Oltre la delega e la politica
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Vittorio Moioli
Oltre la delega
e la politica
Ricordi e aneddoti
di un’esperienza politica
e riflessioni sulla sinistra
Aprile 2016
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Vittorio Moioli
Oltre la delega
e la politica
Ricordi e aneddoti
di un’esperienza politica
e riflessioni sulla sinistra
Aprile 2016
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Indice
Premessa
Prima parte:
L’itinerario di un impegno politico a sinistra durato quarant’anni
1. Dall’ideologia cattolica alla militanza comunista
2. La formazione politica alle Frattocchie
3. L’impegno politico a tempo pieno nell’Isola bergamasca
4. I primi comizi e le prime lotte per i diritti sindacali
5. La vita grama dei funzionari comunisti negli anni ’60
6. Le soddisfazioni del politico di sinistra
7. Gli anni della contestazione studentesca e operaia
8. Lo scontro con l’ortodossia di partito
9. La radiazione dal Pci
10. Il bazar della “nuova” sinistra
11. Il consolidamento politico e organizzativo del gruppo bergamasco del
“manifesto”
12. Gli scontri con i fascisti
13. La prima esperienza istituzionale
14. Il trasferimento a Roma
15. Il travaglio dei processi di unificazione e di scissione
16. L’impegno a favore degli emigrati all’estero
17. Gli anni delle sofferenze
18. Il processo per il dossier sugli Ospedali Riuniti di Bergamo
19. La trombatura alle elezioni per il Consiglio regionale
20. La denuncia degli abusi urbanistico-edilizi nel comune di Ponte San Pietro
21. L’attività politica e culturale durante il secondo mandato istituzionale
22. La pubblicazione dei libri sulla storia del paese natio
23. I guai con la giustizia
24. L’autoscioglimento del Pdup e il ritorno al Pci
25. Il tormentato inserimento nell’organico del comitato regionale
lombardo
26. La responsabilità della formazione politica
27. L’impegno nello studio del leghismo
28. L’abbandono del Pds e l’adesione a Rifondazione comunista
29. L’ipocrisia di Bertinotti e compagni
30. La fugace collaborazione con un istituto di ricerca sociale
31. Il forzato isolamento politico
32. L’attività autonoma di ricerca sul territorio
33. La riflessione sulla crisi della sinistra
Seconda parte:
Osservazioni sulla politica e sul comportamento dei suoi attori
34. L’analisi critica delle strategie dell’alternativa
35. Necessità e urgenza di un nuovo modo di “far politica”
36. Il rischio di una catastrofe ecologica
37. Povertà e disuguaglianze quali condizione dello sviluppo capitalistico
38. L’acutizzazione del conflitto capitale-lavoro
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39. La crisi della rappresentanza politica
40. La minaccia di un modernismo autoritario
41. La crisi della politica
42. Le cause antiche della crisi della sinistra
43. Il ripudio del socialismo
44. L’americanizzazione dei post-comunisti
45. La mancata rifondazione della sinistra
46. Il partito ridotto a un’arena degli ambiziosi
47. I miei “buchi neri”
48. La tara dell’opportunismo
49. Ripulse del passato e ipocrisie elevate a virtù
50. Incoerenze e meschinità
51. Il dilagante fenomeno del narcisismo
52. Le radici storiche del trasformismo moderno
53. I voltagabbana dell’era postfordista
54. Il dramma della corruzione
55. Gli abnormi costi della delega
56. Le antilogie di chi si è proclamato rivoluzionario
57. Occorre il coraggio di sperimentare il “nuovo”
Appendice
Indice dei nomi
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A chi mi è stato compagno sincero nella lotta
Premessa
Poco più di un anno e mezzo fa ho pubblicato, via internet, il saggio “Incoerenze e ‘buchi neri’
della sinistra”. A motivare la sua stesura è stato il bisogno di individuare le cause storiche della crisi
che ha investito la sinistra. Con quel lavoro di ricerca e di riflessione ho voluto verificare anche se
la pretesa di ridefinire il percorso di un’alternativa al sistema capitalistico è, come sostengono in
molti, un’utopia oppure, come io credo, un’operazione fattibile.
Sono sempre stato ben lontano dal pretendere di avere cognizioni di storiografia. L’ambizione che
mi ha spinto ad affrontare un lavoro di ricostruzione della storia del movimento operaio e della
sinistra è originata dal desiderio di comprendere, nella veste di ex militante di sinistra e tuttora
appartenente idealmente a questo schieramento, il processo degenerativo che ha coinvolto le forze
rappresentative del movimento operaio, attraverso lo studio dei loro comportamenti e delle loro
scelte strategiche e politiche.
Al tempo stesso ho voluto verificare la giustezza o meno della scelta di vita che ho fatto in
gioventù, la quale ha condizionato l’intera mia esistenza.
Nessuna presunzione dunque di sostituirmi a chi di storia e di politica ne sa più di me.
Avevo e continuo ad avere piena consapevolezza dei limiti delle mie facoltà intellettive e culturali.
Nonostante questa mia inadeguatezza, ho voluto dare un’interpretazione delle esperienze che ho
vissuto ed esprimere un giudizio sulle scelte in cui sono stato coinvolto e che coscientemente ho
condiviso.
Era mio intendimento includere nel saggio precedente alcuni approfondimenti sulla pratica politica
e sui comportamenti degli esponenti della sinistra, ma a causa della copiosità del testo, ho ritenuto
saggio rinunciare a un tale proposito e rimandare nel tempo una loro trattazione.
Ecco le ragioni di questo mio ulteriore lavoro!
Nell’esporre le mie riflessioni critiche sulla prassi dei partiti e dei politici di sinistra, ho ritenuto
doveroso e utile premettere una ricostruzione del percorso della mia storia politica personale
attraverso ricordi, aneddoti e considerazioni. Avendo incontato e avuto rapporti con molti attori
della politica e avendo conosciuto sentimenti e pratiche di vita di molti di loro, mi sono sentito
autorizzato a trarre alcune riflessioni critiche sulle cause della crisi che l’intero schieramento di
sinista sta attraversando. Se ho avuto modo di constatare l’alto grado di dedizione e lo spirito di
sacrificio che ha animato molti suoi dirigenti e militanti, ho anche potuto riscontrare i loro limiti e le
loro tare. Ed è anche su questi aspetti che mi sono posto l’obiettivo di esprimere valutazioni e
giudizi, in termini critici e autocritici, sempre nell’intento di comprendere meglio non solo le
ragioni della nostra sconfitta, ma anche i rimedi che devono essere presi per rilanciare un progetto
di alternativa al sistema capitalistico.
Dedico queste mie riflessioni non tanto ai gruppi dirigenti della sinistra, quanto invece ai militanti
di base nella speranza che finalmente decidano a riscattarsi.
Desidero ringraziare Pierluigi Gregis, Luigino Lazzarini, Bruno Ravasio e mia figlia Nadia per
l’incoraggiamento che mi hanno espresso nel corso della stesura di questo lavoro e per l’assistenza
che mi hanno garantito nella correzione del testo.
Aprile 2016
v.m.
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Prima parte
L’itinerario
di un impegno politico
a sinistra durato quarant’anni
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1. Dall’ideologia cattolica alla militanza comunista
Era un giorno d’estate del 1962 quando mi sono recato presso la Federazione del Pci di Bergamo
per chiedere l’iscrizione al partito. A quel tempo era segretario federale Eliseo Milani che io
conoscevo solo di fama. In precedenza avevo avuto rapporti con suo gemello Giovanni il quale era
rappresentante sindacale della Cgil al Cotonificio Legler di Ponte San Pietro, dove io ho lavorato
per otto anni. Eliseo, prima di allora, non l’avevo mai visto di persona. Quel giorno sono tornato a
casa non con una, ma con due tessere: quella del partito e quella della Federazione giovani
comunisti italiani.
La decisione di iscrivermi al Partito comunista era frutto di un lunga e sofferta riflessione che aveva
avuto inizio a 15 anni, ai tempi in cui ero occupato come apprendista operaio nel reparto tintoria
della Legler, esattamente tra il ’53 e il ’56. E’ sfociata in preciso orientamento e scelta politica dopo
alcuni anni, nella fase intercorrente tra l’autunno del ’61 e la primavera del ’62, quando mi sono
ammalato.
Nel periodo in cui ho lavorato alla Legler, ho avuto modo di contestare certi modi di essere di
Gianni Milani, quale membro Cgil della Commissione interna. Con lui mi sono confrontato non
solo sui temi del lavoro, ma anche su diversi aspetti della concezione della vita e del mondo.
A quel tempo ero ancora sotto l’influenza dell’educazione ricevuta in famiglia e conseguita
attraverso la frequentazione dell’oratorio e delle pratiche religiose. Sono figlio di genitori
cattolicissimi: mio padre Riccardo è stato il primo esponente bergamasco dell’Azione cattolica a
essere insignito di medaglia d’oro al valore militare alla memoria, mentre mia madre Giuseppina
era a tal punto una fervente praticante da interpretare l’indissolubilità del “sacro vincolo del
matrimonio” anche dopo essere rimasta vedova a soli 27 anni e con due figli da far crescere.
Per la verità, già a 15 anni, avevo allentato di molto i miei rapporti con gli ambienti cattolici, a
partire dal non rinnovamento della tessera di “aspirante” e disertando dapprima l’accostamento ai
sacramenti e poi le funzioni religiose. In occasione delle periodiche confessioni settimanali, mi era
accaduto di dover fare i conti con le insidie di sacerdoti pedofili, e tale avvenimento mi aveva
indotto a rinunciare alla pratica della confessione. Considerando un tale comportamento ignobile,
non avevo avuto il coraggio di denunciarlo a nessuno, nemmeno a mia madre, mentre avevo
incominciato a meditare, in termini negativi, sul senso del magistero sacerdotale.
A quelle disgustose e scioccanti esperienze, si sono aggiunti nel tempo altri episodi del genere che
mi hanno indotto a un allontanamento da quel mondo. Anche un ex seminarista che insegnava
catechismo ai ragazzi mi aveva insidiato proponendomi rapporti sessuali.
A quell’età, la morale che mi era stata impartita non mi permetteva di comprendere che simili
manifestazioni erano il prodotto di una inumana e assurda regola comportamentale imposta ai
ministri della Chiesa cattolica, quella cioè che impedisce loro di avere rapporti sentimentali e
sessuali con l’altro sesso. Uno stato esistenziale, questo, che a mio avviso genera perversione. La
mia reazione è stata perciò di riprovazione e di rottura con quel mondo.
E pensare che qualche tempo prima un missionario mi aveva infatuato al punto da prospettare una
mia possibile entrata in seminario per diventare prete!
A questi episodi si è aggiunto un intervento maldestro del curato dell’oratorio che frequentavo.
Avendo scoperto che leggevo i romanzi di Dostoievski e di Tolstoi, quel sacerdote ha pensato bene
di sequestrarmi d’autorità i libri e questo suo violento gesto mi ha contrariato al punto da produrre
in me un’idiosincrasia verso i preti.
A determinare il mio definitivo allontanamento dalla fede è stato, paradossalmente, l’atteggiamento
intransigente di un prelato. A 17-18 anni, mentre di giorno lavoravo, la sera frequentavo i corsi di
ragioneria per presentarmi agli esami come privatista. Tra l’altro, non soddisfatto di questo, con
Silvino Bonalumi, il leader del locale del gruppo scout, studiavo latino e greco. Silvino era persona
affettuosa e molto religiosa e dopo che io ero stato promosso agli esami, mi ha convinto ad
accompagnarlo nella marcia a piedi da Ponte San Pietro al santuario di Caravaggio, in segno di
ringraziamento alla madonna. Avevo accolto il suo invito più per avventura che per fede. Quando
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abbiamo raggiunto quel luogo sacro, intenzionato a fare la comunione, egli si è messo in fila per la
confessione e ha insistito perché facessi altrettanto anch’io. Non ricordo bene il perché, ma mi sono
lasciato convincere e poco dopo mi sono ritrovato nel confessionale del priore del santuario.
A fronte di alcune domande che il confessore mi ha rivolto, io ho esplicitato i miei dubbi
sull’esistenza di dio e così ne è nata un’accesa discussione. Non saprei dire quanto è durato quello
scambio di opinioni, ho bene in mente che il monsignore mi ha negato l’assoluzione perché mi
aveva classificato miscredente. Quando sono uscito dal confessionale, mi sono ritrovato una fila
interminabile di persone che, con fare tra il curioso e lo sprezzante, mi hanno squadrato da capo a
piedi come se fossi stato l’autore di un delitto. Quello è stato l’ultimo contatto che ho avuto con i
rappresentanti della Chiesa cattolica in veste di praticante.
A contribuire poi a provocare in me il disgusto verso quel mondo, è stata la costatazione che larga
parte dei credenti che mi era dato di conoscere, anziché vantare spirito cristiano, aveva
comportamenti ipocriti e farisaici e ciò ha contribuito a sospingermi verso un definitivo abbandono
della fede e della fiducia in quel mondo.
L’età, del resto, era quella in cui si è impegnati in un’insistente ricerca d’identità e il mio pensiero
era travagliato sia da una riflessione sull’esistenza umana, sia dalla privazione della presenza di un
padre la cui prematura scomparsa mi veniva giustificata in nome di valori che io non riuscivo a
comprendere e accettare.
Erano tempi in cui mi stavo formando un carattere e come succede alla generalità dei ragazzi, ero
alla ricerca del senso da dare alla mia vita e dunque nel pieno della maturazione dei miei
orientamenti. E non avendo nessuno su cui contare per avere un supporto o un ausilio, il mio
travaglio era più tribolato di quello di un normale adolescente.
Le polemiche con Gianni Milani e con alcuni altri delegati sindacali della Legler erano pertanto un
pretesto, un modo per capire, per riscontrare da quale parte fosse la verità al fine appunto di
formarmi un’opinione sul contesto sociale entro cui ero inserito e per decidere i miei futuri itinerari
esistenziali. Quei dialoghi e quegli scontri mi sono difatti serviti, non subito, ma più in là nel tempo,
a decidere il percorso che poi ho fatto.
Anche se non aderivo formalmente al sindacato, avevo preso coscienza di appartenere alla classe
degli sfruttati, dei subordinati. Già negli anni precedenti avevo avuto motivo di contestare, seppur
intimamente, l’ordine costituito. Nella mia memoria erano impressi non solo i disagi e le fatiche di
mia madre nel garantire la sopravvivenza alla piccola famigliola, ma anche le umilianti quotidiane
peregrinazioni alle quali, prima di entrare in fabbrica, accompagnato da mia zia Clementina,
maestra del reparto “rocche” dello stesso Cotonificio Legler, mi ero dovuto sottoporre per alcuni
mesi postandomi nel tratto di strada tra le abitazioni padronali e la portineria dell’azienda, allo
scopo di incontrare Matteo ed Enrico Legler e mendicare loro attenzione e considerazione affinché
mi assumessero nella loro azienda. Seppure fossi orfano di guerra e figlio di decorato con medaglia
d’oro alla memoria, l’attenzione verso i miei bisogni vitali da parte del sistema ha sempre lasciato a
desiderare.
L’assenza del padre aveva sottoposto me e mio fratello Ernesto, e soprattutto nostra madre, a
condizioni di vita che inducevano oggettivamente alla rivolta. E mentre mia madre sopportava
cristianamente una tale condizione, e pure mio fratello non dava segni di disagio, dentro di me il
risentimento verso il sistema sociale era progressivamente crescente e sempre più radicale.
Nel corso della prima fase della mia esperienza come operaio e poi come impiegato, ho subito i
soprusi di capi e capetti al servizio del “padrone” e il loro effetto è stato quello di spingermi a
condividere l’atteggiamento contestatario dei sindacalisti “rossi”, anche se ho esitato a lungo a fare
mia la pratica dello sciopero. Quando dal reparto di produzione sono stato spostato negli uffici,
prima come fattorino addetto alla segreteria dei signori Legler, poi come impiegato all’ufficio
vendite e successivamente come impiegato tecnico alla Sala controllo, non sono mai venuto meno
agli appelli alla mobilitazione lanciati dai sindacati, risultando isolato dal resto degli impiegati i
quali invece in massa praticavano il crumiraggio. La mia adesione alle proteste è stata costante,
anche se me ne son guardato bene dal richiedere la tessera del sindacato.
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Quando nel ’63 mi sono licenziato e mi sono recato presso la segreteria padronale per salutare
l’impiegata che mi era sempre stata amica, ho scoperto che sulla mia scheda personale,
diligentemente curata dai “capi”, erano state riportate tutte le mie assenze per sciopero e tutti i miei
battibecchi con i superiori.
La decisione di diventare comunista, dunque, è stata per me il prodotto di una lenta e graduale,
anche se non lineare, presa di coscienza di una condizione esistenziale per nulla gratificante poiché
ero inserito in un sistema sociale ingiusto e penalizzante. Fattore determinante di questa scelta è
stata però la triste esperienza consumata tra l’agosto del ‘61 e lo stesso mese del ’62 nel sanatorio
di Sondalo dove sono stato ricoverato per aver contratto la tbc.
Nel 1957 avevo conosciuto Mariarosa, la ragazza che poi sarebbe diventata mia moglie, con la
quale ho amoreggiato e poi mi sono fidanzato. Nel 1960 lei si è ammalata di tubercolosi, versando
in uno stato di salute giudicato dai medici di una certa gravità, tale da essere costretta al ricovero in
sanatorio per oltre un anno. Quando è stata dimessa, aveva ancora bisogno di cure intensive e
doveva continuare a sottoporsi settimanalmente a un intervento pneumotoracico.
A quel tempo, essendo uno studente-lavoratore, andavo in ufficio di giorno, frequentavo il corso
privato la sera e studiavo la notte. Per di più, ogni domenica frequentavo dei corsi formativi
attinenti alle attività tessili. E come se non bastasse, ho partecipato persino a un concorso di disegno
e di pittura indetto dalla direzione del Cotonificio Legler risultando vincitore del secondo premio di
disegno e conseguendo un encomio per il ritratto a olio di mio padre. In sostanza, lo sforzo psico-
fisico, da un lato, e il contagio dall’altro hanno fatto sì che mi ammalassi anch’io.
A riguardo del mio tribolato rapporto con il mondo cattolico, devo segnalare che allorquando due
sacerdoti vicini alla mia famiglia hanno saputo che avevo la fidanzata malata di tbc, anziché
mostrarmi solidarietà, si sono prodigati a convincermi che sarebbe stato saggio che io interrompessi
quel rapporto amoroso non essendo ancora vincolato a lei dai sacramenti in modo di evitare di
contrarre anch’io quel male. Ho considerato quel consiglio una bella testimonianza di carità
cristiana.
Il periodo di degenza in sanatorio ha rappresentato per me un’esperienza decisiva nella formazione
della mia concezione della vita e nella mia visione dei rapporti sociali.
Durante quel soggiorno forzato a Sondalo ho conosciuto casi umani drammatici. Ho visto morire
lentamente delle persone con le quali avevo stretto rapporti di amicizia e di solidarietà. Ho
conosciuto malati che venivano respinti dalle rispettive famiglie per timore di contagio e che
venivano abbandonati a se stessi, senza alcuna prospettiva di reinserimento sociale. Ho assistito alle
pene di padri di famiglia che, essendo stati costretti dalla malattia ad abbandonare la loro attività
lavorativa, hanno privato i loro cari non solo della loro costante presenza, ma anche del necessario
sostentamento, e per questo motivo erano afflitti al punto di odiare la società e le sue istituzioni.
E ho costatato come il germinare della coscienza politica di rivolta a un sistema inumano non sia
affatto sempre un fenomeno che sorge spontaneo in chi è sottoposto a sofferenze, angherie e
umiliazioni. Molto spesso, in particolare nelle situazioni più disperate, un tale processo di
maturazione viene sollecitato e favorito dall’esterno, attraverso l’intervento solidale di persone che
si ribellano allo statu quo.
E’ proprio in un ambiente sociale di sofferenza e disperazione che ho scoperto la natura ideologica,
metafisica della dottrina della Chiesa cattolica e delle religioni in generale. Più volte, in quel
periodo, mi è capitato di meditare che se esistesse per davvero un creatore del mondo, saggio e
benevolo come amano sostenere i credenti, situazioni di dolore, di disperazione e di ingiustizia
come quelle che ho avuto sotto gli occhi non avrebbero potuto assolutamente esistere.
Paradossalmente, nel favorire il mio rifiuto della fede e l’assunzione di un atteggiamento agnostico
e ateo, ha involontariamente contribuito un povero fraticello dell’ordine dei francescani che era
ricoverato nel mio stesso reparto e con il quale ho condiviso tante ore di discussione e di confronto
sull’etica e sul pensiero filosofico. A questo “uomo di dio” mi ero sinceramente affezionato; di lui
avevo grande rispetto e stima. Ho tra l’altro scoperto che aveva avuto l’occasione di assaggiare per
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la prima volta una banana proprio in sanatorio. La sua umiltà e il suo temperamento mi avevano
affascinato.
Oltre a curarmi, in quel luogo di pene ho assolto due compiti non facili: il primo è stato quello di
continuare gli studi in modo di diplomarmi; il secondo è consistito nel voler essere di ausilio ai miei
compagni di disgrazia mettendo a disposizione le mie energie e la mia modesta intelligenza della
causa comune, quella cioè di riscattare dignità e sicurezza sociale a una condizione di pazienti che,
a quel tempo, risultava essere senza diritti e senza considerazione alcuna.
Nel secondo semestre di permanenza in sanatorio ho assunto una sorta di delega sindacale
impegnandomi nella lotta per il riconoscimento di un assegno monetario assistenziale pro-tempore,
che allora non era garantito, e pure nella stesura di una carta dei diritti del malato. Con un degente
mio coetaneo iscritto al Pci, ho contribuito a formare un gruppo ristretto di rappresentanza degli
ospiti dell’ospedale riuscendo a promuovere una serie di manifestazioni di protesta all’interno del
sanatorio e anche un blocco stradale sulla statale che da Tirano porta a Bormio.
Ad essermi di conforto in quel duplice impegno è stato il ricongiungimento con Mariarosa la quale,
per volontà dello stesso primario del mio padiglione, è stata ricoverata nell’istituto “Villasana” che
era situato accanto al villaggio sanatoriale e destinato alle sole donne. Durante il secondo semestre
di degenza, con lei mi sono incontrato sistematicamente ogni settimana trascorrendo insieme una
mezza giornata d’amore.
Il ricovero a Sondalo ha pertanto rappresentato per me un’importante occasione per comprendere
come vanno le cose di questo mondo e per delineare conseguentemente le mie scelte future di vita.
Ovviamente, nel compiere questa svolta di appartenenza, l’abbandono cioè della concezione
cattolica della vita e l’adesione alle idee del socialismo rivoluzionario, non avevo una chiara idea di
cosa fosse il comunismo. La mia scelta era dettata soprattutto dal rifiuto del modello di società in
cui ero inserito, il quale già da tempo mi appariva impostato sulla legge del più forte e del più furbo.
Sentivo di vivere in una sociale che si proclamava cattolica, ma nei comportamenti era di fatto
egoista e ipocrita. Il bisogno di fare tutto il possibile per cambiare quello stato di cose era
prepotentemente cresciuto in me e mi suggeriva di compiere una rottura con un passato di
disimpegno sociale.
Durante la degenza in sanatorio nel mio animo, dunque, si era accumulato molto spirito di protesta e
di contestazione e anche se l’idea sul cosa fare e sul come agire restava nebulosa, il proposito di
impegnarmi socialmente era divenuto un imperativo.
Politicamente ero ignorante e della teoria comunista avevo solo una superficiale conoscenza, frutto
delle conversazioni che avevo avuto con quel compagno di lotta con il quale mi ero battuto per una
migliore condizione dei pazienti del sanatorio.
E’ da considerare peraltro che interiormente, più ancora che dall’esigenza di comprendere meglio la
storia del marxismo e la proclamata supremazia del sistema comunista rispetto a quello capitalista,
ero preso dalla preoccupazione di annunciare ai miei congiunti la conversione alla causa del
socialismo. Se non avevo dubbi sull’abbandono definitivo dell’ideologia cattolico-borghese, ero
tormentato dalle possibili conseguenze negative che la mia nuova visione del mondo e una mia
coerente pratica di vita avrebbero avuto, in particolare, nel rapporto con mia madre la quale non
avrebbe sicuramente sopportato facilmente questa mia metamorfosi culturale e morale.
L’esperienza vissuta nei mesi successivi alla mia iscrizione al Pci ha difatti rappresentato uno dei
momenti più travagliati della mia giovinezza, costandomi dolorosi scontri, in famiglia anzitutto, ma
anche nei rapporti con amici e conoscenti.
Allorquando si seppe che mi ero iscritto al Partito comunista – almeno da quel che mi è stato riferito
– commenti critici e preoccupati sono stati espressi persino in sede di Consiglio comunale del mio
paese, per iniziativa di un sindaco democristiano che amava la retorica militarista e detestava oltre
al pacifismo, il principio dell’eguaglianza.
Il dolore che la mia scelta ideale e politica ha procurato a mia madre non ha mai cessato di
riaffiorare nella mia coscienza e spesso si è trasformato in uno struggente tormento per averle
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procurato tanta sofferenza. Strascichi di cruccio ne ho avuti infatti sia nel corso degli anni in cui era
ancora in vita sia dopo la sua morte.
Dimesso dal sanatorio, nell’estate del ’62, ho trascorso sei mesi di convalescenza e poi ho ripreso
l’attività lavorativa. Mi sono licenziato dal Cotonificio Legler, rinunciando così a una probabile
carriera di dirigente di reparto, e per un periodo di alcuni mesi ho fatto l’impiegato amministrativo
in un negozio di abbigliamento. Successivamente ho intrapreso un’attività autonoma. Ho aperto in
Bergamo un ufficio di rappresentanza di prodotti coloniali e dolciari ricorrendo alla collaborazione
di Mariarosa e di un parente che già operava nel settore. Si era però in un periodo di crisi economica
e l’operazione ha avuto un esito poco soddisfacente. Ho scoperto presto, peraltro, che non ero
affatto tagliato per fare commercio: non avevo i requisiti del venditore e, soprattutto, non ero
disposto a dover assumere per forza atteggiamenti compiacenti con interlocutori (commercianti e
intermediari) il cui metro esistenziale era esclusivamente quello del possesso di beni e di denaro.
Da quando mi ero iscritto al partito, partecipavo alle riunioni della sezione di Ponte San Pietro e alle
manifestazioni pubbliche provinciali. Riccardo Terzi, allora segretario della Fgci, mi ha incluso tra i
partecipanti alla consulta giovanile di Bergamo, nonostante la mia immaturità politica.
Un’iniziativa memorabile, alla quale ricordo di aver partecipato con grande entusiasmo e
soddisfazione, è stata la conferenza che Togliatti ha tenuto al teatro Duse di Bergamo sul dialogo tra
comunisti e cattolici. Avevo trovato posto nelle prime file di sedie accanto a mio zio Elso, operaio
alla Dalmine iscritto anch’egli al partito, e avevo avuto occasione di osservare da vicino il mitico
dirigente comunista. Il suo modo di esprimersi mi aveva letteralmente incantato. La parte del suo
discorso che mi ha colpito particolarmente è stata quella in cui ha spiegato la novità, sul fronte della
guerra e della pace, dall’apparizione della bomba nucleare e, conseguentemente, il valore
rivoluzionario della lotta per il disarmo quale condizione per la conservazione della civiltà umana.
Quella conferenza mi ha confermato la giustezza della mia iscrizione al Pci e ha accresciuto in me
la spinta all’impegno politico.
Nel corso dei mesi successivi, in più di una circostanza, Eliseo Milani mi aveva proposto di
abbandonare l’attività che svolgevo in proprio per occuparmi di cooperazione, dal momento che il
compagno che dirigeva la Legacoop era in procinto di lasciare l’incarico. Il segretario federale del
Pci si proponeva un rafforzamento della presenza, in città e provincia, del cooperativismo rosso e
per questa ragione confidava in un mio contributo. Convinto che quella fosse un’occupazione più
consona alle mie aspirazioni, acconsentii alla richiesta e liquidai l’ufficio di rappresentanza.
Nel frattempo, però, quel compagno della Lega aveva avuto un ripensamento e quella prospettiva è
svanita. A quel punto Milani mi ha proposto di fare il funzionario politico e di trasferirmi per sei
mesi all’Istituto di studi comunisti “Palmiro Togliatti”, situato alle Frattocchie di Roma, per
frequentare un corso di formazione politica per dirigenti.
Nel frattempo mi ero sposato con Mariarosa. Era stato un matrimonio civile, consumato non solo
senza alcuna cerimonia, ma addirittura senza che le nostre rispettive famiglie ne fossero informate,
il che ha costituito per mia madre un altro immenso dispiacere. Per una parte del parentado e per
diversi conoscenti, quando ne furono informati, è stato motivo di scandalo e di pettegolezzo.
Ai primi di gennaio del 1964 ho iniziato il corso alle Frattocchie e ai primi di aprile sono stato
raggiunto da mia moglie che si è intrattenuta con me fino alla fine di giugno, cioè fino al termine
della mia permanenza alla scuola.
2. La formazione politica alle Frattocchie
Il soggiorno all’Istituto di studi comunisti è stato uno dei momenti più stimolanti e felici della mia
esistenza.
