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Collana di Filosofia Politica a cura di Giuseppe Duso

Punto focale della collana è l’esercizio della filosofia politica, inte-sa insieme come tentativo di comprensione del reale e di orienta-mento della prassi. A tale scopo appare indispensabile interrogare criticamente i concetti e i valori con i quali comunemente si pensa la politica, per verificare se in essi non si manifestino presupposti ingiustificati o addirittura vere e proprie contraddizioni. Egualmen-te essenziale si mostra l’attraversamento della lezione dei classici, che ci parlano al di là di pur consolidate linee interpretative. L’attenzione alla politica e alle concezioni politiche non può essere disgiunta dalla riflessione sulla struttura speculativa del pensiero e sull’incrocio tra la ricerca filosofica e la molteplicità dei saperi, nel-le loro specificità e trasformazioni. Questo intreccio caratterizza i lavori di filosofia politica della collana e motiva l’apertura a contri-buti più specificamente teoretici, per quanto riguarda non solo il ta-glio, ma anche il contenuto. È da un lavoro complessivo di tale ge-nere che possono emergere categorie nuove, o nuovamente pensate, attraverso le quali porre il problema politico alla luce della origina-ria questione della giustizia e rischiare di indicare punti di riferi-mento nella complessità del nostro presente.

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LA COSTITUZIONE E

IL PROBLEMA DELLA PLURALITÀ

a cura di

Mario Bertolissi Giuseppe Duso

Antonino Scalone

Polimetrica International Scientific Publisher

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2008 Polimetrica ® S.a.s. Corso Milano, 26 20052 Monza – Milano Tel./Fax ++39.039.2301829 Web site: www.polimetrica.com ISBN 978-88-7699-119-6 Edizione stampata ISBN 978-88-7699-120-2 Edizione elettronica L’edizione a stampa dell’opera è protetta dalle ordinarie norme del copyright; l’edizione elettronica, se disponibile on line sul sito dell’Editore - www.polimetrica.com - viene diffusa secondo le regole e la licenza che l’Editore riporta sul proprio sito e sulla stessa edizione elettronica. Immagine di copertina: xxxxxxxxx xxxxxxxxxxxx (xxxxxxxx) Stampato presso DigitalPrint Service srl – Segrate (MI) Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Padova fondi di ricerca PRIN MIUR 2006

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Sommario

Ripensare la costituzione? La questione della pluralità politica .......... 9 Mario Bertolissi, Giuseppe Duso

Il modello della costituzione statale e i suoi punti critici .................... 21 Hasso Hofmann

La forma politica europea...................................................................... 29 Maurizio Fioravanti

Stati nazionali, democrazia e costituzione europea ............................. 43 Agostino Carrino

La souveraineté comme principe d’imputation ................................... 61 Michel Troper

Tra costituzione e costituzionalismo (costituito e costituente). Appunti sul mutamento costituzionale (ricostituente)......................... 79 Pierangelo Schiera

Défis et déficit démocratique: les revendications de légitimité ........... 93 Lucien Jaume

La separazione dei poteri in J. Madison e A. Hamilton. Un capitolo di storia della teoria costituzionale: dalla ständische Verfassung allo Stato costituzionale di diritto .................................... 109 Pasquale Pasquino

Democrazia rappresentativa, partiti, organizzazioni d’interesse ..... 127 Antonino Scalone

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Sommario 8

Le lobbies della coscienza. Le ragioni e gli obiettivi politici delle formazioni religiose ..................................................................... 145 Andrea Pin

Rappresentanza e partecipazione tra costituzione formale e costituzione materiale. Appunti per una antropologia delle pratiche di democrazia ......................................................................... 159 Giuseppe Gangemi

Oltre il nesso sovranità-rappresentanza: un federalismo senza Stato?........................................................................................... 183 Giuseppe Duso

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 9-19 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

Ripensare la costituzione? La questione della pluralità politica Mario Bertolissi e Giuseppe Duso

Se si riflette oggi sullo Stato e sulla costituzione come modalità della sua regolazione giuridica, e si ricorda il significato che questi due termini hanno assunto in quel momento decisivo dell’epoca moderna rappresentato dalla Rivoluzione francese, si può avere l’impressione che ci si trovi di fronte a mutamenti così grandi da determinare quasi una soglia epocale, nella quale i due termini as-sumono significati nuovi e assai diversi da quelli che classicamente hanno avuto nella dottrina. Si possono a questo proposito ricordare innanzitutto le trasformazioni che spingono anche alcuni costituzio-nalisti a parlare di un processo di “decostituzionalizzazione”. Con questo termine si può da una parte alludere alla perdita progressiva di capacità che la costituzione dimostra nei confronti di un compito che nella sua forma di carta costituzionale era apparsa come fondamentale: quello di costituire un assetto di norme fondamentali in grado di guidare la produzione del diritto nelle sue molteplici espressioni all’interno dello Stato. Anche se il passaggio attraverso la sovranità dello Stato sembra ancora rilevante affinché le norme giuridiche abbiano carattere vincolante, è lo stesso presentarsi dello Stato come unica fonte del diritto ad apparire in crisi. Questo anche a causa di quei processi economici di quella produzione di diritto che hanno ormai una dimensione mondiale e non possono essere diretti e controllati dai singoli Stati. D’altra parte la costituzione non sembra più in grado di dare strumenti di comprensione per intendere la concreta realtà e la funzione effettiva che vengono ad assumere anche quegli istituti e quelle procedure che essa pure pone e descrive. In questo quadro risulta scossa e messa in dubbio quella indipendenza del soggetto collettivo – che sta a monte e a valle della

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costituzione, nella forma del potere costituente e potere costituito – che è stata determinante per il significato della forma dello Stato nazionale e per la legittimità del monopolio del potere.

Una tale situazione consente un’occasione felice per il pensiero, se ci si libera dalla pigrizia intellettuale che è consueta e spesso prevalente all’interno non solo del dibattito politico, ma anche dei diversi saperi che alla costituzione fanno capo. Quella cioè di pensare la forma Stato e la costituzione immediatamente come realtà, o come dimensioni che si basano su concetti che hanno un valore universale. Un tale atteggiamento non ha più la capacità di interrogarsi sui presupposti di fondo del suo ragionare ed è destinato a ridurre la propria comprensione della realtà alla dimensione del proprio orizzonte concettuale. Di contro, sembra necessario un atteggiamento storico che, proprio nel momento in cui si libera da uno storicismo acritico – abbia questo la veste del relativismo in relazione a ciò che accade, oppure del carattere progressivo dello sviluppo storico in quanto tale –, sappia riflettere sulla genesi della forma politica moderna e della stessa costituzione, sui presupposti razionali che la hanno resa possibile e sugli eventuali problemi che si determinano nel rapporto tra questi presupposti e la realtà che la costituzione si propone di ordinare. La costituzione e il diritto costituzionale vengono così a perdere la loro assolutezza e si è obbligati ad una riflessione che abbia capacità innovative e sappia confrontarsi con la realtà presente. L’occasione per il pensiero è particolarmente felice se non ci si limita a registrare i fatti e i mutamenti ma ci si confronta con il problema in modo radicale. È allora anche una riflessione di tipo storico-concettuale che appare necessaria, in relazione ai concetti fondamentali della costituzione e al rapporto che questi vengono ad avere con le procedure. Una ana-lisi di questo tipo appare inevitabile se ci si domanda se la crisi che lo Stato e lo strumento costituzionale sembrano vivere dipenda da situazioni contingenti o da deviazioni che si possono correggere, o non sia invece indice di difficoltà e di aporie intrinseche a quei concetti fondamentali che hanno pur consentito il superamento di realtà cristallizzate di potere e di privilegi quali erano proprie di una realtà politica precedente l’epoca delle costituzioni degli ultimi due secoli. Una riflessione sulla costituzione che abbia una tale ampiezza non è riducibile all’interno di un ambito disciplinare, ma sembra

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essere tanto più proficua, quanto più si riesce a superare una tale unilateralità. Che una tale riflessione sia necessaria si evince anche dalle considerazioni di chi da tempo ha cercato in modo autorevole di delineare l’arco storico in cui si inscrive la vicenda costituzionale, che ha avuto una sua genesi una sua funzione e sembra oggi in una condizione di crisi o di radicale trasformazione1.

Nel seminario che è stato organizzato presso l’Università di Padova nei giorni 15-17 marzo 2007 ad opera del Centro Interuni-versitario di Ricerca sul Lessico Politico e Giuridico Europeo e dalla cattedra di Diritto costituzionale si è pensato di scegliere un angolo di visuale che sembra particolarmente fruttuoso per affrontare queste tematiche: quello che si interroga sulla capacità che la costituzione ha – nel momento in cui si rimanga ancorati al concetto e alla funzione che essa ha avuto nell’ambito della realtà dello stato nazionale – di comprendere e di dare spazio ad una pluralità di soggetti politici; e questo sia in relazione ai concetti che costituiscono la sua base, sia alle procedure a cui dà luogo. Il problema non è tanto quello del pluralismo delle opinioni e delle idee. Questo ovviamente è presente, anzi si può dire che è il presupposto stesso di quell’unità del potere che caratterizza la forma politica moderna e quel soggetto collettivo unico cui compete la sovranità. E non è nemmeno quello di un pluralismo sociale, secondo il quale singoli e associazioni, in modo diverso si incontrano, commerciano e perseguono i loro scopi: anche in questo caso questo non è che l’altro lato della costruzione di un potere comune unico, il lato che giustifica quest’ultimo e la sua funzione di garanzia. Ciò che appare difficile, sul fondamento di quel modo moderno di intendere la politica che ha dato luogo alla dottrina dello Stato, è invece pensare ad una pluralità di soggetti politici che, pur all’interno di una realtà comune, permangano nella loro differenza e abbiano una dimensione politica.

Questo problema si pone oggi con urgenza. Innanzitutto, con una particolare evidenza, nei processi che caratterizzano la nascita e il consolidarsi dell’Unione Europea. In questa infatti i membri che ad essa danno luogo non intendono scomparire, come succederebbe

1 Cfr. H. Hofmann, Vom Wesen der Verfassung, Humboldt-Universität, Berlin 2002, e Id., Riflessioni sull’origine, lo sviluppo e la crisi del concetto di Costituzione, in Sulla storia dei concetti politici e giuridici della costituzione dell’Europa, a cura di S. Chignola e G. Duso, Franco Angeli, Milano 2005.

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se la costituzione europea fosse intesa nel modo in cui lo strumento costituzionale è stato inteso nell’epoca moderna, soprattutto a partire dalle rivoluzioni francese e americana (anche se è da riflettere sulla differenza indicata nel saggio di Maurizio Fioravanti presente in questo volume). Difficilmente l’Europa può essere pensata come una realtà politica se si resta condizionati dal concetto di sovranità, che costituisce il centro dei quel modo moderno di pensare la politica che ha trovato il suo esito nella forma Stato. Se infatti viene concepita come nuova unità, con la capacità decisionale e con la forza che caratterizzano la sovranità, si perde la consistenza politica dei membri che la hanno costituita; ma d’altra parte, se questi continuano ad essere pensati mediante l’autonomia e l’indipendenza tipica degli Stati nazionali, l’Europa può essere il terreno solo di un momentaneo accordo, che non riesce a tradursi in una vera nuova realtà politica. Si resta così all’interno del famoso dilemma di Calhoun, che appare, nell’ambito di questo contesto concettuale, insolubile2.

Ma il problema della pluralità si pone con forza anche in relazione alla attuale forma statale. Nuovi soggetti e forme di aggregazione si esprimono infatti chiedendo il loro riconoscimento e pretendendo una loro rilevanza nella produzione di diritto e di decisioni riguardanti l’intero statale. E ciò sulla base di un principio che sembra proprio della forma democratica, secondo il quale i cittadini dovrebbero contare per le decisioni politiche in una linea di tendenza che riduce l’eterogeneità del comando politico fino a toglierlo. Se si è tuttavia consapevoli della logica propria della forma politica moderna, si capisce bene che un tale principio non trova la sua attuazione nella forma democratica e che l’immagine che da esso discende – che in democrazia sono i cittadini ad essere sovrani – manca della consapevolezza della logica che in essa deve legare in modo indissolubile l’unicità del potere comune con la

2 È di questi giorni la stipulazione del trattato di Lisbona, che sembra avere liquidato, almeno per il momento la ricerca di una vera e propria costituzione, ritornando ad un immaginario in cui sono gli Stati ad essere sovrani e questa loro autonomia politica sarebbe sancita dalla stessa forma del trattato che richiede appunto la realtà e la permanenza dei soggetti che stipulano il trattato. Ma il problema non è risolto in questo senso, perché non si tratta di un semplice accordo temporaneo, ma lo sforzo e la sfida dell’Unione europea è quella – su cui appunto in questo volume si vuole riflettere – di concepire e dare luogo ad una nuova realtà politica che mantenga la sua pluralità costituiva.

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libertà di tutti. In base a questo nesso costitutivo della costruzione teorica la connotazione della sovranità non può riguardare che il corpo collettivo inteso come uno e non certo i singoli che lo compongono in quanto tali. Solo il soggetto collettivo può essere sovrano e proprio per questo il meccanismo della rappresentanza, attraverso il quale i cittadini contribuiscono a fare la legge, ha come esito l’espressione di una volontà comune che non coincide con quella dei singoli e nemmeno, ovviamente, con la loro somma. Non è dunque la presenza di una pluralità di soggetti con una propria volontà politica che è pensabile nella costituzione, la cui funzione è non solo quella della limitazione, ma evidentemente anche, nonostante spesso lo si dimentichi, quella della produzione dell’unico potere a cui tutti sono soggetti. È una tale unità, pensata sulla base della libertà e uguaglianza dei singoli, che è riuscita a liquidare la rilevanza politica dei corpi intermedi con quella cristallizzazione di privilegi che caratterizzava l’ancien régime (su ciò anche il saggio di Hofmann del presente volume).

La riduzione del pluralismo all’ambito sociale come contrappunto ad una concezione del politico mediante la dimensione dell’unità è stato effetto di quella distinzione di società civile e Stato, che si è soliti intendere come ovvia e basata sulla realtà, ma che è stata invece il frutto di un processo di costruzione teorica che, pur avendo il suo nucleo genetico nelle dottrine che danno luogo alla concezione della sovranità, si è affermato nel passaggio tra Sette e Ottocento, e costituisce l’immaginario che sta alla base delle costituzioni. Come è stato giustamente notato, è questo immaginario a rendere la costituzione incapace di pensare una pluralità di soggetti politici3. Se ciò fosse vero è allora al di là di esso che bisogna andare per pensare la pluralità politica. È da notare che un tale immaginario sembra non reggere più da tempo, da quando cioè nell’ambito privato sono cresciute realtà che esercitano una loro forza nelle decisioni politiche e da quando lo Stato si è sempre più dovuto occupare di tutta una serie di realtà e di interessi che avrebbero dovuto essere intesi come privati. Esso sembra in crisi di fronte alla domanda di contare nelle decisioni politiche che pongono,

3 Cfr. D. Grimm, Die Zukunft der Verfassung, Suhrkamp, Frankfurt am M. 1991, pp. 431 (tr. parz. Il futuro della costituzione, in G. Zagrebelsky, PP. Portinaro, J. Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, Einaudi, Torino 1996, qui p. 157).

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a volte anche con forza e violenza, non tanto i singoli cittadini, ma piuttosto organizzazioni sociali da una parte e forme di soggettiva-zione spontanea dall’altra (si veda su ciò il saggio di Hofmann, ma anche quello di Jaume, contenuti in questo volume). Si può allora dire che il problema di pensare la pluralità politica si pone non solo ad un livello soprastatale come è quello dell’Europa, ma anche a quello del modo in cui è pensata e organizzata la forma stato. A questo proposito un compito che appare improrogabile sembra quello di non dare per scontato, ma invece di tornare ad interrogare quel nesso si sovranità del popolo e rappresentanza politica che costituisce il nodo centrale della costituzione e che è dominato dalla cifra dell’unità4.

Si pone allora la questione se sia necessario, e magari anche possibile, superare il concetto di sovranità. Nell’ambito del seminario che si è svolto e dei contributi di questo volume le opinioni non appaiono concordi, cosi come non appaiono concordi nell’esteso dibattito in corso a livello internazionale sull’Europa. C’è chi so-stiene che non è realistico, ma nemmeno auspicabile, andare oltre quella che appare come la conquista teorica e pratica che ha caratte-rizzato il grande edificio giuridico dello Stato moderno (saggio di Carrino). Si ricorda a questo proposito che il concetto di sovranità – potremmo dire nella sua ambivalenza di unico potere a cui tutti sono soggetti, ma anche che tutti hanno costituito – è stato indispensabile per giustificare l’obbligazione politica e che appare anche oggi necessario per intendere il comando e garantire l’ordine nella società. Non sarebbe tanto allora il concetto di sovranità ad essere obsoleto, quanto piuttosto quello di democrazia a cambiare, dal momento che il nesso di elezioni e corpo rappresentativo non appare

4 Una forte interrogazione su questo binomio e sull’unità che caratterizza la costitu-zione dello stato si ha nell’introduzione di Paolo Grossi ad un nuovo manuale di diritto costituzionale, che è apparsa come articolo (P. Grossi, Il costituzionalismo moderno tra mito e storia, “Giornale di storia costituzionale”, n. 11, I semestre 2006, ora anche in Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2007). Nello stesso saggio contro opinioni spesso comuni si mostra il legame che il costituzionalismo riguardante le costituzioni che si danno a partire dalle grandi rivoluzioni ha con quella sua matrice teorica che è il giusnaturalismo, il quale sta anche alla base dell’assolutismo giuridico, anche qui contro un dibattito comune che contrappone giusnaturalismo e assolutizzazione del diritto positivo. Ciò è bencomprensibile se si tiene presente che sono proprio le dottrine moderne del diritto naturale l’alveo in cui nasce il concetto moderno di sovranità con l’assolutezza che la caratterizza.

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più l’unico modo di espressione del popolo sovrano, ma tale ruolo sembra piuttosto essere assunto dalla stessa costituzione attraverso la mediazione del giudice costituzionale (Troper). In questa direzione, anche ai fini dell’intesa europea, non si tratterebbe di superare gli Stati, ma, al contrario, di ridare peso ad essi e alla legittimità democratica che essi garantirebbero in relazione ai rispettivi popoli (Carrino).

Molti sono però i contributi che si pongono in positivo il problema del superamento del concetto di sovranità. Un tale superamento sembra necessario se sembra insoddisfacente nei confronti della realtà politica dell’Europa sia la concezione che la intende come una nuova e più ampia attuazione della logica della sovranità, sia quella che resta ancorata alla sovranità degli Stati che la costituiscono. Perciò Fioravanti propone una nuova via, che si può esprimere attraverso l’immagine dell’elissi, nella quale i due fuochi sono indicativi di due centri decisionali, quello dei singoli stati e quello del potere centrale, nel quadro di una realtà di tipo federale. Una tale soluzione si richiama ad un modo di intendere la costituzione che non è quello del new beginning, secondo il quale essa nasce da un processo rivoluzionario connotato dall’unità, ma piuttosto quello appunto federalistico, di Madison, in cui si ha la confluenza e il convivere di stati diversi nella stessa unità. Al Federalist si richiama anche Pasquale Pasquino, per mostrare quale possa essere un modo di intendere la costituzione che sia compatibile con il pluralismo. In un contesto di questo tipo si sarebbe al di là del mito dell’assolutezza che caratterizza il potere costituente nella costituzione democratica e anche della forma di legittimazione che ha il suo tramite nella elezione. È significativo il ruolo rilevante che viene a svolgere in questo contesto il giudice della corte costituzionale, il cui ruolo fondamentale per la funzione della costituzione anche in relazione alle libertà dei cittadini non ha alla sua base la legittimazione democratica che si esprime nella elezione (sugli istituti non “democratici”, in quanto non basati sulla elezione, sempre più necessari alle democrazie contemporanee si è recentemente spesso soffermato nei suoi saggi Pasquino).

Che l’emergere di soggetti che richiedono non solo una loro visibilità, ma anche una effettiva e diretta partecipazione alle decisioni politiche esprima l’esigenza di una nuova legittimità

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emerge nell’intervento di Lucien Jaume, che tuttavia non la considera come una negazione di quella legittimazione democratica quale si manifesta nella forma consueta del nesso di elezioni e rappresentanza politica. Vecchia legittimazione e nuove richieste si intrecciano a volte anche in modo conflittuale in una vicenda che è aperta e può avere esiti diversi. Ma c’è anche chi (Duso) ravvisa nelle forme di rivendicazione che si sono andate moltiplicando un indice delle contraddizioni intrinseche del concetto e delle procedure della rappresentanza che caratterizza la legittimità democratica.

In ogni caso, in questa discussione l’assetto e la funzione della costituzione viene problematizzato. Appare necessario avere uno sguardo storico che non rimanga ingabbiato nella costellazione dei concetti che caratterizzano la forma politica moderna, perché altrimenti non si comprende la realtà che abbiamo di fronte. Con sempre maggior forza si presenta la necessità di abbracciare con lo sguardo quella realtà complessa che va dal cosiddetto medioevo alla prima età moderna, non tanto per trovare modelli con i quali comprendere il presente, ma per confrontarsi con realtà complesse e plurali che mostrano come la vicenda dello stato moderno come noi la pensiamo non sia eterna. È una vicenda storica che nella sua determinatezza può trovare evoluzioni che la superano. Non solo ma anche la lettura di questa stessa vicenda dello Stato moderno può essere compresa se non si resta all’interno della formalità dei concetti che la stessa dottrina dello Stato ha usato, se non si resta ingabbiati nella dogmatica della razionalità giuridica, assolutiz-zandola. Un tale atteggiamento è proprio di Schiera, che immette la costituzione in un campo di indagine che richiede una dimensione sia storica che sociale – si potrebbe dire di una storia sociale complessiva al modo della Verfassungsgeschichte tedesca. È un’ampiezza di visuale di questo tipo, riguardo sia all’arco storico, sia all’analisi della concreta realtà sociale ad apparire necessaria per impostare il problema del rapporto tra costituzione e pluralità politica. Ciò significa che per affrontare il problema della pluralità politica bisogna andare oltre la concettualità che caratterizza la vicenda dello Jus publicum europaeum da una parte e dell’ottica propria della dogmatica giuridica dall’altra.

Una tale direzione emerge a maggior ragione se i concetti che stanno alla base della concettualità politica moderna appaiono non

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solo particolari e propri di una vicenda storica, ma, oltre a ciò, anche affetti da interne contraddizioni (Duso). Essi infatti, nella loro logica e attraverso le procedure a cui danno luogo rischiano di impedire proprio quella vicinanza del cittadino al potere che tendono ad affermare. È nel nesso tra sovranità del popolo e rappresentanza, centrale della costituzione, che si annida la cifra dell’unità che do-mina la costituzione e che impedisce la concezione di una pluralità di soggetti politici. Ma il superamento della sovranità è possibile solo se si ripensano quei concetti che stanno alla base della teoria della sovranità: individuo, uguaglianza, libertà, diritti: non si tratta di una semplice negazione, ma del compito di un radicale ripensamento. Questo va nella direzione di una diversa concezione della politica, che non sia più incentrato sul binomio di libertà e potere, ma che tenti piuttosto di riflettere sul nesso di governo e pluralità politica. Una tale concezione, contro la negazione di una concezione contrat-tualistica della politica che è insita nelle dottrine moderne del contratto sociale, può essere definita come “federalistica”, a patto che non si basi sugli stessi concetti di base su cui si basa la dottrina dello stato. Non emergerebbe in questo modo un modello costituzionale, ma una direzione di trasformazione continua della costituzione, al di là dei miti che caratterizzano il potere costituente e i concetti della democrazia.

Che il superamento del concetto moderno di rappresentanza non costituisca un compito semplice, lo si può riscontrare nel saggio di Scalone, che, partendo dal dibattito tedesco degli anni Venti, che con Schmitt e Leibholz evidenzia come la rappresentanza moderna si risolva nella produzione dell’unità politica, segue le diverse vie dell’affermarsi della pluralità, attraverso i partiti e la rappresentanza di interessi sociali. tali vie sembrano non tanto scalzare, quanto piuttosto confermare il concetto di rappresentanza politica e la sua difficoltà di dare significato politico alla pluralità. Ciò mostra la forza del concetto moderno di rappresentanza e la difficoltà di superarla: per farlo bisogna andare oltre i concetti stessi che la sorreggono e per pensare in modo diverso la politica (federalisticamente?) bisogna allora riuscire a pensare in modo diverso la rappresentanza.

All’interno del problema che si è posto con questo seminario è utile tornare a riflettere sulle religioni e sulla loro presenza nella comunità politica (Andrea Pin). Sembra infatti debole e incapace di

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pensare la differenza e la pluralità quella posizione che lega insieme un relativismo in relazione alle fedi e alle colture, che le relega all’ambito privato per l’inserimento di tutti in una democrazia ba-sata sulla razionalità formale e sul dogma dell’unità. Ugualmente appare perdente una direzione che pensi le diverse identità come immutabili, chiuse in se stesse e intese come depositarie della verità. In quest’ottica ci sarebbe solo scontro tra diversi e non una unità composta di diversi: non ci sarebbe nessuna pluralità. Si tratta allora forse di trovare nella radice della propria identità le ragioni dell’accoglimento dell’altro, rendendo possibile quella condivisione che rende pensabile la coesistenza insieme di unità e pluralità. Un tentativo di pensare il nesso tra rappresentanza e partecipazione nell’ambito delle politiche concrete esistenti nella nostra democra-zia è quello di Giuseppe Gangemi, il quale cerca anche di fare comprendere le ragioni per le quali un pensatore federalista quale è ritenuto Elazar, ravvisi paradossalmente una manifestazione del federalismo nella recezione del pensiero di Hobbes, che pur rappresenta l’inizio di quella vicenda concettuale che lega insieme i concetti di sovranità e rappresentanza, in modo da rendere impen-sabile la pluralità e quel modo federalistico di pensare che era bene espresso da dottrine politiche che si pongono tra Cinque e Seicento, in particolare quelle dei monarcomachi e di Althusius.

Come esito di una tale riflessione corale, ci si può forse arrischiare di dire – anche se questa è una direzione che non sarebbe condivisa da tutti coloro che a tale riflessione hanno partecipato – che per pensare la pluralità bisogna riuscire a ripensare la costituzione nella sua essenza e nella sua funzione5, come pure i concetti e i valori che ne costituiscono il fondamento. E questo non tanto nella direzione della costruzione di modelli alternativi, che dovrebbero di per sé fornire la soluzione dei problemi, e nemmeno della posizione di principi normativi, che si pongono nell’ambito del dover essere, né della invenzione di un disegno di carattere utopico. Si tratta piuttosto di comprendere la realtà. Già ora, come si è detto, la realtà dei processi è altra da quella descritta dalla costituzione: le decisioni politiche non hanno come loro sede i luoghi deputati dalla costituzione, che mostrerebbero la sovranità del popolo e l’uguale influenza da parte della volontà di tutti i cittadini. Sono gruppi, 5 Come risulta dal saggio di Hofmann sull’essenza della costituzione sopra citato.

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lobbies, aggregazioni, interessi sociali che si intrecciano in modo spesso opaco nel determinare la conduzione dei processi. Ma si badi bene che pensare la realtà non significa adeguarsi ai modi di com-portamento empiricamente rilevabili. Comprendere tutto ciò è il contrario che sancire il modo in cui tutto ciò funziona: si tratta invece di capire che non è il singolo nel suo isolamento, come è pensato nelle elezioni a poter contare politicamente, ma si tratta anche si non permettere, come avviene sulla base dell’immaginario della distinzione di società civile e stato, che i soggetti diversi siano legittimati alla semplice espressione dei loro interessi e dell’esercizio della loro forza e capacità di influenza (in un’ottica nella quale sarebbe poi l’intervento della politica a dover salvaguardare i diritti e affermare l’uguaglianza esigita dalla democrazia). Le varie forme di raggruppamento sociale, in un pensiero della realtà che superi la distinzione immaginata di società civile e Stato, devono essere responsabilizzate politicamente ed essere dunque intese in modo costituzionale, come cioè parti di un intero politico. La loro presenza politica non consiste solo e non tanto nell’espressione di bisogni e interessi (i quali devono per altro emergere ed essere mediati politicamente), ma nel contributo che essi devono dare per risolvere con gli altri i problemi comuni. Questo comporta anche il riproporsi del problema di cosa sia il comune in cui i diversi si ritrovano e quali siano le linee in cui orientarsi. In ogni caso quello del riconoscimento della pluralità emerge come un problema che impone di ripensare il tema della costituzione.

Mario Bertolissi – Giuseppe Duso

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 21-28 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

Il modello della costituzione statale e i suoi punti critici Hasso Hofmann

I

La costituzione nella forma di una legge, secondo il modello che si è formato a partire dalle rivoluzioni XVIII secolo, è l’ordinamento giuridico fondamentale dello Stato. Ciò significa – riassunto in sei punti – quanto segue. 1. La costituzione stabilisce per gli uomini di un determinato territorio un sistema esclusivo di produzione del diritto. In questo ambito, quindi, degli atti possono rivendicare carattere giuridico vincolante solo se in ultima istanza sono autorizzati da questa costi-tuzione. Un’autorizzazione diretta di questo tipo si ritrova negli organi statali, quando esercitano le loro competenze costituzionali, o nei cittadini, quando fanno uso dei loro diritti fondamentali.

Per lo più, tuttavia, l’autorizzazione costituzionale nei confronti di atti e della pretesa che da questi derivi un’obbligazione – siano essi comandi che devono essere eseguiti o disposizioni che devono essere osservate, o azioni che devono essere subite – è fornita attraverso un sistema di regole giuridiche più o meno complicato e spesso articolato in più parti. Sempre, tuttavia, dev’essere possibile basare in ultima analisi il giudizio di legalità sull’accertamento della conciliabilità formale e contenutistica con la costituzione.

Se la pretesa alla legalità e con ciò al carattere vincolante di un’azione viene basata su una fonte giuridica esterna alla costitu-zione, allora dev’essere mostrato che la costituzione ha disposto o per lo meno ammesso l’utilizzo di un diritto “esterno al sistema”. Fino a questo punto “sovranità dello Stato” – dal punto di vista del diritto

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pubblico – significa, così come sovranità, l’esclusivo essere-supremo della costituzione dello Stato. Hans Kelsen ha mostrato questo fatto già ottant’anni fa. Oggi è evidente che il modello di costituzione dello Stato è entrato in crisi, giacché il processo di unificazione europea, con la pretesa superiorità del diritto comunitario sul diritto nazionale e in particolare col richiamo ad una costituzione europea, intacca la sovranità degli ordinamenti giuridici nazionali. La mia opinione è che questo processo sia ancora in bilico, quindi non ancora deciso nel senso di una sovranità del diritto comunitario. Concretamente: non è ancora deciso se, in caso di conflitto fra i due ordinamenti giuridici, abbia l’ultima parola la corte europea di giustizia o la corte costituzionale federale. 2. La struttura dello Stato costituzionale si complica attraverso quello che si chiama “federalismo” o, meglio dal punto di vista tedesco, forma di Stato federale. Originariamente con ciò si pensava ad uno strumento che servisse a integrare Stati autonomi con propria individualità in uno Stato complessivo o ad evitare la dissoluzione di uno Stato attraverso il decentramento. Nello Stato tedesco pienamente unificato questi punti di vista tuttavia non hanno più alcun ruolo. La costruzione federale ha qui altre funzioni: essa rafforza la democrazia attraverso accrescimento e maggiore prossimità materiale (grössere Sachnähe) del processo democratico di decisione, attraverso inclusione dell’opposizione nella direzione politica e allentamento dell’ordinamento interno dei partiti. La costruzione federale moltiplica inoltre la separazione dei poteri che assicura la libertà. Oltre a ciò crea la possibilità che le entità regio-nali (i Länder) partecipino all’esercizio del potere statale dello Stato complessivo. A tal fine opera il senato federale (Bundesrat). Esso è costituito dai rappresentanti dei Länder, ma assolve a compiti generali come un organo dello Stato complessivo. Tuttavia i membri sono responsabili solo nei confronti dei loro Land d’origine, i cui interessi particolari essi rappresentano (vertreten), e, per contro, non lo sono nei confronti di alcun organo della federazione (Bund) per la quale prendono le decisioni. Complessivamente, Konrad Hesse parla perciò di una “incongruenza fra principio, condizioni moderne e modalità di manifestazione dell’odierno Stato federale”.

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3. Come ordinamento giuridico fondamentale dello Stato, la costi-tuzione costruisce attraverso prescrizioni di competenze istituzioni o “organi” e fissa regole per le procedure, in cui questi organi ven-gono affidati a persone e questo personale produce decisioni vincolanti. In altre parole, la costituzione ordina l’intero processo di formazione della volontà politica all’interno dell’ambito statale. Con ciò la costituzione fonda, legittima e conferisce potere politico, ma allo stesso tempo lo distribuisce fra differenti organi. Questa ripartizione di competenze più o meno funzionale – solitamente definita “divisione dei poteri” – evita una troppo grande concentra-zione di potere e in questo modo serve al mantenimento della libertà della collettività. Il centro della costruzione risulta dal vecchissimo punto di vista, acquisito molto tempo prima di Montesquieu, che coloro i quali dispongono dei mezzi effettivi di potere dello Stato (polizia e militari) non dovevano avere contemporaneamente il potere di disporre sulle regole del loro utilizzo.

La libertà dello Stato costituzionale viene rafforzata dalla garanzia di spazi di libertà soggettivi. Questi diritti fondamentali proteggono il cittadino non solo dalle illegali violazioni dell’esecutivo, ma anche dal fatto che il legislatore definisca arbitrariamente i limiti della libertà privata e il suo esercizio. 4. L’ordinamento giuridico dello Stato costituzionale di libertà organizza il processo di formazione della volontà politica, cioè il processo di produzione di decisioni che sono vincolanti per l’intero ambito sociale, ma non in qualsiasi modo e con una qualsiasi tecnica giuridica. Piuttosto, il modello costituzionale da noi considerato esige una procedura di formazione della volontà di tipo democratico. In conformità a questo, ciò che deve valere come volontà politica dell’intera collettività dev’essere legittimato dal popolo intero. Così come la stessa costituzione, secondo il suo mito originario, è sorta attraverso il potere costituente del popolo, allo stesso modo anche le leggi, in quanto determinanti primi della vita politica, derivano dal popolo e precisamente secondo il principio dell’eguaglianza di tutti, il che fa del concetto in sé variegato e molteplice di popolo un semplice concetto sommatorio (Summenbegriff) dei cittadini dello Stato. Poiché difficilmente la massa dei cittadini in quanto tale è fatta per legiferare, il geniale costruttore di costituzioni Siéyés ha

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trovato una praticabile formula magica per come il popolo manifesta la sua volontà: da se stesso ovvero attraverso i suoi rappresentanti. L’alternativa è dunque: il popolo non prende alcuna decisione contenutistica, ma una decisione elettiva; esso legittima non la decisione, ma coloro che decideranno. Questa soluzione del problema: democrazia mediata attraverso rappresentanza parla-mentare del popolo costituisce in modo durevole un punto dolente dello Stato costituzionale democratico e di libertà. Infatti: che cosa significa rappresentanza del popolo? In particolare: che cosa significa rappresentanza del popolo attraverso il parlamento eletto dal popolo, ma dominato dai partiti? Che resta della democrazia, che resta della partecipazione del cittadino alla formazione della volontà politica, se ogni possibile attività del cittadino a soluzione di un problema contenutistico viene, per così dire, eliminata attraverso la rappresentanza (weg-repräsentiert)? E se la rappresentanza appare meno rappresentanza basata sul mandato (Vertretung) dei cittadini che un cartello di partiti e – con le parole di Hegel – una rappresentanza (Vertretung) di “grandi interessi”?

Come detto, il problema non è nuovo, giacché ha un carattere strutturale. Così, il concetto di rappresentanza parlamentare era già contestato in tutto il XIX secolo e in Germania, nell’epoca weimariana, ha condotto a note controverse intellettuali sui fondamenti della costituzione democratica di Weimar, che hanno agito anche dopo il 1945 e sono legate ai nomi di Carl Schmitt, Gerhard Leibholz, Hans Kelsen, Karl Loewenstein, Herbert Krüger e Dolf Sternberger (per citare solo gli autori più importanti). Con lo sviluppo e il rafforzamento dei partiti la problematica si è ancora acuita. Su ciò dovremo tornare ancora una volta. 5. Come ordinamento giuridico fondamentale dello Stato, la costi-tuzione traccia i confini fra l’ambito statale e l’ambito non statale, cioè fra Stato e società. Ciò accade sia positivamente, attraverso le disposizioni costituzionali sugli organi statali, le loro competenze e procedure, sia negativamente attraverso le garanzie, proprie dei di-ritti fondamentali, di spazi liberi dallo Stato. A differenza della concezione giuridica del XIX secolo di stampo hegeliano, che nella contrapposizione fra Stato e società vedeva un contrasto sostan-ziale, questa opposizione concettuale indica sulla base dello Stato

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costituzionale democratico di libertà solo differenti ambiti d’azione all’interno del medesimo gruppo (Verband), cioè della medesima cerchia di uomini, che possono agire tanto come cittadini dello Stato e oltre a ciò come funzionari dell’apparato statale, quanto come membri della società non statale. La sfera della società non è però assolutamente solo il teatro della libera attività di singoli per scopi individuali, ma è anche lo spazio della contesa fra opinioni, idee, concezioni del mondo e interessi economici. Di conseguenza i concorrenti non sono solo individui, ma anche imprese economiche, associazioni d’interesse, comunità religiose e ideologiche, gruppi politici e partiti. Da questa situazione derivano problemi di nuovo tipo da due differenti punti di vista.

a. Vi sono concentrazioni sociali di potere, in particolare con-centrazioni di potere economico, che per la libertà dei sin-goli sono quasi altrettanto pericolose delle concentrazioni statali di potere. Perciò si pone il problema se i “verticali” diritti fondamentali di resistenza rivolti contro lo Stato non dovrebbero agire anche contro il potere sociale e come una tale azione “orizzontale” – una cosiddetta “azione terza” (Drittwirkung) dei diritti fondamentali – sarebbe giuridica-mente concepibile e perseguibile.

b. Questa competizione sociale praticata non solo da individui, ma anche da unità collettive del tipo più diverso ha di con-seguenza anche un lato positivo. Nella misura in cui l’esercizio dei diritti fondamentali di una persona sta in un rapporto di efficacia sociale con l’esercizio dei diritti fon-damentali delle altre e perciò ingenera una pluralità di modelli di condotta e di dispositivi, sorge un sistema decen-trato altamente differenziato di auto-rinnovamento sociale. In ciò consiste un potenziale straordinariamente grande di rinnovamento, innovazione e crescita che costituisce glo-balmente la forza della società libera e dell’ordinamento libero. Da questo punto di vista la libertà di opinione e di stampa, la libertà scientifica e di riunione, così come la li-bera proprietà sono in particolare non solo garanzie dello viluppo autonomo degli individui, ma al tempo stesso “ele-menti sistemici portanti nella connessione dinamica di un sistema basato sul decentramento di decisione, rischio e re-

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sponsabilità e diretto ad azione, reazione e coordinazione spontanee, reciproca stimolazione e libero interscambio” (H. H. Rupp).

Certo, gli effetti positivi di questo sistema sociale non sono pensabili senza regole del gioco normative che valgano per tutti, evitino abusi e garantiscano la libertà. Di conseguenza è necessaria una certa quantità di interventi regolativi statali nell’ambito sociale. Tuttavia oggi essi letteralmente urtano nei loro confini, là dove soggetti economici come global-Players che agiscono internazionalmente si possono sottrarre fino ad un certo livello agli ordinamenti statali e nazionali. 6. Con ciò siamo giunti all’ultimo punto. L’ordinamento costituzio-nale fondamentale non solo distingue e separa Stato e società, esso deve naturalmente anche collegare questi due campi d’azione. Questo avviene attraverso regole fondamentali sul reclutamento del personale attivo nell’ambito statale e su modalità e misura dell’ordinamento e del controllo della vita sociale. Già i diritti fondamentali contengono, oltre alla garanzia di spazi di libertà individuale, tali elementi di ordinamento sociale. Vanno ricordati libertà contrattuale, proprietà, matrimonio e diritto ereditario, la li-bertà di associazione, inclusa quella di coalizione, la libertà economica e religiosa. Un significato centrale per la connessione di ambedue gli ambiti hanno tutte quelle norme della costituzione che istituiscono e garantiscono la pubblicità della discussione reciproca nella società e nello Stato, soprattutto in parlamento.

In questo contesto giocano un ruolo particolare i partiti politici. Essi sono libere associazioni di cittadini con lo scopo di partecipare alla formazione della volontà negli organi dello Stato. Essi articolano e raccolgono volontà politiche, le “trasportano” nell’ambito politico e formano personale politico direttivo. Essi si radicano e agiscono nella società, ma sono efficaci nell’ambito statale, senza tuttavia diventare componente organizzativo dello Stato. Si parla di una “posizione mediatrice” dei partiti politici “fra Stato e società”. La corte costituzionale federale, in una linea giurisprudenziale mai interrotta, ha perciò negato loro fermamente la qualità di organi dello Stato, ma ha anche riconosciuto loro, in un modo assai discutibile, la qualità di “istituzioni costituzionali”. È indubbio che in una società

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pluralistica una molteplicità di partiti politici è indispensabile per la formazione dell’unità politica. Ma tanto il processo democratico di formazione della volontà politica ha bisogno dei partiti, altrettanto noto è anche che i partiti, attraverso la monopolizzazione della formazione della volontà e dunque attraverso l’interdizione dei cittadini, mettono in pericolo la democrazia nel senso della partecipazione di questi ultimi alla formazione della volontà politica. Oltre a ciò sussiste il pericolo che i partiti pongano lo Stato al servizio dei loro scopi, come mostrano gli abusi nel finanziamento dei partiti. Anche la lottizzazione partitica degli uffici minaccia di distruggere la necessaria neutralità rispetto ai partiti politici nell’esercizio delle funzioni statali.

II

Il modello dello Stato costituzionale si fonda sul postulato dell’autonomia di tutti i singoli membri di una società borghese egualitaria. Questo postulato pretende da un lato spazi liberi di organizzazione della vita individuale come dell’attività economica e dall’altro che decisioni che devono essere vincolanti per tutti possano essere fondate esclusivamente sulla volontà di tutti i singoli. Poiché questo non è possibile direttamente, deve avvenire attraverso l’autorizzazione di un’assemblea di rappresentanti secondo i principi dell’elezione universale, eguale e libera. Il principio determinate si trova, com’è noto, nell’articolo 6 della celebre Dichiarazione dei diritti del 1789 e recita: “La legge è l’espressione della volontà generale. Tutti i cittadini hanno il diritto di concorrere personalmente, o attraverso i loro rappresentanti, alla sua formazione”. Inoltre, dev’essere data per scontata la validità del principio di maggioranza, preliminarmente riconosciuto da tutti.

Nel progetto teorico iniziale è questo uno schema semplice e chiaro di imputazione, giustificazione e responsabilità di decisioni politiche. Naturalmente questo concetto di volonté générale era utopistico. Ma era un mezzo straordinariamente efficace di dele-gittimazione e demolizione dei pouvoirs intérmediaires di una società cetuale, nel cammino verso una società borghese egualitaria e la sua unità politica. Questa direzione d’urto viene ancora sottolineata dalla circostanza che la dichiarazione rivoluzionaria del 1789 non

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riconosceva alcuna libertà alle associazioni economiche. La forza analitica del pensiero dell’unità politica desumeva dall’unione delle volontà dei singoli membri di una società borghese egualitaria un nuovo sviluppo e indicava la direzione. “Sovranità popolare” era il nome di questa nuova fonte dinamica di legittimità.

Oggi questa dinamica è esaurita, il valore dichiarativo dell’idea per la produzione dell’unità politica sbiadito. Esso si limita alla fondazione del voto universale, eguale e libero. Nelle società che si liberano da un regime violento, questo significa sempre ancora molto. In uno Stato costituzionale stabile, questi principi elettorali non bastano più per rendere plausibile ai cittadini il fatto che essi autorizzino, in un sistema di voto dominato dai partiti, tutte le decisioni vincolanti dell’unità politica. La forza dell’idea originaria soffoca nel denso intreccio di relazioni di nuovi poteri intermedi: i partiti e le associazioni d’interesse, e nella crescente opacità del processo politico di decisione, non ultimo a causa della sovrade-terminazione (Überformung) europea del processo di formazione della volontà nazionale.

(traduzione di Antonino Scalone)

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 29-42 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

La forma politica europea1

Maurizio Fioravanti

Una considerazione preliminare. Penso che anche in un approccio come il nostro, di stampo essenzialmente storico-concettuale, non possano essere comunque ignorate le più recenti vicende costituzio-nali europee, relative in particolare al ben noto Trattato costituziona-le. Credo però che si debba distinguere tra il processo formalmente messo in opera al fine di determinare la vigenza del Trattato costitu-zionale europeo, che come tale ha subito una battuta d’arresto proba-bilmente irrimediabile, nel senso che ben difficilmente si sarà capaci di riproporre quel testo, all’interno di quel modo di procedere; ed il processo di costituzionalizzazione dell’Europa, che è parimenti dif-ficile, ma che non si esaurisce affatto nelle più recenti vicende rela-tive alla approvazione del Trattato. Quello che intendo dire è che quelle vicende a noi così vicine sono storicamente rappresentabili come una fase all’interno di un più ampio processo storico, che ha ormai un passato consistente, e che a nostro avviso avrà certamente anche un futuro; e che dunque quella che tutti chiamano la ‘pausa di riflessione’ è a sua volta rappresentabile come l’occasione per ri-portare alla luce il filo conduttore più profondo, che è per l’appunto il processo di costituzionalizzazione dell’Europa, nel senso speci-fico di un processo storico orientato a generare una forma politica 1 Riproduciamo qui il testo della relazione tenuta a Padova nell’ambito del Conve-gno di cui si pubblicano ora gli Atti: Una prima versione del medesimo contributo era stata elaborata in occasione di una lezione tenuta al Dottorato in Scienze Giuridiche della Facoltà di Giurisprudenza della Università degli Studi di Firenze nel giugno 2006, e successivamente rivista per la stesura della relazione tenuta al Convegno del-la Fondazione Basso del gennaio 2007. Questa origine spiega il taglio del contributo, per lo meno nel suo impianto iniziale inevitabilmente collegato alla questione pratica del ‘cosa fare’ delle aspirazioni costituzionali europee nell’ambito temporale della cosiddetta ‘pausa di riflessione’, dopo le note bocciature del Trattato Costituzionale Europeo nei referendum francese ed olandese.

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dotata di costituzione. È quella che noi chiamiamo la forma politica europea. La possibilità stessa di una costituzione europea è stretta-mente legata alla possibilità d’individuare, e costruire, questa for-ma. Noi proveremo qui, ovviamente in modo sommario e provviso-rio, ad esplorare questa prospettiva, ad iniziare proprio dalla pro-blematica della genesi della costituzione2.

Secondo una categorizzazione poco nota, ma che trovo efficace, la genesi di una costituzione può storicamente verificarsi su due di-stinti scenari3: il primo è lo scenario del c.d. “new beginning”, ov-vero uno scenario in cui la costituzione segna una discontinuità pro-fonda, sul modello della rivoluzione francese, che attraverso la co-stituzione condanna l’intero sistema precedente, l’antico regime. Ma assimilabili al “new beginning” sono anche le Costituzioni co-me quella italiana, o quella tedesca, e più in genere le Costituzioni dell’ultimo dopoguerra, perché avevano anch’esse il proprio antico regime da abbattere, ovvero la dittatura. Queste Costituzioni pre-sentano alcune caratteristiche che provo a riassumere: 1. si riferi-scono ad un forte principio di unità politica, ancora una volta sul modello della volontà generale della rivoluzione francese, successi-vamente tradottosi in principio di sovranità della nazione, e dello Stato in cui la nazione si personifica; 2. contengono un insieme di principi fondamentali che si pongono come motore del processo di attuazione della costituzione, in particolar modo per ciò che riguar-da il principio di uguaglianza; 3. chiamano anche i giudici, spe-

2 In altre parole, il tentativo è quello d’individuare alcune linee di fondo della vicen-da costituzionale europea, che scorrono comunque, al di là delle tormentate vicende del presente. Ciò non ci esime per altro dal confrontarci, ma in altra sede, con le re-centissime novità. Infatti, com’è noto, la ‘pausa di riflessione’ è ormai conclusa, e si è di fronte ad un nuovo progetto di Trattato, del 23 luglio, che sembra abbandonare la via della ‘costituzione europea’, a favore della via, più consueta e rassicurante, di una riforma, per quanto rilevante, dei Trattati esistenti. E tuttavia, a prescindere dal fatto che anche nella precedente versione, in cui si affermava di volere stabilire una Costi-tuzione per l’Europa, si manteneva comunque, nella procedura di adozione, la forma del Trattato, tutto questo non chiude affatto la nostra questione. Infatti, si potrebbe ben sostenere che gli Stati membri, al di là delle forme e delle terminologie prescelte, operino in una direzione che è in sé, ed oggettivamente, ‘costituzionale’. Ma ciò rin-via, a sua volta, alla necessità di reperire criteri d’identificazione della esistenza di una ‘costituzione’, ed in particolare della sua genesi, un po’ più precisi. Nel testo, si svolgerà qualche considerazione in proposito. 3 Si veda in particolare B. Ackerman, The Rise of World Constitutionalism, “Virginia Law Review”, LXXXIII ( 1997 ), pp. 771 e ss.

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cialmente mediante le rispettive Corti supreme, ad operare per l’attuazione della costituzione. È questa la storia degli Stati costitu-zionali europei della seconda metà del ventesimo secolo, collegata ancora oggi, per quanto in modo crescentemente incerto, con il loro rispettivo new beginning4.

Ma quello che a noi più interessa è il fatto che questo è solo il primo scenario storicamente possibile per la genesi di una costitu-zione. Il secondo è definibile come lo scenario federalistico. È quello scenario che si ha quando un certo numero di unità politiche – per esempio le ex-colonie inglesi divenute Stati americani5 – in-traprendono una via che crescentemente supera il confine ideale da-to dal Trattato, come strumento ordinario di regolazione dei rappor-ti tra Stati sovrani. Questa esorbitanza si realizza su due punti criti-ci, proprio guardando all’esempio americano: 1. nel procedimento di approvazione del Trattato viene inserito in modo sempre più de-cisivo la voce popolare diretta. A questo proposito è a tutti noto il formidabile discorso di Madison alla Assemblea di Filadelfia del 23 luglio 1787: noi non abbiamo più bisogno della unanimità degli Stati, ed abbiamo invece bisogno che gli Stati favorevoli si pronun-cino con una Convenzione eletta dal popolo, perché ciò che stiamo facendo non è più un semplice Treaty, ma una Constitution. Il pas-saggio dal trattato alla costituzione è dunque caratterizzato dalla approvazione popolare 2. i giudici iniziano a disapplicare il diritto degli Stati a favore di un diritto comune, che è dato dalla Costitu-zione, dotata in questo senso della clausola di supremazia. È noto 4 Oggi si tende per altro a mettere in rilievo anche gli aspetti di discontinuità delle Costituzioni democratiche del Novecento rispetto al modello europeo-continentale generato dalla rivoluzione francese. Lo Stato europeo contemporaneo è in questo senso definito ‘Stato costituzionale’, per marcare la differenza sul piano storico, e della forma di Stato, con lo Stato di diritto del diciannovesimo secolo. La differen-za è espressa in modo assai chiaro da G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino 1992; mentre sul piano storico più generale è enunciata da M. Fioravanti, Stato e Costitu-zione, in Id. (a cura di), Lo Stato moderno in Europa. Istituzioni e diritto, Roma-Bari 2001, pp. 3 e ss.. Nella letteratura più recente si vedano infine: E. Cheli, Lo Stato co-stituzionale. Radici e prospettive, Napoli 2006; e P. Costa, Democrazia politica e Stato costituzionale, Napoli 2006. 5 Una prima riflessione di carattere comparatistico era già stata svolta in M. Fiora-vanti, Il processo costituente europeo, “Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 31 (2002), P. Costa (a cura di), L’ordine giuridico europeo: ra-dici e prospettive, Milano 2003, I, pp. 273 e ss., cui rinviamo per i dati richiamati nel testo.

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come questo sia stato raggiunto solo molto gradualmente negli Stati Uniti. È noto infatti come una delle più rilevanti deliberazioni nei primi anni di vita del Congresso degli Stati Uniti, del 1789, sia pro-prio quella che stabiliva che il Bill of Rights si sarebbe applicato solo alla attività dei poteri federali e non concerneva quindi l’ambito statale. Si dovrà arrivare al XIV emendamento del 23 lu-glio 1868 per iniziare a convincere la Corte Suprema che gli Stati erano anch’essi sottoposti al due process of law contenuto nel Bill of Rights, e per aprire quindi la via ad una serie garantita di diritti fondamentali opponibili anche ai poteri statali, che si realizzarono per altro molto gradualmente, tra Otto e Novecento. Sotto questo profilo, si potrebbe dire che la trasformazione della Costituzione federale da Trattato in Costituzione è durata ben più di un secolo. Ciò che spiega perché ancora nel diciannovesimo secolo fosse così viva negli Stati Uniti l’immagine della Costituzione come contratto tra Stati, che da esso tra l’altro, proprio per questo motivo di fondo, sarebbero stati liberi di recedere. Gli Stati Uniti rappresentano quindi l’esempio storico più rilevante di genesi di una costituzione su uno scenario di tipo federalistico, ovvero partendo da un trattato.

Io valorizzerei molto questo elemento per l’Europa, non nel sen-so d’immaginare per analogia gli Stati Uniti d’Europa – soluzione alla quale francamente non credo –, ma nel senso di una consapevo-lezza storica da acquisire: che le costituzioni non nascono solo co-me new beginning, sul modello della rivoluzione francese, ma an-che come legame tra più unità politiche, che eccede nei punti che abbiamo visto la misura ordinaria del trattato. Certo anche gli ame-ricani ebbero bisogno com’è noto del loro new beginning – basti pensare alla Dichiarazione d’Indipendenza ed alla storica condanna come tiranno del re d’Inghilterra –, ma rimane il fatto che la loro Costituzione è quella del discorso di Madison sopra citato, ed è quella della equal protection che deriva dal XIV emendamento, e dunque essenzialmente è ciò che serve a dismettere l’abito stretto del trattato. Non importa che la costituzione condanni un antico re-gime che per altro non c’era storicamente nel caso degli Stati Uniti. Importa che la costituzione affermi la propria supremazia con una forza che il trattato per sua natura non può avere. Questa è in sintesi la genesi della costituzione su uno scenario di tipo federalistico. È quella genesi che si determina in tutte quelle situazioni storiche in

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cui si rende necessario eccedere i limiti del trattato, ovvero della semplice norma consensuale che ordinariamente disciplina il lega-me tra più unità politiche.

Si sarà già compreso che il nostro problema è ora quello dell’uso di queste categorie nella comprensione dell’Europa di oggi, nella prospettiva – come si diceva all’inizio – della costituzionalizzazione dell’Europa. Un primo elemento è evidente. Se si può parlare – come io credo – di ‘costituzione europea’, non è certo con riferimento al modello del ‘new beginning’. È vero che a metà del secolo scorso c’è un movimento complessivo che comprende l’affermazione dei nuovi Stati costituzionali fondati sul principio della limitazione costituzio-nale di sovranità, le Nazioni Unite, l’avvio dello stesso processo d’integrazione. Tuttavia, non si può certo dire che l’Europa sia cre-sciuta, dalle origini fino alla moneta unica, ed oltre, alimentandosi di un suo mito delle origini, com’è nel modello del ‘new beginning’. Anzi, la ben nota via del metodo incrementale si fonda proprio a ben guardare sull’assenza del momento della origine: non c’è una volontà originaria costituente da attuare, e vi sono invece le concrete volontà che di volta in volta si determinano partendo dai risultati che le pre-cedenti volontà avevano a loro volta conseguito. In questa fase, l’Europa non si preoccupa di costruire una vera e propria forma po-litica europea, né un’autentica legittimazione democratica, come quella che invocava Madison nel discorso ricordato, è davvero all’ordine del giorno. L’Europa cammina perché in quella fase sono sufficienti legittimazioni di stampo diverso da quella democratica: 1. la legittimazione negoziale, che in entrata, nei processi di deci-sione a livello europeo, garantisce agli Stati la loro presenza, e dun-que la loro capacità di controllo. 2. la legittimazione funzionale, che in uscita, nei medesimi processi, garantisce i medesimi soggetti, ovvero gli Stati, che per quella via si ottengono risultati che non si sarebbero potuti ottenere da soli. Come dire: l’Europa non minac-cia, perché non toglie, ma se mai aggiunge, rispetto alle sovranità degli Stati. A queste condizioni, non è difficile essere europeisti, e si rimane ovviamente del tutto nei confini del trattato.

Ma qui inizia una nuova vicenda, che è precisamente ciò che deve essere indagato sul piano storico. Si produce cioè rispetto al metodo incrementale ed alle legittimazioni di stampo negoziale e funzionale un quid pluris, che pur non essendo a sua volta un new beginning è

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tuttavia qualcosa che è da studiare per me nel campo della genesi del-le costituzioni, sul secondo scenario che abbiamo proposto, che è quello federalistico.

