omenica JENNER MELETTI eMASSIMO MINELLA DOMENICA...

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DOMENICA 27 GENNAIO 2008 D omenica La di Repubblica MONFALCONE (Gorizia) C’ è un uomo in un capannone. È basso, ha ca- pelli bianchi e mani da boxeur. Intorno a lui, barche di legno in allestimento, sollevate da terra come scheletri di cetacei in un museo di storia naturale, tutte col muso verso il mare, come se nuotasse- ro in branco. A prima vista è uno qualunque, pancetta e faccia tranquilla da pensionato che passa la vita al bar. Poi succede che costui afferri una pialla e le mani comincino a danzare attorno a un albero da vela steso su un tavolaccio. In pochi minuti scat- ta una metamorfosi e il piccolo uomo qualunque diventa un gi- gante. Accarezza il legno come se accordasse uno strumento, ne prende le misure, poi lo affronta con la lama. Rifila, rastrema, to- glie le minime imperfezioni. Cerca la forma assoluta. La barca di Dio. In quei momenti Nico Giraldi, maestro d’ascia, settanta- cinque anni da Pirano d’Istria, non è più falegname: diventa liu- taio, direttore d’orchestra, Kappelmeister. Se un violoncellista tenesse un concerto lì accanto, tutte le chiglie sospese risuone- rebbero come casse armoniche. Ma già ora il banco s’è trasfor- mato in palcoscenico, i progetti appesi ai muri in spartiti, il ca- pannone — ingombro di scale, cavalletti, segatura, pompe, aspiratori, colle e morsetti — nel magazzino di un teatro lirico. Operai-spettatori osservano l’uomo e il legno che si trasforma- no assieme, come fossero una cosa sola. (segue nelle pagine successive) N egli interessanti e istruttivi programmi culturali di tele- visione pubblica e privata, tra grandi fratelli, sorelle, cu- gini, isole, veline e salti e balli e quiz e altre robe senz’al- tro molto buone, manca un programma che si potreb- be chiamare Mani perdute. In Italia, ma forse nel mondo, stiamo per- dendo l’uso delle mani e pare che nessuno se ne accorga. Perché allo- ra non inventare un programma dove una troupe televisiva gira la no- stra vecchia penisola a intervistare e poi far vedere gli ultimi sopravvissuti che ancora fanno qualcosa con le mani? Chissà, potreb- be darsi che qualche giovane, vedendo Mani perdute, possa prendere passione e magari imparare uno di quei mestieri che ormai stanno scomparendo dalla nostra cultura. Prendiamo a esempio il falegname. Ce n’è più pochi ormai di falegnami in giro. I “marangons” li chiama- vano in Friuli. Una volta, nei paesi di montagna, ogni casa era una pic- cola falegnameria. Prima ancora delle lenzuola, della dote o del mobi- lio, nella casa entrava il banco da falegname. I banchi si costruivano su altri banchi, le viti delle morse le tornivano dal duro maggiociondolo. Tutti i vecchi capifamiglia erano esperti falegnami, si diceva che erano capaci di far le ali alle mosche. E insegnavano l’arte a figli e nipoti avan- ti di andare all’altro mondo. Se due morosi intendevano sposarsi, l’uo- mo andava a scegliere i legni per la mobilia due anni prima. Dovevano stagionare almeno ventiquattro mesi col muso a ponente, dove il sole va a morire, per diventare buoni, durare e non imbarcarsi. (segue nelle pagine successive) cultura Quando il fascismo ci dava del voi NELLO AJELLO e STEFANO BARTEZZAGHI la lettura Cesare Pavese, lo scrittore da cucciolo MASSIMO NOVELLI e CESARE PAVESE i sapori Metti una sera a cena... il whisky GIANNI CLERICI e LICIA GRANELLO PAOLO RUMIZ MAURO CORONA l’immagine La foto del crimine diventa arte FILIPPO CECCARELLI falegname I mestieri artigiani sono in crisi, le mani sapienti allevate in bottega stanno sparendo Un malinconico segno dei tempi nell’Italia malata di consumismo e precariato L’ultimo FOTO CHARLES E. ROTKIN/CORBIS la memoria Dietro le quinte del crollo sovietico LEONARDO COEN e SANDRO VIOLA il fatto Genova, sul fronte del porto JENNER MELETTI e MASSIMO MINELLA Repubblica Nazionale

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DOMENICA 27GENNAIO 2008

DomenicaLa

di Repubblica

MONFALCONE (Gorizia)

C’è un uomo in un capannone. È basso, ha ca-pelli bianchi e mani da boxeur. Intorno a lui,barche di legno in allestimento, sollevate daterra come scheletri di cetacei in un museo di

storia naturale, tutte col muso verso il mare, come se nuotasse-ro in branco. A prima vista è uno qualunque, pancetta e facciatranquilla da pensionato che passa la vita al bar. Poi succede checostui afferri una pialla e le mani comincino a danzare attornoa un albero da vela steso su un tavolaccio. In pochi minuti scat-ta una metamorfosi e il piccolo uomo qualunque diventa un gi-gante. Accarezza il legno come se accordasse uno strumento, neprende le misure, poi lo affronta con la lama. Rifila, rastrema, to-glie le minime imperfezioni. Cerca la forma assoluta. La barcadi Dio. In quei momenti Nico Giraldi, maestro d’ascia, settanta-cinque anni da Pirano d’Istria, non è più falegname: diventa liu-taio, direttore d’orchestra, Kappelmeister. Se un violoncellistatenesse un concerto lì accanto, tutte le chiglie sospese risuone-rebbero come casse armoniche. Ma già ora il banco s’è trasfor-mato in palcoscenico, i progetti appesi ai muri in spartiti, il ca-pannone — ingombro di scale, cavalletti, segatura, pompe,aspiratori, colle e morsetti — nel magazzino di un teatro lirico.Operai-spettatori osservano l’uomo e il legno che si trasforma-no assieme, come fossero una cosa sola.

(segue nelle pagine successive)

Negliinteressanti e istruttivi programmi culturali di tele-visione pubblica e privata, tra grandi fratelli, sorelle, cu-gini, isole, veline e salti e balli e quiz e altre robe senz’al-tro molto buone, manca un programma che si potreb-

be chiamare Mani perdute. In Italia, ma forse nel mondo, stiamo per-dendo l’uso delle mani e pare che nessuno se ne accorga. Perché allo-ra non inventare un programma dove una troupe televisiva gira la no-stra vecchia penisola a intervistare e poi far vedere gli ultimisopravvissuti che ancora fanno qualcosa con le mani? Chissà, potreb-be darsi che qualche giovane, vedendo Mani perdute, possa prenderepassione e magari imparare uno di quei mestieri che ormai stannoscomparendo dalla nostra cultura. Prendiamo a esempio il falegname.Ce n’è più pochi ormai di falegnami in giro. I “marangons” li chiama-vano in Friuli. Una volta, nei paesi di montagna, ogni casa era una pic-cola falegnameria. Prima ancora delle lenzuola, della dote o del mobi-lio, nella casa entrava il banco da falegname. I banchi si costruivano sualtri banchi, le viti delle morse le tornivano dal duro maggiociondolo.Tutti i vecchi capifamiglia erano esperti falegnami, si diceva che eranocapaci di far le ali alle mosche. E insegnavano l’arte a figli e nipoti avan-ti di andare all’altro mondo. Se due morosi intendevano sposarsi, l’uo-mo andava a scegliere i legni per la mobilia due anni prima. Dovevanostagionare almeno ventiquattro mesi col muso a ponente, dove il soleva a morire, per diventare buoni, durare e non imbarcarsi.

(segue nelle pagine successive)

cultura

Quando il fascismo ci dava del voiNELLO AJELLO e STEFANO BARTEZZAGHI

la lettura

Cesare Pavese, lo scrittore da cuccioloMASSIMO NOVELLI e CESARE PAVESE

i sapori

Metti una sera a cena... il whiskyGIANNI CLERICI e LICIA GRANELLO

PAOLO RUMIZ MAURO CORONA l’immagine

La foto del crimine diventa arteFILIPPO CECCARELLI

falegname

I mestieri artigianisono in crisi,le mani sapientiallevate in bottegastanno sparendoUn malinconicosegno dei tempinell’Italia malatadi consumismoe precariato

L’ultimo

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la memoria

Dietro le quinte del crollo sovieticoLEONARDO COEN e SANDRO VIOLA

il fatto

Genova, sul fronte del portoJENNER MELETTI e MASSIMO MINELLA

Repubblica Nazionale

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la copertinaMestieri a perdere

Nico Giraldi, settantacinqueanni, da Pirano d’Istria,è l’“uomo degli alberi”Non quelli dei boschi,quelli delle barche,che sa fare senza usodi macchine. Non ha allievi,non lascia eredi

28 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27GENNAIO 2008

PAOLO RUMIZ

Il maestro d’asciae la danza del legno

deva scovar, no podeva piturar, no podeva farstraordinari, no podeva saltar un giorno de ferie seserviva». Molti erano formati da una scuola, eranoanche preparati in teoria, ma era anche peggio,perché credevano di sapere già tutto, e così alza-vano le pretese e smettevano di far pratica.

Fuori, oltre le foci del Timavo, le barche attrac-cate, le alberature e le anatre, cresce l’ultimo, tur-rito gigante da crociera della Fincantieri, a Mon-falcone, con le Alpi innevate sullo sfondo. Sonodue chilometri appena, ma in realtà sono gli anti-podi, infinitamente lontani, della costruzione na-vale. Potenza contro bellezza, elettronica contromanualità, subappalti internazionali contro arti-gianato autoctono. Lì cambia tutto, qui le regole-base restano le stesse. Nove mesi per fare unoscafo, «come per i cristiani». Un’ora di lavoro perogni chilo di barca.

Mario Mallardi, barese, ha cominciato atrent’anni e, nonostante corsi intensivi di carpen-teria navale in Inghilterra, sa di non poter acqui-stare la sensibilità di uno che ha cominciato sco-pando bottega da ragazzino. «Nico ha cominciatoda piccolo, per questo ciò che fa rasenta la liuteria.Qualcosa che, temo, sarà irriproducibile. Corsi difasciame di diciotto metri, larghi al centro e strettia prua e a poppa, con tolleranza zero su zero… Tut-to a mano… Perché ha imparato così bene? Perchéle colle di una volta non perdonavano errori. Oggiabbiamo quelle a presa lenta e i buchi si tappanocomunque con resina epossidica».

Ora il capannone pare un set cinematografico.Dietro ogni barca c’è una storia e una fase di lavo-razione, e tutto deve essere pronto immediata-mente per quando Nico e gli altri gireranno la loroscena con viti, pialla, colle, morsetti. I banconi congli strumenti elettrici, la sega a nastro, il trapano acolonna, il “combinato” con frese, seghe e piallecapaci di sei operazioni, la troncatrice ad angoloper i “tambucci” (il portellone di coperta).

Ma gli “ordegni”, gli strumenti per il lavoro a ma-no, sono un’altra cosa. Le pialle per esempio: Nicone ha a decine. Per i bordini, i denti o gli spigoli, oquella enorme da sessanta centimetri per l’albera-tura. Ne ha dritte e ricurve. La pialla-barca o lamezza tonda, detta baston. Il titrabachin «perstrenzer e molar le vide» quando il cacciavite elet-trico non ce la fa. E poi i cataboni, squadre regola-bili per rendere millimetriche le giunture del fa-sciame sulla superficie panciuta della barca.

«Le barche si costruiscono in dialetto», diceva ilpiù grande progettista italiano di barche a vela inlegno, Carlo Sciarrelli, per far capire che quella ma-nualità è figlia della grande Venezia e del suo arse-nale, ma anche della cultura triestina — la sua —che ha dato al mondo l’elica, il siluro e le prime co-razzate, con cannoni girevoli in coperta. «La barcadi legno ha fascino», diceva, «perché mostra il la-voro che c’è dietro. Fa bene, come un libro fa piùbene di Internet che ti lampeggia davanti al naso».

Nico tira giù da uno scaffale il simbolo araldicodel suo mestiere. Sono anni che non lo usa più. Pa-re una zappetta, ha un lungo manico ricurvo e il fi-lo in acciaio temprato. «Sarà degli anni Trenta, co-me me». Soppesa l’ascia, la bilancia. Racconta del-le sue barche, a decine, lavori chiavi in mano, «daltracciato fino alla pulitura della polvere prima dela consegna». E feste, tante, dopo i vari, con un pa-dellone pieno di mussoli o polipetti fritti. Gli chie-do se ha fatto crociere. «Mi? Viagi in barca? ‘Ssai po-co. Niente Caraibi, al massimo qualche regatinacon la mia passera». Il nome della barca? «Darma,come la tigre di Sandokan».

MARTELLOCome gli altri

attrezzi comuni,

anche questo

è cambiato ben poco

dal Medioevo

L’unica vera

innovazione

è l’acciaio al

posto del ferro

MORSETTOL’uso principale

è quello di tenere

in posizione

due pezzi incollati

fino a che la colla

abbia fatto presa

Ce n’è di vari tipi:

a vite, a C,

serragiunti, ecc.

PIALLAAttrezzo

con cui si spiana

la superficie

del legno

mediante la lama

sporgente posta

sul lato inferiore

Decisiva l’abilità

dell’artigiano

(segue dalla copertina)

Constatano che la parola “bravo” èinapplicabile a un bancario inchio-dato al videoterminale, ma acquistasenso con l’homo faber, con le suemani sporche di olio, farina, segatu-ra. Mani che l’Italia ha perso, dopo

aver rinnegato la sua anima contadina, operaia, eora anche artigianale.

Le mani di Nico combinano delicatezza e po-tenza; e gli altri carpentieri non ne perdono unamossa, perché in carpenteria il mestiere non si im-para, si ruba. E poi tutti sanno che il nostro non haeredi, dopo di lui c’è il nulla. Il suo successore è unodei settantamila artigiani-mai-nati d’Italia: unodelle migliaia di fornai, falegnami, fabbri e idrauli-ci che il mercato pressantemente richiede e non sitrovano da nessuna parte. I posti ci sono e il gua-dagno pure, garantisce la Confartigianato. Ma lebotteghe restano vuote e c’è chi deve persino chiu-derle per assenza di continuatori. Gli italiani nonvogliono sporcarsi le mani, la tv impone altri mo-delli e le scuole di mestiere non bastano a colmareil vuoto.

Nico «xe l’omo dei alberi». Alti, nobili alberimaestri. Per la sua ultima fatica, il restauro di unketch da crociera del 1897, ne ha costruiti per no-vantasei metri lineari, incluso bompresso, picchi,antenne, pennoni. Tu pensi: non è difficile, bastapiallare una cosa già tonda. Invece no. L’albero diuna vela deve essere cavo — così pesa meno e resi-ste meglio — e farlo è un lavoro bestiale: devi as-semblare al millimetro quattro assi, costruire unlungo tronco di piramide vuoto, trasformare le se-zione quadrata in ottagonale, poi suddividerla insedici lati eguali e infine piallare il tutto per tirarnefuori un fuso a sezione bella rotonda. «Un tubo tie-ne di più di un cilindro pieno», ti spiegano. Se poiquel tubo è leggermente rigonfio, è ancora meglio:tiene di più e fa più effetto, come le colonne del Par-tenone. Sulle barche funziona l’architettura clas-sica: bello e funzionale coincidono. La prova? Unacolonna cilindrica fa schifo e dura di meno. L’al-bero idem.

«Non esiste macchina capace di fare quello chesanno fare quelle mani», mi dice all’orecchio Lo-renzo Luxich, triestino, che con altri due soci diri-ge il cantiere — uno dei migliori del Mediterraneo— l’Alto Adriatico di Monfalcone. «E se anche esi-stesse, costerebbe una follia». Il problema è chequelli come Nico la mamma non li fa più. «Se ga ro-to la machineta», dicono al cantiere, e lui stessoignora chi verrà dopo di lui. Così continua a lavo-rare. È in pensione da dieci anni, ma tiene ancorabottega e dà una mano al cantiere con contratti aprogetto.

«I mestieri xe bei, ma bisogna farli con amor. Sese vivi per el ventisette no va ben… Quei che fa cus-sì mi li odio… L’operaio devi anche dar, no soloaver». Ci vuole passione, e quella non si impara ascuola. Gli chiedo perché non si trovano appren-disti. Il problema, spiega, non è la mancanza di vo-glia dei giovani. È che negli anni Settanta hanno di-strutto l’apprendistato. È lì che si è aperta la vora-gine ed è cominciata la fuga dai mestieri. Sarti, pa-stai, falegnami, panettieri, carpentieri, muratori,falegnami. Non li trovi neanche a pagare oro.

«Anch’io ho sempre cercato giovani, ma ci han-no imposto impianti d’aerazione costosissimi,che non potevamo permetterci. Hanno applicatoorari e regole d’ingaggio rigide a questo mestiereche non ha orari né regole. Gli apprendisti no po-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 29DOMENICA 27GENNAIO 2008

MAURO CORONA

Il letto di ciliegioche allunga le nozze

neanche a morire, nemmeno se gli avvicini lafiamma ossidrica.

Tutti questi accorgimenti, i falegnami li cono-scevano e li mettevano in pratica. Seguendo le lu-ne e i cicli delle stagioni, si facevano le case, i mo-bili, gli strumenti e tutto quel che occorreva per lavita. Dalla punta di un rametto di giovane abetebianco cavavano un barometro infallibile. Nonusavano nessun tipo di vernice, non davano pa-strocchi e veleni ai manufatti. L’unico conservan-te era la luna. Se si tagliano i tronchi il 31 gennaioo l’1 o 2 febbraio, in luna calante, non serve alcunprodotto a protezione del legno. Non occorre av-velenare la casa e noi stessi con vernici per far du-rare il legno. Tagliato in fase giusta, il legno diven-ta ghisa. Vi sono porte e finestre in case di monta-gna che hanno trecento anni. Sono state prese aschiaffi da tutte le intemperie del mondo: caldo,freddo, neve, pioggia, vento, ghiaccio e stannosempre là, tutte d’un pezzo. Sono diventate grigie,lucide, brillano come argento ma sono ancora in-tatte. La sgorbia del tempo ha tolto la vena teneraal legno, ha creato scanalature a uso le rughe di unviso antico, ma per il resto quei manufatti sono sa-

ni come appena tagliati.Era il sapere dei falegnami del mondo passato,

che conoscevano i segreti delle lune e dei boschi.Io non so se c’è ancora, quel sapere, credo di no.Ma forse non finisce così, forse riprenderemo inmano i vecchi mestieri del tempo andato. Un fale-gname quasi centenario, poco prima di morire, midisse: «Vedrai che torneremo a sentire ancora il ra-schiare delle piane (pialle) e allora tireremo l’o-recchio per ascoltare i vecchi rumori».

Lo scrittore Jean Giono, quello dell’Uomo chepiantava gli alberi, riguardo all’opera di un fale-gname, ebbe a dire: «Nulla può essere più vicino alcapolavoro di questo tavolo d’abete nell’angolo,accanto alla finestra…». E ancora parlò del «quie-to eroismo d’esprimere il mondo con la divinaabilità delle mani». Alla fine, constatando la mar-cia trionfale della tecnologia che seppelliva i vec-chi mestieri, disse: «È stato altrettanto facile svili-re gli artigiani con la macchina. Si è fatta caderedalle loro mani la possibilità del capolavoro» (JeanGiono, Lettera ai contadini sulla povertà e la pace,Ponte alle Grazie). Giono aveva ragione, vide giu-sto e lontano. Chissà cosa penserebbe oggi, chestiamo perdendo la «divina abilità delle mani» enessuno fa nulla per recuperarla.