La scuola di Frattocchie era situata sull’Appia nuova, a una ventina di chilometri dal centro urbano
di Roma, a Sud di Ciampino, a ridosso dei colli romani e a due passi da Castelgandolfo. L’ambiente
di quella zona è stupendo, il clima mite e l’area dei colli induce a tranquillità e serenità.
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Adiacente al cancello d’entrata della villa vi era posta una garitta delle Forze dell’ordine nella quale
erano sempre presenti alcuni poliziotti. Non sono mai riuscito a capire quale fosse la funzione
principale di quella postazione: se proteggere la scuola da eventuali attentati o se invece esercitare
un controllo su chi la frequentava. Probabilmente, scopo della sua presenza era quella di assolvere
ambedue le funzioni.
L’edificio che ospitava l’istituto era situato in uno splendido parco, aveva dimensioni tali da poter
ospitare la notte una cinquantina di ospiti; era dotato di strutture di servizio che assicuravano ogni
confort e i suoi saloni erano ricchi di sculture e pitture di artisti famosi. Accanto alle sale di riunione
vi era una ricca biblioteca alla quale erano abbinati spazi destinati all’ascolto della musica e della
radio-tv. Era anche dotato di una sala di intrattenimento attrezzata di biliardo e di vari altri giochi.
All’esterno, a margine dell’ampio giardino, vi erano un campo di tennis, adattabile anche per le gare
di basket e di pallavolo, e due campi di bocce.
A fianco della struttura principale sorgeva una casetta a due piani che un tempo era a disposizione
di Palmiro Togliatti il quale vi si recava nei suoi momenti di relax. Dopo la sua morte è stata
trasformata in dimora degli ospiti illustri della scuola, soprattutto dirigenti politici e studiosi, e al
tempo stesso conservava alcuni cimeli del defunto segretario del partito. In occasione di una sua
visita, mi fu possibile impossessarmi di una cartelletta la cui intestazione era stata scritta con
inchiostro verde dallo stesso illustre dirigente. Un prezioso cimelio che, purtroppo, col passare degli
anni non mi è più riuscito di rintracciare tra le mie carte.
L’ambiente della scuola di Frattocchie era accogliente, ma al tempo stesso austero. In esso si
respirava un’aria che induceva contegno. Entrando per la prima volta nell’edificio, ho avvertito una
sensazione analoga a quella che si prova allorquando si accede a un luogo sacro o destinato alle
solennità.
Al corso semestrale che ho frequentato partecipavano con me oltre una ventina di compagne e
compagni provenienti da tutta Italia. Con loro ho stretto amicizia con rapidità stabilendo da subito
un rapporto fraterno. Tra di noi era scattato in modo spontaneo un legame di solidarietà e di affetto
che difficilmente avrebbe potuto stabilirsi in circostanze differenti.
Il corso di studi era impostato principalmente sull’approfondimento di quattro tematiche: la storia
d’Italia, la storia del Pci, le elaborazioni dei padri del socialismo e le politiche e strategie del partito.
Salvo il primo argomento che per me era già stato oggetto di studio in preparazione del
conseguimento del diploma, ovviamente nella versione borghese, tutte le altre materie mi erano
quasi sconosciute e costituivano pertanto motivo di grande curiosità e interesse.
Oltre ad apprendere nuove e importanti cognizioni che hanno contribuito ad arricchire il mio
modesto bagaglio di sapere, quel corso di formazione politica ha rappresentato la scoperta di un
modo nuovo di concepire il rapporto con i miei simili e con le cose di questo mondo. L’apprendere
il metodo della critica e dell’autocritica nell’interpretare avvenimenti e nel vagliare qualsiasi teoria
o personaggio e nel fare sistematicamente i conti con me stesso, è stato per me un elemento di
novità. Si è trattato di un approccio che si è rivelato in netto contrasto con la cultura che sin da
bambino mi era stata impartita e che le acquisizioni scolastiche, oltre alle pratiche religiose,
avevano consolidato in me; ha perciò costituito motivo di gioia e al tempo stesso di imbarazzo. Il
mio modo di essere e di pensare era infatti fondato sui principi della concezione borghese della vita,
cioè sull’apprendimento passivo piuttosto che sulla riflessione critica, e il nuovo modo di
interpretare il mondo e i rapporti sociali, almeno in un primo momento, ha messo in stato di crisi la
mia identità. Quando davanti a me si è squarciato quel nuovo orizzonte, mi sono sentito costretto a
riconsiderare tutto il mio passato e a mettermi in discussione; e una tale operazione ha comportato
un sforzo psicologico notevole.
Un’altra pratica che ha messo a dura prova la mia capacità di adattamento, è stata quella della
socializzazione dell’apprendimento e del conseguente confronto dialettico pubblico anche sugli
aspetti emotivi più intimi. Dopo ogni lezione, infatti, oltre a essere invitati a dare conto di quanto
avevamo recepito, confrontando così vicendevolmente impressioni e giudizi, venivamo stimolati a
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esprimere una valutazione sul nostro stesso grado di acquisizione del sapere, in maniera tale da
individuare e condividere collegialmente i nostri limiti.
Non è stato certo facile abituarmi a un simile comportamento, devo però ammettere che è proprio
attraverso quei processi socializzanti e insieme autocritici, che la mia mente, da chiusa che era, si è
aperta e le mie capacità di comprendere e di esprimermi sono di gran lunga accresciute.
Ho così preso coscienza delle ristrettezze di una visione individualistica dei rapporti sociali e
scoperto il valore e le potenzialità dell’approccio collettivistico. E’ proprio dall’esperienza vissuta
in quella circostanza che ho maturato il convincimento che il progresso dell’umanità è conseguibile
soprattutto attraverso l’esaltazione del lavoro d’equipe e la condivisione delle scoperte e delle
conoscenze, non già nell’alimentare il fanatismo individualista in un ambiente che esalta la
competizione ai limiti della sopraffazione.
La frequentazione della scuola di Frattocchie ha dunque comportato per me una svolta non solo di
orientamenti, ma anche di pratiche comportamentali. Mi ha riformato intellettualmente e
moralmente e mi ha consentito di scoprire l’importanza di possedere una propria autonoma visione
del mondo e insieme la consapevolezza delle proprie forze e dei propri limiti.
Prima di allora, quando mi capitava di affrontare un insuccesso, ero quasi meccanicamente sospinto
in uno stato di frustrazione, di impotenza, incapace di reagire e riscattarmi, riversando su fattori
esterni (l’incomprensione altrui, la fatalità, il destino avverso, ecc.) le cause di quel fallimento,
abbandonandomi così a una chiusura in me stesso che rasentava forme di paranoia. La visione
critica ed autocritica degli eventi, la ricerca delle loro cause, mi hanno permesso di comprendere il
loro succedersi, mettendomi in condizioni di colmare i limiti del mio stesso agire e di porre riparo
agli errori compiuti. In sostanza, sono diventato consapevole delle mie scelte e dei loro risultati.
Sul piano teorico politico ho imparato che il marxismo non è un’ideologia, come comunemente i
suoi avversari lo considerano, bensì un metodo scientifico di studio della realtà, uno strumento di
trasformazione dei comportamenti a livello dei singoli individui e delle comunità; che la dialettica è
un fattore di forza e non invece un ostacolo nell’arte di governare gli uomini e le cose, come molti
sostengono. La sua applicazione allunga certamente i tempi delle decisioni, ma consente di
conoscere meglio la realtà in cui si è chiamati a intervenire e mette in condizione di adottare le
soluzioni più giuste e opportune con un consenso il più largo possibile.
Ho altresì acquisito quanto siano importanti, per una formazione che si propone di affermare un
sistema sociale alternativo al capitalismo, la memoria storica e l’analisi rigorosa dei processi sociali.
Per acquisire una coscienza socialista, infatti, occorre avere una visione generale dell’uomo e dei
suoi interessi e una conoscenza della storia nazionale e mondiale. Ho pure compreso l’essenzialità
dello spirito internazionalista che i padri del socialismo scientifico hanno sintetizzato nel monito
“proletari di tutti i paesi, unitevi!”. Senza questo requisito – e l’esperienza dei nostri giorni lo
insegna – non c’è possibilità alcuna di far fronte allo strapotere del capitale.
E ancora, ho appreso che la sinistra non può che considerarsi un’entità complessa e plurale, cioè il
prodotto di bisogni, sensibilità e aspirazioni in continuo sviluppo e la cui soddisfazione esige
oggettivamente interventi in tempi e modi differenti. Questa è la ragione per cui la tendenza
prevalente non è quella dell’unità del movimento, ma quella della sua frammentazione. Nell’intento
di scongiurare il pericolo di fratture, le dirigenze di partito ricorrono abitualmente al compromesso
politico tra le parti in contesa. Si tratta di una pratica errata e illusoria, giacché il processo unitario
può essere ricomposto solo la comprensione delle divergenze nel vivo del protagonismo sociale e
della sperimentazione del cambiamento che richiede il contributo di tutti.
E ho pure imparato che non basta proclamarsi comunista per essere tale, ma che esserlo per davvero
comporta avere quotidianamente una condotta conseguente ai principi della teoria marxiana, la
quale non è una dottrina statica, ma un sapere e un metodo che esige una continua rielaborazione.
La forza di un marxista, almeno fin quando il comunismo non troverà pratica attuazione, non
consiste nell’acquisizione di quote di potere e di comando, bensì nella capacità di far diventare
egemoni, e quindi pratica sociale, le idee e le elaborazioni che assicurano l’affermazione
dell’interesse collettivo conquistando le coscienze. Sbagliano pertanto quei compagni che
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inseguono a tutti i costi la conquista del consenso, che spendono il grosso delle loro energie per
diventare maggioranza sulla base dei numeri quale obiettivo prioritario. Essi dovrebbero aver chiaro
che in rapporto all’opinione pubblica e al senso comune, un comunista è destinato a essere
minoranza; diventerà maggioranza solo quando la collettività non avrà più bisogno di lui.
Il corso di formazione politica che ho frequentato alle Frattocchie, in sostanza, è risultato essere per
me un’importante occasione di crescita; esso ha profondamente segnato la mia formazione
culturale, etica e morale, oltre che politica.
A quel tempo la scuola era diretta da Luciano Gruppi e insegnanti permanenti erano Gensini e
Quattrucci. Oltre a questi compagni, ci tenevano lezioni alcuni dirigenti del partito tra i quali
Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta, Mario Alicata, Antonio Pesenti, Paolo Spriano, e pure
intellettuali e artisti che ci proponevano riflessioni sulla letteratura e sull’arte. A testimoniare la
qualità dell’insegnamento che essa assicurava, ci sta il fatto che la quasi totalità del quadro dirigente
periferico del partito è stato formato sui suoi banchi o su quelli delle scuole minori distribuite sul
territorio nazionale.
Della ventina di compagne e compagni che hanno partecipato al mio corso, sono usciti una vice
presidente del Consiglio europeo, tre o quattro deputati, diversi segretari di federazione, dirigenti
sindacali e del movimento cooperativo, membri di consigli di amministrazione di enti d’importanza
nazionale e regionale. Solo io non ho onorato il carrierismo politico. Sono del resto l’unico, tra
quella ventina di compagni, ad aver percorso un itinerario non ortodosso: quello del “manifesto” e
della cosiddetta “nuova” sinistra.
La permanenza alla scuola di Frattocchie mi suscita ancora oggi dei ricordi che di tanto in tanto mi
riaffiorano alla mente procurandomi gioia e nostalgia. In alcune serate di libertà dagli impegni
didattici, tutto il collettivo si recava in una trattoria situata a distanza di qualche centinaio di metri
per bere un bicchiere di vino dei colli e per cantare in allegria inni e canzoni del movimento dei
lavoratori. Erano momenti pieni di solidarietà e di sentimento, indimenticabili.
Una di quelle sere, ormai prossimi alla fine del corso, ci siamo recati prima in una vecchia cantina
di Marino a mangiare la porchetta e poi a Castelgandolfo dove era situata una balera. Preso dalla
compagnia e dal buon vino bianco dei colli romani, senza rendermi conto, devo aver esagerato un
pochino nell’alzare il gomito. Difatti, quando abbiamo abbandonato la cantina mi sono accorto che
stentavo a reggermi sulle gambe e che i miei movimenti erano impacciati. Giunti a Castelgandolfo,
mi sono lanciato nel ballo (divertimento per me insolito) e a un tratto, senza che me ne rendessi
conto, ho attirato su di me l’attenzione di tutti i compagni. Per mesi ero stato da loro considerato un
musone, uno scontroso, un “bergamasco tosto”, asciutto nelle manifestazioni esteriori, sempre
serioso, e per di più radicale nelle idee. A favorire quella nomea, avevano certamente contribuito
alcune mie prese di posizione politica, non ultima la mia manifesta avversione al concorso dei
parlamentari comunisti nell’elezione a Presidente della Repubblica del socialdemocratico Giuseppe
Saragat avvenuta nei mesi precedenti.
Quella sera, essendomi riempito di vino come non mai, ero andato in bonaria escandescenza
abbandonandomi senza alcun freno al divertimento e all’allegria. Da mister Hyde mi ero
trasformato in dottor Jekyll e mia moglie, che mi aveva raggiunto alla scuola ed è stata con me per
tre mesi, quando sono tornato lucido, mi ha confidato di essersi resa conto con meraviglia di aver
sposato un bruto che sapeva anche diventare un giullare. Quando a notte inoltrata sono rientrato alla
mia dimora, disteso sul letto, mentre mi girava la testa avevo lo stomaco in subbuglio. Per la prima
volta nella mia vita, ed è stata anche l’ultima, avevo preso un’ubriacatura.
3. L’impegno politico a tempo pieno nell’Isola bergamasca
Ritornato a Bergamo, ho iniziato la mia avventura politica di “rivoluzionario di professione”.
La Federazione bergamasca del Pci, a quel tempo, aveva un apparato che era proporzionato al
numero degli iscritti, rapportato cioè alla disponibilità delle risorse finanziarie rimediate soprattutto
tramite il tesseramento, e distribuito secondo le priorità d’intervento politico. Segretario federale era
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Eliseo Milani; Alfredo Cavalli e Piero Peretti si occupavano dell’organizzazione; Roberto Minardi
era incaricato del lavoro di massa e dell’attività negli enti locali; Alfredo Bossi sovrintendeva alla
stampa e propaganda e aveva come collaboratore Cecco Scarpellini; l’amministrazione era curata da
Giuseppe Crippa senior, mentre il ruolo di segretaria e telefonista era svolto da Liliana Riva.
Giuseppe Brighenti era deputato e assicurava la sua presenza in federazione solo nella giornata di
lunedì, mentre il sabato e la domenica si rendeva disponibile, come tutti i compagni dell’apparato,
per le presenze sul territorio (riunioni di sezione e iniziative pubbliche). Vi erano poi alcuni
compagni distaccati nelle varie zone della provincia, distribuiti in base alla consistenza
dell’organizzazione di partito, i quali operavano in stretto contatto con la federazione.
Al mio rientro sono stato assegnato all’organizzazione e, in specifico, mi è stata affidata la zona
dell’Isola bergamasca dove il partito, salvo che in alcune realtà come Mapello, Capriate S.
Gervasio, Calusco e Carvico, faceva registrare una debole presenza. Mio compito prioritario era
quello di incrementare sia le iniziative politiche che il tesseramento.
Ho considerato quell’inquadramento una prova di fiducia che il gruppo dirigente federale riponeva
nella mia persona, perciò ho svolto quell’incarico con senso di responsabilità e impegno,
sforzandomi di essere all’altezza delle aspettative. Del resto, l’esperienza formativa delle
Frattocchie mi aveva suscitato un grande desiderio di cimentarmi nel gorgo della lotta politica e
quando ancora ero a Roma avevo maturato alcune idee e delineato alcuni progetti operativi per
quando sarei rientrato a casa.
Sul territorio dell’Isola, oltre alle quattro organizzazioni ben consolidate che ho ricordato,
esistevano solo dei piccoli nuclei di compagni che di fatto costituivano delle cellule più che delle
sezioni.
Il mio primario sforzo è stato quello di assicurare una loro maggiore visibilità sul territorio
attraverso una più assidua presenza politica che si traduceva nel promuovere eventi pubblici, nella
distribuzione periodica di volantini e nella diffusione straordinaria domenicale del quotidiano
“l’Unità”.
Allo scopo di favorire la crescita politica dei compagni e consolidare il loro impegno militante, ho
programmato riunioni periodiche nel corso delle quali si discutevano gli avvenimenti politici e si
decideva l’azione del partito da svolgere a livello locale. Era questo un modo per far apprendere ai
compagni alcune nozioni fondamentali della politica e sollecitarli al dibattito. Laddove le
condizioni lo consentivano, ho organizzato dei brevi corsi di formazione politica, ricorrendo anche
a delle proiezioni cinematografiche e consigliando ai più volenterosi la lettura di libri e documenti.
Per la verità, abituare i compagni a queste iniziative non è stata un’impresa facile, infatti, sia alla
base del partito che ai suoi vertici, incontravo un certo disinteresse, un fastidio quando non
addirittura un’aperta avversione.
Del resto, la mia sollecitazione alla lettura e alla riflessione, era destinata ad apparire ai più
un’incomprensibile pretesa, considerato che la stragrande maggioranza degli aderenti al partito della
zona risultava essere in età matura e molti di loro erano costretti a regimi di vita logoranti, tali da
avere scarsa attitudine e poco tempo a disposizione per le iniziative politico-culturali. Molti di loro
erano lavoratori pendolari, edili, metalmeccanici, costretti non solo a mansioni logoranti, ma anche
a ore di viaggio in condizioni spesso di grande disagio. Ad accogliere il mio invito e le mie
sollecitazioni non a caso sono stati in genere i militanti più giovani e quelli di loro che svolgevano
attività impiegatizie o erano impegnati intellettualmente.
Quel poco che mi è riuscito di fare, però, col tempo ha dato i frutti sperati. La generalità di quei
compagni che hanno accolto l’invito ad allargare le loro conoscenze, sono diventati presto dei
dirigenti di sezione o degli attivisti sindacali, consolidando così il loro patrimonio politico e
culturale.
Durante i tre anni di operatività nell’Isola, sono riuscito a far acquisire ad alcune sezioni una propria
sede fisica, nonostante le difficoltà che a quel tempo si incontravano nel reperire locali in affitto. A
quel tempo ai comunisti era difficile far politica anche perché era loro reso difficile conseguire gli
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spazi e l’agibilità fisica necessari. Per di più, s’incontravano spesso difficoltà anche a trovare un
luogo pubblico dove riunirsi.
Una domenica mattina, per citare un esempio, presso il Circolo Enal di Pontida (struttura dell’Ente
nazionale di assistenza dopolavoro), avevo convocato la riunione di sette o otto compagni di quel
paese per discutere la possibilità di organizzare la festa de “l’Unità”. Nei paesi dove non c’era una
sede di partito, era abitudine consolidata trovarsi in un pubblico esercizio dove si consumava come
normali avventori e si discuteva dei problemi politici e sociali. Quando andava bene, e il
proprietario del locale era compiacente, ci veniva riservata una saletta appartata, di solito però non
era questa la condizione. Fatto è che quel mattino a Pontida il gestore del circolo, a un tratto, è
venuto al nostro tavolo invitandoci a leggere un cartello che era appeso a una parete sul quale
appariva la scritta “Qui non si fa politica” e, di conseguenza, ci ammonì ad abbandonare il locale.
Ci trovavamo di fronte a una reminiscenza del periodo fascista non solo trascurata, ma tollerata dai
poteri pubblici. Ne nacque una vivace discussione e io minacciai di far intervenire i carabinieri a
tutela delle libertà sancite dalla Carta costituzionale. Svolgemmo comunque la nostra riunione, ma
dopo quella sceneggiata ci premurammo di trovare un altro locale dove non correre il rischio di
essere contestati.
Nell’Isola sono altresì riuscito a organizzare molte feste de “l’Unità” in paesi dove prima di allora
non erano mai state celebrate. In molte di queste occasioni, la mia presenza aveva inizio con
l’impegno manuale nell’allestimento delle strutture accanto ai compagni e finiva con lo svolgimento
del comizio che era il momento politico clou dell’iniziativa. Proprio per questa mia disponibilità
alla condivisione della fatica materiale, mi sono accattivato la fiducia e la stima di molti compagni.
Del nucleo di compagni di Ponte San Pietro che sono stati i miei primi maestri di militanza, ho
sempre avuto e mantengo tuttora un particolare ricordo. Quando aderii al partito, gli iscritti erano
poco più di una decina. Erano pochi ma con un encomiabile passato di lotte e di sacrifici. Oltre a
Gianni Milani, che era il factotum della sezione, vi erano Luigi Buratti, il segretario, Gaetano
Marchi, Giovanbattista Vernizzi, Angelo Amboni, Enrico Tamborini, Everardo Capodaglio, tutti ex
partigiani o patrioti che avevano combattuto il nazi-fascismo, chi in montagna, chi in fabbrica e chi
sostenendo l’azione dei Gap. A loro si affiancavano Antonio Gambirasio, Mosè Castelli, Mario
Bonacina, Mario Cavenati, Edoardo Brembilla, Antonio Bonacina, Tarcisio Valsecchi, i quali pure
erano da me ammirati per il loro spirito solidaristico e battagliero.
Uno dei primi impegni che ho assunto è stato quello di andare alla ricerca di un locale in cui
insediare le sede del partito. Nel giro di alcune settimane abbiamo individuato cinque o sei piccoli
locali sfitti, perciò disponibili a adatti alle nostre esigenze, ma da ognuno dei loro proprietari
abbiamo avuto come risposta un netto diniego. Mentre alcuni si erano comportati da ipocriti, altri
hanno giustificato la loro indisponibilità sostenendo che se avessero assecondato la nostra richiesta,
i loro buoni rapporti con le autorità e con l’opinione pubblica si sarebbero deteriorati. Siamo riusciti
a risolvere il problema della sede affittando da una persona, che alla reputazione preferiva il denaro,
un angusto localino situato nel Comune di Curno, ai margini cioè dell’abitato di Ponte San Pietro.
Intestammo la Sezione a Enrico Rampinelli, sergente pilota militare passato alla lotta partigiana,
caduto in uno scontro coi nazi-fascisti in Toscana e decorato di medaglia d’oro.
Anche a Ponte San Pietro sono riuscito a organizzare per la prima volta la festa de “l’Unità” e a
seguito di questa iniziativa la sezione si è popolata di iscritti raggiungendo oltre una trentina di
adesioni.
Una delle iniziative politiche più significative dalla sezione di Ponte San Pietro è stata quella
riguardante la denuncia delle ingiustizie fiscali. A quel tempo tra i compiti delle amministrazioni
locali vi era quello di fissare l’imposta di famiglia a carico dei contribuenti, l’equivalente della
moderna irpef. Poiché gli amministratori democristiani, che in Consiglio comunale potevano
contare sulla maggioranza assoluta, avevano adottato come criterio quello di condonare le famiglie
ricche e, di conseguenza, caricare sulla generalità dei cittadini il maggior peso fiscale, attraverso sia
l’imposizione diretta che quella indiretta sui consumi, armati di pazienza ci siamo recati in Comune
e diligentemente abbiamo preso nota di tutte quelle che consideravamo ingiustizie, dopo di che
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abbiamo diffuso un dossier di denuncia. Ne è scaturito un vero e proprio putiferio. La pubblicazione
ha suscitato proteste a non finire da parte di molti cittadini, quelli ovviamente che risultavano
beneficiati da quell’iniquo sistema d’imposizione. Il baccano è stato tale da contrariare lo stesso
Gianni Milani, allora consigliere comunale, il quale contro di me ha scatenato una polemica che è
durata per lungo tempo e che ha investito la stessa federazione provinciale del partito. Era il mio
primo impatto con quel fenomeno che è il moderatismo indotto dalla presenza istituzionale
allorquando il delegato non vanta una visione critica della rappresentanza borghese e diventa
prigioniero dei suoi meccanismi inclusivi. Evidentemente, Gianni Milani non aveva mai preso in
considerazione l’appunto fatto da un illustre compagno dell’ala destra del partito, Giorgio
Amendola, il quale proprio a quel tempo su “Critica marxista” faceva notare che “la classe operaia
non soltanto può acquistare, in determinate condizioni, una propria coscienza di classe, essa la può
anche perdere, o semplicemente offuscare, se il capitalismo riesce a realizzare un processo di
integrazione, per il quale ha storicamente trovato, in molti Paesi, uno strumento nei partiti
socialdemocratici”. A sua giustificazione si poteva considerare che il ruolo di sindacalista da lui
svolto non predisponeva automaticamente ad assolvere un mandato politico-istituzionale senza che
intervenisse l’acquisizione delle discriminanti politiche che devono distinguere un esponente di
sinistra da un socialdemocratico. Nondimeno, anche un compagno della sinistra sindacale, come lui
era, avrebbe dovuto essere culturalmente attrezzato in modo di non cadere nelle trappole
dell’opportunismo.
Ero fresco dello studio dei classici del marxismo e l’atteggiamento assunto da Gianni Milani mi
richiamava alla mente “Stato e rivoluzione” di Lenin, laddove argomentava come
l’opportunismo induca il partito operaio a trasformarsi in “rappresentante dei lavoratori meglio
retribuiti, che si staccano dalle masse, ‘si sistemano’ abbastanza comodamente nel regime
capitalistico e vendono per un piatto di lenticchie il loro diritto di primogenitura, rinunciando cioè
alla loro funzione di guida rivoluzionaria del popolo nella lotta contro la borghesia”. E pure
quando osservava che, in ambiente capitalista, persino i funzionari del partito e gli organizzatori
sindacali “tendono a pervertirsi in burocrati, cioè in individui che si pongono fuori dalle masse e
sopra le masse”.
Sta di fatto che quell’episodio mi ha svelato la non omogeneità di orientamenti dei compagni
comunisti e questa costatazione mi ha turbato profondamente. Non solo perché rendeva complicata
la quotidiana convivenza tra di noi, ma anche perché smentiva il convincimento che mi ero fatto di
un partito quale comunità coesa e solidale.
Per mia fortuna, poco tempo dopo, la Cgil ha approvato il criterio dell’incompatibilità tra cariche
sindacali e cariche politiche e Gianni Milani è stato costretto alle dimissioni da consigliere
comunale. Al suo posto è subentrato Antonio Gambirasio e questo ricambio non solo ha evitato che
i contrasti tra Milani, che nel frattempo era diventato segretario provinciale della Federazione dei
tessili, e me assumessero risvolti ancor più aspri, ma ha favorito il consolidamento del rapporto che
avevo con i compagni della sezione.
Altra iniziativa che ha avuto un successo insperato e costituito un piccolo esempio di solidarietà
internazionale militante da parte della sezione, è stata la proiezione presso il cinema Italia, nella
primavera del ’69, del film “Z, l’orgia del potere”, seguita dalla conferenza di un esule politico
greco, un medico rifugiato a Bologna, il quale alcuni mesi dopo, con la complicità dei servizi
segreti italiani, è stato rimpatriato nel suo Paese e giustiziato dai colonnelli fascisti al potere.
La presenza politica di militanti sovversivi, quali noi eravamo, in una comunità composta in
maggioranza da gente bacchettona, culturalmente chiusa, pavida ed egoista, interessata soprattutto
al tornaconto personale, era ovviamente mal tollerata. Contro i comunisti che alzavano la testa, non
poteva che scatenarsi una campagna diffamatoria condotta in sordina, nei modi e nelle forme tipici
del fariseismo.
Io venivo considerato da molti un “traviatore di giovani” e alcune volte mi è persino capitato di
incontrare delle beghine che al mio passaggio mi mostravano la lingua in segno di disprezzo. Ho
sempre interpretato tali manifestazioni una testimonianza del basso livello culturale tipico di una
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comunità timorata di dio e che nei confronti di chi la pensa diversamente non sa contrapporre altro
che intolleranza e odio.
4. I primi comizi e le prime lotte per i diritti sindacali
Una delle prove più difficili che sono stato costretto a superare nel periodo dell’iniziazione politica
è stata quella di tenere comizi. La scuola delle Frattocchie mi aveva insegnato a dialogare, a
sostenere confronti, a riassumere concetti e a esporli davanti al collettivo, ma non a fare comizi;
l’esordio in pubblico non l’avevo ancora sperimentato. Del resto, era solo la discesa in campo che
poteva offrirmi l’occasione per farlo.
Intimamente desideravo fare comizi da tempo, però, nel momento in cui ero chiamato alla prova
venivo assalito dal panico.
L’esordio è stato alla festa de “l’Unità” di Solza, una manifestazione modesta quasi casereccia,
allestita nel cortile di un circolo Enal. Il comizio era programmato per le ore 17 di una domenica
pomeriggio. Mi sono recato sul posto alle 15 e per due ore ho vissuto un vero e proprio supplizio.
Sono corso al bagno cinque o sei volte e mi sono ripetutamente augurato che non intervenisse il
maresciallo dei carabinieri la cui presenza era la condizione per lo svolgimento del discorso
pubblico. Il mio stato emozionale era all’estremo della tensione.
Alle 17 in punto ho dovuto dare inizio alla mia orazione davanti a una ventina di compagni
visibilmente curiosi di vedere come me la sarei cavata. Ho intrattenuto i miei ascoltatori per una
ventina di minuti riscuotendo gli applausi in tre o quattro passaggi e, al termine, ho ricevuto i loro
complimenti. In verità, ho sempre creduto che le loro congratulazioni fossero un atto
d’incoraggiamento, giacché io stesso mi ero reso conto delle numerose esitazioni e non ero per nulla
soddisfatto dell’esibizione.