Già abbiamo visto, su quel secondo scenario, anche sulla scorta del caso americano, che due sono i punti di rottura, che conducono dal trattato alla costituzione: il ruolo della voce popolare diretta, ovvero l’instaurarsi di una terza legittimazione, di stampo democra-tico – per inciso dico qui che Madison ed i padri costituenti ameri-cani non avrebbero mai chiamato ‘costituzione’ la loro creatura se non avessero deciso di farla approvare dalle Convenzioni popolari: ciò che forse può essere occasione di meditazione per gli europei – ed il ruolo dei giudici, in particolare di quelli statali, per la garanzia della applicazione uniforme del diritto comune. Ora, nel caso euro-peo è accaduto che questo secondo elemento si è realizzato nelle forme ben note, che coinvolgono i giudici statali nella applicazione del diritto comunitario, mentre si è bloccato il primo, sul versante della legittimazione democratica, in particolare proprio nel proce-dimento di approvazione del Trattato costituzionale, che com’è noto si è del tutto mantenuto nei confini tradizionali del trattato, del dirit-to internazionale6.

È questo aspetto, relativo alla presenza di un principio democra-tico come principio di legittimazione, che manca per completare la transizione dal trattato alla costituzione. Abbiamo più volte chiarito per altro che non intendiamo in questo modo evocare la necessità di un improbabile potere costituente del popolo europeo, nel quale anzi decisamente non crediamo, ma semplicemente la necessità di dare a qualcosa che chiamiamo ‘costituzione’ un fondamento democratico a sé adeguato. Non vogliamo qui entrare nel dettaglio di eventuali pro-poste concrete, come quella del referendum consultivo europeo, che sono state espresse in altre sedi. Preme arrivare ad una prima prov-visoria conclusione: per avere una costituzione non è necessario un new beginning, un potere costituente originario, un’assemblea costi-tuente, perché storicamente è ‘costituzione’ anche ciò che nasce dal

6 Sulla non applicazione del diritto nazionale per non conformità con il diritto co-munitario si vedano almeno: G. Morbidelli, La tutela giurisdizionale dei diritti nell’ordinamento comunitario, Milano 2001 e A. La Pergola, Il giudice costituzio-nale italiano di fronte al primato e all’effetto diretto del diritto comunitario, “Giu-risprudenza Costituzionale”, a. XLVIII ( 2003 ), pp. 2419 e ss.

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modificarsi del legame tra più soggetti sovrani, ma solo a quelle condizioni che più volte abbiamo richiamato, e che in Europa si so-no realizzate per ora solo in parte. Se è vero – come noi crediamo, e come abbiamo mostrato – che il deficit è dal lato del principio de-mocratico, è su questo che dobbiamo ora indagare. Il principio de-mocratico richiama infatti una dimensione che fino ad ora abbiamo volutamente trascurato, che è quella della sovranità.

Riprendiamo per un attimo l’immagine della genesi della costitu-zione che si svolge su due lati: da una parte i giudici che garantiscono l’applicazione del diritto comune, dall’altra il principio democratico che si afferma come principio di legittimazione dell’Unione. La do-manda che molti oggi si pongono è la seguente: fino a quando, e so-pra tutto fino a quale limite, è possibile costruire l’Europa solo sul primo lato, sul lato dei giudici? Nella letteratura si trovano sempre più qualificazioni dell’attuale situazione nel senso di una situazione pre-federativa, ma sempre sul lato dei giudici, per l’analogia che è possibile istituire tra il ruolo della Corte di giustizia in Europa e quello della Corte Suprema, per ciò che riguarda gli Stati Uniti7. Ma nello stesso tempo si va diffondendo la sensazione che non sia lontano il punto-limite, ovvero quel punto oltre il quale un ulteriore accrescimento delle competenze dell’Unione ed una conseguente disapplicazione del diritto statale a più vasto raggio diverrebbe pro-blematica senza una crescita anche sull’altro lato, ovvero sul lato del principio democratico. In altre parole, l’Europa che fino ad oggi è ben cresciuta con una legittimazione di stampo esclusivamente negoziale e funzionale si va forse rendendo conto che la stessa logi-ca di tipo incrementale l’ha trascinata fino ad un punto di non ritor-no, in cui non può più essere elusa la questione dell’altra legittima-zione, ovvero del principio democratico, ed in ultima analisi dello stesso principio di sovranità.

Bisogna allora affrontare di petto questo problema, non giocare più ad eluderlo8. E diviene allora necessario configurare l’Unione 7 Si veda ad esempio R. Calvano, La Corte di giustizia e la Costituzione europea, Padova 2004. 8 Una trattazione in proposito davvero eccellente è quella di A. Jakab, Neutralizing the Sovereignty Question. Compromise Strategies in Constitutional Argumentations about the Concept of Sovereignty before the European Integration and since, “European Constitutional Law Review” (2006), p. 375 e ss., che propone una riconsiderazione del principio storico di sovranità in rapporto alla dimensione

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Europea come potere politico di fronte alla sovranità agli Stati membri. È di una soluzione a questo proposito che siamo carenti. Si dice comunemente che la soluzione non può essere quella classica dello Stato federale. Bene: ma allora, cos’altro? Si può continuare a procedere senza chiederselo? Per rispondere a queste domande bi-sogna prima e previamente scartare le due soluzioni che noi consi-deriamo estreme, e che tutto sommato sono quelle che più hanno circolato fino ad oggi in Europa. Bisogna enunciarle con chiarezza, eliminarle e ricercare infine una terza soluzione, quella che ritenia-mo più adeguata. Senza una prospettiva chiara su questo punto l’Europa non ha futuro.

La prima soluzione è quella che è emersa soprattutto in Francia, e certo non solo in occasione del recente referendum. La si può far risalire, nella sua radice più immediata, al dibattito che si svolse in Francia in occasione della ratifica del Trattato di Maastricht. Essa si fonda sull’idea che gli Stati membri sono ancora nella loro essenza gli Stati nazionali sovrani del diciannovesimo secolo e della prima metà del ventesimo. È cioè un’opinione che tende a sottovalutare il più recente passaggio dallo Stato liberale di diritto allo Stato demo-cratico costituzionale. In questa linea, le Costituzioni dell’ultimo do-poguerra, comprese quelle francesi, continuerebbero perciò a pre-supporre lo Stato sovrano, come le precedenti Costituzioni, di esso dettando le modalità di organizzazione, e di esercizio dei poteri di sovranità, della sovranità nazionale. Per questo motivo, in Francia si è ritenuto che la ratifica del Trattato di Maastricht, considerato come un autentico patto costituzionale, incidente pesantemente sulle condi-zioni di esercizio della sovranità nazionale, implicasse l’esercizio di un vero e proprio potere costituente: solo la nazione sovrana dei francesi, con un referendum di stampo costituzionale, poteva auto-rizzare una modifica della Costituzione che intaccava il bene più

costituzionale europea, e non la sua dismissione. E mette in rilievo come in tale riconsiderazione sia essenziale il ruolo dei giuristi, come già è storicamente accaduto nelle singole esperienze nazionali. In questo ambito si vedano inoltre: J.H.H. Weiler and M. Wind (a cura di), European constitutionalism beyond the state, Cambridge, 2003; N. Walker (a cura di), Sovereignty in transition, Oxford, 2003; ed A. Albi and P. van Elsuwege, The EU Constitution, national constitutions and sovereignty: an assessment of a “European constitutional order”, “European Law Review”, 29 ( 2004 ), pp. 741 e ss.

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prezioso da essa contenuto, ovvero la sovranità dello Stato naziona-le francese9.

Veniamo alla nostra valutazione. Consideriamo ‘estrema’ questa soluzione perché fondata su un concetto rigido e non mediato di permanenza del principio di sovranità nella sua cosiddetta ‘essen-za’, al di là delle costituzioni che mutano ; e perché sottovaluta in modo unilaterale il mutamento intercorso alla metà del secolo ven-tesimo. Infatti, nelle costituzioni che ora abbiamo in Europa vale il principio kelseniano secondo cui esiste tanto Stato quanto è previsto nella costituzione: non è più la costituzione a dover presupporre lo Stato, ma viceversa. E questo cambia notevolmente le cose in Eu-ropa, spiegando alla radice perché gli Stati costituzionali di oggi siano andati così avanti nella integrazione, in un modo che neppure sarebbe stato concepibile dagli Stati nazionali nella loro precedente configurazione. Allora, la soluzione che cerchiamo non può fondar-si sul vecchio criterio della sovranità nazionale. Prima conclusione provvisoria: l’Europa non può essere solo un progetto di coesisten-za delle sovranità nazionali.

Ma anche l’estremo opposto serve ben poco nel nostro presente. Esiste infatti anche un estremo opposto, in cui si disegna uno scena-rio altrettanto improbabile, che prevede una più o meno rapida dis-soluzione delle sovranità statali a favore di un ordine sovranaziona-le quasi miracolosamente capace di tenere in equilibrio tutti gli atto-ri, pubblici e privati, comunitari e statali. Si potrebbe dire: non c’è più la sovranità di soggetti politici determinati, ed al suo posto c’è la sovranità di un ordine. Se la prima soluzione è figlia del grande inestinguibile mito della sovranità politica, questa seconda soluzio-ne è figlia anch’essa di un mito: quello, in origine solo britannico e con profonde radici medievali, della costituzione come processo in sé ordinato ed ordinante, equitativamente adeguato alle cose, non per caso seguito nel suo svolgersi in primo luogo dalla giurispru-denza. Sarebbe questa un’ Europa liberata dal peccato della sovra-nità politica, e che per ciò stesso è capace di ritrovare le sue radici, un ‘unità che c’era prima degli Stati nazionali, ed alla quale sarebbe

9 Ci sembra in questo senso significativa l’opinione di O. Beaud, La puissance de l’Etat, Paris 1994, in particolare pp. 196 e ss., 314 e ss., 444 e ss., tr. it. La potenza dello Stato, Napoli 2004. In merito, si veda H. Lepoivre, Staatlichkeit und Souveranität in der Europäischen Union am Beispiel Frankreichs, Frankfurt am Main 2003.

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possibile tornare. Non per caso, chi si colloca in questa linea parla della costituzione europea come di una costituzione mista. E dun-que, se la prima Europa smuove ben poco del principio di sovranità, questa seconda pensa di poterne fare a meno del tutto. Per questo si tratta di due soluzioni estreme. Noi non crediamo possibile né l’una né l’altra. E dunque cerchiamo una terza soluzione.

Per ricercare questa soluzione, bisogna liberarsi di un carattere dominante nella nostra tradizione della sovranità politica. È il carattere della esclusività, per cui la sovranità esiste quando ha eliminato ogni possibile concorrenza. È inutile sottolineare quanto pesi su di noi il modello tradizionale dello Stato moderno, inteso come processo storico di progressiva eliminazione di una serie plurale di poteri, a favore dell’unico potere del sovrano, ed in ultima analisi della legge dello Stato. Questa idea della sovranità non è adatta all’Europa. È questa idea che non funziona più, e che conduce alle soluzioni estreme che abbiamo sopra tratteggiato: o la sovranità rimane, e non può rimanere altro che negli Stati, lasciando l’Europa nei confini del trattato, o la sovranità scompare, e si dissolve nell’improbabile ordinamento sovranazionale.

Sull’Europa bisogna abituarsi a pensare in altri termini. Biso-gna iniziare a pensare ad una sovranità temperata, che esiste solo all’interno di una forma politica più ampia. Recentemente ho de-scritto questo passaggio con gli strumenti della geometria. Se lo Sta-to moderno della tradizione è un cerchio che come tale ha un cen-tro, a partire dal quale tutta la forma si delinea, l’Europa è piuttosto un’ellisse, la cui forma è data dall’interazione tra due fuochi: da una parte gli Stati che anche secondo il Trattato costituzionale conser-vano le loro identità costituzionali (art. I.5), dall’altra il principio di unità che si realizza attraverso la primauté del diritto comune euro-peo (art. I.6)10. Da una parte, gli Stati non possono non cooperare per garantire l’effettività del diritto comune, e contro di esso non possono più invocare il principio di sovranità nella sua tradizionale pienezza, ma dall’altra parte la primauté di quel diritto non può as-

10 Cito secondo il testo del Trattato Costituzionale non ratificato, ben sapendo che nel nuovo testo potrebbe scomparire la cosiddetta ‘clausola di supremazia’ a favore del diritto comunitario. Ma che questo secondo ‘fuoco’ si esaurisca, e che il pro-cesso d’integrazione arretri fino al punto da mettere in discussione la primauté, pare francamente assai improbabile.

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sumere il significato di una volontà a sua volta sovrana, nel senso di gerarchicamente sovraordinata, e per questo motivo portatrice di forza abrogativa. Ciascuno dei due fuochi della nostra ellisse vale presupponendo l’esistenza dell’altro, e dunque non può proporsi la sua liquidazione. Gli Stati nazionali non possono lavorare, con il loro diritto, contro il diritto comune europeo, ma anche questo se-condo non può imporsi fino al punto di considerarsi unico.

La primauté di cui discorriamo può dunque solo malamente es-sere tradotta con ‘primato’, e tanto meno ha a che fare con ‘supre-mazia’11. Di tutto il nostro armamentario linguistico sceglierei ‘primazia’, che più correttamente indica la situazione in cui si trova il giudice nazionale che rende prevalente il diritto comunitario nella soluzione di un caso, procedendo quindi alla non applicazione del diritto nazionale non conforme. Ma questa non applicazione non può essere a sua volta considerata come una sanzione nei confronti di un diritto da invalidare in quanto non conforme ad un diritto di livello superiore, all’interno di un ordine gerarchico delle fonti di diritto. La primautè è un meccanismo regolativo della applicazione della legge all’interno dell’Europa, essenziale perché indispensabile per garantire un’applicazione uniforme, ma non pretende affatto di essere espressione di sovranità, di essere cioè ‘primo’ perché espres-sione di una volontà politica e costituzionale gerarchicamente sovra-ordinata rispetto alle volontà nazionali. Certo rimane il fatto che il singolo Stato nazionale vede disapplicato il suo diritto, ma all’interno di un meccanismo orizzontale costruttivo di diritto comune, e non verticale, abrogativo dall’alto del proprio diritto. L’Europa si co-struisce quindi sul piano costituzionale nella tensione tra i due fuo-chi, tra I.5 ed I.6. L’Europa è una forma politica intera entro cui stanno gli Stati nazionali. È un intero composto di parti distinte, che tali rimangono, pur trovando sempre più significato solo all’interno dell’intero. L’Europa contraddice ancora una volta la tradizione dello Stato moderno nella sua matrice hobbesiana, che vuole che le parti siano destinate, per loro natura, o ad essere assor-

11 Sulla primauté si vedano: M. Cartabia, “Unità nella diversità”: il rapporto tra la costituzione europea e le costituzioni nazionali, in G. Morbidelli - F.Donati (a cura di), Una Costituzione per l’Unione Europea, Torino 2006, pp. 185 e ss. e A. Celotto e T. Groppi, Diritto UE e diritto nazionale: primauté vs. controlimiti, “Rivista italia-na di diritto pubblico comunitario”, (14) 2004, pp. 1309 e ss.

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bite dall’intero, o a dissolverlo perché in realtà contengono il germe di un nuovo intero. In entrambi i casi, le parti sono per loro natura provvisorie, sono rappresentabili come Zwischenzustand, che at-tende di ricomporsi in un intero, vecchio o nuovo: ancora una volta, un pensiero che produce solo soluzioni monistiche, e che si rivela poco adatto alla realtà plurale dell’Europa, che aspira ad un tipo di unità stabilmente e costituzionalmente data da parti distinte12.

Se così stanno le cose, come noi crediamo, c’è evidentemente ancora un lungo tragitto da compiere per la costituzionalizzazione dell’Europa. Torniamo al nostro quadro generale. Abbiamo visto che vi può essere ‘costituzione’ in Europa a due condizioni: che esi-sta un diritto comune la cui applicazione sia garantita dalle giurisdi-zioni nazionali, e che alle legittimazioni tradizionali, di stampo ne-goziale e funzionale, si affianchi quella democratica, necessaria per l’esistenza della costituzione medesima. Siamo ora in grado di com-prendere che questo secondo requisito non può essere esaurito nell’ambito di diverse modalità di ratifica del trattato costituzionale, anche se noi siamo stati tra i primi a contestare la scelta di far rima-nere quelle modalità in modo rigido entro i confini internazionali-stici dell’unanimità e della sovranità degli Stati membri sui modi di ratifica. Non è infatti sufficiente riconfigurare il testo del trattato, per esempio togliendo la parte terza, e la procedura di ratifica, in-troducendo un referendum consultivo europeo. La verità è che tutto questo pare essere, non solo difficile, ma anche poco significativo, se non si affronta il nodo di fondo, se non si hanno le idee un po’ più chiare sulla finalità di fondo, su ciò che si sta costruendo, su quale possa essere alla fine quella che io chiamo la forma politica europea.

E la verità è che le cose sono andate in Europa in modo tale per cui solo ora in realtà ci poniamo davvero questo problema. La nostra proposta è quella della ellisse, che parte storicamente dalla necessità di riconsiderare le sovranità nazionali: non conservarle rispetto alla tradizione da cui provengono, né eliminarle, ma riconsiderarle come

12 Sul punto, si veda l’ottimo saggio di G.Duso, L’Europa e la fine della sovra-nità, “Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 31 (2002), cit., pp. 109 e ss., con il quale la divergenza riguarda esclusivamente la sua assolu-ta identificazione di ‘moderno’ e ‘sovrano’, nel senso del paradigma hobbesiano. Per noi, il ‘moderno’ ha una declinazione più ampia ed articolata.

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uno dei due fuochi che danno vita alla forma politica comune. Deve cioè crescere la consapevolezza che la propria identità sta dentro la forma comune, e che nello stesso tempo l’appartenenza alla forma comune non distrugge la propria identità. Ed infine, quella forma non può non essere espressiva di un nuovo principio di unità poli-tica, non può cioè non contenere una distinta obbligazione politica, saldamente fondata su un vero e proprio contratto costituzionale tra le parti che compongono l’intero13.

Per far crescere l’Europa non solo sul piano della applicazione del diritto comune, ma anche su quello della cittadinanza comune, della comune appartenenza, abbiamo dunque bisogno di riconside-rare in modo diverso la tradizione storica della sovranità nazionale, in modo che possa far parte di una forma politica più ampia. Su questa linea, ho letto con grande piacere la decisione del Tribunale costituzionale spagnolo del 13 dicembre 2004, resa proprio al fine di rilevare un’eventuale contrasto tra l’approvazione del trattato co-stituzionale e le norme della costituzione spagnola sulla sovranità nazionale14. C’è qui un’altra Europa, rispetto alla Francia, che non interpreta più la sovranità nazionale secondo il metodo dicotomico, e sulla scorta di un rigido principio di esclusività. La decisione di-stingue in modo efficace, come anche noi abbiamo fatto, tra supre-mazia e primazia: mentre la prima ha a che fare con la gerarchia delle fonti e con la dimensione della invalidità, per contrasto con la norma di livello superiore, la primazia ha a che fare esclusivamente con il momento della applicazione, di essa costituendo essenziale meccanismo regolativo. Mentre una supremazia produce sempre anche una primazia, non è vero l’inverso: vi può essere primazia anche senza supremazia, senza invalidazione delle norme, senza pretesa abrogatoria, senza minaccia di reductio ad unum. L’Europa è questo, storicamente e costituzionalmente: non ha da affermare un diritto di qualità superiore, come fu con il diritto del sovrano alle

13 Riflessioni assai interessanti in E. Scoditti, Articolare le Costituzioni. L’Europa come ordinamento giuridico integrato, “Materiali per una storia della cultura giuridica”, XXIV.1 (2004), pp. 1 e ss.; in C. Schönberger, Die Europäische Union als Bund, “Archiv des öffentlichen Rechts”, 129 (2004), pp. 81 e ss.; ed in E. Pariotti, La giustizia oltre lo Stato: forme e problemi, Torino 2004. 14 Una riflessione in A. del Valle Gàlvez, Constitution Espagnole et Traité Constitutionnel Européen. La Declaration du Tribunal Constitucional du 13 Décembre 2004, “Cahiers de droit européen”, 41, 5-6 (2005), pp. 705 e ss.

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origini dello Stato moderno, ma ha da mantenere la coerenza di un ordinamento, che è cosa diversa, e che costituisce il primo fuoco della nostra ellisse. In questa linea potrebbero tra l’altro essere rilet-te le elaborazioni, italiane e tedesche, dei c.d. “controlimiti”, a suo tempo pensate in senso troppo difensivistico, e che andrebbero ora reinterpretate come uno dei meccanismi di interazione tra i due fuo-chi della ellisse.

Sarà un caso, ma Spagna, Italia e Germania hanno davvero qual-cosa in comune, che misuriamo costantemente anche nella dottrina costituzionale: l’aver preso sul serio il passaggio dallo Stato di diritto della tradizione allo Stato democratico costituzionale dell’ultimo do-poguerra. E dunque quando in questi paesi si parla di sovranità na-zionale si presuppone un mutamento di grande rilievo già avvenuto, che è quello della intrinseca limitazione costituzionale della sovra-nità dello Stato. Uno Stato a sovranità costituzionalmente limitata non è in questa linea uno Stato meno democratico, come in fondo si pensa all’interno della cultura costituzionale francese; e se sul piano europeo questa limitazione avviene entro una forma comune libe-ramente scelta, si può e si deve su questa indispensabile base rico-struire anche per l’Europa una legittimazione di tipo democratico. Se gli Stati che agiscono ed agiranno in Europa sono questi, c’è speranza per la costituzionalizzazione dell’Europa. È cioè plausibile un futuro in cui l’Europa sia capace di esprimere una sua forma po-litica, ovvero un principio di unità politica costituzionalmente dato attraverso la consociazione degli Stati e dei popoli, che sono poi le parti che concorrono a determinare quella unità. Se invece sarà do-minante il modello francese della sovranità nazionale, con le sue profondissime radici nella cultura costituzionale degli Stati naziona-li, e più indietro ancora nella rivoluzione quale evento in cui culmi-nò, a sua volta, una certa tradizione dello Stato moderno, allora ci si dovrà rassegnare ad un’Europa dei trattati e delle cancellerie. Sui tempi brevi deciderà la politica degli Stati, ed il confliggere o l’incontrarsi dei loro rispettivi interessi. Ma sui tempi lunghi deci-derà la cultura costituzionale che saremo capaci di esprimere. L’auspicio con cui si conclude è che si sviluppi davvero in questo senso una riflessione sui caratteri della forma politica europea.

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 43-59 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

Stati nazionali, democrazia e costituzione europea Agostino Carrino

1. Stati nazionali e globalizzazione

In recenti audizioni delle Commissioni Affari costituzionali della Camera e del Senato sulla eventuale, nuova riforma del Titolo V Cost. si è da più parti sostenuta la tesi della opportunità di introdur-re in costituzione il principio-limite dell’interesse nazionale, come contenuto politico di una norma giuridica di chiusura sia verso i li-velli sub-statali sia verso l’Unione Europea. Anche chi parla si è fatto sostenitore di questa tesi, presupponendo un’attenzione positi-va nei confronti dello Stato nazionale e delle sue funzioni, pur es-sendo ben consapevole sia, da un lato, della crisi della forma-Stato, sia, dall’altro, dei limiti storici del concetto di nazione (per non par-lare di forme oramai superate di nazionalismo).

Prendere in considerazione ancora oggi in senso positivo lo Sta-to nazionale non significa, naturalmente, dimenticare che i processi di globalizzazione e di integrazione sovranazionale hanno posto lo Stato dinanzi a còmpiti e funzioni nuove, che ne determinano, sotto molti aspetti, una trasformazione di forma e di còmpiti; significa, al contrario, prendere atto di queste trasformazioni e di queste criticità per discutere del ruolo nuovo che compete allo Stato, certamente privato di ogni sovranità di tipo assolutistico, ma la cui natura e le cui finalità appaiono tanto più confermate e comprovate proprio dai limiti dei processi citati, limiti di ‘valore’, ma anche di efficienza e di funzionalità.

La globalizzazione è un processo risalente nel tempo storico del-la borghesia capitalistica1, che si è accentuato negli ultimi decenni 1 Mi permetto a tal proposito di rinviare ai saggi raccolti in A. Carrino, Il problema della sovranità nell’età della globalizzazione, Guida, Napoli (in corso di stampa).

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ponendo in maniera ancora più radicale che in passato la necessità che esso non sia abbandonato a se stesso (del resto si inganna deli-beratamente quando si pretende che i processi non abbiano qualcu-no che li orienta secondo determinati e specifici interessi), bensì re-golato e governato anche, e sopra tutto, al fine di contribuire alla conservazione delle forme democratiche, oggi a rischio grave di deperimento.

Le regole e il governo non sono mai, con buona pace dei neoli-berali iper-hayekiani, nelle cose stesse, se non in parte minima, ma sono il prodotto di un insieme di decisioni, le quali non avvengono mai a partire da un puro ‘nulla’, ma sempre, per così dire, da un ‘nulla’ storicamente situato, per ricordare e integrare una famosa definizione di Carl Schmitt. Ora, questa capacità di decisione coin-cide inevitabilmente con una forma politica relativamente autono-ma, che dà forma ed espressione al politico pur non confondendosi con esso. Ebbene, questa forma politica resta, oggi come ieri, e al-meno per un probabile prossimo futuro, lo Stato. Non solo e non tanto perché lo Stato è l’unica forma a noi nota nella quale si è pra-ticata la democrazia, perché nessuno sa se il nostro sarà ancora un futuro di democrazia, quanto perché lo Stato, lo Stato-macchina moderno, la struttura politica tanto odiata da rivoluzionari à la Ne-gri in nome del loro comunismo e del loro rinnegato cattolicesimo, è l’unica forma politica, insieme – ma su un altro piano – con il par-tito, capace di decisione autonoma.

Non mi sfugge, ovviamente, il fatto che si discute molto di crisi dello Stato, addirittura di morte dello Stato. Ma non mi sfugge nemmeno il fatto che di crisi e morte dello Stato si parlava già tra Otto e Novecento, quando si determinarono processi analoghi a quelli odierni e che portarono, non a caso, non alla morte dello Sta-to, bensì ad una sua trasfigurazione e poi addirittura (forse non a ca-so) ad una sua ‘totalizzazione’ (fascismo, nazismo, comunismo). Sono convinto che ancora oggi dalla crisi nella quale esso si dibatte, lo Stato risorgerà, anche se non è già possibile prefigurare i contor-ni della sua nuova forma.

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2. La crisi dell’integrazione europea

Perché è opportuno che lo Stato si conservi? Questa domanda dev’essere posta particolarmente oggi, in quanto si torna a parlare di ‘costituzione europea’ e la Presidenza tedesca dell’Unione ha vo-luto riprendere un cammino interrotto dai risultati negativi dei due referendum di recezione del Trattato ‘costituzionale’ in Francia e in Olanda. Ora, contrariamente ad un’opinione superficiale, ma diffu-sa, secondo cui la bocciatura della Costituzione europea da parte degli elettorati francese e olandese sarebbe la causa della crisi attua-le dell’Unione Europea, è vero il contrario, cioè che quella boccia-tura ha rappresentato soltanto una delle conseguenze ultime di una crisi più antica, non risolta, ma paradossalmente acuita già dal Trat-tato di Amsterdam e poi da quello di Nizza (1997 e 2000) ed anche dalla stessa Carta europea dei diritti dell’uomo, anche se non entrata mai in vigore (alcune sentenze della Corte di Strasburgo e del Lus-semburgo vi hanno però fatto riferimento).

Tutte queste varie ‘tappe’ del processo di integrazione europea hanno in effetti, una dopo l’altra, eluso le domande sempre più pressanti di azione politica da parte dell’UE, preda invece di inte-ressi puramente economico-finanziari ‘globalizzati’; ma anche gli elementari desideri di pagare meno contributi alle casse comunitarie da parte di molti governi nazionali.

È la ragione per cui «il colpo inferto alla costituzione è meno grave di quanto potrebbe sembrare a prima vista», come osservava già Laurent Cohen-Tanugi su “Foreign Affairs” del nov.-dic. 2005 (The End of Europe?). Gli elettori, votando, sapevano in verità poco o nulla dell’Europa e della così detta costituzione, certamente di più delle questioni interne; votando ‘no’ votarono contro le politiche dei governi nazionali, protestarono per la loro condizione sociale ed economica, ma rifiutarono anche l’inganno del ‘Trattato costituzio-nale’, che pretendeva di spacciare per una novità ‘epocale’ il mode-sto risultato di una razionalizzazione, assolutamente necessaria do-po l’allargamento a 25 e ora a 27, delle istituzioni europee e dei processi decisionali. La Convenzione non ha prodotto una Costitu-zione, anche perché non era in grado di produrne una nel significato proprio e classico del termine (Costituzione, popolo e Stato si ten-

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gono), ma ha finto di averlo fatto, suscitando un’aspettativa ecces-siva prima e una delusione cocente poi.

Il risultato è per certi aspetti kafkiano, se si pensa che in Francia l’obiettivo polemico è stato rappresentato prevalentemente dalla Terza parte del Trattato, che in realtà riprende ciò che di fatto era in vigore ed ancora lo è anche dopo la bocciatura del Trattato. I socia-listi francesi hanno attaccato i princìpi dell’economia di mercato, che certamente venivano esaltati e accentuati in senso liberista nel nuovo testo, ma restano validi già a partire dal Trattato di Roma del 1957 e specialmente dopo l’Atto Unico Europeo del 1986.

Ovviamente, ciò non toglie che la bocciatura abbia rappresentato un duro colpo per le speranze di integrazione, non tanto per quello che è accaduto, quanto per la paralisi che si è determinata anche in conseguenza di una leadership debole della Commissione e di una sorpresa paralizzante dei governi europei, incapaci di rispondere in maniera coerente e con un progetto sensato alle sfide complesse della situazione di crisi (svelata, più che prodotta, dalla bocciatura), dalla crescita economica lenta alla disoccupazione alta, dai problemi dell’immigrazione a quelli di una politica estera divisa, preda di ten-denze divergenti tra la così detta ‘nuova Europa’ e quella ‘vecchia’, alla scarsa competitività e ai rischi creati dall’aggressività economica della Cina e dalle prospettive demografiche calanti rispetto anche agli Stati Uniti d’America. Per tacere della questione sempre più grave e centrale della non-autonomia energetica dell’Europa nel suo com-plesso, ancora traumatizzata da Chernobyl ma che deve por mano con urgenza ad un ripensamento complessivo sulle fonti nucleari (ciò vale in particolare per l’Italia, ma anche per la Germania).

Ho sostenuto altrove che già col Trattato di Maastricht è iniziato un processo di ‘decostruzione dell’Europa’, conseguenza di un dupli-ce processo: la scarsa consapevolezza della necessità di un’Europa politica, da un lato, e dall’altro l’idea che gli Stati nazionali abbiano esaurito in maniera definitiva il loro ciclo vitale, al punto di ritenere che gli Stati possano essere ‘fusi’ tra loro come se si trattasse più o meno di società per azioni2. Le istituzioni europee sono complicate, farraginose, enormemente costose (per i bilanci degli Stati naziona-li), poco decifrabili dal punto di vista giuridico, poco trasparenti per 2 Cfr. A. Carrino, Oltre l’Occidente. Critica della costituzione europea, Dedalo, Bari 2005.

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il cittadino comune e lasciano in definitiva troppo spazio alle buro-crazie di Bruxelles e di Strasburgo, che si sostituiscono spesso alla volontà politica dei governi nazionali rappresentati nel Consiglio europeo, con la conseguenza che l’Europa manca di coesione e di efficacia democratica, mentre i governi nazionali si trovano a loro volta spesso spogliati di capacità decisoria in materie e àmbiti rile-vanti e si muovono su strade divergenti, ad esempio con Francia e Germania indifferenti ai vincoli del Patto di stabilità e l’Italia co-stretta a perseguirli con fatica e sofferenze.

Crisi di risultati che possano essere direttamente apprezzati da parte dei cittadini e crisi di identità restano a distanza di quasi due anni dai referendum popolari di Francia e Olanda i due àmbiti prin-cipali di sofferenza dell’Unione Europea e allo stato non si intrav-vede, mentre si avvicina il cinquantenario della firma del Trattato di Roma, alcuna luce oltre il tunnel.

3. Un’Europa senza popoli

Il punto fondamentale, sul quale i politici, ma anche i giuristi, sem-brano essere diventati ciechi, è che nei cinquant’anni passati dalla firma dei Trattati di Roma il modello comunitario che avevano in mente i padri fondatori è radicalmente mutato senza che nessuno di fatto lo volesse e ne fosse convinto fino in fondo, sulla base di un meccanismo di “poteri impliciti” e di sentenze della Corte di Giu-stizia che ha rovesciato l’idea di un’Europa dei popoli in un proces-so di euroburocratizzazione delle nazioni, ovvero in un’Europa sen-za popolo.

Sbagliano coloro i quali confondono questo processo con una “statualizzazione” dell’Europa, con l’idea che qualcuno stia surret-tiziamente creando un “Superstato” europeo, perché lo Stato come oggi lo conosciamo è un insieme di istituzioni, meccanismi, ingra-naggi, norme, decisioni e persone che ne hanno fatto e ne fanno an-cora, non ostante tutto, uno degli istituti più fulgidi prodotti dal di-ritto pubblico europeo degli ultimi cinquecento anni. Non è certo di questo, né tanto meno di uno Stato democratico di diritto, che si tratta oggi in Europa.

Il Trattato di Roma del 1957 istituiva, al fine di realizzare delle competenze europee determinate, un così detto “metodo comunita-

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rio”, in sé coerente e logico, che riconosceva la sovranità degli Stati e contemporaneamente istituiva un organo, la Commissione, che aveva il compito precipuo di stimolare ed incitare i governi nazio-nali a forme più strette di cooperazione.

Anche se il metodo comunitario originario cozzava nel limite della unanimità dei governi per quanto riguardava le decisioni, esso rispecchiava la sostanza di una associazione democratica e garanti-va il ruolo dei parlamenti nazionali. In esso ha agito tuttavia, sin dall’origine, quello che ritengo il male occulto ma mortale della democrazia e della politica contemporanee: il potere dei giudici, che configura da tempo lo spettro di quel Richterstaat che qualcuno vorrebbe sostituire allo Stato di diritto. Sono stati i giudici ad inne-stare un meccanismo perverso che sia livello europeo sia a livello nazionale ha spogliato i popoli del potere di legittimazione delle decisioni politiche.

Il risultato finale, a distanza di cinquant’anni, è assai negativo: c’è qualcuno che si erge a custode dell’interesse di un popolo euro-peo, di una comunità superiore, di una volontà generale dell’Europa che non esiste da nessuna parte: non c’è un popolo europeo, non ci sono cittadini europei in quanto originariamente tali (né tali vengo-no fatti dall’identica copertina dei loro passaporti), non c’è una co-munità europea fondata su una decisione originaria, non c’è nessu-na volontà generale se non quella molto peculiare di alcuni signori che dall’alto, da Bruxelles, impongono scelte che spesso nessuno conosce, che pochi hanno voluto, che raramente sono discusse, che non sono legittimate da una autentica e diretta volontà popolare.

Significativa a questo proposito l’applicazione concreta del prin-cipio di “sussidiarietà”, che dovrebbe essere la via regia per avvici-nare il livello di governo quanto più possibile ai cittadini, mentre invece qui funziona al contrario, consentendo che il livello superio-re, che è quello ovviamente sempre più “efficace”, si sostituisca ai livelli inferiori. Il livello superiore, che decide sulla “curvatura delle banane” solo per nascondere decisioni che possono essere assai più sostanziali, è in realtà un potere che governa le singole nazioni sen-za alcuna legittimazione democratica.

Non che i governi non abbiano avuto la sensibilità, a un certo punto, di porre il tema del deficit democratico; a Laeken, nel 2000, si è appunto voluto dare questo compito alla Convenzione che a-

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vrebbe poi prodotto il Trattato costituzionale, democratizzare l’Unione Europea. Ma il risultato, che qui non possiamo analizzare nei dettagli, è stato del tutto insufficiente, perché il trattato tutto ha fatto fuorché rispondere al problema della democrazia in Europa.

Il punto fondamentale è che si è creata una situazione nella quale non si assiste soltanto ad una prevalenza del diritto europeo sui di-ritti nazionali, quanto ad un complesso di atti (direttive, regolamen-ti) che orientano direttamente i singoli ordinamenti giuridici nazio-nali, nel senso che in tutta una serie di materie i parlamenti naziona-li non possono più legiferare se non in un certo modo precostituito, senza che nessuno abbia però deciso qualcosa a livello nazionale, che pure resta l’unico piano dove ancora si intravede un residuo di democrazia.

Occorre allora avere una maggiore consapevolezza delle poste in gioco, innanzi tutto una consapevolezza teorica relativamente al modello economico che si vuole realizzare. C’è infatti una evidente contraddizione tra il modello neoliberale – e nella ‘Costituzione’ bocciata anche, in alcuni punti decisivi, ultraliberale – del progetto europeo e il modello ‘sociale’ di alcuni Stati nazionali, certamente da tempo in crisi e che non ha trovato a tutt’oggi una risposta ade-guata all’altezza della complessità dei tempi, ma che resta quello che i popoli ancora in qualche modo legittimano a livello nazionale. Il modello sociale della Francia ha prodotto disoccupazione e scarsa crescita, concentrando il dibattito interno su temi solo apparente-mente ‘sociali’, ma in realtà con forte contenuto ideologico (difesa dei diritti degli immigrati, lotta al razzismo, mantenimento di vec-chi privilegi di gruppi ristretti, rifiuto di un ricambio delle élites po-litiche in nome di un particolarismo nazionale superato, ecc.), men-tre il modello ‘renano’ tedesco ha anch’esso dimostrato tutta la sua vecchiezza pur in presenza (cosa non sempre sottolineata dovuta-mente) di un faraonico impegno di edificazione dal nulla di un nuo-vo paese (i Länder della ex-DDR). Lo stesso dicasi per l’Italia, con una costituzione di tipo sociale (qualcuno dice anche “socialista”), che non ha saputo rispondere con efficacia alle sfide dell’Europa neoliberale e alle sue parole d’ordine, flessibilità, innovazione, ecc., più funzionali alla struttura economica dei paesi emergenti, dal Por-togallo alla Polonia, all’Estonia e alla Lettonia, o anche della Gran Bretagna.

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La crisi dello Stato sociale e dei vecchi modelli economici diri-gisti e interventisti è nota da molto tempo, ma costituisce un grave errore pensare che la soluzione a queste difficoltà possa venire dall’alto, cioè dall’Unione, e che gli Stati nazionali debbano assume-re un atteggiamento di passività o di mera gestione dell’esistente, li-mitando la propria azione al rispetto dei parametri economici, fun-gendo cioè da amministratori delegati di una società per azioni il cui comando è altrove. Del resto, è un dato di fatto che le finalità e le idee dei vari governi nazionali sono spesso divergenti tra loro, se solo si considera il filoamericanismo acceso dei polacchi, da un la-to, e l’antiamericanismo francese, dall’altro, o anche che se Joshka Fischer, nel suo famoso discorso del 2000 alla Humboldt-Universität di Berlino, spinse sull’acceleratore di una federazione politica degli Stati, la Gran Bretagna continua a considerare l’Unione Europea come una semplice zona di libero scambio, o al massimo un club di nazioni che talvolta si concertano su qualche tema di politica estera o di aiuto umanitario a paesi del Terzo mondo.

Rispetto ad una situazione che sembra voler fare della fine delle sovranità nazionali il perno di ogni soluzione politica ed economi-ca, occorre una consapevolezza forte della crisi del progetto euro-peista, una crisi che in realtà, come ho detto, non viene dal falli-mento dell’idea di una ‘Costituzione europea’, ma da una storia che ad un certo punto ha pensato di trasformare un progetto economico in un progetto politico ignorando la forte politicità sottesa proprio a quel primo progetto economico, che ha fatto una lunga strada esat-tamente grazie ad un tacito accordo politico originario tra i ‘signori dei trattati’, cioè gli Stati che decidevano come mettere in comune alcune loro specifiche competenze senza per questo mettere in di-scussione la propria sovranità politica o persino di sacrificarla sull’altare del primato della finanza internazionale.

Ma l’errore di passare ad una fase (fintamente) politica senza che ve ne fossero i presupposti è stato tanto più grave perché si è voluto agire politicamente attraverso il diritto, identificando poi specificamente la politica con una specifica ideologia, con la retori-ca dei ‘diritti dell’uomo’, ignorando certo che ogni discorso sui di-ritti presuppone un discorso sui doveri, ma sopra tutto il fatto che un progetto politico coerente deve essere anche consapevole del co-sto che i diritti implicano. Non è un caso che la Carta europea dei

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diritti sia stata oggetto di molte critiche sia politiche sia in dottrina. Le ambizioni pseudo-politiche che hanno scambiato i diritti e l’idea di costituzione con un fondamento politico di un’istituzione hanno aggravato la crisi dell’Europa ed oggi la Presidenza tedesca, alla quale si guarda con attesa e speranze, si trova dinanzi a compiti che non potrà risolvere, ma al massimo iniziare a comprendere nella loro portata ove se ne riesca a cogliere la vera dimensione e i presupposti.

4. Il ruolo degli Stati nazionali

Il primo punto da comprendere riguarda esattamente il ruolo degli Stati nazionali. Qualcuno, specialmente i burocrati di Bruxelles, hanno pensato che ove gli Stati nazionali non ci fossero l’Europa sarebbe più facilmente costruibile. In realtà, ci troviamo dinanzi all’illusione della colomba di Kant, che pensava di poter volare più in alto senza il peso dell’aria; l’Europa non si costruisce senza gli Stati nazionali, per lo meno senza alcuni di essi e senza che le opi-nioni pubbliche e i governi di questi Stati acquistino consapevolez-za sia della imprescindibilità degli Stati sia dei nuovi còmpiti che ad essi spettano nell’epoca della globalizzazione. Vale ancora quel che diceva Ernest Renan: «le nazioni europee così come le ha fatte la storia sono i pari di un grande senato in cui ciascun membro è in-violabile»3.

Partire dall’interesse nazionale non è contraddittorio, ma coeren-te con un progetto di europeismo politico e popolare, perché nell’interesse nazionale italiano c’è chiaramente la volontà di una certa Europa, che pur non coincidendo con l’Europa burocratica di Bruxelles o dell’alta finanza internazionale è certamente un’idea europeista, anzi autenticamente europeista, perché attenta alla vo-lontà concreta dei popoli europei.

Di qui anche la perplessità sull’allargamento com’è stato finora attuato, senza nessuna attenzione alle finalità strategiche completa-mente differenti esistenti tra alcuni paesi ed altri, europeisti di più vecchia data. La Francia ha cambiato la costituzione prevedendo un referendum confermativo per ogni eventuale futuro, ulteriore allar-

3 E. Renan, Lettera di Renan a Strauss del 15.9.1871, in Id., Che cos’è una nazione?, trad. it. Donzelli, Roma 1998, p. 75.

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gamento, ma così avrebbero dovuto fare da tempo tutti i paesi della vecchia Comunità europea, chiamando il popolo a pronunciarsi su ogni allargamento, anche per dare maggiore legittimazione al pro-getto europeista sulla base dei popoli e delle nazioni esistenti.

La legittimazione popolare è assolutamente decisiva in questo caso e lo è tanto più se si pensa, per esempio, al modo di procedere del nostro attuale Ministro dell’Economia, l’ex membro della Banca Centrale ed eurocrate noto, che ha voluto legittimare la sua Finan-ziaria 2006 anche contro gli scetticismi e le proteste degli Italiani andando a Bruxelles e menando vanto dell’approvazione dei suoi colleghi banchieri e della Commissione, quasi che l’Italia non ab-bia un governo autonomo e indipendente, ma debba dipendere dall’approvazione degli euroburocrati di Bruxelles, cosa che non sarebbe passata nemmeno per l’anticamera del cervello del pur ul-traeuropeista e ministro ‘verde’ degli Esteri della Germania di Schröder, ma che invece è stata approvata senza batter di ciglia da Prodi, evidentemente poco interessato al fondamento democratico delle decisioni politiche dei governi.

Come dimenticare, del resto, che mentre gli Italiani devono sve-narsi per rispettare il tetto massimo del 3% di deficit di bilancio sul PIL, Germania e Francia se ne infischiano allegramente di questo «patto stupido» (Prodi), mirando ad una crescita sostenuta, che nel caso della Germania si sta effettivamente realizzando, rimettendo in moto tutta la macchina produttiva tedesca? Si tratta di un dato che impone di ripensare al progetto europeo in tutta serietà, prima che i popoli perdano ogni simpatia per l’Europa, partendo dalla tutela dell’interesse nazionale4, che non significa altro se non dare contri-buti efficaci ad un progetto europeista attento ai popoli e non alle banche, alla politica e non alle corti giudiziarie, sulla base di un complesso di idee condivise e chiare. Si tratta, concretamente, di accogliere con decisione il libero mercato e la competizione eco-nomica, ma nella consapevolezza che il libero mercato ha bisogno di regole per funzionare, che queste regole possono e devono essere il risultato di un accordo efficace e partecipato degli Stati nazionali, sulla base di uno sforzo comune ma reciproco per dare e avere in uno scambio che sia in grado, alla fine e in prospettiva, di produrre 4 Cfr. A. Carrino, L’interesse nazionale come principio fondamentale, “Quaderni costituzionali”, 2/2007, pp. 348 ss.

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politica, una politica che tocchi gli interessi, ma anche i cuori e le menti degli europei e non riguardi soltanto le prese elettriche e la curva dei cetrioli.

E poiché nessuna politica si rivela veramente tale se si astiene dal decidere, ma è politica in quanto e perché decide, si tratta di produrre una politica comune che non può non essere una politica sociale in senso lato, ovvero di indirizzo e di facilitazione al tempo stesso. Occorre preparare per l’Europa un nuovo liberalismo, non però nel senso del vecchio liberalismo antipolitico, astensionistico, neutrale; occorre per l’Europa un liberalismo politico e decisionale, un liberalismo che sappia difendere le libertà concrete dei popoli e degli individui, attraverso una rivendicazione di unità di destino proprio dei popoli del vecchio Continente. Da questo punto di vista una certa dose di intelligente antiamericanismo è necessario proprio per fondare un nuovo rapporto di amicizia e collaborazione con gli Stati Uniti d’America, che non sia però sancito in termini di suddi-tanza, come addirittura avveniva all’art. I-40 del Trattato costitu-zionale, relativo al rapporto dei paesi europei con la Nato.

5. Una Costituzione per l’Europa?

Questo Trattato così detto costituzionale deve essere considerato oggi morto e sepolto, anche se è vero che il processo di ratifica è continuato anche dopo la bocciatura da parte di Francia e Olanda e che oggi una stragrande maggioranza dei firmatari lo ha approvato. Ma si tratta per l’appunto di firmatari in senso diplomatico, mentre solo Francia e Olanda hanno dato la parola al popolo e se lo avesse fatto anche la Gran Bretagna anche lì l’esito sarebbe stato negativo.

Quel testo non può e non deve essere ripreso come se nulla fosse stato. Eppure, da più parti si sottolinea il fatto che la maggioranza dei contraenti lo ha approvato. Il Ministro degli Esteri tedesco, Frank-Walter Steinmeier, in un’intervista a “Le Monde” del 21.12.2006, ha dichiarato di «voler mantenere la sostanza» della Costituzione bocciata perché quella Costituzione segnala l’Europa come «una comunità di valori», intesi come «diritti fondamentali». Nessuno contesta, in linea di principio, che l’Europa debba avere i suoi ‘di-ritti fondamentali’, ovviamente legati con una tavola di obblighi che tutti insieme formano dei ‘valori’, ma ciò presuppone l’esistenza di

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un soggetto politico europeo, che, contrariamente a quanto si crede, non può essere e non viene creato a priori dalle dichiarazioni dei diritti né, tanto meno, dalle sentenze dei tribunali comunitari, che si sono ormai sostituiti ai poteri dei governi nazionali. Anche per gli Stati Uniti d’America il Bill of Rights è venuto successivamente alla fondazione dell’Unione, quale esito di una volontà politica dichiara-ta e conclusa a Filadelfia nel 1787.

Così anche per l’Europa non è attraverso il diritto che può na-scere l’Europa, ovvero attraverso le astrazioni formalistiche e normativistiche di ideologi progressivi. È sufficiente leggere alcu-ne pagine del massimo teorico di questo approccio normativistico, Jürgen Habermas5 , per capire che al di là delle formule la sostan-za è assente. Cos’è mai la «solidarietà astratta e mediata dal diritto», cosa sono le «forme sempre più astratte di “solidarietà tra estranei”», che il sociologo tedesco elogia come cuore di una cultura superiore, se non la copertura verbale di processi reali ben diversi che ci si ri-fiuta di vedere per paura di dover invocare alla fine la tanto temuta e sulfurea decisione politica? Propria quella decisione politica che sottrarrebbe potere e funzioni ai giudici, tanto amati ed incensati dai grandi e piccoli Habermas, tedeschi o italiani?

C’è una deriva normativistica, nel discorso europeo attuale, che è mille miglia lontana dalle idee e dalle aspirazioni originarie che furono alla base del Trattato di Roma cinquant’anni fa. I cittadini europei, scrive ancora Habermas, sono uniti da «principi normati-vi», ovvero da norme, forme, regole. Ma si tratta, com’egli stesso fa capire, di norme inventate, puro prodotto del metodo giuridico, non certo della sostanza di uno spirito del popolo, che non c’è. Tutto ciò non è solo retorica, come quella di giuristi di varia impostazione, dal tedesco Ingolf Pernice all’italiano Stefano Rodotà (uno dei padri della discussa Carta dei diritti), ma scelta precisa a favore di un progetto di integrazione che rischia veramente di tagliare fuori i po-poli, di sterilizzare la democrazia e la volontà della gente in nome di norme ‘superiori’ note soltanto a qualche giurista (giudice) ‘illu-minato’.

Ma tanto più grave è tutto ciò in quanto, anche senza aver ap-provato la Costituzione (e non c’era da dubitarne) è continuato il rafforzamento del diritto europeo sui diritti statali nazionali. Ora- 5 Cfr. J. Habermas, Tempo di passaggi, trad. it. Feltrinelli, Milano 2004.

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mai, come dimostra anche la recente sentenza del Conseil d’Etat francese dell’8 febbraio scorso (su regolamenti francesi di attuazio-ne del Trattato di Kyoto), il legislatore e quindi anche il giudice na-zionali sono impotenti rispetto al primato della legge europea, che si impone direttamente sulle leggi nazionali, sulla base dei trattati vigenti, costringendo, come nel caso citato, a rinunciare a decidere su questioni che pure apparentemente implicano una presa di posi-zione diretta dei parlamenti, governi e/o giudici nazionali, rinviando alla Corte di Giustizia. Tutto ciò senza alcun tentativo di rafforzare la democrazia a livello europeo, ma anzi, di fatto, dando per scontato che il baratro tra cittadini e istituzioni europee è destinato a crescere.

In queste condizioni occorre che a livello dei singoli Stati nazio-nali si faccia chiarezza e che i parlamenti e i governi nazionali si assumano tutte le loro responsabilità dinanzi ad una situazione che, pur nel silenzio assordante determinato dalla crisi delle istituzioni eu-ropee, non fa che accrescere il baratro esistente tra i popoli e l’Europa, in una direzione del tutto contraria allo spirito dei Trattati di Roma, che volevano per l’appunto unire i popoli europei attraverso una via, che, per quanto apparentemente solo economica, aveva inve-ce una forte carica politica culturale e anche spirituale.

Che fare? È condivisibile l’impegno della Germania di voler di-chiarare una responsabilità dell’Europa per la politica sociale, ma come mai, allora, il ministro tedesco Steinmeier sottolinea anche che non si può seriamente pensare di mettere «in comune i nostri strumenti in materia di pensioni, sanità, assistenza sociale»? Che ciò venga detto da chi si è in passato più impegnato per una omoge-neizzazione delle normative europee deve suonare come un campa-nello d’allarme per i nostri governanti. Dai nostri soci e partners ci viene detto che le politiche sociali non saranno europeizzate più di tanto. Che si può fare una Bolkenstein che liberalizzi i servizi per tutta l’Europa, ma non una politica sociale per tutta l’Europa (esat-tamente il contrario di quanto ha detto e auspicato il ministro degli esteri italiano, Massimo D’Alema, alla Libre Université di Bruxelles l’11 febbraio 2007).

E allora ciò vuol dire che gli Stati nazionali devono tutti rivendi-care i loro diritti, specialmente nel campo della politica sociale, ma non solo. L’Europa, in realtà, abolisce solo la sovranità degli Stati nazionali che a questa sovranità hanno già unilateralmente abdicato.

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Una riserva di sovranità viene invece rivendicata dovunque si av-verta e anche si accetti la primazia del diritto europeo. Lo ha fatto la Corte costituzionale tedesca nel 1993, lo ha fatto, sia pure in manie-ra ambigua, il Conseil constitutionnel francese recentemente, riser-vandosi di impedire la recezione di qualunque direttiva comunitaria che violi «un principio relativo all’identità costituzionale della Francia» (arrêt 8.2.2007). Non è possibile, per fare un esempio, che a decidere quali e quanti stranieri possano iscriversi nelle Università italiane sia la legge europea e non quella italiana; che i tedeschi non possano decidere autonomamente se le donne tedesche possano avere accesso o meno all’uso delle armi negli impieghi militari.

Ci troviamo dinanzi ad una situazione che non può essere sem-plicemente ignorata, come fanno alcuni governi (compreso quello italiano) e anche parte della dottrina.

La prima risposta che viene data a questa crisi è per la verità ge-nerale, ma anche generica e semplicistica: bisogna ‘democratizzare’ l’Europa. Si dà insomma per scontato che anche le costituzioni na-zionali sono cedevoli rispetto alla legge europea. Ora questo è un esito nient’affatto scontato, né legalmente determinato, ma soltanto il risultato, paradossalmente proprio di molte sentenze delle Corti costituzionali europee, le quali hanno gradualmente riconosciuto la superiorità del diritto europeo e oramai sembrano voler rinviare alla Corte di Lussemburgo quale Corte costituzionale europea.

Si tratta di una situazione pericolosa, per due ragioni: la prima, perché i trattati vigenti non hanno mai formalmente sottratto poteri alle Corti costituzionali, le quali restano i custodi delle costituzioni, che sono ancora la legge suprema dello Stato; la seconda, perché rischiano di legittimare una situazione di fatto che nessuno ha volu-to e che è in sé profondamente contraria allo spirito delle democra-zie europee: i popoli sono del tutto estromessi dalla formazione del diritto, che ha ormai quali ‘sponde’ i burocrati di Bruxelles e i giudici di Lussemburgo (a partire dalla famosa sentenza Costa del 1964). È vero che in alcuni casi (l’Italia non lo ha fatto, più per ignavia che per diversa volontà) sono state modificate le costituzioni per consentire l’incorporazione del Trattato di Maastricht negli ordinamenti nazio-nali (art. 88 della Costituzione francese e art. 23 della Costituzione tedesca), ma i limiti dei diritti fondamentali dei cittadini nazionali non sono mai stati toccati, anzi riaffermati, sicché fare della Corte

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di Lussemburgo una sorta di Corte suprema sul modello americano, senza che nessuno abbia ratificato un patto federativo, senza che nessuno abbia conferito poteri alla Corte di Lussemburgo, senza che nessun membro di parlamento nazionale o europeo sappia chi c’è dentro le toghe color porpora di questa Corte sempre più poten-te, sembra aprire scenari kafkiani, che dubito fortemente fossero presenti alle menti dei sottoscrittori dei Trattati di Roma. Mi limito ad un esempio noto ma emblematico: se una squadra di calcio, sia essa il Lazio o il Chelsea, può oggi essere formata da giocatori non italiani o non inglesi anche per la loro totalità, è la conseguenza di una sentenza della Corte di Giustizia del 1995 (caso Bosman), ma fino a che punto corrisponde alla volontà dei sostenitori del Lazio o del Chelsea? Lo stesso dicasi per molte altre questioni, la cui genesi è di fatto ignorata dai comuni cittadini.

6. Il ritorno della sovranità

Anche gli altri paesi non hanno abdicato alla sovranità nazionale, e in particolare quelli in fase di sviluppo. Rispetto a questa situazione l’Italia si trova svantaggiata, a causa di un atteggiamento di suddi-tanza, talvolta furbesco, talaltra spontaneo, rispetto all’Unione Eu-ropea e alla sua Commissione. Sicché si è determinata una situazio-ne di stallo, dalla quale occorre pure, in un modo o nell’altro, usci-re. Come? Innanzi tutto, spetta agli Stati nazionali porre le condi-zioni per un nuovo balzo in avanti europeistico. Ciò può accadere solo partendo dagli Stati e dai governi nazionali, ai quali compete di procedere sulla via di un autentico risanamento delle loro econo-mie, dando non solo speranze ai propri cittadini, ma concrete e pre-senti realtà di occupazione, di qualità della vita, di dignità personale e sociale. Ecco perché un governo che si rispetti non può andare a chiedere conforto a Bruxelles, ma deve ascoltare la voce del proprio popolo, talvolta anche per contraddirla, ma sempre sentendosi parte di quel popolo e non di un consiglio d’amministrazione estraneo.

