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Contro la monotonia del negativo Conversazione di riscaldamento con Giovanni Orelli Giuliano Boraso | Oblique Studio 2011

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Contro la monotonia del negativoConversazione di riscaldamento con Giovanni Orelli

Giuliano Boraso | Oblique Studio 2011

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Contro la monotonia del negativoConversazione di riscaldamento con Giovanni Orelli

Giuliano Boraso © Oblique Studio 2011

In copertina: Aleksandr Deyneka, Goalkeeper (1934);Pag. 2: Paul Klee, Alphabet I (1938);

Pag. 6: Piet Mondrian, Albero grigio (1912);Pag. 7: Ferdinand Hodler, The Sick Valentine Godé-Darel (1914);

Alle pagg. 4 e 8: Giovanni Orelli durante la presentazione di Il sogno di Walacek a Libri Come 2011.

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Non ho mai perso una gara di puntualità. Appartengoa quella fastidiosa categoria di uomini ansiosi che ar-rivano con trenta minuti di anticipo a qualsiasi ap-puntamento, e poi aspettano. Ma con Giovanni Orelli– classe 1928, poeta, intellettuale e insegnante delCanton Ticino – ho perso.Quando raggiungo le grandi pagine di cartone che ac-colgono i visitatori di Libri Come 2011, la Festa dellibro e della lettura in programma all’AuditoriumParco della Musica di Roma, Orelli è già lì che miaspetta in compagnia della moglie e di Tomaso Cenci,l’editore di 66thand2nd. Tra poco più di un’ora è in programma la presenta-zione di Il sogno di Walacek, il vertiginoso romanzo diOrelli pubblicato per la prima volta da Einaudi nel1991, tradotto da Gallimard nel 1998 e rimandatooggi in stampa in una nuova edizione nella collanaAttese della casa editrice romana. Raggiungiamo il bar accanto alla biglietteria, occu-piamo un tavolino appartato e beviamo un caffè.Prima del fischio di inizio c’è tempo per una chiac-chierata di riscaldamento.

«Il primo giorno, il giorno dell’uscita del libro, è sempreil più bello. Dopo le soddisfazioni sono sempre inferiorialle attese. Arriva la disillusione». Professor Orelli, orache un nuovo «primo giorno», anche se un po’ partico-lare, è arrivato, conferma queste sue impressioni? Che ef-fetto le fa rivedere Il sogno di Walacek in libreria a ven-t’anni di distanza dalla prima edizione e per merito diuna giovanissima casa editrice?Provo del puro piacere. Non so quanta percentualeci sia di vanità in questo, d’altronde tutti gli scrittorihanno un quoziente di vanità che non necessaria-mente va interpretato come un male, altrimenti nep-pure si scriverebbe. Non oso dire che questo mioquarto romanzo lo abbia scritto solo per me, dopouna certa disillusione per i primi tre. Ma se non pro-prio per me, l’ho scritto per un alter ego di me. Equindi con un certo piacere particolare, dovuto unpo’ anche all’insonnia. Quando non riuscivo a pren-dere sonno inventavo le squadre di football presentinel romanzo – quelle di diavoli, angeli, padri dellachiesa, intellettuali, pittori e via dicendo – e mi di-vertivo. Così come mi divertivo quando, ripetendo

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con la memoria certi nomi di calciatori del passato,si innescava un discorso privato legato alla mia pro-fessione di insegnante, legato all’insegnamento dellametrica italiana, della prosodia e dell’accentazione deiversi. A me piace, per esempio, il ritmo quattro, otto,dieci dell’endecasillabo: «Mi stringerà, per un pen-siero, il cuore», Umberto Saba. Ma potrei citareDante, già dal secondo verso: «Mi ritrovai per unaselva oscura». E mi sono detto: «Perché no Baciga-lupo, Ballarìn, Maroso», il pacchetto difensivo dellanazionale italiana e del Grande Torino.