L’autore è alpinista, scultore in legno e scrittoreIl suo ultimo libro è Cani, camosci, cuculi

(e un corvo) pubblicato da Mondadori

ASCIAAttrezzo principe

del carpentiere

Tanto più bravo

sarà il “maestro

d’ascia”, quanto

meno servirà,

dopo, ricorrere

alla pialla per

spianare il legno

FO

TO

CO

RB

IS

(segue dalla copertina)

Il letto matrimoniale lo facevano di ciliegio.Ha un colore rosso fiammato che accogliebene e, dicevano, tiene unito il matrimo-nio, il suo profumo stimola voglia alla don-na. All’uomo non servivano stimoli o pro-fumi. I travi dei soffitti erano di larice, asso-

lutamente a vista. Dovevano guardare giù, versoquelli che dormivano, o facevano l’amore o na-scevano o morivano, spesso piangevano. Il lariceera albero da protezione, faceva la guardia, spia-va, controllava, dava consigli, guai coprirlo con ta-volame o intonaci. Li tagliavano in luna calante dinovembre, sui costoni rocciosi a piombo dei bur-roni. Perché lì, sul magro, crescevano poco, sistringevano per paura del vuoto e duravano seco-li. Un larice grosso quanto un tubo da stufa, ma-gro e spaventato, poteva avere centocinquant’an-ni come ridere. Li squadravano a colpi d’ascia,senza pialla, perché venivano più belli. Ma pare-vano piallati tanta era la precisione che i falegna-mi tenevano nel colpo di manéra. Per misurare labravura facevano gare a chi riusciva a tagliarsi i pe-li del polpaccio con un colpo di scure senza sbre-garsi la gamba. Qualcuno se la sbregò.

Quasi sempre accanto al banco c’era il tornio dalegno. Mancava un piatto? Partiva il falegname dicasa e dopo un quarto d’ora tornava col piattonuovo di zecca tornito da un acero bianco comeneve. Per piatti, scodelle, ciotole, catini era l’ace-ro che comandava. Mancava una forchetta? Uncucchiaio? Dieci minuti e uno di famiglia andavain falegnameria (di solito una stanza apposta) etornava con l’attrezzo pronto all’uso. Si rompevauna sedia? Mezza giornata e c’era un’altra sedia.Moriva qualcuno e tutti si offrivano per fare la cas-sa al paesano. Le culle le facevano in cirmolo chemandava profumo di resina eterno e conciliava ilsonno al bambino inciuccandolo di effluvi. Lescavavano da un tronco unico poi le appendeva-no al soffitto con lunghe corde da fieno. Dandouna spinta, dondolavi per mezz’ora.

Tutta la casa, dopo l’opera dei muratori, se la fa-cevano i falegnami di famiglia, e senza produrreun grammo di immondizia. Finestre, scuri, scale,solai, travi, capriate, ogni roba veniva lavorata sulposto, sotto tettoie improvvisate. Facevano e met-tevano in opera, così la casa si completava e fiori-va un po’ per volta, come un giardino. Giovani ebambini aiutavano e aiutando imparavano perquando erano grandi.

Poi veniva il mobilio: panche, scansie, cassa-panche, letti, madie, cassettoni, attaccapanni, se-die, tavole: tutto di legno, con chiodi di legno an-che loro, oppure assemblati a incastro. Il tutto fat-to nella falegnameria di famiglia. Ogni oggettochiedeva un legno apposta. Armadi e cassettonierano di pero e melo, essenze pastose, a grana fi-ne che si poliscono da dio e hanno colore caldo eriposante. Una mano di cera d’api bollente mistaa resina di larice teneva i tarli lontano chilometri.Cassepanche le facevano di tasso, duro come ve-tro, color rosso venato che è una meraviglia. Lepanche invece erano di pino: tagliato in luna ca-lante di febbraio dà calore e si può lavare senza ro-vinarlo.

Quando c’erano robe di legno che dovevanostare vicino al fuoco, cappe di camino, panche,pale da fornaio o altro, per quei lavori segavano itronchi il primo marzo, dopo il tramonto, oppuregli ultimi due giorni di luna nuova di marzo. Ta-gliato in quel periodo, il legno non piglia fuoco

SCALPELLOA taglio diritto,

usato, come

la sgorbia

(a taglio ricurvo),

per eseguire

intagli decorativi,

solitamente

seguendo un

preciso disegno

TRAPANOPer praticare

fori rotondi

nello spessore

del legno

Attrezzi affini sono

il succhiello,

la trivella,

la menarola

o girabacchino

L’IMMAGINESan Giuseppe falegname,

particolare della MérodeAltarpiece del pittore

fiammingo Robert Campin

(Quindicesimo secolo),

conservata al Metropolitan

Museum of Art di New York

Tutti i capifamigliaerano esperti falegnamie insegnavanol’arte a figli e nipotiPer le travi dei soffittiusavano il larice, tagliatoin luna calante di novembresui costoni rocciosi

Repubblica Nazionale

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30 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27GENNAIO 2008

il fattoMetamorfosi

I morti nelle stive, i clandestini imprigionati nelle cabine:i nostri scali tornano in prima pagina e non sono buone notizieSiamo andati a Genova, a vedere come funziona la più grandeporta italiana aperta sul mercato globale. Dove tredici terminalprivati hanno frammentato la linea dei moli, le macchinehanno rimpiazzato gli uomini e le vecchie regole non ci sono più

Sul fronte del portoGENOVA

Per fortuna c’è ancora il mare e il marenon ha cancelli. Al porto della Lan-terna, via terra, non si arriva più. Omeglio: sarebbero necessari tredici

pass per entrare nei tredici pezzi, tutti privati, incui il più grande porto italiano è stato spezzato.Ogni terminal è stato circondato da mura, infer-riate, sbarre e anche filo spinato. Un groviglio incui si perde anche Andrea, il taxista che pure ènato a Genova quando tutti sapevano dov’eranoil porto e la Compagnia dei camalli, e sulle riveandavano pure a pescare. Per vedere il porto nelsuo insieme, quella fetta di terra e acqua che par-te dalla Fiera e arriva a Voltri, devi salire su unabarca. Ma il gioco vale la candela: in un’ora «ve-di» la globalizzazione del mondo. Navi che sca-ricano acciaio brasiliano, banane del Sudameri-ca, carne argentina, carbone inglese, petrolio delKuwait. Nascosti fra le merci, ci sono anche iclandestini. Si chiudono nei container — qual-cuno li aiuta rimettendo a posto i sigilli — mavengono scoperti dai “funzionari della sicurez-za” che ormai sono su ogni nave. Con un rileva-tore di calore li trovano rannicchiati fra i pallet di

pomodori del Marocco o di datteri dell’Algeria.Le navi ripartono con betoniere destinate al Su-dafrica, rotori di centrali elettriche e nucleari, ca-micie del made in Italy per i negozi di New Yorke anche strani tubi che a un più attento esame sirivelano obici o canne di cannone.

La pace non è mai arrivata, sul fronte del por-to. A Mestre due operai sono morti come topi inuna stiva, come i tredici ragazzi della Mecnavi diRavenna. Qui a Genova un clandestino dellaGuinea, Mamadou C., è stato tenuto prigionieroin una cabina e la Polizia del mare era intervenu-ta solo per «affidarlo» al comandante della nave,l’Italroro One, perché lo riportasse al suo Paese.Tutto in regola: gli erano state prese le impronteed era stato ufficialmente «respinto». Ora è statosbarcato e spera di essere riconosciuto come ri-fugiato politico.

Gli uomini che lavorano nel porto di Genovasono undicimila ma quasi non li vedi. Sembranonani costretti a vivere in un paese costruito daigiganti. Le Phaceco — le gru che sollevano i con-tainer — sono alte anche cinquanta metri. Arri-vano navi che quando vanno al «distributore» digasolio — decine di cisterne alte come palazzi —fanno un pieno di cinque o seimila tonnellate. Icontainer nei piazzali sembrano montagne co-lorate: le nuove navi ne scaricano fino a cinque-mila in un colpo solo. «Noi viviamo — racconta-no alla sede della Compagnia unica dei camalli,gli scaricatori di porto — in mezzo a questa enor-me porta che si apre sul mondo per ricevere mer-ci da 295 porti, dal Sud America all’Australia.L’anno scorso qui sono arrivate 7.888 navi, conoltre 190 milioni di tonnellate di merce. E noi sia-mo qui in mezzo a lavorare non più in uno matredici porti. Tutto è cambiato. L’unica cosa cheresiste è la nostra volontà di continuare a lavora-re difendendo la nostra vita, e la nostra dignità».

Il porto si è paralizzato, quando è arrivata lanotizia di Mestre. «Quella tragedia — dicono An-tonio Benvenuti, cinquantasei anni, vice conso-le della Compagnia, Luca Noceti, trentanove an-ni, del consiglio dei delegati ed Enrico Ascheri,trent’anni, della Filt Cgil — non è avvenuta percaso. Nei porti ora chiamano a lavorare dei pre-cari, degli interinali, persone che non conosco-no questa nostra macchina così complessa e pe-ricolosa. Noi della Compagnia, da quando c’èstata la privatizzazione del 1994, non siamo piùi soli lavoratori del porto. Ma un diritto l’ab-biamo mantenuto: i padroni hanno i loro di-pendenti, i terminalisti, però quando hannoil picco di lavoro debbono chiamare noi enon ditte esterne. E un privato non ha in-teresse a tenere ogni giorno al lavoro tutticoloro che servono a scaricare una grandenave che arriva, ad esempio, una volta ogniquattro giorni. Compagnie come la nostra,autogestite, esistono ancora solo a Savonae Civitavecchia, ma sono piccole. Qui a Ge-nova c’è anche la Pietro Chiesa che si occu-pa di carbone. Tutte le altre sono statesmantellate. A Venezia hanno dovuto ven-dere anche la sede».

Una volta il porto di Genova era qui,dove ora c’è l’acquario. Ci sono ancora,museo all’aperto, le vecchie gru dellaCompagnia dei camalli. Il magazzino delcotone è diventato l’Expò, con uffici e ne-gozi. Ecco la torre di controllo, come in unaeroporto. Partono da qui i piloti del por-to, tutti ex capitani di nave. «Guidiamo lenavi all’attracco — dice il comandanteGiovanni Lettich — o verso il mare aper-

to. Solo noi conosciamo ogni metro di fondale.Una nostra pilotina riuscì ad arrivare per primaquando, nel 1970, la nave inglese London Valourandò a sfracellarsi contro la diga. Il pilota Gian-carlo Cerruti riuscì a salvare quindici marinai».Ecco il palazzone che era la direzione dell’Ansal-do: diventerà un hotel a cinque stelle. A CalataBettolo ci sono montagne grigie: anche il ce-mento viene importato. Qui inizia il “pettine” diSampierdarena e ogni banchina ha ancora i no-mi delle colonie: Eritrea, Somalia, Etiopia…Container o pallet di banane, kiwi, ananas… Mi-gliaia di barre di alluminio brillano al sole, e po-co lontano si alzano le colline nere del carbone.Ecco ciò che resta dell’Italsider, che da oltre unanno ha spento l’altoforno e fa soltanto la lami-nazione. Qui Guido Rossa è stato ucciso dai bri-gatisti che aveva denunciato come nemici dei la-voratori. Nessuno sa più dove mettere le merciarrivate o in partenza per tutto il mondo. Sullacollina (vera) di Erzelli, c’è uno strano paese maquando la barca si avvicina si scopre che è soloun enorme cumulo di container. «Diventerà unvillaggio tecnologico, progettato da Renzo Pia-no. Almeno si spera».

Dopo l’aeroporto sul mare ecco Voltri, il prin-cipale terminal per container del Mediterraneo.Quasi non si vedono le montagne che stannodietro. La globalizzazione qui è in bella mostra.L’enorme nave Cscl Chinan della China Ship-ping Line è accanto alla Oocl di Kuala Lumpur. IlVte, Voltri Terminal Europa, nato nel 1994, eradella Fiat, poi è stato comprato dal Psa, Port Sin-gapore Authority. E nel pezzo nuovo del termi-nal sono entrati, come proprietari, anche i cine-si della Cosco, la compagnia di Stato. «Cinesi e in-diani — raccontano gli uomini della Compagniaunica — in fondo sono stati la nostra fortuna.Eravamo ottomila portuali, negli anni Sessanta.Nel 1974 qui in Compagnia eravamo ancora sei-milaottocento poi, con la privatizzazione, siamocrollati. Poco più di cinquecento nel 1994 poi ab-biamo cominciato la risalita. Ora siamo mille-cinquanta, e pensiamo di assumere altri cento-cinquanta camalli. Questo grazie a Cina e Indiae a tutta la merce che portano in Europa».

Nei saloni della «chiamata» ora ci sono i pen-sionati che giocano a carte. Non c’è più bisognodi presentarsi quattro volte al giorno per saperese ci sia o no da lavorare: un sms avverte il socioun paio d’ore prima del turno di lavoro. Ci sonogarofani rossi e freschi, davanti ai tre ritratti ap-pesi al muro. In mezzo Guido Rossa, a destra Pal-

miro Togliatti e a sinistra Vladimir Ilic Lenin.«La cosa triste — dicono i tre portuali — è che

chi entra nel salone, dove si fanno anche spet-tacoli teatrali e assemblee, spesso ci chiede: machi è quello lì in foto fra Lenin e Togliatti?». Rac-contano che il lavoro è cambiato e che adessoun camallo deve sapere manovrare gru, verri-celli e ogni altro mezzo. «Una volta c’era tantafatica. Le stive si svuotavano con le nostre brac-cia. Peggio di tutto erano la carne e il pesce con-gelati. Arrivavano tonni da un quintale, un uni-co pezzo di ghiaccio. E c’erano i sacchi di riso, di

sesamo, di caffè… Tutto a spalla». Adesso la fatica è minore ma il rischio ri-

mane». «È per questo che noi vogliamocontrollare quello che chiamiamo il ci-clo-nave. Significa che, quando ci af-fidano un lavoro, vogliamo esserenoi a dirigere le nostre operazioni, apartire dal derizzaggio — losblocco delle merci nellastiva — fino a quando la

merce non esce dai cancelli del porto. Pronti a la-vorare, presto e bene, ma pronti anche a fermar-ci. Se troviamo una stiva piena di ferro silicio tut-to bagnato — è successo con una nave di Singa-pore — facciamo intervenire un chimico che de-ve capire se ci siano o no gas pericolosi. Subitodopo la tragedia della Thyssen di Torino (uno de-gli operai, Rosario Rodino, è morto qui al SanMartino e il padre ci ha detto che solo noi portualieravamo andati a fargli le condoglianze) qui alMetal terminal è arrivata una nave cinese caricadi tubi e profilati. Erano stivati senza spessori dilegno fra uno strato e l’altro, non si poteva scari-care senza rischiare la vita. E allora abbiamo det-to no, noi non la scarichiamo. È ripartita dopo tregiorni. Non sappiamo dove ma qualcuno, in Ita-lia, l’ha svuotata. Ci sono porti dove i lavoratorisono troppo deboli e, se vogliono portare a casalo stipendio, debbono accettare tutto».

Fra i container e i sacchi di caffè arrivano an-che i clandestini. Finanza e Polmare spesso liaspettano a colpo sicuro, quando la nave attrac-ca al porto. Sanno già dove sono nascosti, un cor-po umano non sfugge ai rilevatori di calore. Masulle navi moderne si torna anche all’antico. «Daun paio di anni — raccontano in un bar del por-to — sono apparsi anche i cani. Vivono sulle na-vi, conoscono gli odori di tutti perché su un por-ta container ci sono al massimo venti persone diequipaggio. Vengono lasciati liberi fra ponte estiva e vanno a cercare gli odori nuovi. Quandoabbaiano contro un container, il funzionariodella sicurezza sa che dentro non ci sono soltan-to barre di alluminio».

Sul fronte del porto ci sono anche i caduti. «Unanno fa noi della Compagnia stavamo scarican-do una nave arrivata dalla Cina. Un marinaio ci-nese è precipitato nella stiva, è morto sul colpo.Noi ci siamo fermati subito, non puoi fare fintadi niente davanti a una vittima del lavoro. Ma ilcomandante ha fatto chiudere la stiva, dicendoche una nave della Cina è territorio cinese e de-cideva lui. La nave è ripartita e non abbiamo sa-puto più nulla di quel cadavere. Abbiamo capitoquanto valga, in certi paesi, la vita di un uomo».

JENNER MELETTI

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 31DOMENICA 27GENNAIO 2008

MASSIMO MINELLA

“Vi recito la mia vita da camallo”

Ha camminato per cinquant’anni sulle banchine, ora calpesta le tavoledi legno dei palcoscenici. Stesso argomento, il porto, stessi protagoni-sti, i camalli. Quando Amanzio Pezzolo, sessantacinque anni, a lungo

viceconsole della Compagnia Unica del porto di Genova, pensionato dal ‘99,oggi autore e narratore di testi teatrali, parla del lavoro antico dei camalli, i suoiocchi si accendono. Lui, con quel nome fuori dal comune, nel porto di Geno-va ci è praticamente nato. «Vengo da un paese dell’entroterra ligure, famigliadi locandieri e commercianti di bestiame — racconta — e il primo ricordo delporto di Genova è il sapore di una somalita, una banana piccola e dolcissima,che i portuali ci regalavano quando scendevamo sui moli, noi ragazzini sem-pre in cerca di qualcosa da mangiare, loro a faticare scaricando caschi di ba-nane».

Sono gli anni Cinquanta, il ragazzino ha occhi solo per quel mare che vededalla sua casa di San Teodoro, quartiere di portuali alle spalle dei moli. Il no-me l’ha ereditato dal nonno che durante il suo peregrinare per l’Italia si erafermato in un borgo dell’Umbria. «Di mestiere questo Pezzolo era un cam-minante, si spostava cioè senza meta fissa comprando una cosa qualunquein un paese, un mulo, una forma di formaggio, un cesto di frutta, e rivenden-dolo in quello successivo — spiega —. Arrivò in un paese il cui santo protet-tore era un vescovo guerriero, morto in battaglia per difendere la sua comu-nità, Sant’Amanzio, e quel nome restò nella nostra famiglia».

Amanzio o meglio Amansito, diminutivo scelto dai parenti che come tan-ti avevano cercato di far fortuna in Sud America ed erano poi tornati a mori-re in Italia, entra in porto negli anni Cinquanta. A scuola è bravo, conclude lemedie e si iscrive al ginnasio. Ma è il porto ad attrarlo più di ogni altra cosa.«Perché questa città la apprezzi e la ami soprattutto dal porto», dice. All’ini-

zio Pezzolo entra nella notina, un elenco, aggiornato giorno dopo gior-no, di persone che si presentano alla Sala Chiamata per

chiedere lavoro. Poi diventa raccogliticcio, pri-mo vero passo verso il lattone, una

carta di latta in cui si rico-nosce lo status di

“ s o -

cio”, l’elemento distintivo di ogni portuale che ne materializza l’anima, neriassume la tempra e l’orgoglio di far parte di qualcosa di realmente unico.«Rimasi stupito da un fatto — racconta Pezzolo — ero stato lontano dallaCompagnia per due anni, per il servizio militare. Al ritorno mi presentai, qua-si con pudore per la mia assenza, e i dirigenti mi dissero che mi spettavanodue anni di natalizia arretrati, erano cinquantamila lire, nel ‘64. Si rafforzòdentro di me l’idea che quel mondo era davvero qualcosa che andava vissu-to con passione e con un senso di grande fraternità».