Rivendicando dignità e nuove forme di sovranità agli Stati na-zionali si pongono le premesse per un’Europa soggetto politico in un mondo globalizzato. La costituzione – anche quella finta propo-sta con il Trattato bocciato – non può essere, in queste condizioni, alle spalle di un processo, ma solo l’esito ultimo di un cammino che

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è ancora tutto da intraprendere e che ha bisogno di una razionaliz-zazione concreta ed efficace, senza bisogno di richiamarsi né a Pe-ricle né alle radici cristiane. Si tratta di lasciare nel dimenticatoio il Trattato costituzionale, con la sua inutile Carta dei diritti, e proce-dere ad un nuovo trattato che resti tale anche nella dizione e ad un nuovo ‘Atto unico’ che promuova politiche comuni sulla base degli interessi comuni.

L’Atto Unico Europeo del 1986, che ha lanciato il mercato unico interno, ha svolto un ruolo decisivo, cambiando i parametri del pro-getto di integrazione. Non si chiamava costituzione, né immaginava bandierine da collocare qua e là, ma entrava nel merito delle que-stioni (non tutte, per la verità, risolte in maniera giusta). Di questo si ha oggi ancora bisogno: obiettivi chiari e condivisi (a partire da una politica europea dell’energia, anche di quella nucleare, per fini-re con una politica dell’innovazione e delle nuove conoscenze), me-todo di decisione all’altezza degli obiettivi, individuazione delle ri-sorse necessarie, razionalizzazione e riduzione delle spese. Ciò pre-suppone soggetti responsabili politicamente in senso democratico, capaci di decidere e che sappiano qual è la posta in gioco. Bisogna che l’Europa riprenda il suo cammino partendo dagli Stati naziona-li, da quelli che sono stati definiti i “signori dei trattati” e che devo-no riprendere in mano il gioco politico, sottraendolo ad istituzioni che vanno ripensate e rifondate, a partire dalla Corte di Giustizia, alla quale va sottratto lo scettro per ridarlo ai popoli europei e ai lo-ro governanti. Gli Stati devono riacquistare responsabilità sia verso l’alto, l’Unione, sia verso il basso, ovvero, in definitiva, i loro citta-dini. Soltanto in questo modo essi potranno impedire che a decidere siano alla fine, sulla base dei propri interessi, i grandi gruppi eco-nomici e finanziari transnazionali.

Il recupero di sovranità ai ‘signori dei trattati’ è poi la premessa anche per quella politica della geometria variabile, ovvero delle “cooperazioni rafforzate” tra quegli Stati che lo vogliano, che, con-trariamente a quanto si sostiene, non è possibile in quanto presup-pone l’assenso dell’Unione nel suo insieme. Ed è anche la premessa per un nuovo Trattato più agile, che razionalizzi quelli vigenti, sia dal punto di vista delle istituzioni sia delle politiche: si tratta di ri-formare la Commissione, perché non ha senso avere un organo ple-torico che pure ha poteri eccessivi; di ridare senso al Consiglio eu-

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ropeo, come luogo di discussione e di decisione; di far partecipare i parlamenti nazionali, che al momento svolgono un ruolo sempre meno incisivo anche a livello interno, alle proposte rilevanti sul piano comunitario; di riformare il Parlamento europeo; di indivi-duare degli organi unitari rappresentativi dell’Unione. Ma sopra tut-to si tratta di sottrarre l’Europa agli interessi dell’alta finanza, per restituirla ai popoli attraverso i loro Stati nazionali, che non costi-tuiscono l’alternativa al progetto di integrazione, bensì proprio il suo unico possibile e legittimo fondamento.

Per concludere, vorrei ricordare che il Presidente Napolitano, parlando a Strasburgo il 14 febbraio scorso, ha invitato a riprendere in mano il testo della ‘costituzione’ europea per approvarla; si trat-ta, egli ha detto, di «andare avanti, per non andare indietro». Potrei obiettare che tornare a discutere di costituzione europea contraddice l’idea delle “cooperazioni rafforzate”, in quanto quest’ultima ipote-si implica l’abbandono della costituzione, che per sua natura do-vrebbe coinvolgere tutti. Ed è un’obiezione che andrebbe fatta an-che al Ministro degli Esteri D’Alema, che pare abbia sostenuto anch’egli entrambe le ipotesi.

In verità, però, la questione è diversa: avanti o indietro potrebbe benissimo esserci un burrone; si tratta invece di andare dove si vuo-le arrivare, spero ad un’Europa politicamente sovrana dei popoli e delle nazioni. Se ci si potrà arrivare, ovviamente è ancora un altro problema.

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 61-77 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

La souveraineté comme principe d’imputation1

Michel Troper

Les principes et les concepts juridiques de la théorie classique sont-ils encore adéquats et propres à l’analyse du pouvoir ou même seu-lement des constitutions, malgré les changements considérables qui affectent le politique en général et l’État en particulier? La tentation est forte de répondre par la négative, en raison de plusieurs phéno-mènes bien connus: la mondialisation, la construction européenne, l’extension de l’État de droit ou le contrôle de la constitutionnalité des lois. De fait, de nombreux auteurs et non des moindres soutien-nent que l’État contemporain a subi des transformations si impor-tantes qu’il a perdu son attribut essentiel, la souveraineté. Souverai-neté serait dès lors un concept périmé et «État» aurait désormais une signification toute différente.

La difficulté de la vérification provient de ce qu’il s’agit de décrire, le discours juridique, est fait de termes qui le plus souvent se réfèrent à des concepts.

Pour tenter de vérifier cette thèse, plusieurs méthodes sont envisageables.

On pourrait d’abord dresser une liste des principes essentiels et rechercher si le droit, notamment le droit constitutionnel et le droit international, s’y conforment. Ainsi, l’on pourrait examiner si sont respectés le principe de la souveraineté, de la personnalité de l’État, celui de l’unité, le principe représentatif ou encore celui de la sépa-ration des pouvoirs. S’ils ne s’y conforment pas, on pourrait conclu-re que ces principes ne rendent plus compte du pouvoir dans les so- 1 Une version légèrement différente de ce texte a été publiée dans Maillard-Desgrées du Loû (dir.), Les évolutions de la souveraineté, Montschrestien, Paris 2006, pp. 69-80s.

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ciétés modernes et que les concepts correspondants sont devenus inadéquats.

Cette méthode présente plus de difficultés qu’elle ne permet d’en résoudre. Avant tout, on ne peut sans arbitraire déterminer parmi ces principes lesquels sont essentiels et lesquels sont accessoires. Si l’on appelait essentiels uniquement les principes auxquels se conforment tous les États, on n’en trouverait pas un seul. Certains, comme la séparation des pouvoirs sont expressément répudiés par quelques constitutions et d’autres comme le principe représentatif ou la souveraineté peuvent bien se voir proclamés, mais leurs contenus sont si divers qu’ils ne peuvent être considérés communs à tous les systèmes juridiques ou même à quelques uns d’entre eux. Ainsi, à supposer qu’on découvre de tels principes communs, on ne pourra jamais déterminer si leurs contenus sont identiques.

Pourtant, si l’on conclut que les sociétés sont aujourd’hui différentes de ce qu’elles étaient, qu’elles ne sont plus régies par les mêmes principes, qu’on ne peut plus en rendre compte à l’aide de ces concepts, on est dans l’incapacité d’en tirer la moindre conséquence juridique.

En effet, les principes et les concepts juridiques présentent un trait tout à fait spécifique: ils sont employés à deux niveaux de discours. D’une part, ils appartiennent au langage du droit, celui des constitutions, des lois, des traités, des décisions juridictionnelles. Mais d’autre part, on les rencontre aussi dans le métalangage de la science du droit ou de la doctrine juridique. Or, il se peut que la doctrine estime que l’on ne peut plus caractériser l’État en général ou tel État particulier par la souveraineté, mais que la constitution de nombreux États invoque malgré tout le principe de la souveraineté nationale. On ne peut pas prétendre que cette constitution ment ou commet une erreur, parce que les dispositions d’une constitution n’expriment pas des propositions indicatives et ne sont pas susceptibles d’être vraies ou fausses. Mais on ne peut pas non plus estimer que c’est la doctrine qui se trompe, car il se peut que le principe de souveraineté énoncé dans la constitution ne soit pas le même que celui visé par la doctrine.

D’ailleurs, à l’inverse, le fait qu’une constitution ne contienne pas de disposition de cette espèce ne suffirait pas à invalider la doctrine qui caractériserait cette constitution comme consacrant le

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principe de souveraineté. La doctrine en effet peut bien décrire la constitution à l’aide de concepts qui n’appartiennent pas au langage objet. C’est un fait bien connu par exemple que l’on analyser le droit civil français au moyen du principe de l’autonomie de la volonté, qui n’est pas énoncé directement par le code, mais a été construit par la doctrine du 19ème siècle. Le concept ne peut donc pas être contesté au seul niveau de la doctrine, parce que celle-ci ne se limite pas à la description d’une réalité objective, mais doit aussi rendre compte d’un langage. Même s’il était vrai que l’État n’est plus souverain, il resterait que l’État – au moins certains États – emploient le concept de souveraineté. Il est alors impossible d’affirmer de cette manière que les principes et les concepts classiques sont ou ne sont pas adéquats.

Une deuxième méthode pourrait consister à construire de nou-veaux concepts et à imaginer des principes qui soient adaptés aux nouvelles réalités. On pourrait par exemple estimer que la propo-sition «l’État a perdu sa souveraineté du fait de la construction européenne» ou la proposition contraire «l’État a conservé sa souveraineté malgré la construction européenne» sont toutes les deux insatisfaisantes et souhaiter les remplacer par une autre «l’État et l'Union Européenne possèdent le caractère exclusif x». On aurait procédé comme la science lorsqu’elle remplace un concept par un autre plus opératoire. La difficulté est que, comme avec la méthode précédente, nous ne sommes pas en présence de propriétés empiriques, que nous pourrions appréhender avec des concepts librement construits, mais d’un discours.

Or, c’est un fait incontestable que les discours juridique et les textes des constitutions ou des décisions juridictionnelles contiennent justement des termes comme souveraineté et c’est évidemment que leurs rédacteurs y trouvent quelques avantages. On ne peut pas supposer que le discours serait mieux décrit à l’aide d’un autre concept que celui qu’il emploie lui-même. Il est donc parfaitement vain de proclamer que souveraineté est un concept inutile et que le principe de souveraineté est périmé, alors que le concept est effectivement utilisé et le que principe est valide dans le système juridique que l’on veut décrire. On objectera que l’emploi d’un même mot n’est pas un indice infaillible qu’il s’agit bien du même concept, mais on ne peut établir qu’il s’agit du même concept ou de

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concepts différents désignés par le même mot sans examiner la fonction que ces termes remplissent dans le droit positif.

Il faut donc explorer une troisième voie et procéder de manière purement descriptive. Il importe de partir des termes mêmes qu’emploie le langage du droit positif et rechercher non pas ce qu’est la souveraineté (ou la représentation ou la séparation des pouvoirs), ni de quelle façon il faudrait la concevoir, mais simplement quelle est la signification, c’est-à-dire la fonction, de ces termes dans le discours constitutionnel.

Ainsi, l’article 3 de la constitution française dispose que «la souveraineté nationale appartient au peuple qui l’exerce par ses représentants et par la voie du référendum».

Il apparaît que cet article ne donne aucune définition de la sou-veraineté en général, ni de la souveraineté nationale. En revanche, il accomplit une triple tâche: il affirme l’existence d’une souveraineté nationale, il désigne son titulaire, il prescrit un mode d’exercice.

On voit qu’ainsi il règle une question complémentaire de celle que traitait Carré de Malberg dans sa fameuse définition. Le plus grand juriste français du 20ème distingue en effet trois significations de ces mots:

“Dans son sens originaire, [le mot souveraineté] désigne le caractère suprême de la puissance étatique. Dans une seconde acception, il dési-gne l’ensemble des pouvoirs compris dans la puissance d’État, et il est par suite synonyme de cette dernière. Enfin, il sert à caractériser la po-sition qu'occupe dans l’État le titulaire suprême de la puissance étati-que et ici la souveraineté est identifiée avec la puissance de l'organe”2.

Carré de Malberg souligne que ces trois significations correspondent à trois termes différents dans la langue allemande, Souveränität, la souveraineté dans le premier sens, c’est à dire le caractère suprême de l'Etat aussi bien sur le plan interne que sur le plan international, Staatsgewalt, la puissance d'État ou souveraineté dans le second sens, et Herrschaft ou puissance de domination de l'organe. D'après lui, ces distinctions doivent permettre d'apercevoir la “véritable nature” de la souveraineté3. Il n'est évidemment nullement certain qu'il existe une telle véritable nature de la souveraineté, mais la distinction permet 2 R. Carré de Malberg, Contribution à la théorie générale de l’État, Sirey, Paris1920, réimpr. CNRS, 1962.t. I., p. 79. 3 2 ibid. p. 86.

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sans aucun doute d'éclairer certaines questions habituellement présentées de façon confuses.

C'est ainsi qu'on se demande parfois si la souveraineté peut être divisée. Mais la réponse dépend du sens que l’on attache à ce terme. S'il s'agit par exemple de la souveraineté comme qualité de celui qui est au dessus de tous, elle est évidemment indivisible au sens propre du terme, puisque si l'on tente de la diviser, il n'y a plus de souverain. Par contre, si l'on vise la puissance d'État, c’est-à-dire la somme des compétences qui peuvent être exercées par l’État, elle est parfaitement indivisible et peut d'ailleurs être divisée selon plusieurs modalités. On peut en effet distinguer ces compétences par leur objet, le pouvoir de faire la guerre, de battre monnaie, de faire des règles générales, de rendre la justice, etc. et attribuer chacune d'elles à une autorité différente. On peut aussi les distinguer selon le types d'actes nécessaires pour les mettre en œuvre, par exemple les lois et les actes d'exécution des lois, puis les répartir de même entre plusieurs autorités. La séparation des pouvoirs constitue précisément une division de ce genre. On peut encore distinguer selon le domaine de validité des normes juridiques et répartir les compétences pour produire ces normes, comme on le fait dans un État décentralisé ou dans un État fédéral, dont on dit d'ailleurs parfois justement qu'il organise une séparation verticale des pouvoirs ou une division verticale de la souveraineté.

De même, l'analyse de Carré de Malberg permet de dissiper certaines confusions résultant de ce que plusieurs propositions peuvent être simultanément vraies, alors qu'elles paraissent mutuellement incompatibles. Ainsi, sous la IIIème République, on pouvait parfaitement écrire “l’État français est souverain”, “le Parlement est souverain” et “la loi est souveraine”. Dans la première proposition en effet, la souveraineté désigne le caractère suprême de la puissance étatique, ce qui fait que l’État français est bien un État, dans la seconde la qualité de l'organe qui exerce la fonction suprême c’est-à-dire la fonction législative, dans la troisième la suprématie même de cette fonction.

Pourtant, la distinction de Carré de Malberg ne rend cependant pas compte de certaines phrases qui sont pourtant couramment énoncées aussi bien dans certaines constitutions que dans le discours des juristes. Ainsi «le peuple est souverain» ou «la souveraineté

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appartient au peuple français» ou la formule de l’article 3 déjà mentionnée «La souveraineté nationale appartient au peuple qui l’exerce par ses représentants et par la voie du référendum». Elles ne signifient ni que le peuple français exerce une puissance de domination sur tous les groupes et toutes les institutions à l’intérieur, ni qu’il est un sujet du droit international, ni qu’il est un organe placé au dessus de tous les autres, encore moins qu’il serait un ensemble de compétences. En réalité, elles sont employées pour offrir une justification à d’autres phrases dans lesquelles figurent les mots «souverain » ou «souveraineté». Ainsi, «le Parlement est souverain» se justifie par l’idée que si le Parlement est l’organe suprême c’est qu’il représente le peuple et que dès lors il exerce une souveraineté qui ne lui appartient pas mais dont l’essence réside dans le peuple seul.

On peut donc dégager un quatrième sens du mot «souverain» ou un quatrième concept de souveraineté, qui est révélée par le discours constitutionnel: c’est la qualité de l’être au nom duquel est exercée la souveraineté dans les trois premiers sens. Ainsi, dans les démocraties représentatives le pouvoir législatif est exercé au nom du peuple, qui est qualifié de souverain. C’est d’ailleurs pour justifier cette appellation de démocraties représentatives qu’on affirme que la souveraineté appartient au peuple, bien qu’il ne l’exerce pas lui-même ou qu’il l’exerce «par ses représentants».

On comprend ainsi qu’un principe d’imputation est nécessaire. D’un autre côté, ce principe d’imputation est aujourd’hui en crise.

1. La nécessité d’un principe d’imputation

Le recours à un concept de souverain comme point d’imputation des règles juridiques est nécessaire à toute théorie juridique qui admet que le droit est un ensemble de commandements obligatoi-res. Il ne s’agit pas seulement pour une telle théorie, en dépit de ce qu’on croit généralement, de donner à ces règles une légitimité, mais simplement de les définir. C’est ainsi que John Austin définit les règles comme des commandements émanant du souverain où dérivées directement ou indirectement d’un commandement du souverain. Le souverain quant à lui est défini comme celui, indi-

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vidu ou collège, à qui l’on a l’habitude d’obéir et qui n’obéit habi-tuellement à personne.

Cette définition a donné lieu à une critique célèbre de H.L.A. Hart. Celui-ci souligne la faiblesse de la définition par l’habitude d’obéissance. On peut dire que les Anglais ont l’habitude de fré-quenter la taverne le samedi soir. Mais nul ne prétendra qu’ils ont l’obligation de le faire. S’ils ont l’habitude d’obéir à un individu pourquoi dirait-on qu’ils ont l’obligation de lui obéir et que cet in-dividu a le «droit» de commander. Il n’est même pas vrai qu’il exi-ste une habitude de lui obéir: si le souverain meurt, personne n’a, par hypothèse l’habitude d’obéir à son successeur. On ne peut donc pas comprendre ni pourquoi celui-ci aurait le droit de commander, ni pourquoi on devrait lui obéir. En réalité, dit Hart – Kelsen for-mule d’ailleurs des remarques analogues – on ne peut se passer d’un concept de droit de commander et d’un concept d’obligation d’obéissance4 pour pouvoir distinguer le pouvoir du souverain du pouvoir brut et l’habitude d’obéir d’autres habitudes, comme celles de suivre les conseils de son conjoint.

Ces critiques sont parfaitement justifiées, mais si elles montrent bien que le concept de souverain d’Austin est insuffisant parce qu’il lui manque un fondement, elles montrent aussi que dès lors qu’on conçoit le droit comme obligatoire, on ne peut éviter de rechercher un fondement à ce caractère obligatoire. Ou bien l’on doit présupposer ce fondement, comme le fait Kelsen avec sa norme fondamentale, ou bien, l’on renonce au caractère obligatoire et l’on définit le droit à la manière de Hart, comme l’ensemble des pratiques des juristes, ce qui signifie qu’on revient au raisonnement d’Austin, parce que les juristes identifient bien une règle juridique par sa source.

C’est seulement, si l’on se place dans une perspective véritable-ment positiviste que l’on peut renoncer à la recherche d’un fonde-ment. On peut en effet considérer que le droit dans son ensemble n’est pas objectivement et absolument valide ou obligatoire, qu’il n’y a que des énoncés et que ces énoncés ne sont valables que rela-tivement les uns aux autres. Ce qu’on appelle ordre juridique appa-raît alors comme un discours, dont il importe d’examiner le conte-nu. Mais, même alors, on n’échappe pas à la question du fonde-ment. Sans doute, ne s’agit-il plus du fondement d’un caractère ob- 4 H.L.A. Hart, The concept of Law, Clarendon Press, Oxford 1961, p. 50-60.

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jectivement obligatoire, qui n’existe pas, mais de celui qui est invo-qué par le discours juridique.

La question n’est pas donc de savoir s’il y a un souverain, quels sont ses pouvoirs et leurs fondements. Il suffit de constater que les juristes emploient ce concept et de rechercher pourquoi ils en ont besoin. Il n’est pas nécessaire de répondre à la question de savoir pourquoi on obéit. On observe que, dans l’État moderne, les gou-vernants, pour justifier leur pouvoir de commander et l’obligation d’obéir qui pèse sur les sujets, invoquent la souveraineté.

Ce terme – et les différents concepts qu’il désigne – peut d’ailleurs servir à des fins différentes: par exemple pour justifier le refus de se soumettre à l’Empereur, au pape ou aujourd’hui à une organisation internationale qui prendrait ses décisions à la majorité des États dans des domaines essentiels, on invoque la souveraineté dans le premier sens; pour affirmer le droit de produire des normes dans tel ou tel domaine, la guerre ou la monnaie, on invoque la souveraineté dans le second sens, etc.; pour justifier son pouvoir de produire des normes du plus haut niveau, il faut affirmer soit qu’on en est bien l’auteur, soit que l’on n’exprime pas sa propre volonté, mais celle d’un autre être, que l’on parle en son nom et imputer ces normes à cet être, c’est-à-dire invoquer la souveraineté dans le quatrième sens. Les gouvernants ne peuvent dire que: «vous devez m’obéir parce que je suis le souverain» ou bien «vous devez m’obéir bien que je ne sois pas le souverain, parce que je ne fais qu’exécuter sa volonté». Ainsi, la souveraineté dans ce sens est bien un procédé d’imputation à un être réel ou fictif – peu importe – des normes les plus élevées et indirectement de toutes celles qui sont réputées en dériver. Un tel mécanisme est indispensable dans tout système hiérarchisé.

Les titulaires de la souveraineté, c’est-à-dire les êtres qui servent de points d’imputation sont très divers: parfois, c’est l’auteur lui-même, le roi de France ou le Parlement anglais, parfois un être fictif, la nation, le peuple ou encore l’État. On peut montrer que la désignation de l’être auquel ces normes sont imputées ne dépend pas seulement des idéologies politiques, mais aussi de la structure même du système juridique et de la répartition des compétences5. 5 M. Troper, Le droit, la théorie du droit, l'Etat, PUF, Paris 2001, chap. XVIII “le titulaire de la souveraineté”, p. 283s.

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Ainsi, pour donner un rapide exemple, sous la Révolution française, le pouvoir législatif est censé exprimer la volonté générale, mais qui est le sujet de cette volonté? Si ce pouvoir est exercé par une assemblée élue, on peut désigner le peuple ou la nation, les deux termes étant pris comme synonymes. Mais si le pouvoir législatif a une structure mixte, avec un élément démocratique et un élément monarchique, comme c’est le cas en 1791, cette justification ne fonctionne plus, car, dans un système où le peuple est souverain, ou bien il exerce lui-même la souveraineté et le système est une démocratie, ou bien il en délègue l’exercice, mais il ne peut pas simultanément exercer la souveraineté et la déléguer. Comme un organe mixte ne peut parler au nom de trois souverains, parce que la souveraineté est indivisible, ni au nom du peuple, parce que si le peuple était souverain, le système ne serait pas mixte, il faut qu’il parle au nom d’un souverain différent, qui sera la nation, une entité abstraite, dont le peuple n’est qu’un élément, l’autre étant le roi. Dans ces conditions, le pouvoir législatif est bien exercé par un organe mixte, lui-même formé de deux éléments, le corps législatif et le roi, correspondant respectivement aux deux éléments de la nation, mais tous deux représentants de la nation entière.

Ainsi, dans l’État moderne, toute décision est bien imputée au souverain immédiatement ou médiatement. Immédiatement si cette décision est une loi, réputée exprimer la volonté générale. Médiatement, si elle est dérivée d’une loi. C’est ce mode de justification du pouvoir, qui est aujourd’hui en crise.

2. La crise actuelle du principe d’imputation

La crise résulte de l’impossibilité dans laquelle on se trouve d’imputer les décisions immédiatement ou médiatement à un autre que celui qui l’a prise. Elle se manifeste dans le droit interne, mais plus encore dans le contexte particulier du droit européen.

Dans le droit interne, on se heurte à trois difficultés, d’ailleurs, d’inégale gravité, résultant de l’existence de règles qui ne sont pas législatives, ni dérivées de règles législatives.

a) La première concerne les normes dont la production n’a pas été autorisée par la loi. L’imputation à un souverain est nécessaire et facile pour justifier l’exercice du pouvoir législatif, mais aussi la

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production de normes infra législatives produites sur le fondement d’une loi. Si une décision n’est que le produit d’un syllogisme dont la prémisse majeure est la loi, alors elle est imputable elle-aussi au pouvoir législatif et donc au souverain. C’est ce qu’exprime la de-vise des débuts de la Révolution française «la nation, la loi, le roi» ou aujourd’hui «au nom de la loi» ou encore «au nom du peuple français».

Même lorsqu’une décision particulière n’est pas réductible à la conclusion d’un syllogisme, c’est-à-dire dans tous les cas où il existe une marge de pouvoir discrétionnaire, autrement dit, presque toujours, il suffit que ce pouvoir s’exerce en vertu d’une habilitation conférée par la loi pour que l’on puisse imputer la décision au souverain.

Le problème ne se pose donc réellement que si une décision est prise sans habilitation du pouvoir législatif, par exemple parce qu’il y a une habilitation conférée directement par la constitution, comme c’est le cas pour les actes qui se rattachent à la conduite des rela-tions internationales. On ne peut affirmer alors que ces actes sont autorisés par la volonté du souverain.

Néanmoins, ce problème peut être résolu de trois manières diffé-rentes:

• Ou bien l’on assimile ces actes à des actes d’exécution de la loi ou d’actes quasi-législatifs. C’est ce qu’on faisait sous la Révolution française pour les actes accomplis par le roi dans la conduite des relations internationales ou de la guerre. Il en va de même aujourd’hui pour les décrets de l’article 37, que la jurisprudence du Conseil d’Etat a soumis à la loi. Ils ne sont pas autorisés par une loi, expression de la volonté géné-rale, mais ils ne peuvent méconnaître cette volonté.

• Ou bien l’on considère qu’il s’agit d’actes relatifs à des rap-ports entre organes et qu’il n’est pas nécessaire de les inter-préter comme pris au nom du souverain parce qu’ils peuvent être imputés à leur auteur réel. Ainsi, la dissolution d’une assemblée par le chef de l’État.

• Ou bien encore, on peut imputer ces actes au souverain de façon immédiate, parce que la constitution institue la pré-somption qu’ils sont l’expression de la volonté générale. C’est le cas des décisions de nature législative adoptées en

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vertu de la constitution française de 1958 par d’autres auto-rités que le Parlement: les ordonnances l’article 92 prises pendant la période transitoire jusqu’à la mise en place des institutions ou encore certaines décisions prises par le Prési-dent de la République lorsque l’article 16 est en vigueur. C’est d’ailleurs dans le fait que ces décisions sont des lois, qu’elles expriment par conséquent la volonté générale – et qu’elles sont ainsi imputées au peuple français – que l’on peut trouver la meilleure justification de l’affirmation que le Président de la République est un représentant.

b) La seconde difficulté rencontrée par le principe d’imputation en droit interne provient du contrôle de constitutionnalité. Elle résulte évidemment du fait que les décisions de l’autorité de contrôle annulent ou empêchent l’application de lois et qu’elles ont elles-mêmes un caractère législatif, alors qu’elles émanent d’organes non élus, dont la constitution ne prétend pas qu’ils expriment la volonté générale ou qu’ils représentent le peuple.

La nécessité de justifier malgré tout le contrôle de constitution-nalité a conduit cependant à plusieurs tentatives pour les imputer malgré tout au peuple. La difficulté est cependant inégale dans le système américain et dans le système français.

Aux Etats-Unis, la loi n’est pas l’expression de la volonté géné-rale. Aussi est-il admis que les représentants expriment leur propre volonté – en vertu d’une habilitation – et non celle du peuple souve-rain. La volonté du peuple souverain n’est réputée énoncée que dans la constitution (We the people). Le contrôle de constitutionna-lité est alors présenté comme une confrontation de la volonté des représentants à la volonté du peuple, de manière à établir que les lois jugées conformes à la constitution ont bien été prise en vertu d’une habilitation du souverain.

Ce raisonnement ne permet évidemment pas de résoudre ce qu’on a appelé «the countermajoritarian difficulty» mais il permet tout de même d’imputer la décision des juges à la constitution, c’est-à-dire au peuple qui l’a adoptée et qui peut la modifier, soit formellement par les procédures de révision, soit de façon informelle6.

6 B. Ackerman, We the People I., Harvard UP, Cambridge, Mas. 1991, trad. fse: Au nom du peuple, Calmann-Lévy, Paris 1998.

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Une telle solution n’est pas aisément transposable en France en raison d’un caractère particulier du système constitutionnel. Ce n’est en effet pas seulement la constitution qui est réputée exprimer la volonté du peuple, mais aussi la loi ordinaire, puisque, selon la fameuse définition de l’article 6 de la Déclaration des droits de l’homme, la loi est l’expression de la volonté générale. Pour pou-voir continuer à présenter la loi comme l’expression de la volonté du peuple, il faut recourir à l’une des constructions suivantes, dont aucune n’est véritablement satisfaisante.

On peut d’abord prétendre que la loi n’est pas toujours et né-cessairement l’expression de la volonté générale. Il y a des tenta-tives en ce sens (notamment dans la fameuse formule du Conseil constitutionnel: «la loi votée par le Parlement n’exprime la volon-té générale que dans le respect de la constitution». Aussi, la loi déclarée contraire à la constitution n’exprimerait pas la volonté du peuple. Cependant cette justification du contrôle de constitution-nalité implique que le contrôle du respect de la constitution consiste dans une simple constatation. Or, on sait bien qu’il re-quiert une interprétation, qui est une fonction de la volonté. La question est donc repoussée, car il faut pouvoir imputer la volonté exprimée par le juge au peuple lui-même, ce qui signifierait que ce juge est un représentant et donc que, dans un système pourtant réputé démocratique, le peuple est représenté par une autorité non élue.

On peut aussi soutenir comme Georges Vedel, que le peuple souverain a le dernier mot, puisqu’il peut en dressant un lit de jus-tice, c’est-à-dire par le moyen d’une loi constitutionnelle, surmonter les décisions qu’il désapprouve. S’il ne le fait pas, c’est qu’il con-sent à la décision du juge constitutionnel et que cette décision peut lui être imputée. Cependant, outre le fait que la justification se heur-te aux difficultés pratiques de la révision, la comparaison avec le lit de justice implique que le juge constitutionnel a tenté de s’opposer une première fois au souverain. Or, tout l’effort du Conseil consti-tutionnel a consisté précisément à nier qu’en s’opposant à une loi émanant du Parlement il s’opposait à la volonté du Souverain. Ain-si, si l’on accepte la justification du lit de justice, il faut bien admet-tre qu’en s’opposant au législateur, c’est bien au souverain qu’on s’est opposé et que le souverain doit se manifester en majesté, c’est-à-dire en constituant, pour briser cette opposition. Mais quelle est la

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nature du lit de justice? Dans l’institution d’ancien régime, c’est le souverain lui-même qui agit pour briser la volonté des parlements qui se sont opposés à lui. Ici, on hésite entre deux interprétations. Ou bien le législateur et le pouvoir constituant sont deux représen-tants du souverain, mais on ne comprend plus, si tous les deux par-lent en son nom, pourquoi l’un serait supérieur à l’autre. Ou bien le législateur et le pouvoir constituant représentent deux degrés de souveraineté, mais dans ce cas, il faudrait comprendre comment la souveraineté peut être conçue à la fois comme une puissance abso-lue et comme comportant des degrés.

On peut enfin, comme Marcel GAUCHET, et à sa suite Domini-que ROUSSEAU7 distinguer deux souverains. Ces auteurs estiment que le juge constitutionnel fait prévaloir la volonté d’un peuple «transcendant» ou «perpétuel», le seul véritable souverain, sur la volonté du peuple actuel. Le peuple actuel, écrit Marcel Gauchet,

«celui qui choisit et qui vote n’est jamais lui-même que le représentant momentané de la puissance du peuple perpétuel qui perdure identique à lui-même au travers de la succession des générations et qui constitue le véritable titulaire de la souveraineté»8.

On est donc revenu à la notion traditionnelle de la nation, telle qu’elle est définie par la doctrine constitutionnaliste classique, comme l’intérêt général ou la continuité des vivants et des morts. Mais l’important n’est pas en réalité le changement du point d’imputation, mais le type de décision qui est imputé. Gauchet, en effet, propose bien d’imputer la décision du juge constitutionnel à un souverain, le peuple perpétuel, mais il s’agit de cette décision seule et non pas de toutes les autres normes, puisque celles-ci ne dérivent pas de la dé-cision du juge. Au demeurant, il se heurte d’ailleurs à une difficulté analogue à celle que rencontrait la thèse précédente: le peuple per-pétuel a deux représentants, le juge constitutionnel qui fait prévaloir sa volonté et le peuple actuel, de sorte que l’on ne comprend pas bien pourquoi l’un des représentants pourrait prévaloir sur l’autre.

7 M. Gauchet, La Révolution des pouvoirs. La souveraineté, le peuple et la représentation, 1789-1799, Gallimard, Paris 1995; D. Rousseau, Droit du Contentieux constitutionnel, 5è édit., Montchrestien, Paris 1999, notamment p. 469-470. 8 Gauchet, op. cit. p. 45.

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Bien qu’aucune de ces théories ne soit parfaitement cohérente et malgré leurs différences, qui tiennent à l’être qu’elles appellent le souverain, celui au nom duquel seraient prises les décisions suprê-mes ou encore aux autorités qu’elles qualifient de représentants, ou peut-être grâce à ces différences, elles permettent de constater qu’on ne peut se passer d’un point d’imputation.

Cependant, dans le contexte de la construction européenne, le problème apparaît tout à fait insoluble.

c) En effet, dans la situation antérieure à la constitution de 1958, le principe d’imputation permettait parfaitement de rendre compte de la relation entre le droit international et le droit interne: les traités étaient ratifiés en vertu d’une loi, de sorte qu’ils apparaissaient eux aussi comme l’expression de la volonté générale. C’est pourquoi le traité pouvait prévaloir sur une loi antérieure, mais non sur une loi postérieure, qui exprimait une volonté générale plus récente. Cependant, tout change avec l’article 55 de la constitution de 1958, qui fait prévaloir les traités (et le droit européen dérivé) sur les lois mêmes postérieures. Désormais, on ne peut plus comprendre qu’une volonté générale plus récente soit liée par une volonté générale plus ancienne, c’est-à-dire que la volonté générale ait pu se lier elle-même.

La difficulté est encore plus grande pour le droit produit par les autorités européennes sur le fondement des traités. Qui en effet peut être présenté comme le sujet de la volonté exprimée par ces autori-tés européennes?

Il est certain que ni les traités actuellement en vigueur, ni même le projet de traité constitutionnel rejeté en 2005 ne mentionnent un souverain, ni d’ailleurs un être quelconque auquel pourraient être imputées immédiatement ou médiatement les décisions adoptées par les diverses autorités européennes. On comprend aisément qu’il ne pourrait s’agir d’imputer des décisions législatives à un peuple européen, à la manière dont les lois ou les décisions de justice sont imputées au peuple d’un État, dès lors que nul ne prétend qu’il exis-terait un tel peuple européen.

Mais ces décisions européennes ne peuvent pas davantage être imputées aux peuples nationaux. On ne pourrait pas présenter par exemple les lois européennes comme l’expression de la volonté du peuple français, dès lors qu’elles prévalent sur les lois et qu’elles peuvent être adoptées contre la volonté de la France.

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La seule solution est donc de prétendre que c’est la constitution nationale qui fonde la primauté sur la loi et qu’elle seule est l’expression de la volonté générale.

Cependant, la cour de justice de Luxembourg a décidé que les règles européennes devaient prévaloir non seulement sur les lois existantes, mais sur les constitutions elles-mêmes. Ce principe figurait d’ailleurs aussi dans le projet de traité constitutionnel9. Si tel est le cas, peut on encore imputer au peuple une décision qui prévaut sur sa propre volonté et malgré tout prétendre qu’il est souverain?

C’est pourtant ce qu’a fait le Conseil constitutionnel, notamment dans sa décision du 17 novembre 2004, précisément pour préserver le principe d’imputation, mais aussi dans un but pratique. Si, en effet, si le fondement de la suprématie du droit européen réside dans la constitution nationale, ce fondement est en même temps une limite. Une modification de la constitution pourrait y mettre fin et la constitution peut réserver certains principes essentiels qu’il sera possible le cas échéant d’opposer au droit européen. Le Conseil constitutionnel ne fait ainsi que transposer ce qu’avait fait le tribunal constitutionnel allemand dans ses fameuses décisions de 1974 et de 1986 (So lange I et II) et le Conseil d’État français par exemple dans l’affaire Sarran10.

Tout ceci démontre une fois de plus à quel point il est nécessaire d’imputer à la volonté d’un souverain les normes les plus élevées d’un système juridique. Pourtant, malgré son habileté, cette solution ne résout pas le problème de l’imputation qui devient un problème logique. On peut sans doute considérer que c’est le peuple français qui ordonne de faire prévaloir une loi européenne sur une loi fran-çaise, parce qu’il n’exprime sa volonté souveraine que par et dans la constitution. De même on peut comprendre que s’il s’exprime dans la constitution, il ne peut ordonner qu’une loi prévale sur une disposition expresse, parce cela reviendrait à l’absurdité consistant à permettre que l’on méconnaisse sa propre volonté ou à ordonner qu’on lui désobéisse. Mais comment comprendre qu’une loi euro-

9 A l’article I.6. «La Constitution et le droit adopté par les institutions de l'Union, dans l'exercice des compétences qui sont attribuées à celle-ci, priment le droit des Etats membres». 10 Conseil d'Etat, Assemblée, 30 Octobre 1998, M. Sarran, Levacher et autres.

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péenne puisse prévaloir sur une norme constitutionnelle française qui résulterait d’une disposition non expresse? Cette expression peut désigner une norme résultant d’une interprétation de la consti-tution ou une norme jugée moins importante ou encore un principe constitutionnel non écrit. Dans les trois cas, il s’agit de normes con-stitutionnelles, qu’il faut bien imputer à la volonté du peuple souve-rain et l’on retombe dans le paradoxe mentionné plus haut: le peu-ple souverain interdirait qu’on désobéisse à certaines normes cons-titutionnelles, exprimées dans des dispositions expresses, mais or-donnerait qu’on désobéisse à d’autres normes constitutionnelles, qu’il est également réputé avoir voulues.

On objectera peut-être qu’il ne s’agit là que de problèmes formels. Mais ces difficultés sont en réalité très profondes et touchent au cœur même du système démocratique. Ce qu’on appelle en effet la démocratie représentative est une fiction comportant deux éléments:

a) les électeurs sont présumés être le peuple souverain; b) des personnes élues expriment, en adoptant des lois, une vo-

lonté présumée être celle du peuple souverain. On déplore souvent à juste titre le déficit démocratique en Europe, c’est-à-dire le rôle insuffisant effectivement joué par les citoyens dans la prise de décision soit parce que les élus y jouent eux-mêmes un rôle insuffisant, soit parce que les citoyens n’ont sur eux qu’une influence réduite. Mais cet argument apparaît plus faible dès lors que l’on observe ce même déficit démocratique dans le gouverne-ment des États nations. En revanche, dans les États nations, la fic-tion de la démocratie représentative permettait au moins de préten-dre que le pouvoir était exercé par le peuple souverain, parce qu’il l’était en son nom.

Or, avec la constitution européenne, tous les éléments de la fic-tion s’effondrent. Les électeurs du Parlement européen ne sont pas censés être le peuple européen. Les décisions sont prises en partie par des non élus, en partie par des élus (le Parlement européen), mais elles ne sont pas réputées être celles d’un peuple. Quant aux électeurs des Parlements nationaux, ils peuvent être présumés être le peuple, mais ce peuple ne peut plus être considéré comme souve-rain, parce que les décisions prises en son nom sont subordonnées aux normes européennes. Seul subsiste l’ombre du peuple consti-

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tuant, mais tout juste peut-elle encore feindre d’ordonner qu’on lui désobéisse.

* * *

Le principe d’imputation est il brisé, au point qu’il faille considérer que le concept de souveraineté a changé? la réponse est clairement négative. On voit bien qu’on ne peut se passer d’imputer à un sou-verain et que la crise de la souveraineté ne signifie pas que le con-cept ou le principe seraient devenus inutiles, mais bien au contraire qu’ils sont indispensables. Les décisions de toutes les autorités pu-bliques, qu’elles soient nationales ou européennes s’imposent tou-jours au nom de la constitution française et se justifient par une au-torisation donnée par cette constitution, c’est-à-dire réputée émaner du peuple souverain. Le fait que cette constitution se proclame, par la voix du juge, subordonnée au droit européen ne change rien à l’affaire dès lors que la proclamation est assortie de l’affirmation qu’il existe des principes constitutionnels intangibles et surtout qu’elle peut toujours être modifiée, y compris pour mettre fin à la subordination.

Il est vrai cependant que quelque chose a effectivement changé. C’est le principe démocratique. Selon la conception classique, la démocratie était un système dans lequel le peuple exprimait sa vo-lonté législative à travers des représentants élus. Selon le nouveau principe, créé par le juge constitutionnel, le peuple souverain ne s’exprime plus qu’à travers la constitution, représentée par le juge lui-même.

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 79-92 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

Tra costituzione e costituzionalismo (costituito e costituente)

Appunti sul mutamento costituzionale (ricostituente)

Pierangelo Schiera

A.

1. Il costituzionalismo può essere considerato, con gli occhi d’oggi, come un meccanismo di percezione (dottrina) e di regolazione (prassi) della convivenza organizzata, capace di mettere e tenere insieme, nel solco della tradizione politica occidentale ispirata al bene comune, i due fattori dello Stato e della società. Voglio in tal modo sottolineare, da una parte, la provenienza “antica” di questo problema, nei termini classici di “societas civilis sive status”, come pure, dall’altra, la sua proiezione ideologica nei termini della “formula politica” otto- e novecentesca di “separazione di Stato e società”.

«Una definizione del genere consiglierebbe già di arrestare il discorso e passare al commento delle seguenti parole-chiave: dottrina, prassi, bencomune, stato, società, anche se solo per verificare quanto esse an-cora corrispondano ad una possibile descrizione della nostra situazione politica attuale, sul piano sia interno che internazionale. Occorre in-vece provare a delineare un percorso di “storia costituzionale” del “costituzionalismo”, onde sottrarsi alla consueta lettura civil-borghese del medesimo, semplicemente come tappa iniziale e fondamentale del grande episodio “liberale” (che poi, secondo Skinner, sarebbe nato ben prima e su altre basi: quelle repubblicane dell’umanesimo italiano. Ma si tratta pur sempre di precomprensioni di tipo ideologico!)»

Il costituzionalismo europeo risulta per me da tre componenti fondamentali: quella inglese della tradizione, quella tedesca della

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riforma, quella francese, conclusa nella rivoluzione. Ve ne sarebbe anche una quarta: quella americana, fondata sul federalismo, ma di essa è più difficile cogliere il senso per l’Europa, sia subito nel Settecento come pure, più tardi, nel secolo per eccellenza delle costituzioni: l’Ottocento. Nella mia visione, non si tratta di modelli alternativi, bensì di componenti differenziate fra cui va trovata, di volta in volta, la combinazione giusta.

«È inutile sottolineare che si tratta di esercizi concettuali, ideal-tipici, che hanno l’importanza che hanno e che servono più a comprendere che a descrivere: ma è questo il bello del fare scienza, nell’ambito soprattutto delle Kulturwissenschaften e in particolare nel quadro di trasformazione dei concetti politici messo in chiaro per la Sattelzeit dalla Begriffsgeschichte di Brunner e Koselleck.»

Per farla breve e non esaurire tutto il mio tempo intorno al problema dell’origine e consistenza della combinazione-base del costituzionali-smo europeo, vorrei semplicemente dire che quest’ultima riposa es-senzialmente, a mio avviso, sulla preminenza storica e logica del caso inglese, il quale a sua volta è basato sulla tradizione ma ha anche un contenuto specifico, che è quello della tutela dell’individuo nella comunità.

«che potrebbe essere il tema della solidarietà, che vuol dire respon-sabilità condivisa per il bencomune: è il birthright, di cui parla De Lolme, ma potrebbe essere anche l´essenza del Commonwealth, di cui parla Blackstone: qui sta forse anche la ragione dell´idea (pro-fondamente costituzionale) inglese di corporation-trust, di cui ripar-lerà nel XIX secolo avanzato Maitland, anche in relazione alla cate-goria gierkiana di Genossenschaft.»

Ma aggiungo subito che quest’aspetto primordiale del costituziona-lismo non avrebbe assunto il rilievo irreversibile che ha avuto fino ad oggi se non fosse stato evidenziato come problema centrale dall’aspetto, apparentemente opposto, dell’espansione – nella fase alta di sviluppo dello Stato moderno in epoca assolutistica, ma an-cor più dopo la Rivoluzione e nello stesso Stato di diritto ottocente-sco – della dimensione amministrativa, con la complicazione che essa produce nel rapporto fra sudditi e sovrano e con la conseguente pretesa dei primi di non essere sopraffatti dalla crescita delle com-petenze “esecutive” del secondo.

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«La “concezione amministrativa dello Stato” entrerebbe in tal modo a far parte della storia costituzionale del costituzionalismo, appor-tando qualche elemento materiale in più ad una storia che altrimenti rischia di diventare troppo aerea, se modulata esclusivamente su va-lori e sentimenti di “garanzia e libertà”. Per non dire della compo-nente giuridica dello stesso costituzionalismo che trova, a mio av-viso, una delle sue espressioni più compiute, prima in Francia poi ancor meglio in Germania, nell’epocale costruzione ottocentesca del diritto amministrativo.»

È indiscutibile che ciò abbia trovato principale realizzazione in Francia – fra il 1740, attraverso il 1788-89, e il 1814 – in un per-corso caratterizzato dalla necessità di racchiudere le “pretese” co-stituzionali dei nuovi soggetti civili in un “corpo” costituzionale sempre più specificato in senso giuridico. Alla fine “costituzione” sarà solo quest’ultimo, nella fissazione di un testo scritto, di una “carta” che definisce, delimita, insomma decide. Accanto all’idea di legge, anche quella di felicità rientra però fra gli utensili del laboratorio politico dell’illuminismo francese. In entrambi i casi, si ha a che fare con una derivazione e una giustificazione di tipo naturale e per così tradizionale, ma anche, contemporaneamente, basata sull’esperienza e sul calcolo razionale e utilitaristico dei pro e dei contra.

«Ecco il quarto elemento – accanto a tradizione, amministrazione e legge – che contribuisce all’affermarsi della “costituzionalità” euro-pea, in un’ottimale combinazione di componenti spirituali (libertà) e materiali (felicità), tecnici (legge) e storici (tradizione), o se si prefe-risce di fini-valori positivi (libertà e felicità) e di mezzi altrettanto positivi (legge e tradizione) per realizzarli: ciò che serve forse a spiegare il doppio volto che ogni costituzione, da allora in poi, offre nelle due parti classiche dei princìpi generali e del funzionamento degli organi.»

Il punto veramente forte della “costituzione” sembra dunque consi-stere nel suo restare inserita nell’evoluzione storica del diritto, nel cui ambito essa ha potuto svolgere ruoli diversi, sia pure sempre orientati a fornire “une organisation d’où résulte un pouvoir effectif de domination exercé par certains membres du groupe sur celui-ci tout entier”, come scrisse Carré de Malberg. In particolare, la co-stituzione francese del 1791 segna, in quell’evoluzione, il passaggio

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da una nozione naturale (costituzione come descrizione di un ordine naturale delle cose politiche) o anche organica (corrispondente allo Stato di polizia), ad una giuridica (costituzione come creazione dello Stato di diritto), o anche formale (corrispondente allo Stato di diritto appunto).

La costituzione è insomma una legge, non più fatale ma obbli-gatoria; essa è la forma giuridica suprema nella collettività organiz-zata in Stato: opera di Napoleone (si pensi solo al Concordato del 1801 e all’impresa memorabile del Code civil del 1805) ma anche, in senso solo apparentemente opposto, della Restaurazione di Metternich e Talleyrand.

«Inizia qui l’alternanza, contrapposizione, fusione di principio mo-narchico e sovranità popolare che rappresentano i due polmoni del costituzionalismo europeo nel XIX secolo, di solito attribuito al mo-dello o tipo ideale dello Stato di diritto. La vicenda della Confedera-zione tedesca (Deutscher Bund) è in tal senso esemplare e mostra che il flusso costituzionale avviato dalla Rivoluzione francese non s’interrompe necessariamente per il mancato rispetto di quei princìpi democratici e popolari perentoriamente attribuiti a quest’ultima. La raccolta delle costituzioni di Pölitz accompagna fin dall’inizio questo processo di costituzionalizzazione materiale della vita politica dell’Europa ottocentesca, in corrispondenza con l’elaborazione dot-trinaria dei grandi liberali alla Constant, Mme de Staël, Sismondi e – per la Germania – alla Humboldt, per non parlare di tutto il pensiero del Vormärz (Pre’48), da Dahlmann a Rotteck e Welcker.»

Per tutto l’800 e soprattutto nella sua seconda metà, il costituziona-lismo svolse egregiamente il ruolo per cui era nato un secolo prima: meccanismo virtuoso di regolazione della difficile composizione tra Stato e società, nel mentre che le novità rivoluzionarie avevano fatto saltare l’unità politica alteuropäisch di societas civilis sive status. Il pragmatismo liberale seppe dotare di forme diverse il mo-dello “Stato di diritto”, pigiando ora il registro del principio mo-narchico, ora quello della sovranità popolare. Ma l’ingresso pre-potente nel gioco politico – a seguito del grande sviluppo indu-striale – di nuovi soggetti, individuali e collettivi, sociali e politici, superò di gran lunga anche le capacità preventive del pragmatismo liberal-borghese. La scienza giuridica – all’interno e insieme alle nuove scienze sociali e dello stato – rappresentò uno strumento in più (analogamente al ruolo svolto dalla filosofia civile illuministica

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un secolo prima) per trovare nuove regolazioni, a cui lo Stato di di-ritto si prestò finché poté, ma alla fine dovette cedere alla preponde-rante esigenza di uno “Stato sociale” che si qualificava sempre più in termini di prestazioni, piuttosto che di garanzie, di scienza piut-tosto che di valori. Con la società di massa s’innesta anche una va-riante tragica dell’intervento statale: quella del totalitarismo.

«E la costituzione? Il dramma è che, nei casi più vistosi di tale dege-nerazione, essa resta là: rigida o molle, essa non è in grado di con-trastare l’esigenza o l’imposizione totalitaria Ma che costituzione è allora?…»

2. Insomma, a me pare che il vero problema che riguarda la costi-tuzione, all’interno del più ampio discorso del costituzionalismo e della sua storia, sia quello della durata della costituzione stessa, soprattutto nel senso dei modi e forme della sua modificabilità o anche sostituibilità. A questa problematica si collega evidentemente quella del potere costituente e della sua persistenza o rinnovabilità, nella storia perenne ma mutevole della comunità o nazione. Ma di questo non vogliamo occuparci, anche perché sembra che nelle no-stre comunità o nazioni, sofisticate e scafate, il potere costituente non interessi più a nessuno: il che significa che la stessa costitu-zione è venuta perdendo il suo ruolo carismatico se non demiurgico e si va riducendo a fatto sempre più tecnico, fungibile con altri strumenti, più o meno legislativi.

«Ma sarà proprio così? In realtà, nel mondo “costituzionale” (Occi-dente e ex colonie?) ci s’interroga sempre più sul problema del “Constitutional Change” e, di conseguenza, sull’esistenza e il senso di una “politica costituzionale” che lo regoli. Traduco da un testo non pubblico, che perciò non cito: «Le costituzioni costituiscono e delimitano l’esercizio del potere (Herrschaft), mediante regole rela-tive al trasferimento di potere (Macht), alla divisione del potere (Macht), ai procedimenti decisionali e ai diritti fondamentali dei sottoposti al potere (Herrschaft). La modifica di queste regole è nor-malmente resa più difficile dalla costituzione stessa. D’altra parte, in sistemi di governo democratici organizzati per divisione dei poteri (gewaltenteilig), sono continuamente necessarie modifiche, come ri-sulta non da ultimo dal processo ininterrotto di “trasformazione” della statualità. Il problema … è come superare queste difficoltà». A tale scopo «…vanno elaborati i fondamenti per una comprensione approfondita di quei meccanismi e processi che sono rilevanti nella

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modifica di costituzioni in sistemi politici organizzati per divisione dei poteri, cioè in democrazie stabili e in sistemi a più livelli, sia na-zionali che internazionali».

Il gruppo di lavoro, della FernUniversität in Hagen, che si sta cimentando nell’impresa di una comparazione tra casi diversi, intende operare con approcci disciplinari differenziati – dal diritto alla storia alla scienza politica – come pure distinguendo tra le due ipotesi della “riforma” o del semplice “mutamento” costituzionale; ma ciò che unifica le diverse procedure dovrebbe essere proprio la “politica costituzionale”, intesa come «analisi del giuoco reciproco tra interessi e strategie degli attori, specifiche (Vorgaben) istituzionali e caratteri delle diverse situazioni storiche».»

Se il problema di fondo della politica moderna è l’ordine, si può forse dire che, col costituzionalismo, si afferma il bisogno e l’idea di un “ordine (ordinamento?) dell’ordine” (in tedesco “Ordnungsordnung”?). Poiché lo strumento con cui l’ordine viene assicurato, nella politica moderna, è il potere, si tratterà di un ordine del potere, consistente da una parte nella sua concentrazione (per assicurare l’ordine, appunto), dall’altra in una sua frantumazione (per gestirlo, cioè controllarlo e impedirne deviazioni). L’importante è raggiungere e mantenere l’equilibrio tra i due modi, facendo sempre riferimento ai destinatari dell’ordine e del potere, che sono – da quando è emerso il bisogno di cui sopra – i cittadini.

La gestione amministrativa della costituzione, teorizzata da Lorenz von Stein (“Verwaltung als lebendige Verfassung”), ma già messa in pratica prima di lui da Napoleone (“La révolution est terminée…”) e comunque attuata in tutto il mondo politico dell’800, avrebbe funzionato benissimo se non fosse stato per le pesanti de-generazioni totalitarie che hanno invaso quello stesso mondo nella prima metà del 900. Così, il secondo dopoguerra ha visto il rilancio della costituzione come forma superiore dell’ordine politico e il ri-dimensionamento dell’ipotesi amministrativa, anche se gli analisti più attenti hanno opportunamente parlato di “neo-corporatismo”, proprio per ribadire la possibilità di un corporativismo buono e de-mocratico, rispetto a quello fascista.

Perché corporativismo significava essenzialmente, come ci ha insegnato Cassese, “intervento pubblico nell’economia”: ma forse non solo, perché avrebbe dovuto significare anche, reciprocamente,

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intervento dell’economia nel pubblico e, insomma, confusione di governi privati e pubbliche virtù, in un’orgia di pluralismo ammini-strativo che dovunque avrebbe potuto funzionare meno che in Italia.

«La più moderna scienza politica di oggi, che disdegna ormai lo studio dei grandi modelli, ma vuole spiegarci ciò che da ormai più di un secolo sta avvenendo, come fosse novità, usa e abusa del termine Governance, intendendo appunto con ciò la partecipazione al go-verno (Government) di unità e agenzie a tinta vagamente e subdola-mente privatistica. Si tratta, mi pare, della stessa tendenza anti-costituzionale in senso “amministrativo” che ho appena ricordato, facendola risalire al corporativismo più o meno fascista della prima metà del 900. E la costituzione – mi chiedo di nuovo? Credo che essa ormai sia, per i politologi, questa stessa roba, visto il gusto che essi provano nel farsi chiamare correntemente costituzionalisti, tutte le volte che ci devono spiegare la Governance.

E allora? Bene così, visto che la costituzione ha perso il suo carisma “costituente”, di conseguenza è divenuta immodificabile, se non in presenza di maggioranze così “qualificate” da rappresentare esse stesse, per il solo fatto di esistere, una deviazione dalla regola fon-damentale della democrazia che è l’equilibrio-alternanza tra una maggioranza e una minoranza. Se non detestassi il ricorso ai para-dossi nella spiegazione storico-tipologica, mi verrebbe da dire che, al giorno d’oggi, il cambio costituzionale, in termini istituzionali, ap-pare concretamente possibile solo in società strutturate e organizzate in senso totalitario.»

Cosa intendo dire con ciò? Forse semplicemente che anche lo stru-mento “caldo” della costituzione che ha segnato la storia dello Sttao liberale nelle sue varie incarnazioni, si è raffreddato, ha cioè perso il suo carattere misterioso e spesso sanguinario di compimento e si-gillo della rivoluzione ed è divenuto, per successive neutralizza-zioni, un semplice strumento di riforma, cioè di adattamento del sistema – come tale intoccabile – ai nuovi bisogni e necessità degli interessati.

L’unico punto che resta aperto è allora quest’ultimo: chi sono gli interessati. È il problema della cittadinanza e degli schiavi (che è lo stesso): il che ha rilevanza all’interno di ogni comunità.

Ma forse anche all’esterno, nel giuoco internazionale, che non può più essere compreso e “ordinato” nei tradizionali termini, rela-tivamente semplici, delle “relazioni internazionali”, ma deve tener

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conto di intrecci e dipendenze molto più complesse, che sempre più hanno a che fare con sistemi di valore, culture, concezioni del mondo e condotte di vita (ma son tutti termini tipicamente occi-dentali questi, badiamo bene!) non solo alternative o inconcepibili all’Occidente, ma tali da non poter essere ricomprese in alcuna “politica costituzionale”.