A quella prova ne sono seguite presto tante altre e in alcune circostanze ho persino avuto
manifestazioni di balbuzie al punto di temere che si traducessero in un complesso. E’ stato solo con
l’esperienza che sono riuscito a rimediare quel tanto di fiducia in me stesso e di attitudine
indispensabili ad affrontare le platee e a farsi ascoltare.
Ogni volta che ho assistito all’esibizione oratoria dei miei compagni, ponendomi al loro confronto,
ho provato un senso di commiserazione per le mie scarse capacità comunicative e per la mia parlata
sgrammaticata e dall’inflessione dialettale. Tale tormento, seppure con minore intensità, l’ho
vissuto fino al termine della mia militanza politica attiva. Ho sempre invidiato, in senso buono, chi
sa esprimersi bene e ha la capacità di catturare l’attenzione di coloro che lo ascoltano.
Alla fine degli anni sessanta, ho tenuto comizi in diversi paesi della provincia bergamasca e in
alcune circostanze, mi è capitato di vivere esperienze singolari. Nella piazzetta di un paesino
dell’alta valle Brembana, dopo aver postato il microfono e gli altoparlanti sull’utilitaria per
annunciare il comizio e diffondere gli inni del movimento operaio, prima ancora che iniziassi a
parlare e senza che davanti a me ci fosse una sola persona interessata ad ascoltarmi, mi sono sentito
indotto a smontare in fretta e furia l’impianto e a fuggire precipitosamente per la presenza in
lontananza di uno strano vociare contro i comunisti, accompagnato da un minaccioso suono delle
campane. Il timore di subire una sorta di linciaggio mi ha spinto a trasgredire i miei doveri.
Più avanti nel tempo, alcuni giorni dopo che a Bonate Sopra avevo impedito a un esponente del Msi
di parlare in piazza, mentre stavo svolgendo il comizio a Brembate Sopra, sono stato aggredito da
due individui che sono scesi improvvisamente da un’automobile fermatasi a pochi passi da me.
Resomi conto prontamente delle cattive intenzioni dei due, sono riuscito a respingerne uno e a
scaraventare l’altro sul cofano della mia automobile. L’intervento dei compagni, che erano rimasti
allibiti di fronte a quella scena, ha poi paralizzato i due allontanandoli di forza, senza peraltro che i
tutori dell’ordine presenti li identificassero e denunciassero.
Una sera a Terno d’Isola mi è stato possibile svolgere il comizio nella piazza centrale solo mezz’ora
dopo l’orario fissato, giacché il parroco aveva fatto suonare le campane oltremodo per impedirne lo
svolgimento. Quando ho incominciato a parlare, in una piazza silenziosa e con diversi ascoltatori
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che si intravedevano dietro le imposte delle finestre di casa, avevo davanti a me una diecina di
persone. Una presenza non folta ma che giudicavo consolante, considerato che lo stesso compagno
che mi aveva presentato, mi aveva lasciato solo per recarsi al bar a ristorarsi. A un tratto davanti a
me si è fermato un pullman e quando è ripartito, le persone che supponevo stessero assistendo al
mio comizio, sono sparite. Ho poi scoperto che erano lavoratori pendolari in attesa del mezzo
pubblico che li avrebbe portati alle acciaierie di Sesto San Giovanni per il turno notturno.
Stoicamente ho continuato il comizio ancora per qualche minuto, senza rendermi conto che un
ascoltatore l’avevo assicurato sin dall’inizio: era il parroco che si era sistemato una diecina di metri
dietro di me , a ridosso dei muri della chiesa, probabilmente per controllare chi sarebbe intervenuto
alla manifestazione dei “rossi”.
A quei tempi, il funzionario politico del Pci doveva essere pronto a tutto, sia a sopportare simili
mortificazioni sia a dover affrontare situazioni anche a rischio di scontri fisici. Oltre alla nostra
attività politica, eravamo spesso chiamati a supportare i compagni della Cgil che soffrivano di
carenza di personale e di quadri. Succedeva molto spesso di essere costretti a garantire la nostra
presenza fuori dai cancelli delle fabbriche nelle prime ore del mattino con il compito di fermare i
crumiri che non intendevano aderire agli scioperi. Prima delle lotte del ’68-’69, infatti, a praticare il
crumiraggio erano molti lavoratori. Lo facevano non tanto per motivazioni antisindacali o
ideologiche, ma per non mettersi in cattiva luce agli occhi dei loro dirigenti aziendali e padroni.
Solo in alcune grandi aziende, dove le organizzazioni sindacali erano massicciamente presenti,
l’astensione dal lavoro nei giorni di sciopero era attuata dalla maggioranza dei lavoratori. Nelle
medie e piccole aziende prevaleva invece il ricatto padronale e lo spirito di sopravvivenza
occupazionale costringeva i dipendenti a disertare le agitazioni.
Fuori dai cancelli della Fomm di Mapello ho trascorso due notti insonni. E’ stata quella
un’esperienza che ho sempre ricordato con nostalgia e orgoglio. In quella fonderia, a quel tempo,
erano occupati una settantina di lavoratori. Tra questi vi era il compagno Everardo Capodaglio, un
ottimo modellista che aveva lavorato prima alla Caproni e poi alla Nardi di Milano. Spesso mi
raccontava di aver contribuito, in più di una occasione, come tecnico, alla manutenzione dell’aereo
di Enrico Mattei che poi venne fatto scoppiare in volo.
Nel torno di neanche sei mesi, alla Fomm erano morti due lavoratori a causa della non applicazione
delle misure di sicurezza. L’organizzazione sindacale non esisteva in quell’azienda, dato che il
proprietario aveva sistematicamente respinto la richiesta di costituire la commissione interna.
All’indomani del secondo infortunio mortale, Capodaglio mi ha invitato a dargli una mano nel
convincere i lavoratori a intraprendere la lotta e mi ha proposto di incontrare quei lavoratori che, la
domenica pomeriggio, avrebbero partecipato ai funerali dell’operaio deceduto in fonderia i quali si
svolgevano a Terno d’Isola. Accolto l’invito, con l’ausilio di due altri suoi compagni di lavoro, sono
riuscito a riunire in una trattoria una ventina di dipendenti della fonderia. Per oltre un’ora, mi sono
prodigato a convincerli che l’istituzione della commissione interna era un diritto sancito dalla legge
e che la presenza del sindacato in fabbrica era l’unica garanzia per evitare altri infortuni. Alla fine
mi è riuscito di concordare con loro la proclamazione dello sciopero per la mattina successiva.
Occorreva però mettere in conto che per molti dei rimanenti cinquanta dipendenti non presenti alla
riunione, l’astensione dal lavoro per protesta avrebbe sicuramente rappresentato una decisione non
condivisibile, pertanto si rendeva necessario organizzare il picchettaggio.
La sera stessa, fuori dai cancelli della fabbrica abbiamo impiantato un tenda. Ai circoli “rossi” della
zona abbiamo chiesto la fornitura delle vivande; ci siamo muniti di grossi bastoni e abbiamo atteso
l’arrivo dei lavoratori del primo turno, quelli cioè che entravano alle 4 del mattino per accendere i
forni. Siamo riusciti a fermare alcuni di questi lavoratori con la ragione, altri con la forza; solo due
o tre ci sono sfuggiti e hanno varcato il muro di cinta per entrare in azienda. Identico risultato lo
abbiamo ottenuto due ore più tardi, quando a recarsi in fabbrica era il grosso della manodopera.
Quando alle ore 7.30 è arrivato il titolare dell’azienda, accompagnato dal direttore, i lavoratori
presenti in fonderia erano talmente pochi che non è stato possibile avviare gli impianti di
produzione.
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La giornata è trascorsa tra discussioni e proclami di minacce da parte della proprietà e del personale
di vigilanza. Per il giorno seguente ci si doveva pertanto aspettare una rivalsa e occorreva
predisporsi ad affrontare ogni evenienza.
La notte abbiamo vegliato a turno e ci siamo preparati a sostenere lo scontro quasi certo del mattino.
Qualcuno ha ipotizzato che il proprietario avrebbe convogliato a Mapello i suoi contadini per
supplire alla manodopera in agitazione e poiché questa ci appariva una prospettiva assai probabile,
ci siamo preparati ad impedire l’entrata in fabbrica di estranei. Alle 7.30 del mattino seguente,
abbiamo visto spuntare a distanza un corteo di automobili con in testa una camionetta dei
carabinieri. Ai cancelli ci eravamo postati in una trentina e a quel punto ci siamo stretti l’un l’altro
incrociando le braccia e costituendo una sorta di cordone per impedire l’entrata in fonderia dei
crumiri. Quando il corteo è arrivato a cinque metri dai cancelli, si è arrestato. Dalla camionetta è
sceso un capitano dei carabinieri che è stato subito raggiunto dal titolare dell’azienda. Quest’ultimo
si è avvicinato a me e, indicandomi con l’indice, ha fatto notare al capitano che io ero un estraneo,
non ero cioè un suo dipendente, invitandolo a far intervenire i suoi gendarmi per farmi sgombrare
con la forza dalla sua proprietà. A una tale richiesta, l’ufficiale mi si è avvicinato e mi ha invitato a
lasciar entrare in fabbrica il proprietario e tutti quelli che lo seguivano, cioè una trentina di crumiri
stipati su camion e camionette.
Al capitano ho spiegato brevemente le ragioni del picchettaggio e gli ho ricordato gli articoli della
Costituzione riguardanti i diritti dei lavoratori, in specifico il diritto di sciopero e quello di
rappresentanza sindacale, e ho insistito sul diritto di chi lavora di non morire per incuria degli
imprenditori. L’ho invitato quindi a far rispettare quella legge suprema che il titolare dell’azienda
non aveva mai inteso riconoscere, provocando così la morte dei due operai. E con tono fermo gli ho
detto testualmente e ad alta voce, in modo che sentissero tutti: “Se il proprietario della Fomm vuole
a tutti i costi entrare nella sua azienda, sappia che deve passare sui nostri corpi”.
Di fronte a quell’argomentazione e a quella determinazione, il capitano è ritornato sui suoi passi e si
è appartato con il titolare dell’azienda dando vita a un agitato conciliabolo. Dopo circa un quarto
d’ora di grande tensione emotiva soprattutto da parte dei lavoratori, il graduato dei carabinieri si è
riavvicinato a me comunicandomi che il titolare si era dichiarato disposto a ricevere due suoi
dipendenti per discutere le richieste avanzate. A quel punto il picchetto si è sciolto e il padrone è
entrato in fabbrica insieme ai due delegati degli scioperanti, uno dei quali era lo stesso Capodaglio.
In un clima non più teso, ma di manifesta soddisfazione per il risultato conseguito, mi si sono
affiancati due giovani operai i quali, con tono ancora preoccupato, mi hanno chiesto se veramente
non ci saremmo scansati nell’eventualità che il corteo dei crumiri avesse forzato il blocco con gli
automezzi. La mia determinazione aveva colpito la loro immaginazione e li aveva messi in
agitazione.
Due ore dopo i due rappresentanti dei lavoratori uscivano dai cancelli comunicando che la direzione
dell’azienda aveva acconsentito all’elezione della commissione interna. A quella notizia i lavoratori
entravano esultanti in fabbrica mentre sia i crumiri che i carabinieri abbandonavano il teatro dello
scontro.
Il giorno stesso gli scioperanti hanno ripreso regolarmente il lavoro, mentre all’indomani alla Fomm
sono giunti i dirigenti del sindacato per mettere nero su bianco e formalizzare l’accordo che sanciva
lo svolgimento delle elezioni della commissione interna.
5. La vita grama dei funzionari comunisti negli anni ’60
Quando ho iniziato l’attività politica a tempo pieno nel Pci, il mio rapporto di lavoro era
compensato da uno stipendio modesto parificato a quello di un operaio. Un tale trattamento, del
resto, mi è stato riservato per l’intero periodo della mia attività politica a tempo pieno. A quel
tempo, però, l’inserimento negli organici del Pci non prevedeva alcuna assicurazione previdenziale:
noi funzionari potevamo contare solo sull’assistenza sanitaria. Tale era la condizione di tutti i
compagni dell’apparato federale di Bergamo e di tante altre federazioni d’Italia. Le organizzazioni
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periferiche in grado di versare i contributi all’Inps erano poche. Le entrate nelle casse della
federazione di Bergamo erano risicate a tal punto da richiedere ai suoi funzionari un sacrificio
economico e assistenziale. La condizione di privilegio era riservata solo agli eletti in Parlamento ai
quali, però, veniva richiesto dal centro del partito un ingente contributo di solidarietà.
In condizione identica mi sono ritrovato quando, radiato dal Pci, ho accettato di fare il funzionario
del “manifesto-Pdup”. Anzi, con quel passaggio di appartenenza ho dovuto sopportare addirittura
una riduzione di stipendio.
Solo dopo una decina d’anni da quando ha avuto inizio la mia carriera di funzionario politico, in
seguito a un provvedimento legislativo approvato da tutti i partiti, ho potuto recuperare la copertura
previdenziale. A sopportare il carico finanziario di questa operazione è stato il partito stesso.
Ovviamente, il recupero è avvenuto ai livelli contributivi più convenienti, quelli cioè meno onerosi,
e di conseguenza gli importi degli assegni pensionistici di cui avremmo beneficiato in vecchiaia ne
hanno risentito in termini di quantità.
E’ questo un aspetto della condizione di chi nel passato faceva politica a tempo pieno che oggi non
viene ricordato come meriterebbe. Esso sta a dimostrare che non sempre la professione politica è
stata motivo di privilegi, e che c’è stato un tempo in cui era fondata sulla dedizione alla causa e
comportava rinunce e sacrifici. E chiarisce pure come non sia affatto vero che l’essere un politico
abbia sempre significato essere un intrigante e una persona dedita soprattutto al conseguimento di
benefici personali. Nel passato della sinistra ci sono stati compagni che per “servire” il partito e la
causa del movimento operaio, hanno sacrificato la loro stessa vita e altri che hanno rinunciato a
brillanti prospettive di carriera non solo in politica, ma anche nella società civile.
Analoga condizione lavorativa a quella dei funzionari politici era riservata alla generalità dei
funzionari sindacali della Cgil. Negli anni ’60, molti di questi compagni non avevano assicurato
ogni mese lo stipendio. A volte si trovavano in difficoltà persino a spostarsi sul territorio, perché
non c’erano i soldi per la benzina; alcuni, per il pranzo o per la cena, a volte venivano ospitati a casa
di compagni, giacché non potevano permettersi di andare in trattoria.
La condizione sia dei funzionari politici di sinistra che di quelli sindacali, ha incominciato a
migliorare solo negli anni ’70, a seguito dell’espansione delle lotte operaie e del sopravvenire per le
classi lavoratrici di uno standard di vita più dignitoso e soddisfacente.
Va pure ricordato che a quel tempo, ancor più di oggi, l’attività del funzionario politico era intensa,
richiedeva cioè tempo e impegno senza limiti. Di giorno si lavorava in sede di partito, la sera si era
impegnati nelle riunioni sul territorio. Non esisteva la pausa del fine settimana, anzi, il sabato e la
domenica erano i giorni migliori per organizzare le riunioni e le manifestazioni pubbliche. Mentre il
partito rivendicava per il movimento dei lavoratori la riduzione dell’orario di lavoro, e più tempo
libero, i suoi funzionari erano costretti a fare gli stachanovisti. Chi aveva moglie e figli, doveva
sacrificare il rapporto con loro per assolvere agli impegni politici.
A quel tempo, ero da poco diventato padre di Nadia e l’impossibilità di garantirle una presenza
costante persino nei giorni festivi è stata per me motivo di sofferenza.
Cosa indiscussa è che, a quell’epoca, per i comunisti la vita era più grama di quella di ogni altro
militante politico. Ostilità e discriminazioni erano per essi all’ordine del giorno. In particolare,
verso i “rivoluzionari di professione” l’opinione pubblica assumeva atteggiamenti circospetti
quando non addirittura di disprezzo, considerandoli persone dalle quali guardarsi bene perché
maestre nell’arte del plagio, perciò pericolose.
Per tutta una fase storica è stato senso comune considerare i comunisti degli esseri non solo
dissacranti, ma anche violenti.
Alcuni mesi dopo che mi ero iscritto al Pci, nel ’62, essendo indisposta, mia madre mi ha chiesto di
partecipare in sua vece a una manifestazione rievocativa che si svolgeva presso la Caserma dei
“Lupi di Toscana” (corpo militare cui apparteneva mio padre) di Scandicci, in provincia di Firenze.
Era la prima volta (ed è stata anche l’ultima) che portavo al petto la medaglia d’oro conferita al mio
genitore. Dopo la parata militare, sono stato invitato a cena dagli organizzatori alla mensa ufficiali,
al tavolo delle massime autorità. Alla mia destra era seduto un generale di corpo d’armata, alla mia
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sinistra un generale di divisione. Alla manifestazione era stato invitato anche l’allora sindaco di
Firenze, Giorgio La Pira, il quale però non si era presentato. Un argomento della conversazione
intessuto dai due alti graduati è stato proprio quello della defezione del sindaco. I due ufficiali
hanno preso a pretesto la sua assenza dall’evento per denigrarne la personalità. E spezzandomi un
pane sotto gli occhi, uno di loro mi ha argomentato che il sindaco era un personaggio che
pretendeva di aiutare i poveri a spese di chi aveva sudato un’intera vita per mettere assieme il
patrimonio. Considerava La Pira un cattolico che non disdegnava l’alleanza con i comunisti verso i
quali invece, a suo dire, occorreva avere un intransigente atteggiamento di avversione.
A fronte di quei commenti, sono stato più volte tentato di estrarre dalla tasca la tessera del partito
per mostrarla a quei due guerrafondai, ma pensando a mia madre e al dispiacere che quel mio gesto
le avrebbe procurato, mi sono trattenuto dal farlo.
Quella mia presenza a Scandicci ha ad ogni modo costituito una significativa testimonianza di
quanto l’anticomunismo fosse radicato nel senso comune e, in particolare, negli ambienti del potere
borghese; e insieme è stata una dimostrazione degli ostacoli e delle ostilità con cui avrei dovuto fare
i conti nel futuro. Quando la sera ho abbandonato la caserma, ho avuto modo di udire l’intonazione
dell’inno fascista “Faccetta nera” da parte di un gruppo di militari graduati probabilmente alticci.
Veniva così rafforzata la mia decisione di non mettere più piede in tali ambienti.
Tra i cattolici bacchettoni, a quel tempo, era anche diffusa l’abitudine di indicare alle nuove
generazioni i comunisti come “mangiatori di bambini”. Una gretta illazione, questa, che è
sopravvissuta nel tempo, nonostante il superamento della “guerra fredda” e l’implosione del
socialismo reale. Tanto è vero che a rinverdirla al grande pubblico, di recente, è stato quel padrone
della Fininvest e del Milan che, dimostrando grande coerenza, non disdegna accompagnarsi con
l’ex caporione del Kgb Wladimir Putin.
Nei confronti degli iscritti al Pci si sono del resto consumate le più ripugnanti angherie: dalle
difficoltà create loro nel rimediare e mantenere un’occupazione di lavoro, essendo loro accusati di
avere l’attitudine alla lotta di classe, alla discriminazione nel riconoscimento di servizi e prestazioni
sociali; dalla scomunica papale alle difficoltà insorgenti nelle relazioni pubbliche e interpersonali.
Una delle discriminazioni più pesanti era ovviamente quella esercitata nei loro confronti dal potere
costituito. Ho ancora in mente, a distanza ormai di quasi mezzo secolo, lo stato di preoccupazione, a
volte persino d’angoscia, in cui sono precipitato allorquando sono state scoperte le trame del Sifar e
le conseguenti minacce per noi comunisti. In quella circostanza, anche a Bergamo siamo stati
costretti per alcuni giorni a prendere misure di vigilanza e di garanzia come se vivessimo in
clandestinità. Avevamo appreso che in Sardegna erano stati allestiti campi di concentramento in cui
sarebbe stata rinchiusa buona parte del gruppo dirigente e intermedio del Partito comunista e ciò
aveva rappresentato per noi tutti motivo di allarme. Per qualche tempo siamo stati invitati dalla
direzione del partito ad abbandonare le nostre abitazioni; in federazione avevamo stabilito una
presenza alternata e mentre avevano rimediato dimore clandestine e messo in atto un sistema
segreto di contatti, al telefono comunicavamo tra di noi con un linguaggio cifrato. Un giorno che
ero di turno in federazione, il compagno Aldo Tortorella, allora segretario regionale, mi ha
telefonato per rassicurarmi sugli sviluppi della situazione. In modo laconico mi ha trasmesso un
dispaccio di questo tenore: “La luna splende in cielo e le nubi sono rarefatte”. Si trattava di un
messaggio cifrato che avevamo concordato in precedenza e che voleva significare l’esistenza di un
clima politico-sociale non allarmante.
Ho riferito il comunicato al mio compagno di collegamento il quale, a sua volta, aveva il compito di
trasmetterlo a un altro compagno la cui dimora era conosciuta solo da lui, fino ad avvisare
attraverso quel sistema l’intero collettivo.
Uscendo, uno di quei giorni, a tarda notte dalla sede della federazione di via D’Alzano, mi è
capitato di incrociare in strada, accanto all’entrata dell’edificio, due militari armati di mitra e con
giubbotti antiproiettile i quali avevano evidentemente l’ordine di vigilare sui nostri movimenti. Mi
sono ritrovato almeno due o tre volte in situazioni del genere, sempre in periodi in cui la democrazia
nel nostro Paese era minacciata da tentativi di colpo di Stato per mano delle forze eversive di destra
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e dalle repressioni poliziesche ordinate dal governo contro i “sovversivi” di sinistra. Una di quelle
esperienze la feci poco dopo che il gruppo del “manifesto” si era costituito in movimento politico.
In tale occasione ho scoperto di essere pedinato da un carabiniere.
Erano proprio le ricorrenti minacce di questo tipo che alimentavano in alcuni vecchi compagni, che
ai tempi del fascismo avevano militato nelle formazioni partigiane, quel senso di intolleranza e di
rivolta che li induceva a tenere nascoste armi e a essere pronti a riprendere la lotta violenta. Erano
situazioni in cui la volontà di rivolta si sposava con la necessità di difendersi da simili soprusi.
Almeno in tre circostanze mi è capitato di avere testimonianza diretta dell’esistenza tra i compagni
di comportamenti contrari non solo alle leggi, ma anche agli indirizzi del partito. La prima volta mi
è successo in un paese della bassa pianura bergamasca. Era una domenica pomeriggio e durante una
riunione, un vecchio militante mi ha espresso il desiderio di potermi parlare in privato. Due ore
dopo ha voluto che lo accompagnassi alla sua automobile; aperto il portabagagli ha sollevato una
coperta sotto la quale era nascosto un vecchio fucile mitragliatore. Mi ha spiegato che lo conservava
dai tempi della Resistenza e, sentendosi ormai prossimo alla fine della sua vita, mi pregava di
prenderlo con me, magari per consegnarlo alle autorità.
In un’altra circostanza ho scoperto fortuitamente l’esistenza di un piccolo deposito di candelotti di
dinamite, situato in un armadietto di un garage di una casa popolare, e nascosto nelle pieghe di uno
striscione elettorale. Era la dependance dell’abitazione di un compagno della Valle San Martino. Di
fronte al mio atteggiamento di smarrimento nello scoprire quel pericoloso arsenale, quel compagno
mi ha confidato di aver sottratto quei candelotti a dei minatori della zona e di averli conservati
nell’eventualità ci fossimo trovati di fronte a soluzioni politiche autoritarie.
La terza testimonianza l’ho avuta una sera, sempre verso la fine degli anni ’60, in Val Brembana.
Dopo una riunione di partito, un compagno ha voluto che lo seguissi in un anfratto dove era
nascosto un vero e proprio arsenale di armi (fucili, fucili mitragliatori, pistole, nonché diverse
bombe a mano) che – a suo dire – lui stesso teneva ben lubrificate per essere pronte alla bisogna.
Eravamo nel pieno della “guerra fredda” e il convincimento che un giorno avrebbe potuto scattare
la famosa “ora x” era ancora vivo in alcune frange del partito.
Il clima di tensione che in quegli anni si registrava negli ambienti politici e la conseguente
demonizzazione di chi era comunista, mentre ha indotto alcuni compagni a prepararsi per sostenere
uno scontro fisico, nell’opinione pubblica ha prodotto addirittura dei mostri. Uno di questi soggetti
colmi di odio all’inverosimile verso i “rossi”, ho avuto modo di conoscerlo da vicino.
Era un mattino tranquillo come tanti altri e nella sede della federazione bergamasca del Pci eravamo
intenti al nostro lavoro. A un tratto, un signore distinto è apparso nell’atrio e alla segretaria ha
chiesto di poter parlare con Eliseo Milani. Era prassi ricorrente che non solo i compagni, ma anche
le persone sconosciute chiedessero, senza alcuna formalità, di poter avere un colloquio con il
segretario della federazione. L’ufficio di Eliseo era adiacente al mio e solo una parete separava le
nostre spalle. Dopo pochi minuti che quel distinto signore aveva preso posto nell’ufficio del
segretario, ho avvertito uno strano rumore, simile a quello di una pistola a salve, un botto attutito,
quasi soffocato, e subito dopo ho udito Eliseo invocare a gran voce la presenza dei compagni. Mi
sono precipitato nel suo ufficio e ho notato che quell’individuo aveva il braccio teso verso Milani e
in mano una rivoltella. Senza alcuna esitazione mi sono scaraventato su di lui e l’ho travolto sul
pavimento sferrandogli dei pungi in faccia. Dietro di me sono accorsi gli altri compagni e con la
forza lo abbiamo immobilizzato. Eliseo era illeso, ma visibilmente frastornato. Fortunatamente, la
pistola non aveva funzionato a dovere e il colpo sparato aveva sfiorato il gomito del suo braccio
destro andando a sbattere sulla parete e procurando quello strano rumore che avevo avvertito.
Sono stati chiamati immediatamente i poliziotti della Digos i quali hanno arrestato lo sciagurato.
Qualche tempo dopo è stato celebrato il processo e poiché Milani ha generosamente perdonato il
suo attentatore, questi ha scontato in tempi brevi la pena che gli è stata inflitta ed è tornato assai
presto in libertà.
Francamente, non sono mai riuscito a stabilire se quell’atto delittuoso fosse da interpretarsi come il
prodotto di una improvvisa follia di un benpensante ossessionato dal comunismo, oppure se fosse
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da ritenersi il risultato finale di un disegno criminale ordito da qualcuno dei tanti avversari dei
“rossi” che, vigliaccamente, ha scelto di armare la mano di uno spostato.
6. Le soddisfazioni del politico di sinistra
I numerosi disagi che derivavano dall’essere un “rivoluzionario di professione” erano ampiamente
compensati dalle soddisfazioni che quel tipo di militanza politica procurava.
Nonostante i non pochi momenti di travaglio e le ricorrenti delusioni, i trent’anni che ho dedicato
alla militanza a tempo pieno nelle formazioni della sinistra mi hanno arricchito di esperienza, di
emozioni e di soddisfazioni che nessun altra professione avrebbe potuto procurarmi. Con la scelta di
mettermi al servizio della causa del movimento operaio ho realizzato le mie aspirazioni, mi sono
sentito un uomo libero nel pensiero e nell’azione, consapevole delle mie capacità e dei miei limiti.
Proteso a difendere gli interessi dei più deboli, quale scelta di valori e di vita, sono stato
costantemente stimolato intellettualmente e socialmente. Mi sono sentito utile ai miei simili e un
tale ruolo mi ha appagato e gratificato. La gioia che spesse volte ho provato nel riscontrare felicità e
gratitudine sul volto delle persone che si sono rivolte a me per essere aiutate a risolvere situazioni e
problemi che affliggevano la loro esistenza, è stata impagabile.
Darsi ragione delle miserie e delle prepotenze che esistono a questo mondo e scegliere di stare dalla
parte di chi è costretto a subire, per far crescere le condizioni del loro riscatto; aiutare i propri simili
a comprendere il loro stato di subordinazione e stimolare il loro interesse a conoscere le cause e ad
agire di conseguenza; vincere delle battaglie in difesa dei diritti delle persone, anche se di poco
conto rispetto alle problematiche esistenziali, tutto questo ha significato dare senso alla mia
esistenza e ha procurato in me felicità e voglia di vivere e di fare.
Non c’è nessuna ricchezza al mondo che possa compensare il piacere di avere speso la propria vita
per migliorare la condizione umana. Ho sempre invidiato i medici senza frontiere e i volontari
pronti ad affrontare disagi e imprevisti in paesi sconosciuti pur di aiutare i dannati della Terra a
migliorare la loro condizione e ad alzare la testa. La mia scelta, indubbiamente più comoda e meno
rischiosa, è stata quella di restare nel mio ambiente natio e cercare di modificare da qui il mondo.
Per quel poco che mi è stato possibile fare, mi sento fiero di aver fatto una simile scelta.
Verso la fine degli anni ’60, ero ancora in fase di formazione politico-culturale e ogni contatto che
avevo con compagni e situazioni nuove, significava per me un arricchimento.