Pezzolo arriva ai vertici della Compagnia, negli anni Ottanta, quasi per ca-so. Per essere eletti al primo turno ci vuole il cinquanta per cento più uno deivoti. Lui, che non si è candidato e che ha comunque raccolto una trentina divoti, va al ballottaggio con quello che gli sta sopra e che di voti ne ha presi mil-lecinquecento. Viene eletto e per quasi vent’anni resta dirigente. Poi, nel ‘99,se ne va. «Ma quando sei portuale lo rimani per tutta la vita — spiega —. Ap-partieni a una popolazione unita dagli stessi valori. Che si muove come unasola persona, se si tratta di aiutare una famiglia in difficoltà». Pezzolo esce dal-la Compagnia ma non smette di frequentarla. Scende ogni volta che gli è pos-sibile alla Sala Chiamata. Vede i soci di oggi, trentenni figli di altri soci, parlacon loro, chiede sempre la stessa cosa: «Ghe né travaggiu?», «C’è lavoro?». Epoi riprende a vivere come i suoi avi, i camminanti, spostandosi fra le città e iporti del Mediterraneo per coltivare legami antichi, come con i portuali di

Barcellona. Tre anni fa arriva l’incontro con Aldo Vinci, giovane at-

tore figlio di un operaio dell’Italsider che a Genova vissemomenti difficili, negli anni delle lotte sindacali. «In ca-

sa sua arrivava ogni mese una busta con dei soldi,non c’era il nome di chi li mandava, ma la madre

sapeva che erano dei portuali amici del padre»,dice Pezzolo. Dal loro incontro nasce un testo

teatrale, Camalli,che comincia a girare l’Ita-lia. Il debutto a Genova, al Teatro degli Zin-gari di don Andrea Gallo, poi altre tappe.«Lui recita, io narro — spiega Pezzolo — Houn canovaccio, ma poi vado a ruota libera,ricordo. E la stessa cosa mi succede nellescuole. Io parlo, loro mi ascoltano. Equando smetto mi chiedono: “Hai già fi-nito?”».

ANNI SESSANTAIl porto di Genova

negli anni Sessanta

visto da Gianni

Berengo-Gardin

MONTAGNE DI CONTAINERUna montagna di container nel terminal di Voltri L’anno

scorso a Genova hanno attraccato 7.888 navi

scaricando oltre 190 milioni di tonnellate di merce

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VISTO DAL MAREUn’immagine presa dal mare delle operazioni

di movimentazione-merci al terminal

container nel porto vecchio di Sampierdarena

YACHT E TENSOSTRUTTUREIn primo piano, una sfilata di yacht al Molo Vecchio

Sullo sfondo, l’area dell’Expò

con il Bigo e la tensostruttura di Renzo Piano

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la memoriaBianco e nero d’autore

È stata aperta a Mosca una piccola, splendida mostra di fotodell’era brezneviana. Immagini realizzate da Jurij Rybcinskij,fotoreporter dell’ufficialità per la pagnotta e dissidentenell’anima e nell’obiettivo fino a farsi cacciare dai giornaliche lo stipendiavano. Guardando le sue inquadrature, l’amararealtà dell’homo sovieticus si svela senza censure e senza pose

32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27GENNAIO 2008

MOSCA

Guai se passate da Moscain questi giorni e non vifermate al Maneggio,che poi è di fronte al

Cremlino. In una sala, la Casa della Fo-tografia ha appena inaugurato una pic-cola, splendida mostra. Sono esposte lefoto di Jurij Rybcinskij, pioniere dei sa-mizdat in bianco e nero ai tempi del-l’Urss di Krusciov e di Breznev, foto-grafo dell’ufficialità per la pagnotta edissidente nell’animo e nell’obiettivosino al punto di rompere con i giornaliche lo stipendiavano: ma almeno, nondoveva più render conto a nessuno deisuoi scatti che invece di esaltare le con-quiste (fasulle) dell’Urss, mostravanola realtà quotidiana, senza ritocchi,senza censura, senza pose. Finì per la-vorare come guardiano di una caldaia,nei sotterranei di una stalinskij dom.Era il destino di molti artisti dell’under-ground sovietico, altrimenti avrebberischiato la galera per “parassitismo”.

Jurij aveva in tasca la laurea in geolo-gia, ed era stato un bravo giornalista,prima corrispondente e poi fotorepor-ter dell’agenzia Novosti, del quotidianoKomsomolska Pravda, di tante altre te-state come Smena e Sovetskij Soyuz.Era richiesto ed apprezzato. Un giorno,nella redazione di Sovetskij, gli diconodi sottoscrivere una lettera aperta col-lettiva — fenomeno di routine — in ap-poggio ad una della tante vaghe inizia-tive «per la pace», orchestrate di tantoin tanto dal regime. Ma lui aveva già let-to qualche pagina di Alexandr Solzhe-nitsyn, brani che circolavano clande-stini tratti da Una giornata di Ivan De-nissovich. Jurij si rifiutò di firmare, eraindignato per quel poco che aveva let-to e già gli era sembrato tantissimo, in-sopportabile.

Lo cacciarono.Aveva cominciato a studiare le rocce,

la crosta terrestre, le sue magmatichemutazioni. Il mestiere di geologo ti por-ta a scavare nel sottosuolo del pianeta.Ad individuarne i segreti. Ma sentivache forse era suo dovere scavare nelsottosuolo della società, e studiarne leimpercettibili trasformazioni. Per que-sto aveva rinunciato al lavoro accade-mico per dedicarsi al fotogiornalismo.Era l’inizio degli anni Sessanta, Kru-sciov sfidava Kennedy, il mondo tre-

mava all’idea della catastrofe nuclearee il comunismo era una cappa di piom-bo che soffocava la Russia. Basta vede-re gli occhi degli operai di Dneprod-zerzhinsk, la città natale di Breznev, ecapire che il sogno comunista è solo neitesti dei documenti di partito. C’è il di-sincanto, nella foto di Jurij: potrebberoessere operai di qualsiasi altra parte delmondo, ma lì, nell’Ucraina meridiona-le, c’è la beffa di sentirsi dire che sono«padroni» ed «eroi», mentre invece so-no soltanto e sono sempre i soliti sfrut-tati.

Per anni, riuscì lo stesso ad essere

presente nel settore: qualche collabo-razione, i colleghi amici che gli forniva-no i pass e gli accrediti per visitare zone,fabbriche e carceri che alla gente nor-male erano proibite. Il suo talento e lasua sensibilità erano stimati dal mondodel dissenso. Non perché le sue imma-gini fossero manifesti antisovietici: inapparenza non lo erano. Ma perchéaveva distrutto i format della percezio-ne, attraverso l’ufficialità stessa. Cap-tava il malessere, mentre la cornice delcontesto avrebbe dovuto dimostrare ilcontrario. Alla parata di un glorioso 9maggio sovietico — l’anniversario del-

la Vittoria nella Grande Guerra Patriot-tica — Jurij inquadra un anziano e ma-landato veterano, piegato dal peso del-l’età, delle medaglie e delle decorazio-ni, che sorregge un enorme garofano dicarta, ma non sorride, né gioisce, per-ché gli si legge negli occhi che tutte lebattaglia combattute non hanno elimi-nato il nemico più subdolo, l’avida eonnipotente nomenklatura.

Investigava in territori preclusi: i pe-nitenziari, con la loro umanità negata ei loro codici sociali paralleli. Ecco undetenuto appena rasato a zero chescende dal cellulare, ecco tatuaggi di

reclusi, ecco un guardiano che a mala-pena riesce a trattenere due cani lupoche si stanno scatenando. Era impen-sabile che negli anni kruscioviani ebrezneviani la rivista Sovetskij Soyuzpubblicasse simili reportage. NellaRussia di allora non si poteva racconta-re o fotografare ciò che succedeva nel-le galere, nelle chiese e nelle guardioledei commissiariati, dove venivano fer-mati e arrestati gli ubriachi. Invece Ju-rij fotografa giovanissimi seminaristi diZagorsk, il Vaticano ortodosso, chechiacchierano sotto i ritratti dei mem-bri del Politburo. Coglieva i paradossidel regime. Come il ricevimento eccle-siastico luculliano nel ristorante del-l’hotel Rossija, nel centro di Mosca, ametà degli anni Settanta, con una tavo-lata che ricorda il convivio degli oprich-nik, i sicari di Ivan il Terribile, scenamemorabile del film di Sergeij Ejzensh-tejn.

Il suo bianco e nero indaga, più chedescrivere. Persino i volti di personag-gi che diventeranno famosi: Eduard Li-monov, non ancora oppositore di regi-me. Vladimir Sorokin, non ancora

scrittore di successo perseguitato dai“nashisti”, i balilla putiniani. Un batte-rista in un club di campagna, che scuo-te la testa coi capelli lunghi, alle spalle ildiagramma delle mungiture del suokolkoz. Una manifestazione in una lo-calità di provincia che assomiglia aduna processione pasquale: perché sul-lo sfondo si intravede una chiesa semi-distrutta, con la scritta «Kerosene». Ol’improvvisato karaoke nel parcoSokolniki di Mosca degli anni Settanta:un fisarmonicista mostra a chi sta nellasala i fogli di carta sui quali ha scritto iltesto della sua canzone.

Ma la foto più emblematica e piùgrottesca è quella di Galina Brezneva,l’esuberante e corpulenta figlia delcompagno segretario generale LeonidIlich Breznev. Danza sguaiata e sbron-za sul tavolo della sala da pranzo, solle-vando la gonna e svelando cosce nonesattamente scultoree. Sulla parete al-le sue spalle, un grande ritratto di suopadre. Severo, austero. Grigio. Anzi,plumbeo. Come nella foto che inqua-dra un gigantesco cartellone in cui ilcompagno segretario generale è nelsuo studio e sta firmando un documen-to. Alle spalle, a caratteri enormi, lascritta: Mir. Pace. I passanti, indifferen-ti. Tristi.

La fine dell’Urss in cento scatti

Captava il malesseree lo catturava,dentro la falsacornice trionfalistaimposta dal regime

La testimonianzapiù grottesca è quelladella figlia di Breznevche balla ubriacasopra un tavolo

LA FIGLIA DI BREZNEV. Galina Brezneva balla ubriaca su un tavolo davanti al ritratto del padre, Mosca 1992

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33DOMENICA 27GENNAIO 2008

SCRITTORE DI SUCCESSO. Vladimir Sorokin in una singolare inquadratura quando era ancora un autore underground, Mosca 1992

DOPPIO RITRATTO. Una coppia di ragazzi sulla spiaggia del giardino botanico Nikitsky, Yalta 1985

Quando Leonid Breznev muore, il 10novembre 1982, anche l’Urss è or-mai un cadavere. L’esercito russo èimpantanato nelle montagne afga-ne, incapace di tener testa alla guer-riglia anticomunista. L’economia è

in ginocchio: non c’è innovazione, la produtti-vità del lavoro cala a picco, la spesa militare hastrangolato il po’ d’industria leggera che s’eravista tra l’inizio e la metà dei Settanta. Aumen-ta la mortalità infantile, mentre la durata dellavita dei russi s’accorcia paurosamente.

All’ultimo congresso del partito viene an-nunciato, come ai tempi della Grande Fame neiprimi anni Venti, l’ennesimo «piano alimenta-re». I negozi sono infatti vuoti, le penurie che lapopolazione sopportava da sempre sono ades-so divenute miseria. Miseria dell’abitare, delvestire, del mangiare, del vivere. Quando a Mo-sca si va in casa d’un amico, in uno di quegli ap-partamenti angusti, soffocanti, dove vive l’in-tellighenzia, l’amico ci accoglie con una fraseche stringe il cuore: «Scusa la nostra miseria so-vietica».

La rivolta polacca, nonostante i capi di Soli-darnosc siano in galera, ha aperto nell’impal-catura dell’Impero sovietico una breccia irre-parabile, che ne determinerà più tardi il crollo.La corsa agli armamenti con gli Stati Uniti è or-mai perduta.

Nell’82, al suo diciottesimo anno come Se-gretario generale del partito e capo dello Stato,Breznev è un malato terminale. Ha sì e no un’o-ra di lucidità al giorno, e quando è costretto acamminare deve essere sostenuto da ambeduei lati. Poche settimane prima della sua morte, aVarsavia, lo vediamo entrare in un teatro. Glitolgono prima il cappotto, poi il colbacco,quindi un agente della sicurezza tira fuori unpiccolo pettine e gli aggiusta i capelli. Lui è iner-te, lo sguardo perduto nel vuoto.

Le briglie con cui il partito e la polizia politi-ca avevano tenuto il paese, si sono intanto al-lentate. L’epoca del terrore di massa s’era con-clusa con la morte di Stalin e di Beria, ma per isuccessivi vent’anni la persecuzione dei dissi-denti era proseguita durissima. Un gesto, qual-che parola in contrasto col conformismo im-perante potevano ancora costare il posto di la-voro. La censura sui libri, il cinema, i giornali ela televisione restava arcigna, implacabile. Madalla metà dei Settanta l’atmosfera cambia. IlKgb fa sempre meno paura (davanti agli alber-ghi per stranieri le pattuglie di polizia riscuoto-no una taglia dalle prostitute), la corruzione di-laga a tutti i livelli del partito.

Si vendono le direzioni dei kolkoz e sovkoz,le cariche di primo segretario distrettuale delpartito e di rettore dell’università, l’assoluzio-ne degli imputati e i letti negli ospedali, mentrenelle repubbliche periferiche si vendono si-nanche i posti di ministro. Chi paga grosse cifreper ottenere un incarico politico, o un posto didirigente nella struttura agricolo-industriale, ouna nomina nell’apparato giudiziario sa che inpoco tempo — imponendo a sua volta una ta-glia per ogni pratica giunta sulla propria scri-vania — potrà moltiplicare da venti a cento vol-te la cifra che ha sborsato.

E in certi casi molto di più. In seguito ad unadelle rare inchieste contro la corruzione chenon viene bloccata dai vertici del partito, si sco-pre per esempio che il segretario d’un comita-to distrettuale di Baku nell’Azerbajan, tale Ma-medov, ha depositato su una banca di Mosca195mila rubli, equivalenti a centosessanta an-ni di paga per un operaio non specializzato.

Negli ultimi anni di Breznev la gente sa beneche la nomenklatura ha perso ogni ritegno, eche sullo sfondo dello sfascio generale sta orapensando soltanto ad accumulare danaro incombutta con gli speculatori o addirittura i cri-minali. Non si tratta d’una normale “fin de re-gne”: è qualcosa di più sfrenato e cupo. Le ban-de prevalentemente caucasiche, che dieci an-ni più tardi renderanno la Mosca di Eltsin mol-to simile alla Chicago di Al Capone, sono già at-tive attorno alla salma della «patria del sociali-smo». Alle loro feste partecipano i figli e leamanti di altissimi esponenti della nomenkla-tura.

Ed è in questo contesto che viene a galla loscandalo della figlia di Breznev, Galina. Galinaaveva avuto tre mariti: un acrobata e poi un pre-stigiatore del Circo di Mosca, e un tenente co-lonnello della polizia, Yurij Ciurbanov, tuttimolto più giovani di lei (la differenza d’età conCiurbanov, che dopo il matrimonio diventa vi-ce-ministro degli Interni, era di sedici anni).Avida, alcolizzata, ribelle, la figlia del terzo suc-cessore di Lenin s’innamora agli inizi dell’82 diBoris Burjata detto lo Zingaro, un bel ragazzo diventun anni più giovane. Così come Galina,anche lo Zingaro ha la passione dei diamanti.Incuranti dei controlli cui sono sottoposti, idue inscenano sera dopo sera le feste più co-stose e memorabili di tutta la storia dell’Urss.

Sinché una sera la polizia perquisisce la casadi Burjata, e vi trova un sacchetto di diamantirubati qualche tempo prima a un’ex domatricedi leoni. Lo Zingaro viene arrestato, e la stessanotte muore, misteriosamente, in prigione.Qualche settimana dopo si suicida il cognato diBreznev e vice-capo del Kgb, Alexandr Cvigun.E tre anni più tardi, con Gorbaciov al potere, fi-nisce in galera il marito di Galina, Ciurbanov.

Il tanfo che emana da questa vicenda serve acogliere il degrado morale e insieme il senti-mento d’impunità cui era giunta la nomenkla-tura. Il tramonto dell’epoca di Breznev avevainfatti chiarito tutto quello che c’era ancora dachiarire: il fallimento dell’Idea, la dissoluzionedel Sistema, e la catastrofe che la Russia avevaconosciuto dall’ottobre 1917 in poi.

La sfrenata e cupaagonia sovietica

SANDRO VIOLA

MANIFESTO PER LA PACE. Passanti indifferenti davanti al gigantesco poster di Breznev sullo sfondo della scritta mir, pace, Rostov 1980

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l’immagineGalleria criminale

34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27GENNAIO 2008

ROMA

Una piccola, grande, spa-ventosa e bellissima galle-ria criminale. Da ridere, dapiangere e da pensare. Ed

è un po’ come se, con l’ideale partecipa-zione degli stracciaroli di Roma, AndyWarhol, Duchamp, Lombroso e Pasolinisi fossero dati appuntamento a via dellaReginella, ai confini del Ghetto, pochipassi dietro la Fontana delle Tartarughe,nel laboratorio di Giuseppe Casetti, li-braio proprietario di un paio di vetrine in-titolate “Museo del Louvre”, ma special-mente alchimista dell’immagine, capacedunque di trarre oro dalla materia piùbassa — e questa, ammesso che nella fo-tografia esistano graduatorie, non lo po-trebbe essere di più.

S’intitola Identificazione la mostra, acura di Achille Bonito Oliva, che nasce dalritrovamento, più o meno fortunoso, edal riciclaggio artistico di circa ottomilafoto di questura scattate a Roma negli an-ni Cinquanta e Sessanta, con propagginiforse anche nei primissimi Settanta. Ma-teriale vario nella sua pur necessitata di-sponibilità poliziesca: identikit di sicuricolpevoli, di sospetti, di gente scomparsanel nulla; foto segnaletiche eseguite dopoi fermi, sia del tipo frontale sia di profilo(“le gemelle”); volti e figure di esseri uma-ni che i fotografi di San Vitale, sede dellaquestura, disponevano in posa lungo li-nee di valutazione antropometrica; im-magini di arresti come pure ostensione diarrestati da parte degli stessi poliziotti; ri-tratti di personaggi da tenere o già tenutisotto osservazione. Quindi le foto dei cor-pi di reato, strumenti della violenza, at-trezzi del mestiere dei ladri e degli spac-ciatori di quel tempo, fantastici kit dascassinatori, barattoli di marmellata pie-ni di cocaina; e infine le refurtive, dalleopere d’arte agli alimentari, ammontic-chiati in depositi spogli, autentici magaz-zini del maltolto.