Già da queste sue prime parole si comprende quanto ilpoeta Orelli non possa essere scisso dal prosatore Orelli.Anche la sua carriera di romanziere è fortemente influen-zata dalla poesia.Il gusto della poesia, sì, appartiene a tutta la mia pro-duzione letteraria. Quando ho inventato quella squadracomposta da tutti i personaggi della Bibbia – Amalec,

Abacuc, Melchisedec, Enoc e poi salta fuori anche Wa-lacek – l’ultimo, lasciato in fondo come ala sinistra, èEnoc, e l’altro personaggio dice «eh no, c…» che è l’ab-breviazione di «eh no, cazzo!», espressione che unoscrittore mette in tutte le pagine di un suo libro, e cheio invece ho messo con ancora la c puntata, con un pu-dore incredibile per cui sarò venerato non so da chi.Oppure l’Ariosto, l’Ariosto più mondrianesco, astratto,e i suoi versi di numeri – a dieci, a venti, a quattro, asette, a otto – e i suoi eroi – Otone, Avolio, Berlin-ghiero, Avinio. Sono queste le cose che mi divertono, igiochi di nomi. Ho fatto per quarant’anni l’insegnantedi liceo e ai miei ragazzi ho sempre ripetuto questa frasedi un poeta inglese di cui neanche ricordo più il nome:«Chi ritiene che l’elenco delle navi in Omero non siapoesia, non si intende di poesia».

Non si dovrebbe mai chiedere a un autore – soprattuttose poeta – come sia arrivato a concepire la struttura dellapropria opera. Ma Il sogno di Walacek ha una archi-tettura così eccentrica che la tentazione è troppo forte. Il sogno di Walacek è nato e si è sviluppato per conti-nue associazioni di idee. Degli altri libri no, ma diquesto potrei dire con esattezza il giorno e l’ora in cuiè nato. Una mattina, prima di partecipare a un’assem-blea della commissione dell’Unesco in programma aBerna, andai a visitare il museo (allora provvisorio) diPaul Klee vicino alla stazione. In un angolo era ecce-zionalmente esposto quel quadro, Alphabet I, un qua-dro minore di Klee, anche se consiglio sempre moltaprudenza quando si intende maneggiare l’aggettivo«minore». Quando lo vidi pensai subito al fatto cheKlee si era comportato come una perfetta massaia che,quando deve sbucciare le patate, non sceglie la paginadei necrologi, perché le sembrerebbe di compiere unatto irriverente nei confronti di chi è appena passatoa miglior vita. Ma sceglie la pagina dello sport, perchécon lo sport – nonostante sia la religione del nostrotempo – tutto sommato non si offende nessuno. Equindi Klee, credo volutamente, aveva anche lui sceltolo sport. E guardando bene la pagina, sotto le pennel-late dell’artista si potevano vedere le squadre e i nomidei calciatori. Lì, in quel momento, è nata l’idea del

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Sogno di Walacek, che poi si è concretizzata attraversouna continua serie di associazioni di idee. Io sareiquasi tentato di definire questo libro non un ro-manzo, non un diario, ma quasi una enciclopedia,un’enciclopedia della memoria legata al luogo del-l’osteria in cui tutto si svolge. Ora dico una cosa unpo’ delicata, spero di non essere frainteso. Evoco ilnome di Dante, l’autore più grande del mondo, di cuiho sempre cercato di nutrirmi. La Divina Commediain un certo senso è una gigantesca enciclopedia. E mipiace pensare che anche il mio Walacek sia una speciedi enciclopedia, certo minore, ma con dentro molteidee che si associano l’una con l’altra, alcune in modocongruo, altre magari in modo più arbitrario.

Infatti a proposito del suo romanzo si è spesso parlato diaccumulo, vertigine……e proprio questo era il rischio più grande che hocorso, il rischio di mettere troppe cose, oppure talunenon pertinenti. Questo era il pericolo. Certe volte can-cellare è molto più utile che aggiungere. Pensiamo, peresempio, al racconto di Kafka Il messaggio dell’impera-tore: una mezza pagina sublime, spaventosamente fol-gorante. Ma in questo espediente dell’accumulo, dellalibera associazione ho intravisto anche un lato positivo,divertente, imparato ovviamente da Dante, ovvero lapossibilità di far convivere i personaggi stravolgendoqualsiasi categoria di spazio e tempo. Accennavo primaall’osteria, il luogo in cui si intrattiene il gruppo di av-ventori che si interroga sul significato della O tracciatada Paul Klee sulla pagina sportiva della National Zei-tung. Ebbene, i miei genitori avevano davvero un’oste-ria, ed è stata proprio quella osteria la mia prima uni-versità popolare perché in casa non avevamo libri,nemmeno la Bibbia, nemmeno I promessi sposi o la Di-vina Commedia. Ma avevo appunto i maestri occasio-nali dell’osteria, ed è lì, grazie a loro, che venivo a co-noscenza di quel che succedeva nel mondo. Hocompiuto la mia prima formazione grazie a uominiche conservo ancora nel cuore, come quel falegnameche poi compare anche nel romanzo, tra i più grandiconoscitori di Dante che abbia mai incontrato, e dallecui labbra pendevo perché mi raccontava cose appa-

