai fini della ricer­ca, considerare l’emigrazione italiana nell’unica dimensione della colonizzazione agricola. Nonostante la forte stratifica­zione sociale che si crea all’in­terno della massa degli immi­grati impiegati nelle attività più diverse, l’antagonismo di classe è in parte superato dalla solida­rietà etnica, che diventa un fat­tore di coesione e insieme di fre­no allo sviluppo di una coscien­za di classe, come è dimostrato nell’analisi del grito de Alcorta, primo sciopero agrario, in cui il concetto di italianità viene am­piamente usato dai mezzadri in lotta e dagli intellettuali urbani, che vedono nel movimento un “elemento di coesione e un ca­nale di espressione politica delle colonie, saldandone le compo­nenti urbana e rurale”.

Durante tutto il periodo con­siderato (1850-1912) la solida­rietà etnica ha dunque una note­vole rilevanza, che si attenua soltanto nell’epoca in cui il flus­so immigratorio finisce e il pro­cesso di integrazione si afferma nella sua pienezza. Infatti, an­che se non si riesce a unire la co­munità urbana a quella rurale — come volevano gli intellettua­li immigrati — la coesione na­zionale rimane molto forte: i nomi delle società contadine (Vittorio Emanuele II, Italia, ecc.) dimostrano quanto si vo­glia mantenere viva l’immagine del paese d’origine e come, so­prattutto, l’elemento italiano sia preponderante. In modo analogo, nell’ambiente urbano le forme di solidarietà etnica si

moltiplicano: accanto alle asso­ciazioni di mutuo soccorso, espressione ufficiale di questo clima, esistono le più concre­te società di capitali italiani che, provenienti dai settori eco­nomici più diversi, promuovo­no la nascita e la crescita delle attività industriali a Buenos Aires.

Il problema della solidarietà etnica e della formazione di una coscienza di classe non rappre­senta l’unico motivo di interes­se del libro; anzi, le tematiche sono molte: la formazione della borghesia industriale italiana, il ruolo degli intellettuali italiani nell’integrazione sociale e cultu­rale, la formazione di un mer­cato del lavoro rurale e urbano sono alcuni tra i molti argo­menti stimolanti affrontati da Scarzanella. Ed è proprio in questa molteplicità di problemi trattati che risiede il pregio e il difetto insieme del libro: da un lato, infatti, l’autore non ap­profondisce — né pretende di farlo — i molti argomenti pro­posti all’attenzione del lettore: d’altro lato, però, esponendo tematiche diverse, suggerisce nuove interpretazioni e suscita una serie di questioni cui non viene data una facile e pronta soluzione. In tal modo Scarza­nella ha contribuito al dibattito sull’emigrazione italiana in America latina con un libro in­teressante, che esprime la neces­sità di approfondimento di filo­ni che sembravano esauriti, e ha aperto la strada a nuove ri­cerche monografiche, dimo­strando quanto ancora possa essere fertile e stimolante lo stu­dio dell’emigrazione italiana in America latina.

Chiara Vangelista

Understanding A ustria. The Political Reports and Analyses o f Martin F. Herz, Political Of­ficer o f the U. S. Legation in Vienna 1945-1948, a cura di Reinhold Wagenleitner, W. Neugebauer Verlag (Quellen zur Geschichte des 19. und 20. Jahr- hunderts), Salzburg, 1984, pp. X-653.

II volume consta di una serie di rapporti redatti da Martin Herz, nella seconda metà del 1945 e nel biennio 1947-48, in qualità dapprima di maggiore delle truppe di occupazione americane in Austria poi di se­gretario presso la legazione di Vienna, prima tappa di una car­riera che Io porterà a ricoprire posizioni chiave nella diploma­zia americana. Due le tematiche presenti in un costante intrec­cio: da un lato la situazione in­terna dell’Austria nel dopoguer­ra e dall’altro la politica delle forze di occupazione sovietiche e, sullo sfondo, il problema del negoziato per il trattato di stato austriaco che — come sottolinea il curatore — “è diventato il centro di gravità della ricerca storica sull’Austria contempo­ranea”. Pur presentando, sulle tematiche che si sono dette, un’estrema ricchezza di infor­mazioni, la documentazione pubblicata — è sempre il cura­tore a farlo notare — non offre elementi tali da indurre a rivede­re le ricostruzioni del dopoguer­ra austriaco già proposte da Ge­rald Stourzh, Geschichte des Staatvertrages 1945-1955, Graz- Wien-Kòln, 1980, e da Man- fried Rauchensteiner, Der Son- derfall, Graz-Wien-Kòln, 1979.