B.

1. Le poche conclusioni positive da me raggiunte nel corso del seminario padovano propedeutico a questo convegno riguardavano possibili contenuti di un “nuovo” costituzionalismo: inteso dunque quest’ultimo in termini molto più materiali che formali. D’altra parte ciò corrisponderebbe al tentativo che sto da anni compiendo di rintracciare le linee di una storia costituzionale (cioè per me costituzional-materiale) del costituzionalismo. Mi pareva di aver trovato l’indicatore principale e sintetico di tali possibili contenuti nel grande nodo della solidarietà. Il che consentirebbe anche di mantenere un rapporto di sostanziale continuità – di nuovo, lo ri-peto, sul piano più materiale che sostanziale – con la prima fase del costituzionalismo occidentale, quella imperniata sui grandi eventi rivoluzionari di fine 700. Non è infatti novità, come ci ha insegnato Dennewitz, che nella solidarietà si possa scorgere la versione ag-giornata del principio di fraternité (fratellanza-sorellanza) della triade rivoluzionaria, purtroppo finora un po’ troppo trascurato, al-meno sul piano teorico, rispetto agli altri due della fortunata ma su-perabile contrapposizione liberalismo/socialismo.

«La nostra stessa Costituzione repubblicana esprime certamente, nel suo art. 2, un tale concetto moderno di fratellanza, mostrandone poi in successivi articoli gli enormi vincoli attuativi che esso implica e contiene e offrendo quindi materiale all’ottima osservazione di Maurizio Fioravanti – sulla scia gloriosa, peraltro, di Costantino Mortati – secondo cui l’essenza della Costituzione (e del costituzio-nalismo) non sta solo e tanto nell’elencazione, più o meno sanziona-bile, di meri princìpi generali e universali ma nella sua immediata potenzialità attuativa.

A differenza delle leggi ordinarie, insomma, la Costituzione oltre che applicata dev’essere attuata. E il criterio della solidarietà rimanda al

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valore fondante (culturalmente) delle costituzioni moderne, che è quello della felicità materiale (per non voler tirare di nuovo in ballo quel superlungo filo rosso della politica occidentale che è stato finora il “bencomune”), come pure allo strumento essenziale di attuazione della medesima felicità che è la funzione amministrativa.»

Ciò mostra intanto che non è né facile né produttivo separare troppo, nel nostro ragionamento, il diritto amministrativo dal diritto costituzionale; ma anche che bisogna forse andar oltre i giuristi, per trovare positivamente indicatori e misuratori della felicità, coinvol-gendo a pieno titolo, nel discorso costituzionale, le competenze di tutte le scienze sociali, non a caso sorte, a partire dal XVIII secolo (insieme dunque al costituzionalismo), in collegamento diretto e anzi spesso in risposta alle problematiche della felicità degli uomini (interessi). Va naturalmente tenuto anche presente il fatto, richia-mato recentemente anche da Hasso Hoffmann, che ogni disciplina ha il proprio linguaggio e che spesso è difficile intendersi e possono sorgere equivoci. tanto più che vi è talora la necessità di ricorrere a modelli, cioè a macroprospettazioni della realtà (sociale) a partire da punti di vista (scientifici) convenzionali.

Orbene, è ben noto che i modelli servono solo a chi li usa, perché sono sempre necessariamente forgiati su misura, per il singolo lavoro a cui uno è dedito. Ciò vale anche per la ricostruzione della genesi costituzionale a cui stiamo lavorando in questo convegno, a partire dalla proposta di lettura che io sto qui facendo. Maurizio Fioravanti, ad esempio, mi sembra che trascuri due componenti modellistische della storia europea del costituzionalismo, antitetiche ma proprio per-ciò tanto più rappresentative: quella inglese dell’ancient constitution e quella francese della constitution octroyée del 1814. Ma chissà quante altre ne sto trascurando io!

«Ciò anche per dire che il fenomeno costituzionale è intrinsecamente formato anche di dimensione e spessore storico e non lo si può stu-diare (neanche da giuristi-modellisti) a prescindere da ciò. La dimen-sione storica è costitutiva della stessa costituzione, nel senso che quest’ultima vive dinamicamente, nei suoi contenuti, cioè innanzi tutto nel suo attuarsi e in secondo luogo nel suo mutarsi. Carrino ieri ha ricordato il punto importante di mutamento costituzionale relati-vamente al venir meno del principio monarchico. L’osservazione va integrata col fatto che quest’ultimo era stato – come ci ha insegnato ancora una volta Otto Brunner – l’altro polo del principio di parteci-

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pazione popolare, cosicché, al venir meno del primo anche il se-condo ricevette una poderosa spinta e espansione, la quale, mal ac-compagnata sul piano della riforma istituzionale in senso democra-tico, non fu ultima causa della degenerazione totalitaria del sistema liberale. Sono molti gli esempi del genere che rimandano al tema di fondo del constitutional change: tema poco studiato come ho già detto, ma meritevole di approfondimento nel senso anche del (proba-bilmente falso) problema della rigidità/elasticità costituzionale; con l’esempio per noi italiani classico e sostanzialmente irrisolto dello Statuto albertino e poi del presunto (ma davvero?) campo “costitu-zionale” fascista e dell’ossessiva preoccupazione dello stesso Mus-solini per il rapporto, nella sua opera di (ri)costruzione statale, tra costituzione e rivoluzione.»

2. Se tutto ciò è vero, va ribadita la centralità della storia costitu-zionale per studiare la costituzione: ma non solo nella sua storia, com’è ovvio, bensì proprio nella sua consistenza normativa e poli-tica. Brunner faceva ricorso volentieri alla categoria della Werdung: egli parlava essenzialmente di Staatswerdung, ma ancora più importante sarebbe parlare di Verfassungswerdung, o ancora meglio, più semplicemente, di Verfassung come Werdung. Ne deriva che la costituzione va allora inevitabilmente interrogata, nel suo divenire, rispetto ai due campi altrettanto cruciali dello Stato e della politica, con cui è evidentemente in stretto contatto, non saprei se in termini più di specificazione o di legittimazione.

«Ciò vale principalmente per l’oggi, per le necessità cioè di muta-mento costituzionale che urgono al nostro tempo, sotto la spinta della grande accelerazione che i rapporti tra gli uomini stanno sempre più assumendo al livello globale come a quello locale. Ma, viceversa, il ragionamento può valere anche per la linea evolutiva a cui da tempo io stesso aderisco che, dal medioevo a noi (cioè lungo l’intero se-condo millennio) vedrebbe lo svolgersi della filiera politica-Stato-costituzione, lungo la quale si sarebbe scandita, sia pure con tonalità diverse, la combinazione di unità politica e pluralità dei soggetti (o delle forze) che mi sembra sinteticamente rappresentare l’arcanum della costituzione.»

Ecco forse il senso del titolo dato a questo mio intervento, dove sto cercando di puntare sia sul momento della “genesi” dello Stato (ma segnalo la ristampa in libretto, per conto della Morcelliana, del classico saggio di Gianfranco Miglio: La genesi dello ‘Stato

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(moderno)’, con mia introduzione) che su quello della sua “de-generazione” (secondo l’impostazione già data a una recente raccolta di miei scritti sul tema dello Stato).

Mi pare infatti che ogni genesi debba, per forza, a un certo punto de-generare, sotto la pressione di quella Werdung che ho sopra richiamato. Questa infatti conduce necessariamente al change, al mutamento e all’emersione di ibridi, di “mostruosità” – rispetto alla genesi – che sono però le vie attraverso cui la vita dell’uomo, anche in società, si arricchisce e acquista valore sempre nuovo. In tali termini, ribadisco la centralità dello ‘Stato (moderno)’, nella sua storica determinatezza, come realizzazione, appunto storicamente determinata, della politica. Esso Stato non va quindi assimilato e identificato col “politico”, ma ne diventa sua funzione: cioè funzione di quell’azione umana – pure storicamente determinata, nella sua dimensione specificamente occidentale, a partire dal medioevo – che a mio parere non sappiamo sufficientemente valorizzare nella sua portata storica epocale – rispetto ad altre modalità di organizzazione della vita associata degli uomini, presso altre civiltà – ma neppure nella sua portata evolutiva per quanto riguarda addirittura, forse, la stessa condizione della specie umana.

«La costituzione moderna sorge storicamente come adeguamento della funzione statale rispetto, contemporaneamente, al gran bisogno collettivo di un codice di fini/mezzi espresso dalla società civile in formazione tra XVII e XVIII secolo, e di conseguenza al gran biso-gno di limiti all’assoluta pienezza dell’agire statale stesso, come si era consolidato nei due primi secoli di vita dello ‘Stato (moderno)’. Ma così si sono per forza venuti alterando anche i caratteri genetici di quest’ultimo che viene da ciò determinato a degenerare in ‘Stato «contemporaneo (costituzionale)»’, a sua volta nelle varianti ‘di di-ritto’, ‘rappresentativo’, ‘sociale’, ‘di cultura’, ‘democratico’ e via dicendo.»

Forse la costituzione prende il posto dello Stato, come suggerisce Fioravanti, evocando certamente anche Kelsen? Forse si rubricano così fenomeni così intensi e così poco statali come il corporativi-smo, il totalitarismo e forse anche l’Europa? Tutta roba che, come dice Pasquale Pasquino, è pensabile solo al di fuori della Staatlichkeit. Ma che costituzione sarebbe questa? Una costituzione da qualificare tanto in termini di contenuti quanto in termini di po-

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teri… cioè una costituzione rapportata alla sua duplice dimensione, di costituente (contenuti) e di costituito (poteri).

Viene allora una bella possibilità di definizione: − la costituzione è ciò che storicamente e dinamicamente sta

tra costituito e costituente; − il che vuol appunto dire che la sua consistenza dev’essere in-

trinsecamente dinamica (Werdung) e il suo profilo domi-nante diventa allora non tanto l’attuazione quanto il change;

− poiché i due termini (costituito e costituente) sono in continuo movimento, anche nel rapporto tra loro, e dunque il problema è di tenerli costantemente in tensione, non solo in termini di contenuti ma soprattutto quanto ai soggetti interessati.

Perché la cosa importante è che quei due poli s’incarnano in soggetti storici precisi e dunque è proprio nella loro dinamica che si realizza e sviluppa la pluralità che tanto c’interessa. Questa infatti non è sterile e astratta, ma concreta e produttiva ed è fatta dei mute-voli soggetti che conquistano strati di potere, da una parte, e da quelli che si affermano continuamente come portatori di bisogni e aspettative, che di tanto in tanto sforano l’indifferenza e la tradi-zione e vengono riconosciuti come portatori d’interesse e di tutela (donne, stranieri, adolescenti, per restare a noi).

Diventa allora prioritario monitorare continuamente la dislocazione dei soggetti “costituiti” rispetto a quelli “costituendi”, che poi a loro volta possono divenire “costituenti”. Il change c’è comunque, è però politicamente importante coglierlo e accompa-gnarlo, perché solo così la costituzione resta viva, altrimenti va in coma, in agonia, poi muore.

«Buon criterio per misurare e tenere sotto controllo (check) il muta-mento sempre in corso è rilevare i vari quid pluris emergenti dalla situazione esistente: che una volta si trasformavano subito in quid juris, per l’opera insaziabile dei giuristi, ma che adesso richiedono sempre più spesso l’intervento di altri specialisti sociali, come so-ciologi, amministrativisti, economisti, esperti fiscali e del lavoro: in-somma, mutatis mutandis, i vecchi cari cameralisti che stavano all’inizio, nell’esperienza tedesca, del passaggio dal “vecchio” Stato moderno assoluto a quello “nuovo” costituzionale.

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Quando, al second’anno di Giurisprudenza in Cattolica, comunicai al Prof. Biondo Biondi la mia intenzione di lasciare l’idea di laurearmi in Diritto romano con una tesi sul favor, per studiare col Prof. Miglio il cameralismo, egli si scandalizzò, osservando che mi sarei dovuto occupare dello “Stato di polizia”. Fu effettivamente così e la cosa non mi turbò allora, che vedevo le cose maggiormente in chiave solo storica. Ora però, di fronte ai costanti e ripetuti tentativi di generaliz-zare i discorsi relativi alla politica, allo Stato e alla costituzione, un po’ mi stupisce di ritrovare nel grande mutamento intervenuto nel corso del quasi mezzo secolo che mi separa dagli studi universitari, che le linee di evoluzione delle nostre forme organizzative sembrano ricalcare vecchi modelli.»

Invece di parlare tanto di governance bisognerebbe tornare a parlare di government: anzi occorrerebbe iniziare finalmente a parlarne, ricuperando la straordinaria tradizione anglo-americana di una scienza politica (science of government) che è stata sempre effetti-vamente vicina, o anche intrecciata, all’attenzione per la constitution e alla sua storia. Nell’esperienza storica inglese, il government è effettivamente stato la vera costituzione vivente, nel senso “lungo” che quest’ultima ha nella tradizione inglese, di ancient constitution. Si eviterà così di precipitare nel luogo comune che la vera e sola forma vitale di costituzione sia l’amministrazione. Lorenz von Stein aveva un’idea assai larga di Verwaltung, in cui faceva rientrare molte forme di vita partecipativa a livello locale, a partire dall’importantissimo, per lui, Ständewesen. Come per Rudolf von Gneist, l’esperienza inglese – pur spesso storpiata a favore dei problemi di struttura dello Regno prussiano e poi dell’Impero tedesco – fu molto importante nell’impostazione e nello studio di quella fase evolutiva dello Staatsrecht che avrebbe portato poi alla sistemazione teorica del Verwaltungsrecht, a ca-vallo tra Verwaltungslehre e Staatslehre.

Storie passate, si dirà, e anche relativamente distanti dall’espe-rienza italiana. Ma ormai non solo di quest’ultima si tratta, se è vero che è già in fase di avanzata formazione un diritto, particolarmente “pubblico”, cioè costituzionale e amministrativo europeo; e se è vero anche che questa tradizione fondamentale di saper (scienza) giuridificare l’ordinamento dell’ordine rappresenta uno dei principali “saperi” (scienza) che l’Occidente può infilare nel suo

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portfolio di confronto e trattativa con le altre civiltà che ne stanno contestando il primato.

«Il quid pluris da decifrare ogni giorno con rapidità e da tradurre in politica è ciò che conta: è ciò che deve determinare quella “politica” costituzionale che ormai quasi dappertutto manca e che è l’unica leva per controllare l’inevitabile mutamento. Se la ricerca di questo quid pluris non è però più da tempo monopolio dei giuristi, non per que-sto esso deve diventare monopolio dei politologi-amministrativisti (costituzionalisti come essi amano definirsi). Esso sorge dal sociale (materiale/culturale): da una base costituente che perennemente manifesta bisogni e aspettative nuove, da parte di vecchi soggetti, ma anche produce soggetti nuovi, la cui necessità di esprimere anche nuovi bisogni è incommensurabile.»

Questo discorso mi sembra particolarmente importante, perché – proprio grazie al ruolo insostituibile dei soggetti interessati (cioè dotati d’interessi) – il quid pluris torna pure, per forza, a confluire nel sociale, cambiandolo e arricchendolo, cioè costituendolo sempre in maniera nuova, ovvero offrendo nuove modalità di “costituito”, che vengono recepite e fissate, conservando e rispettando quei bi-sogni e quelle aspettative (interessi) che sono riusciti ad acquisire dominanza, almeno relativa.

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 93-108 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

Défis et deficit démocratique: les revendications de légitimité Lucien Jaume

Faisons l’hypothèse d’une société de démocratie d’opinion gagnée récemment par le pluralisme qui n’était pas dans sa tradition et sa culture politique, en considérant notamment le cas français; on observera alors un déplacement des sources de la décision publique et la formation de nouveaux sujets politiques, éléments qui conduisent à une autre formulation de la légitimité politique.

Précisons tout d’abord ce qu’il faudra entendre ici par plurali-sme. Des individus ou des groupes, des regroupements d’opinion ou d’intérêts estiment que, dans le cadre national, ils ne sont pas en-tendus et pas véritablement représentés et qu’il leur faut de ce fait «parler en leur nom propre», trouver des canaux appropriés pour cela, produire des effets au sein de l’espace public (y compris des effets de manifestation du privé au sein du public). Le «pluralisme» est donc envisagé ici au sens d’appels, lancés par de multiples instances de la société civile, à faire reconnaître et à imposer une forme de différence.

Dans cette hypothèse, l’entrée en scène du pluralisme consacre une séparation entre la légitimité de l’Etat démocratique et constitu-tionnel – le vote, la représentation en Assemblée ou par le chef de l’Etat – et des «revendications de légitimité» concurrentes, que nous appellerons «alterlégitimités». Ces autres légitimités revendiquées ne sont pas nécessairement antagonistes avec la légitimité étatique et constitutionnelle – elles peuvent l’être ou le devenir –, mais elles rendent visibles en tout cas le phénomène de la concurrence; elles pèsent désormais sur la légitimité institutionnelle classique.

En cela, il apparaît que la question de la légitimité n’est pas réglée dans l’Etat de droit, démocratique et constitutionnel, à l’inverse de ce

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que l’on a souvent dit depuis Max Weber: cette question revient aujourd’hui au premier plan, elle constitue le sens et la clef des nouvelles formes politiques (tendant parfois vers la démocratie non-représentative) et des «mouvements sociaux» les plus divers (écologistes, identitaires en tous types, antimondialistes, anti-OGM en France et ailleurs, etc.).

En réalité, les alterlégitimités tendent à doubler la fonction de la souveraineté, dont elles constatent un affaiblissement que, par voie de retour, elles viennent aggraver. Peut-être aussi, dans le domaine de la représentation et des formes de représentativité, tendent-elles à manifester un peuple (des peuples?) différant du peuple souverain comme acteur classique. Il faudra examiner en quel sens on peut encore employer le concept de peuple.

On peut aussi penser que ces alterlégitimités vont nouer des alliances au-delà des frontières et renforcer le grand phénomène, dont il est souvent question, le cosmopolitisme (cf. Ulrich Beck)1, quitte à faire apparaître de façon nouvelle des «peuples» dispersés mais aussi recomposés à travers la diaspora, grâce notamment à l’Internet.

Le «pluralisme» aujourd’hui se traduit donc – et, en France, c’est de façon spectaculaire – par une variété de revendications prenant naissance non dans le monde politique mais dans la société civile. Ces revendications variées conduisent l’observateur à un nouveau concept de la légitimité, absent de la pensée juridique et constitutionnelle, absent aussi de la célèbre typologie de Weber.

Pour mieux faire comprendre ce nouveau concept, j’aurai à le faire apparaître de façon comparative:

1) D’abord par rapport aux anciennes conditions de la souveraineté, illustrées par la Révolution française et en partie définies par Jean-Jacques Rousseau. Nous verrons que l’unité du peuple, caractéristique au moins de la conception juridique et politique à la française, ne peut plus être une thèse acceptable du point de vue des «alterlégitimités».

2) Cette crise de la souveraineté et, du coup, de son sujet légitime, le peuple souverain, est aussi une crise de la Loi.

1 U. Beck, Pouvoir et contre-pouvoir à l’heure de la mondialisation, Flammarion, coll. Champs, Paris 2003 (la page de faux-titre porte «à l’ère de la mondialisation»).

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Défis et deficit démocratique: les revendications de légitimité 95

Car la thèse de la Déclaration de 1789 selon laquelle «la loi doit être la même pour tous, soit qu’elle protège soit qu’elle punisse» (article 6), ne répond plus aux exigences nouvelles venues de la société civile, mais aussi aux novations administratives ou jurisprudentielles (introduisant une égalité proportionnelle).

On aura donc à se demander si la «revendication de légitimité» qui est aujourd’hui foisonnante ne supplante pas (sans la détruire) l’idée de souveraineté qui avait pour présupposé dans la France de Jean Bodin et de Rousseau l’unité, l’homogénéité égale, la prise en main étatique de la définition de l’intérêt général. Peut-il y avoir plusieurs légitimités en même temps? Si tel est le cas, cela ne peut se penser que selon un droit autre que celui de l’héritage romain et dans le cadre d’un pluralisme juridique qui déborde le domaine étatique. Nous commencerons donc par la vision classique et ses réquisits.

1. Les conditions classiques de la souveraineté en démocratie

La force de la légitimité démocratique est de posséder deux aspects entre lesquels elle institue une dialectique féconde: la légitimité formelle et la légitimité matérielle, toutes deux au service de la souveraineté du peuple. La légitimité formelle repose sur l’uni-versalité du peuple et se trouve réglée par des procédures et un calendrier constitutionnel; dans un temps défini d’avance, ceux qui sont habilités à parler et agir au nom du peuple sont élus par lui, di-rectement ou indirectement. Cette légitimité électorale n’est pas liée à un contenu déterminé (comme la légitimité divine dans une reli-gion définie ou la légitimité personnalisée d’un «chef», ou la légi-timité du parti léniniste exerçant la dictature du prolétariat ou supposée telle), et c’est en cela qu’elle possède une généralité for-melle. D’ailleurs, son bénéficiaire, le «peuple souverain», n’a pas de visage spécifié, toute incarnation de ce peuple le ferait sortir de l’universalité de caractère formel. Aussi, quand les robespierristes commençaient à avancer (vers 1792) l’idée que le peuple, c’est-à-dire le sujet politique vertueux, ne pouvait être représenté que par des leaders vertueux, ils renonçaient en réalité à la légitimité for-

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melle, et ils allaient vers la thèse (ensuite déclarée et réalisée en 1793) d’une «représentation» définitive, organiciste, du peuple. En l’an II, la représentation de type nouveau est organiciste dans la mesure où elle affirme l’inséparabilité du peuple et du Gouverne-ment révolutionnaire sous la figure du Colosse révolutionnaire: j’ai décrit ailleurs ce modèle comme proche de Hobbes dans le Léviathan, et, du point de vue historique, comme hérité de la culture de monarchie absolue2.

Quant à la légitimité de type matériel, elle se trouve dans le crédit, la confiance, accordés par le peuple aux candidats au pouvoir; les concurrents font valoir pour être élus des images différentes du peuple – souvent à travers l’image qu’ils donnent d’eux-mêmes au peuple; un double jeu de miroir se met en place: l’électeur se reconnaît (en cas d’opération réussie) dans l’identité que le leader ou le membre d’un parti spécifié porte en lui et rend manifeste dans ses actes et ses paroles3. C’est dans la mesure où le leader renvoie au peuple une image dans laquelle ce dernier se reconnaît (à travers des signes supposés probants) que lui-même, en retour, bénéficie de la «popularité».

Ainsi, pour un seul peuple abstrait et universel, formellement appelé par les procédures de la démocratie électorale, il existe de nombreuses images, plus concrètes et plus particularisées du sujet politique qu’est «le peuple souverain». Cela n’est pas sans susciter diverses inquiétudes sous la Révolution, très attachée à la catégorie

2 Voir L. Jaume, Le discours jacobin et la démocratie, Fayard, Paris 1989, p. 336-358, «Le Gouvernement révolutionnaire et son idée de représentation»; pour le modèle de la représentation-incarnation, voir notre ouvrage Hobbes et l’Etat représentatif moderne, PUF, Paris 1996. Sur la conception jacobine de la légitimité révolutionnaire, voir notre étude Légitimité et représentation sous la Révolution: l'impact du jacobinisme, «Droits», n° 6, oct. 1987, pp. 57-67, ainsi que le chapitre III de l’ouvrage suivant: Scacco al liberalismo. I Giacobini e lo Stato, Naples, Editoriale Scientifica, 2003, (édition révisée et enrichie de: Echec au libéralisme, 1990. Préface inédite, présentation par F. M. De Sanctis). 3 Il est certain que la problématique de Hobbes rapprochant la Persona multitudinis de la persona de l’acteur (masque, rôle) pousse à penser à la formule citée par Marx «De te fabula narratur» («c’est de toi qu’il s’agit dans ce spectacle»). Le Représentant-Souverain de Hobbes est le miroir du peuple «mis en représentation»: voir L. Jaume, La théorie de la 'personne fictive' dans le Léviathan de Hobbes, «Revue française de science politique» (33), décembre 1983, n. 6, pp.1009-10035.

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d’Unité et en lutte contre les formes de parcellisation de la volonté politique, conduisant aux «factions»4.

Quand on étudie le discours révolutionnaire de 1789-1794, on est frappé de constater que, pour la conscience des acteurs du moment, existe le sentiment inquiétant d’un peuple cordelier, d’un peuple girondin (ou «brissotin»), d’un peuple jacobin, montagnard, etc. La question «qu’est-ce que le peuple?», redoublée par l’interrogation «qui peut le représenter avec vérité?», est une question qui ne cesse de traverser la phase de dix ans de Révolution, avec ses périodiques coups de force, insurrections, changements de constitution5, etc.

Mais les démocraties ont apaisé cette inquiétude – qui était déjà manifestée chez Thucydide et qui, sous la Révolution française, cristallise dans la hantise d’un «roi du peuple» –, par le moyen d’une dialectique féconde entre les deux faces de la légitimité électorale6. Dans le développement du système représentatif des modernes, la légitimité d’une image du peuple, que l’on a appelée ici la légitimité matérielle, se trouve, par l’opération du vote majoritaire, supposée en adéquation, en congruence, avec la légitimité formelle, selon une durée définie d’avance et à laquelle a pourvu la Constitution. Et d’ailleurs, l’opinion publique est rendue juge, après la période électorale, de cette adéquation; elle scande de façon presque continue les phases de congruence et de divergence entre les deux faces de la légitimité, moyennant le développement spectaculaire depuis plus de trente ans des sondages d’opinion. On constate que,

4 Inquiétude également devant le phénomène du leadership, désigné par la notion de «popularité», qui vient d’être évoquée. Le leader «populaire» est suspect d’aspirer à une forme de pouvoir personnel, de type monarchique, voire à la Cromwell, et en tout cas d’abuser de son prestige pour égarer le peuple. Au moment du 9 Thermidor, Saint-Just tente de défendre Robespierre du reproche de popularité: «On le constitue en tyran de l’opinion. (…) Et quel droit exclusif avez-vous sur l’opinion, vous qui trouvez un crime dans l’art de toucher les âmes? (…) Démosthène était-il un tyran? (…) Le droit d’intéresser l’opinion publique est un droit naturel, imprescriptible, inaliénable.» (Discours et rapports, Editions sociales, Paris 1957, p. 213-214). 5 Voir les textes réunis dans L. Jaume, Les Déclarations des droits de l’homme, coll. GF, Flammarion, Paris 1989; et l’observatoire très riche offert par Michel Troper dans Terminer la Révolution. La Constitution de 1795, Fayard, Paris 2006. 6 On passera ici sur le fait que le schéma donné est trop simple par rapport à la réalité de la Révolution française; par exemple, l’interdiction de candidatures électorales, jusqu’en 1795, empêche l’élection d’être un jeu de compétition véritable, sans parler du filtre censitaire: voir l’ouvrage de P. Gueniffey, Le nombre et la raison. La Révolution française et les élections, Editions de l’EHESS, Paris 1993.

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«l’état de grâce» de l’exécutif (pour reprendre une expression soulignée en 1981 par François Mitterrand) devient temporellement de plus en plus court7.

L’opinion publique, dont on disait depuis Delolme et Necker8 qu’elle était le grand aliment du gouvernement moderne, et que l’on recherche maintenant dans le medium du sondage, devient un agent de vigilance critique pour la légitimité non des institutions mais des gouvernants. Devant le caractère pressant, imprévu et parfois foudroyant de cette instance critique, il arrive que les gouvernants en viennent à des entorses envers la légitimité formelle et procédurale; on peut citer dans les temps tout récents: le retrait d’une loi venant d’être votée (crise du Contrat de première embauche, CPE, sous le gouvernement Villepin) sous la pression de la rue et des universités occupées par des manifestants, l’annonce par le président de la République (Jacques Chirac), qu’une loi sera promulguée par lui mais ne devra pas être appliquée; ce qui est sans précédent historique. On voit dans ces cas la légitimité formelle, théoriquement inviolable, pliée aux craintes de gouvernants considérant que leur légitimité matérielle a fondu ou se trouve en voie d’épuisement.

Il est clair dans ce type d’exemple que l’élection et les processus institutionnels sont jugés insuffisants pour conférer ou simplement maintenir la légitimité du pouvoir de gouverner. Le système repré-sentatif est entré là dans la démocratie d’opinion, où la légitimité semble devoir être perpétuellement renégociée. Une telle contrainte semblait exclue a priori aux origines du gouvernement représentatif, du fait qu’on avait supprimé le mandat impératif et que l’on instaurait la responsabilité politique au sens moderne9.

7 Maintenant, en France, on parle aussi des «Cent Jours», expression lancée par Dominique de Villepin (lui-même auteur d’un livre sur les Cent Jours de Napoléon): les «Cent Jours de Nicolas Sarkozy» viennent (septembre 2007) d’être «soupesés» par les commentateurs, les coryphées de l’opinion sondagière. 8 Pour corriger l’interprétation trop modernisante de Necker par Habermas, voir notre étude: Tra concetto e idea-forza: l’opinione pubblica secondo Necker, «Giornale di storia costituzionale», a. 2003, n. 6, pp. 129-144. 9 Pour plus de développements sur le «parlementarisme des origines», on renverra à D. Baranger, Le parlement des origines. Essai sur les conditions de formation d’un exécutif responsable en Angleterre, PUF, Paris 1999, et A. Laquièze, Les origines du régime parlementaire en France (1814-1848), PUF, Paris 2002, ainsi que L. Jaume, Le parlementarisme entre ‘représenter’ et ‘gouverner’ dans L’Etat au XXe siècle, sous dir. S. Goyard-Fabre, Vrin, Paris 2004. Sur la question de la

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Il faut également retenir de cette esquisse que le système repré-sentatif des modernes avait su marier l’universalité et la particula-rité, le durable et le provisoire, la formalité de la règle et la contin-gence du conflit politique et idéologique. La dialectique des deux légitimités, en réalité des deux faces de la légitimité (matérielle et formelle), fait que le Peuple paraît se gouverner lui-même. Cette apparence bien fondée découle du principe dégagé par Rousseau: «…bien que le gouvernement puisse régler sa police intérieure comme il lui plaît, il ne peut jamais parler au peuple qu’au nom du souverain, c’est-à-dire au nom du peuple lui-même»10. On trouve là – à travers ce que Rousseau disait du pouvoir exécutif, appelé par lui «le gouvernement» – le paradoxe d’un souverain qui ne com-mande pas, à la différence du souverain originaire, celui de la mo-narchie. Plus tard, Guizot a raillé cet aspect des choses, à savoir qu’en démocratie, celui qu’on appelle «le souverain», obéit en fait:

En droit, il y a un souverain qui, non seulement ne gouverne pas, mais obéit, et un gouvernement qui commande, mais n’est point souverain11.

En effet, la souveraineté, dans les pays européens marqués par la monarchie absolue, provient de ce modèle ou de cette matrice; d’où la critique de l’idée même de souveraineté chez de nombreux libéraux12. Tandis que dans la monarchie absolue le souverain gouverne, en démocratie le «souverain» est gouverné: de là résultent responsabilité ministérielle: L. Jaume, introduction et notes à De la responsabilité des ministres, in Benjamin Constant, Œuvres complètes, Max Niemeyer, Tübingen 2001, t. IX-1, pp. 415-496. 10 Rousseau, Du contrat social, liv. III, chap. 5. 11 F. Guizot, Histoire des origines du gouvernement représentatif en Europe, Didier, Paris 1851, 2 vol., t. 2, p. 139. On voit que, continuant la critique de Rousseau envers la représentation, Guizot la fait déboucher sur une position inverse et politiquement opposée: il ne peut y avoir de «souveraineté du peuple», c’est aussi irrationnel qu’un cercle carré, sauf dans les phases révolutionnaires où la notion sert alors de «drapeau de guerre» (thèse développée par Guizot dans Des moyens de gouvernement et d’opposition (1821). 12 Il faudrait aussi mentionner la matrice de la souveraineté spirituelle, pontificale (plenitudo potestatis). Sur ces questions, voir L. Jaume, Rousseau e la questione della sovranità, dans G. Duso (a cura di), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Carocci, Roma 1999 et la critique de la souveraineté comme source de la loi dans L. Jaume, La liberté et la loi. Les origines philosophiques du libéralisme, Fayard, Paris 2000.

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un certain nombre d’apories vivement ressenties par les protagonistes de la Révolution française. Il fallait, par exemple, faire admettre que le détenteur de la souveraineté n’est pas nécessairement celui qui a l’exercice de cette souveraineté; la distinction, de type juridique, pouvait résonner comme une argutie, dépossédant le peuple de la réalité du pouvoir, et se trouve, en tout cas, au cœur de la contestation montagnarde et de la conquête du pouvoir au printemps 1793.

Tandis que le libéralisme va faire effort pour contourner le modèle de la souveraineté, ou en chercher un modèle différent (ainsi Tocqueville à travers les Etats-Unis), le jacobinisme et ensuite le bonapartisme vont exalter au contraire l’intervention directe du «souverain».

De façon générale, dans la démocratie représentative, le discours tenu «au nom du peuple» par les «représentants» prend une importance particulière, car il certifie, en redoublant la légitimité simplement formelle, que ceux qui obéissent commandent aussi, qu’ils « restent » le souverain à travers la représentation. Il certifie en outre que ceux qui commandent, agissent en conformité avec les intérêts des gouvernés.

Cependant, cette évidence première qu’il y a d’abord le peuple13 comme sujet souverain (lequel délègue ensuite son pouvoir par re-présentation), et ce réquisit nécessaire (le peuple est source de tout le pouvoir) peuvent être ébranlés; c’est la cas lorsque diverses légi-timités prennent la parole (si l’on peut ainsi s’exprimer) et refusent de se résorber dans la légitimité institutionnelle électorale, puis dans la légalité que la majorité élue a créée. Alors la particularité (dans ce peuple supposé un) s’assume comme telle et revendique une légitimité elle-même particularisée, de façon explicite. La par-ticularité d’opinion, d’intérêt, de localité, etc., parle au nom de son groupe, ce qui rend plus difficile à concevoir le Peuple comme sujet doté d’unité et comme volonté publique.

13 Tocqueville dans De la démocratie en Amérique (1835-1840) et, à la même époque, un républicain comme Armand Carrel, emploient une même expression: le «dogme de la souveraineté du peuple».

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2. La nouvelle idée de légitimité

Dans l’ancienne configuration, antérieure à la naissance du parlementarisme, par exemple sous la Révolution en France, on vient de voir que ceux qui revendiquent une certaine image du peuple pour s’en porter défenseurs prétendent que cette image est coextensive à la légitimité formelle, et universelle, du Peuple. Le peuple «jacobin» ou le peuple «cordelier» doit réussir (par ses habiles porte-parole) à être reconnu comme le Peuple souverain tout entier – et non comme un fragment ou une tendance: on déteste le terme de «faction» sous la Révolution.

La partie ne peut se présenter que comme adéquate au tout, et elle doit, dans les esprits, se rendre adéquate au tout, faute de quoi elle serait disqualifiée, en tant que fraction, qui n’est plus qu’une «faction»14.

Dans la conception classique et parlementaire de la dialectique entre les deux faces de la légitimité (face formelle, face matérielle), c’est la séparation progressive entre l’image particulière du peuple et l’exigence universelle de la légitimité qui va scander la vie poli-tique, jusqu’au remplacement du gouvernement, selon un méca-nisme d’alternance dont Hegel se fait l’observateur désenchanté dans des pages célèbres15. Eventuellement, ce même mécanisme produira une réélection victorieuse. Tout cela se réalise par la mé-diation d’un opérateur capital: le parti politique moderne, qui n’est

14 Sur cet imaginaire révolutionnaire, voir le beau texte de Roederer, où il est expliqué que les «factions» (du verbe latin facere) sont une production artificieuse, sophistique et donc inacceptable; Roederer appuie cela d’une citation de Hobbes dans le De Cive, sur l’idée de facere populum. Notre commentaire dans: Représentation et factions. De la théorie de Hobbes à l’expérience de la Révolution française, in La représentation et ses crises, sous dir. J.-P. Cotten, R. Damien et A. Tosel, Presses Universitaires Franc-Comtoises, Besançon 2001, pp. 207-240. 15 «La volonté du nombre renverse le ministère et ce qui fut jusqu’ici l’opposition monte désormais sur la scène; mais, en tant qu’elle est à présent le gouvernement, celle-ci trouve de nouveau en face d’elle le nombre. Ainsi se continue le mouvement et le trouble. Voilà la collision, le nœud, le problème où en est l’histoire et qu’elle devra résoudre dans les temps à venir» (Leçons sur la philosophie de l’histoire, trad. J. Gibelin, Vrin, Paris 1979, p. 343). On sent ici tout l’ennui (le taedium vitae) de Hegel devant la modernité parlementaire!

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pas une « faction » mais une machine de cristallisation de l’opinion et de drainage du vote16.

Dans la configuration de l’Europe contemporaine, les « revendi-cations de légitimité » échappent à l’emprise du cadre du parle-mentarisme classique, notamment du type de gouvernement de ca-binet fondé sur le bipartisme. Ces revendications s’expriment à partir de la société civile, dont la parole ne se résume plus au mo-ment électoral ni même au programme et aux interventions des par-tis électoraux; de plus, ces revendications de légitimité n’appellent pas à la conquête du pouvoir – ou en tout cas pas nécessairement et pas de façon directe. Mais qu’est-ce alors que la légitimité dont il est maintenant question?

Avant tout, il faut la concevoir comme une capacité, qui se juge aux effets qu’elle obtient; et non comme un droit ou une autorité personnelle (avoir la légitimité pour…) ou un principe17. La légitimité, dirons-nous, est 1) la capacité de dire ou de faire de sorte à entraîner une adhésion pour l’action à mener; ce cas constitue la première possibilité: on peut citer la légitimité montrée par la contestation écologique – comme opinion et comme actions – vis-à-vis des centrales nucléaires. Un cas que l’on peut dire extrême puisqu’il va jusqu’à la désobéissance civile, est celui des «faucheurs volontaires d’OGM»; cette pratique de désobéissance civile (atteinte à la propriété privée par voie de fait) a été jugée à maintes reprises en justice et se trouve soutenue par diverses rhétoriques argumentatives (juridiques, politiques, philosophiques, médiatiques) devant l’instance judiciaire18.

2) Le deuxième cas possible est celui de la reconnaissance que se procure le possesseur de la capacité en question19, qui débouche sou-

16 Une conception particulièrement laborieuse dans la vision française méfiante envers les «corps»: voir notre étude récente, Tocqueville face au thème de la ‘nouvelle aristocratie’. La difficile naissance des partis en France, «Revue française de science politique» (56), n° 6, décembre 2006, p. 969-983. 17 Ainsi, chez Kant, la République est une Idée de la raison et par là une norme, la source légitime de tout ce qui convient à la façon d’être républicaine. 18 Les faucheurs d’OGM, du groupe de José Bové, sont un des terrains d’étude du programme de l’ANR (Agence nationale de la recherche), dirigé par Y.C Zarka et coordonné par L. Jaume au CEVIPOF, sur l’Etat et les concurrences de légitimité, les formes nouvelles de contestation (programme 2006-2009). 19 Il faut prendre ici «reconnaissance» au sens de Charles Taylor: Multiculturalisme, différence et démocratie, coll. Champs, Flammarion, Paris 1994.

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vent sur la constitution d’une identité conquise, assumée, monnayée dans des arènes diverses. On peut citer la légitimité de l’amour ho-mosexuel, domaine bien vivant actuellement en Europe, qui implique pour sa reconnaissance des moyens juridiques et un consentement social (sinon une reconnaissance véritable) suffisamment étendu. L’Italie connaît actuellement les mobilisations et les controverses que provoque l’essai de transposer et d’adapter le PACS à la française (qui ne s’applique pas uniquement aux homosexuels puisque c’est une forme d’union sans spécialisation sexuelle déterminée).

3) Enfin, le dernier cas pourra être celui de l’obtention d’obéissance: l’autorité sociale d’un chef religieux (prédicateur, dissident, prophète, éducateur missionnaire en quartiers ghettoïsés, etc.) est un phénomène de ce type.

Ces cas de légitimité comme capacité (à l’adhésion, à la reconnaissance ou à l’obéissance) dont bénéficie quelqu’un (ou un organe collectif) peuvent être repérés dans le moment où les porte-parole commencent à se faire écouter, y compris par l’Etat (dans ses mécanismes formels) et par le parti gouvernant (dans sa légitimité matérielle validée par l’élection). Redisons-le encore, ces formes de légitimité ne sont pas nécessairement antagonistes avec la loi ni avec l’Etat – elles seraient alors subversives ou révolutionnaires –, mais elles exercent une concurrence de légitimité vis-à-vis de l’Etat. Elles se font éventuellement préférer aux autorités instituées, aux lois ou aux ordres émanant de la puissance publique, elles se font reconnaître, obéir, elles sont discutées et érigées en interlocuteurs du journaliste, du député, du maire, voire du chef de l’Etat…

On peut ici avancer une hypothèse quant au rapport entre cette (nouvelle) modalité de la légitimité et la souveraineté. Dans la me-sure où le particularisme assumé, celui de la partie par rapport au tout, a des effets politiques sur le jeu institutionnel (lobbying, exi-gences diverses, manifestations en public, blocages, associations, recrutement), les représentations à travers lesquelles le jeu démo-cratique se perçoit lui-même20 tendent à substituer à la souveraineté classique les concurrences de légitimité ainsi dramatisées.

En effet, si la souveraineté est le droit pour le peuple à autoriser ses représentants et à contrôler la production normative (lois ou ac- 20 Ces représentations sont celles des acteurs politiques, des commentateurs de l’actualité, des spécialistes de l’opinion, etc.

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tes réglementaires), voici que d’autres sujets « publics » apparais-sent; ou, plus exactement, apparaissent en public, depuis le privé dans l’espace public21. Ces sujets politiques se posent en sources de l’autorisation (et donc aussi de l’invalidation des actes et textes normatifs de l’Etat); finalement, ils exigent la reconnaissance de nouveaux droits. De la société civile sort la formulation, non étati-que, du droit à instaurer.

Certains feront observer que, au fond, ces modes de formulation de légitimité qui sont extérieurs au jeu institutionnel « reprennent le chemin » de la souveraineté du peuple exercée par le parlement. Donc, beaucoup de bruit pour rien? Pas de bouleversement sensible après la vague et la rumeur d’opinion? En effet, cela peut être le cas: la demande est satisfaite, la contestation est désamorcée, etc. Mais il faut regarder de plus haut.

On peut dire, en considérant notre définition précédente: la capacité à obtenir l’adhésion, ou la reconnaissance, voire l’obéissance du pouvoir (parlement et exécutif) se trouve ici confirmée. Une légitimité neuve s’est montrée, qui aura peut-être un grand avenir. Elle a déréglé, dans une certaine mesure, la dialectique classique de la face matérielle et de la face formelle de la légitimité démocratique constitutionnelle. Mais il n’est pas à exclure qu’elle crée à l’avenir une crise durable, ou brutale, de la souveraineté classique. La souveraineté domptée, affaiblie, consentante, deviendra peut-être l’instrument de la légitimité conquérante, auquel cas elle ne serait pas anéantie mais soumise à une logique plus forte, œuvre de la pluralité des sujets créateurs de droit.

Pour aller plus loin dans l’analyse, il faut introduire un effet di-rect de la pluralité contemporaine. Les nouveaux droits confusé-ment aperçus, puis brandis comme des Bastilles à prendre, passent 21 Giuseppe Duso a maintes fois insisté sur la formation de tels sujets politiques, et en montre la présence essentielle dans une théorie du pouvoir comme celle d’Althusius. Voir par exemple, dans les écrits en français, G. Duso, «La constitution mixte et le principe du gouvernement: le cas Althusisus», dans Le gouvernement mixte, sous dir M. Gaille-Nikodomov, Publications de l’Université de Saint-Etienne, 2005. Duso écrit par exemple à propos d’Althusius: «Les gouvernés, bien qu’ils soient soumis au gouvernement, ont la capacité de juger de l’action du gouvernement et des contenus du commandement car ils peuvent se référer à une justice irréductible au caractère formel de la légitimité moderne et à un droit que le gouvernant doit aussi observer» (p. 157). Le lien entre de tels sujets sociaux et politiques et l’idée d’une légitimité supérieure est clair.

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aujourd’hui par l’évidence courante que la loi ne peut pas être la même pour tous; mais, en même temps, quitte à créer une tension très ambiguë, les acteurs de l’espace public cherchent généralement à obtenir une légalité nouvelle, réclament un texte de loi ou une ré-glementation internationale (comme chez Attac par exemple). On rencontre alors la question renouvelée des sources du droit.

3. Crise de la loi: les alterlégitimités et la pluralité réclamant le droit

On y a suffisamment insisté précédemment, dans les conditions antérieures de l’Etat-nation et du monopole normatif confié au parlement, la revendication exprimée dans la société est non-révolutionnaire tout le temps qu’elle se borne à reconnaître la primauté constitutionnelle du souverain – le peuple – et l’unité de sa volonté publique. Dans la nouvelle configuration, on peut présenter le processus, pour simplifier, en deux temps; d’abord, une partie refuse l’universel antérieur, tenu pour mensonger et donc oppressif. En un second moment, cette partie lutte pour voir traduire en droit son égalité avec le reste du tout. Ainsi, les femmes peuvent demander à être égales aux hommes dans les luttes électorales: le citoyen a un sexe, la neutralité des textes classiques est tenue pour un mensonge intéressé. Les non-hétérosexuels peuvent s’affirmer comme groupe à part entière (ou communauté) et exiger de devenir égaux en droits aux hétérosexuels: la société civile se découvre sexuée de façon complexe et très profonde. Les handicapés, troisième exemple, peuvent se constituer en associations spécifiques pour obtenir des droits dans l’emploi, l’urbanisme, les loisirs ou la scolarisation (chantier actuel relancé de façon spectaculaire par le président Sarkozy à la rentrée scolaire 2007).

Je remarquais au moment du colloque de Padoue, et donc avant l’élection de Nicolas Sarkozy, que, dans un cas d’enseignement en lycée que je connais, on a pu voir l’Etat prendre en charge une exigence d’égalité non seulement dans les moyens (de façon proportionnée) mais aussi dans les résultats; il faut que la collectivité mette au service de tel enseignant handicapé (il se déplace en fauteuil roulant) les moyens d’arriver au cours dans des conditions exceptionnelles (transports publics, personnel salarié spécialement

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pour assister le professeur handicapé dans son cours, aménagement spécial des salles de lycée, etc.), de façon à obtenir une égalité de résultats; il faut, pour la mission publique d’enseignement que ce professeur obtienne la réussite de son public d’élèves comme tout autre enseignant et qu’en cela rien ne le distingue; c’est une nouvelle norme administrative, à usage spécifié, qui se fait jour. Selon notre problématique, on peut penser que la capacité à intéresser l’Etat à la situation d’enseignants très défavorisés dénote (et signale) une légitimité que les associations concernées ont su faire reconnaître22. Le débat télévisé entre Ségolène Royal et Nicolas Sarkozy, très vif sur la question des élèves handicapés, montre que là aussi, des relais de la société civile se sont faits et se feront entendre: de nouveaux droits sont en progression.

Les juristes constatent également que l’administration tient compte des demandes issues de situations particulières: on peut prendre pour exemple la modulation de tarification, en France, des services (publics) de transport, localement, en fonction des ressources des familles. Certains diront que fait retour le grand principe d’Aristote sur l’équité comme complément et correctif de l’égalité23. Si « la loi est la même pour tous », un autre principe est aussi à prendre en compte, à savoir que des situations différentes doivent être traitées de façon différente.

En réalité, et pour mieux relier cette évolution à la problématique de la légitimité et à l’essor de la pluralité, il faut remarquer que cette recherche en équité concernait auparavant les cas d’application de la loi; de même d’ailleurs pour la justice corrective chez Aristote, où il s’agit d’une action pénale et réparatrice. Mais aujourd’hui la question est posée ailleurs et de façon différente, en amont même

22 Pour être complet, il faut signaler que, traditionnellement, dans la fonction publique française, et notamment pour le service public de l’enseignement, les incapacités à exercer le métier sont variées et nombreuses et que, par exemple, une difficulté forte dans la motricité était une source «évidente» de disqualification. 23 «Telle est la nature de l’équitable: c’est d’être un correctif de la loi, là où la loi a manqué de statuer à cause de sa généralité» (Aristote, Ethique à Nicomaque, V, 14, trad. J. Tricot, Vrin, Paris 1983, p. 268). Dans la Rhétorique, Aristote écrivait: «L’arbitre voit l’équité, le juge ne voit que la loi» (I, 13, 1374b, trad. M. Dufour, Gallimard, coll. TEL, Paris 1991, p. 86). En fait, comme l’indiquait un grand jurisconsulte comme Portalis (Discours préliminaire de présentation du Code civil à Napoléon), le juge moderne ne peut se dérober au jugement en équité (du fait du silence, de l’obscurité ou de l’insuffisance de la loi).

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de l’élaboration, et de la pensée, de la loi; l’effectivité de la légitimité consiste dans la capacité à agir de sorte que la loi (si loi il doit y avoir) soit faite et conçue selon un contenu que le législateur n’avait pas anticipé. L’italien dirait sans doute à ce propos «indirizzo»: il faut que la loi, dans sa source, dans son moment de production, dans son argumentation présentée en enceinte parlementaire, reconnaisse la différenciation sociale, telle qu’elle s’est exprimée dans son arène propre, et se mette au service de cette dernière parce qu’elle ne peut plus l’ignorer ou la nier.

La phénoménalité nouvelle de la légitimité est donc de faire voir et de prouver une capacité de contrainte sur le législateur, capacité à laquelle ce dernier se soumet. La loi est-elle «l’expression de la volonté générale », selon un axiome de Rousseau (Gouvernement de Pologne) repris dans la Déclaration de 1789? Ou plutôt de la volonté générale «en conformité avec la Constitution»24, à travers le canal des représentants de la souveraineté nationale? Ces formules de notre patrimoine juridique ne rendent pas compte de la réalité politique et sociologique25.

Comparativement à ce qui a été dit plus haut sur la face maté-rielle de la légitimité classique, observons que la «revendication de légitimité», ce discours de la «capacité à influer sur le jeu politi-que», ne cherche pas à donner une «image du peuple» qui, pour un temps défini, serait celle occupant le lieu du pouvoir. A la limite, il n’y a plus de «peuple» ni non plus de souverain, car, du moins dans le premier temps du processus, apparaît quelque chose comme des entités (le groupe particulier des X ou des Y) et aussi des identités. 24 Décision du Conseil constitutionnel en France, loi sur l’évolution de la Nouvelle-Calédonie, n° 85-197 DC du 23 août 1985. 25 En outre, l’Union européenne rend cette formule hautement problématique. Michel Troper, qui considère la souveraineté comme «une qualité que le discours juridique impute à certaines entités», note les contradictions discursives auxquelles la situation actuelle aboutit; en effet, ou bien il faudrait dire que les autorités européennes sont les «nouveaux représentants du peuple français», ou bien il faut considérer que «la volonté du peuple n’est plus souveraine» (M. Troper, L’Europe politique et la souveraineté des Etats, dans L’Etat au XXe siècle, op. cit., p. 193). Ce choix impossible au vu de notre patrimoine juridique, n’est pas sans rapports cependant avec ce que nous décrivons comme un discours d’assertion de légitimité qui essaye aussi de gagner sur le terrain du droit après avoir remporté des succès dans l’arène médiatique, de démocratie d’opinion. Comme le suggère M.Troper, pas de «déficit démocratique» européen sans crise démocratique interne aux Etats-nation (voir sa conclusion).

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Les revendications de légitimité portées par certains organes parviennent souvent à instituer une identité communautaire, parti-cularisée26. La situation de pluralité, déclarée et ouverte, laisse le champ à une concurrence entre des légitimités réclamant, chacune pour soi, la reconnaissance, et visant, généralement, à remporter un bénéfice de droit. Cette situation traduit un «déficit démocratique» (comme on a souvent dit à propos de la construction européenne, mais le cadre national n’échappe pas au constat), et elle est riche en «défis démocratiques» également. A commencer par le défi envers l’Etat gardien de l’intérêt général.

En conclusion, rappelons qu’il s’agit là d’une recherche en cours27 et soumise au débat. Deux pistes seraient à poursuivre. D’une part, une enquête sur les sources du droit et le pluralisme juridique. Dans quelle mesure la formation croissante d’un droit qui naît en-dehors de l’Etat a-t-elle une relation avec ce que nous avons appelé les alterlégitimités au sein de la société civile reconnue maintenant comme réseaux de pluralité? Quel est exactement, d’autre part, le lien avec la crise de la souveraineté, à la fois dans le cadre national et au sein de l’Union Européenne, édifice juridique sans précédent?

On peut en tout cas observer que l’Etat devient un agent parmi d’autres dans la sphère sociale et dans la sphère économique: peut-il en être de même dans la production du politique? L’Etat ren-contre-t-il ses concurrents et ses rivaux dans ce tourbillon des enti-tés et des identités qui secouent son monopole de normativité et de coercition, au point que son déclin serait programmé?

Je ne le crois pas, il me semble que, plutôt qu’un «au-delà de la démocratie» (pour citer mon collègue et ami Giuseppe Duso), nous verrons d’autres formes de la démocratie, où l’Etat tiendra une place différente et restera l’une des sources de la normativité. Mais il semble également que la matrice de la souveraineté, tellement marquée par ses origines historiques, arrive à épuisement de ses capacités. Cette démocratie plurale et aussi plus sociétale – peut-être également plus déchirée que conviviale – reste à mieux définir.

26 Rappelons que c’est le deuxième des trois débouchés distingués précédemment: l’adhésion, la reconnaissance, l’obéissance obtenue. 27 Notamment dans le cadre du projet financé par l’ANR, dont il a été question plus haut.

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 109-125 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

La separazione dei poteri in J. Madison e A. Hamilton

Un capitolo di storia della teoria costituzionale: dalla ständische Verfassung allo Stato costituzionale di diritto

Pasquale Pasquino

“Poiché in ogni governo deve esserci un arbitro supremo per mantenere la pace tra le varie autorità, e poiché, coerentemente con lo spirito delle istituzioni americane, questo supremo arbitro non può essere il governo federale, i fondatori della costitu-zione ritennero che questo potere mode-ratore, che da qualche parte deve pure ri-siedere, non poteva essere più sicuro in altro luogo che nelle mani delle corti di giustizia […]L’interesse della maggio-ranza non è sempre identico all’interesse di tutti. Quindi, in democrazia la sovranità della maggioranza crea una tendenza che la conduce ad abusare del suo potere nei confronti di tutte le minoranze”♦

Sin dall’antichità classica, il buon ordine della città è stato pensato in occidente con le categorie della “pluralità”. Il modello Aristote-lico della memigmene politeia (il regime, governo o costituzione misti) è sopravvissuto sotto varie forme sino alla rivoluzione hob-besiana ed oltre1; in particolare in Inghilterra e nei paesi di lingua ♦ John Stuart Mill, “De Tocqueville on Democracy in America” (1835), trad, it. in J.S. Mill, L’America e la democrazia, Bompiani, Milano, 2005, pp. 241 e 257. 1 Si veda ora il volume a cura di M. Gaille-Nikodimov, Le Gouvernement mixte, Publications de l’Université de Saint Etienne, 2005, ma soprattutto il fondamentale

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Pasquale Pasquino

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tedesca. Il pluralismo antico o classico si fondava non soltanto nell’avversione della teoria politica per le forme di governo semplici (tutte “pestifere”, per parlare con Machiavelli, compresa natu-ralmente la democrazia – cioè il governo dei poveri), ma aveva le sue radici soprattutto in una anatomia della città di impianto ari-stotelico2, la quale vedeva nelle mere tes poleos, le parti della città, gli elementi costitutivi del corpo politico (molto più in queste parti [euporoi/aporoi; gnorimoi/demos] che nelle “famiglie” come aveva sostenuto N. Bobbio nel suo studio famoso su “Modello aristotelico e giusnaturalistico”)3. Di tutto questo mi sono occupato altrove e non è il caso che ci torni qui adesso.

Il pluralismo costituzionale classico che si ritrova nelle dottrine medievali e moderne della ständische Verfassung4 – la costituzione per ordini e ceti – incardina nell’ordine/struttura del governo il plu-ralismo sociale delle parti, degli ordini e dei ceti. Non solo nella struttura ad ellissi dello stato territoriale, con il principe da un lato ed i Landesstände dall’altro (come ha sostenuto Werner Naef5), ma in seno all’organo stesso che rappresenta il paese ed il territorio di fronte al sovrano. Si pensi agli Stati Generali del regno in Francia o alla struttura bicamerale del Parlamento inglese.

Il pluralismo costituzionale moderno emergerà invece in seno alle istituzioni dello Stato a partire da una “società senza qualità”, nella quale viene riconosciuta soltanto l’esistenza di individui sin-goli, titolari di diritti eguali (e questo almeno da Hobbes fino a John Rawls passando per il costituzionalismo moderno).