rentemente fantastiche, di omicidi e cose del genere,perché lui era emigrato in America e aveva importatoun’esperienza di vita notevole. E io lo faccio riviverenel romanzo, e convivere con Arthur Schopenhauer,con Bertrand Russell. È proprio qui l’elemento arbi-trario, enciclopedico: far convivere cose della mia espe-rienza quotidiana con i grandi maestri della mia for-mazione. Correndo vari rischi, primo tra tutti quellodi disorientare il lettore, oppure di infastidirlo propo-nendo alla sua attenzione una materia troppo privata.Era questa la difficoltà maggiore da superare.

E che viene superata nel momento in cui il lettore, dentroquesta materia privata, riconosce un senso del tragico uni-versale che, a mio parere, è la trave portante di tutto illibro. Nonostante le pagine intessute di ironia, diverti-mento, lievità questo è, a tutti gli effetti, un libro tragico.Nonostante il sogno liberatorio di Walacek, che scatta inavanti senza «guardare quanto di terribile lo insegue».

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Non c’è dubbio che sia così. Già la scelta di mettereal centro del romanzo, tra gli altri, un personaggiocome Schopenhauer, il cui pessimismo ironico è a memolto caro, la dice lunga su quanto io sia d’accordocon la chiave di lettura proposta. Il fondo della vitaumana è piuttosto tragico, e la vecchiaia lo è ancoradi più. Ma non volevo radicalizzare fino alla fine que-sta forma di pessimismo. Tant’è vero che quando rac-conto il sogno di Walacek, quando lo faccio ritornarea Ginevra da Berna dove ha partecipato a una riu-nione di vecchie glorie del calcio svizzero, lì nel finaleho avuto il ricordo del canto XV dell’Inferno, il cantodi Brunetto Latini. Qui più che al calcio bisogne-rebbe fare riferimento al ciclismo. Immaginiamo unaParigi-Roubaix, un plotone di sei-sette corridori infuga, più indietro, a due minuti o tre, un altro plo-tone di inseguitori e tra i due gruppi un ciclista soli-tario. E io mi domando: è uno che è stato staccatodal primo plotone, quello dei fuggitivi, o è uno chesi è staccato dal secondo plotone, quello degli inse-guitori? E associo quel ciclista solitario a Brunetto

Latini, il peccatore, che «poi si rivolse e parve di col-oro / che corrono a Verona il drappo verde / per lacampagna. E parve di costoro / quelli che vince noncolui che perde». Ho voluto un finale ottimistico perquesto romanzo, l’ho programmato. E l’ho reso at-traverso il sogno finale di Walacek e attraverso un es-pediente parodistico, affidandolo cioè alla parole diun teologo del Seicento che parla della grazia. Hopreso in prestito, anzi ho letteralmente rubato le sueparole ma anziché applicarle alla grazia divina, allateologia, le ho applicate alla grazia del calcio. Per unapercentuale minima sono debitore anche a CarmeloBene. Una volta, e si parlava di letteratura, disse:«Sapete qual è il miglior stilista d’Italia?». E io avreirisposto Gadda, Manganelli, o qualche altro nome.Mentre lui rispose: «È Falcao». E io pensavo: «Ha ra-gione, santo cielo!». Sarebbe d’accordo probabil-mente anche Guicciardini, scrittore che io ammiro,vergognosamente trascurato dalla scuola. Nel suosogno, Walacek gioca la partita più bella del mondoe vince. E quindi un moralista potrebbe anche

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sostenere che il mio romanzo si conclude con il mes-saggio che «il mondo sarà salvato dalla grazia e dallabellezza».