Nella collezione si trovano pezzi di re-pertorio che stringono il cuore, lampi almagnesio sulla tragedia e la commedia diquell’Italia ormai irriconoscibile, eppureeterna: dall’istantanea del truffatore che«all’interno di una caverna naturale sitanei pressi del lago di Bracciano» illustra esi prepara a vendere al merlo di turno ilprogetto di costruzione di un rifugio an-ti-atomico, fino a un sorriso che nulla ap-parentemente ha a che fare con i ceffi del-la raccolta questurina, allora giri la foto e:«Bambina sconosciuta di circa dieci me-si trovata il 25 gennaio 1964 nella Chiesadella Consolazione».

Non tutte le immagini hanno la loro di-dascalia, scritta a penna, con nome e co-gnome del soggetto e a volte i riferimential caso giudiziario. Sono quasi tutti ignotii personaggi ritratti. I travestiti incredibilidi quegli anni, una con la fascia, l’abituc-cio strizzato e la sigaretta accesa, quasi ap-pagata davanti all’obiettivo. Le maitressedell’arcaica prostituzione romana, le “ri-

cottare”, scure, grasse, con folte sopracci-glia unite e baffi, addirittura. Un gruppo dibanditi che sembrano briganti dell’Otto-cento, esposti come un trofeo. Due arabiripresi in costume da bagno a Ostia, felicie ovviamente ignari del pedinamento ot-tico. Tra le mille facce ce n’è una, invec-chiata ma impassibile, di cui l’autorità diPs non può fare a meno di segnalare il so-prannome, “Il Gallo”, ed è impressionan-te la somiglianza con l’orgoglioso pennu-to che dà la sveglia alla campagna.

Migliaia di volti si affacciano dal cartel-lone che Giuseppe Casetti ha appeso nelpiccolo spazio espositivo, come offician-do un rito di pietas. «I loro sguardi ci con-fidano un dolore senza redenzione e nonci permettono di soffermarci a guardarli

FILIPPO CECCARELLI

— scrive nel catalogo — possiamo solosbirciare quei volti per non essere coin-volti nella tragicità dei loro percorsi emo-tivi». Quello con il cerotto, segno di pro-babili percosse nelle camere di sicurezza.La ragazza nera e sorridente in abito dasera, il giovane che avrà fatto la classicastupidaggine e ora si trova nei guai, il fin-to buono con la cravatta, tutto elegante, equello che non vorresti mai incontrare dasolo, di notte, dietro l’angolo: brutta fac-cia, si diceva un tempo, faccia da galera.

Bene, ridotti ormai a carta da parati,tutti potrebbe addirittura salvarli l’arte.Iperrealismo. Nuova oggettività tedesca.Scrive Achille Bonito Oliva: «La galleria difurfanti sembra totalmente impostatasotto l’ottica di un’unica poetica, la stes-

sa adoperata da Warhol e basata sull’im-personalità, sull’oggettività e sulla neu-tralità». Allo stesso modo si trasfiguranogli utensili del crimine, fotografati «se-condo un’ottica duchampiana delready-made, dell’oggetto bello e fattoche si trova ad avere una funzione diver-sa rispetto a quella abituale: l’ascia cheforse avrà decapitato una persona; ilmartello che, invece di essere utilizzatoper costruire un armadio, avrà fracassa-to un cranio; il giravite che, invece dicompiere un giro virtuoso per sistemareuna porta, avrà magari scassinato unabanca; il paio di guanti che, invece di pro-teggere le mani, sarà servito a non lascia-re impronte». Per non dire le refurtive: imucchi di sigarette di contrabbando se-

questrate come nelle celebri scatole“Brillo”, sempre di Warhol; l’ammasso ditelevisori trafugati che ricordano all’illu-stre critico d’arte una video-installazionedi Nam June Paik.

Chissà come la prenderebbe l’ignotofotografo della questura. Chissà con qua-li parole proverebbe a spiegargliela Giu-seppe Casetti. Personaggio rimarchevo-le, senz’altro, molto romano, lunghi e fol-ti capelli grigi, occhio svelto, figlio di arti-sti e artista anche lui, libraio antiquarioeccentrico e raffinato (la libreria Maldo-ror, l’amicizia e le prime mostre dellagrande fotografa Francesca Woodman,suicida a ventitré anni), generoso protet-tore e anfitrione di barboni e diseredati,da sempre al centro di un network di ri-gattieri, robivecchi, stracciaroli che rifor-nivano i portieri di scope e varechina,gente che «va pe’ cassoni», ora sostituitida zingari e rumeni con i loro carrelli dasupermercato e un lungo ferro con l’un-cino. Lui stesso, da giovane, ha frequen-tato i maceri della carta, posti pazzeschi,sozzeria inimmaginabile, “Bordoni”,“Ponte Aniene”, “Santa Rita” a Pietralata.

È lì che ha intravisto la sua vocazione ein fondo la sua isola del tesoro. Perché lagente butta tutto, di solito terribilmentein fretta, e non sa quel che butta. Ricordie racconti formidabili di cantine, fabbri-che e case da svuotare. La straordinariacollezione di libri di caccia del baroneStacchini; l’archivio de Il Giornale dellaSeracon disegni di Guttuso, Perilli, Dora-zio, Consagra; lo scatolone pieno di bi-glietti d’auguri e disegnini ricevuti perNatale dalla direttrice della Galleria d’Ar-te Moderna Palma Bucarelli dagli artistidi tutto il mondo; la primissima edizione(1911) di un libro di Anton Giulio Braga-glia, quando ancora il futurismo non an-dava di moda; una quantità di disegnierotici di Giovanni Stradone, rabbiosa-mente gettati via dalla vedova; due sac-coni di preziosissima “immondizia” rile-vati — il classico colpo di fortuna — nel-l’abitazione di Gaspero Del Corso, il ma-rito di Irene Brin, nonché fondatore dellagalleria d’arte “L’obelisco”. A Porta Por-

tese, la mattina presto, con la torcia elet-trica, Casetti ha trovato un Fontana; esempre lì, una indimenticabile mattina,un colpo di vento gli ha messo tra i piediun Galla; mentre un Savinio, beh, gli è ca-pitato di trovarlo nel portabagagli diun’automobile.

E però sono le foto la sua vera malattia.Le foto della gente qualunque: dalle fi-danzate nude alle ombre che i dilettantisi divertono a riprendere; dalle “acefale”,ossia le foto venute male, con le personetagliate fuori, ai giochi di società, ai ballinelle crociere, ai salti degli sportivi, ai ba-ci, alle trasformazioni della città comesfondo, sposini, parenti, comitive. Finoall’abbondante e straordinario reperto-rio di personaggi che, naturalmente in-viando la propria icona in posa, si offrono

di partecipare a Pronto, Raffaella. Albumdi famiglia, migliaia di immagini di sco-nosciuti che lui accarezza, spulcia e clas-sifica secondo logiche che ormai rendo-no Casetti, più che un semplice vendito-re, un sociologo, un urbanista, un antro-pologo, uno storico dell’immaginarioitaliano.

L’archivio fotografico criminale gli èarrivato in due classiche buste della spe-sa in cellophane. Molte immagini umide,alcune rovinate, diversi doppioni. Glispazi sono sempre tiranni. Anche in quelcaso qualcuno aveva fatto pulizia. «La fo-tografia — scrive Bonito Oliva — è unostrappo della pelle dalla realtà». Il sogget-to ripreso, secondo uno scritto di GiorgioAgamben su Mario Dondero (altra pas-

L’arte venuta dai cassonettifoto che strappano la pelle

Ottomila scatti archiviati dalla Questura di Romanegli anni Cinquanta e Sessanta, buttati via dentrodue buste di plastica, recuperati da un singolare libraioantiquario, Giuseppe Casetti, e ora organizzatiin una mostra, “Identificazione”, a cura di Achille BonitoOliva: delinquenti, spie, prostitute, corpi del reato...

Dal muro ci guardauna malavitaancora artigianale,che si attacca a tuttoe di tutto s’accontenta

Lampi al magnesiosulla tragediae la commediadi un’Italiaormai irriconoscibile

BANDITI E ARMINella foto grande, un pannello coperto di segnaletiche

Nelle foto piccole, dall’alto: un gruppo di banditi

ammanettati tra due poliziotti; un’ascia e un coltello;

un corredo di chiavi da scassinatore; l’arresto,

in una grotta, di un truffatore venditore di rifugi anti-

atomici; scatole di sigarette di contrabbando FO

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35DOMENICA 27GENNAIO 2008

sione di Casetti), «esige da noi qualcosa.Anche se la persona fotografata fosse og-gi completamente dimenticata, anche seil suo nome fosse cancellato per sempredalla memoria degli uomini, ebbenemalgrado questo — anzi precisamenteper questo — quella persona, quel voltoesigono il loro nome, esigono di non es-sere dimenticate».

E così è. A parte qualche spia araba, sto-rie di regolamenti di conti tra libici, nellaraccolta non ci sono personaggi famosi.O forse la cronaca è troppo lontana pertornare alla memoria. Eppure, sul retro diun’istantanea — anch’essa parecchioduchampiana — di rotoli di stoffa rubati,si trova scritto, per mano di poliziotto:«Cristo 63, teatro laboratorio Roma libe-

ra, capocomico Bene Carmelo, accusatiatti osceni, spettacolo sospeso in viola-zione legge tutela della pubblica mora-lità». Poco avanti, nel mucchietto, ritrat-to dietro un bancone e alle spalle una sfi-lata di biscotti Oro Saiwa, compare il ra-gazzo che nel novembre 1961, al Circeo,subì una pretesa «aggressione» e una «ra-pina» da parte di Pier Paolo Pasolini. Uncaso e un processo di cui allora si parlò alungo, e che lo stesso poeta ha ricordatocinque anni dopo in una sua autobiogra-fia in versi: «Lì dentro, c’era un ragazzotorvo, / col grembiule credo di ricordare,i capelli / fitti da donna, / la pelle pallida etirata, una certa folle innocenza negli oc-chi, / di santo ostinato, di figlio che si vuo-le uguale alla madre». Ed è proprio così,

ma sul serio. Anche lui, che pure si pre-senta come una specie di vittima, invocaindulgenza.

La raccolta poliziesca coglie l’Italia an-cora lontana dal crinale della grande mu-tazione antropologica che giusto Pasoli-ni cominciò a profetizzare nei primi anniSettanta. E lo dicono proprio le facce deiragazzi e delle ragazze di vita, i ciuffi a ba-nana, i fiocchetti, le espressioni spavaldeo intimidite, ebeti o volpine, e i baffi, i baf-fetti, le barbe non fatte, le acconciaturetrasandate, le donne rigorosamente sen-za trucco. Torna alla mente tutta una al-legra cinematografia che ha il suo capo-saldo ne I soliti ignoti, con i loro attrezzi,la loro umanità, la loro fame. Nel com-plesso una malavita artigianale e che si at-

tacca a tutto e di tutto si accontenta: cio-tolette pseudo-etrusche, tappeti, onori-ficenze, manine d’avorio per grattarsi,animali impagliati, pellicce spelacchiate,registratori Geloso. Quando non è l’eco-nomia della sussistenza a prenotarsi unposto in prima fila nella galleria crimina-le: scatole di tonno, coperte, materassi,pneumatici, cerchioni, una povera sve-glia, una paio di occhiali rotti, per giunta.Pare di cogliere ancora l’ombra lungadella guerra. Il consumismo è lontano. Lacrepa apocalittica non si è ancora aperta.E dunque, e comunque: «A che serve lacritica? Perché scrivere?» è la frase di Con-stantin Brancusi che Casetti ha posto asuggello della sua mostra: «Perché non li-mitarsi a far vedere delle fotografie?».

LA MOSTRA

La mostra Identificazione sarà

inaugurata il 31 gennaio alle 18

nella libreria-galleria “Il Museo

del Louvre”, via della Reginella 26, Roma

Un’antologia di foto segnaletiche

e di foto di corpi del reato,

fortunosamente ritrovate, un vero

e proprio archivio criminale che scorre

lungo le pareti dell’esposizione-

installazione ideata da Giuseppe Casetti

e curata da Achille Bonito Oliva

REPUBBLICA.IT

Da oggi, su Repubblica.it, nella

sezione multimediale, sarà possibile

vedere tutte le immagini della mostra

Repubblica Nazionale

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Il primo febbraio del 1938 il segretario del Partito fascista,Achille Starace, decretò su sollecitazione del Duce la mortedel “lei” giudicato dal regime “femmineo, sgrammaticato,

straniero e servile”. Tra camerati era richiesto l’uso del “tu”, altrimentisi consigliava la seconda persona plurale. Molti i consensi del mondoletterario. Anni dopo, a qualcuno balenò il sospetto che si fosse esagerato...

CULTURA*

36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27GENNAIO 2008

testata di battaglia che raccoglie adesio-ni «di qualità» — una lettera in cui spic-ca la dichiarazione: «Io ho sempre, peristinto, preferito usare il “voi”. La dispo-sizione del Governo, ora, mi ha quinditrovata perfettamente a posto». VascoPratolini sentenzia: «Il “voi” è italianoper la pelle» e «il tu è veramente origina-le, d’una freschezza, d’una intimità e diun rispetto inconfondibili».

Alberto Savinio s’intrattiene sui vizidel «pronome indiretto», insultandolo:«Il “lei” è lo strumento linguistico di co-loro che hanno qualcosa da nasconde-re»; è «il ponticello ideale dell’ipocrisia»;«lei è colui che non guarda in faccia». Re-nato Simoni prevede che «tra breve i“lei” superstiti, accerchiati da tanti“voi”, si arrenderanno e andranno a te-nere compagnia ai “molto riveriti signo-ri”, ai “padroni colendissimi” e ad altreossequiosità pallide e impolverate delpassato». «Sia pace all’anima del “lei”»,esclama la giovane Elsa Morante.

Occorreranno quattro anni perchénelle alte sfere del regime baleni il so-spetto d’aver esagerato. Lo fa pensareun ordine alla stampa impartito il 21marzo 1942: «Non riprendere voci pole-miche assurde contro un’asserita ec-cessiva diffusione del tu». Si manifesta,di fatto, qualche fastidiosa resistenza aquel provvedimento che sempre piùspesso viene chiamato l’«editto di Tigel-lino» (con riferimento a uno dei sopran-nomi attribuiti al segretario del partito).Antonio Spinosa, biografo di Starace,sostiene che, secondo molti intellettua-li, «il campione di quella resistenza eranientemeno che Benedetto Croce, ilquale, pur avendo sempre usato il voi dabuon napoletano, adesso s’era messo a

dare del lei a tutti».Il regime tuttavia persevera. Non si sa

se per precisa imposizione o per ecces-so di conformismo, in alcune case edi-trici un apposito revisore è al lavoro perridurre al “voi” i dialoghi che compaio-no in romanzi e racconti. In varie cittàvengono allestite mostre anti-lei. Inquella inaugurata a Torino campeggiala scritta: «A chi ti dà del lei ancora ades-

dai nazisti su modello prussiano. Se-condo il segretario del partito, sono ba-state poche settimane perché similiprovvedimenti entrassero nel costumenazionale. «Il saluto romano è ormai diuso comune», egli scrive in un foglio didisposizioni trasmesso ai segretari fede-rali. «Tutto il popolo lo ha adottato». Econtinua: «La stretta di mano, specienelle cerimonie ufficiali, deve essere as-solutamente abolita» perché «è antie-stetica, serve a far perdere del tempo,oppure è causa di disagio per le inevita-bili esclusioni che ne derivano».

Considerazioni ripetute in forma didivieto in un’ennesima velina ai giorna-li (21 novembre ‘38): «Non pubblicarefotografie con strette di mano, anche setali strette siano fatte tra altissime per-sonalità». Tra le foto di cui si vieta la pub-blicazione — riprodotte in un volumerecente a cura di Mimmo Franzinelli edEmanuele Valerio Marino — ce n’è in-fatti una in cui Mussolini dà la mano adHitler e un’altra nella quale egli stringe,con un inchino, quella di Vittorio Ema-nuele III. Immagini che farebbero scan-dalo. «“Dedito alla stretta di mano”», silegge in una minacciosa direttiva stara-ciana, «ecco la nota caratteristica da se-gnare nella cartella personale di chi per-siste in questa esteriorità, rivelatrice,quasi sempre, di scarso spirito fascista».

Gli italiani continuano — come dubi-tarne? — a stringersi la mano. Ma di na-scosto. D’altronde, come sempre capitaai missionari, l’ansia punitiva del segre-tario colpisce per primi quelli del pro-prio «ordine»: egli — come ricorderàGiovanni Ansaldo — ha imposto «ai fe-derali, ansiosi del suo favore, prove dacirco equestre». E quelli, un po’ inciam-pando, eseguono.

In principioc’è un articolo di gior-nale. È uno di quei “pezzi” da ter-za pagina, che interessano — seva bene — un ristretto numero diletterati. Lo firma il romanzierefiorentino Bruno Cicognani. Il

suo elzeviro, comparso il 15 gennaio1938 nel Corriere della sera, non è, comeal solito, ozioso. Emana invece aggressi-vità. S’intitola «Abolizione del Lei».

Questa paroletta, «lei» — rivela Cico-gnani — è turpe, infetta, esecrabile, di-sgustosa. E soprattutto antistorica. «Ro-ma repubblicana», egli ricorda, «nonaveva conosciuto che il “tu”. La Romacesarea poi conobbe il “voi”». Quel «ma-ledetto lei» è di derivazione spagnolescae cortigiana. È «una mostruosità» che «siriallaccia a un inquinamento del costu-me, del senso morale, della ragionevo-lezza d’un popolo». Lo si cancelli subito.«La Rivoluzione fascista si è proposta diriportare lo spirito della razza alle sueantiche origini. Ebbene, si compia an-che questa purificazione; si torni, anchein questo, all’uso di Roma, al “tu”,espressione dell’universo romano e cri-stiano. Sia il “voi” segno di rispetto e ge-rarchia».

L’articolo cade sotto gli occhi di Mus-solini, che ne è conquistato e ordina adAchille Starace di passare all’azione.

Ecco che il primo febbraio il segreta-rio del Pnf compila una di quelle «circo-lari» dallo stile inconfondibile che DinoGrandi, benché fascista fervente, defi-nirà «sciocchi diktat». Si decreta che «fracamerati iscritti al Pnf viene abolito il“lei” e adottato il “tu”. Tra gerarchi e gre-gari, nei casi in cui sussistano rapporti disubordinazione, è adottato il “voi”. Trale iscritte alle organizzazioni femminilie i fascisti sia adottato di norma il “voi”».