È stato soprattutto il pensiero costituzionale americano della fine del secolo 18° l’artefice di questo nuovo pluralismo nato dalla ri-

lavoro di W. Nippel, Mischverfassungstheorie und Verfassungsrealität in Antike und früher Neuzeit, Stuttgart, Klett-Cotta, 1980. 2 Devo rinviare qui a due miei scritti nei quali presento questa dottrina: “Political Theory, Order, and Threat", Nomos, XXXVIII, 1996, pp. 19-41 e “Machiavelli e Aristotele: le anatomie della città”, Filosofia Politica, 2/2007, pp. 199-212. 3 N. Bobbio, Il modello giusnaturalistico, in N. Bobbio, M. Bovero, Società e stato nella filosofia politica moderna, Il Saggiatore, 1979, pp. 17-109. 4 Si veda di Rudolf Vierhaus, Staaten und Stände. Vom Westfälischen bis zum Hubertusburger Frieden 1648-1763, Frankfurt a.M. - Berlin 1984 = Propyläen Geschichte Deutschlands Bd.5 (Studienausgabe 1990). 5 “Frühformen des modernen Staats im Spätmittelalter’’, Historische Zeitschrift, CLXXI, 1951, pp. 225-243.

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La separazione dei poteri in J. Madison e A. Hamilton

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voluzione hobbesiana. La separazione dei poteri, in particolare quella che la costituzione americana stabilisce in seno al governo centrale (e si prescinderà qui da una dimensione molto importante: la distribuzione del potere fra stati-membri dell’Unione e governo centrale), la separazione dei poteri, dunque, non rinvia ad una plu-ralità di forze sociali (che invece devono venire dissolte nel corpo politico – si pensi al Federalist, § 10), essa rinvia, invece, alla mac-china anti-dispotica della costituzione limitata e rigida6.

Le due rivoluzioni costituzionali dell’ultimo scorcio del secolo dei Lumi nascono entrambe da un gesto che dissolve l’ordine so-ciale pluralistico dell’antico regime. In America è il repubblicane-simo moderno7 che cancella la nobiltà e la monarchia, ricacciate in mare con le forze militari inglesi che opprimevano le colonie del nuovo mondo. In Francia è il colpo di stato del giugno 1789 che cancella les Etats Généraux du royaume e li sostituisce con l’assemblea della Nazione, una, omogenea ed indivisibile. Si osservi che il governo rappresentativo che nasce dalle ceneri della monarchia di antico regime non ha ancora nulla a che fare con la democrazia pluralista – esso si contrappone, infatti, nel momento della sua istituzione, sia alla democrazia (il governo dei poveri) che all’esistenza organizzata di una pluralità di gruppi politici. Anche se questa, quella descritta da Schumpeter per intenderci, emergerà ben presto in un sistema basato sul suffragio censitario innanzitutto sulle coste occidentali dell’Atlantico.

In questo nuovo orizzonte politico, il pluralismo è socialmente disembodied. Esso non fa più riferimento a corpi, ceti, ordini, ran-ghi e parti della città. È invece una variante moderata (nel senso di Montesquieu) e limitata (nel senso di Alexander Hamilton) del po-tere dello stato moderno. La finzione sociale e l’ipocrisia che l’accompagnano nulla tolgono al fatto che il linguaggio politico e, ancora più importante per me, le istituzioni mutano struttura, natura e funzionamento e prendono origine e legittimità nuove a partire dal principio elettorale che diventa ora il fondamento del potere poli-tico. Di qui la novità ed anche una difficoltà importante sulla quale 6 Montesquieu rappresenta, in certo senso, la giuntura fra le dottrine classiche del governo misto e quelle post-hobbesiane della separazione/bilancia dei poteri. 7 Si veda il volume curato da B. Fontana, The Invention of the Modern Republic, Cambridge, Cambridge University Press, 1994.

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dovremo soffermarci più avanti – quella rappresentata dall’esi-stenza in seno agli ordinamenti delle moderne democrazie di giudici non eletti!

*** Detto tutto questo in guisa di introduzione e per delineare il paesaggio dentro il quale il mio intervento prenderà posto, vorrei ora specificare il tema di quest’ultimo.

Ho fatto riferimento al pensiero costituzionale americano quello che dà l’avvio al nuovo pluralismo costituzionale, ed è su di esso, su un suo aspetto, che mi soffermerò nella mia esposizione. Attra-verso l’analisi di alcuni testi del Federalist vorrei mostrare che in essi James Madison e Alexander Hamilton, i due autori principali del commentario più autorevole della carta costituzionale ameri-cana, difendono concezioni diverse della separazione dei poteri: il nuovo pluralismo – quello che prenderà il posto della costituzione mista [politeia] di una società per ordini, ceti e parti della città. Queste concezioni divergono su un punto particolarmente impor-tante almeno per le mie ricerche: il ruolo che il potere giudiziario svolge nella struttura dei checks and balances: cioè nel meccanismo che deve garantire al tempo stesso l’equilibrio costituzionale, il ca-rattere limitato o limitante della legge fondamentale e, al tempo stesso, la protezione dei diritti dei cittadini – che è poi l’obiettivo che giustifica lo sforzo della creazione di una costituzione liberale. Con ciò sto dicendo, con Montesquieu8, che le costituzioni sono strumenti per il raggiungimento di fini: quelle “limitate” hanno come fine la garanzia della libertà dei cittadini – la protezione dei loro diritti. Vale la pena ricordare che il riferimento a Montesquieu non ha a che fare con particolari preferenze personali di chi scrive (preferenza che non voglio peraltro nascondere), ma soprattutto col fatto che il presidente del Parlement de Bordeaux è la sola autorità costituzionale indiscussa tanto dai Padri fondatori di Filadelfia che dai loro avversari “antifederalisti”.

Nel gruppo di testi che vanno dalla sezione 47 alla 51 dei Federalist Papers il giovane Madison9 presenta una dottrina dei

8 Esprit des Lois, Libro VI, capitolo XI. 9 Insisto sul fatto che queste posizioni rappresentano il pensiero di Madison solo nel 1787. Egli muterà, infatti, la sua opinione. Si veda, per esempio, Jack Rakove,

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checks and balances – molto simile in realtà a quella esposta da Montesquieu nell’Εsprit des lois – che può essere presentata enu-cleando i punti seguenti:

1. il legislativo è il più pericoloso dei tre poteri, (Madison parla legislative vortex)10

2. gli altri poteri (branches) essendo in qualche modo ad esso subordinati non creano gli stessi problemi/preoccupazioni di abuso di competenze e quindi di controllo,

3. per tenere sotto tutela il potere legislativo bisognerà “dividerlo” ed attribuire le sue competenze a diversi organi, specificamente: le due camere del Congresso e il Presidente,

4. il veto presidenziale rappresenta una garanzia per l’esecutivo che divenendo co-legislatore può proteggersi da tentativi del Congresso di invadere e limitare le sue prerogative.

Questi sono elementi noti e cento volte ripetuti del pensiero costitu-zionale di Madison. Come quello, particolarmente rilevante, in virtù del quale la divisione dei poteri non viene ridotta ad una concezione rigida della separazione delle competenze, ma si presenta, invece, come una dottrina di checks11 – il che implica quella che Madison chiama partial agency di un potere sull’altro; e, dunque, l’assenza di una sovranità costituita12. Il legislativo non è infatti un potere so-vrano, ma solo quello più potente, e dunque il più pericoloso.

“Judicial Power in the Constitutional Theory of James Madison”, William and Mary law Review, vol.43, no. 4, March 2002, pp. 1513-47. 10 Il pericolo deriva essenzialmente dal suo essere in diretto contatto col popolo e quindi sotto l’influenza delle passioni della maggioranza. Questo tema e di particolare importanza ed andrebbe discusso in dettaglio. 11 Su questo tema si veda ora di David Wootton, “Checks and Balances and the Origins of Modern Constitutionalism”: http://oll.libertyfund.org/index.php?option= com_staticxt&staticfile=show.php%3Ftitle=1727&chapter=81719&layout=html. 12 La “sovranità” nei sistemi costituzionali liberali è solo “costituente” e rinvia ad un potere assoluto che non è mai in atto nel funzionamento regolare dei poteri pubblici. Nessun organo dello stato, nemmeno il corpo elettorale, può appropriarsene. Essa resta un concetto limite: origine di tutti i poteri costituiti, è espulsa al di fuori della costituzione. Essa è solo il fondamento della costituzione, la sua “Grundnorm”. L’art. 3 della Déclaration del 1789 recita: «Le principe de toute souveraineté réside essentiellement dans la Nation»; ciò implica che essa è estranea alla struttura dell’ordine costituzionale. Come affermava Sieyes è il governo che viene costituito,

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Vorrei, però, qui attirare l’attenzione su un punto diverso da questi, che viene spesso trascurato negli studi sul costituzionalismo: in questo sistema di bilanciamento dei poteri al giudiziario non viene assegnato alcun ruolo. In certo senso si potrebbe dire che si tratta di una bilancia interna al legislativo per evitare che il mede-simo si approprî di tutte le competenze del governo centrale. Come è più o meno noto, Madison mutò presto opinione. Ben presto, a partire dagli anni 90 del secolo 18°, gli americani si renderanno conto, innanzitutto, del fatto che il presidente eletto (una delle in-venzioni istituzionali di Filadelfia, senza precedenti storici) era tutt’altro che un potere debole. Resta in ogni caso inoppugnabile che nel testo forse centrale del Federalista non c’è un posto per il giudiziario nella bilancia dei poteri. Questa è fra l’altro una delle ragioni per le quali la decisione del Chief Justice Marshall del 1803 nel caso Marbury v. Madison è parsa al tempo stesso così impor-tante e a taluni scandalosa o abusiva.

Non ho affatto l’intenzione di ritornare qui su quella sentenza complessa e sovente fraintesa. Ma vorrei soffermarmi invece con una certa attenzione sulla sezione 78 dei Federalist Papers, nella quale l’avvocato newyorkese Alexander Hamilton presenta una concezione della separazione dei poteri diversa da quella di Madison, che ho appena riassunta; una concezione, quella di Hamilton, che credo sia alla base del meccanismo americano del sindacato di costituzionalità delle leggi. Questa concezione si è af-fermata soltanto nel corso del 20° secolo e non certo nel 1803 – come piace dire ai detrattori ed agli elogiatori del sistema costitu-zionale americano –, ma essa è nondimeno chiaramente presente nella mente e negli scritti del più giurista dei padri fondatori. Si os-servi, in parentesi, che Marshall e Hamilton si conoscevano bene ed erano molto legati fra di loro13.

La sezione 78 – quella che qui vorrei commentare – è parte di un gruppo di testi redatti da Hamilton per difendere la struttura del

non la nazione. Questa è l’artefice, la forma del potere pubblico è, invece, l’artefatto. Naturalmente le dottrine della “rappresentanza assoluta” [o appropriierte], sulla scia di Hobbes, attribuiscono ai rappresentanti il potere stesso della nazione! 13 Si veda, Samuel J. Konefsky John Marshall and Alexander Hamilton, Architects of the American Constitution, The MacMillan Company, New York Publication, 1967.

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potere giudiziario presente nel progetto di Costituzione che era stato prodotto dalla convenzione di Filadelfia. Quando dico “difendere” faccio riferimento non solo alla funzione generale dei Federalist Papers che era di incoraggiare la ratifica della costituzione nello stato (fondamentale) di New York. Mi riferisco anche al fatto che Hamilton, con tutta probabilità, sta rispondendo ad un attacco speci-fico ed insidioso di uno degli autori che combattevano la costitu-zione proposta – tal Brutus – probabilmente Melanchthon Smith, una delle menti più acute del movimento che si opponeva ad un raf-forzamento del governo centrale a scapito degli stati dell’Unione. Brutus (riassumo brutalmente – anche se non sono convinto che ‘brutalmente’ venga da Bruto!) sosteneva14 che la Corte Suprema, istituita dall’articolo 3° della Costituzione, concentrava su di sé straordinari poteri, contro i quali l’anti-federalista opponeva l’argo-mento che i giudici federali:

“erano resi completamente indipendenti dal popolo e dalla legislatura, per quanto riguarda il loro mandato e gli emolumenti” e che “avrebbero agito in modo da sovvertire il potere giudiziario degli stati membri e forse anche l’autorità legislativa dei medesimi”15.

Com’è chiaro, Brutus sta difendendo, col secondo argomento, le competenze degli stati membri nei confronti di quelle del governo centrale. Ma il punto più importante per il mio argomento è il primo, quello relativo all’indipendenza dei giudici, che egli contesta. Brutus faceva valere, inoltre, che l’articolo 3 della Costituzione proposta “attribuiva alla corte l’autorità di interpretare la costituzione attraverso procedure di giurisdizione, o di esporne il contenuto in base alle regole che valgono per l’interpretazione della legge”16.

Se Brutus ha ragione – come tendo a credere (anche se esagera un po’ per ragioni di polemica politica) – hanno torto coloro che attribuiscono a Marshall l’invenzione (anti-costituzionale!) del judicial review; hanno torto perché, se il critico della Costituzione

14 Brutus XI, 31 January 1788. 15 “They are to be rendered totally independent, both of the people and the legisla-ture, both with respect to their offices and salaries […] they will operate to a total subversion of the state judiciaries, if not, to the legislative authority of the states”. 16 “This article vests the courts with authority to give the constitution a legal con-struction, or to explain it according to the rules laid down for construing a law”.

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americana aveva visto bene, come penso, questa era ben prevista dalla costituzione del 1787 (come – detto di passata – si può mo-strare, peraltro, che il bloc de constitutionnalité riconosciuto nel 1971 dal Conseil Constitutionnel era implicito nella razionalizza-zione costituzionale del 1958 in Francia)17. Sta di fatto che Publius, nella fattispecie il giurista del gruppo, Hamilton, si sente in dovere di rispondere alla critica rivolta al testo di Filadelfia. Ma come ve-dremo, di questa critica, egli non negherà il ruolo che Brutus attri-buisce alla Corte Suprema, ma lo inserirà in una visione originale della bilancia dei poteri e di una particolare forma di quello che si può chiamare constitutional self-enforcing equilibrium [un equili-brio costituzionale che si perpetua in base a meccanismi endogeni], entro il quale – questo il punto decisivo – il potere giudiziario svolge un ruolo essenziale di stabilizzatore di quell’ordine e della finalità che esso persegue! Si badi bene, senza avere peraltro – così sostiene Hamilton – ricorso al meccanismo della partial agency, egli parla infatti del giudiziario come une “barriera”; in realtà si potrebbe sostenere che esso ha partial agency per quanto riguarda la funzione legislativa. Ma sto anticipando e sarà, invece, necessa-rio procedere con ordine, anche se questo mi obbliga a fare un passo indietro.

Madison nel § 39 scrive che il principio del repubblicanesimo si riduce in sostanza all’autorizzazione popolare (attraverso elezioni periodiche) degli organi di governo. In una società post aristocra-tica18 e post-monarchica solo elezioni che attribuiscono mandati pro tempore possono giustificare l’esercizio del potere di governo di uomini su uomini (questa espressione, si badi bene, non è “politi-camente scorretta” perché il governo delle donne per più di un se-

17 Con l’espressione “razionalizzazione costituzionale” si vuol indicare la circo-stanza che la Costituzione della 5a Repubblica fu più che un vera e propria rifon-dazione dell’ordine politico costituzionale (come fu il caso di Weimar o della no-stra costituzione repubblicana), ma il risultato di una razionalizzazione del governo parlamentare della 4a Repubblica. Di qui il fatto che i costituenti del 1958 non si preoccuparono di redigere una nuova dichiarazione dei diritti limitandosi ad incor-porare quelle precedenti del 1789 e del 1946. 18 “Could any further proof be required of the republican complexion of this sys-tem, the most decisive one might be found in its absolute prohibition of titles of nobility, both under the federal and the State governments; and in its express guar-anty of the republican form to each of the latter.” (Federalist, § 39).

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colo viene delegato a padri e mariti e le donne non hanno diritto di cittadinanza in nessun governo rappresentativo alle sue origini)19. Madison prevedeva peraltro un’ eccezione a questo principio: i giu-dici federali non solo non erano eletti ma avevano un mandato a vita, sottoposto solo al principio del diritto pubblico consuetudina-rio inglese del good behavior.

“Se risaliamo, per un criterio di definizione, ai diversi principî su cui sono basate le diverse forme di governo, – sostiene Madison – pos-siamo definire come repubblica, o almeno attribuirgli questo nome, un governo che deriva tutti i suoi poteri direttamente o indiretta-mente20 dalla grande massa del popolo [attraverso le elezioni periodiche], ed è amministrato da persone che conservano il loro in-carico finché piaccia ai loro committenti e in ogni caso per un pe-riodo di tempo limitato oppure finché dura la loro buona condotta [good behavior] (cioè per sempre, se non trasgrediscono le leggi co-muni del paese e, quindi, indipendentemente dalle loro decisioni).”21

19 Nelle società di antico regime, ad eccezione di Francia e Germania, era invece possibile che delle donne (regine o imperatrici) esercitassero potere sui maschi! Evidentemente la differenza di gender era meno importante della differenza di rango! Talvolta per essere politicamente corretti si rischia di dire il falso, come nel caso di un mio collega americano che parlando dei membri dell’ekklesia ateniese precisava gentilmente “he or she” (sic!). 20 La dottrina americana insiste spesso – e a torto mi sembra – sulla circostanza che i giudici federali sono nominati da ufficiali eletti. E questo con l’obiettivo di ricondurre tutte le cariche di governo al principio democratico dell’autorizzazione popolare. Certo, ma in tal modo si trascura il fatto più importante a mio avviso della differenza fra pubblici ufficiali eletti pro tempore e responsabili dinanzi al suffragio e giudici irresponsabili e nominati a vita. La realtà è che non è possibile ricondurre ad un unico principio di legittimazione lo stato costituzionale di diritto. Questo è, infatti, da questo punto di vista un governo misto. Ma su questo tema non posso fermarmi qui. 21 L’osservazione in parentesi è di chi scrive. La traduzione italiana, in generale elegante e corretta (Il Mulino, 1980, p. 298) qui si allontana dal testo e sorprendentemente sopprime l’ “or” della frase finale [“per-sone che conservano il loro incarico in modo precario e per un periodo di tempo limitato, finché dura la loro buona condotta”], la svista impedisce di capire che Madison sta parlando di rappresentanti eletti, da un lato, e di giudici federali, dall’altro. Il testo originale recita: “If we resort for a criterion to the different prin-ciples on which different forms of government are established, we may define a republic to be, or at least may bestow that name on, a government which derives all its powers directly or indirectly from the great body of the people, and is ad-

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Più avanti, al § 51, il testo più noto del Federalist per quanto at-tiene alla separazione dei poteri, Madison torna sull’ “eccezione” che il giudiziario federale rappresenta nei confronti del principio repubblicano dell’autorizzazione popolare pro tempore. La Costitu-zione di Filadelfia sottrae al popolo la scelta dei giudici e la san-zione sul loro operato, in deroga al principio in base al quale: “ogni nomina alle supreme cariche esecutive, legislative e giudiziarie del paese, dovrebbe risalire alla medesima fonte di autorità, vale a dire al popolo, attraverso sistemi di elezione diversi ed indipendenti l’uno dall’altro” (p. 395).

Gli argomenti che Madison offre per giustificare la deviazione dalla norma prevista dalla costituzione per la sola nomina dei giu-dici non sono del tutto chiari e persuasivi. In realtà, a guardar bene, si tratta di una doppia eccezione/deroga. Infatti, non solo i giudici non sono responsabili dinanzi al corpo elettorale (prima deviazione nei confronti del principio repubblicano, che ho appena ricordato); ma, inoltre, essi non sono “indipendenti”, poiché la loro nomina (e promozione, bisogna aggiungere) dipendono dalla volontà congiunta degli altri due organi di governo (in particolare: il presidente ed il Senato) (seconda deviazione – e si osservi che qui per indipendenza si intende appunto il fatto che i tre poteri hanno fonti di nomina popolare distinte e sono accountable solo ai cittadini elettori). C’è, in realtà, una terza anomalia nel modello madisoniano, i giudici non svolgono, in quanto branch distinta del governo, alcuna funzione costituzionale di contro-potere (e nemmeno di autodifesa, come, grazie al veto presidenziale sulle leggi, nel caso dell’esecutivo!). Le ragioni addotte per queste anomalie nella costruzione del terzo potere sono22:

ministered by persons holding their offices during pleasure, for a limited period, or during good behaviour”. Che l’autore si riferisca al potere giudiziario con l’ultima espressione è confermato da quanto scrive un po’ più avanti nello stesso § 39: “According to the provisions of most of the constitutions, again, as well as ac-cording to the most respectable and received opinions on the subject, the members of the judiciary department are to retain their offices by the firm tenure of good behaviour”. 22 “first, because peculiar qualifications being essential in the members, the pri-mary consideration ought to be to select that mode of choice which best secures these qualifications; secondly, because the permanent tenure by which the ap-

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“in primo luogo perché i titoli e le qualifiche speciali che sono es-senziali ai magistrati, impongono che la prima e fondamentale consi-derazione sia quella di cercare un sistema di nomina che garantisca tali titoli; in secondo luogo perché il carattere delle cariche in que-stione [la nomina a vita] non tarderà a distruggere ogni senso di sot-tomissione rispetto alle autorità che le avrà conferite” [p. 395]23

Dico che non sono del tutto persuasive, queste ragioni, poiché le elezioni per i Padri fondatori costituivano – come per i Greci – un buon sistema per selezionare i migliori, l’élite. Sicché non è chia-rissimo (e non ha equivalente in Montesquieu del capitolo sulla costituzione inglese) perché sia necessario per i giudici un meccani-smo di selezione diverso da quello adottato per i governanti, cioè la nomina presidenziale con il consenso della Camera alta24. (Su questa questione torneremo nella discussione del testo di Hamilton). Il se-condo punto, relativo alla promozione dei giudici federali per-suade, invece, almeno fino ad un certo punto25, poiché sottolinea come la tenure sottragga i giudici alla dipendenza nei confronti di coloro che li hanno nominati. Sicché l’indipendenza assente nella nomina riappare e viene per così dire restaurata dalla mancanza di accountability!

Sta di fatto che Madison vuole al tempo stesso dare al potere giudiziario una struttura particolare e derogatoria rispetto alla norma che vale per gli altri organi di rango costituzionale del go-

pointments are held in that department, must soon destroy all sense of dependence on the authority conferring them”. 23 Molto più tardi Robert Badinter parlerà di “dovere di ingratitudine” dei membri del Conseil Constitutionnel nei confronti dei loro grandi elettori, nonostante il fatto che questi siano nominati per 9 anni e non a vita. Certo, si potrebbe osservare che l’esercizio del potere giudiziario richiede competenze specialistiche (la conoscenza del diritto positivo). 24 Certo, si potrebbe osservare che l’esercizio del potere giudiziario richiede competenze specialistiche: la conoscenza del diritto positivo. Non è chiaro, tutta-via, perché i magistrati non possano essere eletti dai cittadini su una lista di per-sone qualificate per la carica – gli specialisti del diritto –, e debbano invece essere nominati dal presidente con il consenso del Senato. 25 Fino ad un certo punto, perché l’osservazione non vale che per i giudici della Corte Suprema, che non possono più essere promossi dagli organi politici (=elettivi) a cariche più alte!

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verno centrale26, ma anche nessun ruolo specifico nel meccanismo della bilancia dei poteri!

Se veniamo ora alla sezione 78 del Federalist, la struttura del governo ed il ruolo proprio del potere giudiziario in seno ad essa appaiono molto diversi! Hamilton ritorna sulle critiche rivolte alla struttura del potere giudiziario: il meccanismo di nomina e, soprat-tutto, l’estensione dei suoi poteri. Sul primo punto egli aggiungerà alla fine del testo delle osservazioni supplementari rispetto a quelle di Madison. Al secondo consacra, invece, l’essenziale del suo ra-gionamento. Il mandato a vita dei giudici condizionato dal solo principio del good behaviour è per l’autore della sezione che stiamo discutendo un valore costituzionale fondamentale. Un giudiziario indipendente (che non deve temere gli altri due poteri e che non possa essere da questo dimesso a causa di decisioni sgradite) è in regime repubblicano l’equivalente del giudiziario indipendente in un sistema monarchico. Se in quest’ultimo esso rappresenta una “barriera contro il dispotismo del principe” (p. 582), nella costi-tuenda repubblica americana esso è una “barriera, altrettanto effi-cace, contro i soprusi e le prepotenze degli organi rappresentativi”. (ivi).

È chiaro d’emblée che siamo qui in una prospettiva perfetta-mente liberale. In un’ottica di rappresentanza assoluta o di demo-crazia rappresentativa pura (quella che ad esempio difendevano i comunisti alla nostra Assemblea costituente) non è possibile parlare di soprusi degli organi rappresentativi, eletti ed accountable (re-sponsabili dinanzi al suffragio). Nel diritto pubblico francese della Rivoluzione e fino a buona parte delle Va Repubblica, questi esprimono la volontà generale, esattamente, peraltro, come il potere costituente, donde il paradosso di due poteri eguali, dei quali l’uno (il potere costituente) è, in via puramente fittizia, superiore all’altro (il legislativo costituito)! Di qui anche la tesi che vuole la maggio-ranza legislativa sovrana ed infallibile, come il papa della chiesa di Roma.

La differenza fra la tradizione costituzionale americana e quella francese (sulla quale ha attirato di nuovo e di recente l’attenzione

26 Il giudiziario è indipendente e unaccountable, oltre ad avere il dovere dell’impar-zialità.

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Elisabeth Zoller27) ruota intorno a questa differenza che mi provo ad esprimere sinteticamente. Sul continente europeo la rigidità della costituzione è puramente apparente; essa ha tutt’al più la funzione razionalizzatrice di evitare che si debba discutere delle modalità di decisione e di esercizio del potere ogni volta che si tratta di pren-dere delle decisioni e di applicarle28. Si pensi al fatto che nella stessa Déclaration del 1789 sui diritti fondamentali non c’è nulla di più che una “riserva di legge” (una questione che sarebbe interes-sante analizzare in dettaglio) a proposito di questi stessi diritti, in balia della volontà del legislativo! In sostanza dinanzi alla legge i diritti si piegano e possono scomparire. In America il principio della rigidità costituzionale vale come barriera nei confronti del “vortice legislativo” (Madison) e richiede un guardiano. Hamilton scrive infatti:

“Una Costituzione rigida [limited – qui la traduzione italiana è ot-tima] richiede in modo particolarissimo che le Corti di Giustizia siano indipendenti in maniera assoluta.” E aggiunge: “Per costitu-zione rigida intendo riferirmi a quel tipo di Costituzione che prevede delle specifiche limitazioni al potere legislativo [il corsivo è mio]” (p. 583-84).

Hamilton è chiarissimo su un punto: il guardiano della rigidità costituzionale devono essere le Corti di giustizia. Poiché è loro compito dichiarare nulli e non avvenuti tutti gli atti contrari alla costituzione. A questo punto Hamilton deve affrontare l’obiezione in base alla quale questa funzione di guardiano trasforma le corti in un sovrano senza limiti. E in ogni caso in un potere superiore a quello del legislativo. Ora è qui che il nostro autore presenta una teoria della sovranità popolare che gli serve a smantellate quella, classica a partire da Bodin, della superiorità del legislativo. Se quest’ultimo (a differenza che in Bodin) è un potere costituito, delegato, e quindi subordinato alla Costituzione, non si può volere che “il servitore [sia] al di sopra del padrone, che i rappresentanti del popolo siano superiori al popolo stesso”(p. 584). Ora poiché 27 Si veda la sua Introduction au droit public, Paris, Dalloz, 2006. 28 Si veda in questo senso: Steven Holmes, “Vincoli costituzionali e paradosso della democrazia”, in G. Zagrebelsky, P.P. Portinaro, J. Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, Torino 1996, pp. 171 sgg.

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non è possibile per il costituzionalismo americano che la volontà dei rappresentanti sia sostituita a quella dei rappresentati,

“È assai più ragionevole supporre che le Corti siano state designate ad essere un organo [body] intermedio fra il popolo ed il corpo legislativo al fine, tra l’altro, di mantenere quest’ultimo nei limiti imposti al suo potere” (p. 585).

Seguono a questo punto una serie di argomenti che si ritrovano “fotocopiati”, se così posso dire, in Marbury v. Madison. Quello che interessa, però, sono le risposte che Hamilton oppone alla tesi di Brutus in base alla quale il giudiziario federale diventerebbe in virtù della sua funzione di guardiano del legislativo il nuovo sovrano.

Gli argomenti essenziali sono due: da un lato, “la borsa e la spada”, delle quali è privo il giudiziario; dall’altro, la dicotomia volontà - judgment.

Il primo argomento è difficilmente controvertibile. La Corte su-prema non solo non dispone del budget dello stato29, ma soprattutto non è in grado di imporre le sue decisioni. Senza il sostegno del potere esecutivo le sentenze della Corte Suprema americana sulla scia di Brown v. Board of Education sarebbero rimaste lettera morta, come lo è stata la decisione del Bundesverfassungsgericht di to-gliere i crocefissi dalle aule scolastiche Bavaresi. Senza la coopera-zione almeno dell’esecutivo, il potere costituzionale del giudiziario rischia di restare un flatus vocis invece che il sic voleo sic jubeo del sovrano barocco30! Il secondo argomento è costruito sull’opposizione fra WILL e JUDGMENT (è Hamilton che sottolinea). Non conosco un commento convincente di questa dicotomia hamiltoniana, propongo quindi la mia interpretazione31. Per Will è chiaro che si

29 Certo le decisioni delle Corti supreme e costituzionali possono avere un impatto relativamente a questioni di giustizia ridistribuiva (in Francia eccezionalmente il Conseil Constitutionnel ha anche la supervisione della legge di bilancio), ma tutte le volte che l’interferenza è stata troppo importante, le Corti hanno dovuto recedere e lasciare questa competenza al corpo legislativo. 30 “Si può, a ragione, dire che esso [il giudiziario] non ha forza né volontà, ma soltanto giudizio e dovrà ricorrere all’aiuto del governo [the executive arm] perfino per dare esecuzione ai propri giudizi [=decisioni]” (p. 582). 31 Nata da conversazioni particolarmente stimolanti con Valerio Onida.

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deve intendere la volontà politica dei cittadini o dei rappresentanti eletti: il numero, la maggioranza, sta qui “pro ratione ”.

“Le corti – scrive il nostro autore – sono [invece] chiamate a inter-pretare la legge, e qualora esse si inducessero ad esercitare la loro volontà (WILL) invece della loro facoltà di giudizio (JUDGMENT), la conseguenza sarebbe, ugualmente, che il loro capriccio si sostitui-rebbe al volere (pleasure) degli organi legislativi”

È chiaro dunque che cosa Hamilton intenda con WILL, la volontà discrezionale di una maggioranza politica. Ma che cosa si deve in-tendere con JUDGMENT? L’Oxford English Dictionary, afferma sotto l’accezione, 8.a. che si tratta della “faculty of judging; ability to form an opinion; that function of the mind whereby it arrives at a notion of anything; the critical faculty; discernment.”; e un po’ prima, 3. a. “The sentence of a court of justice; a judicial decision or order in court”. Ora, la decisione di una corte di giustizia è judgment e non semplicemente will poiché deve essere argomentata attraverso una ratio decidendi che deve avere la forma di una “ragione pubblica”32 e non quella di una volontà di parte che si fonda sulla legittimità della maggioranza in quanto tale. Non vale dire che la Corte a sua volta decide (può decidere) a maggioranza; poiché questa concezione minimalista e tecnica della maggioranza scinde questa tecnica di decisione dal principio invocato a legitti-mare il fondamento democratico della volontà dei rappresentanti eletti. Se così fosse, scomparirebbe non solo la specificità della de-cisione giudiziaria, ma anche quella della democrazia che si vor-rebbe far valere contro le corti, perché la democrazia verrebbe equiparata al meccanismo decisionale di una oligarchia qualsiasi, come è stato fatto osservare già da Aristotele e da Pufendorf. In so-stanza, non è ragionevole sostenere che non c’è differenza fra corti e parlamenti per il fatto che entrambi gli organi deciderebbero a maggioranza, poiché decide a maggioranza anche un corpo sovrano oligarchico. In questa logica scompaiono tutte le differenze; dove è, invece, più interessante fermarsi proprio su di esse33. 32 Il riferimento obbligatorio è qui al concetto di public reason, come esso è inteso da J. Rawls. 33 Bisogna anche osservare che le Corti nell’interpretare la costituzione esercitano, come ogni vero decisore, un qualche potere discrezionale, in assenza del quale è

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Le Corti dunque hanno bisogno della collaborazione degli altri organi per far valere le loro decisioni e devono dare esplicite e pub-bliche motivazioni delle loro decisioni. Esse, in ogni caso, hanno un ruolo essenziale nel mantenimento dell’equilibrio costituzionale e sono un potere coordinato agli altri e fondamentale nel costituzio-nalismo americano, per come fu concepito da Hamilton (a diffe-renza di Madison).

Per l’autore del Federalist 78:

“non è solo relativamente alle possibili violazioni della Costituzione che l’indipendenza della magistratura può rappresentare una garanzia essenziale contro i possibili effetti di eventuali atteggiamenti faziosi della comunità. Talora questi si limitano a colpire i diritti individuali di determinate categorie di cittadini per mezzo di leggi ingiuste e parziali. Anche qui la fermezza della magistratura sarà di grande im-portanza per mitigare la severità di tali leggi e delimitarne la sfera di azione” (p. 588).

Difesa della rigidità costituzionale e protezione dei diritti dei citta-dini, ecco le funzioni, così sostiene Hamilton, che la Costituzione americana assegna alle Corti di Giustizia.

Alla fine del suo testo egli torna su una delle eccezioni che Madison aveva fatto valere a proposito della nomina dei magistrati esonerati del principio elettivo. Si tratta di un tema al quale il giu-dice Coke si era riferito nello scontro col re Giacomo I Stuart. Eser-citare il potere giudiziario non può essere prerogativa del potere politico – fosse anche quello del sovrano d’Inghilterra. Esso è fun-zione dell’expertise [la conoscenza] del diritto (positivo):

“Si è spesso notato, e bene a ragione, che l’esistenza di un volumi-noso codice di leggi è uno degli inconvenienti necessariamente con-nessi ai vantaggi offerti da un regime democratico. È pertanto indi-spensabile ad evitare una arbitraria discrezionalità delle corti, che esse debbano svolgere le loro funzioni nell’ambito di regole e prece-denti ben precisi che possano servire a stabilire e a determinare quale sia il loro stretto dovere in ogni specifica questione che possa essere sottoposta al loro giudizio. Si comprenderà, dunque, facilmente, per

difficile parlare di “decisione”. Il punto rilevante in questo contesto è porre in evi-denza che se tanto gli organi legislativi che le Corti esercitano la loro discrezione sotto vincoli (contraintes), questi sono però di natura diversa per le due istituzioni.

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La separazione dei poteri in J. Madison e A. Hamilton

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la varietà stessa delle controversie che possono scaturire dalla follia o dalla debolezza della umanità, che un corpo di tutti questi prece-denti ammonterà ad un insieme di regole molto voluminoso ed il co-noscerle con qualche competenza richiederà dunque studi lunghi e laboriosi. Ne consegue che solo pochi individui conosceranno le leggi tanto da essere in grado di ricoprire la carica di giudici”34.

Si potrebbe discutere a questo punto di una questione che fu oggetto di dibattito nel corso dei lavori della Costituente francese dell’anno III: Qual è la natura del controllo giudiziario? Si tratta, per usare il linguaggio di Thibaudeau, di un controllo interno o esterno? Ma questo tema richiederebbe un altro articolo. Sicché non mi resta che concludere citando il bel titolo di un libro di Alec Stone Sweet: lo stato costituzionale di diritto quello che non conosce sovrani asso-luti e che è l’unico compatibile con il pluralismo delle istituzioni è inevitabilmente e, dal punto di vista della storia delle idee, sin dal 1787 un Governing with Judges 35.

34 Op. cit. p. 590. 35 Oxford University Press, 2000.

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 127-143 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

Democrazia rappresentativa, partiti, organizzazioni d’interesse Antonino Scalone

I

Il problema del rapporto fra unità politica e parti comunque intese viene posto con particolare radicalità dalla dottrina dello Stato tede-sca degli anni ‘20 e ‘30. La drammaticità della situazione politica della repubblica di Weimar, frutto prima di una rottura rivoluzionaria e poi di un accordo fra parti (la cosiddetta “democrazia contrattata”, secondo la nota e felice definizione di Rusconi) avvertito dai più co-me aleatorio e non sufficientemente fondato, suscita infatti una rifles-sione particolarmente acuta e approfondita sul tema. D’altronde, il neonato sistema parlamentare-rappresentativo appare come un novum rispetto alla situazione costituzionale anteguerra. Per cogliere la solu-zione di continuità fra i due assetti è sufficiente fare riferimento alle posizioni di Otto Hintze che nel 1911 scriveva, con accenti involon-tariamente profetici: “Il principio monarchico è cresciuto in modo così stretto con la struttura complessiva dell’esperienza statale prus-siana e imperiale da non poter essere sostituito dal principio del go-verno parlamentare se non attraverso una completa trasformazione di quella struttura stessa, come potrebbe avvenire solo con una rivolu-zione”1 o a Kaufmann al quale, come ricorda Böckenförde, “ancora nel 1917 la prima guerra mondiale appariva al tempo stesso come una guerra costituzionale fra la forma costituzionale nazional-autoritaria del Reich di Bismarck e il democraticismo anglosassone,

1 O. Hintze (1980 [1911]), Il principio monarchico e il regime costituzionale, trad. it. in Id., Stato e società, Bologna, Zanichelli 1980, p. 42.

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Antonino Scalone 128

la cui accettazione in Germania avrebbe significato una sciagura e uno snaturamento dell’essenza nazionale”2.

Per molti esponenti della Staatslehre la repubblica di Weimar, con la sua commistione pericolosa di rappresentanza parlamentare e governo dei partiti, appare appunto un corpo estraneo, caratterizzato da instabilità, incapacità di prendere decisioni politiche, contrappo-sizioni paralizzanti fra parti organizzate ognuna orientata al perse-guimento egoistico del proprio interesse. Scrive a questo proposito Michael Stolleis: “«Partiti» (Parteiwesen) era la parola simbolo per la frustrazione dei buoni propositi del governo, per dissidi interiori, impotenza e interessi politici egoistici. Per chi intendeva lo Stato come centro di volontà, come organismo, come reale personalità sociale o come processo spirituale di integrazione, i partiti erano la divisione e la frattura organizzata della nazione”3.

Non stupisce allora che la costituzione di Weimar, che pure era considerata la più avanzata del suo tempo4, citi i partiti in un solo punto e in termini limitativi, per segnalare la necessaria estraneità e neutralità degli impiegati statali rispetto ad essi. Recita infatti l’art. 130: “Gli impiegati sono al servizio della collettività, non di un par-tito. Ad essi sono assicurati la libertà del pensiero politico e quella di riunione. Altre leggi del Reich garantiranno agli impiegati speciali rappresentanze professionali”. Né è casuale che – come nota sempre 2 E. W. Böckenförde, Der deutsche Typ der konstitutionellen Monarchie, in Id., Staat, Gesellschaft, Freiheit, Frankfurt a.M., Suhrkamp 1976, p. 113. Il riferimento è a E. Kaufmann, Bismarks Erde in der Reichsverfassung, Berlin, Springer 1917, pp. 1-9 e 100-106. 3 M. Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts in Deutschland. Weimarer Republik und Nationalsozialismus, München, C.H. Beck 2002, p. 107. Cfr. sull’argomento C. Gusy, Die Lehre vom Parteienstaat in der Weimarer Republik, “Der Staat”, a. XXXII (1993), n. 1, pp. 57-86, che nota come i partiti tradizionali non risultino dotati di particolare appeal perché incapaci di interpretare la nuova realtà e di integrare nuovi strati sociali (circostanza confermata dalla nascita del KPD alla sinistra della SPD, p. 61). Insomma, i partiti anteguerra restano tradizionalmente “Interessen- und Milieuparteien” (cfr. ibd.). Viceversa, il successo del partito nazionalsocialista, secondo Gusy, è dovuto in primo luogo alla sua capacità di farsi Volkspartei e di presentarsi come partito sostanzialmente nuovo rispetto a quelli anteguerra. 4 H. Kelsen, Difesa della democrazia (1932), trad. it. in Id., Sociologia della de-mocrazia, Napoli, Esi 1991, p. 41: “La Costituzione di Weimar è stata definita la più libera costituzione che mai un popolo si sia data. Ed è vero: essa infatti è la costituzione più democratica del mondo. Nessun’altra costituzione la eguaglia nei diritti che dà al popolo, nessuna corrisponde in tutti i suoi contenuti quanto essa al principio che ne sta al vertice e per cui ogni potere proviene dal popolo”.

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Stolleis – il capitolo dedicato ai partiti politici dell’Handbuch des deutschen Staatsrechts curato da Anschütz e Thoma sia affidato non ad un giurista di diritto pubblico, ma ad un “filosofo del diritto, pena-lista e uomo politico”5 come Gustav Radbruch.

L’Handbuch è un punto di riferimento importante per compren-dere l’atteggiamento della Staatslehre weimariana – anche di quella orientata in senso più democratico - nei confronti dei partiti. Nel suo saggio, Das Reich als Demokratie, Thoma, pur sottolineando e valorizzando la cesura rispetto all’assetto costituzionale precedente, sottolinea immediatamente come la repubblica trovi la propria unità nel fatto di essere una Gemeinschft nella quale “ogni potere è al servizio dei membri e ogni membro al servizio del tutto”6. Come si vede il distacco dalla tradizione guglielmina comporta un immediato duplice tributo: da un lato si ribadisce immediatamente il carattere comunitario dell’unità politica – carattere che pertanto eccede la di-mensione meramente giuridica e appare fortemente wertorientiert – dall’altro si enfatizza la subordinazione del singolo alla sfera politica di cui è parte.

Radbruch riconosce lucidamente il ruolo costituzionale dei parti-ti. Tale riconoscimento, al di là delle reticenze e dei silenzi del testo della costituzione, trova la sua conferma nell’adozione del sistema proporzionale, sistema di cui i partiti costituiscono l’inevitabile pre-supposto. Non solo “le liste dei candidati devono «essere provviste di una parola di riconoscimento o qualcosa di analogo che indichi l’appartenenza partitica del candidato»”; oltre a ciò, “esse hanno bisogno di un numero minore di firme se sono presentate da quei partiti che erano già rappresentati nell’ultimo Landtag”7. Su questa base si può dunque concludere, a suo avviso, che “i gruppi elettorali che fanno liste elettorali e di conseguenza anche i partiti rappresen-tati attraverso di essi sono «Kreationsorgane» nel senso di Georg Jellinek”8, vale a dire organi dello Stato (in questo senso – ricorda in nota Radbruch – si esprime anche Triepel) e che – qui riprende le 5 Cfr. Stolleis, Geschichte des öffentlichen Rechts, cit., p. 105. 6 R. Thoma, Das Reich als Demokratie, in G. Anschütz-R. Thoma (Hrsg.), Handbuch des deutschen Staatsrechts, Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck) 1929, vol. I, p. 186. 7 G. Radbruch, Die politischen Parteien im System des deutschen Verfassungsrechts, in G. Anschütz-R. Thoma (Hrsg.), Handbuch des deutschen Staatsrechts, Tübingen, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck) 1930, vol. II, p. 290. 8 Ibd.

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parole di Anschütz – “i gruppi parlamentari dei partiti «sono accolti nel diritto pubblico» come «partizioni organiche del parlamento»”9.

Rispetto alla doppia fedeltà del parlamentare e, a maggior ragio-ne, del ministro, vincolati da un lato alla disciplina di partito e dall’altro al perseguimento dell’interesse generale, Radbruch ritiene i due principi non necessariamente in contraddizione. Scrive infatti: “L’art. 2110 può ben essere interpretato in maniera diversa dal punto di vista dello Stato dei partiti che dal punto di vista di una democra-zia pensata in modo individualistico. Il deputato resta anche in que-sto caso rappresentante dell’intero popolo, se egli agisce confor-memente alla sua posizione partitica; perché la posizione di un par-tito non è nient’altro che una certo indimostrabile, ma anche incon-futabile convinzione di rappresentare il bene del popolo intero. An-che se il deputato nel caso specifico sacrifica alla disciplina di parti-to la propria convinzione, agisce pur sempre «sottoposto unicamen-te alla propria coscienza e non vincolato da alcun mandato» se il suo agire non è motivato dal mandato del suo partito, ma dal dovere di coscienza di volere il compito complessivo del partito e di accet-tare un piccolo danno per il rafforzamento di esso in funzione del compito complessivo”11. In questa concezione idealizzata dell’agire e della funzione del partito, l’art. 21 non perde allora il suo valore: esso costituisce “un mezzo di lotta pieno di valore, certamente solo ideale, contro partiti che aspirano non al bene della totalità del po-polo, ma di un gruppo all’interno del popolo”12. Discorso analogo vale per il ministro: “Il ministro, che agisce in base all’opinione della sua posizione di partito, resta tuttavia servitore della totalità e non diventa servitore del suo partito solo se questo stesso partito è «puro», incline non all’interesse di una parte del popolo, ma al bene della totalità (così come esso lo intende)”13. In questo modo, però, il partito sembra perdere la sua caratteristica essenziale di essere parte e non tutto. Non solo. Avanzando la distinzione fra partito pu-ro, orientato al Gemeinwohl, e partito meramente interessato a fini

9 Ivi, p. 292. 10 Il quale recita: “I deputati rappresentano tutto il popolo. Essi non dipendono che dalla loro coscienza e non sono vincolati da alcun mandato”. 11 Ivi, p. 293. 12 Ibd. 13 Ivi, pp. 293-4.

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determinati, Radbruch sembra riprodurre in termini sostanzialmente inalterati quella Parteienprüderie che pure per altri versi respinge14.

Vario e articolato è il fronte degli avversari del ruolo politico delle parti.

Merita di ricordare innanzi tutto il saggio di Triepel Die Staatsverfassung und die politischen Parteien che riproduce il discorso di rettorato, tenuto all’Università di Berlino il 3 agosto 1927. Qui Triepel considera la presenza dei partiti come uno snaturamento rispetto al parlamentarismo bene inteso: “Lo sviluppo del parlamentarismo si è gradualmente allontanato dai suoi fondamentali punti di partenza. Il sempre crescente rafforzamento del pensiero democratico ha diminuito e quasi eliminato l’autonomia del parlamento, l’originalità delle sue deliberazioni nate in discussioni e dibattiti, l’indipendenza dei deputati dagli influssi extraparlamentari, la libertà da controlli dei gruppi parlamentari. L’organizzazione partitica attacca il parlamento dall’esterno e dall’interno”15. La conseguenza – che corrisponde a quanto già sostenuto da Weber in Parlament und Regierung e da Schmitt in Die geistesgeschichtliche Lage der heutigen Parlamentarismus – è che il parlamento non è più il luogo nel quale attraverso la libera discussione si perviene alla determinazione della legge giusta: “La discussione nel plenum, spesso perfino nelle commissioni, diventa vuota forma. La deliberazione parlamentare, se il parlamento ha una maggioranza omogenea, è una deliberazione partitica, se vi è frammentazione partitica, è un compromesso fra partiti. E il deputato non è più un rappresentante del popolo, ma un rappresentante del suo partito, egli si sente e agisce come tale”16. E in tutto questo Triepel, a differenza di Radbruch, scorge un pericolo mortale, frutto della dilagante concezione atomistico-individualistica dello Stato. “Questi fatti – scrive Triepel riferendosi all’incremento dell’influenza dei partiti nella vita dello Stato e nel processo di formazione della volontà politica – non sono nulla di arbitrario o di casuale. Qui si è piuttosto compiuto un processo del tutto naturale. Esso costituisce la quasi logica conseguenza di una concezione dello Stato che ha dato la propria impronta alla sviluppo

14 Cfr. ivi, p. 288 sgg. 15 H. Triepel, Die Staatsverfassung und die politischen Parteien, Berlin, Liebmann 1928, p. 18. 16 Ibd.

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degli ultimi tempi. L’atomismo individualistico domina l’evoluzione della democrazia moderna. Se in ultima analisi il potere pubblico viene collocato nella massa frazionata individualisticamente, allora questa, che come massa non può volere né agire, si crea le organizzazioni attraverso cui può produrre una volontà. Se in particolare il diritto di voto per la rappresentanza popolare è strutturato in modo puramente individualistico, la massa non può esercitare il proprio diritto senza dividersi in qualche modo in gruppi (…) Il sistema politico dei partito è l’autoorganizzazione che la democrazia di massa si è creata”17. La risposta a questa deriva non può essere costituita dal ritorno dei principi liberali (“Le vecchie idee liberali dell’essenza dello Stato rappresentativo difficilmente si affermeranno di nuovo, per quanto forti siano i valori morali contenuti in esse”)18, ma da un superamento dello Stato democratico di massa in direzione di uno Stato inteso come organismo unitario, capace di realizzare un’efficace “unità nella molteplicità19” nella quale “le forze che si combattono con violenza elementare nel seno del popolo”20 possano essere disciplinate e indirizzate al perseguimento del fine comune.

L’attacco più radicale nei confronti delle parti, ovvero di partiti, organizzazioni d’interesse e Verbände di vario genere è probabil-mente quello condotto da Carl Schmitt. A suo avviso uno Stato plu-ralistico fondato su accordi fra parti, ma privo di un’etica statale condivisa è sempre sospeso sul baratro della guerra civile e questa è precisamente la situazione weimariana21. Per ovviare a tale even-tualità egli (ri)propone, com’è noto, una nozione forte di sovranità, basata su un’omogeneità politico-esistenziale ed espressa da un’istanza suprema fortemente caratterizzata in senso rappresenta-tivo. Infatti, come risulta dalla Verfassungslehre, la rappresentanza costituisce a suo avviso il requisito necessario, la forma formarum dell’unità politica22. Solo per via rappresentativa è possibile dar

17 Ivi, pp. 32-3. 18 Ivi, p. 34. 19 Ivi, p. 36. 20 Ivi, p. 37. 21 Cfr. C. Schmitt, Staatsethik und pluralistischer Staat (1930), in Id., Positionen und Begriffe im Kampf mit Weimar-Genf-Versailles, Hamburg, Hanseatische Verlagsge-sellschaft 1940, pp. 133-145 (trad. it. Milano, Giuffrè 2007). 22 Cfr. C. Schmitt, Dottrina della costituzione (1928), trad. it. Milano, Giuffrè 1984, p. 272.

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forma e capacità di azione politica al popolo: questi è un’entità di tipo ideale che può esser resa presente, appunto: rap-presentata solo tramite la persona concreta del sovrano. Naturalmente un simile schema può funzionare solo se è in grado di produrre una con-gruenza fra rappresentati e rappresentanti, ovvero solo se i primi nutrono una sufficiente fiducia nella capacità dell’istanza sovrana di dar effettivamente corpo al bene comune, di perseguire il bene del popolo nella sua totalità e non il vantaggio di questa o quella cer-chia. In questo quadro si spiega l’avversione schmittiana nei con-fronti delle parti, estranee per loro essenza alla struttura pubblico-rappresentativa, avversità che spiega per molti versi la tanto discus-sa adesione del giurista di Plettenberg al nazionalsocialismo.

Affine per molti versi alla posizione schmittiana è quella di Gerhard Leibholz il quale, nel suo Das Wesen der Repräsentation, praticamente coevo alla Verfassungslehre, fornisce una definizione di rappresentanza quasi letteralmente identica a quella schmittiana ed esplicitamente riferita al modello hobbesiano. Per Leibholz, infatti, rappresentare significa “che qualcosa che non è realmente presente ridiventa presente (…) Tramite la rappresentazione qualcosa viene posto al tempo stesso come assente e come presente”23. Il popolo, nella sua unità, non ha una consistenza empirica, bensì ideale e può venire a presenza soltanto tramite la persona del rappresentante24. D’altro canto, il rappresentante o i rappresentanti possono pretendere obbedienza e valore vincolante per le loro deliberazioni solo perché essi impersonano non questo o quell’interesse, questo o quel punto di vista particolare e interessato, ma il popolo nella sua unità: “Solo questo, che i deputati fungono da rappresentanti dell’unità politica e ideale del popolo, conserva in realtà alla decisione di maggioranza la sua forza di obbligazione giuridica nei confronti della totalità del popolo”25. Va da sé che dalla rappresentazione unitaria dell’idea di popolo siano allora escluse le Vertretungen di tipo economico, giacché sono prive del necessario carattere ideale26. 23 G. Leibholz, L’essenza della rappresentazione (1928), trad. it. in Id., La rappre-sentazione nella democrazia, Milano, Giuffrè 1989, p.70. 24 Cfr. ivi, p. 72. 25 Ivi, p. 99. 26 Ivi, p. 74: “Valori puramente ideali, come per esempio l’idea di giustizia, pos-sono essere rappresentati altrettanto bene quanto le comunità che si organizzano intorno ad un valore (…) Non si dà invece una rappresentazione di valori econo-

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Né la berufständliche Interessenvertretung può pretendere di costituire un principio di unità politica: “Dalla somma degli interessi e delle volontà particolari di mondi vitali organici non può mai derivare un ‘interesse generale’ o formarsi una volonté générale”27.

Ora, la costituzione materiale del XX secolo ha conosciuto una trasformazione radicale: in conseguenza dell’avvento dei grandi partiti di massa e dell’introduzione del sistema proporzionale, i deputati hanno perso la loro indipendenza e libertà, correlativi necessari di un’autentica capacità rappresentativa28. Ma nella misura in cui i parlamentari, da detentori di un’autonoma Herrschaft, si trasformano in semplici funzionari di partito, obbligati alla disciplina di gruppo, il principio rappresentativo perde la sua centralità e al suo posto subentra un nuovo principio dell’unità politica: il principio di identità. Anche qui il ragionamento di Leibholz appare prossimo a quello di Schmitt. Questi, infatti nella Verfassungslehre aveva affiancato al principio rappresentativo quello di identità quale fondamento dell’unità politica. Con una differenza, però, rispetto a Leibholz: che a suo avviso anche nella più radicale delle democrazie identitarie vi è sempre necessariamente all’opera un elemento rappresentativo, senza il quale l’unità politica non appare pensabile: “Anche tutti i cittadini attivi presi insieme – scrive significativamente – non sono in quanto somma l’unità politica del popolo, ma rappresentano l’unità politica che è superiore all’assemblea riunita nello spazio e al momento della riunione”. E poco più avanti: “Degli elementi di rappresentanza restano sempre attivi, perché si deve fingere che il singolo cittadino avente diritto di voto appaia come citoyen, non come uomo privato portatore di interessi privati”29. Schmitt, insomma, non intende contrapporre in modo assoluto rappresentanza e identità, ma segnalare di volta in volta la prevalenza dell’uno o dell’altro principio nelle diverse configurazioni politiche, fermo restando che comunque la forma politica, in ultima analisi, è sempre il prodotto di una mediazione di tipo rappresentativo.

mici, in quanto questi sono privi della necessaria connotazione di valore che si rife-risce all’idea”. 27 Ivi, p. 266. 28 Cfr. ivi, p. 270. 29 Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 207.

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Per Leibholz, invece, con le trasformazioni di cui si è detto si può parlare di una definitiva sostituzione di un principio all’altro. Essa appare ai suoi occhi gravida di pericoli, tanto che egli propone una sorta di strategia di resistenza: “Si tratta – scrive – di frenare il più possibile un’evoluzione della quale non si può con certezza dire in anticipo se si dimostrerà effettivamente capace di guidare fino in fondo lo Stato in maniera democratica, o se invece porterà ad un ri-voluzionario rivolgimento dell’ordinamento giuridico in base a mo-dalità rappresentative ma antidemocratiche o se non ad un progres-sivo dissolvimento dell’unità statale faticosamente raggiunta negli ultimi secoli”30. È in questo quadro di profonda preoccupazione per il futuro che si possono spiegare tanto l’attenzione nei confronti del fascismo, attestata dalla lezione inaugurale intitolata I problemi del diritto costituzionale fascista, pubblicata nel 192831, quanto la pro-posta, di pochi anni successiva, di una forma di Stato autoritaria fortemente connotata in senso rappresentativo32.

II

La situazione appare radicalmente diversa nel secondo dopoguerra. Ora, nonostante la persistenza di alcune diffidenze e resistenze (Werner Weber e Theodor Eschenburg fra tutti)33 risulta generaliz-zato il riconoscimento del ruolo dei partiti e, in subordine, delle or-ganizzazioni d’interesse. In modo del tutto esplicito, il Grundgesetz attribuisce ai partiti la Mitwirkung al processo di formazione della volontà politica e nella medesima direzione si muovono le pronunce del BVerfG, a partire dal 1952: “Nella democrazia odierna solo i partiti hanno la possibilità di riunire gli elettori in gruppi capaci di azione politica. Essi appaiono precisamente come i portavoce di cui si serve il popolo divenuto maggiorenne per esprimersi in modo ar-ticolato e per poter prendere decisioni politiche”. L’inserimento dei 30 Leibholz, L’essenza…, cit., pp. 175-6. 31 G. Leibholz, Zu den Problemen des faschistischen Verfassungsrechts. Akademi-sche Antrittvorlesung, Berlin und Leipzig, De Gruyter & Co. 1928 32 G. Leibholz, La dissoluzione della democrazia liberale in Germania e la forma di Stato autoritaria (1933), trad. it. Milano, Giuffrè 1996. 33 Cfr. W. Weber, Spannungen und Kräfte im westdeutschen Verfassungssystem 19703 (la prima edizione è del 1951) e T. Eschenburg, Herrschaft der Verbände?, Stuttgart, Deutsche Verlag Anstalt 1956.