Il motivo di maggiore interes­se, in questo volume, sta in una lettura, per così dire, dall’inter­

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no. I rapporti di Herz riescono in­fatti a dar atto del processo di co­struzione della politica americana verso l’Austria, mentre meno per­cepibile rimane, com’è ovvio, l’e­voluzione del decision-making in senso complessivo. Nella seconda metà del 1945 l’attività di Herz appare dunque caratterizzata da una raccolta di informazioni ad ampio raggio, senza chiusure pre­giudiziali, in un interscambio continuo fra autorità politiche e militari. In tutta questa fase, ad esempio, la modalità più frequen­te del reporting è l’intervista ad esponenti della politica e dell’eco­nomia austriaca; rari sono nel complesso i momenti in cui si ten­ta di tirare le fila, mentre l’oriz­zonte entro il quale si muove la politica americana rimane solo genericamente definito: lo sradi­camento delle eredità totalitarie (ancora presenti, si ritiene, all’in­terno delle nuove formazioni po­litiche), il ripristino di un sistema democratico, un “realistico” equilibrio fra alleati occidentali e Unione Sovietica.

I rapporti relativi alla seconda fase dell’attività di Herz in Au­stria, al biennio 1947-48 cioè, pre­sentano invece un’attenzione as­sai più selettivamente orientata; ed a raccordare i due momenti può essere utile, oltre alla pre­messa dello stesso Herz, anche la sua relazione di “testimone delle origini della guerra fred­da” viste daU’Austria (Martin Herz, The View from Austria in Witnesses to the Origins o f Cold War, a cura di T. Hammond, Seattle, 1982, pp. 161-185). In altre parole, pur non mancando Io sforzo di analisi del quadro politico interno, cominciano ad emergere ottiche particolari: in­nanzitutto l’analisi degli obietti­vi sovietici, che vengono descrit­

ti come espressione di una politi­ca sostanzialmente opportuni­stica volta a conseguire vantaggi immediati più che una stabile in­fluenza a lungo termine. Per al­tro verso, sebbene non sia certa­mente un cold warrior, anche Herz adopera nei confronti del Partito comunista austriaco i modelli analitici propri della guerra fredda: subversion, infil­tration, penetration.

È soprattutto dopo eventi quali il colpo di stato in Cecoslo­vacchia e il blocco di Berlino che, accanto all’analisi delle in­tenzioni sovietiche, affiora an­che quella delle capabilities del- l’Urss, preludio del dibattito che porterà alla svolta del 1950. In altre parole l’attenzione non è volta solo a percepire ciò che l’Urss ha intenzione di fare in Austria, ma anche quello che ha la possibilità di fare (e parallela- mente di verificare le possibilità di deterrenza americane). Dai rapporti di Herz non emerge quale dei due parametri debba essere assunto come termine di riferimento essenziale per lo svi­luppo delle risposte da parte americana. Il termine ad quem, al quale i rapporti si arrestano, fa dunque di questo volume la testimonianza, sia pur dall’in- terno di un contesto circoscritto, di una fase di evoluzione della politica estera americana, che si concluderà nel 1950 con l’elabo­razione della teoria del conteni­mento.

Giampaolo Valdevit

Rassegna della stampa sul dibat­tito pro e contro il “nuovo na­zionalismo ”

L’effimera ma spesso esaspe­rata polemica che ha animato

buona parte della stampa italia­na nell’ultimo trimestre del 1985 meriterà forse di essere in futuro analizzata e valutata, come sin­tomo di un certo malessere e di una trasformazione in fieri, del costume per lo meno. Queste note non hanno altra pretesa se non quella di registrare per som­mi capi alcuni degli elementi che l’hanno caratterizzata, una sor­ta di cronaca stringata o meglio un indice, peraltro incompleto.