Mi stimolavano i convegni e le conferenze giacché rappresentavano occasioni di apprendimento. La
scuola delle Frattocchie mi aveva stimolato ad approfondire i classici del socialismo e, ansioso di
“sapere”, all’attività politica pratica accompagnavo la lettura di Marx, di Engels, di Lenin, di
Luxemburg, di Trotzkij, di Gramsci, di Togliatti e di altri teorici.
Mi sono anche iscritto alla facoltà di sociologia dell’Università di Trento che però frequentavo
saltuariamente a causa dell’intensità dell’impegno politico. A quel tempo i mezzi di comunicazione
non erano perfezionati e diffusi come lo sono oggi. Per prenotare gli esami dovevo recarmi ogni
volta di persona presso l’ufficio competente e in più di una circostanza mi è capitato di fare dei
viaggi a vuoto a causa delle agitazioni studentesche e del conseguente blocco delle attività
didattiche. Una volta mi sono trovato coinvolto in un’assemblea alla cui presidenza vi era Renato
Curcio e l’assistere a un tale spettacolo mi ha scoraggiato a ripetere un’altra simile esperienza.
Apprezzavo quell’ateneo perché avevo assistito ad alcune lezioni che mi avevano reso cosciente che
la cultura non può essere considerata una merce, ma per il resto la sua frequentazione era più
motivo di disagio che di soddisfazione. L’ateneo era una creatura del democristiano Flaminio
Piccoli ed era diretta da Francesco Alberoni, due personaggi che non mi riusciva di apprezzare. Mi
ero iscritto a Trento per ragioni di opportunità logistica dal momento che quella facoltà di
sociologia risultava essere per me la più facile da raggiungere.
A suscitarmi maggiore interesse e curiosità, in quel periodo, era il contatto e la conoscenza dei
dirigenti del partito. In loro, infatti, vedevo gli artefici del riscatto del movimento operaio. Il ruolo
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di funzionario, peraltro, mi offriva l’occasione di avere con alcuni di loro dei contatti, a volte
persino delle conversazioni, e questo mi lusingava e inorgogliva.
Una delle prime esperienze del genere l’ho vissuta nel ’66, quando improvvisamente morì Mario
Alicata, illustre membro della direzione del partito. Eliseo Milani ha voluto che lo accompagnassi a
Roma alle onoranze funebri e in quell’occasione mi ha presentato a Pietro Ingrao, già allora
autorevole esponente della corrente di sinistra del partito. Ricordo di aver camminato al suo fianco
per un lungo tratto di corteo e lo stargli al fianco è stato per me un’esperienza straordinaria. Quando
sono ritornato a Bergamo ho sparso la notizia in ogni dove.
In quegli anni, ho rivisto Ingrao da vicino ancora due volte: quando è venuto a Bergamo a tenere un
convegno e poi a una Conferenza nazionale dei lavoratori comunisti.
Un altro incontro che mi è rimasto scolpito per sempre nella mente, è quello con Rossana Rossanda.
A quel tempo lei si occupava di cultura, in quella circostanza era però incaricata di concludere un
convegno organizzato a Milano sulla condizione femminile. Ricordo di aver partecipato a
quell’iniziativa con alcune compagne di Bergamo, tra cui Ninì Baroni, colei che attraverso una
donazione ha contribuito in modo determinante a dotare la federazione della sede di via D’Alzano.
Era una compagna ormai avanti negli anni, affabilissima, generosissima e di grande fascino. Di lei
riservo momenti indimenticabili.
In una pausa dei lavori della conferenza di Milano sono stato presentato a Rossanda e, poiché al suo
fianco vi era Franca Rame, ho avuto modo di stringere la mano anche alla nota attrice compagna di
Dario Fo. Superfluo commentare il grande piacere che quell’incontro e quelle conoscenze mi hanno
procurato.
Già a partire dal ’67 la federazione di Bergamo si era schierata su posizioni critiche verso la
direzione del partito e per questo erano frequenti le richieste da parte della direzione romana e
anche di quella regionale di convocare comitati federali ai quali partecipavano compagni autorevoli.
Aldo Tortorella e Armando Cossutta erano divenuti di casa. Loro compito era quello di persuaderci
della giustezza della linea politica decisa dai congressi e resa esecutiva dalla maggioranza del
comitato centrale. La riluttanza verso la presenza in particolare di Cossutta, almeno da parte di
alcuni compagni del federale, era tale che, intervenendo, alcune volte essi si riferivano a lui in
termini dispregiativi definendolo un “monsignore”.
Fredda accoglienza e atteggiamenti polemici erano del resto riservati alla generalità dei compagni
della direzione nazionale che non erano su posizioni di sinistra.
Un giorno la direzione romana del partito ci ha annunciato che al federale sarebbe stato presente
Paolo Bufalini. E ci ha fatto sapere che egli avrebbe desiderato trattenersi due giorni, poiché era suo
desiderio visitare Città alta. Milani ha affidato a me il compito di accompagnarlo in questa visita
turistica e di pranzare con lui. Per le spese che avrei dovuto sostenere, però, mi ha dato solo poche
migliaia di lire, raccomandandomi di scegliere una trattoria e non un ristorante: poiché la direzione,
oltre che critica, si dimostrava anche tirchia nei nostri confronti – così giustificò quella sua
decisione – non potevamo fare altro che comportarci di conseguenza. Del resto, non pochi erano i
compagni di Bergamo che nutrivano risentimenti verso i dirigenti nazionali del partito.
Accompagnai Bufalini in Città alta e per tre ore gli mostrai quanto era di suo interesse. Fui a tal
punto sorpreso dalla sua curiosità e dal suo bagaglio culturale, da sentirmi profondamente
mortificato: era la prima volta che egli visitava Bergamo eppure del suo patrimonio storico-artistico
aveva una conoscenza decisamente superiore alla mia.
All’ora di pranzo ci accomodammo in una modesta trattoria frequentata da gente comune. Mi
aspettavo che manifestasse un qualche disagio, una qualche perplessità, invece egli si è mantenuto
tranquillo e sereno. Seduto a un tavolo che era occupato anche da altri avventori, ho avuto con lui
una lunga e piacevole conversazione. Saputo che avevo perso il padre in Albania, mi raccontò della
sua drammatica partecipazione alla campagna di Grecia e poi mi spiegò le ragioni che lo spinsero a
diventare comunista. La sua umanità e la sua affabilità mi hanno conquistato; il fatto che fosse
politicamente un “destro” venne a un tratto oscurandosi nella mia mente e verso di lui provai un
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sentimento di rispetto e di affetto. Mi stavo rendendo conto che il giudicare le persone con il metro
delle opinioni altrui, non è cosa saggia e che anzi spesso costituisce un grossolano errore.
Anche al comitato federale egli ha avuto un comportamento tollerante e per nulla repressivo, come
invece avevano avuto altri membri della direzione, e questo accrebbe in me la stima nei suoi
confronti.
Un’altra presenza che mi è rimasta impressa nella memoria è quella di Umberto Terracini. Quale
parlamentare costituente, egli venne invitato a Bergamo per tenere una conferenza sulla Carta
costituzionale e io fui colpito dalla sua straordinaria oratoria. Gli ero seduto accanto, sul palco, e per
oltre due ore sono stato letteralmente affascinato dal suo modo di esporre argomenti difficili e
complessi in maniera semplice e accessibile a tutti. Seppure già avanti negli anni, egli mostrava una
vitalità incredibile e una passione politica da suscitare meraviglia.
In quegli anni, la sede della federazione di Bergamo ha ospitato anche personaggi non iscritti al
partito, alcuni dei quali ho poi avuto modo di rincontrare negli anni successivi. Tra questi, Marco
Pannella il quale, al regionale lombardo del partito, aveva chiesto di poter fare tappa a Bergamo nel
corso della sua marcia antimilitarista Milano-Vicenza e soggiornare una notte in federazione. Il
primo impatto che ho avuto con lui non è stato per nulla positivo, mi è apparso da subito un istrione
e nel corso degli anni che seguirono non ho mai avuto motivo di cambiare opinione. Del resto, il
Partito radicale, quale figlio del libertarismo ottocentesco, seppure abbia il merito di aver
storicamente denunciato piaghe sociali come la mendicità, l’abbandono dell’infanzia, la
prostituzione, l’alcolismo e, in epoca moderna, di aver condotto una lotta costante per i diritti civili,
non mi ha mai affascinato. Il suo disimpegno, anzi il suo rifiuto, sul fronte della lotta alle cause
strutturali di questi mali sociali, cioè alle responsabilità del sistema capitalistico, in termini di
analisi e di strategie di lotta, non mi è mai riuscito di giustificarlo, perciò con Pannella ho sempre
avuto poco da spartire. Anzi, nei primi anni ’70, in occasione della costituzione del gruppo del
“manifesto” in movimento politico ho avuto modo di fargli sapere pubblicamente che se lui – come
aveva auspicato – avesse aderito alla nuova formazione politica, me ne sarei andato io.
Ho conosciuto anche Mario Capanna il quale, approfittando dell’ospitalità della federazione del
partito, nella sala del Circolo “Gramsci”, ha avuto modo di arringare una numerosa platea di
studenti bergamaschi che avevano partecipato a una manifestazione pubblica. Anche di lui mi sono
fatto un’opinione non del tutto positiva la quale nel tempo si è confermata fondata.
Il mio processo di maturazione politica e culturale non era ovviamente alimentato solo dai contatti
con le élite del partito e della politica. La conoscenza di personaggi famosi, il poter stare vicino a
loro anche per qualche istante, era indubbiamente motivo di apprendimento e di emozione, ma a
contribuire in misura determinante alla mia formazione sono stati i contatti con la realtà sociale e il
lavoro politico che ne è conseguito.
Oltre ai rapporti che avevo intessuto con i quadri del partito, con le realtà di fabbrica e con i gruppi
giovanili che stavano emergendo sull’onda delle lotte nelle scuole e nei quartieri, mi ero dato da
fare per tentare di rendere praticabile, proprio in una “zona bianca” qual era la realtà bergamasca,
quel dialogo con il mondo cattolico che Togliatti aveva invocato.
E anche su questo fronte avevo conseguito alcuni risultati che, seppur minimi, erano la
testimonianza che si stava aprendo anche su questo fronte una feconda prospettiva.
In alcuni paesi avevo preso contatto con nuclei di giovani che frequentavano gli oratori e in altri mi
era riuscito di dialogare anche con dei sacerdoti.
Ad Almeno San Bartolomeo, per il tramite di un compagno, mi sono fatto amico il curato
dell’oratorio maschile e con lui, oltre a programmare un itinerario di pubblici confronti su temi
d’attualità, che però a causa del veto del parroco non ebbero mai realizzazione, avevo intessuto un
dialogo sul senso dell’esistenza umana. Egli era diventato sacerdote da pochi anni e si mostrava
ansioso di comprendere le ragioni della mia scelta politica. L’intervento repressivo dei suoi
superiori non è riuscito comunque a impedire che di tanto in tanto ci incontrassimo con un
gruppetto di giovani in parte cattolici e in parte comunisti.
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Un mattino, nel corso di una campagna elettorale, dopo che avevo tenuto un comizio alle 7.30 del
mattino fuori dalla chiesa (all’uscita dalla messa dei cacciatori), egli mi prese sottobraccio e mi
accompagnò al bar a prendere un caffé suscitando meraviglia e sconcerto tra i suoi parrocchiani.
Qualche tempo dopo, un giorno egli si è recato a casa mia nell’intento di incontrarmi e a mia madre
ha lasciato detto che aveva urgenza di parlarmi. All’indomani, quando l’ho raggiunto nella sua
abitazione, l’ho trovato in uno stato di prostrazione, al punto di rimanere scosso io stesso. Mi ha
confessato di essersi innamorato di una ragazza del paese e che l’aveva messa incinta. Poiché i
genitori di questa ragazza avevano denunciato l’accaduto alle autorità ecclesiastiche, egli era stato
chiamato nella sede vescovile e invitato a sottoscrivere un patto secondo cui sarebbe stato trasferito
in una località lontana da Bergamo, la ragazza, invece, con l’accordo dei genitori, richiusa in un
istituto religioso fino al momento del parto, mentre il nascituro sarebbe stato affidato a un
brefotrofio. Con la ragazza egli avrebbe potuto avere ancora un rapporto, a condizione che ciò
avvenisse nella massima discrezione; gli veniva invece negata nel modo più categorico la vicinanza
e addirittura la conoscenza del nascituro.
Disperato, mi chiedeva un consiglio che in coscienza io non mi sono sentito di dare. Mi sono
limitato a invitarlo a riflettere su ciò cui teneva di più: se il matrimonio con la Chiesa o l’amore per
la ragazza e per la creatura che questa aveva in grembo, e a decidere di conseguenza.
Qualche giorno più tardi i compagni mi hanno riferito che il curato era sparito da Almenno insieme
alla ragazza senza lasciare traccia. Dopo circa un anno ho saputo che era emigrato in Germania
dove aveva trovato un lavoro e si era formato la famiglia. Trascorsi una diecina di anni, da un
compagno di Roma ho appreso che era rientrato in Italia e che si era aggregato al movimento dei
preti operai. Ho cercato più volte di rintracciarlo, ma non ci sono riuscito. Verso la fine degli anni
’80, un prete operaio mi ha informato che era deceduto. Era più giovane di me. Spesso mi sono
chiesto quale fosse stato il male che poteva averlo stroncato e chi mai potesse avere sulla coscienza
la sua morte prematura.
Tempo dopo, ho vissuto un’altra esperienza singolare di contatto e di dialogo con un sacerdote
cattolico. A Bracca, paesino della Val Serina con poche centinaia di abitanti, risiedeva un gruppetto
di compagni iscritti al partito i quali erano operai edili occupati nei cantieri del milanese e
rientravano alle loro case solo a fine settimana. L’unico momento disponibile per le riunioni di
partito era la domenica pomeriggio. Ci si riuniva in una trattoria dal cui gestore ci veniva messa a
disposizione una piccola stanza appartata. La prima volta che ho partecipato all’incontro con loro
mi è capitato un fatto strano. Erano presenti in sei o sette compagni e il tema in discussione erano le
tesi congressuali. Avevo da poco iniziato la mia esposizione, quando ho visto entrare nella stanza
un prete anziano il quale dopo aver salutato, si è scusato del ritardo e si è seduto accanto ai
compagni. Io ho avuto un attimo di smarrimento, non riuscivo a darmi ragione di quella presenza, e
interrompendo il discorso, chiesi spiegazioni. Mi venne spiegato che il prete era il parroco del paese
e che era da loro atteso. Era arrivato in ritardo perché aveva appena finito di celebrare le funzioni
pomeridiane in chiesa. E hanno aggiunto che loro si riunivano spesso con lui e che avevano preso
accordi perché fosse parte attiva nel dibattito congressuale, giacché lui era interessato a conoscere la
politica del partito. Quella notizia mi ha frastornato, ovviamente in senso positivo, e mi ha motivato
a continuare la mia esposizione con maggior impegno.
Durante la discussione il parroco ha preso la parola più volte e, a dire il vero, tra le sue
argomentazioni e quelle dei compagni non vi erano grandi differenze.
A Bracca ci sono ritornato più volte e puntualmente ho sempre trovato presente alle riunioni il
parroco. Un giorno mi ha spiegato le ragioni per cui i suoi superiori lo avevano relegato in quel
luogo di montagna. Era considerato scarsamente affidabile dalle gerarchie ed era sospetto
addirittura di eresia. In occasione di una riunione terminata prima del previsto, ha voluto che mi
recassi nella canonica dove era custodito l’archivio parrocchiale per mostrarmi un documento che
attestava la pratica nelle valli bergamasche, nei secoli passati, dello jus primae noctis. Col tempo lo
persi di vista, ma il suo ricordo mi è sempre stato caro.
La ricerca di un contatto con il mondo cattolico era una costante nell’azione del partito.
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Uno dei momenti più significativi di questo sforzo è rappresentato dalla mobilitazione che è stata
promossa a livello provinciale contro il massacro americano del popolo vietnamita. Un contributo
determinante a questa iniziativa è stato dato dalle organizzazioni del dissenso cattolico e, tramite il
Circolo Gramsci e l’impegno particolare di Eliseo Milani, Carlo Leidi e Silvana Briolini, è stato
possibile coinvolgere anche esponenti delle Chiese protestanti.
7. Gli anni della contestazione studentesca e operaia
Il biennio ’68-’69 ha rappresentato per me un periodo di intenso attivismo e di nuove conoscenze, il
che mi ha consentito di allargare gli orizzonti culturali e arricchire la mia formazione politica.
Qualcuno ha sostenuto che quegli anni sarebbero da considerarsi un’“epoca di straordinaria
confusione mentale” e di “anarchia collettiva”. E ancora oggi c’è chi stupidamente scrive sulle
pagine dei giornali che il ’68 sarebbe l’origine dei nostri mali odierni. Giudizi del genere non
possono che essere espressione di commentatori dallo spirito ottuso, conservatore e interessati solo
alla difesa dello status quo. i quali agli occhi di chi predilige l’obiettività non possono che risultare
fazioni e perciò inattendibili.
Il movimento del ’68-’69, in realtà, ha messo in discussione gli assetti del sistema di potere
esistente, ha contestato i suoi valori, le sue norme e, oltre a fare la guerra al blocco dominante, ha
avversato tutte quelle forze politiche e sociali che anziché operare per un cambiamento di
progresso, si sono conformate e lasciate integrare nel vecchio ordine.
In sostanza, quel movimento ha demolito certezze e abitudini consolidate, ha messo a soqquadro le
vecchie culture ed è questa la vera ragione per cui ha suscitato avversione e paura e si è procurato
molti nemici e detrattori. E’ stato un fenomeno sociale inedito che ha profondamente segnato, in
positivo e in negativo, la generalità degli individui.
Uno degli aspetti che viene volentieri dimenticato dai suoi critici, è che gli autori principali di
quella rivolta non sono stati affatto i figli dei “rossi”, cioè dei contestatori di sempre, ma i rampolli
della stessa borghesia, tra cui molti frequentatori di oratori e di chiese, i quali si sono ribellati ai
valori e alle leggi dei loro padri e alle regole del sistema capitalistico. La contestazione è stata opera
anche dei figli dei ceti popolari, ai quali il processo di modernizzazione aveva aperto le porte delle
fabbriche e delle università, ma alla loro testa vi erano i rappresentanti della cosiddetta classe
media, i figli del benessere, vale a dire il prodotto genuino del capitalismo. E molta parte di loro si
sono comportati come Tony Negri e Massimo Cacciari: mentre agitavano il libretto rosso di Mao,
invocavano una rivoluzione ispirata al poverello d’Assisi.
Se si pensa che a quell’epoca la popolazione studentesca aveva avuto un incremento mai conosciuto
prima di allora e che fino alla seconda guerra mondiale gli studenti erano usi scendere in piazza per
inneggiare alla guerra, mentre nel ’68 hanno rivendicato con tutta forza la pace, si ha un’idea di
quale portata siano stati i processi di trasformazione sociale e i cambiamenti negli orientamenti
degli individui.
Va altresì rammentato che questo processo di ribellione di massa ha avuto una dimensione
internazionale, il che ha accresciuto di molto le preoccupazioni di coloro che lo hanno temuto e
avversato. Per fortuna di questi, il movimento si è presentato eterogeneo sin dall’inizio, i suoi
metodi di lotta e i suoi fini si sono rivelati diversificati da luogo a luogo e questa sua caratteristica
ha contribuito a impedire una sua possibile e auspicabile unificazione a livello internazionale.
A questo riguardo, ho ancora in mente un particolare che a quell’epoca mi ha suscitato stupore e
fatto molto riflettere. Un compagno che è vissuto a Parigi durante il “maggio francese”, mi ha
raccontato che uno degli striscioni che più frequentemente veniva esposto alla Sorbona raffigurava i
volti di Marx-Engels-Lenin-Stalin-Mao Tse Tung, sotto i quali, però, era apposta la scritta: “Non
esiste un salvatore supremo - né dio, né Castro, né Mao”. Dei tanti striscioni che mi è capitato di
vedere in Italia, non ne ho trovato uno solo che riportasse una scritta del genere e ciò, considerata
l’importanza di quella postilla, è significativo tra l’altro di quanto differenti siano state le
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ispirazioni, le forme e i contenuti delle lotte studentesche che si sono susseguite nella generalità dei
Paesi non solo occidentali.
Si è anche scritto che il movimento del ’68 è stato foriero di odio e di violenza. In verità, esso ha
prodotto un sano disprezzo delle ingiustizie sociali e dei ricchi. Se si ritiene che il detestare gli agi, i
lussi e gli sprechi, in un mondo in cui miliardi di persone muoiono per l’assenza di cibo e di
dignitose condizioni sociali significhi odiare, ebbene sì, questo risentimento era diventato
patrimonio della più parte delle nuove generazioni. Anche il Cristo dei cattolici ha deprecato il ricco
epulone e ha predicato fratellanza e solidarietà fra gli uomini: forse che anche a lui si deve attribuire
gli epiteti di sovversivo e di violento?
In realtà, i giovani del ’68, contrariamente ai detestabili luoghi comuni che sono circolati sul loro
conto, si sono battuti contro la violenza, quella delle bombe al napal sganciate dagli aerei americani
sulla popolazione inerme del Vietnam, e quella del capitale che senza alcun scrupolo sfrutta e rende
poveri gli uomini. E l’hanno fatto, mentre i benpensanti che li denigravano erano intenti a fare i
propri affari e a purificarsi dei loro peccati il sabato per poi riprendere le loro pratiche farisaiche la
domenica.
Se nelle piazze i sessantottini sono ricorsi alla violenza, lo hanno fatto non per loro determinazione,
ma perché costretti a difendersi dalle cariche dei poliziotti che i vari governi democristiani e di
centro-sinistra hanno scagliato contro di loro, in nome della salvaguardia di quell’ordine pubblico
che tollerava gli scandali e gli abusi di palazzo e copriva le stragi di Stato.
Il ’68 è stato un movimento più che politico, etico culturale. La maggioranza dei suoi protagonisti
non si è battuta per sedersi sulle scranne del potere, ma per cambiare la natura del sistema, per
riclassificare gli interessi che muovono le persone. La ricchezza è stata da loro intesa non nel senso
di possesso di beni o di denaro, ma come garanzia per tutti della libertà di vivere in modo dignitoso,
solidale e secondo i propri desideri.
Nella prima fase, il movimento degli studenti si è presentato privo di ideologia; con spirito
progressista si è battuto per il rinnovamento radicale dell’università e del sistema scolastico. Molti
studenti hanno assunto a riferimento le denunce contro il carattere selettivo della scuola di don
Lorenzo Milani e si sono battuti contro la didattica nozionistica, contro le modalità di fare gli esami,
contro l’autoritarismo del corpo accademico. Nelle scuole sono stati sperimentati lo studio di
gruppo, la lettura di testi alternativi, l’assemblea, l’autogestione.
Conseguentemente, gli studenti hanno contestato l’autoritarismo dello Stato, quello della famiglia,
della Chiesa, il modo in cui i partiti gestivano la politica, l’uso capitalistico della scienza, hanno
messo in discussione la stessa nozione di progresso sociale, nonché il senso corrente della storia.
Sono quindi usciti dalla scuola e hanno invaso le fabbriche, i quartieri, i manicomi, le carceri. Il
personale è diventato politico, la dialettica della liberazione sessuale è dilagata ovunque, sono state
sperimentate scelte di vita alternative esaltanti i bisogni e i desideri vitali di ogni individuo.
Coinvolgendo le giovani generazioni, gli studenti si sono liberati dei tabù e hanno preso di mira le
istituzioni repressive, il conformismo di massa, la civiltà consumistica. Hanno affermato il diritto ad
autopresentarsi facendo a meno dei tradizionali mediatori, cioè dello Stato, delle istituzioni, dei
partiti, dei sindacati. Hanno contestato la divisione dei ruoli tra dirigenti e diretti e l’assemblea è
stata da loro vissuta come il luogo in cui viene a formarsi la coscienza collettiva.
Il modo di essere dei sessantottini ha sconvolto il senso comune e molti degli stessi iscritti al Partito
comunista si sono mostrati sconcertati di fronte a tali comportamenti e rivendicazioni. In diverse
sezioni del partito sono stato costretto a sostenere estenuanti discussioni per convincere i compagni
ad abbandonare i pregiudizi nei confronti di alcuni giovani del luogo, appartenenti a famiglie
benestanti se non facoltose, i quali avevano formalmente proclamato la rottura con il loro ambiente
e, dichiarandosi rivoluzionari, consideravano gli aderenti al partito dei socialdemocratici.
A suscitare sospetti e dubbi negli iscritti al partito erano non solo le critiche che venivano loro
rivolte, ma la rapidità con cui questi giovani avevano compiuto la conversione dei loro orientamenti
di vita; e poi il fatto che comunque esitavano a rompere i rapporti con le loro famiglie e
continuavano a vivere nel benessere. Soprattutto, però, i comunisti in genere non approvavano e
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spesso detestavano gli slogan del movimento studentesco. In effetti, molte delle parole d’ordine
gridate nei cortei risultavano non convincenti, non solo perché ingenue e intrise di utopia, ma anche
perché erano considerate dai militanti del Pci offensive nei confronti delle tradizioni e delle
dirigenze del movimento dei lavoratori. “Tutto e subito”, “qui e ora”, “vietato vietare”, “lo Stato si
abbatte e non si cambia”, “borghesi, ancora pochi mesi”, erano difatti propositi che apparivano
infantili, spesso incomprensibili, sicuramente in contrasto con la tradizione politica e sindacale del
movimento operaio.
Come ho già scritto in un altro saggio, il movimento del ‘68-’69 non è stato previsto dalle dirigenze
del Partito comunista. Come è successo a diversi illustri uomini di cultura e di scienza, tra cui
Theodor Adorno, Max Horkheimer, Jurgen Habermas, Louis Althusser, anche per gli intellettuali
comunisti italiani la rivolta degli studenti ha costituito una sorpresa. Dopo essere risultato spiazzato
dall’entrata in scena degli studenti, il più grande e prestigioso partito comunista d’Occidente si è
diviso sui giudizi e si è trovato nella condizione di prendere atto del loro protagonismo incontrando
non poche difficoltà e manifestando disomogeneità di posizioni, reticenze e contraddizioni.
Mentre il segretario Luigi Longo ha tentato di tessere il dialogo con gli studenti, l’ala destra del
partito, con Giorgio Amendola in testa, ha da subito contestato i contestatori. Non solo questa
componente ha respinto le tesi marcusiane che pretendevano di sostituire allo storico ruolo della
classe operaia quello degli studenti e degli emarginati, ma soprattutto non ha tollerato la critica alla
politica del Pci seguita all’indomani della Resistenza e della Costituente, e pure il rifiuto da parte
del movimento di riconoscere il ruolo dirigente del partito e di far propri come modelli positivi
quelli del socialismo di Stato.
Se sull’ala destra pesava la pressione degli inquilini del Cremlino, i quali temevano la messa in
discussione, per opera dei movimenti emergenti in Occidente, della spartizione del mondo in sfere
d’influenza, sul resto del partito dominava sconcerto e impotenza politica. La componente di
sinistra, che era tradizionalmente più attenta alle esperienze movimentiste, ha dimostrato di essere
impacciata, giacché si era resa conto che la matrice marxista che animava le avanguardie del
movimento studentesco era caratterizzata da un ipersoggettivismo che la rendeva lontana dalle
categorie gramsciane perno delle sue strategie. In effetti, come ebbe a dire più tardi Eric
Hobsbawm, le mode intellettuali fiorite con il ‘68 avrebbero lasciato di stucco lo stesso Marx.
Non si deve però dimenticare che Togliatti aveva insegnato ai comunisti italiani che non bisogna
“mai dar torto alle masse quando si muovono”.
Ci sarebbe motivo di interrogarsi a lungo su questa incapacità dei compagni del Pci di percepire il
maturare di un movimento tanto imponente e dalla indiscussa natura rivoluzionaria. Una delle
ragioni è che le loro antenne non hanno funzionato anche perché già a quel tempo erano rivolte
altrove.
Nel complesso, sia il gruppo dirigente del partito che la base non erano disposti a digerire
l’esistenza alla loro sinistra di un nuovo soggetto politico. Se da una parte veniva detestato il
principio dell’assemblearismo, dall’altra molti si rammaricavano per l’esclusione dalle assemblee
studentesche dei rappresentanti delle forze storiche del movimento operaio, dal momento che ciò
significava il venir meno del loro rapporto con le nuove generazioni.
Eppure, non c’è dubbio che se il movimento del ’68, nel nostro Paese, non si è esaurito in poco
tempo come è avvenuto in Francia e in Germania, ma ha condizionato per anni il sistema politico
non disperdendo la sua potenzialità innovativa, questo è da attribuirsi proprio alla presenza sulla
scena politica di un forte schieramento di sinistra, in particolare del più grande partito comunista
dell’Occidente. Oggettivamente, quindi, e paradossalmente, mentre il movimento studentesco ha
tratto vantaggio dalla presenza di un Pci che detestava, il partito di Longo e di Amendola, pur
contestando il ‘68, ha contribuito a prolungare nel tempo la sua influenza.