Eppure, e torniamo a essere pessimisti, il messaggio difondo del romanzo sembra essere l’esatto opposto. Difronte al 1938, all’orrore del nazismo, alla brutalitàdell’uomo il bello sembra soccombere, impotente. Leiprima ha accennato a un finale ottimistico program-mato, voluto. Significa che se avesse dato ascolto a sé stessoprobabilmente quel finale sarebbe stato di altra natura?Avevo paura di una monotonia del negativo. E quindiho inserito questo barlume di speranza che è co-munque legato a un sogno, a un’utopia. E non è uncaso che il romanzo si intitoli Il sogno di Walacek, nonLa realtà di Walacek. Il 1938 è stato uno degli annipiù orribili nella storia dell’umanità. In quel periodoHitler stava vincendo e gli utopisti erano in cella. E icapi di governo che fronteggiavano l’avanzata delnazismo non erano certo utopisti, ma gente di «lacrimee sangue» come Churchill. Nel 1938 il quadro storicoè totalmente negativo. Vede, io sono cresciuto in una

famiglia molto cattolica, sapevo la messa in latino amemoria, la so ancora quasi adesso. Ma crescendosono entrato in una crisi di fede totale, quella fede ècrollata, insieme al mito della resurrezione e a tutto ilresto. Mi viene in mente Pirandello, quando si mettedietro il deretano gigantesco del cavallo di Marco Au-relio e grida: «Beato te, che l’hai di bronzo». O il Fos-colo, o tutti questi giganti che la fede l’hanno persa.Rimane un fondo di negatività, di pessimismo, sulquale però non si può nemmeno indulgere troppo, inmaniera ripetitiva, monotona.

Mi è giunta voce che sta ultimando il suo nuovo ro-manzo a cui sta lavorando da una ventina d’anni. Celo conferma?Sì, confermo. Ci sto lavorando da una ventina d’anni,l’ho preso e abbandonato più volte, ora proverò a river-sarlo sul computer, di cui sono un dilettante alle primearmi. Il romanzo probabilmente si intitolerà Il fascinodella Madonna e il tema è quello della cattolicità, omeglio del crollo della fede. Il libro prende spunto daun episodio storico: nell’immediato dopoguerra i preti

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portarono in pellegrinaggio una statua della Madonnaper tutto il Canton Ticino con l’intento di evangeliz-zare la popolazione. Una cosa simile a quella che inItalia fu fatta da padre Lombardi, mi pare che si chia-masse così. Una azione di pura pro paganda cattolica.Io mi metto nei panni di un prete che vive nell’ultimopaese visitato dalla statua, e che deve organizzare unagrande festa per celebrare la conclusione del pellegri-naggio. Ma la festa, ahimè, sarà rovinata da un terribiletemporale che spazzerà via tutto. D’altronde, siamopur sempre in montagna.

Un quadro di Klee è al centro del suo romanzo e quindisempre al «pittore degenere» mi sembra giusto tornare perconcludere questa chiacchierata. Nei suoi Diari Paul Kleescrive: «Più il mondo si fa terribile, più l’arte si fa astratta;un mondo felice provocherebbe arte immanente».Devo tornare ancora ai classici, al miracolo continuodi Dante, o ancora alle battaglie narrate dall’Ariostopiù mondrianesco, che tanto hanno sempre divertito imiei ragazzi in aula con tutte quelle teste e quelle brac-cia che volano per aria. Non mi riferisco a Mondrianperché amo particolarmente questo pittore. A me piacedi più Picasso, piace di più Cézanne. Sono questi i pit-tori della modernità che prediligo. Ma non c’è dubbio

che le parole di Klee colgano nel segno, che la sua fuganell’astrazione sia ampiamente da comprendere. Perlui l’astrazione era il dolore nei confronti del mondoche lo costringeva a essere così, che lo costringeva adipingere un albero astratto senza più le sue belle foglieche nascono in primavera. È il senso tragico del mondoche porta all’astrazione, è indubbio, non si può nonapprovare una considerazione come quella di Klee. Unaltro pittore che potrebbe esserci d’aiuto è un artistasvizzero, Ferdinand Hodler, che ritrasse giorno dopogiorno il volto della sua compagna, Valentine Godé-Dorel, malata di cancro, il volto sempre più magro,sempre più scavato, il naso come il becco di un rapace.A mano a mano che la malattia compie il suo crudelecorso, la sua Valentine diventa sempre più astratta, de-forme, orribile. I tratti del suo viso quasi non si distin-guono più. Qualche tempo dopo la morte di Valen-tine, Hodler dipinge un altro suo ritratto, ma questavolta è un ritratto a tutto tondo, nitido, realistico, senzapiù quell’astrazione dettata dall’avanzare della morte.È il sogno di Hodler, è la pace ritrovata dopo la mortedella persona amata, dopo la fine del dolore. Ma allorain questo caso i morti sono più vivi dei vivi, è il vivo ilmorente. In questo senso il morto è colui che vince, enon colui che perde.

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