La ricorrenza del 50° anniver­sario della guerra d’Etiopia ave­va dato luogo a partire dalla fine di settembre ad una serie di in­terventi commemorativi, gene­ralmente in tono minore, con­trassegnati da un lato dalla rico­struzione degli avvenimenti mili­tari e politici e dall’altro dall’ac­costamento, senza alcuna prete­sa di sintesi, di tesi storiche spes­so molto divergenti tra di loro. Citiamo tra i tanti i cinque arti­coli di Guido Vergani su Repub­blica (29/30-IX, 2, 5, 8, 9-X); quelli di Silvio Bertoldi, Gaeta­no Afeltra e soprattutto Paolo Spriano, “Dietro la maschera di Faccetta nera” sul Corriere della Sera (21-X), che sottolineando l’insistenza della propaganda del regime sugli aspetti sociali indicava in questo la ragione per la quale alcuni giovani intellet­tuali “fascisti di sinistra” aveva­no potuto vedere nell’avventura etiopica la grande occasione per una riscoperta della vocazione rivoluzionaria del fascismo. Al­cuni temi sollevati da Spriano li ritroveremo in tono tutto diver­so alla base di altri interventi.

Le vicende dell’Achille Lau­ro, dell’utilizzazione statuniten­se della base di Sigonella, la crisi di governo prima rientrata, poi esplosa ma subito ricomposta, e la “ventata nazionalistica” che

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ne derivarono spostarono l’ac­cento di queste commemorazio­ni e il riferimento alla guerra d’Etiopia divenne pretesto per una serie di prese di posizione, in un primo momento giornali­stiche e politiche e in un secon­do momento di politologi e sto­rici, anche se sempre sulle co­lonne dei quotidiani.

Il dibattito fu innescato dalla pubblicazione in prima pagina sull’Unità del 20-X di una lette­ra di Giovanni Giudici, “Ripar­liamo pure della perfida Albio­ne”, che prendendo lo spunto da una domanda retorica di Giorgio La Malfa nel dibattito alla Camera rievocava “lo scat­to di giusto orgoglio nazionale che nel 1935 animò i giovani contro le sanzioni della perfida Albione” e lo accostava a quello che nel 1943 “portò molti giova­ni nelle file della Resistenza con­tro la Germania” e a quello at­tuale contro “l’ukase americano a Sigonella”. La prima reazione negativa seguì sulle colonne del- V Unità stessa, il 22-X con tre in­terventi di Vittorio Foa, Massi­mo Riva ed Ennio Politi indi­gnati per l’accostamento tra il 1935 e il 1943; il 23-X prendeva le distanze ufficialmente lo stes­so giornale e Giudici interveniva con una seconda lettera di accet­tazione delle critiche, pur affer­mando che “nessuna aveva col­to il vero senso della sua provo­cazione”.

Degli altri numerosi interven­ti contrari ricordiamo quello di La Malfa, “Tornano di moda i vecchi balilla...”, ospitato da Repubblica del 22-X; quello di Giovanni Ferrara sul Corriere della Sera sempre del 22, che ri­chiamava alla necessità di toni più sobri; quello di Guido Bo- drato, vicesegretario della De,

su Repubblica del 24, “La risco­perta della grande proletaria”, che da un lato sottolineava un aspetto che tutti in seguito note­ranno, la contrapposizione tra l’agitazione e gli sbandamenti degli interventi giornalistici, co­stretti a correggere giorno per giorno le interpretazioni appena avanzate per tenere il passo con gli avvenimenti, e un’opinione pubblica molto più cauta e at­tenta alla sostanza delle cose; dall’altro spostava l’accento sul piano più immediatamente poli­tico e rilevava che certe ambi­guità erano inevitabilmente le­gate ad una politica mediterra­nea difficile ma senza alternati­ve perché derivante dalla geo­grafia e dalla storia italiane.