Segue una pioggia di veline ad uso deigiornali. «Si facciano degli articoli sull’a-dozione del tu romano». «Non usare il leinelle didascalie delle vignette, nelle no-velle e ovunque si riportino scritti in for-ma dialogica». «Si ricorda di controllareattentamente affinché il tu ed il voi so-stituiscano sempre il lei, straniero e ser-vile». «Si pubblichi in palchetto una no-ta contro il lei del seguente tenore: “Abo-lite nei vostri rapporti personali il leifemmineo, sgrammaticato, straniero,nato due secoli or sono, in tempi dischiavitù”». «L’ordine del giorno del ge-nerale Ugo Cavallero agli Stati Maggiorie il telegramma del medesimo al Ducevanno corretti. Dov’è detto “in nome diSua Maestà il Re Imperatore”, deve dir-si: “In nome della Maestà del Re Impe-ratore”». Vittima incolpevole della cam-pagna sferrata dal vertice è una rivista diattualità femminile, Lei, il cui editoremodifica per prudenza il titolo di testa-ta.

Manifestazioni di consenso si levanodal mondo letterario. Sul Corriere il ce-lebre filologo Giorgio Pasquali ammuc-chia pezze d’appoggio in favore delprovvedimento. La scrittrice Ada Negrimanda al direttore di Antieuropa— una

NELLO AJELLO

so — non dare il voi né il tu: — dagli delfesso». Passi per Starace, ma anche qual-che gerarca di diversa consistenza cul-turale si dichiara concorde (ma forsefinge) con l’imperante battage gram-maticale. «Ora che la Rivoluzione ha ri-costruito l’orgoglio nazionale» — hascritto a botta calda la rivista di Giusep-pe Bottai, Critica fascista, echeggiandoalla lettera l’ormai proverbiale elzevirodel Corriere — «si ristabiliscano il “tu”,espressione dell’universale romano ecristiano, e il “voi” in segno di rispetto edi gerarchia». È comunque fatale che,intorno alla guerra dei pronomi fiori-scano battute e prese in giro. Ecco unastoriella che ricavo dal volume Fascistidi Giordano Bruno Guerri. Starace, pen-sieroso, si fa ricevere da Mussolini. «NelMezzogiorno», gli sussurra, «gli italianiusano il tu, al Centro e al Nord il lei. Mapurtroppo di Voi non ne vogliono sape-re». Corre voce che in molte località del-la penisola corso Galilei è diventato cor-so «Galivoi» e che la città di Gradisca haaccettato di chiamarsi «Gradite».

La bulimia propagandistica di Stara-ce non contempla soste. Egli, che racco-manda ai camerati di «dormire con unocchio solo», è praticamente insonne.Sempre «in servizio». «A disposizione».Quando nel 1931 Mussolini lo ha nomi-nato segretario del partito, Leandro Ar-pinati, sottosegretario agli Interni, haobiettato: «Ma Starace è un cretino». «Loso», è stata la risposta del Duce, «ma è uncretino ubbidiente».

Ne offrono una riprova le altre due di-rettive che si aggiungono alla campagnasul lei: l’imposizione del saluto fascistacon il braccio teso in alto e quella del«passo romano», che in realtà è un’imi-tazione del modo di marciare adottato

La guerra dei pronominell’Italia in orbace

Album AuschwitzIL PIÚ IMPORTANTE DOCUMENTO

ICONOGRAFICO SUI CAMPI DI STERMINIO,

RITROVATO DA UNA DETENUTA:

MOSTRA LE FOTOGRAFIE SCATTATE

DAI NAZISTI NEL MAGGIO DEL 1944.

SONO LE IMMAGINI DELLA SELEZIONE

A CUI ERANO SOTTOPOSTI I PRIGIONIERI

EBREI, LE ULTIME PRIMA DEL BUIO.

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Repubblica Nazionale

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«Pensiamo a un delegato so-vietico che usa la parola“democrazia” a un dibattito

delle Nazioni Unite. Possiamo darealle nostre parole qualunque signifi-cato decidiamo? Abbiamo degli ob-blighi nei confronti degli usi del pas-sato?». A porsi tali domande, a metàdel Novecento, era Roger W. Hol-mes, un logico americano che stavacommentando un passo di Alice dal-l’altra parte dello specchio del suocollega inglese Charles LutwidgeDodgson, in arte Lewis Carroll. Aliceprotesta contro il modo di parlare diHumpty-Dumpty, che le risponde:

«Quando io uso una pa-rola, questa dice esatta-mente quello che le fac-cio dire io, né più né me-no». «Il problema è se leipuò far dire cose tanto di-verse a una parola», con-trobatte Alice. E lui, glorio-so: «Il problema è chi co-manda, ecco tutto».

Chi comanda, fra parole eparlanti? Il logico Holmesconcludeva abbastanza salo-monicamente che, se in uncerto senso non fossero le pa-role a comandare su di noi, lacomunicazione sarebbe per-fettamente impossibile; ma sein un altro senso non fossimonoi a comandare sulle parole, al-lora a essere impossibile sarebbela poesia. E naturalmente, si puòaggiungere, la propaganda sovie-tica, e la sua nozione — parados-sale — di «democrazia».

Nel Novecento di Orwell e di Sta-race, chi ha dominato i parlanti si èsempre regolarmente convinto dicomandare con ciò anche le parole.A ognuno la sua neolingua: campa-gne nazionalistiche e xenofobe, op-pure a favore di acronimi, eufemismi,denominazioni propagandistiche,creazioni di tabù e slogan. L’idiomahitleriano, quella Lingua Tertii Impe-rii o LTI studiata dal filologo ebreo Vic-tor Kemperer, imponeva fra le altredeformazioni il sintomatico uso positi-vo di «fanatico», in sostituzione di «eroi-co»: disegnava con ciò una platea inascolto, più che in parola, capace di as-sumere con fideismo assoluto il discor-so del potere e di riprodurlo senza maipassare dai fatti. Le dolenti note lessica-li di Primo Levi ci hanno raccontato laportata eufemistica del linguaggio na-zista (ma anche le frequenti concor-danze fra il «Lagerjargon» e il linguaggiodell’Arcipelago Gulag): «soluzione fi-nale» (lo sterminio), «trattamento spe-ciale» (camera a gas), «unità di prontoimpiego» (plotoni per esecuzioni di ci-vili in massa). Una disinfezione lingui-stica, che allontanava la realtà dal lin-guaggio per impedirne la registrazione,la memoria.

Di questi esperimenti rimangono al-cune cicatrici. Forse l’imbarazzo versoqualsiasi tentativo di politica linguisti-ca che pur meritoriamente voglia difen-dere lingue naturali destinate all’oblio elingue nazionali minacciate dalla glo-balizzazione; forse il fastidio verso leesagerazioni della politessequando sfo-cia nella politically correctness. Ma for-se, e più sottilmente, anche un senso diimpotenza rispetto ai nuovi Humpty-Dumpty, meno truculenti ma non mol-to meno prepotenti dei dittatori delpassato.

Proprio Primo Levi ne dà una tracciaquando racconta di un incidente persi-no ameno in cui incorse nel dopoguer-ra. Direttore di una fabbrica di vernici,dopo un incontro di affari con «alcunieducati funzionari della Bayer», li con-gedò con una forma linguistica inusua-le: «Jezt hauen wir ab». «Era come seavessi detto: “Ora ci togliamo dai piedi”.Mi guardarono stupiti: il termine ap-parteneva ad un registro linguistico di-verso da quello in cui si era svolta la con-versazione precedente (...). Spiegai loroche non avevo imparato il tedesco ascuola, bensì in un Lager di nome Au-schwitz; ne nacque un certo imbarazzo,ma, essendo io in veste di compratore,continuarono a trattarmi con cortesia».

L’appunto finale spalanca le porte al-la nuova pragmatica della comunica-zione: chi compra può dire quel chevuole. Perché sappia cosa volere è ne-cessario che il suo linguaggio sia fonda-to su parole-icone, simboli svuotati e ri-petibili, associati a connotazioni positi-ve, a prodotti e a personaggi. Nella co-municazione commerciale, di cui quel-la politica è una branca specializzata, siripetono termini-carezza — «libertà»,«vita», «valori», «famiglia», «tu» — maanche termini-ringhio — «cialtrone»,«loro», «vaffanculo» — che sarà poi fati-coso e inutile precisare e riportare al lo-ro valore letterale. Senza necessità diproclamare alcun Quarto Impero, il lin-guaggio odierno genera con beata im-punità i suoi eufemismi: l’ultimo rifugiodella dissidenza è forse l’etimologia.

Le parole-ringhiodi chi ci comanda

STEFANO BARTEZZAGHI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 27GENNAIO 2008

In maniera meno pacifica è stata ac-colta l’adozione del passo dell’oca. Lo ri-vela Galeazzo Ciano in una pagina delsuo diario. «31 gennaio 1938. Com’erada prevedere sono cominciate le pole-miche contro il passo di parata. Soprat-tutto i vecchi militari sono contrari, per-ché vogliono riconoscervi un’iniziativaprussiana. Il Duce reagisce con violenzae mi ha letto il discorso che pronunceràdomani per spiegare ed esaltare l’inno-vazione». Poiché «pare che anche il Re sisia espresso in senso contrario», prose-gue Ciano, «il Duce dice: “Non ho colpa

io, se il Re è fisicamente una mezza car-tuccia. È naturale che lui non potrà fareil passo di parata senza essere ridicolo.Lo odierà per la stessa ragione per cui hasempre odiato il cavallo, dato che devesalirvi con la scaletta. Ma la deficienza fi-sica di un sovrano non è una buona ra-gione per minimizzare, come ha fatto,l’esercito di un grande Paese”».

Per il grande Paese e per il suo eserci-to — viene spontaneo ricordarsene — sipreannunziano in quel 1938 prove diffi-cili, nelle quali di dubbia efficacia si ri-velerà il passo dell’oca.

‘‘Gagà e cicisbei

O giovanotti belli

dai morbidi capelli

gagà e cicisbei

che ancora usate il lei

Io dico a voi cucù,

non voglio il lei né il tu

Il tu verrà ma poi,

per ora esigo il voi

Filastrocca insegnata

nelle scuole nel 1939

SATIRANella vignetta

qui accanto,

pubblicata

sulla stampa

fascista

dell’epoca,

a piangere

la fine del “lei”

è un signore

che indossa

un cappello

“a tubo di stufa”,

cioè tipico

della vecchia

eleganza

borghese

che il regime

osteggiava

DIRETTIVEInsieme

all’abolizione

del “lei”, Starace

impose il saluto

fascista (nella foto

grande, un raduno

di giovani “balilla”)

e il “passo

romano”

nelle parate

A destra,

due immagini

della propaganda

dell’epoca

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la letturaTalenti precoci

Èl’agosto del 1922, il futuro autore de “La bella estate”ha quasi quattordici anni.Parte da Torino per un campo scouta Genova e sulla Riviera ligure. Scrive impressioni, incollacartoline e annota piccole avventure. Nel suo diariodi quei giorni, che ora viene pubblicato, tra sole, sabbiae navi lontane si indovina il futuro di un uomo

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27GENNAIO 2008

si. Prendo la lanterna e l’orologio e va-do ai piedi del palo della bandiera. Di làfaccio due o tre giri intorno al campopoi mi seggo un momento e per passa-re il tempo comincio a guardare le stel-le. Ecco là l’Orsa maggiore,... la Mino-re, la Lira, il Cigno,... lo Scorpione...Marte e mille altri fulguri celesti. Stavoammirando il Cigno quando uno scric-chiolio mi fece voltare. Nulla..... è uncane che fugge davanti alla luce dellalanterna.

Riprendo a fare giri intorno al cam-po, per sgranchirmi. Do uno sguardoall’orologio, la mezza, purtroppo! soloancora la mezza.... Conto fino a cento,vado fin sulla strada, guardo la Luna,che è apparsa ora, ma passano appenacinque minuti. Allora riprendo i giri, misiedo, ripenso ai fatti accaduti nellagiornata, mi diverto a illuminare unadopo l’altra le diverse tende, e final-mente passa un’altra mezzora. [...]

16 agosto, mercoledì

Ripartiamo subito. Passiamo in luoghibrulli per la gran siccità e dopo giungia-mo sulla punta d’una collina battuta daun vento impetuoso; quivi ci fermiamoun istante a raccogliere fiori, poi di-scendiamo nella valle e raggiungiamoun torrente asciutto. Per sentieri quasialpini giungiamo ad un ponte che at-traversa un burrone tutto di roccia egiungiamo all’acquedotto. Quivi be-viamo l’acqua fresca che sgorga da unasorgente coperta da una costruzionesomiliante ad un marabutto arabo.

Quindi fatta colazione riprendiamoguidati da un prete di Celle, la via del ri-torno. Riattraversiamo le colline e giun-giamo a Stella S. Martino. Ma qui comin-ciano i guai. Per fare più presto il pretevolle prendere una scorciatoia e così ciperdemmo in mezzo al bosco. Dopomolti giri andammo a finire a Stella Car-magnana, dove ci fermammo a bere.

Alle ore 7,30 eravamo tuttiin stazione. I saluti, gliauguri, le domande, leraccomandazioni deiparenti e degli amici s’in-crociavano. Ero come

stordito. La partenza, ed i preparativimi avevano messa addosso un’ansiache non riuscivo a dissimulare. Fortu-natamente salimmo subito in treno,dove avevamo un vagone riservato. Ag-giustati i sacchi sui porta bagagli atten-demmo con ansia il fischio della loco-motiva che ci avrebbe annunziata lapartenza.

L’atteso segnale non si fece attende-re troppo e gli ultimi auguri e le ultimeraccomandazioni si perdettero nel ru-more di ferramenta del treno che simetteva in marcia. Eravamo in viaggio.Finalmente! [...]

13 agosto, domenica

Come mi tufferò volentieri nell’ondatiepida! Dobbiamo fare una strada unpo’ lunga, ma non importa. Giungiamoalla spiaggia. Essa è veramente bella,con l’azzurro carico tutto solcato da fi-ni triangoli bianchi. Ci mettiamo infretta il costume e entriamo nell’acqua.Dopo due ore però ci tocca tornare. [...]

Io e Satta G. andiamo a Celle a com-prare caffè e zucchero per la sera. Tor-niamo, ci danno la minestra (paste),un’insalata di pomidori e cocomeri e vi-no. Comincia il rapporto. Parlano il prof.Emilio e D. Romersi. Diciamo le preghie-re ed andiamo a dormire. Non appenacoricati siamo già di sasso. Altro che ieri!Di guardia il gruppo di Gomirato.

15 agosto, martedì

A mezzanotte viene Satta a svegliarmi.Ouff!! Che barba! Pensare che sto cosìbene sotto la tenda. Ma bisogna alzar-

Mi seggo un momentoe per passare il tempocomincio a guardarele stelle.Ecco làl’Orsa maggiore,la Minore, la Lira,il Cigno,lo Scorpione, Martee mille altrifulguri celesti

Una giornata di azzurro caricoCESARE PAVESE

LE IMMAGINIAlcune pagine del diario giovanile

di Cesare Pavese insieme

alle cartoline che lo scrittore in erba

aveva incollato sulle pagine

del quaderno A destra, un ritratto

di Pavese bambino

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 27GENNAIO 2008

GENOVA

Erano i giorni del ritrovamento del cadavere di Giacomo Mat-teotti, si consumava l’estate del 1922 che di lì a poco, in ottobre, sa-rebbe culminata nella marcia su Roma. Ma per il giovane Cesare Pa-vese, che a settembre avrebbe compiuto quattordici anni, fu davverouna bella estate. Insieme a un gruppo di compagni, il 12 agosto partìdalla stazione ferroviaria di Torino per raggiungere Celle Ligure e tra-scorrere nel borgo rivierasco poco meno di due settimane in un cam-

po scout. La vacanza segnò l’incontro del futuro scrittorecon il mare e con il porto di Genova. Quel mare e quei ba-stimenti battenti bandiere di tutto il mondo che, in virtùdella lettura delle storie di Emilio Salgari, avevano riempi-to i sogni di un ragazzo che avrebbe poi tradotto Moby Dickdi Herman Melville e avrebbe scritto la poesia I mari delSud.

Come è regola per tutti gli scout, anche Pavese dovettecompilare un diario della “avventura” in Liguria. E lui si at-tenne all’obbligo, aggiungendovi cartoline, disegni e per-sino una lista delle navi all’ancora nel bacino della Lan-terna. Il quaderno venne conservato. Dopo la sua morte,avvenuta il 27 agosto del 1950, finì alla famiglia che in se-guito lo consegnò al Centro Pavese e Guido Gozzano del-l’università torinese. E tra quelle carte lo ha ritrovato tem-po fa Mariarosa Masoero, tra le maggiori studiose pave-siane, erede del magistero di Marziano Guglielminetti.Grazie a Fabrizio Calzia, un giornalista e scrittore geno-vese che ha fondato la casa editrice Galata e che era ve-nuto a conoscenza dell’inedito dell’autore de Il diavolosulle colline, ora il taccuino di Celle è diventato il piccoloe prezioso libro Dodici giorni al mare (64 pagine, 12 eu-ro). Sarà in libreria in settimana, con un’ampia introdu-

zione della professoressa Masoero. Per riuscire a pubblicarlo Calziaha dovuto attendere a lungo, e soprattutto ottenere il benestare deglieredi dello scrittore e dell’Einaudi, che da sempre ha l’esclusiva per lapubblicazione delle sue opere.

È stimolante, ricco di spunti e per certi versi illuminante, il diario ri-trovato dello scrittore da cucciolo. Intanto perché dimostra come l’a-dolescente Cesare fin da allora fosse consapevole di avere in destinola letteratura, dato che a un certo punto, nello stendere le note da Cel-le, si rivolge già a un ipotetico lettore: «Non starò a descrivere il mioquarto di guardia, lo lascio immaginare al lettore». E in secondo luo-go, spiega Mariarosa Masoero, ha un valore in quanto si possono co-gliere i sintomi aurorali della sua «passione marinara». Sarebbe ma-turata ai tempi della traduzione del capolavoro di Melville, però affon-dava «le sue radici nei ricordi d’infanzia, nelle letture salgariane (“Ohda quando ho giocato ai pirati malesi/ quanto tempo è trascorso”),nei racconti del cugino Silvio e degli amici, nelle fantasie adolescen-ziali e forse, perché no, in quel lontano, magico, incontro col mare vis-suto a Celle Ligure e a Genova, tra una ventina di compagni festosi,lontano da casa e dai luoghi a lui più famigliari, Torino e le Langhe».

La stessa Genova, rammenta la Masoero, ritornerà nei racconti enei romanzi. In modo significativo sarà presente ne La luna e i falò, illibro estremo, l’ultimo, che Pavese scrisse. Il protagonista Anguilla «lìsarà “soldato”, si innamorerà di “una ragazza che somigliava a Silvia”,girerà “carugi” e “cantieri”, s’imbarcherà per l’America e lì ritornerà,per lavorare e vivere “in viale Corsica”. Da lì si allontanerà per un mo-mentaneo ritorno ai luoghi dell’infanzia e della prima giovinezza», leLanghe, dove racconterà a Cinto, un ragazzo sciancato, che «anche ilmare è venuto con le righe delle correnti, e che da bambino guardan-do le nuvole e la strada delle stelle, senza saperlo aveva già comincia-to i suoi viaggi». Un viaggio vagheggiato ma impossibile, che aveva ini-ziato nell’agosto del 1922, osservando «mille fulguri celesti» e unaspiaggia «con l’azzurro carico tutto solcato da fini triangoli bianchi».