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Antonino Scalone 136

partiti nella vita costituzionale – rileva la Corte – non ha rilievo “soltanto politico e sociologico”; esso mostra come i partiti siano “anche organizzazioni giuridicamente rilevanti”. Di più: “Essi sono diventati parte integrante della costruzione costituzionale e della vi-ta politica costituzionalmente ordinata”, anche se non si può parlare di «organi stati supremi»”34.

Nella posizione del BVerfG è rilevante ed evidente l’influenza di Leibholz, il quale applica all’interpretazione della nuova realtà costituzionale gli schemi elaborati negli anni venti. La nuova realtà dello Stato dei partiti gli appare sempre dominata dal principio di identità, ma questo non costituisce più un pericolo, bensì la nuova forma nella quale può efficacemente realizzarsi l’unità politica. I partiti “sono divenuti parte integrante della struttura costituzionale e della vita politico-costituzionale”. Essi sono “organi dello Stato”, sia pure di grado inferiore rispetto a parlamento e governo35. Ne conse-gue che la pretesa, avanzata da alcuni, di ricostituire artificialmente l’antica centralità del parlamento, risulta inesorabilmente “neoroman-tica”36, giacché trascura la trasformazione intervenuta nella forma Stato e la differenza fra il principio rappresentativo, ormai obsoleto, e il principio identitario su cui si basa il nuovo Stato dei partiti.

Ma il pacifico riconoscimento del cambiamento avvenuto non mitiga, anzi, rafforza la critica alla scarsa democrazia interna ai par-titi. In essi – nota Leibholz – sono presenti tendenze elitarie e oli-garchiche che precludono ai semplici militanti la partecipazione all’effettiva gestione del potere, tanto che i partiti potrebbero finire con l’essere i “potenziali distruttori”37 di quella democrazia della quale costituiscono una parte essenziale. Naturalmente, quanto più si sottolinea il problema della carenza di democrazia dei partiti, tan-to più appare problematico mantenere la convinzione che quella dello Stato dei partiti sia una forma di democrazia diretta basata sul principio d’identità. Da questo punto di vista, le oscillazioni lessicali

34 Entscheidungen des Bundesverfassungsgerichts, vol. I, Tübingen, J. C. B. Mohr (Paul Siebeck) 1952. 35 G. Leibholz-H. J. Rinck, Grundgesetz Kommentar an Hand der Rechtsspre-chung des Bundesverfassungsgerichts, Köln-Marburg, Otto Schmidt 1976, p. 276. 36 G.Leibholz, Verfassungsrechtliche Stellung und innere Ordnung der Parteien, Tübingen, J.C.B. Mohr 1951, p. 3 e Id., Strukturprobleme der modernen Demokra-tie , Karlsruhe, C.F.Müller 1958, p.81. 37 Leibholz, Verfassungsrechtliche Stellung..., cit., p.12.

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di Leibholz appaiono significative. In un suo saggio sull’argomento, ad esempio, egli afferma nel medesimo contesto prima che lo Stato dei partiti è “unmittelbare Demokratie”, democrazia diretta, im-mediata, poi che “nel moderno Stato democratico dei partiti la me-diazione del popolo attraverso i partiti è inevitabile”38.

Le stesse oscillazioni, lessicali e non solo, di Leibholz39 sembrano confermare la tesi schmittiana della necessaria presenza di elementi rappresentativi in ogni forma di Stato, dunque anche nel Parteienstaat contemporaneo. Come ha osservato Hasso Hofmann, riprendendo le analisi di Schmitt, identità e rappresentazione non sono due principi nettamente distinguibili, né sul piano teorico, né sul piano pratico. Da un lato – egli scrive – “non è pensabile né praticabile un sistema rappresentativo nel quale non si diano possibilità e momenti di uni-ficazione fra rappresentanti e rappresentati”40, dall’altro nessun gruppo di uomini può raggiungere una “volontà comune e quindi

38 G. Leibholz, Parteienstaat und repräsentative Demokratie (1951), in Rausch (hrsg.), Zur Theorie und Geschichte der Repräsentation und Repräsentativverfas-sung, Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft 1968, p.258. 39 Presenti peraltro già nella riflessione anteguerra, ove descrivendo il principio di identità, Leibholz utilizzava però il termine di identificazione, a indicare, contro il proprio assunto, non un’immediatezza, ma piuttosto un processo, attraverso il qua-le – e solo nel momento finale – la volontà del popolo e la Parteimehrwille vengo-no poste come una. Scrive infatti: “La volontà della maggioranza dei partiti deve essere identificata dal popolo con la volonté générale, con la volontà totale, per poter fondare l’unità della totalità nazionale e con ciò dello Stato” (Essenza della rappresentazione, cit., p. 115). Dunque non di identità si tratta, ma di un processo di identificazione alla fine del quale la Parteimehrwille è posta eguale alla volontà generale, cioè di un processo grazie al quale due cose diventano una. Non solo. La volontà generale che si manifesta alla fine di questo processo non appare coglibile in altro luogo e in altro momento: essa è un’entità ideale cui la maggioranza parti-tica, alla fine del processo di identificazione, dà corpo, rendendola presente. Si trat-ta quindi di qualcosa che è a un tempo assente (in quanto non è presente in modo diretto) e presente (tramite la Parteimehrwille). Così, per quanto Leibholz affermi che “all’interno di questo processo di identificazione il popolo non viene rappre-sentato come unità politica ideale” (ivi, p. 119), pure in esso appaiono all’opera i due elementi che caratterizzano la Repräsentation: la duplicità e la presenza me-diata dell’assente. Per un’articolazione maggiore di questo punto, cfr. il nostro Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi. Milano, Angeli 1996, pp. 119-132. 40 H. Hofmann, Parlamentarische Repräsentation in der parteienstaatlichen Demokratie, in Id. Recht, Politik und Verfassung, Frankfurt a.M., Metzner 1986, p.259. Si tenga presente, peraltro, che per Hofmann identità è sempre identificazione, la quale comporta processualità e movimento e non “cruda fatticità, mera datità” (ibd).

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un’identità politica” senza “un minimo di organizzazione e cioè senza la fissazione di una struttura rappresentativa”41.

Il problema teorico che si pone è allora seguente: l’intrascendibilità della struttura rappresentativa significa anche – come sembrerebbe essere in Schmitt – la necessaria esclusione delle parti comunque intese, dalla sfera scrictu sensu politica oppure il riconoscimento fattuale della loro presenza e del loro ruolo crescente pone l’esigenza se non di un ripensamento, perlomeno di una complicazione della nozione stessa di Öffentlichkeit?

A tal proposito un aiuto può venirci dallo stesso Schmitt e dalla sua nozione di acclamazione (su cui, all’interno di uno schema di ragionamento alquanto diverso da quello qui proposto, ha di recente richiamato l’attenzione Giorgio Agamben)42. Nella Verfassungslehre egli afferma l’eccedenza del popolo – in quanto grandezza costituente – rispetto alla forma politica costituita: “Lo specifico del concetto di «popolo» si trova qui nel fatto che il popolo non è una grandezza strutturata e non è mai totalmente strutturabile”43. Per quanto non vi possa essere forma politica senza rappresentanza, tuttavia a giudizio di Schmitt l’istanza rappresentativa non esaurisce le potenzialità politiche del popolo. Anche al di fuori della forma politica in senso stretto, infatti, il popolo è presente nella sfera dell’Öffentlichkeit. Pubblicità e popolo sono coessenziali: “Nessun popolo senza pubblicità e nessuna pubblicità senza popolo”44. Nelle procedure elettive, viceversa, non si manifesta il popolo unitariamente, ma soltanto la somma algebrica delle volontà private45. Piuttosto, il popolo si manifesta unitariamente come opinione pubblica. Essa – scrive Schmitt – “è la forma moderna dell’acclamazione”46. Non si tratta di un fenomeno marginale, ma al contrario di un aspetto essenziale della forma politica: senza opinione pubblica, infatti, non vi possono essere “nessuna democrazia e nessuno Stato, come non c’è nessuno Stato senza acclamazione”47.

41 Ivi, p.259. 42 Cfr. G. Agamben, Il regno e la gloria. Per un genealogia teologica dell’economia e del governo, Vicenza, Neri Pozza 2007, pp. 278-280. 43 Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., p. 317. 44 Ivi, p. 319. 45 Ivi, p. 322. 46 Ivi, p. 323. 47 Ibd.

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La circostanza rilevante ai fini del nostro discorso è che l’opinione pubblica/acclamazione, questa articolazione essenziale della forma politica moderna, non si manifesta im-mediatamente, ma per il tramite di partiti e organizzazioni d’interesse: per quanto rimanga sempre “non-organizzata”, infatti, l’opinione pubblica ha un’origine precisa: “Essa – scrive Schmitt – è influenzata e anche fatta dai partiti o gruppi”48. Così Schmitt da un lato cerca di steri-lizzare partiti e Verbände, riducendoli a patologia del sistema, dall’altro però li riconosce come medi necessari di manifestazione dell’opinione pubblica e dunque come elementi costitutivi della sfe-ra pubblica. Essi sono ad un tempo – e contraddittoriamente – inter-ni ed esterni all’Öffentlichkeit. Non è un caso che Kaiser prenderà le mosse proprio da queste pagine della Verfassungslehre per spingersi oltre il maestro e affermare, accanto alla rappresentanza in senso pro-prio e in funzione integrativa nei confronti di essa, la réprésentation de fait delle organizzazioni d’interesse49.

48 Ibd. 49 Cfr. J. H. Kaiser, La rappresentanza degli interessi organizzati (1956), trad. it. Milano, Giuffrè 1993; sul pensiero di Kaiser, oltre al già citato Rappresentanza politica e rappresentanza degli interessi, ci permettiamo di rimandare al nostro La representación de intereses en la doctrina alemana del estado en el 1900 y la reflexión de J.H. Kaiser, “Fundamentos. Cuadernos monograficos de Teoria del Estado, Derecho Publico e Historia Constitucional”, n. 3, a. 2004, pp. 149-197. Vi è peraltro un altro luogo della produzione schmittiana che può offrire interes-santi elementi di complicazione sul tema delle parti. Alludiamo al saggio Starker Staat und gesunde Wirtschaft, pubblicato nel 1932. Si tratta del testo di una confe-renza tenuta da Schmitt il 23-11-1932 dinanzi ad un’associazione industriale, il “Verein zur Wahrung der gemeinsamen wirtschaftlichen Interessen in Rheinland und Westfalen”. In questa conferenza Schmitt riprende alcune sue tesi sullo Stato totale, ribadendo la necessità che esso sia tale “per forza” e non “per debolezza”, ma, forse anche in considerazione del pubblico degli uditori, compie anche un’ inedita apertura nei confronti delle parti e della loro capacità rappresentativa. Infat-ti egli afferma che all’interno di uno Stato adeguatamente forte, che non sia cioè preda del conflitto infinito fra partiti portatori ognuno di una propria concezione del mondo, inconciliabile con le altre, è possibile immaginare la presenza e lo svi-luppo di una sfera intermedia fra Stato (inteso anche come Stato imprenditore) e singolo individuo, fra Stato ed economia. Egli riconosce infatti l’esistenza di “una sfera che non è statale, ma tuttavia è pubblica” (C. Schmitt, Starter Staat und ge-sunde Wirtschaft (1932), in Id., Staat, Grossraum, Nomos. Arbeite aus den Jahren 1916-1969, Berlin, Duncker & Humblot 1995, p. 80) e a tale sfera – evidentemente formata da organizzazioni d’interesse - pensa che potrebbero essere utilmente at-tribuite funzioni amministrative autonome, sull’esempio della tradizione tedesca della Selbstverwaltung locale (cfr. ivi, p. 81). Anzi, egli si spinge fino ad immagi-

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Non solo, dunque, la sfera pubblica non è esaurita dalla rappre-sentanza politica, ma questa appare al suo interno variamente arti-colata e complessa: ad essa partecipano non solo le istanze rappre-sentative in senso proprio – parlamento in primo luogo – ma anche partiti e organizzazioni d’interesse. L’avvento del Parteienstaat non sembra significare, come voleva Leibholz, il superamento definitivo del principio di rappresentanza in favore di quello di identità, ma piuttosto una complicazione e, per così dire, una diffusione proces-suale della Repräsentation. Non è un caso che Hofmann abbia par-lato a questo proposito – in polemica con Leibholz – di un “raddop-piamento della rappresentanza”, giacché “i partiti politici, insieme a tutti i gruppi d’interesse che agiscono politicamente, formano con il loro reticolo di relazioni all’interno della sfera pubblica politica una sotto-costituzione molto informale. Questo rivestimento interno (Unterfutter) di tipo politico della legge costituzionale è strutturato, certo non esclusivamente, ma in grande misura, in modo oligarchi-co, corporativo e federale: in breve: in modo rappresentativo”50. Ciò significa altresì che non esiste un contrasto necessario fra l’articolo 21, secondo il quale “i partiti concorrono alla formazione della volontà politica” e l’articolo 38 del Grundgesetz, secondo il quale i deputati rappresentano il popolo intero, non sono vincolati da alcun mandato e sono sottoposti solo alla loro coscienza: i depu-tati, infatti, partecipano alla funzione rappresentativa del partito in quanto suoi esponenti in parlamento e allo stesso tempo e in egual misura – in questo senso va inteso il principio del libero mandato san-cito dall’art. 38 – sono “parte di un organo statale complessivo con responsabilità statale complessiva”. Se Leibholz, nel suo Kommentar, aveva interpretato l’art. 38 come una semplice sopravvivenza del pas-sato, una sorta di omaggio alla tradizione e ne aveva affermato la radi- nare – sempre al partire dal presupposto dell’esistenza di uno Stato forte, o con l’obiettivo di rafforzarlo (cfr. ivi, p. 83) - l’istituzione di una seconda camera (cfr. ivi, p. 81.) – circostanza rispetto alla quale spesso aveva espresso scetticismo (cfr., ad esempio, quanto sostenuto nel medesimo anno in Konstruktive Verfassungs-probleme, in Id., Grossraum…, cit., p. 58). “Può essere molto utile – scrive fra l’altro – mettere insieme interessi organizzati, riunirli in un organo, raccoglierli intorno a un tavolo e attendere le decisioni di questo organo” (ibd.). 50 H. Hofmann, Verfassungsrechtliche Sicherungen der parlamentarischen Demo-kratie. Zur Garantie des institutionellen Willensbildungs- und Entscheidungspro-zess, in A. Randelzhorfer – W. Süß (hrsg.), Konsens und Konflikt, Berlin, New Y-ork, De Gruyter 1986, p. 280.

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cale inconciliabilità con l’art. 3851, Hofmann invece afferma con deci-sione: “Chi da questo crede di dover scorgere nello Stato dei partiti qualcosa di in sé contraddittorio, dovrebbe considerare anche la ca-rica di cancelliere federale come un relitto sopravvissuto del tempo passato, giacché anche qui un uomo di partito, spesso perfino un capo partito, deve assicurare un’efficace competenza statale com-plessiva all’interno di una responsabilità statale complessiva”52.

Da questo punto di vista sembrerebbe trovare un perdurante e forse rinnovato significato la stessa differenziazione fra Stato e so-cietà, intese come istanze distinte e tuttavia partecipanti alla mede-sima sfera pubblica. In questa direzione vanno le sentenze del BVerfG a proposito dello “status costituzionale”, nelle quali – co-me ha notato di recente Klein – si manifesta un’idea di Stato “le cui decisioni derivano da un complesso processo, principalmente di ti-po pubblico, di azione reciproca da parte di una pluralità di forze”53 che coinvolge attori istituzionali, semi-istituzionali ed extra-istituzionali: “Il processo di formazione della volontà politica nello Stato costituzionale democratico è un processo continuo tanto di scambio di informazioni e di opinioni all’interno della società, quanto fra questa e le istituzioni statali”54.

Lo Stato, come ricorda Böckenförde, non è una sostanza, né una collettività (Gemeinwesen) realmente esistente: esso è “un’organiz-zazione, più precisamente: un’unità produttiva organizzata”55 che non solo per il suo esistere dipende necessariamente da persone con-crete appartenenti alla società, ma che risulta, in quanto strumento privo di sostanza, finalizzato a questa: “Lo Stato, come unità di decisione politica organizzata, nella sua attività è funzionalmente legato alla società”; esso – scrive ancora Böckenförde – “è l’unità di decisione politica e organizzazione del potere per una società”,

51 Cfr. Leibholz-Rinck, Grundgesetz Kommentar, cit., p. 274. 52 Ivi, pp. 281-2. 53 H. H. Klein, Aufgabe und Funktionen der Parteien, in T. Maunz-G. Düring, Grundgesetz Kommentar, München, C. H. Beck 2006, vol. III, fa-scicolo 38, marzo 2001, n. 153. 54 Ibd. 55 E. W. Böckenförde, Die Bedeutung der Unterscheidung von Staat und Gesell-schaft im demokratischen Sozialstaat der Gegenwart, in Id., Staat, Gesellschaft, Freiheit, cit., p. 192.

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con la quale rimane “in necessaria e molteplice correlazione”56. Nelle moderne democrazie, scrive ancora Böckenförde, “il processo di formazione della volontà politica, visto in linea di principio, non diventa né uno svolgimento «statale», né «sociale», ma semplice-mente «pubblico»”, nel quale viene legittimata “una progressiva parcellizzazione dell’unitario potere di decisione politico” 57.

In questo quadro, lo stesso concetto di popolo sembra irriducibi-le ad unità: esso, giusta il ragionamento di Schmitt, eccede ogni formalizzazione possibile, si colloca in una permanente ulteriorità sempre suscettibile di esprimersi politicamente oltre l’istanza rap-presentativa in senso stretto. Il popolo, com’è stato autorevolmente sostenuto con riferimento all’ordinamento giuridico italiano, è “una complessa figura giuridica soggettiva, a formare la quale concor-rono gruppi e individui collocati nelle posizioni più diverse e fra lo-ro interferenti, dal corpo elettorale complessivamente riguardato fi-no agli elettorati regionali, provinciali e comunali, dai partiti politici ai sindacati e alle altre formazioni sociali”. Di conseguenza, anche la sovranità popolare presenta un’analoga complessità e stratifica-zione, costituendo “la risultante dell’esercizio di tutti i diritti propri dei cittadini, sia come singoli, sia nelle formazioni alle quali appar-tengono in base all’art. 2 Cost. (o come soggetti agenti per il tramite delle formazioni medesime)”58.

Con ciò non si vuol dire che la somma aritmetica o comunque la combinazione dei singoli spezzoni che costituiscono la rappresen-tanza – quella istituzionale, quella semi-istituzionale o di fatto, dei partiti e delle organizzazioni d’interesse – possa produrre infine una buona rappresentazione, dotata di sostanza e ben fondata. Al con-trario, la necessità di sempre nuove articolazioni rappresentative sembra rivelare la strutturale infondatezza del meccanismo rappre-sentativo: ad ogni livello si replica necessariamente quella logica di presenza dell’assenza e di duplicità fra rappresentante e rappresen-tato che costituisce il limite strutturale di ogni rappresentanza e la ragione della sua insuperabile carenza di legittimità. Eppure non sembra esserci accesso possibile alla sfera pubblica se non in forma rappresentativa: essa appare tuttora il medio necessario perché si

56 Ivi, p. 193. 57 Ivi, pp. 199-200. 58 L. Paladin, Diritto costituzionale, Padova, Cedam 19983, p. 268.

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dia presenza politica, ma anche il motivo per cui quest’ultima mani-festa inevitabilmente il carattere dell’artificialità.

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 145-158 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

Le lobbies della coscienza Le ragioni e gli obiettivi politici delle formazioni religiose

Andrea Pin

1. Le vecchie e nuove formazioni religiose di fronte alla politica e all’ordinamento. Non solo angurie

In quest’ultimo periodo, la presenza sociale della Chiesa cattolica si è resa particolarmente evidente innanzitutto in Italia, sia in occasio-ne del referendum sulla procreazione assistita contribuendo a farlo fallire, sia rispetto all’attuale dibattito parlamentare sulla regola-mentazione delle convivenze al di fuori del matrimonio. La Chiesa mostra di fare appello alle coscienze in maniera diversa; a volte sembra farlo rivolgendosi a tutti, talvolta ai soli credenti, talvolta ai soli parlamentari in particolare.

Se il rapporto tra Chiesa cattolica – cui si aggiungono denomina-zioni protestanti e comunità ebraiche – e potere politico in Occidente è di lungo corso, più recentemente si sono affacciati sulla scena poli-tica altri soggetti religiosi. È il caso dell’islam, ad esempio, giunto soprattutto nel Continente europeo grazie alla recente immigrazione ma in corso di sedimentazione nei più diversi strati sociali, sia perché gli immigrati vanno acquisendo la cittadinanza, sia perché non sono mancate conversioni all’islam. In questo modo, la religione islamica inizia ad avere una certa visibilità sociale, con consistenti ricadute sul piano politico. Ne è un esempio lo “strappo” alla tradizione francese di laicità consumatosi recentemente in occasione della legge sul velo in Francia, quando Sarkozy, ministro dell’Interno, si è recato in Egit-to per ottenere dal gran mufti del Paese un parere favorevole sulla legge1, al fine di attutire la reazione sociale dei musulmani. 1 O. Roy , La laïcité face à l’islam, Paris, 2005, p. 63.

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Ad una prima osservazione, islam, cristianesimo e, in genere, le varie confessioni religiose sembrano puntare – in maniera più o meno diretta – ad orientare l’ordinamento secondo certi valori in particolare. Anche quando la religione abbraccia la democrazia, pare non intenderla in maniera solo procedurale: va ben oltre il riconosci-mento di uno scarno nucleo di diritti fondamentali, l’applicazione della regola della maggioranza e la tutela delle minoranze. Né, quan-do accetta lo spirito repubblicano, pare accontentarsi di un patriotti-smo costituzionale, volto a sviluppare nelle persone un attaccamento agli ideali e al progetto di democrazia e uguaglianza sostanziale con-tenuto nelle versioni pur solide del costituzionalismo moderno2.

Nel 1791 il deputato Lavie, all’Assemblea nazionale francese, dichiarava “abbiamo fatto la rivoluzione soltanto per essere i pa-droni dell’imposta”, denunciando – forse in maniera volutamente riduttiva – il lato pratico e concreto dello spirito del costituzionali-smo moderno, che mette il popolo al centro delle decisioni, comprese quelle riguardanti la distribuzione delle risorse. Molto più recente-mente Khomeini sembra avergli risposto, affermando: “non abbiamo fatto una rivoluzione per abbassare il prezzo dell’anguria”. La con-trapposizione tra le due affermazioni – Khomeini è senz’altro un per-sonaggio molto discusso e su cui non c’è concordanza di vedute, ma si può utilizzare la sua frase per quanto implica – dice dello sforzo ideale che muove lo spirito religioso, ma, soprattutto, che per la reli-gione sembra non contare il potere, quanto l’obiettivo che attraverso il potere si può perseguire.

Talvolta la pressione religiosa si fa più evidente, mentre entra maggiormente in tensione la contemporanea appartenenza del fede-le alla comunità politica, che si adegua alle decisioni della maggio-ranza, e alla confessione, che richiede l’adesione ai precetti religio-si. Una tensione che generalmente la religione intenderebbe risolve-re a favore dei secondi: “La superiorità che ciascuno degli ordina-menti religiosi rivendica rispetto a quelli secolari fa perno in ultima analisi sulla nozione di diritto divino che, essendo dettato da un’autorità più alta di ogni autorità umana, esige un’obbedienza as-soluta e richiede di essere rispettato anche quando configge con le

2 Per averne un esempio, si possono leggere i documenti che motivano le ragioni della rivista telematica dal titolo programmatico www.costituzionalismo.it.

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norme poste dal potere umano: magis oportet oboedire Deo quam hominibus”3.

È arduo individuare le ragioni che muovono l’azione politica e sociale delle religioni, siano vecchie o nuove protagoniste dei con-testi politico-istituzionali occidentali, anche perché non sempre ad un credo religioso corrisponde una sola sensibilità politica. Questo vale con riguardo innanzitutto all’islam, confessione nella quale convivono tendenze persino opposte; ma lo stesso problema pare presentarsi, seppur in misura diversa, nelle formazioni religiose do-tate di una chiara e solida struttura gerarchica, come la Chiesa cat-tolica, la quale proprio negli ultimi tempi ha visto moltiplicarsi le voci e le tendenze al suo interno rispetto alle implicazioni politiche del credo.

Ad uno sguardo più approfondito, tuttavia, si scoprono delle consistenti differenze tra islam e cattolicesimo, sia nelle dinami-che, sia negli scopi dell’azione lato sensu politica. Si tratta di una riflessione che non può rimanere senza effetto, nel futuro – sem-pre più prossimo – dell’Occidente, il quale vede l’ascesa sociale del soggetto islamico: ormai in Francia risiedono cinque milioni di musulmani. Se le religioni continueranno ad essere, similmente a quanto accade negli Stati Uniti, un importante collettore di con-senso sociale, c’è da aspettarsi che l’islam giocherà un ruolo sem-pre più centrale nella vita politica. Questo vale soprattutto per una parte non infima dei musulmani, che concepisce l’islam quale progetto globale di vita, considerato anche nelle prospettive politi-che che questo implica.

2. La posizione cattolica. L’autorità e la ragione di fronte a Pilato

Per ragioni demografiche quanto per motivi sintetici conviene prendere in considerazione, nel campo cristiano, la Chiesa cattolica.

È stato affermato che, dopo Hobbes, “viene destituito di ogni ri-gore un pensiero della politica che si riferisca al bene e al giusto”: bene e giustizia scompaiono dall’orizzonte politico e giuridico, per

3 S. Ferrari, Lo spirito dei diritti religiosi. Ebraismo, cristianesimo e islam a confronto, Bologna, 2002, p. 109.

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essere sostituite dalla volontà. Solo la volontà degli individui “può dettare quelle leggi che richiedono ubbidienza e sono necessarie per il vivere nella società”4.

Il pensiero cattolico sembra contrapporsi ad una logica giuridica positivista e volontarista. Nella prospettiva cattolica, secondo alcuni “il diritto non è la pretesa al rispetto dell’autodeterminazione indi-viduale che si dà liberamente i propri contenuti, ma la pretesa di po-ter agire nel senso dovuto alla stregua di una ragione, o di un ordine o di una legge universali. Non dunque poter agire secondo la pro-pria libertà (come è per la tradizione moderna) ma poter agire se-condo il proprio dovere”5.

Questa impostazione concentra la sua attenzione sulla posizione giusta dell’uomo di fronte ai suoi simili, al creato e innanzitutto al Creatore, facendo leva sulla natura umana.

Per il fatto di essere connaturato all’uomo, per la tradizione cat-tolica il medesimo diritto risulta applicabile a tutti gli esseri umani, non solo ai credenti. All’interno dell’ordinamento canonico, in par-ticolare, si può distinguere il diritto naturale da quello positivo. En-trambi diritti di fondazione divina, differiscono per la loro conosci-bilità: mentre il diritto positivo richiede la rivelazione, quello natu-rale fa leva direttamente sulla natura umana. “Secondo la concezio-ne cattolica, infatti, l’uomo reca nel proprio cuore aspirazioni e cri-teri “originari” – derivanti, cioè, direttamente dal creatore che ha voluto farlo a propria immagine e somiglianza – e ha la possibilità di riconoscerli e identificarli per mezzo delle facoltà razionali di cui è dotato”6.

A questo punto è possibile individuare i tratti distintivi della concezione cattolica della politica e dell’ordinamento, ai fini della presente riflessione. Le nozioni di natura e ragione rendono il diritto naturale al contempo valido e conoscibile da chiunque: la comune natura umana impone che le norme di diritto naturale si applichino a chiunque, mentre la corrispondenza tra la ragione umana e la ra-zionalità del diritto naturale consentono potenzialmente a chiunque di riconoscerle.

4 G. Duso,, La democrazia e il problema del governo, “Filosofia politica” a. 2006, n. 3, p. 369. 5 G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, p. 106. 6 Ferrari, Lo spirito…, cit., p. 134.

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In questo modo emergono i due caratteri del diritto naturale nell’accezione cattolica. In primo luogo, la sua universalità: se è stato efficacemente affermato che “La parola cristiana per universa-le è cattolico”7, questo sembra valere anche nel ramo giuridico.

Tali osservazioni divengono particolarmente significative sotto il profilo dell’azione politica, cioè quanto al modo col quale il cat-tolicesimo – compresa la gerarchia – interviene nel dibattito istitu-zionale e partitico. La razionalità del diritto e dell’animo umano sembrano infatti escludere generalmente l’argumentum auctoritatis, e imporre di far leva, in primo luogo, sulla capacità dell’uomo di ri-conoscere il bene e il giusto. Ciò non implica evidentemente che il magistero non si pronunci, ma che si rivolga alla ragione di ciascuno.

Il ricorso alla razionalità può, di per sé, intendersi in più modi. Secondo una versione, peraltro discussa, il credente dovrebbe comportarsi nell’agone pubblico come si Dio non esistesse, cioè senza rimandi alla fede. Prescindere dall’ipotesi-Dio sarebbe ri-chiesto dal procedimento democratico, e rappresenterebbe del re-sto l’unica opzione adeguata a valorizzare l’autonomia razionale e morale dell’uomo8.

Una seconda versione, peraltro di ascendenza ebraica ma che non sembra assente nel contesto cattolico, non pretende che il cre-dente dimentichi il proprio credo nella sfera pubblica e istituziona-le: comportarsi da atei sarebbe un prezzo troppo alto da pagare, per il fedele9. Distingue invece i precetti religiosi in base al loro fon-damento. Ve ne sarebbero alcuni intrinsecamente inscindibili dal soggetto che li pone: ad esempio, non risulta comprensibile il divie-to per gli ebrei di consumare carne di maiale, se non riferendosi alla volontà divina, la quale avrebbe imposto tale precetto. Su un altro piano si situerebbero precetti ugualmente imposti dalla divinità, come il divieto di uccidere, che tuttavia godrebbero di uno statuto autonomo: sarebbero comprensibili anche senza fare riferimento al soggetto che li pone. Questa seconda tipologia di precetti, sostenibi- 7 S. Hauerwas, Meditazione agostiniana sullo Stato e il patriottismo, “Oasis”, a. 2006, n. 4, p. 42. Sul rapporto tra cattolicesimo e universalità si possono utilmente vedere le riflessioni – di stampo teologico – di H., De Lubac, Cattolicismo. Aspetti sociali del dogma, Milano, 1992, p. 23 ss. 8 G. E. Rusconi, Come se Dio non ci fosse. I laici, i cattolici e la democrazia, Torino, 2000, p. 20. 9 D. Novak, La legge mosaica e il diritto naturale, “Dai mon” a. 2004, n. 4.

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le su base razionale, sarebbe socialmente argomentabile. Ma questo non implicherebbe che il credente debba censurare, nel pubblico spazio, il carattere anche religioso del precetto10.

Dirimpetto a tali argomentazioni si pongono quelle screditano l’atteggiamento razionale del magistero cattolico. Questo, sebbene si ammanti di ragionevolezza e sembri procedere per evidenze, in realtà utilizzerebbe tali strumenti per costringere all’obbedienza e vincolare la società a delle certezze opinabili: secondo questa opi-nione, “sotto l’argomento razionale, spesso fondato su una (pre-sunta) natura dell’uomo, il cattolico, anche più colto o più aperto, si batte per la sua religione. Sicché l’argomentazione razionale re-sta, per i canonisti, piuttosto uno strumento dialettico che un me-todo conoscitivo dei rapporti sociali in quanto la ricerca della cono-scenza normativa consegue fondamentalmente dal percorso fideisti-co”11. In altri termini, sembra di intuire che il percorso della fede divergerebbe da quello della ragione: quest’ultimo propenderebbe per l’argomentazione, mentre il primo richiederebbe l’obbedienza.

Al di là dell’esattezza, tale critica lascia trasparire molti elementi che contribuiscono ad erodere la credibilità del magistero nel conte-sto pubblico. Obbedienza e verità sembrano opporsi frontalmente ad una certa antropologia del vero uomo democratico. Senza gene-ralizzare, è possibile affrontare l’antitesi tra il pensiero cattolico e una particolare accezione della logica democratica.

Questa ha dei referenti davvero autorevoli. Il medesimo Kelsen riconosceva nel relativista il soggetto adeguato alla democrazia – tanto da additare in questo senso la figura di Pilato, il quale, da per-fetto democratico, avrebbe rimesso alla volontà popolare la scelta di condannare Gesù12.

Per tale concezione della vita democratica, il relativismo domina il giudizio umano, con ricadute quasi necessarie nel campo giuridi-co. Poiché l’uomo non è in grado di riconoscere la verità, nemmeno l’ordinamento ne esprime alcuna – e il procedimento democratico non serve a farla emergere. La democrazia non implicherebbe sem- 10 D. Novak, Natural Law in Judaism, Cambridge, 1998, p. 16-21. 11 M. Bertolissi – U. Vincenti, Laicità e diritto, in G. Boniolo (a cura di), Laicità. Una geografia delle nostre radici, Torino, 2006, p. 78; si veda anche ibidem, p. 83, laddove si afferma: “La soluzione religiosa, per quanto (all’apparenza) possa esse-re argomentata con prove razionali, è sempre dedotta da un principio fideistico”. 12 H. Kelsen, La democrazia, trad. it. Bologna, 1998, p. 272-274.

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plicemente la rinuncia al conflitto, ma che ciascuno abbandoni la convinzione di poter raggiungere una reale certezza13.

In un contesto nel quale i soggetti non credono di poter giungere al vero, l’ordinamento democratico non ha alcuna pretesa di conte-nere valori o principi intrinsecamente validi (al di là, eventualmen-te, di un ristretto nucleo di diritti fondamentali), ma piuttosto co-genti in forza della sanzione e legittimati dal procedimento demo-cratico col quale vengono formulati. Il che giustifica che il diritto si apra ad accogliere istanze di segno diverso da quelle tutelate finora, persino opposte – come la poligamia, ad esempio.

La simmetria tra la fisionomia relativista dell’ordinamento e quella del soggetto democratico14 procede, in questa logica, fino a richiedere che ciascun individuo sia specchio del pluralismo e dia conseguentemente spazio, dentro di sé, a molteplici appartenen-ze15. L’uomo diviene – secondo una efficace definizione – una sorta di “microcosmo”16, ricettacolo capace di accogliere l’intero pluralismo sociale. Non stranamente, alcuni hanno evidenziato come questa logica, portata alle estreme conseguenze, sarebbe esi-ziale per i gruppi sociali. Se la pluralità di soggetti sociali è un da-to di fatto cui nessuno può sottrarsi, tuttavia pretendere che ogni membro della società si apra ad adottare regole, procedure e per-sino contenuti di impostazione pluralista corromperebbe dall’in-terno molte delle organizzazioni di tendenza17: innanzitutto le confessioni religiose.

L’evoluzione del pluralismo in senso relativista, inoltre, privile-gerebbe l’autonomia e l’autodeterminazione del soggetto. In questo modo, sembrerebbe scoraggiare l’atteggiamento individuale di ob-bedienza e di sequela nei confronti di autorità come quelle confes-

13 M. Ricca, Le religioni, Roma-Bari, 2004, p. 8-9. 14 L’intreccio tra democrazia e antropologia del democratico è abbastanza evidente in F. Rimoli, Laicità e multiculturalismo, ovvero dei nodi che giungono sempre al pettine…, e in Universalizzazione dei diritti fondamentali e globalismo giuridico: qualche considerazione critica, entrambi reperibili al sito: www.associazionedeicostituzionalisti.it. 15 Questa sembra essere la percezione di A. Brandalise, Democrazia e decostitu-zionalizzazione, “Filosofia politica” a. 2006, n. 3, p. 411. 16 S. Fish, Mission Impossible: setting the just bounds between Church and State, “Columbia Law Review”, a. 1997, p. 2289. 17 C. Millon-Delsol, Il principio di sussidiarietà, trad. it. Milano, 2003.

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sionali18. Non è un caso che certa dottrina abbia posto in conflitto l’art. 19 della Costituzione italiana con gli artt. 7 e 819. La libertà religiosa riconosciuta dall’ordinamento al soggetto si situerebbe a-gli antipodi della tutela garantita alle istituzioni religiose. Favorire le confessioni significherebbe deprimere la libertà dell’individuo, mentre valorizzare quest’ultimo implicherebbe depotenziare la tute-la per le organizzazioni religiose. Individuo e gruppo confessionali sarebbero degli opposti inconciliabili.

L’impostazione cristiana e quella razionalista sembrano in de-finitiva giungere, ai loro estremi, alla collisione. La democrazia, nella versione procedurale di stampo relativista, rifluisce, quasi per capillarità, attraverso l’ordinamento sull’antropologia, dando vita ad un soggetto spogliato della pretesa di conoscere il vero e incapace di seguire un’autorità. Naturalmente questo non è l’esito obbligato della logica democratica – verità, ragione e democrazia possono coesistere, anzi sembrano, per alcuni, essere complemen-tari, se v’è chi sostiene che “la ragione ha una pretesa universale e la democrazia la condivide”.20 Lo stesso Hamilton, tra i fondatori del sistema costituzionale statunitense, affermava che “i sacri diritti dell’umanità non devono essere ricercati in vecchie pergamene o documenti ammuffiti. Sono scritti, come con un raggio di sole, nell’intero volume della natura umana, dalla mano stessa della Di-vinità, e non possono essere mai cancellati o oscurati da un potere mortale”21. Tuttavia, accanto a questa lettura che concilia demo-crazia e verità, coesiste quella piuttosto ostile ad una fede raziona-le. È proprio quest’ultima a spiegare piuttosto efficacemente i conflitti che di tanto intanto esacerbano il rapporto tra religione e democrazia.

18 M. W. McConnell, “God is Dead and We have Killed Him!”: Freedom of Religion in the Post-Modern Age, “Brigham Young University Law Review”, a. 1993, 163, p. 172. 19 S. Ferlito, Diritto soggettivo e libertà religiosa, Napoli, 2003. 20 J. L. V. Villacanas-Berlanga, Crisi con spettatore: un bilancio a proposito della democrazia, “Filosofia politica” a. 2006, n. 3, p. 449. 21 Citato in C. Anderson, Anche nella realpolitik l’amore può vincere tutto, “Oasis” a. 2006, n. 4, p. 45.

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3. La posizione dell’islam politico. La logica di minoranza

È decisamente difficile dare una fisionomia al composito islam ita-liano, parcellizzato non solo sulla base dell’antica divisione tra sunni-ti e sciiti, ma anche a causa della compresenza di convertiti italiani e di immigrati di diverse nazionalità, provenienti soprattutto dal Nord-Africa e dal Medio Oriente (la situazione è parzialmente diversa in altri Paesi, dove la pur massiccia immigrazione giunge da alcuni Stati in particolare, contribuendo a semplificare il panorama).

I musulmani presenti sul territorio nazionale hanno preso vie di-verse sul piano dell’integrazione sociale e culturale22. Si va da chi afferma la piena compatibilità dell’islam con l’ordinamento italiano e pertanto cerca semplicemente maggiori spazi di visibilità, ad esempio attraverso la conclusione di un’intesa ai sensi dell’art. 8 Cost., a chi tende a separarsi dal resto della società, per perpetuare stili di vita e pratiche tradizionali dei Paesi di provenienza, ma comunque attribui-te alla concezione più genuina dell’islam.

Sono soprattutto queste ultime tendenze a presentare i maggiori problemi sotto il profilo dell’integrazione e del rispetto dell’ordina-mento italiano. Legate ad una tradizione – talvolta reinterpretata o persino reinventata – che non intendono abbandonare, da un lato si distaccano dal resto della società, contemplando una vita quasi se-parata fin dal periodo infantile, dall’altro rivolgono alle istituzioni, in forma diversa, richieste di vivere in base al diritto musulmano, o me-glio secondo alcuni suoi istituti. In questo senso si possono menzio-nare diversi episodi. Si va dalle richieste rivolte diverso tempo fa al governo inglese e volte a riconoscere uno status differenziato ai mu-sulmani23, alla proposta di istituire in alcuni territori canadesi un tri-

22 Si veda K. Fouad Allam, L’Islam contemporaneo in Europa e in Italia fra af-fermazione identitaria e nuova religione minoritaria, Commissione per le politiche di integrazione degli immigrati, in G. Zincone (a cura di), Secondo rapporto sull’integrazione degli immigrati in Italia, Bologna, 2001. 23 “Recentemente, delle comunità musulmane in Gran Bretagna, di cittadinanza britannica, hanno sollecitato il diritto di avere un proprio statuto personale, allo stesso modo come i cittadini cristiani di Egitto e di altri Paesi del Medio Oriente hanno il loro statuto personale cristiano, diverso da quello dei loro concittadini musulmani”: M. Borrmans, Nota riguardante l’obiezione di coscienza e i problemi relativi alla pluralità di culture e all’unicità dell’ordinamento giuridico degli Stati moderni, in ambiente islamico o in relazione con la fede musulmana, in B. Perrone

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bunale arbitrale che giudichi le controversie domestiche con norme sciaraitiche24, fino alla recente, ventilata25 (e poi sconfessata) ipotesi di riconoscere, all’interno della normativa italiana sulle convivenze affettive, anche la formula poligamica. In quest’ultimo periodo si è, tra l’altro, aggiunta un’importante spalla da parte dei governi arabi, i quali, per evadere la richiesta di certificati che consentano a loro cit-tadine di sposare civilmente degli italiani sul suolo italiano, richiedo-no un attestato di conversione all’islam da parte del futuro marito. Ai sensi del diritto musulmano, è infatti vietato il matrimonio di una musulmana con un soggetto di altra religione.

Queste tendenze islamiche, che sotto certi versi potrebbero defi-nirsi tradizionaliste, scontano una difficoltà, derivante dalla storia stessa della religione musulmana. L’islam, infatti, tende a concepir-si come maggioranza, non come minoranza. Il fatto che i musulma-ni attualmente si trovino in minoranza sotto il profilo demografico pone un problema all’applicazione della logica classica islamica, per la quale un musulmano dovrebbe vivere in un contesto islamico.

Questa concezione impone, nei Paesi islamici tradizionalisti, l’applicazione della shari‘a innanzitutto ai musulmani. Ai non mu-sulmani è consentito vivere secondo le proprie norme religiose, tal-volta applicate direttamente dai tribunali ecclesiastici e non statali. La comunità politica vede dunque almeno una duplice suddivisione: in primo luogo, tra musulmani e non musulmani26. In secondo luo-go, i medesimi non musulmani, cosiddetti dhimmi27 e inseriti in una logica di minoranza, a loro volta sono soggetti alle rispettive nor-

(a cura di), Realtà e prospettive dell’obiezione di coscienza. I conflitti degli ordi-namenti, Milano, 2002, p. 239. 24 Si veda A. Shachar, Religion, State, and the Problem of Gender: New Modes of Citizenship and Governance in Diverse Societies, “McGill Law Journal”, a. 2005, n. 1, p. 61. 25 Risulta dai quotidiani usciti alla fine di gennaio 2007 che, in concomitanza dell’elaborazione del disegno di legge sulle convivenze affettive, alcuni esponenti dell’Ucoii (Unione delle Comunità e Organizzazioni Islamiche in Italia) abbiano avanzato l’ipotesi di un riconoscimento delle convivenze poligamiche. La proposta è stata poi smentita dalla medesima associazione. 26 Sulle differenze di status si può vedere F. Castro, Diritto musulmano (voce), in Digesto – Discipline civilistiche, Torino, 1994. 27 Sulla condizione di costoro si può utilmente vedere B. Ye’or, The Dhimmi. Jews and Christians under Islam, Cranbury, 1985.

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mative religiose. Nei rapporti tra soggetti di differenti religioni ri-sulta invece applicabile la normativa islamica.

La logica che sostiene questa differenziazione del diritto su base religiosa si fonda su almeno due postulati. In primo luogo, il rico-noscimento da parte dell’islam della validità delle rivelazioni pre-cedenti – segnatamente di quelle ebraica e cristiana. Questa circo-stanza, attestata fin dal Corano, prima fonte del diritto islamico, le-gittima l’applicazione del diritto religioso all’interno della rispettiva comunità, anche per i profili che per la mentalità occidentale rien-trerebbero nella sfera secolare.

Un secondo postulato, non meno importante, il quale ha concre-tamente permesso la compresenza di una pluralità di regimi giuridi-ci, distinti su base confessionale, consiste nella sostanziale assenza di un diritto naturale applicabile alla generalità degli individui, se-condo la mentalità islamica. Nella “dottrina e giurisprudenza isla-mica [infatti] la nozione di diritto naturale (o altra analoga) è assor-bita ed esaurita in quella di diritto divino rivelato”28.

Questo accade non solo sotto un profilo testuale: il diritto natu-rale non è semplicemente trasfuso in quello rivelato. Anche sotto un profilo razionale, non è possibile distinguere un nucleo di diritti che si impongano come validi alla ragione, semplicemente riflettendo sulla natura umana: “Il male e il bene sono categorie della giustizia umana e a Dio può piacere di essere assolutamente ingiusto rispetto alla morale umana. Dio non ha da giustificarsi rispetto alle catego-rie della morale degli uomini, né gli uomini possono fabbricarsi un Dio secondo i propri desideri”29. L’adesione al diritto musulmano, dunque, sembra non poter avvenire su base razionale, ma solo fidei-stica: si aderisce a tale corpus giuridico solo abbracciando la fede islamica.

Una tale impostazione non predispone i musulmani a proporre al-la generalità le proprie convinzioni in merito al diritto da applicare. Laddove sono minoranza, possono piuttosto puntare a rovesciare le parti, rispetto a quanto accade ai dhimmi nei Paesi islamici, e ottenere l’applicazione del diritto musulmano all’interno della propria comu-nità religiosa – il che è del resto comprovato dalle richieste delle mi- 28 Ferrari, Lo spirito…, cit., p. 138. 29 Y. Ben Achour, L’idea di giustizia naturale nel pensiero giuridico sunnita, “Daimon” a. 2004, n. 4, p. 229.

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noranze islamiche in Occidente. La sottrazione di istituti alla disci-plina generale, tra l’altro, viene proposta con riguardo ad aspetti cen-trali del diritto, come il principio di uguaglianza sul piano sessuale.

La validità delle tradizioni cristiana ed ebraica – cui i musulmani assimilano gli ordinamenti dei Paesi occidentali moderni, pur con consistenti oscillazioni – osta ad un’espansione del diritto islamico fino a comprendere l’intera comunità politica. Né sarebbe compren-sibile perorare il diritto musulmano su basi razionali, similmente a quanto sembra fare il cattolicesimo, poiché non si può far leva sul sentimento di giustizia, o su evidenze elementari: il diritto musulma-no si applica in virtù della sua provenienza divina, non della sua cor-rispondenza a valori umani o a qualsiasi concezione della giustizia.

4. Conclusioni. Dal diritto per tutti al diritto per alcuni

La duratura presenza del magistero cattolico sulla scena pubblica, l’inserimento nell’agenda politica di temi controversi sotto il profilo etico e il sopraggiungere, sempre più massiccio, di nuove compo-nenti religiose nel panorama italiano ed occidentale sembrano com-plicare i rapporti tra la sfera religiosa e quella secolare.

Questo non accade soltanto sotto il profilo quantitativo, ma an-che qualitativo. Il cattolicesimo, infatti, si misura da parecchio tem-po ormai con la democrazia sul piano dell’universalità. Al plurali-smo, il quale riconosce un limitato catalogo di beni insopprimibili, generalmente fissato nella Costituzione, oppone una concezione di bene che intende valida per chiunque, indipendentemente dalla reli-gione e a prescindere dalle convinzioni di ciascuno. A questo sco-po, l’appello della Chiesa cattolica si concentra innanzitutto sulla natura umana e sulla capacità della ragione di distinguere il giusto dall’ingiusto, il vero dal falso – argomenti sui quali scivola spesso il dibattito.

Proprio questo pare essere il punto di attrito col pluralismo, nella sua versione relativista, descritta più sopra. Questo rifiuta una conce-zione condivisa del bene – non ricerca generalmente una convergen-za sui contenuti del diritto, ma sulle procedure. Verità e natura non rientrano nel campo giuridico, come invece ritiene il cattolicesimo. Sembra possibile sintetizzare il conflitto, dunque, osservando che il cattolicesimo intende generalmente estendere l’area dei diritti e degli

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istituti indisponibili e immodificabili oltre quanto contenuto stretta-mente nella Carta costituzionale. A quest’evoluzione si oppone il plu-ralismo relativista, che riconosce l’applicazione generale di un elenco limitato di diritti e obblighi, lasciando il resto all’autodeterminazione di ciascuno.

Nella Chiesa cattolica non mancano naturalmente una corposa dialettica interna e distinzioni sul contenuti e sui metodi coi quali proporre il magistero. Si può dire, in linea generale, che essa giochi su più tavoli: dal libero scambio di idee con altri settori della socie-tà civile, all’appello all’intera comunità politica o ai soli credenti, fino alle indicazioni limitate ai politici.

La peculiare situazione dell’islam presente sul Continente euro-peo consente un ventaglio di opzioni più contenuto: non solo per le sfaccettature interne alla comunità islamica, ma anche per la condi-zione di minoranza, ulteriormente suddivisa tra cittadini italiani, i quali godono dei diritti politici, e stranieri che non possono incidere sulle scelte dell’ordinamento attraverso il voto.

La condizione dell’islam europeo, dunque, lascia poche alterna-tive concrete a coloro che intendono sottrarsi al regime giuridico generale, se non chiedere l’applicazione per sé di uno status diffe-renziato. Tuttavia, la stessa logica dell’appartenenza all’islam e alla Umma musulmana – la comunità – e non la sola situazione di mino-ranza fa propendere i musulmani per un’applicazione della shari‘a solo all’interno della comunità. Il diritto musulmano nasce infatti per i soli musulmani; i suoi contenuti – almeno riguardo al diritto di famiglia, sul quale si concentrano le richieste – non troverebbero comunque applicazione al di fuori della comunità islamica.

La logica di “privatizzazione” del diritto che stanno adottando alcune componenti islamiche in Europa, nel chiedere deroghe all’applicazione di principi generali dell’ordinamento costituziona-le, sembra dunque intrinseca alla mentalità giuridica islamica. In-tendono sottrarre al regime generale diritti e obblighi ritenuti finora indisponibili, come la monogamia, la parità tra i sessi o alcuni prin-cipi riguardanti l’educazione della prole.

La direzione presa da certa parte dell’islam europeo è dunque opposta al magistero della Chiesa cattolica, che generalmente chie-de il riconoscimento in via generale di istanze che ritiene univer-salmente valide e non derogabili. Se il cattolicesimo intende sottrar-

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re alla libera disponibilità alcuni istituti, l’islam politico perora il regime derogatorio, innanzitutto per sé. Entrambe le direzioni sem-brano mettere in crisi un certo pluralismo: il cattolicesimo tende ad erodere i margini di autodeterminazione dell’individuo, l’islam punta a diminuire la fascia di posizioni giuridiche indisponibili.

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 159-181 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

Rappresentanza e partecipazione tra costituzione formale e costituzione materiale

Appunti per una antropologia delle pratiche di democrazia

Giuseppe Gangemi

1. Una rappresentazione “cartesiana”

Questo titolo, a dire il vero troppo lungo, è stato concepito, nella prima parte, come uno spazio cartesiano e, nella seconda parte, co-me un diagramma di dispersione dei punti nel suddetto spazio. Lo spazio cartesiano va pensato come costituito da quattro semiassi: a sinistra il semiasse della partecipazione; a destra quello della rap-presentanza; in alto il semiasse della costituzione formale; e in bas-so quello della costituzione materiale. Naturalmente alto e basso possono essere scambiati di posto (formale in basso e materiale in alto); allo stesso modo sinistra e destra (rappresentanza a sinistra e partecipazione a destra); ed, ovviamente, anche i due semiassi oriz-zontali possono essere scambiati con quelli verticali.

In questo ideale spazio cartesiano si collocano/vanno collocati criticamente i federalisti con le loro posizioni teoriche (un punto per ogni federalista o per ogni teoria) e ne risulterebbe un diagramma di dispersione di punti il cui valore è esclusivamente teorico. Nello stesso spazio (ma con un’altra rappresentazione, questa volta più empirica) possono essere collocate le pratiche di democrazia (un punto per ogni diversa pratica). Ne risulterebbe un secondo dia-gramma di dispersione di punti il cui valore è realmente empirico.

In nessuna parte del titolo dato a questa relazione è, apparente-mente, presente il concetto di cui sono stato invitato a parlare, il concetto di federalismo. Tuttavia, solo apparentemente, il titolo non contiene il concetto, perché non tanto il termine, quanto la dimen-

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Giuseppe Gangemi 160

sione semantica del concetto di federalismo è contenuta nella se-conda parte del titolo: Appunti per una antropologia delle pratiche di democrazia. Il federalismo è, per me, soprattutto una pratica di democrazia.

Facendo riferimento alle pratiche, è difficile usare il concetto di federalismo senza un aggettivo che lo connoti. Quando nessuno più, o nessuno ancora, trovava interessante il federalismo, era facile par-lare di federalismo perché il federalismo era qualcosa di ben chiaro e definito: o era il modello USA o era quello svizzero. Quando tutti hanno cominciato a parlare di federalismo, le cose si sono compli-cate e sono cominciati a comparire tanti altri modelli di federali-smo: il federalismo tedesco, il federalismo spagnolo (o federalismo a geometria variabile), etc.

Alla fine, il federalismo si è presentato nella forma dell’anti-politica (cosa da cui era sempre stato lontanissimo). Il federalismo, anzi, della seconda generazione di autori italiani federalisti (la ge-nerazione post-unitaria dei don Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini, etc. e persino quello post-combattentistica della terza generazione dei Silvio Trentin, dei Lussu, dei Bellini, etc. aveva concepito il fe-deralismo come una ricetta contro l’antipolitica). Prima di accenna-re brevemente a questo aspetto, mi soffermo su una piccola contro-versia che è strisciante, in questi momenti di antipolitica diffusa in Italia, tra quanti sono stati delusi da un federalismo che ha mostrato forti coloriture etniche, se non razziste, e decisamente antipolitiche.

Vi è chi sostiene che, negli ultimi quindici anni, l’antipolitica si sia travestita da federalismo, mentre sono personalmente convinto che è stato il federalismo ad impregnarsi di antipolitica. Quale la differenza tra le due affermazioni? Nel primo caso, si intende che l’antipolitica è la dimensione strisciante dello spontaneismo italiano e che, per una serie di coincidenze, questo spontaneismo si sia ma-scherato dietro la nobile bandiera del federalismo (una cosa alla quale, in Italia, non crede più nessuno, a parte pochi utopisti); nel secondo caso, si intende che il federalismo è una motivazione forte della cultura politica italiana e che ha trovato una manifestazione politica incolta in alcune forze politiche come la Lega Nord e una manifestazione politica deformata in altre che strumentalizzano l’idea del federalismo non tanto perché ci credano (sono lontanis-sime dall’accettare, al di là delle teorie, le pratiche del federalismo),

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Rappresentanza e partecipazione tra costituzione formale e costituzione materiale. Appunti per una antropologia delle pratiche di democrazia 161

ma solo perché l’argomento funziona (o si spera che funzioni per se stesse, avendo funzionato bene per altri) in alcune regioni del Nord. Le due affermazioni, come si vede, sono decisamente discordanti, se prese nella loro dimensione più pura, anche se non è escluso che possano trovarsi compatibili l’una con l’altra nel fatto che istanze del primo tipo convivono, nella politica italiana, con istanze del se-condo tipo.

Ma veniamo alla funzione antipolitica svolta, nel passato, dalle teorie federaliste. Non è un caso che don Luigi Sturzo, consapevole del nuovo ruolo che l’alleanza tra mafia e politica stava svolgendo in Sicilia e con il fatto che essa si configurasse come una manife-stazione dell’antipolitica, cioè di un inaccettabile modo di fare poli-tica, abbia teorizzato, insieme, il federalismo come soluzione a que-sto modo deformato di fare politica e la costruzione di un partito nuovo come strumento per costruire un nuovo modo, cristiano e non clericale, cioè un modo eticamente fondato, di fare politica.

Non è nemmeno un caso che Gaetano Salvemini, consapevole del ruolo che l’uso strumentale e illegale dei prefetti stava svolgen-do nelle dinamiche dei processi elettorali, abbia teorizzato, insieme, la denuncia della “politica della malavita” (come, con termine forte, la ha voluta definire), il federalismo come alternativa a questo mo-do deformato di fare politica e la costruzione di un partito socialista attento anche ai temi della democrazia e nemico della corruzione, della burocrazia e di una classe politica che tendeva a diventare pa-rassitaria, oltre che ai soli temi di classe (egli tentò anche di imma-ginare per il movimento dei combattenti un impegno nel rinnova-mento della politica).

Non è, infine, nemmeno un caso che, dopo l’adesione al movi-mento dei combattenti e le prime simpatie al fascismo (considerato come movimento e, quindi, come capace di contrastare burocrazia e rigidità dei partiti), Silvio Trentin abbia contribuito alla fondazione di “Giustizia e Libertà” e, contro l’antipolitica del fascismo e del combattentismo che aveva perso la fede originaria, abbia teorizzato il federalismo come strumento di costante freno e limitazione della burocrazia e della tendenza all’affermazione del parassitismo in po-litica, oltre che come strumento per l’affermazione e il consolida-mento della democrazia.