1 risvolti e i dietroscena di po­litica interna ed estera diventa­vano così il tema fondamentale. Il 25-X Renato Mieli sul Corrie­re della Sera e il giorno successi­vo Massimo L. Salvadori sulla Stampa sottolineavano sia pure in toni diversi l’“antiamericani- smo” di fondo che stava dietro alla ventata nazional-popolare di collegamento tra avventura etiopica e Sigonella; lo stesso giorno Massimo Caprara sul Giornale, “Parlar d’Abissinia perché Craxi intenda”, dava un’interpretazione più contin­gente, indicando “il nocciolo autentico di tanto divagare” nel formarsi di un settore della diri­genza del Pei incline a rivedere in senso più possibilista la radi­cale ostilità ufficiale del partito verso il presidente del Consi­glio.

Ampio spazio al neonaziona­lismo dedicava il Corriere della Sera del 27-X: nell’articolo di fondo; “Chi gioca col nazionali­smo”, Enzo Bettiza affermava che la ventata di toni nazionali­

stici esasperati e forzati non era condivisa dall’opinione pubbli­ca, ma che questa tuttavia era caratterizzata dall’emergere di un “nostro e più attuale senso di autonomia e dignità nazionale”, che sembrava essere stato del tutto cancellato dalla politica culturale dominante nel dopo­guerra. L’inserto centrale, “Un secolo d’Italia sul Mediterra­neo”, cercava di tracciare un quadro di più ampio respiro con una serie di interventi di taglio storico (Piero Melograni “Grandi ambizioni ma ideali pochi”; Egidio Ortona “Il Patto atlantico ha il perno a Sud”; Sil­vio Bertoldi “Sul Mare Nostrum sempre altre bandiere”; Brunel­lo Vigezzi “Perché la classe diri­gente liberale voleva un’Italia grande e potente”; Giorgio Ru­mi “I cattolici alla ricerca di un grande passato”; Adriano Lyt­telton “Il tentativo del regime fascista di contendere agli ingle­si le chiavi del Mediterraneo”).

Sempre lo stesso giorno il quotidiano milanese ospitava anche una lettera firmata da un gruppo di intellettuali e scrittori lombardi di solidarietà con Giu­dici, lettera che rilanciava la po­lemica. Massimo Mila sulla Stampa del 2 novembre la defi­niva, attribuendone la paternità a Franco Fortini, “un capolavo­ro di contorsionismo stilistico tipico della cattiva coscienza” e classificava tutto il caso “un ri­gurgito di nazionalismo”; toni ironici sul “nazionalismo di ri­torno sollevato dal caso Giudi­ci” contrassegnavano anche la breve intervista di Mario Sanfi- lippo a Renzo De Felice sul Messaggero del 12 novembre. Ancora sulla Stampa il 16 no­vembre Ernesto Galli Della Loggia riprendeva la polemica

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con Fortini in particolare, pren­dendo spunto dal volume “L’o­spite ingrato”, per indicare co­me fatto nuovo rilevante la co­stituzione a sinistra “di una piattaforma ideologica so­cial-nazionalista fatta di euro­peismo, terzomondismo, popu­lismo, antiamericanismo, all’in­segna della riscossa ‘patriot­tica’”.

Non ancora del tutto sgonfia­to il “caso Giudici”, la polemica sui quotidiani si riaccendeva per l’accenno fatto da Craxi alla Camera, nel dibattito sulla fidu­cia, a Mazzini “che anch’egli concepiva e progettava assassi­ni! politici”. I quotidiani solleci­tavano subito brevi interviste a storici di varia collocazione per un giudizio sull’accostamento tra Mazzini e Arafat: Aldo Ga- rosci (Corriere della Sera, 8-XI) riconosceva un certo fondamen­to alla tesi ma ne sottolineava i limiti e le forzature; indignati i commenti di Leo Valiani (sullo stesso quotidiano), che poneva l’accento sulla diversità degli obiettivi mazziniani da quelli del terrorismo palestinese, e di A. Galante Garrone (Stampa, 8- XI), che giudicava maldestro il tentativo di “invocare il metro della storia” per sostenere posi­zioni politiche attuali e chiedeva di “lasciare in pace” le grandi fi­gure del Risorgimento; Spadoli­ni, in una lettera al Corriere (9- XI) “Dalla parte di Mazzini” sottolineava soprattutto il misti­cismo democratico del nostro; di tono moderato e volto a ri­portare equilibrio e attenzione alla sostanza dei problemi più che a questioni del genere l’in­tervento di Norberto Bobbio, interpellato da Maurizio Capra- ra (sempre Corriere del 9-XI); Mario Sanfilippo sul Messagge­