Cesare Pavese, ritrattodello scrittore da cucciolo

MASSIMO NOVELLI

Continuando incontriamo una contadi-na che ci avverte che continuando quel-la strada saremmo andati a finire a Albis-sola. Ci mette poi sulla strada di Sanda(Celle). Là compriamo grissini e mangia-mo. Proseguendo raggiungiamo la stra-da del cimitero e dopo corta marcia giun-giamo al campo. [...] (Non starò a descri-vere il mio quarto di guardia, lo lascio im-maginare al lettore. Come ho maledettoil quarto d’ora che non ho montato, la

scorsa notte).

17 agosto, giovedì

Giungiamo finalmente al palazzo San-soni, sede del circolo Pio VII. Visitiamole camere dove trascorse due giorni PioVII, per poi essere trasportato alla sedevescovile. I giovani del circolo ci offri-rono un bicchierino di liquore e carto-line raffiguranti diversi episodi della vi-ta di Pio VII.

Io ed un mio compagno ci affacciam-mo ad una finestra di dove ammirammoin una stretta viuzza un mercato di po-modori, ortaggi, e frutta. Che strida! Parea Porta Palazzo a Torino! Usciti dal palaz-zo Sansoni andammo al vescovado. [...]

19 agosto 1922

Facciamo pulizia. Ci facciamo il letto edopo si esce tutti. Vado col portinaio acomprare delle pesche per stassera(sic). Che ridere su quel mercato!....

Tornato gioco al bigliardo con ungiovinotto, e dopo vado a preparare latavola.

Giungono gli altri usciti con Bordiga,ed il sign. Volpatto coi pionieri. Cenia-mo (Caffè e latte, pane, 4 pesche).Usciamo. Andiamo alla Rotonda e di làvediamo buona parte del porto. Cioèvediamo solo i fanali dei diversi basti-menti e barche e tre fari, ciò che confe-risce al porto un aspetto magnifico.

La Lanterna a N-W della Rotondabrillava spegnendosi a intervalli brevi.Oltre a ciò si vedevano ancora due farialle punte dei moli, uno rosso e uno ver-de anch’essi a intermittenza. Inoltreabbiamo la fortuna di assistere all’en-trata di un piroscafo, che luminoso, perle lampade delle cabine e per i fanali de-gli alberi, s’inoltrava maestosamentenell’acqua calma. Fece per due o trevolte fischiare la sirena, ed il cupo boa-to sembrò risvegliare tutta l’immensitàaddormentata.

Chissà da quale lungo viaggio torna-va quel transatlantico dalla mole enor-me e dai fianchi poderosi? Chissàquante persone portava nel suo seno?Ma voltandoci la poppa a poco a pocodiminuì di splendore e sparì poi fra lemille altre luci sparse sulla superficiesconfinata. Ma dovemmo ritornare edopo aver detta la preghiera ci cori-cammo.

Usciamo. Andiamoalla Rotondae di là vediamo buonaparte del portoCioè vediamo soloi fanali dei diversibastimenti e barchee tre fari, ciò checonferisce al portoun aspetto magnifico

IL LIBRO

Si intitola Dodici giorni al mare il diario inedito

di Cesare Pavese in cui l’autore

de La luna e i falò non ancora quattordicenne

racconta una sua vacanza estiva

e di cui pubblichiamo un estratto

in queste pagine. In libreria in questi giorni,

per i tipi di Galata (64 pagine, 12 euro),

il volume sarà presentato a Genova lunedì

28 gennaio alle 18 a Palazzo Ducale (primo

piano, nei locali di Mentelocale), nell’ambito

della manifestazione Genovainedita

Il gruppo teatrale Azonzo leggerà

in pubblico brani del diario

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La pioggia di nomination è appena arrivata e in attesadella cerimonia di consegna delle statuette più ambitedel mondo, a Los Angeles la macchina organizzativa

funziona a pieno ritmo.Seimilacinquecento “giudici” decideranno le sorti di attori,registi e produttori in gara. I bookmaker accettano scommesse, ma la storia insegnache i prediletti restano i film biografici e quelli di guerra. Con qualche sorpresa...

SPETTACOLI

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27GENNAIO 2008

Dollari e sogni nella città degli angeliLOS ANGELES

La notte delle stelle nacquecome geniale soluzione didistrazione e autocelebra-zione durante un momento

di crisi, che vide fronteggiarsi, alla finedegli anni Venti, i mogul di un’industriaagli albori e le prime organizzazioni sin-dacali del cinema, che arrivarono a mi-nacciare qualcosa che a Hollywood erainimmaginabile: uno sciopero. Gli argo-menti all’ordine del giorno nel conflittotra majore talentserano la libertà creati-va e una ridistribuzione più equa degli in-cassi all’interno di un’industria che eradiventata, in soli trent’anni di vita, laquarta per importanza dell’intera eco-nomia americana.

Sono passati ottant’anni e lo spettaco-lo oggi rappresenta la se-conda industria per fat-turato, ma gli argomentisembrano sempre glistessi. Non solo: il colpomortale inferto recente-mente ai Golden Globes ela situazione di tensione eincertezza con cui saran-no vissuti quest’anno gliOscar dimostrano che lecrisi rappresentano unacondizione perenne nel-la città degli angeli. Lostrumento di lotta sinda-cale che portò indiretta-mente alla nascita dell’A-cademy of Motion Pictu-re Arts and Sciences puòfinire per oscurare persino il suo mo-mento di massima visibilità.

Sin dalla prima serata, che si tenne il 16maggio 1929 nella sala da ballo del Roo-sevelt Hotel, i cosiddetti movers andshakers di Hollywood hanno compresoche la consegna delle statuette creata daCedric Gibbons avrebbe svolto tre com-piti di importanza essenziale per l’interal’industria: la celebrazione di un mito sucui tutti hanno il diritto di sognare, l’au-tocelebrazione di un mondo per pochieletti, e la commercializzazione di questidue elementi. Ogni discorso relativo al-

l’effettivo merito dei premi consegnatinel corso della grande notte hollywoo-diana ha sempre avuto un ruolo margi-nale e, sin da quella prima serata, i due-centocinquanta invitati che assistetteroalla vittoria di Alisvolsero alla perfezioneil ruolo che erano stati chiamati a inter-pretare: quello di divinità in grado di di-mostrare con il proprio trionfo che l’A-merica è la terra delle opportunità. Che ilsuccesso raggiunto poteva essere allaportata di chiunque, ma in quel momen-to tra loro e il resto del mondo c’era la dif-ferenza che passa tra la luce della ribaltae il buio in sala.

Chi visita oggi la sede dell’Academy suWilshire Boulevard, o la Margaret Her-rick Library, può rendersi conto che ognidettaglio è curato per sigillare l’edifica-zione di un culto: la biblioteca si trova inuna costruzione identica a una chiesa enella quale domina un silenzio sacrale.Nelle vetrine collocate nelle navate, de-

dicate a Katherine Hep-burn e Cecil B. De Mille,campeggiano le ultimeimmagini di James Deansul set del Gigante, cari-cature a firma di Jean Ne-gulesco, e telegrammicon i quali Jack Warneresprimeva la propriapreoccupazione perproduzioni fuori bud-get. Il rispetto religiosodel cimelio porta a risul-tati che sfiorano il ridico-lo: in una vetrina è espo-sta la copia del diario diAnna Frank utilizzatonel film di George Ste-vens. Si tratta di un og-

getto realizzato dal reparto scenografia,ma la sua presentazione ha la solennitàche si sarebbe usata per l’originale.

Hollywood ha bisogno di miti e la sera-ta dell’Oscar è il momento delegato adassolvere questa esigenza, creando il ter-reno fertile per la diffusione di piccole egrandi leggende. È vero ad esempio chenel 1992 l’Oscar per la migliore attricenon protagonista era andato a Judy Da-vis per Mariti e mogli, ma che Jack Palan-ce, il quale presentava il premio e avevabevuto un po’ troppo, annunciò il nomedi Marisa Tomei per Mio cugino Vincen-

zo? Le voci che smentiscono sono nume-rose almeno quanto quelle che confer-mano, spiegando che sarebbe stato im-possibile recuperare la gaffe di fronte apiù di un miliardo di telespettatori dopoche la Tomei era salita esultante sul pal-co. Ma proprio Hollywood, per bocca di

un gigante come John Ford, ha spiegatoche quando la leggenda supera la realtà ènecessario stampare la leggenda.

Sin dai primi anni le scelte dei film dapremiare hanno dato la sensazione chele motivazioni obbediscano a criteri in-dustriali. Nessuno che conosca il cinema

può pensare che Com’era verde la miavalle è preferibile a Quarto Potere eShakespeare in love a Salvate il soldatoRyane La sottile linea rossa. Eppure le vi-cissitudini amorose di Shakespeare han-no prevalso sui due grandi film di guerradi Spielberg e Malick grazie a una cam-pagna estremamente aggressiva dellaMiramax. Nessuno può giudicare TheDeparted il film migliore di Scorsese, ep-pure il regista è stato premiato proprioper quel film, dopo essere stato sconfittoper ben sei volte, due delle quali da attoripassati alla regia come Robert Redford(Gente comune nell’anno di Toro scate-nato) e Kevin Costner (Balla coi lupi nel-l’anno di Good Fellas).

Nella storia degli Oscar non mancanoannate in cui i film scelti erano di indub-bia qualità (basti pensare a Il Padrino, ea Il cacciatore), e altre in cui le candida-ture hanno messo a confronto pellicoledi prima grandezza: nel 1939 Via col ven-toprevalse su Ombre rossee Mr. Smith vaa Washington, mentre nel 1975 Qualcu-no volò sul nido del cuculoebbe la megliosu Nashville e Barry Lindon. Non menodiscutibili le premiazioni nel campo del-la recitazione, dove dominano sceltedettate dall’interesse di mercato o daibuoni sentimenti: specie nelle categoriadei non protagonisti l’Oscar è andatoquasi sempre a giovani talenti da lancia-re o veterani da consolare.

Ma per comprendere i risultati è ne-cessario capire come funziona la mac-china degli Oscar: hanno diritto al votoseimilacinquecento membri dell’Aca-demy, eletti per essere stati a loro voltanominati o proposti — per meriti artisti-ci o produttivi — da almeno due altrimembri. L’Academy è divisa in quindicidipartimenti, che rispecchiano le rispet-tive qualifiche professionali dei singolipartecipanti. Tutti i seimilacinquecentomembri votano per il “miglior film”,mentre ognuno vota per la categoria dicui fa parte: considerando che alcune ca-tegorie sono ulteriormente divise, il nu-mero totale dei premi è ventiquattro.Sulla carta il meccanismo è più affidabi-le di quello delle giurie dei festival, manon si può sottovalutare l’impatto dicampagne promozionali miliardarie e lapressione delle major, che hanno facilegioco sugli artisti sotto contratto.

ANTONIO MONDA

Lafabbrica

degli Oscar

il 16 maggio si svolse

la prima serata degli Oscar

1929

i membri dell’Academy

che hanno diritto al voto

6500

il numero totale dei premi

che vengono assegnati

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Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 27GENNAIO 2008

Nel periodo che va dalle feste natalizieall’ultimo giorno utile per il voto, i mem-bri dell’Academy sono inondati di dvd,materiale pubblicitario e inviti a cocktaile feste il cui unico senso è quello di spo-stare voti a favore di un film. È certamen-te apprezzabile che quest’anno sia statoriconosciuto il valore del Petroliere diP.T. Anderson o di Non è un paese per vec-chi dei Coen, con otto candidature a te-sta, ma sarà sufficiente la qualità di que-ste pellicole contro la forza contrattualedi major quali la Warner Bros (MichaelClayton) e la proposta ammiccante diEspiazione (tratto da Ian McEwan) chesembra concepito appositamente per lanotte degli Oscar? I risultati “storici” of-frono un’interessante lettura sociologi-ca riguardo ai generi dei film prediletti: lepellicole che hanno avuto il maggior nu-mero di candidature nella categoria “mi-glior film” sono quelle biografiche (unasettantina di nomination con una dozzi-

na di vittorie), seguono i film di guerra (59candidature e 14 vittorie).

Meno rappresentate le commedie e imusical, i film di avventura e i western:l’Academy sembra prediligere la storia el’epica moderna, rifiutando invece, in-sieme ai toni leggeri, quella delle originidel proprio Paese. Esistono alcuni perso-naggi che sembrano garantire la nomi-nation, ed è interessante notare che sitratta spesso di sovrani: Enrico VIII, cheha regalato una candidatura a CharlesLaughton (1933), Robert Shaw (1966) eRichard Burton (1969); Enrico II (a PeterO’Toole, che lo interpretò in Becket nel1964 e nel Leone d’inverno nel 1968); edEnrico V che ha consentito sia a Lauren-ce Olivier (1946) che a Kenneth Branagh(1989) di conquistare i votanti con il di-scorso prima della battaglia di Agincourt.

I membri dell’Academy sono consa-pevoli di essere a loro volta degli happyfew, ma a distanza di decenni sembrano

appassionarsi sempre agli stessi ruoli. Èil caso di Cyrano (Jose Ferrer e GerardDepardieu) e del campione di biliardoEddie Nelson, che garantì una nomina-tion a Paul Newman per Lo spaccone nel1961 e poi un Oscar nel 1986 per Il coloredei soldi. L’Oscar è per natura conserva-tore, ma non è ostile alla ricezione gra-duale delle novità: la rivoluzione stilisti-ca di Pulp Fictionarrivò nell’anno di For-rest Gump, ma il film di Tarantino (chepure ottenne sette candidature) persecontro quello di Zemeckis. Questo ap-proccio conservatore si riflette anchenell’organizzazione della serata, sostan-zialmente identica da quando è stata tra-smessa in televisione, ma anche in que-sto caso dominano le motivazioni com-merciali: il premio, che tradizionalmen-te era consegnato di lunedì, da una deci-na di anni è stato spostato alla domenicaper garantire una migliore audience te-levisiva, mentre la data, che coincideva

con l’ultima settimana di marzo, è stataanticipata di un mese per allungare losfruttamento economico dei film pre-miati prima delle uscite estive.

Non si deve mai dimenticare che stia-mo parlando dell’unico luogo al mondoin cui l’espressione “fabbrica dei sogni”non è un ossimoro ma una realtà auten-tica e vincolata al profitto. E neanche ilpiù esperto dei produttori è esente da fia-schi inaspettati e clamorosi. È questo ilmotivo per cui si assiste a decisioni pro-duttive rivoluzionarie, che hanno porta-to a premiare — almeno nelle nomina-tion — film importanti e per nulla main-stream quali Il petroliere, o, nel recentepassato, Magnolia, I Tenenbaum, Fargo,Mulholland Drive, e Blue Velvet. GliOscar sono anche questo, ed è difficile re-sistere all’idea che la grande notte con isuoi film ci continui a regalare un’ideatangibile e seducente di cosa sia la mate-ria di cui sono fatti i sogni.

LE CURIOSITÀ

LA STATUETTA

La famosa statuetta

degli Oscar, creata

nel 1928, vale circa 295

dollari. I vincitori sono

“invitati” a non venderla,

l’Academy la ricompra

per circa dieci dollari

IL NOME

Il nome della statuetta

è Academy Award of Merit

Si dice che fu battezzata

Oscar da una segretaria

dell’Academy, Margaret

Herrick, che disse: “Somiglia

a mio zio Oscar!”

IL DISCORSO

Il discorso più lungo tenuto

da un vincitore di Oscar

fu quello di Greer Garson,

miglior attrice protagonista

in La signora Miniver del 1942. Parlò cinque minuti

e trenta secondi

LA CERIMONIA

La più lunga cerimonia

di consegna degli Oscar

fu quella del 1984 che durò

tre ore e quaranta minuti

Ogni vincitore ringraziò

sette persone alle quali

doveva il suo successo

GLI STRANIERI

L’unico anno in cui

non ci fu nessun regista

americano candidato

all’Oscar fu il 1988

Vinse quell’edizione

Bernardo Bertolucci

con L’ultimo imperatore

LA PROTESTA

Marlon Brando nel 1973

preferì rinunciare alla statuetta,

vinta per il film

Il Padrino di Coppola,

in segno di protesta

per la vita degli indiani

d’America. Inviò una squaw

a tenere un discorso

BEN HUR

Ben Hur, diretto da William

Wyler, si aggiudicò

nel 1959 ben undici Oscar

conquistando così il titolo

di film più premiato

WALT DISNEY

Walt Disney ha vinto

il maggior numero di Oscar

in ogni categoria. Totale:

ventisei statuette

più sei premi speciali

KATHARINE HEPBURN

Katharine Hepburn ha vinto

il maggior numero di Oscar

come attrice protagonista

Tra il primo (1933) e il quarto

sono passati quarantotto anni

MARLENE DIETRICH

Tra le attrici più ignorate

dagli Oscar: Marlene Dietrich

e Rita Hayworth. Glenn

Close, candidata sei volte,

è stata sempre battuta

TATUM O’NEAL

La più giovane vincitrice

di un Oscar. A nove anni

fu premiata come migliore

attrice non protagonista

per Paper Moon (1973)

JOHN WAYNE

John Wayne a sessantadue

anni, nel 1970, ricevette

per la prima volta la statuetta

per El Grinta. Era il suo

centocinquantottesimo film

HELEN MIRREN

È l’ultima miglior attrice

protagonista (2007)

Si è aggiudicata l’Oscar

per il ruolo di Elisabetta II

in The Queen

Nelle ultime edizionidegli Awardssi sono rivelati

imbattibili gli attoriche sul grande setvestono i panni di

personaggi disabili,brutti, tormentatio semplicementesconfitti dalla vita

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L’invitato d’onorealle cene gourmand

C’era una volta Michele, disinvolto e guascone, capace di rico-noscere a occhi chiusi il suo preferito. Poi sono arrivate mo-delle sinuose e poderosi boscaioli, camini accesi e feste su-per trendy. La pubblicità ha provato di tutto, per ridare lustroal liquore dei liquori esautorato, dopo gli splendori degli an-ni Settanta, dai superalcolici-culto del consumismo avanza-

to. Happy hour e bere globalizzato hanno messo i cocktail in cima alla pira-mide del bere modaiolo. Così, gin, vodka, triple sec e distillati esotici come lacachaca (ingrediente base della caipirinha) hanno sbancato il mercato, men-tre il whisky, con i suoi cubetti di ghiaccio a cotè e i suoi classicissimi long-drink finiva nel dimenticatoio, bollato come vecchio, sorpassato, noioso.Poi, sono arrivati i torbati. Whisky muscolosi, per nasi robusti e palati virili.Nati in un’isoletta dalle atmosfere magiche, dove gli allevamenti di ostricheregalano conchiglie sontuose, agnelli e mucche brucano insieme a un passodal mare, lontani da malattie e pratiche intensive (qui mucca pazza non è maiarrivata), e l’acqua dolce, colore del bronzo per via della terra particolare, ri-cama di sorgenti e torrenti la geografia del suolo. Il primo italiano a raccon-tarli fu Gino Veronelli. Che ne rimase tanto rapito dal battezzare una “riser-va” di Laphroig, ovviamente realizzata a Islay, con parole rubate all’atmosfe-ra di un romanzo di Simenon: «Odorare questo whisky è come camminare

d’inverno sui binari di una vecchia stazione».Così, nel giro di poco, pochissimo tempo, il whisky è uscito dal ghetto degli

alcolici d’antàn per riprendere il posto che gli spetta, fianco a fianco con i gran-di liquori da meditazione: rum, cognac, armagnac, sherry. Con un passo per-fino più spedito e leggero. Perché nel frattempo, cultura alimentare e nuovagastronomia l’hanno promosso su due passerelle inedite e di assoluto presti-gio: da una parte, come ingrediente di salse, riduzioni, marinature nei piattidella cucina d’autore; dall’altra come “bevanda” in abbinamento a menùispirati al distillato di malto.