Solo in pochi hanno avvertito la potenzialità di quel movimento e hanno cercato di comprendere la
sua genesi e di stabilire con esso un rapporto positivo. Tra questi, a livello internazionale è da
ricordare Giorgy Lukacs, uno dei marxisti più lucidi di quel tempo, mentre in Italia a mostrare
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attenzione e interesse sono stati il gruppo di compagni che poi ha dato vita al “manifesto” e coloro
che hanno animato i “Quaderni rossi” e i “Quaderni piacentini”.
Sul versante sindacale, a cogliere la spinta del movimento studentesco verso il movimento operaio,
tra i massimi dirigenti sindacali sono da ricordare in particolare Bruno Trentin della Cgil e Pierre
Carniti della Cisl. Durante le lotte del ’69 anche i metalmeccanici della Fim-Cisl rifiutavano la
libertà, la democrazia e la legalità borghese.
Nei primi anni ’70, nel pieno di uno scontro sui contratti e in occasione di un’intervista che gli feci
per conto de “il manifesto”, ho avuto l’opportunità di conoscere di persona Carniti e di costatare
come il suo linguaggio politico non fosse diverso da quello dei comunisti eretici.
Il movimento studentesco invocava l’unità di classe e uno dei suoi slogan ricorrenti era “la classe
operaia deve dirigere tutto”. Di fronte a tali propositi il movimento operaio non poteva di certo
restare indifferente, però lo spirito con cui veniva vissuta la prospettiva unitaria era differente nei
due soggetti: mentre la cultura operaia tradizionale era ancorata al valore lavoro, quella degli
studenti tendenzialmente rifiutava l’etica lavorista, e tale diversità di vedute suscitava
incomprensioni e polemiche.
Solo gli operai più giovani e più aperti alle novità recepivano senza tante riserve il messaggio di
rivolta e di unità che proveniva dalle scuole. Era la generazione che incominciava a non considerare
il lavoro il centro della vita, quella che soffriva maggiormente la fatica psico-fisica dell’operaio-
massa, che non tollerava la ripetitività delle mansioni, che avvertiva lo stato d’alienazione. Questi
giovani operai si rendevano conto che la divisione del lavoro si estendeva a tutta la sfera sociale e
alla vita privata e proprio perché avevano maturato questa coscienza, non hanno esitato ad aprire i
cancelli delle fabbriche agli studenti.
Con gli scioperi contro le gabbie salariali sono nati i cub, comitati unitari di base, si sono diffuse le
leghe dei giovani disoccupati e nelle scuole sono sorti gli organismi unitari.
Nelle fabbriche si è lottato per il passaggio in massa alle qualifiche superiori, sono stati chiesti
aumenti uguali per tutti e rivendicata la qualifica unica, la parità tra operai e impiegati, è stata
praticata l’autoriduzione dei ritmi di lavoro, si è rifiutato il lavoro a cottimo e ha avuto inizio la lotta
per la salute. Il tema della nocività sul posto di lavoro ha assunto un ruolo centrale sia dentro che
fuori la fabbrica e gli studenti di medicina hanno messo il loro sapere a disposizione dei lavoratori.
E’ stato affermato il diritto allo studio e alla formazione professionale e imposto il riconoscimento
di un monte ore retribuito di 150 ore per l’istruzione.
La critica al sistema è andata così al cuore del rapporto di produzione e ha colpito il meccanismo di
accumulazione del capitale.
Congiungendosi, le rivendicazioni degli studenti e degli operai hanno assunto un carattere sociale e
si sono tradotte in precisi indirizzi politici quali il diritto all’abitazione, la gratuità di taluni servizi
sociali, una nuova politica fiscale, un controllo politico dei prezzi dei beni di consumo.
Le dirigenze sindacali sono state a quel punto costrette a prendere atto di tali istanze e
conseguentemente a definire programmi di politica economica articolati su specifici aspetti della
vita sociale: occupazione, casa, sanità, fisco, scuola, ecc.. E come forma di lotta è stato praticato lo
sciopero generale.
Sotto la pressione del movimento, nel ’70, il governo ha varato lo Statuto dei diritti dei lavoratori, il
quale ha riconosciuto il diritto di organizzazione sindacale in fabbrica, la tutela del lavoratore
ingiustamente licenziato imponendo al datore di lavoro la riassunzione (il famoso articolo 18), il
diritto di assemblea nei luoghi di lavoro. Ha dichiarato decadute le commissioni interne e ha
riconosciuto l’istituzione dei consigli di fabbrica.
Mentre però il movimento di lotta conseguiva questi risultati, l’economia capitalistica entrava in
una nuova fase di profonda ristrutturazione. Aveva cioè inizio l’epoca postfordista la quale avrebbe
scompaginato le regole e messo presto in difficoltà il movimento dei lavoratori.
Il ’68 studentesco aveva suggerito molte cose al movimento operaio, ma non era stato capace (e non
si poteva pretendere che lo fosse) di indicargli il modo in cui si sarebbe potuto superare il modo di
produzione capitalistico. Se la sua potenzialità rivoluzionaria era forte nei propositi, quando si
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trattava di tradurli in pratica, la sua cultura e la sua azione politica si dimostravano deboli e
inadeguate. La mitologia della “rivoluzione dietro l’angolo” si dimostrava essere il prodotto di un
semplicismo politico e di un abbaglio.
Del resto, il ’68 non poteva essere inteso altrimenti che un segnale del malessere sociale e
l’espressione di un bisogno e di una volontà di cambiamento. Il compito di fornire uno sbocco
politico a quel movimento spettava alle forze della sinistra storica.
Ha detto bene Luigi Bobbio commentando i limiti di quel movimento: “l’azione degli studenti non
ha alcun significato se l’organizzazione politica del movimento operaio non è in grado di riceverne
le esperienze e di unificarle in una strategia rivoluzionaria”. Difatti, le forze politiche della sinistra
non si sono presentate all’appuntamento e principalmente su di loro sono ricadute la responsabilità
di quel fallimento.
La spallata del ’68 aveva bisogno di una strategia che avesse per obiettivo il superamento del
capitalismo. E questa non poteva essere messa in campo da altri se non dalle forze della sinistra
tradizionalmente anticapitaliste. Queste, però, hanno disertato, anche perché, col passare degli anni,
esse si erano modellate in base alle esigenze degli Stati nazionali e non avevano più la cultura e
neppure le risorse politiche e organizzative per assolvere un simile compito. E anche se i marxisti
più acuti avevano denunciato l’avvento del monopolio statale e capitalistico, avevano avvertito il
sopravvenire di una generale manipolazione delle coscienze, avevano previsto un modo di vita
effimero e superficiale, l’assurdità della società dei consumi, il perpetuarsi del lavoro alienato, molti
degli stessi comunisti si sono dimostrati sordi e indifferenti a quelle profezie. E quando sulla scena
è apparso il movimento di contestazione, essi lo hanno percepito come un soggetto che usciva dagli
schemi tradizionali della politica e della cultura, ragione per cui doveva considerarsi estremistico.
Di fronte al proliferare delle esperienze di democrazia diretta, lo stesso Pci si è prodigato per
ricondurre queste forme di protagonismo sociale nell’alveo delle rappresentanze istituzionali,
sottoponendole alla logica elettorale e alla sovrintendenza dei partiti. L’istanza assembleare, agli
occhi dei suoi gruppi dirigenti, risultava in contrasto con la logica del partito. Le energie che il
movimento aveva sprigionato sono così state frazionate e disperse. Finita la fiammata, le istituzioni
hanno ripreso in mano le redini della storia. E si è imposta la modernizzazione conservatrice. La
contestazione ha continuato ad opera di minoranze sparute, mentre la parte del movimento che non
è rifluita nel privato si è abbandonata al fascino della P38 e della siringa.
Il germe della separazione tra società civile e società politica si è riproposto proprio in quel tempo e
la dissoluzione del sistema dei partiti ha preso le mosse proprio da quel soffocamento del
protagonismo sociale.
Tutta la sinistra, anche quella “nuova”, ha dunque dato segno di non aver compreso che il ’68 aveva
rimesso all’ordine del giorno il tema della rivoluzione in Occidente nei termini in cui l’aveva
interpretato Antonio Gramsci. Quella tradizionale ha tardato a cogliere gli elementi di discontinuità
che le lotte contenevano e, soprattutto, non è riuscita a stabilire un’alleanza tra mondo del lavoro e
mondo della cultura e dei saperi. Quella “nuova”, anziché guardare avanti, ha trovato più comodo
voltarsi indietro.
Non può dunque meravigliare che molti dei giovani che in quegli anni si sono battuti
generosamente per il cambiamento siano passati dal massimalismo e dalle barricate al delirio della
lotta armata o a un tranquillo posto in banca. E chi ha scelto l’impegno politico abbia fatto la corsa
al mandato istituzionale dimenticando le priorità delle masse che lavorano e soffrono.
Un dato resta ad ogni modo chiaro: senza il ’68-‘69 non avrebbero potuto esserci negli anni
successivi le grandi battaglie di civiltà che hanno modernizzato il Paese e tanto meno
l’avanzamento elettorale e organizzativo della sinistra.
8. Lo scontro con l’ortodossia di partito
Con l’esplodere delle lotte studentesche e operaie del ’68-’69, oltre che dare una mano a Cavalli nel
gestire l’organizzazione del partito e seguire la zona dell’Isola bergamasca, mi è stato assegnato
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l’incarico di seguire, sotto la sovrintendenza di Eliseo Milani, il lavoro di fabbrica, anche in
conseguenza delle positive esperienze che nel frattempo avevo maturato sul campo.
Sul territorio bergamasco, come nel resto del Paese, si erano spontaneamente diffuse molte
aggregazioni giovanili che si proponevano di coniugare la lotta studentesca con quella operaia e già
da qualche tempo io avevo avuto modo di collaborare con alcuni cub (comitati unitari di base) nel
denunciare situazioni di sfacciato sfruttamento dei lavoratori e nel promuovere contestazioni
pubbliche e scioperi. Una fruttuosa collaborazione eravamo riusciti a realizzarla a Ponte San Pietro
dove, con alcuni giovani dell’oratorio che si erano costituiti in “circolo” e con gli esponenti di un
cub che si ispirava a Lotta continua, abbiamo steso un panphlet di denuncia della condizione
operaia al cotonificio Legler il quale ebbe un enorme successo e irritò non solo la direzione
aziendale, ma le stesse organizzazioni sindacali.
Il nuovo incarico nel partito mi ampliava gli spazi d’intervento e mi attribuiva un’autorità che prima
di allora mi veniva spesso contestata dagli stessi sindacalisti comunisti della Cgil. I tempi, del resto,
avevano messo in discussione gli steccati che separavano l’iniziativa politica da quella sindacale e
spesso mi era successo di essere identificato, non solo dai lavoratori ma anche da alcuni dirigenti
aziendali, come un funzionario sindacale. Nel corso delle agitazioni alla Philco di Brembate Sopra,
per fare un esempio, il direttore generale dell’azienda, interessato a conoscere le intenzioni dei
promotori della lotta, ha più volte assunto me come attendibile referente, nonostante che fuori dei
cancelli della fabbrica stazionassero i segretari provinciali di categoria delle tre confederazioni
sindacali.
Diversi scioperi nelle aziende dell’abbigliamento (dalla Imec alla Nebula, dalla Rosier alla Otto San
Pietro) sono stati proclamati dalle rappresentanze aziendali dei lavoratori, spesso designate in modo
informale dalla base, dopo che queste avevano stretto rapporti con noi, mentre le organizzazioni
sindacali di categoria venivano chiamate a intervenire a decisioni prese dalle assemblee spontanee e
a ratificare accordi che erano stati conseguiti sull’onda di agitazioni non promosse da loro.
In alcune di queste aziende, soprattutto dove la presenza di giovani donne era numerosa, avevamo
denunciato intollerabili situazioni di sfruttamento che venivano ignorate o trascurate dagli stessi
sindacati. Oltre al non rispetto delle norme contrattuali in termini di salario e di orario, le loro
condizioni di lavoro erano spesso disumane (lavoro a cottimo esasperato e ritmi di lavoro stressanti,
assenza di pause, clima ambientale torrido nei periodi estivi e freddo in quelli invernali, spazi
ristrettissimi tra una macchina e l’altra, ecc.). In certe realtà le lavoratrici non potevano recarsi ai
servizi senza avere l’autorizzazione del capo. In alcuni casi si erano verificati persino abusi sessuali
sulle ragazze da parte del personale dirigente. In molte di queste aziende non esisteva la
commissione interna e in quelle in cui al sindacato era permesso di intervenire, molto spesso, a
rappresentarlo erano lavoratori o lavoratrici compiacenti con l’azienda, disimpegnati nella difesa dei
loro stessi diritti.
Non solo nelle piccole e medie imprese, ma anche in alcune di quelle grandi lo sciopero era una
pratica sconosciuta. La Cgil in particolare era un sindacato inesistente perché demonizzato e non
tollerato dal padronato e dalle dirigenze aziendali.
Nel fare i picchetti fuori dalle fabbriche per rivendicare il rispetto dei contratti e delle leggi e per
indurre i lavoratori allo sciopero, abbiamo più volte subito minacce, se non direttamente dai
dirigenti o dai proprietari, dai loro sicari. E in alcune occasioni abbiamo dovuto ricorrere noi stessi
alla forza fisica per respingere aggressioni e ottenere il rispetto dei diritti sanciti dalla Costituzione
repubblicana. In alcune aziende (la Imec ha rappresentato il caso più eclatante) per piegare
l’intransigenza padronale, si è dovuto ricorrere all’occupazione della fabbrica fronteggiando
l’opposizione dello stesso sindacato a tale forma di lotta. Poiché durante le ore notturne, ad
assicurare la vigilanza contro possibili interventi repressivi da parte di coloro che erano contro
l’occupazione, entravano in fabbrica dei compagni, le dirigenze dell’azienda avevano accusato
calunniosamente le scioperanti di abbandonarsi al libero amore.
Una delle esperienze memorabili di mobilitazione operaia, promossa con pazienza e determinazione
dalla cellula del partito, in stretto contatto con il gruppo lavoro di fabbrica della federazione, è stata
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quella della Dalmine. Principali protagonisti sono stati Giorgio Agosti, Pasquale Poma, Angelo
Polini, Silvestro Milani e Luciano Ongaro nella veste di militante politico esterno. Dopo mesi di
riunioni e di contatti, è stata elaborata una piattaforma rivendicativa incentrata sulle qualifiche e
sulle condizioni di lavoro. Il pacchetto di richieste è stato sottoposto alla discussione e al voto del
consiglio di fabbrica il quale lo ha approvato a grande maggioranza. Poiché la direzione
dell’azienda si è rifiutata di prenderne atto e di aprire una trattativa, il consiglio di fabbrica ha
dichiarato lo sciopero e, in segno di protesta, ha promosso una marcia dei lavoratori su Bergamo
unitamente al blocco dell’autostrada. Quella è stata per noi una giornata indimenticabile. Abbiamo
marciato in testa al corteo di oltre un migliaio di lavoratori, accanto ai delegati del consiglio, fieri di
essere riusciti a mobilitare uno dei capisaldi del movimento operaio bergamasco e di aver
paralizzato per un giorno uno dei colossi della siderurgia. Le organizzazioni sindacali erano avverse
a quella forma di lotta e avevano manifestato la loro contrarietà su alcuni punti rivendicativi, ma poi
sono state costrette a far buon viso a cattivo sangue. La vertenza si è protratta per mesi e ha
necessitato di altri momenti di lotta, ma alla fine i lavoratori l’hanno spuntata conseguendo risultati,
seppur parziali, innovativi rispetto alle condizioni e agli accordi precedenti.
In preparazione di una conferenza nazionale dei lavoratori comunisti, la federazione ha
programmato un seminario di un’intera giornata per fare il bilancio delle esperienze di lotta sul
nostro territorio, per valutare l’azione del partito e formulare proposte per l’assise nazionale. Io
sono stato incaricato di svolgere la relazione introduttiva, mentre le conclusioni erano affidate a un
compagno della direzione nazionale. Quando Roma ci ha comunicato che sarebbe stato presente
Giorgio Napolitano, Milani è andato su tutte le furie, ha quindi deciso che l’iniziativa avrebbe avuto
svolgimento solo per mezza giornata. Sono così stati rigorosamente selezionati gli interventi dei
compagni e stabiliti i tempi della loro durata. Il compito di svolgere la relazione è stato affidato a
me. Dopo nemmeno due ore di dibattito pilotato è stata data la parola a Napolitano per le
conclusioni.
Il contrasto tra la mia relazione introduttiva, che era frutto di una discussione collegiale della
commissione lavoro di fabbrica, gli interventi e le conclusioni dell’esponente della direzione
nazionale si è evidenziato in modo netto. Poiché un simile scenario era stato previsto, le critiche
dell’esponente della direzione del partito alle nostre posizioni sono state letteralmente ignorate non
costituendo valido motivo di considerazione. Chiusi i lavori, Napolitano è stato abbandonato a se
stesso, non è stato accompagnato a pranzo e nemmeno alla stazione. Era questo un comportamento
che avrebbe dovuto fargli capire che la sua presenza non era stata gradita dalla maggioranza del
gruppo dirigente della federazione. Quella vicenda mi ha procurato non poco disagio, poiché ho
considerato quel trattamento indegno di un rapporto fra compagni. Eppure, non ho avuto il coraggio
di manifestarlo. A quel tempo la tensione politica nell’ambito dell’apparato della federazione era
altissima e tale che i ricorrenti scontri tra fazioni consigliavano prudenza persino nell’esprimere i
propri sentimenti.
Già nel periodo precedente le elezioni politiche del ’68 si era aperta una feroce lotta per la
candidatura. L’ala maggioritaria di sinistra si era pronunciata per la rotazione nelle cariche elettive e
aveva avanzato la proposta di designare come deputato Eliseo Milani. Io ero parte di questa
componente. La compagine di destra sosteneva invece la ricandidatura di Giuseppe Brighenti, il
quale godeva del sostegno sia della direzione nazionale sia di quella regionale. A seguito di quello
scontro i rapporti tra i compagni dell’apparato si sono guastati, a prevalere sono stati la diffidenza e
il sospetto. Nel comitati federali si manifestavano spesso contrapposizioni e polemiche che
trascendevano gli stessi contenuti politici e il confronto degenerava tanto era l’acredine che si era
accumulata. Ad aggravare ulteriormente la situazione, successivamente, è intervenuta la censura che
la direzione nazionale del partito ha fatto scattare nei confronti dei compagni che avevano dato vita
alla rivista “il manifesto” e che tra gli iscritti di Bergamo godeva di aperte simpatie. Lucio Magri a
quel tempo era iscritto alla sezione centro della città ed Eliseo Milani era uno dei membri del
comitato centrale che avevano contestato i deliberati della direzione.
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Al 12° congresso provinciale del partito, la maggioranza dei delegati ha sottoscritto una mozione
che contestava e correggeva parte del progetto di tesi e questa presa di posizione ha aperto in modo
plateale la contesa con la direzione del partito. Io sono stato chiamato a far parte della segreteria
federale e il mio coinvolgimento nella guerra fra bande è stato totale. Le riunioni separate di gruppo
erano divenute pratica quotidiana e i firmatari della mozione congressuale venivano tout court
identificati come simpatizzanti del gruppo del “manifesto”, mentre di fatto non tutti lo erano.
Per tutta una fase, come gruppo, ci siamo riuniti nell’ufficio notarile di Carlo Leidi e da quando il
comitato centrale del partito ha deciso la radiazione di Magri, Rossanda, Pintor, Natoli e Caprara
per attività frazionistica, abbiamo incominciato a contarci e a organizzarci, convinti che anche nei
nostri riguardi sarebbe scattato prima o poi un provvedimento disciplinare analogo. Non era nostro
intendimento abbandonare il partito, e anche se risultava assai dubbio che il gruppo dirigente
potesse revocare la decisione presa, almeno alcuni di noi speravano nella possibilità che si
realizzassero le condizioni perché il dissenso interno venisse tollerato.
Nel giugno del ’70 abbiamo affrontato le elezioni regionali in un clima di grande tensione. Le
candidature sono state oggetto di lunghe discussioni e di scontri, mentre i conseguenti
aggiustamenti dei gruppi dirigenti hanno necessitato di estenuanti mediazioni.
Al consiglio regionale venne candidato per essere eletto Luigi Marchi, segretario della Camera del
lavoro, membro del comitato federale e appartenente all’area di sinistra. Sulla sua sostituzione al
sindacato si è aperta una lunga trattativa. A sostituirlo, tra gli altri, sono stato proposto anch’io,
dietro suggerimento di Milani e dello stesso Marchi e sostenuto dalla direzione provinciale. Quando
però si è riunito il gruppo dei sindacalisti comunisti, il mio nominativo ha riscosso pochissimi
consensi. E a ragione. Non solo venivo considerato immaturo per reggere una responsabilità del
genere, ero anche inviso a molti compagni del sindacato. La mia attività politica nei luoghi di lavoro
era mal tollerata dalla generalità dei funzionari della Cgil, giacché era considerata un’intrusione e
spesso anche motivo, oltre che di mortificazione del loro ruolo, di destabilizzazione dei rapporti tra
dirigenze sindacali e lavoratori. In più, ero la causa della cacciata di alcuni sindacalisti dai loro
incarichi per avere denunciato al segretario della Cgil certi loro comportamenti malavitosi e indegni
di un rappresentante dei lavoratori (sottrazione di compensi derivanti da vertenze, accettazione di
favori e regali dalle controparti, falsificazione di documentazione vertenziale) e di aver richiesto la
loro rimozione dopo debito accertamento. Insomma, ai loro occhi apparivo un autentico
rompiscatole.
Durante l’estate del ’70, in un fine settimana, mi ero fatto esonerare dagli impegni politici per
partecipare al convegno promosso dal gruppo del “manifesto” a Firenze. Mi aveva accompagnato
Liliana della quale, da qualche tempo, mi ero innamorato. Quando rientrai in federazione, venni
chiamato immediatamente a rapporto dal nuovo segretario federale che era Alfredo Bossi, il quale
mi chiese, senza alcun preambolo, se ero stato a Firenze. Nel corso di quel breve colloquio le
speranze che il partito fosse tollerante con i compagni che condividevano le posizioni del gruppo
del “manifesto”si dissolsero e anche per me ebbe inizio una fase di grande sofferenza interiore e di
aperto scontro politico con l’ortodossia comunista.
9. La radiazione dal Pci
Nel giugno ’70 sono stato eletto consigliere comunale di Ponte San Pietro e consigliere provinciale
di Bergamo. Mentre in Consiglio comunale rappresentavo il Comitato unitario di base che era
formato da giovani di sinistra dai diversi orientamenti politici ed era sostenuto dal Pci, in Consiglio
provinciale ero espressione del partito insieme a Giuseppe Brighenti, Silvano Canu e un compagno
di Treviglio. La segreteria ha deciso che dovevo essere il capogruppo il che, essendo alla mia prima
esperienza istituzionale, mi mise in una situazione di vero imbarazzo.
Nei mesi seguenti i rapporti tra la federazione e la direzione nazionale si sono fatti tesi al punto che
il partito di Bergamo è stato commissariato. Quell’incarico è stato ricoperto dapprima dall’allora
vice segretario regionale lombardo il quale, però, sfiancato dai ricorrenti scontri, ha rinunciato assai
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presto al mandato, poi da un compagno dell’apparato nazionale che dopo alcuni giorni di
permanenza a Bergamo è ripartito disperato per Roma.
A quel punto è stata promossa una campagna di consultazione-censimento delle posizioni politiche
degli iscritti e per oltre un mese si sono tenute assemblee in ogni sezione la cui presidenza e
gestione è stata affidata a due compagni del gruppo dirigente: uno quale espressione delle posizioni
della direzione, l’altro aderente al gruppo del “manifesto”. Io sono stato uno dei compagni più
impegnati in questa consultazione. Delle tante esperienze che ho vissuto in quel breve lasso di
tempo, una non si è mai sopita nella mia memoria per la sua eloquenza circa il livello di coscienza
che vi era in larga parte dei compagni della base del partito rispetto alla posta in gioco.
All’assemblea della sezione di Terno d’Isola, una trentina di iscritti, a difendere le posizioni del
gruppo del “manifesto” ero stato incaricato io, mentre a sostenere le posizioni delle direzione
nazionale era stato designato il compagno Brighenti. Dopo che ho esposto le ragioni della
consultazione e riassunto le posizioni del gruppo cui appartenevo, Brighenti si è dimostrato molto
generoso nei miei confronti: adducendo che il mio intervento era stato corretto e che non
necessitava di aggiunte, ha rinunciato alla sua relazione. Tale suo atteggiamento mi è tornato come
un riconoscimento inaspettato. Dopo l’apertura del dibattito, sono trascorsi cinque minuti di
assoluto silenzio. La stragrande maggioranza dei compagni sembrava assorta in una profonda
meditazione e il loro imbarazzo era evidente. Sul tavolo, davanti a ognuno, erano disposti bicchieri
di vino che si svuotavano a ritmo sostenuto, molti di loro avevano lavorato tutta la giornata sotto il
sole battente ed evidentemente la sete li tormentava ancora. Sollecitati più volte, finalmente uno di
loro, il “Biondo”, ha alzato il braccio e ha chiesto la parola. In piedi, con un braccio appoggiato al
tavolo, più o meno testualmente, si è rivolto a Brighenti dicendo: “Caro compagno onorevole,
Moioli ci ha spiegato che la direzione di Roma vuole cacciare i compagni del suo gruppo perché
hanno fatto il manifesto. Ma lo sai tu quanti manifesti abbiamo stampato anche noi qui a Terno?
Dobbiamo forse per questo essere scacciati anche noi dal partito?”. Mentre in sala è scoppiata una
fragorosa risata, sorridendo e con fare sarcastico, Brighenti mi ha guardato e mi ha detto: “E voi
vorreste fare il comunismo con queste truppe!”. Non ebbi parola per controbattere la sua ironia. Per
la verità, il “Biondo” non apparteneva al gruppo del “manifesto” ed è rimasto ancora per anni un
obbediente iscritto al Partito comunista.
Con quella verifica di orientamenti di gran parte degli iscritti, le dirigenze del partito hanno avuto
modo di misurare la reale consistenza delle posizioni in campo e, insieme, il grado di coscienza e di
coerenza dei compagni. Mentre a votare la mozione congressuale che si rifaceva alle posizioni di
Ingrao, l’anno precedente era stata la maggioranza dei delegati, quando si è giunti allo scontro
aperto con la direzione nazionale, a sostenere le posizioni del gruppo del “manifesto” è stato
neanche un terzo dei membri del comitato federale. Tra i compagni che avevano avuto un
ripensamento vi erano alcuni appartenenti alla direzione provinciale e diversi funzionari del
sindacato. Mentre fino alla vigilia della rottura questi compagni avevano partecipato alle riunioni
clandestine del gruppo dei contestatori, nel momento in cui la direzione nazionale ha deciso che non
tollerava più le ambiguità sulla linea, e ha proceduto all’applicazione del dettato statutario, essi
hanno sconfessato la loro adesione al “manifesto” e si sono rimessi in riga. Tra questi, meritano di
essere ricordati Luigi Marchi, che era diventato consigliere regionale, Alfredo Cavalli, responsabile
dell’organizzazione, e Giuseppe Crippa junior, l’allora segretario della Fgci che poi è stato integrato
nell’apparato adempiendo alle funzioni che avevo io.
Ultimata la consultazione, siamo stati informati da un compagno compiacente dell’apparato romano
che la direzione nazionale aveva deciso di far scattare in tempi rapidi un provvedimento disciplinare
nei nostri confronti. Ci siamo riuniti la sera dello stesso giorno e dopo lunga discussione, abbiamo
deciso di precedere la condanna ufficiale rassegnando le dimissioni. Il mattino seguente ho avuto
personalmente l’onore di consegnare nelle mani del segretario della federazione la lettera che
annunciava le nostre decisioni. L’avevano sottoscritta 14 membri del comitato federale, tra cui 4
componenti la segreteria (Eliseo Milani, Carlo Leidi, Pasquale Poma e io) e il responsabile
dell’amministrazione, pure lui funzionario, Giuseppe Crippa senior.
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Il giorno stesso, nell’istante in cui io mi accingevo a raccogliere i miei effetti personali e
abbandonare il posto di lavoro, sono stato raggiunto dal segretario Bossi il quale mi ha pregato di
recarmi nel suo ufficio prima di congedarmi. Oltre a lui, erano presenti Cavalli e Marchi. Dopo aver
espresso la sua meraviglia per il mio gesto, quasi avesse dimenticato le mie ripetute prese di
posizione negli organismi dirigenti, Bossi mi ha precisato che l’abbandono del partito se lo
aspettava da Milani, ma non da me. Si è quindi prodigato a farmi presente che la federazione di
Bergamo riponeva molte speranze nella mia persona e che io non potevo ignorare che per i
compagni rappresentavo un investimento politico. Mi ha poi informato di aver parlato per telefono
un’ora prima col segretario regionale Aldo Tortorella, il quale a sua volta si era consultato con il
vice segretario nazionale Enrico Berlinguer, e di aver concordato con loro di avanzarmi la proposta
che se avessi ritirato le dimissioni e fossi rimasto al partito, dopo quattro mesi mi avrebbero
nominato segretario provinciale e dopo quattro anni mi avrebbero fatto eleggere deputato.