ro del 9-XI, rilevava come aspetto positivo tuttavia il fatto che la storiografia si fosse libe­rata dall’oleografia risorgimen­tale; Massimo L. Salvadori sulla Stampa (9-XI) affermava che il senso della presa di posizione del presidente del Consiglio sta­va “nell’uso tutto politico della storia”. Ironico Luciano Canfo­ra sul Manifesto (9-XI) replica­va a Valiani e Spadolini: “Pove­ro Mazzini nelle mani di stori­ci pronti a fare di un grande ri­voluzionario un santino da chiesa”.

Di tono più impegnativo altri interventi, non limitati a poche battute sul caso specifico. Di to­ni molto pessimistici e intrisi d’amarezza la lunga intervista rilasciata da Rosario Romeo a Giovanni Russo (Corriere della Sera, 2-XI). Ridimensionata la natura e l’ampiezza dell’assenso dell’opinione pubblica alla pre­tesa impennata di orgoglio na­zionale, lo storico ripercorreva l’evoluzione delle idee di nazio­ne e di libertà nate insieme nel­l’età della rivoluzione francese e del romanticismo e successiva­mente scisse dal nazionalismo imperialista fascista; la seconda guerra mondiale segnò — affer­ma Romeo — “il crollo verticale di tutta questa concezione”, ri­velando l’inconsistenza e addi­rittura il grottesco delle ambi­zioni di grandezza italiane; “in sostanza gli italiani sono usciti dalla seconda guerra mondiale con la coscienza di aver sbaglia­to tutto e che le sole cose da sal­vare erano la famiglia, rifugian­dosi sotto le ali della Chiesa, e l’idea di star bene”. Alla do­manda se il vuoto dei valori av­vertito soprattutto dai giovani potesse essere colmato, Romeo negava che potesse esserlo da

una ripresa di valori nazionali e concludeva con un giudizio sconfortato sull’Italia di oggi: “E’ un paese mediocre, che non ha né troppo grandi difetti né troppo grandi pregi. Un paese che non ha grandi forze né cul­turali né economiche né civili, ma che, tuttavia, ha molte op­portunità da dare ai propri cit­tadini se saprà cogliere i vantag­gi che la tecnologia moderna of­fre anche con una soluzione eu­ropea”.

La posizione radicalmente pessimista e intrisa di disprezzo di Romeo veniva criticata da Costanzo Casucci con un inter­vento sempre sul Corriere (17- XI) che sottolineava la mancata attenzione dello storico siciliano all’antifascismo e alla Resisten­za, che “hanno evitato al paese quella ‘psicologia della disfatta’ che Romeo ritiene invece sia prevalsa; Casucci dissentiva inoltre anche nella valutazione del giudizio sull’Italia dell’opi­nione pubblica esterna, ritenuto da Romeo solo apparentemente positivo per ragioni di pura cor­tesia ma sostanzialmente incline ad un certo disprezzo, mentre per Casucci la nuova realtà del­l’Italia paese industriale e in mutamento si riflette se pure con ritardo in tale giudizio che è venuto facendosi sempre più ge­nuinamente positivo.