Da Paola Budel a Carlo Cracco, da Bruno Barbieri a Filippo Chiappini Dat-tilo, il mondo degli chef ha annusato il whisky prima con sospetto, poi con cre-scente curiosità. La successione dei piatti si salda alla degustazione, senza te-ma di finire anzitempo sotto i tavoli: questione di diluizione. Incatenati allacultura del bere nerboruto, ci perdiamo la soavità dei profumi, che nulla han-no a che vedere con l’alcolicità. Nelle terre di produzione, infatti, il whisky sibeve ben allungato, in proporzione da uno-a-due o uno-a-tre, proprio persnudare i bouquet di aromi sapientemente creati dal distiller manager. Verodeus ex machina della distillazione, a lui tocca dosare gradi e tempi di lavora-zione, ma anche (e soprattutto) scegliere le piccole botti di affinamento, chein precedenza avevano contenuto sherry, porto, bourbon. Il tutto, per unasvariata quantità di anni, che aggiungono finezza e smussano angoli, arro-tondano il gusto e rendono sensuale l’approccio al palato.

Se non avete tempo di recarvi nei templi del whisky, regalatevi una seratain uno dei ristoranti dove i grandi importatori — da Diageo a Meregalli, daGaja ai fratelli Rinaldi — organizzano menù dedicati con degustazione. E in-tanto, fate vostro il segreto di Federico Fellini, che di tanto in tanto aggiunge-va un cucchiaino di whisky alla minestra: annusare la zuppa non vi sarà maisembrato tanto inebriante e soave.

42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27GENNAIO 2008

i saporiSuperalcolici

itinerariGraham Logieè il "managerdistiller"di Lagavulin,una delle nove,pregiate distilleriepresenti su Islay

Competenza e talentofirmano i due milionie mezzo di litri(il novanta per centodi single malt)prodotti ogni anno

Ailah (si pronuncia

così), la più celebre

delle isole Ebridi,

è fatta di quasi sola

torba, che regala

aroma di fumo

e iodio. Al nord

whisky freschi

come il Caol Ila,

al sud robusti come il Laphroaig. Il 24 maggio

comincia la “Feis Ile”, festa dei malti

DOVE DORMIRELOCH GORM HOUSE

Bruichladdich

Tel. (+44) 149-6850139

Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREPORT CHARLOTTE (con camere)

Port Charlotte

Tel. (+44) 149-6850360

Senza chiusura, menù da 30 euro

DOVE COMPRARETHE ISLAY WHISKY SHOP

Bowmore

Tel. (+44) 149-6810684

IslayNell’isola originaria

del whisky – nato

dalle mani dei monaci

nel Seicento –

la produzione

è ridotta a un pugno

di aziende (Bushmills,

Cooley e Midleton)

La capitale

della Repubblica d’Irlanda ospita un museo

nato in un’ex distilleria, con negozio annesso

DOVE DORMIREDRURY COURT HOTEL

28-30 Lower Stephens Street

Tel. (+ 353) 1-4751988

Camera doppia da 124 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARETHE TEA ROOM

6-8 Wellington Quay

Tel. (+ 353) 1-4070813

Chiuso sabato a pranzo, menù da 40 euro

DOVE COMPRARETHE OLD JAMESON DISTILLERY

Smithfield

Tel. (+ 353) 1-8072355

DublinoLa capitale economica

della Scozia vanta

un incredibile numero

di pub

dove degustare

le produzioni

delle diverse lands:

Highland (Islands

e Speyside), Islay,

Campbeltown e Lowland. Nell’ultimo weekend

di ottobre, ospita il “Whisky live”

DOVE DORMIRETOWN HOUSE HOTEL

21 Royal Cresent

Tel. (+44) 141-3329009

Camera doppia da 85 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREBRIAN MAULE AT CHARDON D’OR

176 West Regent Street

Tel. (+44) 141-2483801

Chiuso domenica, menù da 35 euro

DOVE COMPRARETHE WHISKY SHOP

Unit 12 Princes Square, 48 Buchanan Street

Tel. (+44) 141-2268446

Glasgow

Scalzato dai cocktail dell’happy hour, è tornato di prepotenzanel novero dei liquori-culto dopo la scoperta dei torbatiE ha guadagnato nuove posizioni grazie all’interessamentodella cucina d’autore: ingrediente di salse, riduzioni, marinature;ma anche bevanda da pasto in abbinamento a menù fatti su misura

WhiskeyLa “e” aggiunta nella parola

distingue il distillato in arrivo

dall’Irlanda. Caratteristiche:

mancanza di “affumicato”

nel gusto (malto asciugato

in forni senza torba), almeno tre

distillazioni successive, impatto

più morbido e mielato al palato

BourbonIl Kentucky whiskey,

è una miscela di mais – almeno

il 51 per cento – segale e orzo

La produzione si concentra

in sei stati: Kentucky, California,

Illinois, Pennsylvania, Indiana

e Georgia. Invecchiamento

in botti nuove per due anni

LICIA GRANELLO

Cask strenghtLa gradazione piena identifica

i whisky (detti anche Full Proof)

senza aggiunta d’acqua durante

la lavorazione, mantenendo intatto

il tasso alcolico ottenuto

dalla distillazione (da 60 a 80 gradi)

Si servono con acqua a parte,

per graduare la diluizione

Single barrelCure assidue per il super-whisky,

ottenuto da una sola botte (detta

anche cask). In etichetta il pregio

è sottolineato dalla presenza

della data di distillazione

e di imbottigliamento,

più il numero di identificazione

della botte di maturazione

Finish woodIl whisky comincia la maturazione

in una botte che ha contenuto

un certo liquore (sherry, bourbon,

etc) e finisce l’invecchiamento

in una diversa, come nel caso

del distillato-culto, affinato

negli ultimi due anni

nelle botti del Sassicaia

CanadianMiscela di mais e orzo ridotta

in farina, per la base del whiskey

canadese. I singoli distillatori

tengono segreta la ricetta

del lievito aggiunto. Distillazione

continua e invecchiamento

dai quattro ai sei anni,

in botti di rovere nuove o usate

Single maltGusto deciso e caratteristico

per il prodotto di solo malto

(anche di anni successivi)

e di un’unica distilleria. La scritta

“Scotch” certifica tre anni

di invecchiamento minimo,

mentre l’età si riferisce al whisky

più giovane incluso nella miscela

GrainLavorazione particolare

per la miscela di cereali cotta

a vapore sotto pressione senza

tostatura, con aggiunta d’orzo

maltato (germinato). Diverso

anche l’alambicco, con due

colonne a distillazione continua

Invecchiamento ridotto

TennesseeÈ una varietà particolare

di bourbon, sottoposta

a un disciplinare di produzione

specifico e originale. Seguendo

il “Lincoln County Process”,

infatti, il distillato viene filtrato

attraverso uno strato di carbone

d’acero, acquisendo morbidezza

BlendedLa ricetta codificata dal “master

blender” permette di assemblare

porzioni di single malt con uno

o più grain. Le specifiche “super

premium”, “premium” e “special”

segnalano la percentuale

di whisky di malto presente

in bottiglia, dal 40 per cento in giù

Whisky

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43DOMENICA 27GENNAIO 2008

Londra da bereTutto sul whisky nell’ultimo

weekend di febbraio a Londra,

al “Whisky Live London”

In programma distillazioni

dal vivo, corsi di degustazione,

gare di sapienza olfattiva,

abbinamenti gastronomici –

formaggi, cioccolato, caffè –

cocktail e utilizzi culinari

il numero delle distillerie

di whisky

attive in Scozia

116

l’anno in cui il Congresso

definisce il bourbon “liquore

americano per eccellenza”

1964

l’anno di nascita

del whisky a base

di cereali misti

1860

le calorie contenute

in quindici millilitri (due dita)

di whisky

367

Era il 1961, quando il direttore del Giornodecise che ero maturo — bontà sua — peruna lunga trasferta in Oriente: avrei preso a firmare, nientemeno, da Inviato Spe-ciale.

Sbarcai a Sydney, e, appena entrato in un Club chiamato White City, chiesi dove si po-tesse incontrare Jack Crawford. Dei campioni del passato ancora vivi, Crawford eraquello che più mi interessava. Di lui avevo letto in un libro di Allison Danzig, ed ero sta-to tanto fortunato da parlarne con l’autore, uno dei grandi scribi americani che si eranooccupati di tennis, così come Paul Gallico e Damon Runyon.

Quando avevo incontrato, un paio d’anni avanti, Danzig a New York, quell’ominosempre in blazer, incredibilmente minuto per un ex campione di football americano,era parso divertito da certe mie connotazioni, e soprattutto dal mio passaporto, per so-lito marchio d’infamia di poveracci o addirittura appartenenti alla mafia. Mi aveva pre-so, Allison, sotto l’ala, e avevo capito che mi avrebbe aiutato nel proposito di scrivere unlungo libro sul tennis, del quale ero allora il solo ad aver rintracciato le origini rinasci-mentali.

Così, la sera, di fronte ad un immancabile bourbon che non mancava di offrirmi, Dan-zig mi raccontava storie. Una di queste riguardava un australiano, Jack Crawford, so-prannominato Gentleman Jack, per varie caratteristiche. La più invidiabile, secondoDanzig, era l’eleganza. Negli anni Trenta, in cui certi campioni americani osavano pre-sentarsi in t-shirt, e l’inglese Bunny Austin aveva addirittura mostrato polpacci nudi sot-to i primi calzoncini mai apparsi a Wimbledon, Gentleman Jack si esibiva ricoperto diflanelle, camicia con maniche lunghe inclusa. E, per dare un tocco definitivo, mai si se-parava da certe racchette di forma ottagonale, una sua invenzione esemplata su quelledel royal tennis di Enrico VIII.

Nonostante quelli che parevano a più d’uno impedimenti, Gentleman Jack era di cer-to tra i primi cinque tennisti del mondo. Ma fu nel 1933 che l’australiano si avvicinò adun’impresa mai accaduta. Lo vidi vincere — raccontava Danzig — i suoi Campionatid’Australia, il primo Major, il primo grande torneo della stagione. Si ripeté a Roland Gar-ros, riuscendo a scoraggiare l’enfant du pays, il geniale Henri Cochet, il primo campio-ne di umili origini in uno sport aristocratico. Passò elegantissimo e trionfante sui pratidi Wimbledon, ed eccolo a Forest Hills, per gli U. S. Championships.

«Qui mi venne — continuava Danzig — un’idea. Come tutti noi del tennis, occupavogli spazi vuoti dei tornei giocando a bridge. E, d’un tratto, mi resi conto che, avesse vin-to anche la quarta finale della stagione, Crawford avrebbe compiuto qualcosa di similea un Grand Slam contratto e in zona». Accortosi della mia perplessità, il maestro si af-frettò a spiegare che, viste le carte, un bridgista può affermare che vincerà tutte le tredi-ci prese. Il suo avversario obbietta «contre», e se il dichiarante realizza lo stesso tutte leprese gli tocca il massimo dei punti. Dopo una benevola occhiata di controllo, Danzigcontinuò: «Capisci da te cosa significava una simile vittoria, mai realizzata, sin lì, da nes-suno».

Gentleman Jack — continuò il maestro — Ci andò molto vicino. Vinse due dei primitre set, entrò negli spogliatoi, come consentiva il regolamento, ma, quando ne uscì, sem-brava un altro uomo. Annebbiato, barcollante, non riuscì a raccattare altro che un ga-me». Sorpreso, mi affrettai a chiedere le ragioni di quel crollo. «C’è più di una versione— rispose il maestro — e forse, se scrivi il tuo libro, sarebbe il caso che glielo chiedessi tustesso».

Ecco perché, al mio sbarco in Australia, mi ero affrettato a chiedere di Crawford. Eb-bi fortuna. Non solo abitava a Sydney, ma non lontano da White City. Fissato l’appun-tamento, fui ricevuto da un bel signore sessantenne, e da sua moglie Marjorie, che erastata, anche lei, una campionessa. Nel vasto salotto campeggiavano le rarissime coppedei grandi tornei. Tra loro, in una vetrina, mi sorpresi nel notare una imponente botti-glia di bourbon, il cui tappo in argento inalberava una racchettina.

Come la conversazione si fu riscaldata, cercai di farla scivolare sullo Slam mancato,accennando anche alla mia familiarità con Danzig. Crawford sorrise, poi scosse la testa,per dichiarare: «Una vecchia storia, per altro molto semplice. L’estate americana avevaaccentuato l’inclinazione ad una mia allergia per le graminacee. Prendevo certe pilloleche, se mi indebolivano un tantino, riuscivano a limitare il fastidio. Sciaguratamente, leterminai proprio il mattino del match e, a farmacie chiuse, dovetti rassegnarmi. Le co-se non andarono affatto male se, dopo un avvio mediocre, vinsi un terribile long set 13a 11, e controllai anche il terzo. Ma, giusto allora, il respiro si fece difficile, e decisi di ri-fugiarmi in spogliatoio, come consentiva il regolamento. Lì giunto, rimasi affranto su undivano, sinché qualcuno non ebbe ad offrirmi due dita di whisky: un sicuro rimedio, af-fermò, contro la mia allergia. Trangugiai, appena in tempo per tornare in campo. Subiiuna slavina di dodici games, un disastro mai capitato. Più di un commentatore scrisseche sembravo ubriaco».

Crawford mi guardò, tra il rassegnato e il divertito. «Avevano ragione — continuò —.Da sempre ero astemio e, se aveva allontanato la crisi di allergia, quel whisky era giuntoaddirittura a sdoppiarmi la vista della palla».

Non potei far altro che dichiararmi desolato, e ricusai l’offerta di uno scotch che, ag-giunse la vittima, non avrebbe consumato con me. Sarebbero passati anni prima chedue altri tennisti, l’americano Donald Budge e l’australiano Rod Laver, realizzassero laprodezza mancata da Crawford per due dita di bourbon.

Quel bicchiere di bourbondove affogò il Grande Slam

GIANNI CLERICI

Repubblica Nazionale

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le tendenzeStili metropolitani

Secondo l’Istat, in Italia le donne che lavoranosono quasi nove milioni: un esercito alle presecon ritmi di vita frenetici e città trafficateCambiare abito tra la colazione in casa e la cenaal ristorante è un lusso per poche. E allora...

44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27GENNAIO 2008

PALESTRA ORE 13.301. GEL DOCCIA Una sferzata di energia da Biotherm, da usaredopo una sessione intensa di esercizi 2. BORSA Opportunosostituire la sacca da ufficio con un modello sport,come questo di Nike, se la giornata prevede un passaggioin palestra 3. GHETTE Polivalenti, di Sartoria Vico: di giorno sottola gonna o sopra i pantaloni, di sera come manicotti4. OCCHIALI Indispensabili per un pranzo all’aria aperta, magarisoltanto al tavolino del bar. Di Rodenstock

UFFICIO ORE 9.001. GIACCA Blazer a un petto di Benetton, superclassico, avvitato,con la fodera colorata 2. CAMICIA Maniche lunghe e colloalla coreana per questa versione del capo più classico, in bianco,di Bagutta 3. PANTALONI Di Dutti, con le pinces e i risvolti stileKatharine Hepburn 4. BALLERINA Tanto elegante quanto comodo,ravviva qualsiasi tailleur questo modello argento e oro di Church5. BORSA Deve essere capiente, come questa Boston di Valextrain pelle chiara con finiture oro

Mamme e mogli in carrieral’astuzia del vestito-puzzle

ORE 9.00 ORE 13.30

1

3 4

3 4

5

2

1 2

Idati parlano chiaro: secondol’ultimo rapporto Istat le donneche lavorano in Italia sono all’in-circa 8.870.000, vale a dire1.418.000 in più che all’inizio de-gli anni Novanta. Un vero e pro-

prio esercito che, nella maggioranzadei casi, oltre alla carriera gestisce unafamiglia con figli. Una tribù alle prese,giorno dopo giorno, con un ritmo di vi-ta che negli anni si è fatto sempre piùfrenetico. E che comporta una schedu-le complicata che comincia la mattinapresto, quando suona la sveglia e, spes-so, termina a sera tardi, dopo cena. Inmezzo, durante tuttoquelle ore, c’è di tutto. Gliimpegni inderogabili co-me l’ufficio, i lunch di la-voro, gli spostamenti peraccompagnare i figli ascuola o agli sport. Ma an-che i passatempi, piccoleoasi di svago per allentarela tensione, dall’ora diginnastica in palestra al-l’aperitivo con le amichenel bar alla moda, per fini-re con la cena di coppia.

Attività più o meno in-dispensabili, per le qualiperò, si fa fatica a trovare iltempo necessario. Il risultato? Occu-parsi di se stesse, truccarsi, cambiarsid’abito, andare dal parrucchiere, è di-ventato un lusso che, solo poche, sipossono concedere. Sempre l’Istat, in-fatti, in un’indagine dedicata all’usodel tempo libero, racconta che le don-ne italiane sono, insieme alle francesi,al penultimo posto nella classifica del-la disponibilità di tempo libero, conuna media di quattro ore e otto minutial giorno. Cifra che però scende a sole

due ore e cinquantasette per le lavora-trici con figli tra i trentacinque e i qua-rantaquattro anni.

Sarà per questo che chi decide diconciliare all’interno della propriagiornata il ruolo di madre e moglie conquello di donna in carriera deve esserepronta a trasformarsi in una sorta diequilibrista. E, soprattutto, imparare apianificare lo scorrere del tempo, maanche e soprattutto il proprio abbiglia-mento, in largo anticipo. In modo danon trovarsi mai impreparata per nes-suna occasione, mondana, professio-nale o familiare.

Ecco allora che, piano piano, stannoscomparendo le arcaiche divisioni tra

guardaroba da giorno e dasera, tra formale e infor-male, tra elegante e ca-sual. La working womandel nuovo millennio haimparato a puntare su unnuovo tipo di abbiglia-mento decisamente di-verso da quello delle sueantenate. Un altro mododi concepire il vestirsi, piùtrasversale, fatto di pezzisovrapponibili, intercam-biabili, adattabili. Dacomporre come un puzzlea seconda delle esigenze.Così che il classico tailleur

da lavoro si possa trasformare con ilpassare delle ore in un’elegante tenutada cena. Magari sostituendo la giacca,troppo rigorosa e poco sexy, con unoscialle colorato e le scarpe basse con unvertiginoso paio di tacchi a spillo. Op-pure aggiungendo l’accessorio giusto,una spilla, una collana, un paio d’orec-chini o più semplicemente una bellacintura di strass. Per riuscire nella tita-nica impresa di essere sempre più o me-no impeccabili, dalle 9 alle 24. Non stop.