A udire quell’offerta, sono stato investito per un attimo da una sorta di stordimento; non mi sarei
mai aspettato di trovarmi di fronte a dichiarazioni del genere. Superato rapidamente lo sconcerto,
che in verità s’intrecciava con un sentimento di orgoglio e di autocompiacimento, mi sono reso
conto che potevo comportarmi in tre modi: prendere per valida la proposta, chiedere tempo per
rifletterci, ringraziare e rifiutare. Non credo di avere avuto una qualche esitazione. Ai tre, che al di
là delle diverse posizioni politiche stimavo e ai quali ero anche affezionato, spiegai che il travaglio
interiore che da tempo portavo dentro di me era superiore a quello che avevo provato nel momento
in cui da cattolico ho rinnegato il mio credo e ho abbracciato il comunismo. Ho poi detto loro che
consideravo il partito lo scopo della mia stessa esistenza, ma che, se il “mio” partito era giunto al
punto di indurmi a barattare le mie convinzioni politiche con le mie prospettive di carriera, di certo
quello non era più il partito al quale avevo deciso di dedicare me stesso. A fronte di quella mia
dichiarazione, sui volti dei miei interlocutori apparve sorpresa e imbarazzo.
Ho sempre pensato di aver agito in quel momento più per istinto che con raziocinio. Devo però
confessare che mai una sola volta nel corso della mia esistenza mi è sorto il dubbio di aver
compiuto una scelta sbagliata. Non ho mai provato rammarico per non aver preso tempo per
riflettere. Ancora oggi sono convinto di aver fatto la scelta giusta.
Certo, la mia è stata una decisione che ha significato la rinuncia al possibile conseguimento di una
condizione di responsabilità e di privilegio. Difatti, l’itinerario di carriera politica che in
quell’occasione mi era stato prospettato da Bossi, è stato poi assicurato a chi mi ha sostituito nel
ruolo che avevo in federazione. Oltretutto, era la seconda volta che, per essere me stesso, rinunciavo
a salire sul treno che avrebbe potuto gratificarmi di fronte all’opinione pubblica. La prima
occasione mi si era presentata sei anni prima, quando un dirigente nazionale della Democrazia
cristiana, visto che mi interessavo di politica, mi aveva proposto di entrare nel suo partito
assicurandomi una veloce carriera. Già in quel tempo era maturata in me la convinzione che la
propria dirittura morale e la propria tranquillità interiore, costituiscono valori di gran lunga superiori
a qualsiasi riconoscimento o gratificazione politica.
Se ho avuto qualche motivo di rammarico, questo non ha riguardato affatto la rinuncia ai
riconoscimenti e ai vantaggi per me stesso, ma semmai i conseguenti e inevitabili sacrifici e rinunce
che il mio persistente modesto ruolo di funzionario ha comportato per il resto della mia esistenza
per le persone che mi sono state vicine le quali, giustamente, avevano il diritto di aspettarsi da me
una maggiore considerazione per le loro attese ed esigenze.
Qualche settimana prima della rottura, da Roma avevo avuto la proposta di trasferirmi per sei mesi
a Mosca per frequentare l’università di scienze sociali. Consideravo quel soggiorno in Urss
un’occasione e opportunità di arricchimento politico e culturale e a chi mi aveva avanzato la
proposta, avevo assicurato il mio interesse e la mia piena disponibilità. Purtroppo quella prospettiva
svaniva con le mie dimissioni.
Già avevo rinunciato a partecipare al Festival mondiale della gioventù comunista che si era svolto
in Bulgaria, a causa degli impegni di partito, e nonostante fosse vivo in me il desiderio di andare
“oltre cortina” per conoscere dal vivo quel mondo, ho ceduto il mio invito a Liliana. La rinuncia al
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viaggio a Mosca era una ragione in più di rammarico perché significava la fine della speranza di
poter costatare di persona cosa in realtà succedeva in un Paese del socialismo reale.
Alla fine di settembre del ’70, il comitato federale del Pci decretava la radiazione dal partito di tutti
i compagni del gruppo del “manifesto”. Per me, qualcuno aveva addirittura proposto l’espulsione.
Mi venne riferito che a opporsi all’approvazione di una tale richiesta è stato l’intervento di Gigi
Marchi.
Qualche giorno dopo, il gruppo dirigente della federazione, dichiarava incompatibile la presenza in
federazione di Liliana Riva, anche se lei era una semplice impiegata e non aveva alcun ruolo
politico: lei doveva perciò considerarsi licenziata. La giustificazione di un tale provvedimento era
da attribuirsi al fatto che il legame che aveva con me la rendeva non più affidabile nel ruolo che
svolgeva.
Si chiudeva così una pagina della mia storia personale e se ne apriva una nuova che sarebbe stata
densa di soddisfazioni, ma anche di incertezze e problemi.
10. Il bazar della “nuova” sinistra
Poco tempo dopo il suo esordio, il movimento degli studenti ha incominciato a mutare la sua
fisionomia originaria e, dividendosi in molteplici tronconi, ha costituito l’embrione di quell’insieme
di soggetti che hanno animato la cosiddetta “nuova” sinistra.
Già da tempo erano presenti sulla scena politica italiana piccole formazioni e soprattutto organi di
stampa che si collocavano alla sinistra dei partiti storici del movimento operaio.
Uno di questi soggetti era il Partito comunista rivoluzionario (trotzkista), sezione italiana della IV
Internazionale, il quale aveva come organi di stampa “Lotta operaia” e “Bandiera rossa” e
rivendicava l’attuazione di una rete di consigli popolari di tipo sovietista e l’applicazione della
delega “controllata, revocabile in qualsiasi momento” a tutti i livelli.
Era poi presente un gruppo di compagni impegnati nella redazione di “Lotta operaia” che si
battevano per un governo di sinistra comprendente anche l’ala progressista della Dc e finalizzato a
gestire la transizione dal capitalismo al socialismo.
Esistevano altresì diverse testate giornalistiche di ispirazione bordighiana e anarco-sindacalista tra
le quali sono da ricordare “Battaglia comunista”, “Il programma comunista” e “Lotta comunista”.
Nei primi anni ’60 si sono affermate piccole aggregazioni di ispirazione operaista che hanno dato
vita a periodici quali i “Quaderni rossi” e i “Quaderni piacentini”. E ancora, a seguito del dissidio
cino-sovietico, per iniziativa di ex iscritti al Pci e di altri compagni, sono apparsi sulla scena politica
giornali rivoluzionari, quali “Viva il leninismo”, “Edizioni Oriente”, “Nuova Unità”, “Classe
operaia”, “La sinistra”, “Il comunista”, “Gatto selvaggio”, “Nuovo impegno”, “Quindici”, “Lavoro
politico”, “Ombre rosse”.
A metà degli anni ‘60 è nato il Partito comunista d’Italia (marxista-leninista) il quale, alla fine del
decennio, si è scisso in due tronconi: Pcd’I Linea Rossa e Pcd’I Linea Nera.
Nel ’66, per iniziativa del gruppo omonimo, ha visto la luce “Il potere operaio”.
Tutti questi soggetti esercitavano scarsa influenza politica sul movimento operaio dal momento che
la loro struttura era di tipo elitario. Erano delle avanguardie dalle grandi ambizioni ma dallo scarso
seguito.
Solo all’indomani dell’esplosione delle lotte studentesche e operaie del ’68-’69, questi soggetti,
almeno nel loro insieme, hanno accresciuto la loro influenza allorquando si è assistito a una
proliferazione di gruppi politici e di stampa rivoluzionaria la cui presenza ha avuto un grande
influsso in ogni ambito politico e sindacale.
Tra la fine del ’67 e l’inizio del ’68, per iniziativa di un gruppo di lavoratori della Sit-Siemens di
Milano, è nato il foglio “Avanguardia operaia” che per un certo periodo di tempo ha potuto contare
sulla rete dei cub di Lotta continua.
Nei primi mesi del ’68 il Movimento degli studenti dell'Università statale di Milano ha deciso di
uscire dall'ambito studentesco e aprirsi ai problemi della società, in particolare al mondo del lavoro.
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Nello stesso anno è stato costituito il Partito rivoluzionario marxista-leninista d’Italia, il quale ha
dato vita a “Rivoluzione proletaria”. Ancora nello stesso anno ha visto la luce il gruppo milanese di
Falce e martello che ha poi fondato l’Unione dei comunisti italiani (marxisti-leninisti) e pubblicato
“Servire il popolo”.
Nel ‘69 hanno avuto inizio le pubblicazioni di “La Classe” da cui è poi nato Potere operaio e ne è
derivato anche “Il compagno”. Ha preso pure corpo il movimento di Lotta continua e, per iniziativa
della componente di estrema sinistra del Pci, è nata la rivista “il manifesto”. Stefano Merli ha
fondato il periodico “Classe”.
Nel ’70, il Fronte rivoluzionario marxista-leninista ha pubblicato “Stella rossa”. Lo stesso mondo
cattolico è stato investito dalla contestazione. In seguito allo scioglimento dell’Acpol di Livio
Labor, un gruppo del dissenso ha fondato il Movimento politico dei lavoratori.
Nel corso del primo lustro degli anni ’70, si è registrato un notevole incremento della stampa di
matrice comunista. Hanno visto la luce “Avanguardia proletaria”, “Fronte popolare”, “Politica
comunista”, “Quaderni di Avanguardia operaia”, mentre alcuni periodici si sono trasformati in
quotidiani: è stato il caso de “il manifesto” e di “Lotta continua” ai quali si è poi aggiunto il
“Quotidiano dei lavoratori”.
Alla sinistra del Pci si è venuto formando un microcosmo di formazioni politiche il cui comune
obiettivo era il sovvertimento della società capitalistica.
Non tutte le formazioni in campo vantavano una presenza sull’intero territorio nazionale ed erano
perciò classificabili alla stregua di partito. Solo due di esse, il movimento del “manifesto” e Lotta
continua, risultavano insediati in tutte le regioni del Paese; le altre formazioni erano concentrate in
alcune aree territoriali, anche se alcune di esse (i gruppi marxisti-leninisti, Potere operaio,
Avanguardia operaia e il Movimento lavoratori per il socialismo) esercitavano un’influenza politica
su scala nazionale.
La presenza di questo variegato universo politico ha prodotto un processo di politicizzazione e di
ideologizzazione mai visto, il quale ha investito ogni ganglio della società civile.
Queste forze avevano in comune i proclami rivoluzionari, la matrice antifascista e un atteggiamento
mitico nei confronti della classe operaia, mentre per il resto rappresentavano un bazar di
proposizioni politiche. Differenti nelle ispirazioni e nei riferimenti teorici, praticavano politiche
divergenti ponendosi obiettivi difformi.
Alcune formazioni coniugavano in maniera illogica e antistorica il pensiero di Marx, di Engels e di
Lenin con lo stalinismo e con il maoismo. Divulgavano in maniera populistica e in forma mistico-
religiosa i pensierini del presidente cinese. Esaltavano la rivoluzione culturale cinese come esempio
di permanente contestazione della base rispetto ai vertici e consideravano quel sistema un modello
di democrazia; salvo poi assumere posizioni “carriste” di fronte all’invasione sovietica della
Cecoslovacchia, nonostante che il Partito comunista cinese avesse giudicato quell’intervento un atto
imperialista e fascista.
Altre formazioni erano polemiche verso tutti: Pci, movimento comunista mondiale, Urss, Cina,
autogestione jugoslava, “socialismo umano” di Dubcek.
C’era poi chi sosteneva la linea del “comunismo come programma minimo”, ritenendo possibile
saltare lo stadio del socialismo. E chi pensava fosse sufficiente che la classe operaia
s’impossessasse dell’automazione e della cibernetica per dar corso a una società senza classi sociali,
senza Stato, senza deleghe.
All’insegna di "Più soldi, meno lavoro" e "Lavorare meno, lavorare tutti", veniva esaltata la figura
dell’operaio massa promuovendolo dirigente senza riserva alcuna.
Mentre alcune formazioni lottavano per la democrazia diretta dentro e fuori la fabbrica, altre,
all’insegna del “Siamo tutti delegati”, rifiutavano i consigli quali “strumenti d’ingabbiamento delle
lotte di base” e d’integrazione nella società capitalistica.
L’esecutivo nazionale di una di queste formazioni era composto esclusivamente di operai e ai
convegni veniva loro riconosciuto in via esclusiva il diritto di parola.
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Mentre alcune di queste organizzazioni avevano una forte connotazione spontaneista, altre erano
ipercentraliste. Sul quotidiano di una di queste formazioni apparivano alternativamente cinque o sei
linee politiche.
Da tutti questi soggetti veniva invocato il rinnovamento della politica, ma nella pratica essi
facevano proprio pedissequamente il vecchio modo di “far politica”.
Una di queste formazioni concedeva l’iscrizione solo a chi dimostrava di conoscere il pensiero di
Marx, di Lenin, di Stalin e di Mao, e alla condizione che fosse disponibile a dedicarsi attivamente
alla causa della rivoluzione proletaria. Il partito si autofinanziava, i compagni politicamente
impegnati a tempo pieno venivano equiparati economicamente agli operai, il denaro in avanzo delle
organizzazioni periferiche veniva devoluto al centro. I codici di comportamento erano ferrei e i
rituali erano spesso da catacomba; negli stessi rapporti privati vigeva una rigida disciplina: dal
segretario del partito venivano persino celebrati i matrimoni. Nei rapporti esterni, imperava invece
un settarismo esasperato.
Alcune formazioni, per difendersi dalla polizia e dagli avversari di destra, disponevano di efficienti
servizi d’ordine. Famosa era la pratica delle sprangate garantita dal servizio d’ordine del
Movimento studentesco, poi ereditato dal Movimento dei lavoratori per il socialismo. Quando come
Pdup per il comunismo ci siamo insediati in Piazza Santo Stefano, a Milano, ho potuto costatare di
persona le misure di sicurezza che quei compagni avevano messo in atto onde evitare irruzioni nella
sede, e pure ho preso visione dei mezzi con i quali i “katanga” si attrezzavano in occasione di cortei
e manifestazioni per difendersi dalle aggressioni di avversari e dalle forze dell’ordine.
Una formazione disponeva addirittura di una struttura denominata “Lavoro legale” la quale era
segreta e attrezzata di armi.
Gli scontri fisici tra gruppi di estrema sinistra e gruppi di estrema destra erano infatti frequenti, ma
non mancavano nemmeno zuffe, litigi e baruffe tra compagni.
Nei confronti dei militanti di Autonomia operaia, i quali erano usi inneggiare alla rivoluzione con le
tre dita della mano alzate a forma di pistola (la famosa P38), la tolleranza delle rimanenti
formazioni era in genere nulla. Uno dei loro slogan gridati durante le manifestazioni era infatti “Né
con lo Stato né con le br”. Solo alcune frange minoritarie sono passate in clandestinità dando corpo
alle Squadre proletarie di combattimento, ai Proletari armati per il comunismo, alle Unità comuniste
combattenti, ai Nuclei armati proletari e alla Brigata XXII marzo. Incapaci di agganciarsi al
movimento di massa e inaciditi dalle delusioni della politica, questi compagni hanno finito per
perdere la fiducia nella lotta democratica di massa e hanno sposato la lotta armata.
Una delle principali caratteristiche di tutte le formazioni della “nuova” sinistra è consistita in un
costante profondo travaglio d’identità il quale anziché favorire l’avvio di un processo unitario, ha
spinto l’insieme dei soggetti in campo a praticare contrapposizioni, divisioni, scissioni e
autoscioglimenti.
La cronologia politico-elettorale di quegli anni testimonia in modo eloquente i tormentati rapporti
che hanno contrassegnato questo mondo.
Nel ’70, Potere Operaio e il gruppo del “manifesto” hanno lanciato la proposta di costituzione nelle
fabbriche e nella società di comitati politici. Anch’io ho partecipato a quella manifestazione sotto la
tenda del Circo Medini che ha avuto luogo a Milano e ricordo di averla vissuta con grande
scetticismo. L’invito, difatti, non è stato degnato di alcuna considerazione da parte delle altre
formazioni e il progetto ha finito per essere disatteso dai suoi stessi artefici.
Nel ’71, nel Movimento Studentesco si è registrata una prima frattura essendo emerse due tesi in
netto contrasto tra loro.
Nel ’72, nel gruppo del “manifesto” è avvenuto un drammatico dibattito interno a riguardo della
decisione di presentarsi alle elezioni politiche e il gruppo dirigente, proprio in quella occasione ha
registrato la prima spaccatura.
Nel ’73, Potere Operaio si è sciolto, anche se il giornale ha continuato a uscire per altri due anni,
fino a quando la gran parte dei militanti è confluita nell’area dell’autonomia.
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Nel ‘74 il gruppo del “manifesto” si è unificato con il Partito di Unità Proletaria (PdUP), fondando
il Partito di Unità Proletaria per il comunismo. Alcuni mesi dopo al nuovo partito ha aderito anche il
Movimento autonomo degli studenti di Milano che si è diviso dal Movimento Studentesco
Nel Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista), dopo una serie di scissioni ed epurazioni, è stato
espulso il suo capo storico Aldo Brandirali.
Nel ’75, mentre Lotta Continua ha deciso di votare per il Pci, gli altri gruppi hanno presentato loro
liste alle elezioni regionali. Da buoni extraparlamentari hanno partecipato anche loro all’assalto alle
istituzioni. Ridimensionando le loro utopie si sono accomodati sui vecchi schemi organizzativi del
terzinternazionalismo traforandosi da movimenti in piccoli partitini.
Nel ’76, a seguito dell’illusione che il Pci potesse diventare il primo partito del Paese e la sinistra
potesse conseguire la maggioranza assoluta dei consensi, il Partito di unità proletaria per il
comunismo, Lotta Continua, Avanguardia Operaia e il Movimento Lavoratori per il Socialismo si
sono unificati sotto il cartello elettorale “Democrazia proletaria”.
La loro campagna elettorale, però, si è da subito caratterizzata per l’assenza di contenuti politici e
strategici unificanti e si è svolta in un clima di compromessi e nel più selvaggio interesse di gruppo.
Il risultato non poteva che essere deludente: 1,51% di consensi ed elezione di soli sei deputati.
Già al suo congresso di fondazione, nel Pdup per il comunismo sono emerse tre correnti: una
formata dal gruppo di Magri, un’altra legata a Miniati-Foa e un’altra ancora rappresentata da Pintor.
La loro convivenza ha comportato divergenze e scontri.
Lotta continua, a conclusione del suo secondo congresso, ha decretato il suo scioglimento; il
quotidiano ha invece continuato le pubblicazioni a fino all’82.
Nel ’77, il Pdup per il comunismo si è spaccato in due tronconi: ex gruppo del “manifesto” da una
parte, ex Pdup, cioè ex Psiup-Mpl, dall’altra.
Nel ’78, - Democrazia Proletaria si è costituita in partito. Vi sono confluiti la maggioranza di
Avanguardia Operaia e i compagni del vecchio Pdup. Mentre la minoranza di Avanguardia Operaia
è confluita nel Pdup per il comunismo il quale, nel frattempo si è lacerato nuovamente: i compagni
della redazione del quotidiano si sono staccati dal movimento.
Dopo diverse scissioni che avevano ridotto la formazione a poche decine di militanti, il Partito
comunista (marxista-leninista) si è sciolto.
Nel ’79, alle elezioni politiche si sono presentati con proprie liste il Pdup per il comunismo e Nuova
sinistra la quale faceva capo a Democrazia proletaria. I risultati sono stati deludenti per ambedue le
formazioni.
Dopo le elezioni politiche ha cessato le pubblicazioni il “Quotidiano dei lavoratori”.
Un pezzo del Movimento studentesco nel frattempo è entrato nel Psi dando una mano a Craxi nel
costruire la sua epopea.
Nell’81, nel Pdup per il comunismo è confluito il Movimento Lavoratori per il Socialismo.
Nell’83, alle elezioni politiche, i dirigenti del Pdup per il comunismo si sono presentati nelle liste
del PCI.
Con l’inizio dell’85, il Pdup per il comunismo è confluito nel Pci. Il gruppo di compagni legati a
Lidia Menapace ha dato vita al Movimento Politico per l'Alternativa.
Nel ’91, a seguito della trasformazione del Pci in Pds (cambio del nome ma anche delle prospettive
politiche), una frangia del partito formata anche da un gruppo significativo di compagni dell’ex
Pdup per il comunismo, ha dato vita a Rifondazione comunista alla quale, dopo essersi sciolti,
hanno aderito anche Democrazia proletaria e il Partito comunista (marxista-leninista) Linea rossa.
Nel ’95, una frangia di Rifondazione comunista costituita da quadri del vecchio PdUP per il
comunismo, ha abbandonato il partito per fondare il Movimento dei Comunisti Unitari il quale, tre
anni dopo, è confluito nei Democratici di sinistra.
Di fronte a un tale quadro, diviene spontaneo chiedersi come la “nuova” sinistra avrebbe mai potuto
garantire alle classi subalterne quella prospettiva di cambiamento che la sinistra storica aveva
dimostrato di non essere in condizioni di offrire, quando non solo essa ha clamorosamente disatteso
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il proposito marxiano “Proletari di tutti i paesi unitevi!”, quale condizione di un successo, ma non
ha saputo nemmeno garantire la propria autonoma esistenza.
E si comprendono anche le cause del riflusso che dopo la delusione elettorale del ’76 ha investito il
mondo che era venuto a crearsi alla sinistra del Pci.
E’ da quel momento, infatti, che prendono consistenza due fenomeni: l’esercito dei “cani sciolti” e
la lotta armata.
Ha detto bene Rossanda quando ha scritto che nel ’77 “Bologna visse la lacerazione fra la massa
studentesca che cercò gli operai e il comune rosso, trovò un muro, e respinta, si divise, urlò contro,
spaccò quel che poté”. Va però considerato che oltre alle responsabilità del Pci e della sinistra
storica nell’aver lasciato andare alla deriva quel movimento, sono da mettere in conto anche quelle
delle formazioni della “nuova” sinistra. Non bisogna dimenticare che il movimento del ’77 ha
rifiutato non solo i partiti storici, ma gli stessi “partitini” di matrice rivoluzionaria. Il suo slogan “Il
cielo della politica è caduto sulla terra” era il segno di un rifiuto della politica tour court e con essa
di tutti i suoi protagonisti.
La mancata rivoluzione ha prodotto non solo disgregazione del blocco anticapitalistico, ma anche
grande delusione e follia politica.
Se il ’77 ha trasudato senso di morte, quando il ’68 germinava vita, questo processo di necrosi
politico-ideale è da considerarsi il prodotto anche del fallimento delle formazioni che sono scaturite
dal movimento del ’68-’69. I cosiddetti “anni di piombo” non sono affatto il naturale epilogo del
‘68, come qualcuno continua a scrivere, ma la conseguenza della sua morte. La “nuova” sinistra lo
ha lasciato morire perché non ha avuto il coraggio di mettersi in discussione.
Non basta gridare contro il capitalismo e inneggiare alla rivoluzione, bisogna saper individuare le
forze capaci di essere le levatrici del nuovo ordine e rimuovere gli ostacoli che si pongono sul
cammino. E questo la “nuova” sinistra non l’ha saputo fare.
11. Il consolidamento politico e organizzativo del gruppo bergamasco del “manifesto”
Dopo aver rotto con il Partito comunista, la prima nostra preoccupazione è stata quella di trovare
una sede fisica. A quel tempo, di locali vuoti in città ce n’erano parecchi, ma essendo diffusa
nell’opinione pubblica la convinzione che affittare un locale a una formazione politica comunista
era atto sconveniente per qualsiasi proprietario immobiliare, abbiamo dovuto tribolare parecchio
prima di rimediare una sede. Da principio abbiamo affittato un monolocale seminterrato in via
Borfuro, successivamente ci siamo trasferiti in via Paglia, in un trilocale di proprietà di un fascista
che, stranamente, aveva mostrato spirito di solidarietà verso di noi come vittime del conformismo
politico.
Poiché l’area dei militanti e simpatizzanti tendeva ad allargarsi, le esigenze di spazio, in specie per
la convocazione delle riunioni, crescevano e la stessa nostra attività comportava un via vai di
persone che costituiva motivo di disturbo per il vicinato.
Venuti a conoscenza della disponibilità a prezzo conveniente sul mercato immobiliare di un locale
in via Quarenghi, il quale però necessitava di essere ristrutturato, dopo attenta valutazione ci siamo
convinti che ci trovavamo di fronte a un’occasione da non perdere. Non avendo però a disposizione
alcuna somma di denaro per l’acquisto dell’immobile, con Beppe Belotti, un compagno bancario,
abbiamo individuato una soluzione. Il valore delle azioni della banca in cui egli era occupato, in
quel periodo, era in rapida ascesa e lui ha insistito perché cercassimo del denaro in prestito per
investirlo e conseguire in breve tempo un guadagno tale da rimediare almeno una parte della somma
necessaria per l’acquisto dello stabile. Convinti della bontà del suggerimento, abbiamo promosso
una campagna di sottoscrizione tra i compagni con maggior disponibilità finanziaria e siamo riusciti
a raccogliere il denaro necessario per acquistare un pacchetto di azioni della banca. Dopo poco più
di un mese le abbiamo rivendute realizzando la somma necessaria per l’acquisto del locale e per le
opere di ristrutturazione (il tutto per un costo di 16 milioni di lire).
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A dirigere i lavori ci ha pensato il compagno architetto Giorgio Zenoni, mentre Carlo Leidi, in
qualità di notaio, ha provveduto alla pratica di compravendita, intestando la proprietà dell’immobile
ai compagni che avevano sottoscritto le quote del prestito (gli stessi Leidi e Zenoni, poi Giuseppe
Taino, Piero Asperti, Franco Gavazzeni, Angelo Mamoli, Giovanni Rossi e Arrigo Moretti).
Abbiamo quindi steso un contratto d’affitto a favore del movimento del “manifesto” il quale si è
impegnato a versare annualmente un affitto simbolico di una lira.
E’ stata quella un’operazione che ha inorgoglito la totalità dei compagni. Io mi sono dedicato alcune
settimane alla insonorizzazione e all’imbiancatura del locale. Mi sono poi dato da fare con i
compagni Piero Pasini e Giorgio Scarpellini per rimediare armadi e suppellettili per arredare gli
uffici; da un cinema cittadino in smobilitazione abbiamo recuperato le poltroncine in legno per il
salone destinato alle assemblee.
La nuova sede è stata inaugurata da Rossana Rossanda la quale si è congratulata con noi anche
perché, come ha voluto far notare, la nostra era l’unica sede del movimento a livello nazionale che
aveva le tendine alle finestre.
In quel periodo ho lavorato sodo per consolidare la struttura organizzativa del movimento
svolgendo un’azione di proselitismo e per costruirne un’immagine politica convincente. Vantavamo
una buona presenza sia nelle fabbriche che nelle scuole. Contavamo su un considerevole numero di
delegati sindacali e di insegnanti la cui presenza contribuiva ad accrescere non solo il prestigio, ma
anche il livello del dibattito e della proposta politica. Avevamo anche un discreto numero di eletti
nelle istituzioni locali quale eredità del Pci.
La nostra realtà politico-organizzativa era una delle più consistenti di tutta Italia, non solo in termini
di iscritti, ma anche di iniziative; al punto che il nostro contributo finanziario alla realizzazione del
quotidiano “il manifesto” è stato tra i più consistenti. Era tale il nostro peso in seno al movimento
che, nel ’72, quando si è trattato di decidere se partecipare o meno alle elezioni politiche, il nostro
orientamento è risultato essere determinante. In quella circostanza, ahimé, io ho avuto un ruolo per
nulla secondario nel determinare le non positive deliberazioni dell’assemblea nazionale.
Tra le emergenti organizzazioni della “nuova” sinistra presenti in provincia, la nostra era quella che
aveva maggior consistenza e peso. Nonostante i complessi rapporti con le altre formazioni, quando
si trattava di promuovere un corteo o una manifestazione, il compito di chiedere i permessi alla
Questura ricadeva sempre sulle nostre spalle. Poiché ciò comportava delle responsabilità, quando
avvenivano gli scontri con la polizia, e venivano fermati dei compagni, toccava a me
personalmente, quale firmatario della richiesta di autorizzazione, e quindi garante del rispetto delle
norme, trattare il loro rilascio con il questore e fornire le rassicurazioni del caso. Ricordo di essere
intervenuto non una sola volta a favore di alcuni leader provinciali delle formazioni rivoluzionarie
uno dei quali, una ventina di anni dopo, è divenuto ministro della Repubblica.
A quel tempo gli scontri di piazza erano frequenti, non solo tra dimostranti e polizia, ma tra i
militanti più esagitati delle formazioni rivoluzionarie e gli squadristi delle fazioni di estrema destra.
Una sera, a conclusione di una giornata di tafferugli, mi è capitato di assistere, sotto i portici di
piazza Pontida, a sparatorie tra dirigenti del Msi e un gruppo di militanti esagitati dell’estrema
sinistra. Scherzo del destino, anni dopo, alcuni di questi stessi violenti protagonisti di quella scena
da guerriglia urbana, li ho incrociati per le vie di Roma e di Milano dove, onorati e riveriti,
occupavano gli scanni dei templi della democrazia rappresentativa.