Il dibattito su questi e altri te­mi vicini proseguiva in gran par­te sulle colonne di Repubblica. Gian Enrico Rusconi (“Viva l’I­talia”, 9-XI) indicava tre possi­bili letture della ventata neona­zionalistica: una prima forte­mente critica e riduttiva, che ne pone in luce gli aspetti più sbra­cati e provinciali; una seconda, interessata ad un antiamericani­smo “da salotto” più che al si­

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gnificato di un ritrovato orgo­glio nazionale; una terza, che evidenzia una certa sorpresa di fronte ad una reazione imprevi­sta ma tuttavia facente parte di un nuovo clima culturale che in­teressa non solo l’Italia ma altri paesi europei e in primo luogo la Germania e dovrebbe pertan­to indurre a riflessioni reali e non a reazioni emotive esaspe­rate. Giovanni Ferrara (“Italia vostra”, 20-XI), riprendendo il tema del sentimento nazionale, rileva come nelle ultime genera­zioni degli italiani stabilitisi al­l’estero il distacco e l’estrania­zione si siano fatti dominanti e indica l’inizio di questo proces­so proprio negli anni del fasci­smo, quasi per reazione allo stravolgimento operato dal regi­me del vero e profondo senso nazionale.

Solamente un accenno invece nell’articolo sulla crisi di gover­no di Alberto Asor Rosa “Ma che c’è nella bisaccia di Craxi?”

(Repubblica, 21-X1) che, ridi­mensionando l’importanza a li­vello di opinione pubblica di massa dell’episodio di Sigonel- la, parla dell’“atavico e profon­do senso di frustrazione” dell’i­taliano medio, per cui una rea­zione più ferma del previsto ha potuto momentaneamente gene­rare un senso di sorpresa e una provvisoria attenuazione di tale senso di frustrazione ma niente più.

Questa breve rassegna può concludersi sottolineando due aspetti divergenti sul tema: da un lato la divaricazione crescen­te tra stampa ed opinione pub­blica che tutta la serie di inter­venti ha finito con il far emerge­re e che è stata messa in rilievo fra gli altri da Saverio Vertone, in due successivi interventi sul Corriere della Sera: “Gli italiani ‘oppressi’ dall’Italia” (6-XI); “Politica e giornali — il cata­strofismo del nulla” (12-XI), e il disperdersi e moltiplicarsi della

polemica in una serie di temi, al­cuni di un certo rilievo (cfr. il dibattito tra Parise ed Acquavi­va sul problema dell’insegna­mento dell’inglese e la difesa delle lingue regionali e dei, dia­letti, Corriere della Sera del 24 e del 27-X), altri francamente irri­levanti quando non grotteschi (polemiche campanilistiche sulla nascita del tricolore, sull’inno na­zionale, ecc.). D’altro lato invece 1’esistenza di un problema reale e attuale e la possibilità di affron­tarlo in modo pù consono dimo­strato dallo svolgimento quasi contemporaneo alla fine di no­vembre di un Convegno sul’idea di nazione in Germania ed in Ita­lia, promosso dal Goethe Institut di Torino. Non può essere questa la sede per trattare di esso ma il solo fatto che si sia tenuto ha avuto il merito di cancellare o al­meno attenuare i toni confusi della polemica cui abbiamo più sopra fatto cenno.

c.r.

ERRATA CORRIGENell’articolo di Giorgio Vaccarino “La tragedia

della Polonia in guerra”, pubblicato sul n. 159, vanno corretti i seguenti errori: p. 119, 2a colonna, la riga, correggere “secondo dopoguerra” in “primo dopo­guerra”; p. 121,2a colonna, 7a riga dal fondo, correg­gere “sovietica” in “antisovietica”; p. 122,2a colonna, 23a riga, correggere “mediata” in “meditata”.

Mario Boneschi ha rinvenuto lacune e inesattez­ze nel volume Le formazioni GL nella Resistenza. Documenti settembre 1943-aprile 1945, pubblica­to dall’Istituto nazionale per la storia del movi­mento di liberazione in Italia e dalla Fiap nella Collana storica dell’Istituto (Milano, Franco An­

geli, 1985), a cura di Giovanni De Luna, Piero Camilla, Danilo Cappelli e Stefano Vitali. L’Isti­tuto nazionale, nel prendere atto volentieri delle osservazioni presentate da Mario Boneschi, pro­cede al seguente errata corrige: p. 201, la frase “attribuibile a Silvio Pelizzari, comandante della brigata Monte Suello” va soppressa o quanto meno ridotta a: “attribuibile a Silvio Pelizzari”; p. 416, i dati devono essere così corretti: Brigata Monte Suello. Dislocazione: Val Caffaro (Lago d’Idro). Comandanti: Mario Bordiga (Pippo) e, per le operazioni dell’aprile 1945, Giovanni Ferremi. Commissari politici: Mario Boneschi (Fabrizio) e, da settembre 1944, Stefano Zanetti (Lucrezio).