JACARANDA CARACCIOLO FALCK

Scompaiono le divisionitra guardaroba da giorno

e da sera: con qualchetrucco e qualche accessorioil classico tailleur da lavorodiventa una tenuta elegante

Repubblica Nazionale

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 27GENNAIO 2008

Innamorarsi ai giardinetticon l’orlo tenuto su dalla spillatrice

CONCITA DE GREGORIO

CENA ORE 21.001. PROFUMO Una spruzzata prima di cena per mettere allegriaProvare Eau d’Issey del giapponese Issey Miyake2. SCARPE Dalle ballerine ai tacchi a spillo con questescarpe oro e nero di Prada, con allacciatura alla caviglia3. POCHETTE Nero e oro anche per la pochette, per richiamarei colori delle calzature (ancora Prada) 4. BRACCIALE Un toccodi glamour notturno grazie a questo bracciale sfavillantedi Hermès, con pietre semipreziose incastonate

ORE 19.30 ORE 21.00

3 3 4

4

1 2 1 2

La vera alternativa all’essere sempre impeccabile è nonesserlo mai. Eliminare il problema alla radice, svelarnel’intimo raccapricciante inganno. Impeccabile in che

senso, a giudizio di chi? Soprattutto: a servizio di chi? Pensa-re «cosa mi metto» (o deprimersi nella sua più frequente va-riante «non ho niente da mettermi») è la via più frequentataper distrarsi da altri ben più rilevanti vuoti nell’armadio deigiorni: non aver niente da fare, da pensare, da scrivere, da di-re. L’attenzione per il «twin set giusto» è di solito inversa-mente proporzionale a quella riposta nella ricerca di una for-mula matematica, di un asteroide o di un manoscritto di Di-no Campana. La frequenza con cui si consulta lo stilista di ri-ferimento è senz’altro depressa fino allo zero dalla numero-sità dei consigli di classe, degli accompagnamenti pomeri-diani di figli minori o padri disabili, delle bollette anchearretrate da pagare, le pratiche per regolarizzare la baby sit-ter, eventuali gestioni di lutti e di assenze, guasti alla lavatricee altri domestici imprevisti oltreché dal lavoro, naturalmen-te, che quelle otto ore quotidiane come minimo le impegna.

Non è, questa, la versione aggiornata del consolatorio e unpo’ retorico «l’importante è essere belli dentro», detto di soli-to a quelli che lo sono meno fuori. È una constatazione detta-ta dall’esperienza, piuttosto. Di nessuna, nessuna delle per-sone interessanti che ho conosciuto nella vita ricordo la grif-fe dell’abito che indossavano. Ho piuttosto l’impressione chenon indossassero abiti griffati. Jaqueline Du Pre suonava ilvioloncello con una maglietta da uomo. Franca Viola mi aprìla porta di casa con un grembiule e la scopa in mano, stava pu-lendo le scale, era bellissima. Maya Sansa è irresistibile neimaglioni xl e la più seducente delle madri della scuola arrivaogni mattina trafelata e sorridente coi pantaloni della tuta edue dei suoi tre figli per mano, la guardano tutti. Ho inoltre lacertezza che nessuna dirigerà un giornale o un’azienda solose indossa «aggressivi tailleur di foggia maschile», ha piutto-sto maggiori probabilità di riuscire a fare quel che desidera seimpegna l’attenzione nel lavoro quotidiano e anzi, la distra-zione dal proprio aspetto esteriore è di solito responsabile diquell’agognata formula che è la «bellezza inconsapevole».

Nessuna, credo, è mai stata riamata dall’uomo che ama so-lo grazie alla scelta «per la serata romantica» del «tacco giu-sto». Perché tacco al singolare, poi, se sono due? In genere leserate romantiche preparate per giorni sotto questo titolovengono malissimo, ammesso che si trovi il tempo di orga-nizzarle. Di solito la passione tra adulti sconosciuti si accen-

de a una macchinetta del caffè dove lei sta cercando di recu-perare la moneta incastrata, ai giardinetti della scuola dovelui non sa come consolare il figlio spinto a terra da un com-pagno, per strada di corsa sotto la pioggia senza ombrello inun attimo di sosta al riparo di un balcone. Non hai mai il tac-co giusto, in situazioni così: hai i capelli bagnati, l’orlo deipantaloni appena scucito fermato con la spillatrice. Inoltre inuna società sostanzialmente e profondamente maschilistaessere, per una donna, distratta dal suo ruolo di seduttrice(dunque non agghindata, «inconsapevolmente bella») è disolito percepito dai maschi competitivi e atterriti dal possibi-le confronto come rassicurante, pacificatorio, garante diquiete e dunque attraente. Ma questo è un dettaglio, può por-tare fuori strada.

La sostanza, piuttosto, è come fare ad evitare il diktat del«tailleur di taglio aggressivo» o la «scollatura sexy» per il cock-tail senza sembrare la signora delle pulizie rimasta chiusa inambasciata. Va bene ignorare l’imperativo dello sguardo al-trui: il limite è rispettare il proprio. Bisogna piacersi abba-stanza. Stare comodi, a proprio agio. Non servono corsi newage di centratura del sé. Basta azzerare il volume del coro (leriviste, i consigli delle amiche e degli amici, le interviste dellefidanzate del presidente, la mamma) e concentrarsi nel pri-vato ascolto di sé. Cosa serve, cosa aiuta.

Ovviamente ciascuno ha la sua risposta privata. Vale pertutti quel che si insegna (si prova ad insegnare) ai figli, so-prattutto maschi, soprattutto preadolescenti: la cosa che piùconta è avere un buon odore, di pulito e persino di colonia etalco. Riuscire a sentirsi addosso l’odore piacevole della pro-pria pelle, sempre. Dunque trovare, nel giorno, momenti perripristinarlo. Assolutamente obbligatorio. Secondo: stare co-modi. Non essere costretti dagli abiti a pensare a loro ogni mi-nuto: la cintura che stringe, la scollatura che si apre, le scarpeche non puoi camminare. Si vede, quando i vestiti hanno ilsopravvento. I pensieri stentano a riprodursi, lo sguardo si favitreo. Terzo: se si deve uscire alle sette di mattina e rientrareall’una di notte bisognerà che l’abito sia altrettanto longevo.Dovrà essere scuro, che non si vedano le macchie. Morbido,che aiuti ad assecondare la fatica. Duttile e semplice. Menobottoni ci sono meno se ne perdono. Di qualità, se possibile.Una maglietta bianca girocollo deve essere una bella ma-glietta bianca. Una che sa fare il suo lavoro di maglietta. An-che per le t-shirt vale la regola delle persone attorno: megliopoche ma buone.

HAPPY HOUR ORE 19.301. SCIALLE Morbida alternativa bicolore alla giaccaper l’ora dell’aperitivo, firmata Cucinelli 2. AGENDA L’accessorioPiquadro sul quale tenere aggiornato l’elenco degli appuntamenti:non può mancare nella borsa della working woman3. FONDOTINTA Ideale per un veloce ritocco al make upprima di iniziare la serata. Da Dior 4. IMPERMEABILE Classico,in beige, elegante senza essere troppo formale e caricodi citazioni cinematografiche. In vendita da Strenesse

Repubblica Nazionale

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‘‘

‘‘l’incontroRibelli di successo

LONDRA

Jack Nicholson continua a rigira-re la sigaretta tra le dita. «Le di-spiace? La stanza d’albergo è ri-masto l’unico posto in Inghilter-

ra dove si può fumare». Non che i divietilo inibiscano. In mattinata ha acceso lasigaretta in conferenza stampa, scate-nando le ire della lobby antifumo ingle-se che lo accusa di considerarsi sopra lalegge. «Non è tanto la nicotina quando lagestualità legata alla sigaretta, una spe-cie di tic, per me, un gesto cui è difficilerinunciare per quelli della mia genera-zione». Nicholson è indulgente con leproprie debolezze: la fobia per gli spazichiusi, che gli preclude i set piccoli e buidelle interviste televisive, quella per laluce che gli fa indossare occhiali da sole,sempre. Il paparazzo che durante il pho-tocall gli ha chiesto di togliersi le lenti èstato fulminato, «tu sei nuovo del me-stiere, vero?». E poi, le donne. Sciupa-femmine seriale da oltre cinquant’anni,ha mitigato l’atteggiamento sex anddrugs solo ai tempi dello scandalo, Ro-man Polanski con una minorenne, con-sumato nella sua casa sulle colline diHollywood. La notte scorsa si è fatto fo-tografare mentre sul marciapiede bacia-va in bocca una fan di vent’anni, in con-ferenza una radioreporter si è offerta perun appuntamento: «Sa dove trovarmi», eha allargato il suo ghigno migliore.

Gli occhiali finiscono sul tavolinettovicino al divano al momento dell’inter-vista. Fuori dai riflettori, Nicholson pre-ferisce affrontare gli argomenti seri del-la vita. Il cinema, su tutto. «Le è piaciutoil film?», domanda con l’ansia negli oc-chi. Gli scottano le recensioni pessimeche il suo Non è mai troppo tardi, storiadi due malati terminali che decidono direalizzare una lista di desideri prima del-la fine, ha ammucchiato in America. Il

pubblico, invece, non lo ha tradito: incoppia con Morgan Freeman è balzatoin cima agli incassi, alla prima settima-na: «Lo sapevo. Alle proiezioni-test ab-biamo avuto il secondo miglior gradi-mento nella storia della Warner Bros»,racconta con l’aria da imbonitore. «Ilfilm commuove proprio perché il nostroapproccio non è sentimentale. Quandoal mio personaggio viene chiesto: “Co-me vuoi che ti organizzi il funerale?”, luirisponde: “Fai come fosse il tuo”». Ni-cholson ride, la battuta l’ha scritta lui.Come spesso nella sua carriera, ha colla-borato ai dialoghi del film. Sceneggiatu-ra e regia sono sempre stati un suo palli-no, anche se nessuno dei tre film da luidiretti ha ricevuto un’accoglienza esal-tante. Durante la lavorazione di Shiningsuggerì a Stanley Kubrick di far dire alguardiano aspirante scrittore, infastidi-to dalla moglie: «Se non senti il ticchettiodella macchina non vuole dire che nonsto scrivendo».

Nicholson ha sempre affermato dinon aver bisogno di un’autobiografia,«l’ho già fatta attraverso i miei film». InNon è mai troppo tardi è finita l’espe-rienza ospedaliera, per un’infezione allagola, maturata alla fine delle riprese diThe Departed, film-oscar di Martin Scor-sese. «“Non so come ci si comporta, nonsono mai stato malato in vita mia” è unafrase che ho detto veramente al tizio del-l’assicurazione», racconta. «Prima,quando andavo in ospedale a fare visita,ostentavo buonumore, cercavo di far ri-dere la gente. Ora, dopo i miei viaggi not-turni tra i corridoi, dopo aver visto i pa-zienti morire più per le visite che per lemalattie, districarsi soffrendo tra i tubi,correre a vomitare al gabinetto, ho im-parato il valore del silenzio e del rispet-to».

Di persona ha un’aria migliore, rispet-to a quella nel film: «Quando ho com-piuto settant’anni, per la prima volta misono sentito più giovane della mia età.Non era mai successo, dopo i cinquan-ta». Gigioneggia: «Sono questo vecchiet-to che vede, ma mi sento molto bene.Non faccio progetti sul funerale e sulleesequie, anche se con la mia claustrofo-bia non mi ci vedo chiuso in un loculo.Non penso alla morte più di quanto nonfacessi da giovane. È una paura che ci ac-compagna tutti, ma è vero che, come di-ce Michael Caine, ora giocano a bowlingnella nostra fila, i birilli ci cadono intor-no, poi toccherà a noi». Da poco è rim-balzata la notizia, scioccante, della mor-te del ventottenne Heat Ledger per over-dose da ansiolitici e sonniferi. «L’Amberè un farmaco pericoloso, io non uso son-niferi ma un tizio mi disse: prendilo, è untoccasana. Mi sono svegliato la notte, erogelato, ho rischiato una crisi mortale». Ilgiovane australiano di Brokebackmountainaveva appena finito di girare ilnuovo Batman, The dark knight. Secon-do i tabloid inglesi il ruolo dello psicopa-tico Joker l’aveva lasciato esausto, predadi attacchi d’ansia e d’insonnia.

«Mai successo, a me. Nemmeno ai

Nicholson quel ruolo è fruttato, oltre airiconoscimenti, sessanta milioni di dol-lari tra ingaggio e diritti. Lui l’ha definitoun pezzo di pop art: «Tutto il film di TimBurton sembra un quadro-fumetto diRoy Lichtenstein, non crede?».

Quella per la pittura è la seconda,grande passione dopo il cinema. Nellasua collezione, nella villa di Mulhollanddrive, in cima alle colline di Los Angelesdove vive confinato, custodisce opere diPablo Picasso e Tamara de Lempicka.«Non so se sono un bravo pittore. Mi de-dico all’arte figurativa. Ho iniziato ri-traendo i miei figli, le più grandi gioie del-la vita, oggi, mi arrivano attraverso loro.Winston Churchill scrive sulla pittura: laprima cosa che devi dire a te stesso è chenon sei un pittore. Lo fai per adoperareun’altra parte del tuo cervello. È comeimparare un’altra lingua. Molto ripo-sante, io lo faccio la sera. Non mi sentireimai di autodefinirmi un pittore, un arti-sta». L’espressione sul viso torna vulne-rabile, di fronte alla divinità dell’arte. Po-co prima dell’incontro ha fatto chiederedalla produzione una visita speciale allamostra di pittori russi e francesi che apretra due giorni alla Royal Academy.

Nella galleria cinematografica di Ni-cholson, da molto tempo, ci sono so-prattutto commedie, con l’eccezione diThe Departed: «Una scelta maturata do-po l’11 settembre. Da studioso del mon-do ero conscio dei depistaggi, misteri,revisioni, commenti, strumentalizza-zioni che sarebbero seguiti a un fatto co-me quello. E poiché non voglio affronta-re al cinema cose che non conosco, hopensato fosse un buon momento perstudiare la commedia». Da ex militantedi sinistra, l’attore di Easy Rider segue lacampagna presidenziale, senza peròparteciparvi: «Ammiro il dinamismo e lapassione di uno come Sean Penn, io milimito a fare da spettatore», dice Nichol-son, che ha confessato di tifare HillaryClinton ritenendosi un amico di fami-glia. L’unica battuta politica che si lasciascappare in questa occasione è: «Tra imomenti più recenti di pura gioia c’è sta-to lo zapping televisivo sulle facce deglianalisti tv che avevano dato Hillary poli-ticamente per morta, al momento dellaresurrezione in New Hampshire».

L’icona liberal degli anni Settanta og-gi è stanca. «Quel che potevo l’ho fattonel ‘72, a sostegno di George McGovern.Con quelli della mia generazione rock’nroll abbiamo racimolato un mucchio disoldi, per lui. Avevamo in mente tre lineeguida: abbattere i monopoli, liberalizza-re la droga, puntare sull’energia solare. Epoi convertire gli ex militari in poliziotti,aumentare gli stipendi agli insegnanti…Credo siano idee valide ancora oggi». Piùvolte il discorso torna ai favolosi Seven-ties, a quelle speranze, quella politica,quel cinema. Nicholson è stato promo-tore della recente uscita in dvd, negli Sta-ti Uniti, di Professione Reporterdi Miche-langelo Antonioni, girato nel ‘72: «Con-sidero quell’esperienza professionale eumana la più esaltante della mia vita. Ri-

tempi di Shining», dice Jack il Freddo.Pare si sia molto irritato per non esserestato chiamato dal regista ChristopherNolan a rifare quello che considera unodei suoi ruoli migliori. La recitazione,per Nicholson, è soprattutto tecnica,“metodo”. Spesso l’attore cita le centi-naia di seminari, corsi, work shop, cheappartengono al suo bagaglio professio-nale. È cresciuto con il complesso del-l’autodidatta, il ragazzo del New Jersey.L’unico tra i grandi, Brando, De Niro,Hoffman, Pacino, ad essere stato forgia-to non nell’Actor’s studio ma nella fuci-na casereccia e geniale di Roger Cor-man, tra gli horror di serie B, al fianco de-gli ultimi Vincent Price, Peter Lorre, Bo-ris Karloff. «Il Joker per me ha rappre-sentato la possibilità di sperimentare larecitazione con la maschera. Lo predi-cava un famoso manuale di recitazionee fin da quando ero studente mi ero ri-promesso di tentare l’esperimento». A

cordo il viaggio rocambolesco nel deser-to africano, l’allegria della troupe italia-na. E l’umorismo di Michelangelo, perme una figura paterna, un meravigliosoiconoclasta, un uomo onesto. È incredi-bile quanto il suo originale stile di regiaabbia influenzato gli sceneggiatori ame-ricani. Al nostro primo incontro mi av-vertì: “L’attore non è l’elemento più im-portante, nei miei film. Ma io conoscevogià il suo lavoro. In comune c’era la stes-sa attenzione maniacale al dettaglio,tratto condiviso anche con Kubrick. Tut-ti si lamentavano per i suoi ciac infiniti.Io, sul set di Shining: “Dici che la cente-sima è buona? La centunesima, vedrai,sarà meglio”».

La passione di Nicholson per il cinemaitaliano è sincera, arriva da lontano.Ventenne, trascinò Warren Beatty a ve-dere Il posto di Ermanno Olmi. Ha citatospesso, nelle interviste, i nostri MarcelloMastroianni e Alberto Sordi. «Marcelloera meraviglioso, e Alberto…». Improv-visamente si mette a rifare il gesto del-l’ombrello di Sordi ne I vitelloni, con tan-to di urlaccio: «Lavoratoriiii». Alla notiziache Bernardo Bertolucci, interrogato loscorso anno su chi fosse il migliore tra DeNiro, Pacino e Hoffman abbia risposto«Nicholson», Big Jack scoppia in una ri-sata felice e bambinesca: «Davvero hadetto questo? Siamo amici, lo vedrò sta-sera a cena. È da molto che non ci incon-triamo. Abbiamo iniziato entrambi gio-vanissimi, due topi da festival, ci vedeva-mo a Pesaro. Non avrei mai creduto chenon avremmo fatto un film insieme.Uno dei pochi rimpianti nella mia car-riera. Lo considero uno dei migliori disempre, lo direi anche se non fosse mioamico. Lei è l’unica giornalista, grazie aDio, a non avermi chiesto qual è la mia“bucket list”, la lista dei desideri prima dimorire. Io non l’ho mai fatta, ma quandoha menzionato Bertolucci… i miracoli avolte succedono, insieme potremmo fa-re il film più bello».

Considero“Professionereporter”girato con Antonioni,meravigliosoiconoclasta,l’esperienzaprofessionalee umana più esaltantedella mia vita

Sciupafemmine, fumatore accanito,claustrofobico, allergico alla luce,nel suo ultimo film recita la parte,senza sentimentalismi, di un malatoterminale che realizza la sua ultima

lista di desideriMa non è un ruoloautobiografico“Io - dice - sonoil vecchietto che vedete,ma mi sento molto beneNon penso alla mortepiù di prima anche se

è vero che stanno giocando a bowlingnella nostra fila e i birilli ci cadonointorno, prima o poi toccherà a me”

Jack Nicholson

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ARIANNA FINOS

46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 27GENNAIO 2008

REPUBBLICA TV

Da oggi, sul sito di Repubblica Tv,sarà disponibile l’incontro in videocon il grande attore americanoL’intervista è stata realizzata a Londra

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