Nei primi anni ’70, le iniziative politiche promosse dal gruppo bergamasco del “manifesto” sono
state parecchie. Anzitutto ci siamo impegnati a fondo nella campagna di solidarietà con il popolo
vietnamita in lotta per la sua indipendenza. E’ stato questo un terreno di scontro con i compagni del
Pci, i quali, già a quel tempo alle alleanze sociali privilegiavano i rapporti con gli esponenti
dell’area di governo. Il democristiano Gilberto Bonalumi, allora sottosegretario agli esteri, per il
semplice fatto di aver incontrato di persona Ho Chi Minh, godeva un credito immeritato negli stessi
ambienti della sinistra, perciò la nostra opposizione all’atteggiamento mistificatorio assunto da
alcuni compagni era radicale. Qualcuno di loro non ha mai dimenticato quelle contese e nei miei
confronti ha permanentemente mostrato riluttanza, anche dopo il mio rientro nel Pci.
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Il nostro impegno verso le realtà produttive e il mondo del lavoro era totale. Avevamo intensificato
ed esteso la nostra presenza in molte fabbriche e negli ambienti sindacali della Cgil e della Fim-Cisl
potevamo contare sull’adesione di un considerevole gruppo di compagni. Alla Dalmine di Dalmine
e di Costa Volpino, all’Ilva di Lovere e alla Magrini, in particolare, abbiamo condotto una intensa
campagna per la riduzione delle qualifiche e per la salvaguardia della salute in fabbrica.
Un altro nostro punto di forza era costituito dalla presenza all’Atb (Azienda trasporti bergamasca)
dove siamo riusciti a promuovere uno sciopero memorabile. L’azienda, oltre a rifiutarsi di
affrontare il problema della condizione di lavoro del personale conducente i mezzi pubblici, che era
stato sollevato dalle rappresentanze sindacali, aveva dato avvio in modo arbitrario a una
ristrutturazione del servizio che si proponeva un rapido passaggio dai filobus agli autobus. Con una
nostra azione congiunta in consiglio comunale e in azienda (volantinaggio e battaglia condotta nel
consiglio dei delegati dal compagno Ernesto Villa) siamo riusciti a convincere la maggioranza dei
dipendenti dell’Atb a dar vita a uno sciopero in bianco, cioè ad assicurare la continuità del servizio
pubblico di trasporto rifiutandosi di far pagare il biglietto agli utenti. L’iniziativa ha riscosso un
successo strepitoso: lo sciopero è stato totale e tra i passeggeri e i lavoratori in sciopero si è
realizzato un rapporto di solidarietà che mai si era visto prima d’allora. A conclusione
dell’agitazione, diversi autobus sono sfilati vuoti in corteo per le vie della città fin sotto la sede del
Comune in segno di protesta. Qualche giorno dopo, in ricorrenza della festa del 1° maggio, durante
il comizio celebrativo in piazza Vittorio Veneto, Sergio Garavini, allora membro della segreteria
nazionale Cgil, ha dovuto riconoscere che quella era stata una lotta d’avanguardia.
Colpita al cuore, l’azienda ha denunciato gli scioperanti e ha proceduto giuridicamente nei confronti
dei loro rappresentanti sindacali chiedendo la condanna per i danni provocati dall’agitazione. I
giudici, però, hanno assolto gli imputati non riscontrando nel loro comportamento alcun reato.
Nelle scuole ci siamo battuti accanto al movimento degli studenti per il riconoscimento delle loro
rivendicazioni, in particolare per la modifica dei criteri d’insegnamento e di un nuovo “sapere”.
Alcuni nostri aderenti, compagne e compagni insegnanti, sono stati protagonisti di esperienze
didattiche innovative, costituendo la punta avanzata del movimento per il rinnovamento del sistema
scolastico. Molti di essi hanno contribuito alla gestione delle 150 ore.
Nei quartieri e nei paesi dove eravamo presenti, la nostra lotta era diretta contro la speculazione
edilizia e abitativa, per la salvaguardia dell’ambiente e per l’estensione e la qualificazione dei
servizi sociali. Lo sviluppo e il riconoscimento dei comitati di quartiere, in collegamento con i
consigli di fabbrica e i comitati dei genitori nella scuola, erano un nostro obiettivo primario. Anche
su questo fronte siamo stati protagonisti di duri scontri con le istituzioni, con la razza padrona e con
le frange conservatrici del sindacato.
A Costa Mezzate, dove abbiamo messo sotto sopra il paese per affermare il diritto degli abitanti
delle case coloniche adiacenti al Castello di aver garantito le condizioni igieniche prescritte dalle
leggi sanitarie, assieme ad altri due compagni residenti in loco sono stato oggetto della prima
denuncia per diffamazione e ho subito il primo processo davanti a un tribunale. Il tutto, per aver
convinto gli inquilini a bloccare il versamento delle quote d’affitto e poi per aver definito fascista,
durante un comizio, il marito della proprietaria degli immobili, una ex nobildonna. Il consorte era
un noto avvocato del foro di Milano che, però, nonostante il suo rango professionale, in quella
vertenza non gli è riuscito di essere vincitore: il giudice, infatti, ci ha assolto non intravedendo nel
nostro comportamento alcuna violazione di legge.
Un’altra battaglia che si è conclusa positivamente, è stata quella condotta al famoso villaggio
operaio di Crespi d’Adda per sollecitare la mobilitazione della parte più cosciente degli abitanti.
Contro le mire speculative di una società immobiliare su quel complesso di archeologia industriale,
che poi è stato riconosciuto dall’Unesco come patrimonio dell’umanità, con il compagno Nando
Carminati, già combattente nelle file della Resistenza, ho dedicato intere serate nel bussare alle
porte di casa dell’intero villaggio nell’intento di far sottoscrivere una petizione contro il lassismo
delle autorità locali e per invitare gli abitanti a scendere in piazza. E’ stato un lavoro di grande
pazienza, ma anche di arricchimento umano e gratificante moralmente oltre che politicamente.
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In provincia ci eravamo fatti una reputazione tale, da venire spesso sollecitati da più parti a
intervenire per sostenere vertenze aperte dal basso e per dare un nostro contributo nelle situazioni di
conflitto. Uno di questi appelli ci è giunto da Ghisalba, comune il cui sindaco aveva rivisto i criteri
di applicazione dell’imposta di famiglia suscitando l’ira di gran parte della popolazione meno
abbiente, la quale si era vista attribuire oneri spropositati rispetto ai benestanti del paese.
Con il compagno Angelo Polini, delegato operaio della Dalmine e consigliere comunale di Seriate,
mi sono recato sul posto e con il comitato di agitazione che si era costituito, ho concordato di
convocare un comizio per dare la parola a diretti interessati.
La sera della manifestazione la piazza era gremita. Dopo alcune testimonianze la parola venne
lasciata a me e avendo io posto l’accento sul fatto che quegli aumenti erano destinati a influenzare
l’entità dei tributi che negli anni successivi sarebbero stati fissati dal sistema fiscale nazionale
(eravamo alla vigilia della riforma), dal pubblico è stata lanciata la proposta di recarsi in massa
all’abitazione del sindaco per costringerlo a ritrattare i termini della delibera comunale. Poco dopo,
dalla piazza si è snodato un corteo di oltre un migliaio di persone che si è diretto verso la dimora del
primo cittadino. Assieme a Polini sono stato sospinto alla sua testa. Giunto sottocasa del primo
cittadino, il corteo si è arrestato e i manifestanti in coro hanno sfidato l’autore di quell’iniquo
provvedimento a scendere in strada. Di fronte a un tale tumulto, il primo cittadino ci ha raggiunti
impaurito, ma anche con una certa sollecitudine e, pallido in viso, ha accettato di discutere con noi
il da farsi. Pochi minuti dopo uno scambio di idee, sulla schiena di un manifestante, egli ha
sottoscritto una dichiarazione con la quale si impegnava a modificare il provvedimento secondo i
criteri suggeriti dalla piazza e a sottoporlo all’approvazione del consiglio comunale. Per alcune ore,
la popolazione di Ghisalba che si era riversata in piazza per manifestare la sua rabbia, ha dato sfogo
alla propria gioia trasformando la protesta in una festa popolare.
12. Gli scontri con i fascisti
Negli anni ’70, in tutti gli ambienti della sinistra era diffusa una vera e propria fobia per
l’estremismo fascista. Questa sindrome trovava ragione non solo nelle provocazioni sistematiche e
negli scontri di piazza che le formazioni “nere” mettevano in atto in occasione di ogni
manifestazione democratica, ma anche nella evidente copertura che le forze dell’ordine garantivano
a tali azioni provocatorie. Ed era originata anche dalla consapevolezza dell’esistenza di un intreccio,
anche se non esplicito, tra le forze eversive di destra e i servizi segreti che nel corso di oltre un
decennio, nel nostro Paese, hanno provocato quelle “stragi di Stato” i cui mandanti non sono mai
stati individuati.
In un tale clima di tensione, di violenze e di complicità mi sono trovato coinvolto in modo diretto
anch’io.
Poco dopo la costituzione del gruppo del “manifesto” in movimento politico, al palazzetto dello
sport di Bergamo, abbiamo organizzato uno spettacolo teatrale di Dario Fo e Franca Rame. A quel
tempo i due attori avevano fondato a Milano “La Comune” ed essendo stati non solo estromessi
dalla Rai e dagli ambienti culturali obbedienti al sistema, ma biasimati e ignorati dalla stessa sinistra
storica, erano rimaste loro referenti solo le formazioni extraparlamentari. Non ebbi perciò difficoltà
ad impegnarli per una tournée in terra bergamasca, anzi loro accettarono l’invito con entusiasmo
considerandolo un’opportunità ai fini del rilancio della loro attività artistica.
In occasione della rappresentazione di “Mistero buffo”, il palazzetto dello sport era gremito fino
all’impossibile (erano presenti oltre 2.200 spettatori) e l’interpretazione di Dario ha riscosso un
successo strepitoso.
Attraverso i nostri centri territoriali, avevamo distribuito delle tessere nominative con le quali
potevano essere acquistati i biglietti d’ingresso, ovviamente a prezzi popolari. L’accesso al
palazzetto era perciò possibile solo a chi possedeva ambedue i requisiti e noi eravamo in possesso di
tutti i nominativi. Con i tempi burrascosi che correvano, il sistema di vigilanza che avevamo
adottato sembrava essere l’unico a metterci al riparo dal rischio di presenze indesiderate. Ai fini di
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garantirci misure di ulteriore sicurezza, avevamo istituito un servizio d’ordine di vigilanza sia
all’entrata che all’interno del palazzetto.
Queste misure, però si sono rivelate insufficienti a evitare la provocazione.
Durante l’intervallo tra il primo e il secondo atto, probabilmente attraverso l’entrata interna del bar
che non era sorvegliata, si sono intrufolati in platea due individui che sono stati presto notati da un
compagno del servizio d’ordine. Quando mi è stata comunicata la notizia, assieme ad altri
compagni, con i quali ho raggiunto questi due individui e li abbiamo invitati ad esibirci la tessera
d’accesso allo spettacolo. Con baldanza, uno di loro ci ha mostrato il risvolto del bavero della
giacca dov’era appuntato un distintivo nazi-fascista. Con calma abbiamo preso sottobraccio i due e
li abbiamo accompagnati di forza all’uscita dove stazionavano i funzionari della squadra politica
della Questura, in funzione protettiva. A questi funzionari abbiamo spiegato l’accaduto e abbiamo
affidato loro i due provocatori affinché li identificassero e li allontanassero dalla manifestazione.
Tre quarti d’ora dopo, mentre lo spettacolo era ripreso, abbiamo sentito provenire dall’esterno dei
frastuoni e, raggiunta l’entrata del palazzetto, abbiamo notato nel piazzale antistante alcune persone
che con dei bastoni fracassavano le automobili parcheggiate. Immediatamente siamo corsi verso di
loro e dopo aver ingaggiato lo scontro fisico, siamo riusciti a farli fuggire. Tra di loro abbiamo
riconosciuto i due individui che avevamo espulso dal locale i quali erano ritornarti in forze per
portare a termine la provocazione.
I funzionari dalla Questura, che pure avevano assistito alla scena, non hanno mosso un dito.
Cinque giorni dopo, un nostro compagno, Goffredo Cassader, che più avanti negli anni sarebbe
diventato segretario provinciale del partito di Antonio Di Pietro, si è presentato in sede e mi ha
recapitato un foglietto che, a suo dire, gli era stato consegnato da un militante della destra fascista,
affinché me lo facesse avere brevi manu e mi riferisse che d’ora in poi avremmo dovuto guardarci
alle spalle. Sul foglietto vi erano i nomi e i cognomi di dieci membri del direttivo del “manifesto”; il
mio era il primo della lista.
Nel frattempo noi avevamo condotto un’indagine e stabilito che coloro che ci avevano provocato la
sera dello spettacolo di Dario Fo, erano militanti fascisti appartenenti a un gruppo di spacciatori di
droga, ben noti alle forze dell’ordine, e che erano stati più volte fermati in Questura e
successivamente rilasciati. Di conseguenza, avevamo deciso come comportarci qualora ci fossimo
di nuovo trovati di fronte a delle provocazioni.
Avvertiti i compagni del direttivo della minaccia ricevuta, sentito il loro parere, dopo qualche ora
dalla consegna di quella missiva, mi sono recato dal Questore per riferirgli l’accaduto e per
contestare il comportamento inerte dei suoi funzionari la sera dello spettacolo. Gli espressi il
convincimento che il suo ufficio conosceva bene quegli individui e gli avanzai il sospetto che quei
loschi figuri fossero manovrati se non da lui, da qualche suo collaboratore attraverso il sistema del
ricatto. E dopo avergli ricordato che noi eravamo un movimento pacifico, e che mai una sola volta
avevamo violato le norme dell’ordine costituito e della convivenza civile, lo avvertii che se fosse
stato torto un solo capello a un compagno del “manifesto”, noi non avremmo esitato un solo minuto
a rispondere per la pariglia. Anzi, gli garantii che degli eventuali provocatori non avrebbero più
trovato traccia alcuna. E questa promessa, in effetti, non era millanteria, ma un’autentica minaccia
dal momento che avevamo individuato il modo per far sparire gli aggressori nel caso qualcuno di
noi fosse stato oggetto di violenze. Fortunatamente non ci fu mai bisogno di giungere a tanto. Da
quel momento, però, ebbe inizio per me un periodo movimentato.
A seguito di un’indagine che ebbi a svolgere all’indomani del rapimento di un bambino, scopersi
che per mano di personaggi noti e rispettabili era in atto una grossa operazione di speculazione
urbanistica. Decisi perciò di approfondire la ricerca e, a un certo punto, avendo probabilmente colto
il segno, mi ritrovai a fare i conti con una serie di fatti strani e inquietanti. Una sera, mentre in
automobile stavo rincasando da una riunione, sulla strada delle valli fui affiancato da una
“Giulietta” che a un tratto ha cercato di spengermi fuori strada. Io viaggiavo su una “cinquecento” e
non potevo certo competere in velocità. Ebbi però la prontezza di evitare l’urto ed, essendo
prossimo a un rondò, di infilarmi contromano sulla corsia opposta imboccando le vie cittadine dove
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un’aggressione sarebbe diventata un’operazione più complessa. Seguito dall’auto pirata, mi sono
diretto alla Questura e davanti all’entrata ho bloccato la corsa. Sono sceso dall’auto e raggiunto il
mezzo del mio inseguitore che evidentemente non aveva compreso le mie intenzioni, ho aperto la
portiera della sua auto e l’ho trascinato fuori con forza. I due poliziotti che erano di guardia al
palazzo, vista la scena, si sono immediatamente avvicinati esigendo spiegazioni. Io ho riferito loro
che quell’individuo aveva tentato di buttarmi fuori strada e li ho invitati a identificarlo. Con fare
serafico, il mio inseguitore si è giustificato sostenendo che era sua intenzione offrimi un caffé e che
quella era la ragione per cui si era affiancato alla mia automobile in corsa.
La mia denuncia, come del resto altre che mi era capitato di fare, non ebbe riscontro alcuno,
pertanto, a riguardo di quali fossero le vere intenzioni di quell’individuo, non mi è mai stato dato
modo di avere spiegazioni.
Nei giorni successivi a quella vicenda, sono stato ripetutamente oggetto di minacce telefoniche. Una
voce maschile mi ricordava che avevo dei figli e che non dovevo mettere a rischio la loro
incolumità. A quel tempo, oltre che di Nadia, ero diventato padre di Riccardo e di Rossana, ed è
immaginabile quanta potesse essere la mia preoccupazione. L’aspetto drammatico di quelle minacce
era rafforzato dal fatto che per due volte, telefonate di quel genere erano state fatte anche a casa mia
e a riceverle erano state mia madre e mia moglie.
Ho compreso che quelle minacce erano una conseguenza del mio interessamento per
quell’operazione di speculazione urbanistica di cui ero interessato ad acquisire i particolari e nella
quale erano coinvolti uomini eccellenti della finanza e della politica. E poiché la mia stessa ricerca
al riguardo era giunta a un punto morto, ho deciso di desistere dall’andare oltre. Dopo alcuni giorni
le telefonate minatorie sono cessate, ma le preoccupazioni per l’incolumità mia e dei miei famigliari
hanno continuato a essere vive.
Essendo costretto a spostarmi sul territorio anche nelle ore serali e notturne, ho deciso di garantirmi
almeno un mezzo di difesa e da un compagno mi sono fatto consegnare in prestito una pistola. Si
trattava di un residuato bellico sulla cui efficienza mi erano state fornite delle assicurazioni. Ho
portato con me quell’arma per una quarantina di giorni e mi è capitato di dovermi disporre al suo
uso una sola volta. Esattamente una notte, quando verso l’una e mezza, rientrando dopo una
riunione, mi sono trovato sotto casa un’automobile che sostava a poca distanza dal cancello
d’entrata. Essendo la strada ben illuminata, ero riuscito, a distanza di una decina circa di metri, a
notare che a bordo c’erano delle persone che si muovevano. Quando mi sono avvicinato ho notato
la presenza nell’auto di cinque individui due dei quali, quelli seduti nella parte anteriore, avevano il
volto coperto. Come al solito e con calma, seppur teso al massimo, ho accostato l’auto all’entrata
del cancello e mentre scendevo per aprirlo, ho estratto la pistola dalla tasca facendo scattare i
proiettili in canna, pronta per essere usata se fosse stato necessario. Aperto il cancello ed entrato con
l’automobile nel cortile di casa, ho sentito alle mie spalle accendere il motore dell’auto in sosta e
l’ho vista allontanarsi lentamente con i fari spenti. Ho tirato un sospiro di sollievo, perché avevo
realizzato di aver corso un serio pericolo. Per l’intera notte non sono riuscito a chiudere occhio e ho
meditato sul da farsi. Al mattino, dopo colazione, mi sono recato dai Carabinieri e ho denunciato
l’accaduto. Anche in questo caso, non ho avuto più alcuna notizia al riguardo e non ho mai saputo
spiegarmi la ragione di quella provocatoria presenza.
Alcune settimane dopo, quando le minacce erano cessate e mi era sembrato che lo stato di pericolo
fosse esaurito, su sua richiesta, ho ceduto l’arma a un compagno che mi aveva detto di essere preso
di mira dai fascisti. Trascorsi alcuni giorni, questo mi ha informato che la pistola non funzionava,
perché era inceppata.
Quando nella primavera del ’72, a Milano, è stato assassinato il commissario Luigi Calabresi,
contrariamente alle tesi sostenute dai filosofi degli “opposti estremismi”, nel nostro ambiente
politico ad essere sospettate dell’omicidio erano le formazioni del terrorismo “nero”.
Due o tre giorni dopo l’avvenimento, un compagno di Mantova mi ha fatto una laconica telefonata
invitandomi a un incontro a mezza strada per riferirmi di una vicenda che riteneva essere della
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massima segretezza. Ci siamo incontrati qualche ora dopo a Cremona e ho così potuto avere la
spiegazione dell’urgenza.
I quotidiani di quello stesso giorno avevano pubblicato l’identikit di un uomo e di una donna
ritenuti responsabili della sparatoria contro il funzionario di polizia milanese. Il compagno con cui
mi sono incontrato, mi ha riferito che da qualche giorno, nell’abitazione di uno dei massimi
dirigenti del Msi mantovano trovavano ospitalità un giovane uomo e una giovane donna le cui
fisionomie risultavano essere molto somiglianti alle ricostruzioni fotografiche riportate dai giornali.
Convinto che potessero essere gli assassini di Calabresi, egli mi ha chiesto di denunciare il fatto alla
Magistratura.
Ovviamente, requisito indispensabile per procedere a una denuncia del genere era la produzione di
una foto dei due personaggi sospetti, e poiché egli non era in condizione di fornire una prova di quel
tipo, abbiamo combinato che il giorno dopo mi sarei recato io stesso a Mantova, accompagnato da
un fotografo, per tentare di acquisire la prova necessaria. E’ successo così che il mattino seguente,
in compagnia di Carlo Leidi, che era un provetto fotografo, di sua moglie Sandra e di Liliana, mi
sono recato nella città di Virgilio e nella veste di turisti, ci siamo piazzati nei pressi dell’abitazione
dell’esponente fascista. Per ore siamo rimasti in attesa che i due ospiti sospetti uscissero da quella
casa per poterli ritrarre con tutte le cautele del caso. Solo dopo ben quattro ore la coppia è scesa in
strada e noi abbiamo potuto compiere la nostra impresa. Ci siamo poi precipitati a Bergamo per
sviluppare in tutta fretta i negativi. In effetti, esisteva una somiglianza tra i due individui ritratti e gli
identikit pubblicati dai giornali. Oltretutto, come ci aveva informato il compagno mantovano, si
trattava di due tedeschi che il giorno stesso dell’assassinio si erano recati proprio a Milano.
Dopo aver verificato le foto con l’identikit, ho preso contatto con un giornalista che aveva rapporti
stretti con i magistrati di Milano che si occupavano del caso e, il giorno dopo l’ho incontrato e gli
ho consegnato il materiale fotografico e una memoria scritta affinché li sottoponesse all’attenzione
degli inquirenti.
Nel giro di ventiquattro ore i Carabinieri di Milano hanno perquisito la casa del capo fascista
mantovano e trattenuto in caserma per accertamenti i suoi due ospiti tedeschi. Più tardi sono stato
informato che si trattava di due appartenenti a organizzazioni terroristiche tedesche di estrema
destra e che nell’abitazione del capo del Msi mantovano avevano sequestrato documenti
compromettenti; del loro coinvolgimento nell’omicidio Calabresi, però, non si è avuto nessun
riscontro.
Solo anni dopo, con l’autodenuncia di Marino, si è saputo che l’assassinio del funzionario
questurino sospettato di essere responsabile della morte dell’anarchico Pinelli, scaraventato da una
finestra della Questura, era stato opera non dei fascisti, ma di Lotta continua.
Un altro mio coinvolgimento, non fisico ma politico e morale, in una vicenda tragica è avvenuto in
occasione della strage di piazza della Loggia a Brescia, alla fine di maggio del ‘74. Appena avuta
notizia dell’attentato, mi sono messo in contatto con la sede del “manifesto” di Brescia e ho avuto
notizia che tra i feriti vi era anche un nostro compagno. Il pomeriggio stesso, da Milano, mi sono
recato sul luogo e davanti ai miei occhi si è presentata una scena raccapricciante. Transennata e
inaccessibile al pubblico, vista dai margini, piazza della Loggia mostrava ancora i segni della
strage: fra i detriti dell’esplosione sparsi sul selciato si notavano brandelli di abiti insanguinati e
nell’aria vi era ancora un acre odore di esplosivo. Lo stato d’animo delle persone che si accalcavano
per scrutare il luogo del massacro era di indignazione e insieme di sconcerto. Comune era la
convinzione che gli autori di quella barbarie fossero da individuarsi nelle formazioni fasciste.
Poco più di due mesi dopo, sempre per mano della canaglia fascista, sul treno rapido Roma-Milano,
l’“Italicus”, nel tratto tra Firenze e Bologna, in Val di Sambro, è stata fatta esplodere una bomba
che ha causato morti e feriti. La notte precedente, di ritorno da Roma, io avevo viaggiato sullo
stesso treno. Ogni qualvolta, il mattino successivo alla riunione della direzione, avevo impegni a
Milano o in Lombardia, ero solito prendere l’“Italicus”. Mi sono pertanto considerato graziato dalla
sorte, poiché avrei potuto essere stato anch’io coinvolto nell’attentato. Così come mi sono sentito
assistito dalla fortuna sei anni dopo, quando è avvenuta la strage della stazione di Bologna.
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Esattamente la notte tra il 31 luglio e il 1° agosto dell’80, cioè due giorni prima che venisse fatta
scoppiare la bomba, di ritorno da Roma e in attesa di prendere la coincidenza del treno proveniente
da Bari e diretto a Milano, avevo sostato per ben due ore nella sala d’attesa di 2° classe, quella
appunto che è stata fatta saltare.
13. La prima esperienza istituzionale
Come ho già detto, i primi anni ’70 hanno rappresentato per me un periodo di vera e propria
formazione politica sul campo. Oltre all’attività di movimento, sono stato messo in condizioni di
sperimentare quella di rappresentante istituzionale e poi quella di giornalista.
Per almeno due anni ho avuto con la redazione del quotidiano “il manifesto” un rapporto quasi
giornaliero improvvisandomi corrispondente. Era quello il tempo in cui il giornale era espressione
diretta del movimento politico e poiché l’esperienza bergamasca era ricca di iniziative, per dare
lustro alla nostra attività e contribuire a fare de “il manifesto” un giornale espressione di un vivace
corpo politico, ho dovuto apprendere in fretta l’abbiccì del giornalismo.
L’impegno istituzionale, dal canto suo, mi prendeva parecchio tempo, giacché era mio costume
partecipare alle riunioni delle assemblee consiliari solo dopo aver verificato nel tessuto della società
l’impatto dei provvedimenti che l’istituzione era chiamata a prendere. Se la mia presenza nelle
assemblee di democrazia rappresentativa ha prodotto qualche risultato positivo, questo è dovuto
proprio al fatto che istruivo le mie battaglie fuori di quelle sedi, verificando l’impatto delle decisioni
da prendere nel vivo della società, prendendo cioè contatti con i soggetti coinvolti, raccogliendo i
loro pareri e le loro proposte e portando poi in esse il conflitto di interessi.
Ho assolto la funzione di consigliere provinciale con un certo imbarazzo. L’ambiente di quel
“palazzo” lo sopportavo a fatica. Presidente della Provincia a quel tempo era Severino Cittaristi,
quel personaggio che nei primi anni ’90 è diventato famoso per essere stato considerato, a torto, il
tangentista democristiano per eccellenza.
Quando sono stato radiato dal Pci mi è stato rivolto l’invito da parte dei suoi dirigenti a dare le
dimissioni, i miei compagni di gruppo, però, non mi hanno permesso di assecondare quella richiesta
che peraltro io ritenevo ragionevole, perché – hanno sostenuto – la presenza in Consiglio
provinciale avrebbe dato lustro politico al movimento. Fatto è che ho assolto quella funzione con
disagio, non a caso ho frequentato il “palazzo” per poco più della metà del mandato e non sempre
con costanza.
Nonostante la mia presenza fosse saltuaria e per quel ruolo avessi scarso interesse, in più
circostanze ho provocato momenti di forte tensione in Consiglio e ho persino incassato alcuni
successi politici (pochi per la verità). Il caso più clamoroso ha riguardato la denuncia di un’odiosa
sperimentazione su dei bambini, figli di malati di tbc ricoverati in un istituto di Sovere. Il caso mi
era stato segnalato dal compagno Piero Asperti, medico del Consorzio antitubercolare, e subito mi
sono prodigato a fare i dovuti accertamenti. Ai bambini ospiti di quell’istituto erano stati
somministrati in via sperimentale degli anabolizzanti (il quimbolone), con conseguenze
impressionanti sulla loro salute: ai bambini di 7-10 anni era cresciuto il pene e il pelo pubico; alle
bambine i seni e il clitoride. Questa violenza era stata perpetrata dal personale medico e paramedico
(le infermiere erano delle monache) dell’istituto per conto di una casa farmaceutica e senza che i
loro genitori venissero informati.
A seguito del mio intervento, che dalla stampa locale è stato giudicato operazione scandalistica,
l’autorità giudiziaria ha successivamente decretato la chiusura dell’istituto che ospitava quei
bambini, e pure del reparto della stessa azienda in cui era stato prodotto il farmaco. Ricordo che il
caso, dietro interessamento del famoso epidemiologo professor Giulio Maccacaro, il quale mi aveva
contattato personalmente, venne ripreso oltre che dalla stampa anche da una rivista scientifica
internazionale.
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Altri miei interventi, in Consiglio e fuori, contribuirono al miglioramento del trattamento del
personale dipendente dalla Provincia e della qualità di alcuni servizi socio-sanitari erogati dal
Consorzio antitubercolare e dall’Ospedale neuropsichiatrico.
In più occasioni sono riuscito a trasformare le sedute del Consiglio provinciale, al cui svolgimento
assistevano di norma pochissime persone, in momenti di vivace confronto davanti a una folta
presenza di pubblico interessato alle deliberazioni che venivano prese. Un caso del genere è stato
quello relativo alla dismissione delle ferrovie delle valli e alla concessione della licenza alla Sab per
il trasporto su gomma. Anche se ad averla vinta sono stati i potentati economici, con la complicità
delle forze politiche moderato-conservatrici, la soddisfazione di avere portato in quella sede
numerose persone al punto tale di non poter essere contenute nell’aula e di aver suscitato
preoccupazione nei componenti la giunta e nei consiglieri della maggioranza, è stata grande. Di
certo mi ha reso meno disgustoso il rospo che ho dovuto ingoiare. Ricordo che nel momento del
voto, a fronte dell’arroganza degli esponenti democristiani, da alcuni compagni tra il pubblico è
stato intonato l’”Internazionale” e quell’insolito clima di sfida ha provocato il panico tra i
consiglieri i quali sono poi stati attesi in strada con insulti e minacce.