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In altri termini, tutti questi autori hanno pensato al federalismo come a una nuova antropologia e a un nuovo modo di concepire la democrazia. Ecco perché quando parlo della mia concezione del fe-deralismo, mi riferisco sempre a un “federalismo antropologico”. Ecco anche perché, nella seconda parte del titolo di questo scritto, il riferimento al federalismo è solo nascosto: un accenno diretto alle pratiche del federalismo antropologico, che è l’obiettivo principale della mia ricerca sul federalismo, è contenuto, infatti, nel sostantivo antropologia. Quindi, il titolo, nella seconda parte, contiene, in for-ma non esplicita o indiretta, il concetto di federalismo antropologi-co (invece la prima parte della definizione contiene il riferimento al contesto, cioè alle coordinate all’interno delle quali le pratiche del federalismo antropologico si muovono: rappresentanza e partecipa-zione; costituzione formale e costituzione materiale).

2. Rappresentanza e partecipazione

La rappresentanza è il risultato di una pratica di coinvolgimento de-gli elettori nella selezione della classe politica; ma è anche una pra-tica che attiva un processo di trasferimento della sovranità dal po-polo al rappresentante eletto o ai rappresentanti eletti. In scienza po-litica, si utilizzano almeno tre diverse e alternative definizioni della rappresentanza: 1) la rappresentanza come rapporto di delega; 2) la rappresentanza come rapporto fiduciario; 3) la rappresentanza come specchio delle componenti sociali o come rappresentatività sociolo-gica. Tutte e tre queste definizioni presuppongono una concezione della rappresentanza di natura individualistica, secondo la migliore tradizione liberale e secondo le considerazioni empiriche che si possono ricavare dal fatto che ciascun elettore entra isolato da tutti gli altri elettori nella cabina elettorale e quello che ne esce è un rap-porto tra i singoli elettori (anche se raffigurato come la finzione di un rapporto collettivo tra popolo, detentore della sovranità) e la classe politica eletta (tutta costituita da rappresentanti del popolo nella sua integrità, senza distinzione tra appartenenti alla maggio-ranza e appartenenti alla minoranza). In altre discipline diverse dal-la scienza politica, per esempio in filosofia, si utilizza anche una quarta definizione di rappresentanza: 4) la rappresentanza come lo strumento che rende visibile ciò che visibile non è. In altri termini,

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la rappresentanza, cioè il fatto che i rappresentanti rappresentino il popolo e parlino in nome del popolo, rende visibile il popolo come entità collettiva (quello stesso popolo che, senza questo “parlare e agire in nome di” non sarebbe altrimenti visibile). Questa definizio-ne della rappresentanza non è esclusivamente liberale e nemmeno esclusivamente democratica, per due motivi: a) è stata condivisa anche da Thomas Hobbes con riferimento al ruolo del Leviatano, cioè in un contesto di governo assoluto, ed è quindi ugualmente ri-feribile sia a sistemi politici che eleggono democraticamente i loro rappresentanti, sia a sistemi politici che non eleggono i loro rappre-sentanti o non li eleggono con elezioni libere. In effetti, questo tipo di rappresentanza non si riferisce al modo in cui si seleziona la ca-tegoria dei rappresentanti, cioè alla forma democratica, ma al fatto che chi governa lo fa o dice di farlo in nome del popolo; b) non è una finzione, un come se, in quanto presuppone che il popolo si renda effettivamente visibile attraverso la rappresentanza. Di con-seguenza, la definizione opera all’interno di una concezione olista della realtà e, come tale, è – ma questa è una mia opinione, certa-mente non una riflessione filosofica – potenzialmente autoritaria. L’olismo, infatti, non è mai stato una adeguata base teorica per la democrazia, almeno per la versione liberale della democrazia.

Ma torniamo ancora alle prime tre teorie della rappresentanza. Le prime due, la rappresentanza come rapporto di delega e la rap-presentanza come rapporto fiduciario sono i due volti della stessa medaglia e presentano, prese alla lettera, il rischio di legare i rap-presentanti a mandati con un sistema di istruzioni vincolanti (cosa che è estranea allo spirito di ogni costituzione democratica). Inoltre, queste due concezioni sembrano in contrasto con il processo di pro-fessionalizzazione della vita politica che sempre di più caratterizza la vita democratica. In effetti, poi, queste due concezioni non hanno il vantaggio di presentarsi come credibili in contesti in cui gli impe-gni presi in campagna elettorale (cioè le promesse fatte agli elettori per farsi votare) vengono considerati come impegni d’onore molto forti e sanzionati, non tanto sul piano formale, quanto sul piano so-stanziale. In effetti, una teoria della rappresentanza di questo tipo ha un qualche valore empirico solo in contesti in cui molto forte può essere la sanzione etica nei confronti di chi viene colto sul fatto come bugiardo; non ha alcun valore in contesti in cui i politici abi-

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tualmente promettono “il mare a chi sta in montagna e la montagna al chi sta al mare”, nell’indifferenza o nella completa disillusione degli elettori a questo proposito.

La terza è, insieme, sia una teoria della rappresentanza, sia una teoria della rappresentazione. In genere, la rappresentazione viene concepita come riferita all’hic et nunc, mentre, gran parte delle pra-tiche della cosiddetta democrazia deliberativa richiede che la rap-presentatività sociologica sia riferita agli effetti, attesi e non attesi, di un processo interattivo nel quale i rappresentanti devono essere rappresentativi del corpo elettorale, su ciascuna singola questione, ex post, cioè con riferimento al fatto che si chiede loro di fornire la decisione che produrrebbe lo stesso corpo elettorale se avesse la professionalità del politico o il tempo di dotarsi delle informazioni necessarie a prendere al meglio una decisione. In altri termini, la rappresentazione presuppone una rappresentatività ex post più che ex ante.

Questa concezione si adatta empiricamente a una società politica in cui molto forte è sentito il bisogno di controllare coloro che de-tengono il potere o in una società nella quale molto forte è l’attivazione della cittadinanza su questioni controverse. Anzi, cia-scuna pretesa di partecipazione, implicitamente, si basa sull’assunto che la delega della rappresentanza sia, al momento del voto, multi-issue, ma che possa essere ritirata su singole questioni da quei citta-dini che si attivano nella convinzione che una decisione non possa essere o non sia stata presa al meglio della professionalità dei rap-presentanti (per i punti di vista che spesso differenziano rappresen-tanti e rappresentati o per altri motivi, per esempio il fatto che la sussidiarietà orizzontale di vertice non esprime la sussidiarietà oriz-zontale di base). Parafrasando Pier Luigi Crosta, che sintetizza in una felice espressione la sostanza del pragmatismo di John Dewey, quest’ultima concezione indica che la rappresentanza “è l’uso che se ne fa”.

Sul piano delle pratiche, ogni rivendicazione di partecipazione parte dal presupposto che la rappresentanza è non solo pro tempore, ma anche “pro questione”. Nel senso che la delega di rappresentan-za si intende sospesa nel momento in cui il rappresentato si attiva e compare direttamente nel gioco della politica. La rappresentanza esprime un’esigenza di government che si deve, però, fermare di

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fronte alla attivazione dei rappresentati che chiedono di partecipare. Quando i rappresentati di fatto partecipano, si passa dal government alla governance.

Il prof. Agostino Carrino, ieri ha detto che la governance è una i-deologia e che spesso serve a non far percepire l’ingresso in scena di alcuni interessi che entrano in gioco dietro il mascheramento della governance. Può darsi che sia vero. Tuttavia, vorrei citare, senza per questo considerarlo determinante, il parere del professore Gerhard Camper, Professore Emerito dell’Università di Stanford, e più esat-tamente Professor of Law. Nei Working Papers del CDDRL (Center on Democracy, Development, and the Rule of Law, dello Stanford Institute for International Studies), con il saggio Rule of law? Whose law?, egli distingue una concezione minimalista della rule of law e la fa coincidere con la certezza del diritto (comprensiva della garanzia che chi fa le leggi e chi le applica non sia corrotto); introduce, poi, un secondo stadio della rule of law che coincide con il riconosci-mento delle libertà economiche necessarie allo sviluppo economico; quindi un terzo stadio della rule of law che comprende la garanzia e protezione di una vasta gamma di diritti che sono identificati come diritti umani; nell’ultimo stadio, fa rientrare la governance tra le ga-ranzie della rule of law anche perché sarebbe uno dei diritti umani quale riconosciuto dall’art. 21, primo comma, della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani approvata dalla Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948: “Ogni individuo ha diritto di partecipare al governo del proprio paese, sia direttamente, sia at-traverso rappresentanti liberamente scelti”. Camper, tuttavia, so-stiene anche che la governance sia un ottimo strumento per realiz-zare la trasparenza e, soprattutto, ridurre al minimo gli effetti di clientelismo e corruzione. Quindi, la governance ha un ruolo centra-le anche nel primo stadio o stadio minimale della rule of law. L’attivazione dei cittadini permette, infatti, controlli sostanziali molto più rigorosi dei soliti controlli amministrativi attraverso quel “passaggio di carte” che è sempre e solo un controllo formale.

Nella dimensione delle pratiche, la governance non può essere liquidata come una rivendicazione ideologica che maschera interes-si diversi da quelli garantiti dalla rappresentanza. Tanto è vero che, nei Paesi di lingua anglosassone, e in particolare negli U.S.A., con il termine di government si indica la struttura o apparato di governo

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e con governance il processo di governo, cioè quel prima della deci-sione che è negoziato e partecipato, e quel dopo della decisione che è interpretato e partecipato da attori che si attivano ad applicare o in-terpretare le decisioni. Il perché di questa sostituzione del concetto europeo (continentale) di government con il concetto anglosassone di governance deriva dal fatto che, come ci insegna Tocqueville nella Democrazia in America, è, o era, inconcepibile per i cittadini di quel-la democrazia un governo in forma di puro comando, cioè senza una partecipazione della cittadinanza nel realizzare gli obiettivi che l’ordine di comando pone.

E questo mi porta a domandare: avete mai pensato se e come si possa realizzare, senza il consenso dei cittadini e senza coinvolgerli, una politica di riciclaggio dei rifiuti o anche soltanto di raccolta dif-ferenziata dei rifiuti? Pensate solo per un momento a quando l’amministrazione comunale di Padova, sindaco Giustina Destro, rese operativa, più o meno all’improvviso, un’ordinanza per stabili-re il nuovo modo in cui ai cittadini veniva chiesto di consegnare i loro rifiuti, ne seguì un caos immediato e l’ordinanza dovette essere ritirata per ricominciare daccapo.

Con il che, però, non voglio affatto negare che interessi partico-lari si possano nascondere dietro la richiesta di passare dal comando via government alla partecipazione via governance, purché si accet-ti che altri interessi particolari possono nascondersi, ugualmente, dietro la rappresentanza (e se si definisce ideologia la governance, per il fatto che maschera la presenza di alcuni interessi, altrettanto si deve dire della rappresentanza, che maschera anch’essa altri inte-ressi). Per spiegare come la rappresentanza può essere, né più e né meno della governance, una finzione che maschera, per via di prati-che di government, l’attivarsi di interessi che non sono quelli dei rappresentati o dei partecipanti, mi servirò di un esempio: il sindaco del Comune X, provincia Y (si tratta di un Comune realmente esi-stente perché si accenna a una forma di governance realmente atti-vata), sarà stato eletto rappresentante dei suoi cittadini in votazioni in cui avrà votato circa il 70% degli aventi diritto al voto; se ha vin-to al primo turno, sarà stato eletto con una percentuale che varia dal 36% al massimo 40%; se ha vinto al secondo turno, quando votano in genere di meno che la prima volta, sarà stato eletto con una per-centuale ancora più bassa; eppure è il rappresentante della totalità

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dei cittadini, ed ha quindi il diritto di decidere anche per questioni che interessano pochi cittadini. Una di queste questioni che interes-sano pochi è un quartiere, al di fuori della zona edificabile, che è nato abusivamente (solo che i vari condoni hanno trasformato quel-le abitazioni abusive in “edilizia spontanea”); come tutte le forme di edilizia spontanea, quel quartiere non ha servizi, non ha nemmeno strade (il bus della scuola si rifiuta di andare a prendere i bambini sotto casa e questi bambini, d’inverno, saltellano tra le pozzanghere per arrivare al pulmino che li attende); come tutti i cittadini messi in regola, questi ex abusivi pretendono strade e servizi e li pretendono dal sindaco; il Comune non ha i soldi per realizzare questi servizi e se li avesse per fare solo le strade saprebbe che ne nascerebbe un’ulteriore spinta a costruzioni abusive; la Regione che conosce questi problemi, ha finanziato dei progetti di risanamento partecipa-ti che impediscono ulteriori costruzioni e obbligano il Comune a realizzare il risanamento del quartiere attraverso la governance. I cittadini (sia individualmente sia organizzati in sindacati, associa-zioni di volontariato, etc.) si attivano per decidere dove fare una piazza, dove una sala per le riunioni, dove una edicola e contribuire al loro costo in due modi: impegnandosi a cedere il terreno a prezzi agricoli dove costruire tutte queste cose; pagare i servizi privati (la costruzione di una edicola, di una gelateria, etc.); pagarsi il costo di gestione di questi servizi perché il progetto di risanamento parteci-pato non deve aumentare i costi futuri del Comune (i sindacati pa-gheranno il personale per un servizio di assistenza agli extracomu-nitari; le Poste il personale dell’Ufficio Postale; etc.).

Il Sindaco non ha i soldi per fare le strade perché, se li avesse, non farebbe il progetto di risanamento partecipato. Inoltre, avendo i soldi, nel puro stile della rappresentanza, delegherebbe un architetto a disegnare le strade necessarie e, probabilmente, proporrebbe una variante al Piano Regolatore per rendere edificabile una parte delle aree agricole del quartiere. Quali interessi si nascondono dietro la governance che il progetto di risanamento partecipato gli impone? Nella realizzazione di questo progetto interessi connessi alla gover-nance sono più che evidenti, ma sono gli stessi interessi che fanno funzionare l’attivazione dei cittadini. Si tratta, inoltre, di interessi piccoli e trasparenti. Esattamente quel tipo di interessi che, mobili-tati, permettono di realizzare l’obiettivo (che altrimenti non si rea-

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lizzerebbe). Non si sono visti o non sono stati segnalati altri interes-si mascherati dietro il processo di attivazione dei cittadini. Invece, si sono intravisti alcuni interessi mascherati dietro la rappresentan-za, cioè il sindaco e qualche funzionario del Comune. Interessi che si sono mobilitati a porre ostacoli alla realizzazione del progetto di risanamento partecipato.

Qualcuno ha, infatti, notato che il sindaco del Comune X non sembrava molto interessato al progetto di risanamento partecipato e che i dipendenti del Comune mettevano una serie incredibile di o-stacoli ad ogni richiesta di dati per realizzare la relazione da allega-re alla proposta di progetto di risanamento partecipato. Una prima spiegazione era che il sindaco avesse troppo da fare e una seconda che tra i dipendenti prevalesse pigrizia, incapacità e scarsa volontà di aumentare gli impegni di cui erano già gravati. Entrambe le spie-gazioni si rinforzavano, poi, l’una con l’altra: il fatto che il sindaco non si interessasse troppo al progetto di risanamento partecipato fa-ceva conseguire che non si impegnasse per accelerare i tempi len-tissimi dell’amministrazione comunale; la qual cosa ha finito per permettere che si accumulassero ritardi e difficoltà.

Tutto questo malgrado fosse evidente che, interessando il pro-getto di risanamento partecipato 235 nuclei familiari (i quali vivono nelle abitazioni sorte per edilizia spontanea, nelle case regolarmente costruite sulle strade che fanno da cornice al quartiere e, infine, nel-le case IACP, in condizioni a volte insostenibili per umidità, man-canza di riscaldamento e infissi che non riparano dal vento e dal freddo), il sindaco avrebbe dovuto essere, in qualità di rappresen-tante eletto, il primo a spingere per far riuscire l’impresa di presen-tare la proposta di progetto di risanamento partecipato e, con il pos-sibile finanziamento, far ottenere al paese una possibilità concreta di risolvere i problemi di un numero rilevante di elettori, contri-buendo a costruire un vero nuovo quartiere.

Il perché di questo non prendersi cura degli interessi di parte dei propri elettori non è stato sempre chiaro e qualcuno ha ipotizzato che ciò dipendesse dal fatto che il sindaco ha degli interessi diretti su quell’area (una parte dei terreni sono di proprietà di sua moglie, anche se in una zona la cui destinazione d’uso non è problematica), mentre altri hanno sostenuto che il sindaco aveva un accordo con un proprietario della zona da risistemare attraverso il progetto di risa-

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namento partecipato. Questo proprietario non amerebbe il progetto di risanamento partecipato in quanto preferirebbe che i suoi terreni in quell’area fossero resi edificabili, con una variante al piano rego-latore (ed è qualcuno che è abituato ad essere ascoltato in Comune, non solo dal sindaco).

Un secondo proprietario, di un terreno dove si trova una ex cava di tufo – una cava nella quale la banda municipale ha proposto di costruire una zona per concerti e dove vari gruppi di giovani musi-cisti (del Comune X, ma anche di altri vicini) vorrebbero tenere dei concerti di musica moderna – è anche lui contrario al progetto di risanamento partecipato e i soliti maligni suggeriscono che questo è il motivo per cui un suo parente, che lavora al Comune, coopera poco con quanti si sono attivati per realizzare il progetto di risana-mento partecipato e pone ostacoli su ostacoli, in quanto preferisce che non si faccia niente e che, magari tra qualche anno, sfruttando la protesta degli ex abusivi, che monta di giorno in giorno, si ap-provi la solita variante al piano regolatore, che permetta di colmare la cava e costruirvi sopra nuove abitazioni.

Altri, infine, sottolineano che farebbe molto comodo, a questi in-teressi mascherati dietro la rappresentanza, che si parli tanto del progetto di risanamento partecipato (purché non si riesca a presen-tare il progetto in Regione o purché la Regione non lo finanzi) per-ché il parlarne contribuisce a suscitare aspettative che, se deluse, potrebbero far riaffiorare alcune paure precedenti alle sanatorie dei condoni. Si insiste nel sottolineare che, nel caso di bocciatura o non finanziamento del progetto di risanamento partecipato, si potrebbe arrivare a proteste plateali (magari sollecitate dallo stesso sindaco o da alcuni proprietari, dei terreni o della cava) che “costringerebbe-ro” il Consiglio Comunale a far approvare la tanto attesa, da alcuni, variante al piano regolatore.

Invece, se il progetto di risanamento partecipato funziona, i pro-prietari saranno costretti a tenersi le loro proprietà come sono (se non si attiveranno nel processo di governance attivato dal progetto di risanamento partecipato) o a venderle al giusto prezzo agricolo e il 90% degli abitanti di quel quartiere avranno disegnato il tipo di quartiere che è loro interesse avere.

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3. Costituzione formale e costituzione materiale

Le leggi, le riforme, non realizzano, da sole, il federalismo e lo mo-stra la riforma del titolo V della Costituzione. Questa riforma, che del resto non ha nemmeno inserito nel testo costituzionale il termi-ne federalismo, ha finito con il produrre, per le sole competenze sull’istruzione, 400 ricorsi alla Corte Costituzionale. Come siano finiti o come finiranno, dal punto di vista delle pratiche, non è im-portante. In un convegno del 2005 a Bologna in cui ho presentato una ricerca realizzata sullo stato della attuazione, nelle singole Re-gioni, della riforma del titolo V della Costituzione ho cercato di mostrare che il governo non avesse fatto molto per applicare la ri-forma. Una sottosegretaria all’istruzione, invitata allo stesso conve-gno, ha difeso il governo sostenendo che il governo ha fatto tutto quello che doveva fare. Intendeva dire che il governo aveva appro-vato la legge di applicazione della riforma, credo nel 2003, e per il resto aveva fatto quanto era stato obbligato a fare dalla Corte Costi-tuzionale. Il che, dal punto di vista formale, le dava piena ragione. Dal punto di vista sostanziale, l’unico che conta sul piano politico, aveva molto meno ragione. Il perché ce lo ha spiegato il prof. Mau-rizio Fioravanti il primo giorno: qualsiasi riforma costituzionale ha bisogno di attori che si attivano in suo favore.

Per questo considero espressione di una visione esclusivamente formale della decisione politica il fatto che le due riforme costitu-zionali realizzate dal Parlamento, quella del titolo V approvata con referendum, e quella del 2006 bocciata con referendum, siano state approvate alla fine della legislatura e il loro iter si sia concluso ad-dirittura quando la maggioranza di governo era già cambiata.

Il primo attore che deve attivarsi per realizzare una riforma co-stituzionale è, infatti, il governo e la maggioranza che lo ha espres-so. Se un nuovo governo riceve una riforma costituzionale che non ha voluto e contro cui ha votato, è inutile sperare che si faccia attore dell’applicazione della riforma costituzionale. Il che non vuol dire che la riforma sarà bloccata per sempre. Vuol dire che sarà ritardata e, magari, snaturata attraverso pratiche che risponderanno non all’iniziale spirito riformatore, ma alle nuove convenienze politiche.

La riforma della Costituzione va approvata a inizio di legislatura per avere il tempo di realizzare le leggi e i regolamenti e di impostare

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la forma mentis dei dirigenti e funzionari adibiti all’interpretazione delle nuove norme e all’attivazione delle nuove pratiche. Già una le-gislatura non basterebbe per tutto questo, ma perlomeno si darebbe l’indirizzo desiderato alle cose. E, come si dice, chi ben inizia è già a metà dell’opera. Concludere una riforma costituzionale trasmettendo ad altri che non la condividono il compito di iniziare una pratica di applicazione è, in materie così complesse come quella del federali-smo, assurdo (a meno che, quella riforma non si innesti in pratiche di federalismo che già sono diffuse nella società).

E questo ci riporta al federalismo antropologico: se in Italia ci fossero stati, prima del 1990, tanti federalisti antropologici come ci sono stati fino al 1950 (molti di essi hanno operato in Veneto, come si vedrà più avanti), la riforma del titolo V della Costituzione pote-va anche essere realizzata e, poi, consegnata a una qualsiasi nuova maggioranza. Avrebbero provveduto i federalisti antropologici a controllare e premere per una sua corretta applicazione pratica.

Il concetto di costituzione materiale è stato formulato, per la prima volta in Italia, da un federalista antropologico, il vicentino Fedele Lampertico, che lo ha proposto nel 1886. Lampertico soste-neva che sono le pratiche che danno senso ai dettati costituzionali e alle leggi. Egli intendeva, anche, dire che vi possono essere delle pratiche federaliste in una costituzione centralista e costruzioni di autonomie dentro uno Stato completamente centralizzato; ma anche viceversa: pratiche centralizzatrici dentro una Costituzione formale federalista e dipendenza della periferia dal centro anche in uno Sta-to fondato sulle autonomie.

Lampertico, Emilio Morpurgo e Luigi Luzzatti erano allievi di Angelo Messedaglia. Tutti e quattro erano i più noti rappresentanti della scuola lombardo-veneta. Morpurgo e Luzzatti erano di famiglia ebrea e, per questo, ho ipotizzato (La linea veneta del federalismo del 2001) che la cultura che avevano assimilato, dalle famiglie di appar-tenenza, per osmosi dalle pratiche del ghetto li portasse verso la spe-rimentazione di pratiche di autonomia che non si erano sviluppate, in modo così informale, al di fuori del ghetto (la ricerca storiografica e politica ha ampiamente mostrato che, fino al 1789, i livelli di civismo e di istruzione erano più elevati e le pratiche di autogoverno erano più diffuse dentro i ghetti che fuori).

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Il modello culturale di riferimento di molti esponenti della cultu-ra ebraica era la pratica della Kehillah, un termine ebraico con cui si indica la comunità. La Kehillah è la pratica di autogoverno che si era affermata tra gli ebrei della diaspora a partire dal XII secolo e che aveva assunto un’importanza fondamentale all’interno del ghet-to (che è una istituzione inizialmente volontaria, poi coatta, affer-matesi a partire da Venezia, con il XVI secolo). La Kehillah va considerata come un esempio di pratiche di autogoverno, cioè di fe-deralismo, al di fuori di un contesto costituzionale e, per giunta, nelle condizioni peggiori possibili.

Quando, nel 1998, Daniel Elazar è venuto in Italia, per tenere dei seminari a Firenze e Venezia, ho potuto chiedergli se la sua concezione del federalismo, di fatto, potesse essere, in qualche mo-do, collegata alla pratica della Kehillah, cioè all’esperienza comuni-taria del ghetto; come prima risposta, egli mi ha detto di no. Ho in-terpretato questa risposta con il fatto che egli non fosse un ebreo della diaspora in quanto la sua famiglia era sempre rimasta in Pale-stina. Tuttavia, dalla conversazione, era emerso con chiarezza che conosceva benissimo la pratica della Kehillah, anche se non ha ac-cennato minimamente al fatto che aveva ricostruito la storia della Kehillah in un paper dattiloscritto che non era mai stato pubblicato (il documento è stato trovato tra le sue tante carte all’Università di Berkeley, solo dopo la sua morte, dalla dott.ssa Francesca Gelli).

Una spiegazione di questa risposta di Elazar può derivare dalla constatazione che egli non ha mai adottato un punto di vista euro-peo nel trattare la genesi delle pratiche di federalismo, bensì ha a-dottato un punto di vista statunitense. Da questo punto di vista U.S.A. (non pochi scienziati della politica hanno notato una scarsa visibilità, in Europa, della cultura federalista americana e, in parti-colare, dell’ambiente culturale intorno a “Publius”, la rivista fonda-ta da Elazar), negli scritti di Elazar si trova, ripetuta più volte, un’affermazione sorprendente per un europeo: più di tutti gli altri fi-losofi della politica, è stato Hobbes lo studioso più importante per lo sviluppo della cultura della partecipazione delle prime comunità del New England. Questa sua convinzione (che mostra anche il forte di-stacco tra Elazar e la mainstream della cultura europea) mi è stata chiarita in seguito ad alcuni scambi di e-mail seguiti all’incontro di Venezia.

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Non vi è alcun dubbio che il pensiero di Hobbes costituisce la ne-gazione più radicale del federalismo (come mostra Giuseppe Duso in questo stesso volume) e che solo Althusius ha una concezione del contratto che si muova sullo sfondo del cristianesimo e della Bibbia (come chiarisce sempre Duso in questo volume). Tuttavia, Elazar ha una concezione del federalismo come pratica e non come teoria (egli mostra chiaramente di essere lontano dal Grande Disegno fe-deralista elaborato dai teorici europei del federalismo) e ritiene che un autore serve a far capire le pratiche del federalismo non per quello che oggettivamente ha detto, ma per l’interpretazione (giusta o sbagliata che fosse) che ha ricevuto, cioè per l’uso che si è fatto della sua opera nell’affrontare le pratiche di convivenza del Nuovo Mondo. Evidentemente, i primi federalisti U.S.A. non leggevano Althusius (forse perché ha scritto in latino) o lo consideravano e-straneo alla loro sensibilità (forse preferivano il tono apocalittico di Hobbes) e hanno interpretato, cioè usato Hobbes, come avrebbero potuto, sul piano filologico e logico, essere interpretato (cioè usato) il solo Althusius.

I Padri Pellegrini consideravano il loro libro più importante il Vecchio Testamento e leggevano l’idea di contratto sociale di Hob-bes attraverso l’idea religiosa di contratto che era presente nel Vec-chio Testamento. Nell’interpretazione che comunemente si dà di Hobbes (una ricostruzione “europea o contemporanea” che non vo-glio mettere in discussione perché corrisponde alla lettera degli scritti di Hobbes) si dice che l’individuo può resistere al Leviatano solo se la sua vita è messa a rischio dal sovrano stesso. Qualcuno aggiunge che può resistere anche un individuo che vede la vita dei suoi familiari messa a rischio dal sovrano. Ma sembra assodato che chiunque veda la vita di un altro suddito messa a rischio dal sovra-no, nella concezione di Hobbes, non è legittimato a resistere a quest’ultimo per difendere la vita di quello. Non vi è alcuna giusti-ficazione morale e giuridica per resistere al sovrano in nome di un estraneo alla propria famiglia. Il perché è molto semplice: il Levia-tano diventa, con il contratto sociale, nella versione di Hobbes, il proprietario della logica, dell’etica e del diritto e non si può utiliz-zare, quindi, etica logica e diritto per resistere al sovrano. La resi-stenza al sovrano è legittimata solo in nome dello spirito di soprav-

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vivenza e dei legami ancestrali (nel senso di pre-logici, pre-etici e pre-giuridici) che motivano ciascun individuo.

I Padri Pellegrini, sostiene Elazar, non leggevano affatto Hobbes in questo modo, cioè con questa limitazione, per il semplice fatto che, per loro, individui che fossero pre-logici, pre-etici e pre-giuridici non potevano esistere. Anzi, essi pensavano che la caratte-ristica che rendeva migliore l’uomo agli occhi dell’Onnipotente (del Leviatano nei cieli) non era la sua capacità di parlare in nome pro-prio o strettamente in nome dei propri famigliari, ma proprio la ca-pacità di parlare in nome di coloro che erano il suo prossimo e gli erano estranei. E se questa caratteristica rendeva migliore l’uomo di fronte al Leviatano in cielo (in quanto rendeva accettabile la sua preghiera, che è sempre una pretesa), non poteva non rendere mi-gliore l’uomo agli occhi del Leviatano in terra.

Ovviamente, i Padri Pellegrini non erano filosofi e non erano, quindi, intellettuali capaci di fornire letture sofisticate di un qualsia-si testo (se si esclude la Sacra Bibbia alla quale dedicavano gran parte della loro energia intellettuale) e, di conseguenza, non erano consapevoli di tutte le implicazioni logiche presenti nel testo di Hobbes. Per questo un testo non è importante per quello che è, ma per l’uso che se ne fa. E l’uso che ne hanno fatto i Padri Pellegrini e i pionieri americani è stato quello di leggere il concetto di patto (covenant) presente in Hobbes attraverso il modo in cui leggevano il concetto di patto nel Vecchio Testamento (nessun’altra alternati-va era loro concessa, dato il diverso valore dei due testi).

Essi sapevano, inoltre, che nel Vecchio Testamento vi sono due preghiere (una di Abramo e una di Mosè) in cui i due pregano per ottenere un risultato mai a loro favore ma sempre a favore di terzi. Nel pregare entrambi usano la logica per convincere l’Onnipotente che ha torto nel decidere una punizione. Nel caso di Abramo la pu-nizione è la minaccia di distruzione per le città e di morte di tutti i cittadini di Sodoma e Gomorra; nel caso di Mosè la punizione è la minaccia, nei confronti del popolo ebraico che si è costruito un vi-tello d’oro, di rompere il patto con Abramo, facendone uno identico con Mosè (in modo che non più il popolo di Abramo, bensì il popo-lo di Mosé diventasse il popolo prediletto).

I Padri Pellegrini si sono ispirati anche a Hobbes per costruire il loro federalismo perché se il Vecchio Testamento mostra che è leci-

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to dimostrare al Dio nei cieli che ha torto, perché non si dovrebbe poter dimostrare al Dio in terra (il Leviatano) la stessa cosa. In que-sta interpretazione, si crea la breccia per interpretare Hobbes come ispiratore di pratiche di democrazia deliberativa.

In un importante passo di un volume non tradotto in Italia, Elazar ha sostenuto che la concezione statunitense del federalismo rappre-senta una sintesi dell’idea puritana che sottende il principio del covenant, che si ricava dalla tradizione biblica e che “presuppone un diverso tipo di relazione politica […] rispetto a quello su cui hanno posto l’enfasi le teorie della democrazia di massa, che hanno trovato vasto seguito sin dai tempi della Rivoluzione francese. […] Mentre la comprensione del patto [compact] politico che fa riferi-mento a Locke come base della società civile, rappresenta una ver-sione secolarizzata del principio del covenant” (Cities of the Prairies rivisited. The Closing of the Metropolitan Frontier, 1986, pp. 136-137). Elazar, in questa frase, più esplicitamente che altrove fa riferi-mento al fatto che negli U.S.A. il termine foedus si traduce come covenant, in quanto è legato alla concezione biblica del patto, men-tre in Europa lo stesso termine si tradurrebbe come compact, una versione secolarizzata del concetto di covenant, se non fosse inter-venuto Rousseau a rendere popolare il concetto di contratto sociale. Chiunque legga in lingua originale The Leviathan sa che Hobbes usa sempre e solo il termine covenant, con riferimento alla Bibbia, per indicare il contratto sociale e non usa mai il termine compact, mentre Locke usa solo il termine compact e non usa mai il termine covenant. “And this is done by barely agreeing to unite into one po-litical society, which is all the compact, that is, or needs be, be-tween the individuals that enter into or make up a commonwealth” (The Two Treatises of Government, 1690, II, § 99). Sia Hobbes che Locke, a volte, usano il termine contract (mai social contract), ma solo in senso privatistico.

Daniel Elazar ha anche scritto che gli statunitensi credono alla loro Costituzione e lo ha scritto con un retropensiero che suggerisce che i cittadini di altri Paesi non sempre credono alle loro Costitu-zioni. La sua idea è che credono di meno alla Costituzione quei Pa-esi nei quali la Costituzione viene considerata un testo uniforme-mente e chiaramente interpretabile. Seguendo Elazar, la Costituzio-ne è l’uso che se ne fa (cosa che riporta alla costituzione materiale,

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argomento cui si è già accennato). Gli statunitensi credono alla loro Costituzione, spiega Elazar, perché la usano cercando di portarla verso i loro interessi e in questo modo la interpretano, la rendono dinamica, la modificano sul piano sostanziale e non formale. Una costituzione formale univocamente interpretata, una costituzione formale che non ha bisogno di una costituzione materiale a suo fa-vore, cioè di attori – e in questo mi sento pienamente in armonia con quanto, in questo stesso convegno, ha sostenuto il prof. Fiora-vanti – che si attivano in suo favore, è semplicemente una costitu-zione morta o che contiene un Grande Disegno non realizzabile, se non sulla carta.

La costituzione è l’uso che se ne fa. Ma anche una teoria, o un concetto, come quello di contratto sociale di Hobbes è l’uso che se ne fa. I concetti acquistano senso nella pratica. I concetti si modifi-cano nella pratica. Come dice John Dewey, la rivoluzione logica cominciata da Francesco Bacone (e continuata da Boyle in polemi-ca con Hobbes, controversia che ho citato ieri, in un intervento a braccio) e portata a compimento da Charles Darwin, mostra che i concetti non sono quello che sono per un dato genetico e che non sono essenze impenetrabili. Alcuni concetti spesso si compenetrano con altri.

Per esempio, il concetto di pubblico e di privato non nascono separati nella loro genesi, come ha sostenuto il prof. Giovanni Fia-schi in un intervento. All’interno dello schema della governance, cioè nelle pratiche di federalismo, il pubblico non è sempre pubbli-co e il privato non è sempre privato. Inoltre, i concetti non si defini-scono in base al principio dell’omnis determinatio est negatio, cioè all’interno dello schema “io”-“non io”; molto più spesso, i concetti si definiscono all’interno dello schema “io”-“un altro io”.

Ma se questo è vero, il federalismo, come qualsiasi altra teoria, non è indipendente dall’antropologia degli attori, cioè dalla loro cultura e dai loro strumenti di intervento. In questo senso, la costi-tuzione materiale è più di quanto e di come la intendono alcuni giu-risti, e la rappresentanza è più di quanto e di come la interpretano alcuni filosofi, perché è l’insieme delle pratiche e dell’antropologia che la guidano. Come corollario di quest’affermazione, occorre considerare che ogni teoria va sempre riferita alle pratiche sia per

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acquisire il senso originario di una legge (o di una costituzione), sia per ripristinare un nuovo senso in un nuovo contesto.

4. Il “Che fare?” del federalismo

Quanto detto presenta o lascia scoperti due tipi di problemi che pos-sono essere così sintetizzati in forma di domanda:

1) che cosa può fare un federalista all’interno di una costitu-zione formale che, apparentemente, non lascia alcuno spazio di autonomia perché è interamente centralizzata?

2) Come può un federalista introdurre una particolare conce-zione del federalismo, magari anche attraverso una riforma costituzionale, in un Paese che non ha una cultura adeguata a costruire le pratiche necessarie allo sviluppo stesso del fe-deralismo?

Nel caso della prima domanda, la risposta è nella storia d’Italia che ho cercato di rappresentare in vari scritti o volumi, a mia cura, cui qui mi limito semplicemente ad accennare (La questione federali-sta. Cattaneo, Zanardelli e i cattolici bresciani del 1994; La linea lombarda del federalismo del 1999; La linea veneta del federalismo del 2001; La linea sarda del federalismo del 2002; La linea sicilia-na del federalismo del 2004). I federalisti antropologici hanno con-tinuamente tentato di realizzare pratiche di democrazia – per esem-pio costituzione di consorzi, di banche, politiche di incentivo al mi-glioramento della produzione agricola e alla produzione industriale – che hanno complessivamente aumentato l’autonomia dei gruppi e delle comunità che operano in un territorio.

Nel caso della seconda domanda, la risposta sta nel capire che certe incomprensioni del federalismo nascono da un’assenza di cul-tura che ne sostenga le pratiche. L’esempio è quello di Gianfranco Miglio che ha avuto un ruolo fondamentale in questo Paese ed è stato considerato come un padre del federalismo anche se, piuttosto, è stato il padre intellettuale che ha legittimato le rivendicazioni se-cessioniste (salvo, poi, attribuire a Bossi queste rivendicazioni, do-po aver rotto con la Lega Nord: lo ha fatto con il volume Io, Bossi e la Lega del 1994). A monte della sua posizione secessionista stava la concezione della costituzione come un contratto, invece che co-

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me un’obbligazione politica. La principale differenza formale tra contratto e obbligazione politica sta nel fatto che, nel contratto, le penali per la rottura unilaterale del contratto o per le inadempienze sono previste dal contratto stesso o dalla legge (e raramente costitu-zione e legge ordinaria di uno Stato prevedono esplicite penali nel caso di un percorso costituzionalizzato di secessione), mentre, nell’obbligazione politica, le penali (oltre che sulla base del contrat-to, qualora siano previste, e normalmente non lo sono) sono ricava-te sulla base di logica, etica e diritto naturali.

Anche Gianfranco Miglio aveva tra i suoi autori fondamentali Hobbes ed anche la concezione del federalismo che Miglio ha pro-posto è strettamente legata all’interpretazione che egli ha dato del concetto di contratto secondo Hobbes. A parere di Miglio, il federa-lismo è una struttura per decidere e Hobbes è stato il primo grande teorico del decisionismo: la delega di tutti i poteri al sovrano, teo-rizzata da Hobbes, aveva secondo Miglio l’obiettivo di realizzare la migliore e più efficiente macchina amministrativa possibile: una macchina per eseguire le decisioni del sovrano. Ma quando la deci-sione del sovrano mette a rischio la vita di un suddito, questi è au-tomaticamente sciolto dal vincolo di obbedienza (perché, implici-tamente o esplicitamente, nel contratto sociale è scritto che la finali-tà del contratto stesso è la sicurezza della vita dei contraenti). Ve-nendo a mancare quella sicurezza, vengono a mancare le condizioni di validità del contratto.

Miglio guarda al contratto di Hobbes come a un contratto di na-tura privatistica e conclude che, mettendo altre clausole nel contrat-to tra cittadini e sovrano, il contratto può diventare nullo anche a prescindere dal venire o meno a mancare la sicurezza della vita. Siccome l’erede concreto del contratto sociale è la Costituzione, se-condo Miglio, occorre inserire in questa il diritto di secessione, un diritto che egli considerava inalienabile quanto la vita stessa. Ov-viamente, pur ritenendo che la libertà di secedere è strettamente connessa al patto federalista, non condivido questa concezione pri-vatistica del contratto sociale e la concezione del federalismo che ne consegue (al massimo quella di Miglio è una concezione con fe-deralista, come ho cercato di mostrare in due scritti: Meridione NordEst Federalismo del 1996 e Federalisti contro. Da Althusius a Silvio Trentin del 1997).

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Chiuderei la parentesi su Miglio considerando che egli ha propo-sto una pratica di federalismo (o di confederalismo) che ha avuto molta influenza, in Italia, nei primi anni del successo nazionale della Lega Nord e che era, chiaramente, influenzata dall’opera di Hobbes. E siccome Hobbes è un autore molto più seguito e citato, in Italia come ovunque, l’operazione che da vari anni sto cercando di realiz-zare (e che propongo come conclusione di questo scritto) è quella di innestare la cultura federalista di Daniel Elazar, e di altri autentici federalisti europei, basata sulla implicazione necessaria tra federali-smo de facto e federalismo de jure, su una tradizione culturale ita-liana capace di accogliere una concezione prassiologica del federa-lismo. La tradizione culturale che mi sembra essere particolarmente adatta allo scopo è quella vichiana che ha dato origine al federali-smo antropologico e che può essere presentata in forma di percorsi differenziati, ma non divergenti: 1) primo percorso: da Vico, attra-verso Giandomenico Romagnosi, poi il secondo dei suoi importanti allievi diretti, il bresciano Andrea Zambelli, e non Cattaneo, quindi i suoi allievi Angelo Messedaglia e Giuseppe Zanardelli, poi anco-ra, gli allievi di Messedaglia, in particolare Lampertico, Morpurgo e Luzzatti, e, infine, il più grande di tutti i federalisti italiani, l’allievo di Luzzatti, Silvio Trentin; 2) secondo percorso: da Vico, attraverso Rosmini che recupera alla filosofia politica il concetto di regolazio-ne di Kant e attraverso la teoria dell’azione di Giuseppe Chiovenda e la filosofia del diritto di Giorgio Del Vecchio, Giuseppe Capo-grassi che recupera il concetto di politiche, di diritti umani e di de-mocrazia diretta. Su uno o su entrambi questi percorsi, andrebbe in-nestato il pensiero federalista di Elazar e sulla base dei risultati di questo innesto andrebbe cercata la risposta al seguente problema: cosa fa e deve fare un coerente federalista antropologico quando la cittadinanza si attiva su un problema single-issue per il quale non si riconosce nella rappresentazione dei suoi rappresentanti?

La risposta di un federalista, che sia rispettoso delle pratiche di autonomia, è che il politico si deve trasformare in un arbitro che controlla l’operato della cittadinanza attiva attraverso logica, etica e diritto naturali.

Questa proposta è stata da me avanzata nel corso di un’assem-blea dei Nuovi Municipi che si sono riuniti a Bari, nel terzo incon-tro annuale, il 5 novembre del 2005, poco dopo la costituzione della

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giunta Vendola per il governo della Regione Puglia, in conseguenza della vittoria alle amministrative di aprile. La proposta ha provocato la reazione negativa di alcuni esponenti di Rifondazione Comunista che, in altri contesti e per altri tipi di attivazione basati sulla prote-sta più che sulla proposta, in genere rivendicano, dall’opposizione, che i politici al governo si trasformino in notai, cioè che recepisca-no passivamente le richieste che provengono dalla cittadinanza sciamante per le piazze: immemori della pretesa di trasformare in notai i propri avversari politici di fronte alla mobilitazione delle “masse”, quando essi la controllano, questi politici di estrema sini-stra si sono dichiarati contrari alla figura del politico-arbitro nella Regione Puglia nella quale, finalmente, avevano conquistato la prima posizione di potere. Il loro argomento è stato: se i nuovi go-vernanti regionali si trasformassero in arbitri si verrebbe venuta a perdere la “funzione del politico”. Per fortuna, l’assessore regionale pugliese alla Trasparenza e alla Cittadinanza Attiva, Guglielmo Mi-nervini, un esponente dei movimento di volontariato cattolico, al-lievo di don Tonino Bello, si è mostrato di diverso avviso e ha con-diviso la strategia del politico come arbitro e, due settimane dopo, ha cominciato ad attivare concretamente pratiche di arbitrato nei processi di partecipazione che hanno cominciato ad affermarsi spontaneamente (la politica per i giovani detta de I Bollenti Spiriti) o che venivano attivate dall’assessorato (la Legge sullo Sport, la Legge sulla Trasparenza, i Programmi Operativi per i fondi struttu-rali dell’UE, etc.).

Quando la prima legge partecipata (quella sullo Sport) è arrivata per l’approvazione in Consiglio Regionale, l’unico gruppo che si è rifiutato di votare la legge così come era stata confezionata è stato il gruppo di Rifondazione Comunista. Questo la dice lunga anche sull’uso strumentale che molti politici fanno della partecipazione (strumenti che usano contro gli avversari al governo e di cui diffi-dano quando tocca a loro amministrare). Questo è, forse, l’interesse strumentale che si maschera dietro la governance (come ha sostenu-to il prof. Carrino). Solo che non è un interesse dietro la governan-ce, in quanto è un interesse che si maschera dietro la rappresentan-za. È la logica della rappresentanza, non la logica della governance, è quella di sollecitare la partecipazione quando si è all’opposizione e di trovarla sgradita quando si è al governo (già John S. Mill sotto-

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lineava che i governanti, qualsiasi governante, trova più convenien-te governare cittadini passivi perché è più facile controllarli).

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M. Bertolissi, G. Duso, A. Scalone (eds), La costituzione e il problema della pluralità, 183-210 ©2008 Polimetrica International Scientific Publisher Monza/Italy

Oltre il nesso sovranità-rappresentanza: un federalismo senza Stato Giuseppe Duso

1. La forma politica moderna e la pluralità: introduzione al problema

L’odierno orizzonte politico pone, a livelli diversi, il problema di concepire delle realtà politiche che abbiano un carattere unitario e tuttavia non annullino la diversità e la dimensione politica dei sog-getti che in esse si ritrovano come costituenti una comunità politica. I processi che determinano l’unione europea sono emblematici a questo proposito, in quanto mostrano con evidenza come sia neces-sario pensare una realtà politica che non escluda, ma sia compati-bile con la pluralità dei membri che la costituiscono. Altrettanto emblematiche sono le difficoltà che incontra il tentativo di una co-stituzione europea. Esse infatti mostrano quanto un tale compito di rendere compossibile unità e pluralità sia arduo. Tanto più, quanto più si è consapevoli che a tale scopo non appare consono quel modo di pensare la politica che si è sedimentato nelle realtà degli Stati na-zionali. La relazione tra il contesto dei fondamentali concetti politici moderni e la forma Stato non è fortuito e contingente, ma è essen-ziale e così stretta da apparire inevitabile. Perciò il superamento della configurazione della politica che va oltre lo scenario in cui sono de-terminanti gli stati nazionali, comporta anche il superamento di quel contesto di concetti che hanno dato luogo al modo moderno di pen-sare la politica e di organizzare la vita in comune degli uomini.

Questo contesto ha al suo centro il concetto di potere, che nel moderno condiziona totalmente la concezione della politica. Esso si presenta nella forma della sovranità, cioè dell’unico potere che è proprio del corpo politico nella sua totalità: una funzione di co-

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mando a cui tutti devono ubbidire e che deve risultare dipendente da un processo di legittimazione alla cui base sta la volontà di tutti i cittadini. Di fronte alla volontà collettiva non sono pensabili altri soggetti politici: una pretesa di contare politicamente di fronte e an-che contro la volontà collettiva è considerata illegittima e da punire.

Questa logica permea di sé la forma politica che in tale contesto si produce e che trova la sua manifestazione storica nello Stato e le sue regole nella costituzione. Quest’ultima, fondamentale strumento di organizzazione della vita in comune e dell’ordine, è pensata, a partire dalla Rivoluzione francese (ma anche da quella americana), sulla base della distinzione tra soggetto individuale e soggetto col-lettivo, società civile, come sfera in cui si muovono gli interessi particolari, e Stato, come luogo del comando e dell’obbligazione. Non sono tollerati corpi e aggregazioni dotate di una dimensione politica, come appare chiaramente sia nella teoria (emblematico in questo Sieyes), sia nella realtà che si viene attuando nella Rivolu-zione francese e che segna la fine di quella pluralità di potestates e di aggregazioni politiche che erano proprie dell’ancien régime. È questo immaginario a caratterizzare le costituzioni; e se questo ha permesso il superamento dell’incrostazioni di privilegi che ha ca-ratterizzato una società gerarchicamente intesa, è tuttavia sempre esso a impedire che si riesca a pensare all’interno di una realtà po-litica una pluralità di soggetti politici1. Di fronte all’espressione unitaria del soggetto collettivo non è sopportabile nessuna volontà che pretenda di avere carattere decisionale: una volontà politica espressa da singoli o da gruppi è immediatamente intesa come sov-versiva, come attentato all’ordine costituito.

Ma, dal momento che la realtà contemporanea a diversi livelli esige invece come indispensabile la capacità di pensare la pluralità e la differenza, si è diffusa l’opinione che sia necessario superare quel modo di pensare la politica che ha al suo centro il concetto di sovranità, anche se a questa opinione non corrisponde spesso la ca-pacità di praticare altre modalità di pensiero. In ogni caso questa 1 Cfr. quanto dice Grimm: “…Insofern setzt die moderne Verfassung die Differenz von Staat und Gesellschaft voraus. Ungekehrt ist sie auf Akteure, Institutionen und Verfahren, die sich auf diese Grenzlinien nicht festlegen lassen, nicht eingerichtet” (Die Zukunft der Verfassung, Suhrkamp, Frankfurt am M. 1991, pp. 431 (tr. parz. Il futuro della costituzione, in G. Zagrebelsky, PP. Portinaro, J. Luther (a cura di), Il futuro della costituzione, Einaudi, Torino 1996, qui p. 157).

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opinione risulta normalmente accompagnata dalla mancata consa-pevolezza di quale sia realmente la logica della sovranità: se una tale consapevolezza ci fosse, sarebbe insieme presente l’esigenza di superare quei concetti che hanno prodotto quello di sovranità, con l’assolutezza e l’univocità che la connota. Il riferimento non può non andare alla funzione fondante attribuita all’individuo, che è, fuori da ogni esperienza, pensato come una realtà in sé sussistente, determinabile a prescindere dai rapporti che gli sono costitutivi. E inoltre ai concetti di uguaglianza e libertà, che sono consustanziali a quello di individuo e al ruolo che viene ad assumere2. Ma, se si individua nel moderno giusnaturalismo il laboratorio in cui il dispo-sitivo della sovranità ha la sua genesi, ne discende che è anche una concezione della politica che ha alla sua base i diritti degli individui che bisogna attentamente interrogare3.

Nella presente riflessione ci si vuole chiedere se, per compren-dere la realtà politica che ci sta di fronte – e il problema della co-stituzione dell’Europa può risultare particolarmente emblematico –, non sia necessario andare oltre quel dispositivo concettuale mo-derno con cui si è pensata – ma si continua malgrado tutto a pensare – la politica. Se è davvero necessario pensare la pluralità bisogna riuscire a pensare in modo nuovo e diverso l’unità: in un modo cioè che renda non solo possibile, ma indispensabile il pensiero della pluralità. Ciò comporta il superamento del concetto moderno di potere politico e della sua legittimazione e dunque anche il supera-mento di quel nesso di sovranità e rappresentanza che intende porre la relazione di differenza e insieme di identità tra soggetto indivi-duale e soggetto collettivo, e nel popolo quella funzione identitaria che caratterizza la concezione moderna della democrazia.

Un tale tentativo, che non pretende fornire modelli costituzionali nuovi e alternativi, ma solo interrogarsi sui principi che stanno alla base della costituzione e sulle procedure che da essi discendono (ad

2 Non posso che rimandare ai lavori del gruppo di ricerca padovano sui concetti politici (che devono essere tenuti presenti per intendere le argomentazioni che sorreggono il presente ragionamento), a partire da quello dedicato alle dottrine moderne del contratto sociale: G. Duso (a cura), Il contratto sociale nella filosofia politica moderna, ora FrancoAngeli, Milano 20063. 3 Cfr. G. Duso, Crisi della sovranità: crisi dei diritti? in Il futuro dei diritti umani nella costruzione del nuovo ordine mondiale, a cura di A. Carrino, Guida, Napoli 2003, pp.83-103.

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es. le elezioni), richiede innanzitutto di avere uno sguardo storico ampio, che non sia a-prioristicamente ingabbiato dalla pretesa uni-versalità dei concetti moderni e dei loro presupposti: uno sguardo che si interroghi sulla stessa genesi del diritto costituzionale mo-derno, genesi che mi pare caratterizzarne in modo ineludibile la lo-gica4. E questo sguardo non può non avere una natura filosofica, se, riuscendo ad emanciparsi dalle concezioni correnti sulla filosofia politica, intesa come disciplina, o come costruzione di quadri nor-mativi, o di concezioni del mondo (Weltanschauungen), si ravvisa nel lavoro filosofico quella interrogazione dei presupposti e dei va-lori sui quali le discipline si fondano. Questa interrogazione dei concetti moderni ha dunque insieme una natura storica e filosofica5.

Il tentativo va tuttavia oltre questa domanda, e tende a indicare in quale direzione, a partire dalla coscienza dalle aporie emerse, sia possibile muovere per comprendere la nostra realtà e orientare la prassi6. In questa fase del ragionamento emergeranno due categorie che hanno carattere strategico, quella di governo e quella di federa-lismo. Per non indurre in fraintendimenti è subito da anticipare che la categoria di governo non può essere intesa riferendosi all’uso contemporaneo del termine, ma allude ad un modo assai diverso di intendere la politica da quello a cui ci ha abituato il concetto di potere. Anche per il termine federalismo bisogna dare un avvertimento

4 Il problema posto da Gustavo Zagrebelsky sul rapporto tra sapere storico e scienza del diritto costituzionale (cfr. G. Zagrebelsky, Storia e costituzione, in P. Grossi (a cura di), L’insegnamento della storia del diritto medievale e moderno, Giuffrè, Milano 1993, pp. 177-227; ora anche in G. Zagrebelsky, PP. Portinaro, J. Luther, Il futuro della costituzione cit. pp. 35-82) deve essere assunto in modo radicale: non cioè come il rapporto e il confronto tra due discipline o due modi di considerare il diritto, ma come l’interrogazione sulla genesi e sulla determinatezza storica del diritto costituzionale. Contro l’abitudine delle discipline moderne di fare la loro storia e di intendere la storia sulla base della propria “scientificità”, si tratta di intendere la storicità e dunque la determinatezza e i presupposti della scienza moderna, e con ciò mostrarne anche la contingenza e la precarietà che la connotano, contro una impostazione dogmatica. 5 Per la natura storica e filosofica del lavoro di ricerca si veda G. Duso, Storia concettuale come filosofia politica, in La logica del potere, ora Polimetrica, Monza 2007 (www. polimetrica.com), pp. 19-60. 6 Cfr. Sulla duplicità di un lavoro di filosofia politica e sul carattere arrischiato e non scientificamente” fondato del discorso positivo e di una proposta di orientamento rimando al mio Dalla storia concettuale alla filosofia politica, “Filosofia politica”, 1/2007, sp. pp. 79-82.

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analogo. Esso cioè non va inteso nel senso che assume nel dibattito attuale, anche in quello che si riferisce alla realtà europea. Questo infatti si muove all’interno della problematica che oscilla tra lo Stato federale e la federazione di Stati; spesso l’ottica federale è proprio quella che tiene particolarmente presente gli interessi uni-tari e centrali di una aggregazione. Mi sembra che un tale uso della nozione sia tutta interna al dispositivo concettuale della sovranità e dello Stato e dunque ancora alla logica del rapporto tra soggetto in-dividuale e soggetto collettivo7. Con il termine di federalismo si vuole piuttosto alludere ad un modo diverso di pensare la politica, in cui l’individuo non svolga un ruolo fondante e in cui l’unità di una realtà politica non sia pensabile se non attraverso la pluralità. Ciò significherà pensare il comando non nella forma del potere e della sovranità, ma piuttosto del governo, e pensare come centrale non tanto il problema della legittimazione democratica, quanto piuttosto quello della partecipazione e dunque della dimensione politica dei soggetti in questione.

2. Più legittimazione democratica per l’Europa?

Come si è detto, l’esigenza di pensare la pluralità nell’ambito dell’ordine creato dalla costituzione emerge con evidenza all’interno del dibattito relativo ad una costituzione per l’Europa. Ci si deve chiedere a quali condizioni ciò sia possibile. Il nostro ragionamento può partire da quel deficit di legittimazione democratica che da più parti è stato attribuito ai processi che portano all’Unione europea. Se l’indicazione di questa carenza è largamente condivisa, le posizioni invece si diversificano in relazione alla linea di comportamento che a questo proposito bisogna tenere: ci sono coloro che pensano che un tale deficit non sia colmabile, almeno nei tempi brevi, e coloro che propongono vie per un più veloce processo di democratizzazione. In ambedue i casi però la legittimazione democratica è vista come un risultato ovvio da dover perseguire, o che sarebbe bene conseguire, anche se nella situazione attuale non sembra possibile. Si tratta cioè 7 Ricevo ora il nuovo lavoro di O. Beaud, Théorie de la federation, PUF, Paris 2007, di cui purtroppo non ho potuto tenere conto in questo saggio. Mi pare che in questo testo sia esplicita l’esigenza, che qui cerco di porre, di pensare il federalismo al di là del concetto di sovranità e dello stesso concetto di Stato.