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IS T IT U T O N A Z IO N A L E P E R L A S T O R IA D E L M O V IM E N T O D I L IB E R A Z IO N E IN IT A L IA

G . Q u a z z a ,presidente-, F . D e lla P e r u ta e C . F r a n c o v ic h , vicepresidenti; S . P a s s e r a , segretario generale-,L . M . D e B er n a r d is , N . G a lle r a n o , M . G u a s c o , V . L o m b a r d i, G . M o r i , C . P a v o n e . G . R o c h a t, M . G . R o ss i, T . S a la , G . V a c c a r in o , A . V e n tu r a , consiglieri.

Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazio­ne in Italia - p. Duomo 14 - 20122 Milano - tei. 80.59.803Istituto per la storia della resistenza della provincia di Ales­sandria - via dei Guasco 49 - 15100 Alessandria - tei. 0131/44.38.61Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nelle Marche - via Villafranca 1 - 60100 Ancona - tei. 071/20.22.71Istituto storico della resistenza in Valle d’Aosta - via Xa­vier de Maistre 22- 11100 Aosta - tei. 0165/40.846Istituto provinciale per la storia del movimento di libera­zione nelle Marche - corso Mazzini 37 - 63100 Ascoli Pice­no - tei. 0736/54.597

Istituto per la storia della Resistenza in provincia di Asti - via Ottolenghi 8 -14100 Asti - tei. 0141/32.439Istituto storico bellunese della resistenza - palazzo Crepado- na, piazza Duomo, 37 - 32100 Belluno - tei. 0437/24.929Istituto bergamasco per la storia del movimento di libera­zione - via T. Tasso 4 - 24100 Bergamo - tei. 035/23.88.49 Istituto regionale per la storia della resistenza e della guerra di liberazione dell’Emilia Romagna - via Castiglione 25 - 40124 Bologna - tei. 051/23.06.69Istituto storico provinciale della resistenza - via Castiglione 25 - 40124 Bologna - tei. 051 /22.96.15Laboratorio nazionale per la didattica della storia - via Ca­stiglione 25 - 40124 Bologna - tei. 051/22.96.15-23.06.69Istituto per la storia della resistenza in provincia di Vercelli « Cino Moscatelli » - via Sesone 10 - 13011 Borgosesia (VerceUi) - tei. 0163/21.564Istituto storico della resistenza bresciana - via Gabriele Rosa 39-25100 Brescia - tei. 030/29.56.77Istituto sardo per la storia della resistenza e dell’autonomia via Lanusei 14 - 09100 Cagliari - tei. 070/65.88.23Istituto siciliano per la storia dell’Italia contemporanea - c /o Istituto di storia moderna, facoltà di lettere - piazza dell’Università - 95100 Catania - tei. 095/32.67.59Istituto comasco per la storia del movimento di liberazione - via XX Settembre 29 -22100 Como - tei. 031/27.55.11Istituto calabrese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea - via Montegrappa 66 - 87100 Cosenza - tei. 0984/75.468Istituto cremonese per la storia del movimento di liberazio­ne - via Porta Tintoria 2-26100 Cremona - tei 0372/25.463Istituto storico della resistenza in Cuneo e provincia - corso Nizza 17 -12100 Cuneo - tei. 0171/445Istituto storico della resistenza in Toscana - casella postale 745 - 50100 Firenze - tei. 055 / 28.42.96

Istituto storico provinciale della resistenza - via Cesare Albi- cini, 25 - Casa Saffi - 47100 Forlì - tei. 0543 / 432.700

Istituto storico della resistenza in Liguria - via Garibaldi 14, 3° p. -16124 Genova - tei. 010/20.98 int. 2247

Istituto storico della resistenza in Liguria - via Cascione 86 - 18100 Imperia - tei. 0183 / 65.07.55

Istituto abruzzese per la storia d’Italia dal fascismo alla resi­stenza - piazza S. Giusta, Pai. Centi - 67100 L’Aquila - tei. 0862/64.288

Istituto storico della resistenza « Pietro M. Beghi » - piazza Europa -19100 La Spezia - tei. 0187/31.351-34.551

Istituto storico provinciale lucchese della resistenza - piazza Napoleone 32-55100 Lucca - tei. 0583 /55.540

Istituto storico provinciale per la storia del movimento di li­berazione nelle Marche - via Barilatti 45 - 62100 Macerata - tei. 0733/42.51.07

Istituto provinciale per la storia del movimento di liberazio­ne nel Mantovano - piazza Sordello 43 - 46100 Mantova - tei. 0376/36.84.51

Istituto lombardo per la storia del movimento di liberazione in Italia - p. Duomo 14 - 20122 Milano - tei. 02/80.564.27

Istituto storico della resistenza in Modena e provincia - via C. Battisti 12 - 44100 Modena - tei. 059/21.94.42

Istituto campano per la storia della resistenza - via Carlo Poerio 8 9 /A - 80121 Napoli-tei. 081/40.38.80

Istituto per la storia della resistenza novarese - via Cavour 15 - 28100 Novara - tei. 0321/39.27.43

Istituto veneto per la storia della resistenza - Università - via 8 febbraio - 35100 Padova - tei. 049/65.14.00

Istituto storico della resistenza in provincia di Parma - via delle Asse 5 - 43100 Parma - tei. 0521 / 27.190

Istituto per la storia del movimento di liberazione nella pro­vincia di Pavia - Palazzo Centrale - Università 27100 Pavia - tei. 0382/32.234

Istituto storico della resistenza nel Pesarese - via Baviera 14 - 61100 Pesaro - tei. 0721/30.600

Istituto piacentino per la storia della resistenza - Palazzo Farnese - 29100 Piacenza-tei. 0523/22.911

Istituto storico provinciale della Resistenza - p. S. Leone 1 - 51100 Pistoia - tei. 0573 / 32.578

Istituto storico della resistenza apuana - p. del Comune - 54027 Pontremoli (Massa Carrara)

Consorzio per la gestione dell’istituto storico della resisten­za di Ravenna e provincia — via Mariani 5 - 48100 Ravenna tei. 0544/37.302

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Istituto storico della resistenza e della guerra di liberazione in provincia di Reggio Emilia - Piazza S. Giovanni 4 - 42100 Reggio Emilia - tei. 0522 / 37.327Istituto storico della resistenza del circondario di Rimini - via Gambalunga 27 - 47037 Rimini - tei. 0541/70.41.39 Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alia resi­stenza - Palazzina La Vignola - piazza di Porta Capena - 00184 Roma - tei. 06 /73.31.43Istituto milanese per la storia della resistenza e del movi­mento operaio - via B. Croce 83 - 20099 Sesto S. Giovanni (Milano) - tei. 02/24.23.266; 24.76.745Istituto sondriese per la storia del movimento di liberazione - p.za Garibaldi 28 - 23100 Sondrio - tei. 0342/21.23.33

Istituto storico della resistenza in Piemonte - via Fabro 6 - 10122 Torino - tei. 011 / 51.88.36Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza - via Fabro 6 -10122 Torino - tei 011 / 53.92.74 Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli e Venezia Giulia - via Imbriani 7 - 34122 Trieste - tei. 040 / 77.15.52Istituto friulano per la storia del movimento di liberazione c /o Civica Biblioteca « V. loppi » - piazza Marconi 8 - 33100Udine-tel. 0432 / 20.58.51Istituto varesino per la storia della resistenza e dell’Italia contemporanea - c /o Assessorato alla Cultura - via Speri della Chiesa 9-21100 Varese