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di un valore indiscusso. Se ci si chiede però in cosa consista la cosid-detta legittimazione democratica e si comprende il rapporto intrin-seco che essa ha con il dispositivo della sovranità, la convinzione che sia proprio la legittimazione democratica ciò di cui l’Europa ha biso-gno comincia a vacillare.

Il termine di democrazia è spesso un contenitore delle più di-verse esigenze, e anche l’espressione “legittimità democratica” è spesso intesa in modi diversi e vaghi. Se cerchiamo di dare ad essa un significato preciso dal punto di vista delle strutture costituzio-nali, possiamo trovare un aiuto in quello che ricorda in un celebre saggio anche Dieter Grimm. Ci si riferisce cioè ad un processo che presuppone un unico popolo, formato di cittadini uguali che, senza distinzione di gruppo e di appartenenza, danno luogo ad un corpo rappresentativo, il quale esercita l’unico potere a cui tutti sono sot-toposti8. Le elezioni periodiche sono il mezzo che dovrebbe realiz-zare il congiungimento tra la volontà dei singoli e quell’esercizio del potere che con le elezioni è appunto fondato. Ben si comprende che alla base di una tale immagine sta quella costruzione teorica che ha preso corpo attraverso le dottrine moderne del diritto naturale e ha trovato una sua realizzazione storica nelle costituzioni a partire dalla Rivoluzione francese. Insomma, la legittimazione democratica implica quell’orizzonte e quei processi che caratterizzano teorica-mente la sovranità moderna e che si sono sedimentati nella dottrina dello Stato e nelle costituzioni democratiche. Proprio in quanto di questo si tratta, Grimm appare scettico sulla possibilità che un tale processo si possa realizzare ora per l’Europa, in quanto mancano per il momento i presupposti per un unico popolo europeo, e in quanto gli Stati che hanno dato luogo ai trattati che porterebbero ad

8 Cfr. D. Grimm, Braucht Europa eine Verfassung? Siemens-Stiftung, München 1994 (tr. it. cit., pp. 339 ss.). In questa accezione, della forma costituzionale il termine di democrazia è stato inteso nei lavori miei o da me coordinati che sono citati nelle note seguenti. Una convincente messa in discussione della razionalità formale del dispositivo della sovranità e del nesso potere-diritto che essa comporta viene dai lavori di Paolo Grossi (si veda l’esplicitazione della linea di ricerca quale appare in P. Grossi, Prima lezione di diritto, Laterza, Roma-Bari 2003, e Id., Mitologie giuridiche della modernità, Giuffrè, Milano 2007 (2 ed.) che comprende anche un’acuta sintesi sul tema della costituzione concepita come introduzione ad un nuovo manuale di diritto costituzionale, e apparsa anche come articolo dal titolo – che ne rivela la rilevanza per la presente riflessione – Il costituzionalismo moderno tra mito e storia, “Giornale di storia costituzionale”, n. 11, I semestre 2006, pp. 25-72).

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una costituzione europea non intendono scomparire come soggetti politici anche nel momento in cui l’Unione europea sia divenuta pienamente realtà politica9.

Più ottimisti sono coloro che si dichiarano fautori di una costitu-zione europea e auspicano di vedere realizzata in modo più pieno la legittimità democratica, mediante l’intervento dei cittadini attra-verso il voto e il carattere pienamente decisionale del parlamento e degli organi di carattere esecutivo che sulle elezioni direttamente o indirettamente si dovrebbero basare. Si può facilmente notare che la legittimazione ripete i meccanismi che sono propri dello stato de-mocratico e che, estesi all’Europa, farebbero di questa un nuovo mega-Stato, conglobante in sé gli Stati che ad essa hanno dato luogo. È significativo che anche un costituzionalista come Böckenförde, nel momento in cui, in un saggio del 1997, si pone il problema della legittimazione democratica dell’Europa, si ponga bensì il problema se questa sia possibile per l’Europa, ma non metta in questione il significato e il valore del meccanismo procedurale che contraddistinguerebbe una tale legittimazione.

È da chiedersi se ci sia veramente una grande la differenza di fondo tra euroscettici e euroottimisti o fautori della costituzione dell’Europa, oppure se la contesa non avvenga all’interno di un ter-reno teorico condiviso, che non mette in questione la concettualità su cui si fonda la dottrina dello Stato e non riesce a pensare in modo diverso la realtà politica. Ciò avviene sia nel caso in cui l’Europa sia pensata come Stato, sia nel caso in cui si resti fermi alla realtà degli Stati ricordando che la via che porterebbe alla costituzione si fonda su trattati, di cui sono autori quegli Stati che non intendono scomparire come soggetti politici, ma piuttosto rimanere Herren,

9 Sui problemi teorici del cammino attuale verso una costituzione dell’Europa, soprattutto in relazione alla differenza tra trattato e costituzione e all’indi-spensabile pluralismo che deve caratterizzare l’Europa, si veda l’intervento dal titolo significativo dello stesso Grimm, Verfassung – Vertrag – Vertrag über eine Verfassung, in L’Europe en voie de Constitution. Pour un bilan critique des travaux de la Convention, a cura di O. Beaud, A. Lechenvalier, I. Pernice e S. Strudel, Bruylant, Bruxelles 2004, pp. 279-287. Ma sulla dimensione teorica che caratterizza la costituzione nell’arco della storia dello stato moderno si vedano i lavori di Hasso Hofmann, in particolare, Vom Wesen der Verfassung, Humboldt-Universität, Berlin 2002, e Riflessioni sull’origine, lo sviluppo e la crisi del concetto di Costituzione, in Sui concetti politici e giuridici della costituzione dell’Europa, a cura di S. Chignola e G. Duso, Franco Angeli, Milano 2005, pp. 227-237.

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cioè soggetti politici e non semplicemente sudditi all’interno di una nuova Herrschaft10. Di conseguenza ci si oppone ad una costitu-zione per l’Europa in quanto si comprende che l’Europa come Stato farebbe scomparire gli Stati che a questa nuova realtà darebbero luogo11.

Ma anche quando si dice che i signori della costituzione europea non debbono essere in realtà gli Stati, ma piuttosto i cittadini, che formerebbero un unico popolo non ci si apre ad un nuovo modo di pensare. La stessa proposta di una Europa dei popoli non mostra la capacità di intendere politicamente in modo diverso il popolo né produce un diverso pensiero della politica. Si tende piuttosto ad so-stituire l’operare degli organi dei singoli Stati in favore di organi unitari europei che non siano legittimati dalla volontà dei governi e dei poteri dei singoli stati, ma piuttosto direttamente dalla elezione da parte dei cittadini europei. Si produrrebbero in tal modo organi legislativi ed esecutivi che agirebbero in modo unitario e avrebbero una base democratica. Ben si comprende che, anche in questo caso, gli stati nazionali sarebbero superati solo dalla costituzione di uno Stato superiore, caratterizzato dalla stessa cifra teorica, dalle stesse procedure e fondato interamente sul dispositivo della sovranità. È allora su questo dispositivo e sulla sua incapacità intrinseca di pen-sare la pluralità che bisogna brevemente fermare l’attenzione.

3. Il dispositivo della sovranità e la coazione all’unità politica

La democrazia moderna, intesa come forma di organizzazione co-stituzionale, ha le sue radici in quel laboratorio concettuale costi-tuito dalla scienza del diritto naturale12, dove sono nati i due con-

10 Cfr. D. Grimm, Una costituzione per l’Europa cit. p. 353. 11 Si può ricordare la consapevolezza mostrata da Kant nel momento in cui comprende che se la via per garantire la pace a livello internazionale fosse quella della costituzione di uno stato mondiale, che realizzasse l’unificazione di diritto e forza, avverrebbe che gli stati sarebbero ridotti a sudditi e perderebbero la loro soggettività politica come avviene per i singoli cittadini all’interno dello Stato. 12 Sulla stretta relazione tra la logica della sovranità e la democrazia si rimando anche a G. Duso (a cura di), Oltre la democrazia. Un itinerario attraverso i classici, Carocci, Milano 2004, in particolare l’Introduzione e Genesi e aporie dei concetti della democrazia moderna, rispettivamente pp. 9-29 e 107-138.

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cetti che si presentano come pilastri portanti delle moderne costitu-zioni: quello della sovranità del popolo e quello della rappresen-tanza politica. Questi due concetti appaiono caratterizzare le costi-tuzioni moderne, in quanto, a partire dai processi rivoluzionari di Francia, non c’è costituzione che non presupponga un soggetto che dia la costituzione e l’unico soggetto che appare legittimato a ciò è quello collettivo, l’intero popolo. Egualmente non c’è costituzione che non preveda un corpo rappresentativo, in quanto senza di esso non c’è possibilità di dare luogo all’espressione della volontà e all’azione del soggetto collettivo13.

Se guardiamo alla realtà contemporanea, si può a buona ragione pensare che la sovranità del popolo sia sempre più una parola vuota: non solo le decisioni sono frutto di processi complessi e di un in-treccio di forze che rende assai flebile la fiducia in un’autentica ca-pacità decisionale degli organi deputati ad esprimere la volontà del popolo, ma le stesse costituzioni mettono in atto una serie di vin-coli, all’interno dei quali si devono muovere legislativo ed esecu-tivo, in modo tale che la sovranità del popolo che caratterizza la democrazia nella sua forma semplice e più immediata sembra in re-altà avere perso gran parte della sua assolutezza14. Mi chiedo tutta-via se la costituzione, nella sua funzione legittimante il potere, possa liberarsi facilmente dall’idea di un soggetto costituente e dalla dimensione del popolo come grandezza costituente15. Si badi bene che accentuare il nesso di sovranità-costituzione non significa pensare che siamo destinati a rimanere all’interno di esso, ma piut-tosto segnalare che il superamento della sovranità esige un muta- 13 Cfr. G. Duso, Rappresentanza politica e costituzione, in La logica del potere cit., pp. 157-183 14 Rimando a G. Duso, L’Europa e la fine della sovranità, in “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, 31 (2002),sp. pp. 123-126, dove tengo presente la proposta interessante contenuta negli ultimi lavori di Maurizio Fioravanti, che culminano in un tentativo di porre in modo nuovo il problema di una costituzione per l’Europa (cfr. M. Fioravanti, Stato e costituzione, in Lo stato moderno in Europa, a cura di M. Fioravanti, Laterza, Bari-Roma 2002, pp. 3-36, e dello stesso, La scienza del diritto pubblico, Giuffrè, Milano 2001, tomo II, pp. 835-906, sp. 835-853). 15 Su questo tema si vedano le acute riflessioni di E-W. Böckenförde, Die verfassungsgebende Gewalt des Volkes. Ein Grenzbegriff des Verfassungsrechts, in Staat, Verfassung, Demokratie. Studien zur Verfassungstheorie und zur Verfassungsrecht, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a. Main 1991 (tr. it. in Il futuro della costituzione cit., pp. 231-252).

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mento di pensiero ben più radicale di quanto non si creda: richiede di oltrepassare il modo in cui si è intesa la costituzione, ma anche l’orizzonte concettuale che sta alla sua base.

Ciò a maggior ragione se si ha la consapevolezza che quello di sovranità non è un concetto originario, ma è il risultato di una co-struzione logica, ed esattamente di quella costruzione che attribui-sce all’individuo un ruolo di fondazione della politica e del potere. E sono i concetti di uguaglianza e libertà a garantire questo nuovo ruolo dell’individuo. In più sedi ho cercato di mostrare come sia connaturato al concetto moderno di sovranità quel processo di le-gittimazione che mostra non solo la necessità di un potere assoluto e superiore ad ogni potere naturale dei singoli proprio per garan-tirne i diritti, ma anche l’esigenza che esso sia il risultato della stessa volontà dei singoli individui, come appare nella scena del contratto sociale. Per questo si può dire che non con Bodin, ma con Hobbes nasca la storia della sovranità moderna. E già in Hobbes sono l’uguaglianza attribuita agli individui nello stato di natura e la nozione nuova di libertà a produrre, con la consequenzialità di una ragione geometrica, il concetto di sovranità16. Ed è la stessa logica a richiedere che si pensi l’autorità solo sulla base di un processo di autorizzazione, che ravvisa nella volontà dei singoli il momento fondante e legittimante. Ma, se questo è vero, significa anche che il superamento della sovranità comporta il superamento del ruolo dei concetti di individuo, di uguaglianza e di libertà, almeno nel modo in cui in questo contesto sono stati concepiti. Di più: bisogna supe-rare quella stessa modalità di pensare il politico che trova il suo punto di partenza nei diritti degli individui. Bisogna cioè andare ol-tre quel circolo logico che, partendo dai diritti degli individui fonda il potere irresistibile del corpo comune, dello Stato, che diventa la fonte unica del diritto inteso come l’insieme delle leggi.

Spesso coloro che intendono mettere in discussione il concetto di sovranità, pensano prevalentemente ad essa come ad una dimen-sione verticale, che parte dall’alto e condiziona l’agire di coloro che 16 Questo il risultato delle ricerche condotte sulle dottrine del contratto sociale: si veda specialmente A. Biral, Hobbes: la società senza sovrano, in G. Duso (a cura, Il contratto sociale nella filosofia politica moderna cit., pp. 51-108; da ultimo, in forma concisa, G. Duso, Il potere e la nascita dei concetti politici moderni, in Chignola, Duso, (a cura di), Sui concetti politici e giuridici della costituzione dell’Europa, cit., sp. pp. 176-184.

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vi sono sottoposti e debbono ubbidire: pensano cioè alla nuda di-mensione del comando. In questa ottica le carte costituzionali sono considerate come l’insieme dei vincoli posti al potere, il quale deve essere limitato in favore dei diritti dei cittadini. E si suole fare risa-lire tale funzione limitante al giusnaturalismo come quella corrente di pensiero che si sarebbe posta come compito l’affermazione dei diritti degli individui e la limitazione del potere. Queste opinioni non sembrano tuttavia cogliere la logica dei concetti e la realtà dei processi. Infatti se la costituzione consistesse in una semplice limi-tazione del potere, ciò significherebbe che il potere nasce da una istanza diversa. Ma non è così. In realtà il potere che è concepito dalla costituzione è quello che è ad essa connaturato, a monte e a valle, secondo la celebre distinzione di Sieyes tra potere costituente e potere costituito. Il potere è un potere pensato giuridicamente, nella duplice forma: del soggetto che unico può dare la costituzione, e di quel potere costituito che, fondato dalla volontà dei cittadini attraverso le elezioni, si presenta nell’insieme di potere legislativo e potere esecutivo. Dunque il potere politico non è istanza estranea alla costituzione, ma è piuttosto posta con essa e da essa.

Se poi si sposta l’attenzione sulle dottrine moderne del diritto naturale, appare ancor più difficile sostenere che il giusnaturalismo sia una dottrina di limitazione del potere. Anche qui è da ripetere che ciò sarebbe vero se in esse il potere apparisse come una istanza estranea a quella ragione che pone i diritti degli individui17. Ma, in tutti i testi dei giusnaturalisti non è così. Ci troviamo piuttosto di fronte ad una costruzione teorica, cioè a un processo logico che, a partire dagli individui immaginati come uguali e liberi, fonda un potere di coazione, che appare giusto, razionale, e unica via che possa garantire e realizzare i diritti – in realtà, non solo realizzarli, ma ancor prima, riuscire a pensarli18. Per un tale compito è necessa-

17 Una tale situazione può essere stata quella in cui i concetti nati nel giusnaturalismo hanno funzionato come critica alla organizzazione di fatto del comando, non basata sulla ragione dei diritti, quale era quella precedente la rivoluzione e l’epoca delle costituzioni, ma non quella aperta da questa ultima, in cui il potere risulta giuridicamente fondato. 18 Duso, Il concetto di potere cit., dove, ripercorrendo il testo hobbesiano, si cerca di mostrare come non sia possibile pensare la libertà come mancanza di impedimenti all’espressione di potenzialità degli individui e come indipendenza dalla volontà altrui se non si pensa a regole che rendano possibile per tutti una tale

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rio che la forza del potere collettivo sia incommensurabile con quella dei singoli, e sia anche indipendente, nei contenuti a cui dà luogo, dalla volontà di questi ultimi. Si presenta in tal modo la paradossale situazione secondo la quale la sovranità nasce dai diritti e dalla vo-lontà di tutti, ma è anche estranea e opposta alle volontà individuali. Il potere e l’espressione del comando hanno una cifra unitaria, che è quella del soggetto collettivo, il quale da una parte appare come identico ai singoli intesi nel loro insieme, ma tuttavia anche ad essi opposto. Non si tratta qui di un processo di unificazione e accordo di volontà diverse, ma dell’espressione dell’unica volontà politica come la volontà di tutti. Le differenze e la pluralità dei soggetti politici scompaiono all’interno di questo modo di concepire l’unità.

4. La rappresentanza e la perdita di dimensione politica dei cittadini

Se si pone a tema la modalità dell’espressione della volontà sovrana del soggetto collettivo, non può non emergere l’altro pilastro delle costituzioni, quello del corpo rappresentativo. In realtà il concetto di rappresentanza risulta necessariamente collegata a quello di so-vranità. Ciò risulta dalla lettura dello stesso Leviatano, se non si re-sta ingabbiati nella ridda delle interpretazioni e si tiene presente il processo logico che nel testo si dispiega. Infatti la descrizione della nascita e delle caratteristiche della sovranità, esposte nel XVII e nel XVIII capitolo, è preceduta dalla posizione e dalla soluzione del problema di come sia concepibile l’unità di un ente artificiale, co-stituito da una molteplicità di individui. È appunto nel XVI capitolo che si ha il segreto della costituzione della sovranità: si tratta del nuovo concetto di rappresentanza, che mostra insieme la possibilità di pensare il soggetto collettivo e la modalità di legittimazione dell’esercizio del potere19. La persona civile è pensabile solo se c’è qualcuno che la rappresenta, che esprime cioè la sua volontà e il rappresentante ha questa funzione in quanto è da tutti voluto. Non si

libertà, senza che qualcuno possa prevaricare sugli altri: e queste regole altro non sono che le leggi emanate dal sovrano. 19 Cfr. G. Duso, Genesi e logica della rappresentanza politica moderna, in Id., La rappresentanza politica: genesi e crisi del concetto, FrancoAngeli, Milano 2003, sp. pp. 77-92.

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pensa più che l’autorità possa essere calata dall’alto o basata in modo trascendente sul divino, o sulle qualità e l’autorevolezza di alcune persone; essa può essere solo frutto della volontà di tutti, cioè di un processo di autorizzazione.

Tale processo di creazione dell’autorità, che in Hobbes ha un ca-rattere meramente logico, nelle costituzioni moderne è fonte di pro-cedure concrete20: sono infatti le elezioni che si incaricano di realiz-zare quel processo della fondazione dal basso degli organi che sono destinati ad agire politicamente. Sono le elezioni che hanno il com-pito di mostrare che il potere non è di qualcuno in particolare, ma di tutto il corpo politico. Visto che tutti sono membri dello Stato, le elezioni dovrebbero evidenziare l’appartenenza a tutti del potere. Tale immagine è così forte e diffusa che si può spesso incontrare l’affermazione che “in democrazia sono i cittadini ad essere so-vrani”, o a dover essere tali di diritto. Tale affermazione è certo in-sostenibile, perché, se la sovranità consiste nella decisione somma ed efficace riguardante l’agire comune e se le volontà individuali non possono essere ipotizzate che come diverse (altrimenti non si porrebbe nemmeno il problema dell’ordine politico), ben si com-prende che una caratteristica come quella della sovranità non possa essere attribuita ad altri che alla totalità del corpo politico.

Anche se inconsistente, l’immagine dei cittadini sovrani è signi-ficativa, in quanto mostra quanto sia necessario al processo di legit-timazione il legame di identità tra i singoli e il soggetto collettivo. In realtà l’affermazione si traduce nell’altra: che “il popolo è so-vrano”. Le due affermazioni sembrano tuttavia compossibili grazie alla funzione che viene ad avere il concetto di popolo, il quale, se da una parte indica una realtà singolare, dall’altra comprende anche tutti i cittadini. Si tratta allora di chiedersi se e come possa darsi una tale identità tra il soggetto collettivo singolare e i molti individui che lo costituiscono. A questo proposito è utile riflettere sul famoso

20 Sul nesso esistente tra giusnaturalismo e costituzionalismo, con particolare riferimento alle carte costituzionali moderne e alle costituzioni novecentesche è intervenuto di recente P. Grossi (Cfr. Il costituzionalismo moderno tra mito e storia cit., sp. p. 29, che ribadisce anche il nesso tra giusnaturalismo e assolutismo giuridico (p. 31). È da ricordare infatti che nel giusnaturalismo nasce il dispositivo della sovranità con l’assolutizzazione della legge che comporta. Per la ricaduta dei concetti del giusnaturalismo nelle costituzioni rimando anche al mio. *** in Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Carocci, Roma 1999, pp.***

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ritornello che afferma che “il popolo è libero quando ubbidisce alle leggi che si è dato”. Ben si intende che non si tratta di una identità immediata, perché è il popolo in quanto soggetto collettivo che dà le leggi – o meglio sono coloro che, unitariamente, rappresentano questo soggetto – mentre i singoli cittadini sono coloro che ubbidi-scono. Insomma chi ubbidisce non è lo stesso che dà la legge. Tut-tavia la democrazia ha bisogno di affermare tale identità e proprio le elezioni – e il relativo concetto di rappresentanza – sono il tramite che dovrebbe realizzare il passaggio dalle volontà individuali a quella collettiva. Appare allora necessario riflettere su questo con-cetto di rappresentanza, che caratterizza le elezioni quali sono oggi concepite, per comprendere di che natura sia l’effettivo legame tra volontà individuale e volontà collettiva, e quale rapporto ci sia tra la formazione di quest’ultima e le modalità di legittimazione che ap-paiono quasi connaturate alla costituzione.

È a partire dalla Rivoluzione francese che irrompe nella storia il nuovo concetto di rappresentanza: non si tratta più di rappresentare le parti del popolo di fronte al re e al suo governo, ma di dar forma ad una volontà comune che non preesiste e non ha una sua oggetti-vità a prescindere da questo processo di formazione. E tale rappre-sentazione della volontà comune non può avere alla sua base che l’espressione concreta di volontà dei cittadini: “non c’è rappresen-tazione senza elezione” si ripete nella Francia rivoluzionaria, e que-sta convinzione ha così penetrato il senso comune che si identifica oggi il sistema rappresentativo con la costituzione democratica. Alla base dell’elezione stanno infatti i cittadini in una dimensione di uguaglianza, sottratti a qualsiasi tipo di appartenenza, vincolo, legame o raggruppamento. Si tratta allora di capire in cosa consiste l’espressione di volontà che si attua nel voto e quali siano i suoi presupposti.

Si suole dire che nell’elezione avvenga un atto di trasmissione di volontà politica. In realtà però l’azione politica può essere propria solo del soggetto collettivo, mentre nell’evento elettorale non è il popolo che vota, ma i singoli cittadini, i quali non trasmettono una loro volontà politica; innanzitutto perché la loro volontà è privata e non politica e inoltre perché il prodotto del voto non si determina in azioni da compiere, ma in persone da scegliere. Con il voto si desi-gnano coloro che, con gli altri eletti, esprimeranno la volontà co-

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mune e faranno le leggi. Sarebbe come dire: “io autorizzo costui ad esprimere per me la volontà comune che accetterò come mia vo-lontà politica”. Non siamo allora di fronte ad un atto di trasmissione di volontà politica, ma piuttosto ad un atto di autorizzazione, cioè di conferimento di autorità a coloro che devono esprimere la volontà comune e che devono esercitare il potere. Ma questa è proprio la logica della costituzione dell’autorità che avevamo trovato nel XVI capitolo del Leviatano di Hobbes, secondo la quale si costituisce la persona artificiale, la persona civile, mediante l’atto con cui tutti si dichiarano autori delle azioni che l’attore o gli attori politici (i rap-presentanti) faranno. E anche nelle elezioni si presenta l’aporia re-lativa al soggetto politico propria del concetto di rappresentanza quale emerge in Hobbes: tutti infatti sono autori di azioni che non compiono e gli attori compiono azioni di cui non sono autori e dunque, in fondo, responsabili21.

Che non si tratti di una trasmissione di volontà è bene espresso dalla formula del mandato libero, che caratterizza le elezioni mo-derne contro modalità medievali o cetuali di rappresentanza. Con il voto non si dà un mandato vincolante o imperativo, ma appunto si delega il deputato ad esprimere liberamente, con gli altri rappre-sentanti la volontà del soggetto collettivo. Ci si potrebbe soffermare ad analizzare tutti i mutamenti che questo rapporto formale ha avuto in particolare con l’avvento dei partiti di massa, che con i programmi si impegnano in determinate direzioni, creando così in qualche modo un legame determinato tra le volontà degli elettori e la volontà che sarà espressa in parlamento; è l’aspetto a causa del quale qualcuno parla del riemergere oggi di un mandato vincolato. A questo proposito si potrebbe innanzitutto constatare che i pro-grammi dei partiti non sono tanto finalizzati ad indicare le azioni politiche che realisticamente si intende compiere, quanto piuttosto al consenso che si vuole ottenere per allargare la propria base elet-torale e dunque aumentare la propria influenza sull’esercizio del

21 Per una riflessione teoretica sulla rappresentanza rimando al mio, La rappresentazione e l’arcano dell’Idea: introduzione a un problema di filosofia politica, in, La rappresentanza politica cit., pp. 17-54. Ma sulla storia del concetto si veda soprattutto H. Hofmann, Repräsentation. Studien zur Wort- und Begriffsgeschichte von der Antike bis ins 19 Jahrhundert, Duncker & Humblot, Berlin 20034 (tr. it. di C. Tommasi, Rappresentanza-rappresentazione, Parola e concetto dall’antichità all’Ottocento, Giuffrè, Milano 2007).

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potere. Ma non intendo approfondire questa questione; basti qui ri-cordare che un vincolo di partito non è tuttavia contemplato dalla costituzione, la quale non rinuncia alla libertà del mandato per un mandato vincolato da soggetti quali i partiti, i quali non sono nem-meno riconosciuti come veri e propri soggetti politici, ma solo come strumenti associativi atti a convogliare e accorpare le opinioni e le scelte.

La conquista dell’uguaglianza, che connota le elezioni moderne, e l’eliminazione di un voto corporativo sono pagate con la perdita di qualsiasi elemento oggettivo che non sia l’arbitrio e dunque l’opinione di chi vota. Non occorre tenere presente la complessità dei compiti dello Stato moderno, della legislazione e del governo, per ritenere che la quasi totalità del corpo elettorale, non avendo una strumentazione di conoscenza adeguata e non essendo ancorato a rapporti sociali determinati, vota in relazione al convincimento che in essi la propaganda elettorale riesce a produrre22. Nelle ele-zioni democratiche sono allora gli strumenti di formazione dell’opinione pubblica ad avere la massima importanza e ciò crea un’ulteriore problema, perché non tutti i cittadini si trovano in una situazione paritaria nei confronti della proprietà e della possibilità di agire attraverso i media, anche se a questo proposito la diffusione del computer e internet hanno comportato una notevole innova-zione, su cui la riflessione sembra ormai improrogabile.

La presente riflessione non si propone di compiere un’analisi della politica attuale, ma solo di riflettere sul rapporto tra i principi fondamentali e le procedure costituzionali in relazione al tema della pluralità e del protagonismo politico dei cittadini. A questo propo-sito le elezioni, così concepite comportano una ben strana situa-zione. Da una parte sono l’unico atto politico che i cittadini com-piono, e dall’altra, in quanto si risolvono appunto in un atto di auto-rizzazione, tolgono ad essi la possibilità di essere attori politici: li riducono in un ambito privato. L’esito del voto è la spoliticizzazione del cittadino. E ciò perché essi non contribuiscono effettivamente a 22 Cfr. su ciò le acute osservazioni di B. Karsenti, Elezione e giudizio di tutti, “Filosofia politica”, 3/2006, pp. 415-430; ma tutta la parte monografica del numero della rivista, dedicato appunto a “democrazia”, è rilevante per la riflessione qui svolta. Si veda ora anche Crise de la démocratie et gouvernement de la vie, sous la direction de G. Duso, J.F. Kervégan, Polimetrica, Monza 2007 (anche www.polimetrica.com).

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fare la legge, non determinano cioè il contenuto del comando a cui sono sottoposti: proprio in quanto il potere è fondato dal basso, il suo contenuto (non essendoci trasmissione di volontà politica) è de-ciso dall’alto. Ciononostante, la logica legittimante richiede che tutti si debbano riconoscere nella volontà del soggetto collettivo e dunque debbano ubbidire a-priori al suo comando. Il fondamento teorico della democrazia consiste nell’idea che il comando venga dal popolo e dunque il comando a cui si è soggetti è anche il pro-prio comando, la volontà rappresentata è la volontà politica che tutti debbono avere e dunque opporsi non è possibile se non nella forma del delitto, della pretesa da punire.

Di fronte a questa osservazione spesso si ritiene che la soluzione del problema starebbe nella democrazia diretta, anche se questa ap-pare impensabile nella situazione moderna caratterizzata dai grandi stati e dalla divisione del lavoro; allora la lontananza del cittadino dalla politica appare strutturale e inevitabile. In realtà ci si avvicina a cogliere la radice del problema solo se si comprende che questa aporia della democrazia rappresentativa non è superata nemmeno nel concetto della democrazia diretta, in cui tutti siano immediata-mente pensati come attori politici. Come infatti si può riscontrare nel Contratto sociale di Rousseau, nemmeno la negazione della rappresentanza in favore di una espressione diretta della volontà del popolo sfugge all’aporia: è da ricordare che anche Rousseau, nel momento in cui vuole pensare l’espressione diretta della volontà del popolo nel punto più alto, quello del processo di costituzione dello Stato, è costretto a ricorrere alla figura del grande Legislatore, che riproduce il dualismo delle volontà che in altra forma emerge nella rappresentanza hobbesiana23. Anche qui bisogna riconoscere che ciò che produce la perdita di politicità dei singoli è esattamente ciò che teoricamente sta al centro delle dottrine contrattualistiche e sto-ricamente alla base delle costituzioni moderne, cioè la funzione fondante attribuita ai singoli, e dunque l’identità e insieme alterità (estraneità) di molteplicità e unità.

23 Cfr. su ciò il § “Il popolo contro il rappresentante”, in La rappresentanza politica cit., pp. 92-96. Per le aporie del potere costituente, in relazione anche alla discussione attuale, si veda G. Rametta, Le “difficoltà” del potere costituente”, “Filosofia politica”, 3/2007, pp. 391-402.

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A questo proposito si può fare una prima considerazione: la ra-dice dell’aporia consiste – in relazione al concetto di sovranità ancor prima che a quello di democrazia – nella pretesa di eliminare il comando nella società; nella negazione di ciò che è stato al centro della riflessione politica per molti secoli, a partire dai Greci: che cioè la realtà politica sia costituita da chi governa e da chi è gover-nato, e che il rapporto di governo sia qualcosa di naturale e razio-nale, proprio cioè della natura dell’uomo e della comunità. Proprio l’assolutizzazione della volontà del singolo e della libertà intesa come assoluta indipendenza della volontà, produce la sottomissione piena e senza riserve al soggetto collettivo: questa dipendenza as-soluta non può essere legittimata che attraverso l’imputazione del comando proprio al colui che deve ubbidire. Ciò vale per Hobbes, per il quale non si può non ubbidire al sovrano perché ciò equivar-rebbe alla contraddizione di non volere ciò che si è voluto, e ciò vale anche in democrazia, perché l’origine del potere sta nella vo-lontà di tutti. È dunque in seguito alla pretesa che la volontà di ognuno conti tutto, che i cittadini si trovano privi di una dimensione politica di fronte al potere… perché il potere è già, in fondo, il loro potere.

Ma una seconda considerazione è qui ancora più rilevante, in quanto tocca il punto centrale della presente riflessione. La ragione dell’aporia sta nel modo di intendere l’unità politica nel contesto del dispositivo della sovranità e della democrazia. Meglio ancora: la ragione sta nel fatto che il collettivo viene pensato sulla base del concetto di individuo, inteso come una realtà in sé consistente. Se si parte dalla moltitudine indifferenziata degli individui, le infinite dif-ferenze non possono giocare nessun ruolo e non è più possibile lo-gicamente pensare ad un accordo tra volontà diverse, che siano ri-conosciute nella loro politicità. Infatti, paradossalmente, nel mo-mento in cui le dottrine contrattualistiche producono il concetto di sovranità, finisce un modo contrattualistico di intendere la politica, come accordo e concordia tra volontà diverse24. Il meccanismo del 24 Nello scenario dei contratti di signoria della prima età moderna la figura del contratto serve infatti per riconoscere soggetti diversi che danno luogo al patto e rimangono politicamente esistenti e attivi anche dopo il patto. Nelle dottrine giusnaturalistiche del contratto sociale invece i soggetti che danno luogo al patto (non il popolo e il principe, ma i singoli individui) scompaiono come soggetti di decisione politica nella realtà inaugurata (anche solo idealmente) dal patto, a

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contratto crea piuttosto qualcosa di nuovo: il potere unico della so-cietà. Dal momento che la società non può non essere caratterizzata da una forma di unità, se il punto di partenza, razionalmente fon-dante, sono i molti individui, l’unità non può essere pensata che come altra, e cioè diversa e a loro contrapposta. Ciò vale per la lo-gica rappresentativa, ma anche per una ipotetica volontà del popolo che si possa esprimere direttamente. L’aporia della sovranità demo-cratica consiste nel fatto che il comando collettivo è attribuito al popolo e dunque anche a tutti, ma contemporaneamente è a tutti contrapposto. Insomma la radice logica dell’aporia sta nella rela-zione molti-uno, una relazione che è di identità, ma contemporane-amente di contrapposizione. In questo modo di intendere l’unità non è possibile pensare la pluralità. Per fare ciò bisogna pensare al-trimenti l’unità politica e dunque superare il momento genetico co-stituito dalla moltitudine dei singoli individui: bisogna superare il rapporto, intrinseco alle nostre costituzioni, di soggetto individuale e soggetto collettivo.

5. Un altro modo di intendere l’unità: il principio del governo

Ma se quella descritta è la logica della legittimazione democratica, al di là delle aporie qui indicate, ben si comprende che essa non è concepibile per l’Europa (che sarebbe così intesa nella forma dello Stato sovrano), se non cancellando i membri che vengono a costi-tuirla. Lasciando per il momento da parte il modo in cui questi membri, gli Stati, sono da intendere, di può dire che per concepire l’Europa come realtà politica è necessario pensare la politica in un modo diverso da quello della forma politica che ha imperato nei se-coli del cosiddetto jus publicum europaeum, in cui centrale è stata la figura degli Stati sovrani. Ciò significa pensare in modo diverso l’unità politica e con questa anche il comando che dà luogo all’obbligazione politica. I membri di questa realtà non debbono cioè scomparire di fronte ad un comando che è pensato come il favore dell’unica decisione che da una parte è espressa dal sovrano-rappresentante ma che dall’altra ha tutti i singoli come autori. Il confronto tra Althusius e Hobbes è a questo proposito particolarmente illuminante (Cfr. l’Introduzione a Il contratto sociale nella filosofia politica moderna cit., pp. 13 ss.).

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loro, ma che è tuttavia a loro estraneo e contrapposto; l’unità di questa nuova realtà deve mantenere la pluralità e le differenze dei membri che la costituiscono. Se si cerca di individuare un tale modo di pensare si può utilizzare il termine di federalismo, ma con la consapevolezza che non si tratta di una modalità che si pone all’interno dell’orizzonte concettuale dello Stato (moderno), come una sua variante, ma è un modo diverso di pensare la politica che non implica il concetto di sovranità-potere e nemmeno le procedure della legittimazione democratica, che non parte dal ruolo fondante degli individui e dunque si trova oltre il rapporto – che in realtà è solo frutto dell’immaginazione teorica – di individuo e Stato25.

Si è detto che, se il ragionamento politico parte dalla finzione che alla base ci siano individui uguali e autonomi, e dunque una moltitudine indistinta di individui, l’unico risultato logico è costi-tuito dalla sovranità e dal modo ad essa proprio di intendere l’unità politica, che non riesce mai a mediare in sé i soggetti che in essa si ritrovano. Un altro modo di pensare l’unità richiede dunque di non usare il concetto di individuo, nei modi in cui lo ha usato la scienza politica moderna. Anche l’esperienza che ci circonda mostra che quel ruolo dell’individuo è una finzione: in realtà numerose sono le aggregazioni presenti nella società che agiscono anche indiretta-mente, al di là di quanto recitano i canoni della legittimazione de-mocratica, sulle decisioni politiche. Dunque parti, gruppi, aggrega-zioni, rapporti: una pluralità che bisogna riuscire a pensare – e con ciò anche a responsabilizzare – politicamente: una pluralità non di realtà autonome e in sé sufficienti, ma di soggetti che sono di ne- 25 Non è certo questo federalismo che è presente nel dibattito attuale. Si veda come esempio la contrapposizione ricordata da Beaud, nel saggio introduttivo agli atti di un recente convegno sui processi della costituzione europea, tra federalisti e governamentalisti: i primi che tendono ad accentuare il potere degli organi centrali e assumono un’ottica unitaria, e i secondi che tendono ad attenuare il legame comune privilegiando l’autonomia decisionale degli stati (Cfr. O. Beaud, Démocratie, federalisme et constitution, in L’Europe en voie de constitution cit., sp. pp. 8-9). Si può notare come, in ambedue i casi, ci si trovi all’interno dell’ottica della sovranità e il problema stia solo nel decidere quanto di essa resti agli Stati e quanta sia ceduta al nuovo Stato europeo. Come ho ricordato sopra, mi sembra invece che nel nuovo lavoro Théorie de la federation, anche Beaud sostenga la necessità di pensare il federalismo oltre i concetti di Stato e di sovranità. Il problema è quello di avere presente tutto l’orizzonte concettuale che stato e sovranità implicano per riuscire in questo non facile compito di pensare la politica in modo diverso da quello che è ormai consueto sia nel linguaggio comune, sia nelle discipline scientifiche.

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cessità parte di una realtà comune. In questo caso siamo di fronte ad una realtà politica composta di molteplici parti che devono lavorare al loro accordo, ma che, nello stesso tempo, a causa della loro di-versità e dei loro interessi, possono divergere ed essere in conflitto.

Se si considera una realtà politica come plurale e l’accordo come compito continuamente da attuare ed anche contemporaneamente sempre a rischio, risulta necessario pensare ad una guida, ad un co-mando, ad una funzione che nella lunga tradizione precedente alla nascita dei concetti moderni, era chiamata di governo26. Questo è un modo diverso di intendere il comando, in quanto comporta da una parte la consapevolezza dell’alterità tra chi dà il comando e chi ubbidisce, e dall’altra l’irriducibilità ad una dimensione meramente formale in quanto è irrinunciabile la relazione a punti di riferimento condivisi e il giudizio sui contenuti che di volta in volta caratteriz-zano il comando. Proprio per questi motivi nella nozione di governo non c’è la passività che è propria di chi è soggetto al potere: quella passività – ubbidienza a priori a qualsiasi comando che venga dal soggetto collettivo, attraverso coloro che sono stati autorizzati – è infatti concepibile solo in quanto si immagina che chi ubbidisce è in fondo anche colui che dà il comando. La comprensione che il co-mando viene da colui che governa, anche se – e non può che essere così – chi governa è scelto e istituito proprio dai governati, fa sì non solo che la volontà espressa dal governante sia proprio la sua e non quella della totalità dei governati e cioè del soggetto collettivo, ma anche che i governati siano presenti politicamente in modo istitu-zionale, di fronte a chi governa. Sono cioè politicamente attivi, at-tori politici essi stessi, anche se – anzi, proprio in quanto – non hanno a loro disposizione una decisione sovrana e non si identifi-cano con una volontà sovrana. Ma questo è pensabile se la pluralità

26 Per la differenza tra la concezione del governo e il moderno concetto di potere politico nella forma della sovranità e per la determinazione del significato e delle implicazioni del principio del governo, rimando al mio Fine del governo e nascita del potere, in La logica del potere cit., pp. 83-122 e anche Il potere e la nascita dei concetti politici moderni cit., sp. pp. 184-188. Mi pare che la proposta qui avanzata, di un modo diverso di intendere l’unità di una realtà politica, porti ad un più deciso superamento del concetto di sovranità (proprio nella direzione di comprendere la realtà e insieme orientare i processi in corso) di quanto non avvenga attraverso l’immagine della elissi a due fuochi proposta da Fioravanti in questo stesso volume.

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non è quella fittizia dei singoli, ma piuttosto quella determinata delle forme di aggregazione che sono presenti nella società.

In questo modo è intesa in modo diverso l’unità di una realtà politica. Quest’ultima implica necessariamente la pluralità, ma pro-prio per questo necessita di un rapporto ad unum, che consiste nell’istanza di governo. Tanto più forte è la presenza politica e isti-tuzionale di una pluralità di soggetti, tanto più unitaria deve essere l’istanza di guida e di governo: sarebbe contraddittorio che si po-nesse essa stessa come intrinsecamente plurale, magari in quanto costituita da membri non solo diversi, ma anche in conflitto tra loro27. Mentre nel caso dell’unità propria della forma politica i sog-getti scompaiono politicamente e la loro volontà politica è quella che è espressa dal nesso sovranità-rappresentanza, cioè dalla rap-presentanza come modo di espressione dell’unica volontà del sog-getto politico, qui si attua una dialettica continua e difficile tra plu-ralità e unità del governo: certo una dialettica che non è risolta a-priori dalla garanzia e dalla sicurezza che ha costituito il massimo fine della forma politica moderna.

Se, in questa altra concezione dell’unità si supera il rapporto di identità e opposizione insieme di soggetto individuale e soggetto collettivo, di individuo e di sovranità, ci si trova anche a pensare differentemente la rappresentanza. Questa infatti non dà più forma all’unica volontà del soggetto collettivo, ma consente la presenza politica dei diversi soggetti; non si basa sulla uguaglianza-indiffe-renza degli individui, ma si riferisce a differenze determinate, con le quali in modo complesso e a loro volta plurale i singoli hanno a che fare. La rappresentanza così concepita permetterebbe alle varie parti della società di essere presenti politicamente con i loro biso-gni, interessi e punti di vista di fronte al governo, ma di essere an-che contemporaneamente responsabili in relazione alle scelte che riguardano la vita comune. 27 È esemplare a questo riguardo il modo in cui Althusius tratta la democrazia come forma di governo: non è il governo democratico, che è istanza unitaria e dunque l’elemento monarchico della costituzione, che non può che essere mista, ad esprimere la volontà del popolo: questa è piuttosto presente nelle organizzazioni collegiali, nelle quali, in modo plurale, il popolo è istituzionalmente sempre presente e con le quali il governo deve continuamente confrontarsi (cfr. G. Duso La costituzione mista e il principio del governo: il caso Althusius, “Filosofia politica”, XIX (2005), n. 1, pp. 77-96, sp. pp. 90-93.

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Certo, per intendere in questo modo la pluralità di una realtà po-litica si deve dare un orizzonte di condivisione: ci si deve sentire parti di un tutto. Se non c’è questo sforzo, che è sempre nuovo e di-verso, e si pensa inevitabile che le opinioni – unico punto di riferi-mento nel momento in cui ogni elemento oggettivo è dissolto nell’arbitrio dei punti di vista soggettivi – siano diverse e opposte tra loro, allora alla contrapposizione delle opinioni non può far fronte che l’unicità e la formalità dell’obbligazione politica. Ma questa è appunto la vicenda della sovranità, che non è compatibile con la pluralità politica, ma è invece consona ad un pluralismo ide-ologico e di opinioni. Se si tiene presente ciò, non mi sembra sia da condividere l’affermazione che l’epoca moderna è l’epoca del plu-ralismo di contro all’assolutismo che caratterizzerebbe secoli pre-cedenti. Mi sembra piuttosto più corrispondente al dispositivo mo-derno con cui si pensa la politica riconoscere che l’assolutizzazione del punto di vista soggettivo lascia il campo alla pluralità indefinita delle opinioni, che ha come corrispettivo l’unità politica della so-vranità.

6. Un federalismo senza stato?

Si potrebbe essere tentati di individuare in questo modo diverso di pensare l’unità politica qualche cosa che ci riporta al passato. Non è difficile infatti riconoscere una certa consonanza tra questo quadro e quello della pubblicistica imperiale tedesca, o addirittura trovare legami con modi antichi di intendere la politica. Ma questo avviene non certo perché ci si riferisca a modelli antichi, ma perché si può meglio capire il presente se non si resta all’interno dei concetti pro-dotti dalla teoria moderna28, o meglio perché ci si appropria della possibilità di pensare la realtà politica e la questione che sta al suo centro proprio nel momento in cui si riesca a superare la pretesa

28 Per una precisazione del senso determinato e limitato dell’espressione “concetti politici moderni”, rimando al mio Dalla storia concettuale alla filosofia politica, “Filosofia politica” 1/2007, sp. pp. 71-74. Una considerazione della realtà presente, o della costituzione materiale, richiede il superamento di quelli che chiamo i concetti moderni e la forma giuridica, nella direzione che ravviso nel contributo di Pierangelo Schiera contenuto in questo volume.

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universalità dei concetti moderni e la necessità di rimanere all’interno dei loro presupposti.

Non è un caso che i riferimenti alla Politica di Althusius siano frequenti in relazione sia ai processi di unificazione dell’Europa, sia allo scenario globale, in cui da una parte la complessità e la plura-lità dei rapporti e dei processi mostrano inservibile il dispositivo semplice e univoco della sovranità, e dall’altra il diritto riprende una dimensione non riducibile alla fonte unica dello Stato, come per molto tempo è stato. È da riconoscere che riflettere oggi sul pen-siero di Althusius risulti assai produttivo, a patto però che non lo si legga sotto l’ipoteca dei concetti moderni, come avviene quando lo si interpreta ad esempio come una concezione del potere dal basso, o come una diversa concezione della sovranità, o come un pensiero della politica che la riduce alla sola dimensione orizzontale della cooperazione. Se si evitano questi fraintendimenti si può ravvisare in lui la capacità di pensare una realtà plurale e la configurazione, attraverso il principio del governo e le modalità della rappresen-tanza, di una concezione della politica che può effettivamente es-sere intesa come federalistica, se con questo termine si allude ad una dimensione pattizia e plurale della politica e ad una funzione del diritto e della giustizia che la concettualità della sovranità ha tentato di negare considerandole pericolose per la sicurezza e per l’ordine29.

Nello stesso tempo è tuttavia da riconoscere che il pensiero di Althusius non può essere ridotto ad un modello, a cui guardare per affrontare il nostro problema. Si tratta di una modalità di pensare

29 Il federalismo, essendo una concezione della politica basata sul patto, sull’accordo di soggetti politici diversi non può avere quella garanzia di eliminazione del conflitto che è disperatamente rincorsa dalla forma politica moderna sulla base del monopolio della forza e dell’unicità del soggetto politico. Per la produttività del riferimento ad Althusius in relazione alla tematica europea, ma anche per le avvertenze necessarie ad evitare fraintendimenti facendo del suo pensiero qualche cosa di totalmente assimilato ai concetti dello Stato che si vogliono superare, rimando al mio L’Europa e la fine della sovranità cit. sp. pp. 126-134. Per una breve e semplice presentazione del pensiero di Althusius cfr. G. Duso, Il governo e l’ordine delle consociazioni, in Id. (a cura), Il potere. Per la storia della filosofia politica moderna, Carocci, Roma 20012, pp. 77-94; ma per il modo pluralista e federalista di pensare la politica da parte di Althusius si veda Id., Una prima esposizione del pensiero politico di Althusius: la dottrina del patto e della costituzione del regno, “Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno”, n. 25 (1996), pp. 65-126.

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governo e pluralità in una situazione che da una parte ha come sfondo unitario il Cristianesimo e la Bibbia, e dall’altra l’idea dell’impero e la realtà di una società cetuale e gerarchicamente or-ganizzata. Non è in questi termini che si può porre oggi il nostro problema. Tanto è allora produttivo il nostro attraversamento del pensiero di Althusius, altrettanto necessaria è la consapevolezza che pensare mediante le categorie di governo e pluralità oggi e in rela-zione al tema Europa è un compito nostro e tutto nuovo, che non può trovare scorciatoie o modelli da applicare.

In ogni caso lo sforzo di pensare l’Europa con le categorie del governo e della pluralità sembra essere più produttivo di tutti quei tentativi che restano impigliati nelle maglie dei concetti del dispo-sitivo della sovranità. Mentre i processi della legittimazione demo-cratica comportano la perdita di soggettività politica dei membri in favore della nuova unità a cui danno luogo, attraverso queste cate-gorie invece è possibile pensare insieme l’unità, ma anche il perma-nere politico dei membri che concorrono alla formazione della nuova realtà. Certo non si tratta di una unità garantita a-priori, come avviene nel caso della sovranità, in cui l’espressione dell’unica vo-lontà è garantita dalla costruzione formale e dalla legge della mag-gioranza. Qui invece l’unità è un cammino sempre in fieri, che comporta il dibattito, il controllo e la discussione continua dei membri associati: dunque una pluralità di soggetti sempre presenti, e nello stesso tempo una guida ed una funzione di comando che la-vori all’accordo delle parti.

Se ci fermiamo a riflettere sui membri che costituiscono questa pluralità, mi sembra che non possiamo però più intenderli mediante la forma della statualità, alla quale è essenziale la caratteristica della sovranità. Perciò se è vero che lo strumento costituzionale nella sua funzione classica è legato alla sovranità e ad un modo di intendere l’unità politica che non appare utilizzabile per l’Europa, è anche vero che ricordare che i processi di formazione dell’Europa hanno richiesto dei trattati e la forma del trattato implica la necessaria autonomia decisionale dei contraenti (che scompare invece nella costituzione)30, è un modo riduttivo di leggere la realtà odierna, che

30 Per tutti si veda per tutti quanto dice con la consueta chiarezza concettuale D. Grimm, Vertrag oder Verfassung, in “Staatswissenschaft und Staatspraxis” 1995, pp. 512 ss., che ricorda la differenza strutturale in relazione ai soggetti implicati

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non riesce ad inrendere l’Europa come realtà politica nuova. Si ri-schia infatti di rimanere ancorati all’immagine degli Stati sovrani in un momento in cui la realtà appare trasformata. Quegli Stati infatti che intendono ritenersi membri di una più ampia e unitaria realtà cambiano di natura, come pure stanno cambiando di natura le loro costituzioni: in quanto parti di una nuova realtà non hanno più l’autonomia e l’indipendenza che caratterizzano la decisione so-vrana. È appunto un modo nuovo di pensare l’unità politica che ap-pare necessario, non tanto aumentando i centri più o meno in com-petizione tra loro, ma riconoscendo la pluralità dei soggetti politici che costituiscono l’unità; e ciò anche all’interno della realtà che è stata fino ad ora definita mediante la forma-stato. Il concetto di so-vranità dovrebbe in questa direzione essere superato sia per l’Europa, sia per gli Stati unificati.

Se pensare federalisticamente è un altro modo di pensare la po-litica, questo non può dunque non coinvolgere anche quegli aggre-gati che sono i membri dell’Unione europea. Già si è detto che in quanto tale il dispositivo della sovranità appare aporetico e, sia con-cettualmente, sia nella pratica delle procedure a cui dà luogo, pro-duce la perdita della dimensione politica dei cittadini: rende impen-sabile la partecipazione politica. Se, per pensare questa dimensione attiva dei membri dell’Europa, così come dei membri degli Stati è necessario quello che abbiamo chiamato un modo nuovo di pensare la politica, non viene in tal modo evocato qualcosa di utopico, o che si collochi in un futuro a venire. Esso appare invece necessario sia nell’analisi critica dei concetti della forma politica moderna, sia per intendere la realtà in cui viviamo.

che connota la forma del trattato e quella della costituzione. Tale distinzione è innegabile e fa giustizia di tante confusioni: resta tuttavia ancorata all’autonomia che è propria degli stati nella loro sovranità e non siesce a pensare in modo diverso una realtà politica che sia una e nello stesso tempo anche plurale. La stessa difficoltà mi pare che permanga anche nella interessante analisi di I. Pernice e F. Mayer, La costituzione integrata dell’Europa, in G. Zagrebelsky (a cura), Diritti e costituzione nell’Unione europea, Laterza, Bari-Roma 2003, pp. 43-68; di quest’ultimo saggio è tuttavia da condividere l’idea di “costituzione senza Stato”, formula che si avvicina a quella proposta nel presente saggio, con la consapevolezza però che ciò richiede un mutamento radicale del modo di pensare la politica che mette in crisi il concetto di potere politico e la stessa modalità di pensare da un punto di vista costituzionale la modalità della sua legittimazione.

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Per quanto riguarda la teoria si può notare che, se è vero, come si è ricordato, che la democrazia (sulla base del concetto di sovra-nità) consiste in uno stratagemma logico che tende a negare il go-verno e il comando dell’uomo sull’uomo, facendo di chi ubbidisce la fonte stessa del comando, tuttavia non riesce ad evitare il co-mando, nella sua eteronomia nei confronti della volontà soggettiva individuale. Che il comando provenga da chi lo dà, da chi esercita il potere, rimane realtà nonostante le strategie legittimanti, solo che una tale realtà non riesce ad essere pensata se si resta all’interno delle teorie legittimanti. Insomma la teoria della sovranità e della democrazia non può non implicare il governo, ma non permette più di pensarlo31.

Ugualmente nella concezione contemporanea della democrazia non è cancellata la pluralità; non tanto quella legata alle infinite differenze tra i singoli, che appaiono politicamente irrilevanti nella loro infinità varietà, ma in quella delle aggregazioni, che, sia pure collocate nella società civile, esercitano indirettamente, con capacità e forza assai diverse tra loro, influenza ed efficacia nelle decisioni politiche, in modo tale da rendere poco rilevante l’uguaglianza che si esprime nel voto. Ma, anche in relazione a ciò, l’immaginazione dicotomica di società civile – Stato, che sta alla base delle costituzioni, da una parte legittima queste aggregazioni all’espressione semplice dei loro bisogni e interessi, e dall’altra im-pedisce di individuarne la responsabilità politica. Insomma la realtà che chiamiamo Stato è sempre meno comprensibile con i concetti fondamentali a cui si è accennato: una istanza sovrana, la legittima-zione che viene dalla rappresentanza, l’uguaglianza che caratterizza il peso dei singoli per la formazione della volontà politica, una unità che impedisce il condizionamento delle parti in quanto è sopra di esse, la distinzione tra società civile e stato, l’affermazione che il potere è di tutti i cittadini mediante il meccanismo delle elezioni, la riconduzione del governo a mero potere esecutivo, e dunque a quel potere del soggetto collettivo che si esprimerebbe nel Parlamento. Anche la costituzione, che è basata su questi principi, è sempre

31 Per il ritrovamento della categoria del governo al cuore della stessa legittimazione democratica, e dunque come la realtà non pensata della democrazia, rimando al mio, La democrazia e il problema del governo, “Filosofia politica”, 3/2006, sp. pp. 381-385.

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meno capace sia di parlare della realtà alla cui realizzazione contri-buisce, sia di normare questa realtà. Non solo non riesce a costituire la norma fondamentale, ma, proprio con la razionalità formale che in essa si esprime, rende possibile un gioco di forze nella realtà po-litica che non viene portato alla luce e che appare in contraddizione con le intenzioni che caratterizzano gli stessi principi costituzionali. Perciò anche da parte di alcuni costituzionalisti si è cominciato ad usare il termine di decostituzionalizzazione per indicare la situa-zione in cui ci si trova nei confronti della forma classica e della funzione che la costituzione ha avuto fino ad oggi32.

Forse allora quella via che si è indicata come federalismo appare necessaria per l’Europa ma anche per le realtà statali, per rendere possibile il pensiero della pluralità e per rendere effettiva la parteci-pazione politica dei cittadini.

32 Cfr, H. Hofmann, Riflessioni sull’origine, lo sviluppo e la crisi del concetto di costituzione cit., pp. 227-237 e Vom Wesen der Verfassung, cit., p. 19; sulle difficoltà che incontra la capacità normativa della costituzione cfr. D. Grimm, Die Zukunft der Verfassung, Suhrkamp, Frankfurt am M. 1991, sp. pp. 241 ss. e anche G. Zagrebelsky, I paradossi della riforma costituzionale, in Il futuro della costituzione cit., pp. 293-314, il quale critica i tentativi astratti di grande riforma, in favore di un atteggiamento che tenti costantemente con interventi particolari apparentemente limitati, di unificare processi materiali e forma costituzionale. Sul tema della decostituzionalizzazione risulta efficace la descrizione di A. Brandalise, Democrazia e decostituzionalizzazione, “Filosofia politica”, 3/2006, pp. 403-414.

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Collana di Filosofia Politica a cura di Giuseppe Duso Maurizio Merlo (2006), La legge e la coscienza, Polimetrica Publisher, Italy. ISBN 978-88-7699-032-8 Giuseppe Duso (2007), La logica del potere. Storia concettuale come filosofia politica, Polimetrica Publisher, Italy. ISBN 978-88-7699-067-0 Giuseppe Duso, Jean-François Kervégan, sous le direction de (2007), Crise de la démocratie et gouvernement de la vie, Polimetrica Publisher, Italy. ISBN 978-88-7699-092-2 Mario Bertolissi, Giuseppe Duso, Antonino Scalone, eds (2008), La costituzione e il problema della pluralità, Polimetrica Publisher, Italy. ISBN 978-88-7699-119-6

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