Più interessante e più ricca di successi è stata invece la mia esperienza al Comune di Ponte San
Pietro. A fronte di un’assemblea di venti consiglieri, sedici dei quali erano democristiani, mentre tre
rappresentavano il Msi, il Psdi e il Psi, io ero l’unico esponente della sinistra.
Quando si è insediato il Consiglio comunale, ho fatto una dichiarazione programmatica che ha
suscitato l’ilarità in alcuni membri della maggioranza: ho promesso che mi sarei battuto contro la
speculazione edilizio-urbanistica, che anche a quel tempo era dilagante, e per l’approvazione di un
nuovo piano regolatore. In effetti, una proposizione del genere fatta dall’ultimo arrivato, poteva
comprensibilmente essere interpretata come segno di una sfrenata presunzione.
Da subito, insieme ai compagni del comitato di base, abbiamo messo a punto un programma di
mappatura del territorio comunale e setacciando edificio per edificio ci è stato possibile individuare
con precisione le violazioni alle leggi urbanistiche, al piano regolatore e al regolamento edilizio. Si
trattava di violazioni compiute nel corso degli anni in cui il Comune era amministrato dal sindaco in
carica. Il lavoro che abbiamo svolto è durato mesi e si è rivelato encomiabile. Un ruolo decisivo nel
fare sopraluoghi e nello stendere le mappe, lo hanno svolto Enzo Calvi, ingegnere, e Mario
Bugada, geometra.
Via via che individuavamo le violazioni, io presentavo in Consiglio comunale specifiche
interrogazioni al sindaco affinché rendesse pubblicamente conto dell’operato suo, di quello della
giunta e delle commissioni urbanistica ed edilizia. Per il primo cittadino, il cavaliere grande
ufficiale Antonio Magni, le convocazioni del Consiglio comunale erano diventate un vero incubo.
Le stesse convocazioni dell’assise venivano ridotte al minimo indispensabile e poiché le mie
interpellanze si accumulavano, quando ci si riuniva le sedute erano interminabili e si protraevano
anche nelle ore notturne.
L’imbarazzo del sindaco di fronte a una sala consigliare gremita di pubblico si è evidenziato in più
circostanze: per due volte si è dovuto ricorrere alla sospensione dei lavori a causa dei malori che lo
avevano assalito. Data poi l’insolita affluenza di pubblico ai lavori del Consiglio, in più occasioni è
stato necessario ricorrere all’istallazione di un impianto di amplificazione in modo che il dibattito
potesse essere seguito anche da chi stava nell’atrio.
Per lunghi mesi la tensione politica nel “palazzo” è stata altissima. Conclusa la nostra indagine,
abbiamo steso due esposti alla Magistratura nei quali venivano minuziosamente documentate ben
165 violazioni di leggi e di regolamenti in materia urbanistico-edilizia, il che significava che un
terzo del patrimonio edilizio esistente sui quattro chilometri quadrati di territorio comunale era
abusivo. Erano stati costruiti edifici persino sul tracciato di strade.
Nonostante ciò, la fame degli speculatori non risultava ancora appagata: dovetti condurre una
faticosa battaglia per impedire che venisse sottoposto all’approvazione del Consiglio comunale un
piano che prevedeva la cementificazione del cosiddetto “isolotto”, un’area verde compresa tra i due
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alvei del fiume Brembo a Sud del paese. Si trattava per altro di una porzione di territorio a rischio
idrogeologico a causa delle ripetute esondazioni del fiume.
Alla battaglia contro la speculazione edilizia abbiamo accompagnato quella per il diritto alla casa e
poiché in due distinti agglomerati urbani vi erano nuclei famigliari che occupavano abitazioni prive
di servizi igienici interni, abbiamo richiesto l’intervento dell’ufficiale sanitario, bloccato il
versamento degli affitti e mobilitato gli inquilini.
Sul fronte della salute abbiamo documentato e denunciato gli effetti inquinanti dovuti alla presenza
di aziende collocate nel bel mezzo o a ridosso delle aree residenziali, richiedendo interventi di
sanatoria e preventivi per la salvaguardia dell’ambiente e la sicurezza dei lavoratori. E pure nella
gestione della scuola dell’obbligo abbiamo imposto processi di rinnovamento attraverso il
protagonismo di studenti e genitori.
In sostanza, abbiamo determinato una situazione esplosiva sia sul piano sociale sia su quello
politico.
Dopo aver accertato e documentato le violazioni di legge in materia urbanistica e le inadempienze
dell’Amministrazione comunale, ho fatto mettere all’ordine del giorno dei lavori del Consiglio una
mozione di sfiducia nei confronti del sindaco e avanzato la richiesta di elaborazione di un nuovo
piano regolatore.
La convocazione dell’assemblea istituzionale è stata fissata per una domenica mattina e già
mezz’ora prima del suo inizio la sala consigliare era gremita di pubblico. Aperta la seduta, dopo il
discorso di rito, il sindaco ha sorprendentemente invitato i consiglieri del suo gruppo ad
abbandonare l’aula impedendo così la presenza del numero legale. Oltre al pubblico allibito, nella
sala del Consiglio siamo rimasti solo in cinque: noi quattro consiglieri di minoranza e il segretario
comunale.
Dopo qualche giorno, il cavaliere grande ufficiale Antonio Magni è stato costretto dalla sua stessa
maggioranza a rassegnare le dimissioni. Lo ha sostituito il vice sindaco, il dottor Fausto Cologni,
che era il mio medico di famiglia, il quale, prima di accettare di essere investito della carica, ha
voluto incontrarmi per assicurarsi che, nell’eventualità di una sua investitura, io avrei rinunciato ai
toni polemici che avevo usato nei confronti del sindaco dimissionario. Dopo alcuni mesi
dall’elezione a sindaco, purtroppo, egli è improvvisamente deceduto per infarto. Il suo decesso mi
ha sconvolto doppiamente: in primo luogo perché era una persona che stimavo e alla quale per certi
aspetti ero anche affezionato; poi perché male lingue hanno osato attribuire a me la responsabilità
della sua morte, interpretandola come se fosse stata causata dallo stress provocato dalle mie
battaglie politiche in Consiglio. Era tale l’acredine che alcuni democristiani nutrivano verso di me,
che mi è persino stata negata la possibilità di sostare accanto al suo feretro, allestito nella sede del
Comune, in segno di cordoglio come si è usi fare in simili tragiche circostanze.
Quando si trattò di eleggere il nuovo sindaco, fui contattato da alcuni consiglieri democristiani e
invitato a partecipare a una loro riunione allo scopo di concordare insieme il candidato alla carica di
primo cittadino.
Con l’investitura di Diego Mantecca a sindaco, anche i rapporti nei miei confronti hanno subito un
cambiamento. Non solo si è proceduto alla progettazione del nuovo piano regolatore, ma nel farlo è
stata accolta la mia proposta di sottoporre il progetto, prima ancora di essere approvato dal
Consiglio comunale, al giudizio della popolazione. Sono state così organizzate diverse assemblee
pubbliche, quartiere per quartiere, nel corso delle quali sono stati raccolti giudizi, pareri e proposte
dei singoli cittadini e dei soggetti rappresentativi le categorie sociali e degli interessi. Il tutto è stato
preso in considerazione sia dai tecnici progettisti che dai politici e alla fine è stato elaborato il piano
che ha avuto l’approvazione del Consiglio comunale l’ultimo giorno utile, prima che scadessero i
termini del mandato.
Come avevo promesso nel momento in cui si era insediata l’Amministrazione, la speculazione
edilizia era stata arrestata, almeno per il momento, e Ponte San Pietro aveva un nuovo piano
regolatore. Paradossalmente, però, io che avevo testardamente considerato quello strumento
urbanistico uno degli obiettivi fondamentali della nostra battaglia politica, al momento della sua
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approvazione ho votato contro. La ragione di questo mio apparente contraddittorio comportamento
era dovuta al fatto che seppure frutto di una travagliata conquista, quello strumento urbanistico non
risultava del tutto adeguato ad assicurare una programmazione ordinata e non speculativa del
territorio. La maggioranza del Consiglio comunale non aveva avuto il coraggio di opporsi a certi
interessi forti e io non ero riuscito a preservare il destino di alcune aree che consideravo strategiche
per la salvaguardia dell’ambiente da possibili stravolgimenti futuri.
Avevo ottenuto diversi risultati positivi, tra i quali il progettato trasferimento sul territorio dell’Isola
bergamasca della Fonderia Mazzucconi, la quale era insediata nel bel mezzo di un quartiere
residenziale e a ridosso del cimitero. Essa rappresentava una fonte pericolosa di inquinamento e di
disturbo per gli abitanti del luogo, ma non solo di questi. Tali risultati però non bastavano a
giustificare un mio allineamento con la maggioranza.
Molte mie proposte di modifiche migliorative non erano state accolte. Ed erano state disattese anche
molte richieste avanzate dalla popolazione. Una fra tutte aveva suscitato scalpore persino negli
ambienti ecclesiastici. La popolazione del quartiere Briolo aveva avanzato la richiesta di
costruzione di una chiesa e poiché tale edificazione avrebbe dovuto avvenire su un terreno di
proprietà dei signori Legler, l’Amministrazione comunale non se l’è sentita di affrontare la
questione con i proprietari e, qualora questi si fossero opposti, di procedere all’esproprio. A
schierarsi a difesa di quell’istanza popolare ero stato io solo e il costatar che a difendere il diritto
alla pratica religiosa fosse un comunista non credente aveva sconvolto la coscienza degli stessi
ministri di dio.
Ad ogni modo, l’esperienza istituzionale di Ponte San Pietro negli anni 1970-1975 è risultata per me
complessivamente positiva, sia perché ero riuscito a coinvolgere in una delle materie più delicate
che un’amministrazione locale è chiamata ad affrontare, un considerevole numero di cittadini, sia
perché essa ha rappresentato la testimonianza che, pur dall’opposizione, se si interpretano con
caparbietà gli interessi della comunità, a una forza politica di minoranza risulta possibile influenzare
gli orientamenti di chi detiene il potere.
Sono trascorsi dei mesi prima che la Magistratura prendesse in considerazione gli esposti che avevo
presentato a riguardo degli abusi urbanistico-edilizi. Quando sono stato convocato dal giudice
istruttore, non ero più consigliere comunale, avevo passato il testimone a un giovane: dopo le
dimissioni che avevo presentato alla mia rielezione, era subentrato Enzo Calvi. Dagli inquirenti mi è
stato chiesto di fornire alcune notizie integrative alle denunce fatte, in modo che si potesse
procedere all’imputazione dei responsabili. Nonostante avessi a disposizione materiale
compromettente tale da mettere con le spalle al muro amministratori e costruttori, agli inquirenti ho
precisato che consideravo esaurito il mio compito di politico, visto che il cavalier Magni si era
convinto a dimettersi, anche se sotto pressione, e che il Comune si era dotato di un nuovo strumento
urbanistico. Aggiunsi che il compito di approfondire la conoscenza di quegli abusi era
squisitamente affare loro. Non era difatti mia intenzione aggravare la posizione dei possibili
imputati e ritenevo di aver assolto al meglio il mio dovere senza mandare nessuno sotto processo.
Anni dopo, nonostante avesse condotto contro di me una campagna denigratoria, l’ex sindaco ebbe
un barlume di buon senso e, in modo sommesso e del tutto confidenziale, mi ha ringraziato di quel
mio generoso atteggiamento di solidarietà, comportamento che lui non si aspettava e che per la
verità era immeritato.
14. Il trasferimento a Roma
I genitori di Lucio Magri abitavano a Bergamo e a ogni volta che egli si recava in Lombardia faceva
di tutto per andarli a trovare. Nei momenti politicamente meno impegnativi, si tratteneva a casa loro
qualche giorno. Durante la stagione invernale, coglieva anche l’occasione per andare a sciare sulle
piste dei monti orobici.
In una di quelle sortite, si è recato in alta valle Brembana con Eliseo Milani il quale, a differenza di
lui, non aveva mai praticato gli sport sulla neve. In quel suo primo esordio, Eliseo ha fatto un
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capitombolo e si è rotto il perone di una gamba. E’ stato soccorso e portato in ospedale. Data la
complessità della frattura, nell’arto gli sono stati inseriti dei supporti metallici in modo di favorire la
saldatura dell’osso che si era frantumato in più parti. Egli è stato perciò costretto a un lungo periodo
di riposo e di immobilità. E poiché era responsabile dell’organizzazione del movimento a livello
nazionale, si è posto il problema di sostituirlo. E’ stato chiesto a me di trasferirmi a Roma per
rimpiazzarlo durante la sua convalescenza.
Per un certo aspetto ho considerato la proposta allettante: difatti, avrei avuto modo di inserirmi nei
livelli dirigenziali del movimento e maturare ulteriormente la mia esperienza politica; per altro
verso, però, una simile prospettiva mi poneva seri problemi. A Bergamo avevo i miei cari e il
distaccarmi da loro costituiva per me un sacrificio enorme. Poi frequentavo, seppure in modo
saltuario, l’università di Trento e poiché ero sempre in ritardo con gli esami, non intendevo
indugiare oltre nel proseguire con diligenza gli studi.
Già a causa degli impegni politici, avevo dovuto rinunciare a far parte della prima delegazione de
“il manifesto” in Cina, alla quale partecipavano tra gli altri Aldo Natoli e Franco Fortini; e poi
anche a un viaggio a Cuba. Pertanto, l’idea di dover sacrificare ulteriormente i miei propositi, mi
risultava come un’altra insopportabile penalizzazione. Il trasferimento propostomi avrebbe oltre
tutto significato disattendere ai numerosi progetti politici cui avevo dato inizio sul territorio
bergamasco e rinunciare anche alla presenza in Consiglio comunale, il che avrebbe compromesso
un lavoro di anni. La diserzione del Consiglio provinciale, invece, non costituiva per me motivo di
apprensione.
A fronte delle perplessità che avevo, mi è stata garantita la possibilità di spostarmi secondo le mie
esigenze e di non trascurare né gli impegni politici né gli affetti personali. A quel punto mi sono
sentito obbligato ad accettare l’incarico.
A Roma ho dimorato in casa di Lucio Magri, alla Salita del Grillo. L’appartamento era abbastanza
grande e nel soggiorno era stato ricavato uno spazio adibito a ufficio organizzazione del
movimento, così che in quell’appartamento lavoravo, mangiavo e dormivo. Altro luogo operativo
per l’attività che svolgevo era la sede della redazione del quotidiano, in via Tomacelli. Era il
periodo in cui giornale e movimento erano tutt’uno e gli aspetti politico-organizzativi si
intrecciavano con l’attività giornalistica.
Un giorno nello spulciare l’elenco degli abbonati, provai meraviglia e orgoglio nel costatare non
solo che il giornale veniva diffuso in tutti e cinque i continenti, ma anche apprendendo che una
copia veniva spedita per abbonamento ogni mattina sia a Mosca che a Pechino. Da Rossanda e
Pintor mi è stato precisato che “il manifesto” era oggetto di attenzione degli stessi Breznev e Mao.
Nel lasso di tempo in cui ho soggiornato a Roma, ha avuto inizio nel partito la discussione
sull’ipotesi di unificazione con altri gruppi della “nuova” sinistra e questo ha significato una
intensificazione dei rapporti con i leader di alcune di queste organizzazioni. Ho avuto così modo di
partecipare, nella stessa sede della Salita del Grillo, agli incontri con Adriano Sofri di Lotta
continua, con Silvano Miniati, Pino Ferraris e Giangiacomo Migone del Pdup.
Le prime impressioni che ho ricavato da quegli incontri non mi hanno affatto convinto
dell’opportunità di procedere a operazioni di unificazione con quei movimenti. Nei discorsi dei loro
leader intravedevo una retorica che a me, militante di provincia, non ispirava fiducia, anzi,
provocava fastidio e suscitava molti interrogativi. Poiché però ero cosciente della mia modesta
cultura politica e confidavo nella saggezza dei dirigenti del movimento, mi sforzavo nel
convincermi che la ricerca dell’intesa e dell’unità con le formazioni della “nuova” sinistra era un
percorso obbligato ai fini della costruzione di un’alternativa alla deriva revisionista e perciò, con chi
era diverso da noi, occorreva aver tolleranza. Solo attraverso il confronto e l’azione comune – mi
veniva spesso argomentato – si sarebbero superate le divergenze e la convivenza avrebbe favorito
un processo di osmosi.
Le riserve che invece non sono mai riuscito a sciogliere, e che alcune volte ho pensato si fossero
trasformate in me addirittura in pregiudizi, erano quelle riguardanti gli ambienti politici romani. Sin
dall’inizio di quell’esperienza avevo costatato, non solo nei ritmi di lavoro, ma nello stesso modo di
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affrontare i problemi, una diversità di comportamenti rispetto al mio fare usuale e alle mie
concezioni del “fare politica” che mi turbava. Notavo oltretutto una volubilità che detestavo e che in
certe situazioni mi irritava. Io ero abituato a essere puntuale, a mantenere gli impegni presi in modo
rigoroso, a limitarmi all’essenziale nelle conversazioni, a rispettare le idee diverse dalle mie. Così
non era per la più parte dei miei interlocutori. Mi ero poi reso conto che questa caratteristica non era
affatto esclusiva degli ambienti in cui ero inserito, ma era tipica del mondo politico romano nel suo
complesso.
Ovviamente, non tutti i compagni del movimento e del giornale avevano un atteggiamento su cui
recriminare, anzi, parecchi di loro mostravano una solerzia maggiore della mia; però il clima era
influenzato da una tendenza al lasciar correre e a tollerare modi e comportamenti non sempre
consoni alla situazione e che io non riuscivo a sopportare.
Mi sentivo a mio agio solo quando mi spostavo sul territorio, quando mi recavo in altre regioni e
città e avevo a che fare con i compagni di base.
Infatti, oltre a programmare i calendari delle riunioni e delle iniziative e assicurare la partecipazione
ad esse dei membri del gruppo dirigente, ero io stesso impegnato a presenziare in alcune sedi
periferiche. In quei sei mesi ho visitato luoghi nei quali non ero mai stato e ho conosciuto una
quantità di compagni di cui a distanza di decenni mantengo ancora un caro seppur vago ricordo.
Poiché i nostri mezzi finanziari erano scarsi, quando ci spostavamo per le riunioni e le iniziative
pubbliche dovevamo dipendere dall’ospitalità dei compagni. Ricordo che a Napoli, con un
gruppetto di compagni, una notte ho soggiornato insonne a casa di Lucia Annunziata, ovviamente
quando era una semplice militante. A L’Aquila sono stato ospite di un professore di musica del
conservatorio il quale, dopo avermi offerto una cena a base di maiale, per la notte mi ha messo a
disposizione il divano di casa sua. Era una giornata fredda e il divano era ancora ricoperto del
cellophane in cui il fornitore lo aveva avvolto per evitare che durante il trasporto si rovinasse.
Faticavo a digerire le sostanze grasse che avevo ingerito di troppo e oltre a non riuscire a scaldarmi,
il rumore provocato dai movimenti del corpo sul telo di plastica m’impediva di prendere sonno. Il
mattino successivo ho dovuto recarmi ad Ancora ed è stata una vera impresa rimanere sveglio e
lucido fino a sera, quando ho dovuto tenere la relazione a una riunione.
A Potenza sono stato protagonista di una vicenda sorprendente. Il giorno prima sono stato a Napoli
e il mattino ho preso il treno diretto al capoluogo della Basilicata. A venti chilometri circa dalla
città, la locomotiva del treno si è incendiata e alla meta sono giunto con il pullman e con oltre
un’ora di ritardo. Avevo l’appuntamento con i compagni alla stazione, questi però, visto il ritardo e
la scarsità di informazioni, non mi hanno atteso ritenendo che mi fosse successo qualche
impedimento. Avevo con me l’indirizzo della sede del “manifesto” e poiché questa era situata in
prossimità del piazzale della stazione, ho deciso di raggiungerla a piedi. Ero in ritardo rispetto
all’appuntamento, ma in orario per l’inizio della riunione. Quando sono giunto sul posto, mi sono
trovato di fronte a una sorpresa. Il numero civico che mi era stato indicato non esisteva. Dopo aver
perlustrato inutilmente un tratto della via, ho deciso di chiedere informazioni e ho suonato il
campanello del numero civico precedente quello che cercavo. Con mia meraviglia, sulla soglia è
apparso un sacerdote con indosso i paramenti della messa: mi ero imbattuto nell’entrata di una
sacrestia. Mi scusai per il disturbo e chiesi informazioni sul numero civico e sulla sede del
“manifesto”.
Il sacerdote mi invitò a entrare e mentre si spogliava degli addobbi mi chiese se ero io “quello che
doveva arrivare da Roma”. Stupito dalla domanda, svelai la mia identità. Mi spiegò che era
informato del mio arrivo perché aveva buoni rapporti con i compagni e, toltosi i paramenti, mi ha
versato del vino bianco in un bicchiere raccomandandomi di assaggiarlo, giacché era quello buono
della messa. E dopo avermi assicurato che mi avrebbe accompagno lui stesso nella sede del
“manifesto”, mi ha detto che aveva una cosa importante da dirmi. Il suo approccio continuava a
sorprendermi.
Tranquillizzandomi sull’orario d’inizio della riunione alla quale ero atteso (i compagni – mi
assicurò – avrebbero aspettato), iniziò ad espormi il problema che lo assillava. “Il mio oratorio – mi
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spiegò – è frequentato da un potente personaggio politico che lei conosce sicuramente, perché
esercita la sua autorità proprio in Roma. Questo uomo influente è uso infastidire i miei ragazzi e
nonostante io abbia segnalato più volte il fatto alle autorità ecclesiastiche, non ho ottenuto alcun
intervento. Ogni volta che rientra in città io devo alzare la guardia e sono giunto al punto che non
ne posso più, anche perché alcuni genitori sono stati informati delle molestie dai loro figli ed
esigono che prenda provvedimenti”. E con tono disperato, mi ha rivolto un appello: “Quando torna
a Roma, veda per favore di fare qualcosa per impedire che questi episodi abbiano a ripetersi!”.
Rimasi di stucco. Avevo capito a chi alludeva il sacerdote; delle strane abitudini di questo uomo
politico avevo già avuto sentore tempo prima, ma non avrei mai immaginato che arrivasse a tanto.
La sua autorità in campo istituzionale era tale che appariva assai improbabile che una denuncia nei
suoi confronti potesse andare a buon fine.
La confessione del prete mi aveva messo in grande imbarazzo. Gli ho chiesto se avesse raccolto
prove schiaccianti, se esistessero ragazzi o genitori disposti a denunciare le molestie alla
Magistratura, ma mi sono presto reso conto che il clima di omertà era tale da scoraggiare qualsiasi
iniziativa. Gli ho promesso che ne avrei parlato con i compagni della segreteria nazionale,
facendogli presente che in quel periodo noi non avevamo alcun rappresentate in Parlamento per
poter istruire una qualche procedura istituzionale. Quando ci siamo lasciati, e io ho raggiunto
finalmente la sede del “manifesto”, ho provato un sentimento di commiserazione per lui e per i suoi
ragazzi e insieme di profonda rabbia verso il losco personaggio e il mondo che lo circondava e
proteggeva.
Decenni dopo, dalla stampa ho appreso la notizia che egli era pure un tossicomane, eppure ha avuto
l’incarico di governare un Paese senza che nessuno eccepisse sui suoi perversi comportamenti.
Provenendo dalla provincia ed essendo stato educato non solo ad avere rispetto, ma a ossequiare
l’autorità costituita, l’apprendere notizie del genere era per me un vero e proprio shock. Già quando
frequentavo in modo saltuario gli ambienti romani, per partecipare alle riunioni della direzione, mi
era capitato di costatare che gli inquilini dei palazzi del potere non erano poi tutti degli stinchi di
santo e che fra di loro vi erano, oltre a degli spregiudicati, personaggi con debolezze umane che
facevano abuso di alcool, che ricorrevano alle droghe, che erano ossessionati dal sesso. Mi capitava
spesso di soffermarmi a riflettere su come fosse possibile che un popolo in larga parte benpensante
e bacchettone come il nostro, potesse sopportare di avere avuto ben tre capi di governo che erano
omosessuali, anche se non dichiarati, e un Presidente della Repubblica la cui presenza a certe
manifestazioni pubbliche serali non era sempre garantita a causa del suo abuso di alcool. Di un
simile stato di cose erano a conoscenza in molti, ma a imperare era l’omertà. Cariche di
responsabilità di governo, del resto, erano state ricoperte anche da personaggi corrotti i quali, pur
avendone combinate di tutti i colori, non sono mai stati contestati a dovere e hanno potuto
perseverare nei loro intenti quasi indisturbati. Pertanto, mi pareva comprensibile che anche la
presenza di uomini dalle fragilità più intime non costituisse per i cortigiani motivo di scandalo.
L’intolleranza verso certe debolezze umane era anche allora un risentimento riservato solo al
comune cittadino. Così, almeno, a quel tempo mi sono spiegato l’arcano.
Quando mi capitava di confidare ai compagni le mie perplessità scambiando con loro le opinioni a
questo riguardo, avevo l’impressione di essere considerato un moralista. Lucio Magri, ad esempio,
mi ripeteva spesso che “la carne è debole” e che dunque era il caso di non farsi cattivo sangue di
fronte a simili vicissitudini.
La permanenza a Roma ha rappresentato il periodo in cui ho incominciato a fare i conti con uno dei
paradossi della politica e del senso comune degli italiani: avevo compreso quanto sia ingenua la
gran parte del popolo che nei confronti dell’autorità costituita e dei “capi” nutre cieca fiducia e
dimostra un immeritato atteggiamento d’ossequio.
Di quei tempi mi è rimasta impressa una telefonata che ho ricevuto da un nostro compagno che
lavorava in un ministero. Si era appena verificata una crisi governativa e i ministri stavano
sloggiando dai loro dicasteri. Questo compagno mi ha informato, affinché riferissi la notizia alla
segreteria, che Giulio Andreotti aveva dato ordine di caricare su dei tir una ingente quantità di
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documenti. Di che si trattasse e quale uso ne facesse era un mistero. A quel punto mi sono fatto
l’idea che i palazzi del governo, più che sedi amministrative, sono luoghi di intrighi. Un
convincimento questo, che nel tempo, di fronte ad altre vicende equivoche, si è consolidato nella
mia coscienza.
I sei mesi trascorsi a Roma mi hanno dunque consentito di allargare le conoscenze a riguardo delle
“debolezze della carne” dei politici. Mi hanno aperto gli occhi e insegnato anzitutto che è
l’ambiente stesso a favorire simili anomalie; che il contagio per chi è inserito in esso, costituisce un
rischio incombente e che ben difficilmente è possibile modificare un tale stato di cose senza mettere
in discussione alla radice i rapporti tra la società civile e il “palazzo”, cioè senza rivoluzionare lo
stato di cose presente.
Avevo compreso già a quel tempo che il destino di chi è inserito in quegli ambienti, seppure
determinato a combattere quelle debolezze, alla lunga è quello dell’adattamento e dell’allineamento
all’andazzo generale. E avevo anche avvertito che questa è una regola che condiziona non solo i
santuari del potere, ma spesso anche gli stessi ambienti che si propongono di contrastarli.
Ovviamente, la natura delle fragilità che riscontravo aveva valenze differenti, a seconda della
collocazione politica e di potere dei soggetti che ne erano affetti, ma erano pur sempre tali da
ritenersi, a mio avviso, nocive per qualsiasi progetto di società alternativa.
La sera, quando non avevo impegni e non cenavo in casa, frequentavo volentieri le vecchie trattorie
romane, dove si spendeva poco e si mangiava discretamente. Il quartiere di Trastevere era una delle
mie mete preferite e spesso ci andavo con i compagni. Più di una volta mi è capitato di scorgere ai
tavoli di quelle bettole Marco Pannella, dopo che i telegiornali avevano annunciato il suo digiuno
quale forma di lotta politica. Non mi sono mai preso la briga di indagare se avesse colto l’occasione
per allentare i crampi della fame, ho solo considerato che quello non era di certo il luogo più adatto
per favorire un’astensione dal nutrimento. Eppure, a questo giullare della politica sono sempre state
riservate solo compiacenze.
Il contatto fisico con i compagni del gruppo dirigente del “manifesto” mi ha consentito di conoscere
a fondo le abitudini, le virtù e i difetti di ognuno di loro. In genere essi erano persone di grande
intelligenza e umanità, democratiche, altruiste, dall’acume politico invidiabile e dai principi morali
solidi. Nei loro comportamenti non ho mai riscontrato ambizioni di potere o di denaro. I valori della
lealtà e della solidarietà umana erano loro caratteristiche fondamentali.
Non tutti però erano immuni da difetti. Una delle debolezze che avevo riscontrato essere abbastanza
diffusa anche in molti di loro, era rappresentata da alcune manifestazioni di esibizionismo e da
tendenze al narcisismo. Le vanità di Magri e di Milani, in particolare, erano evidenti e note a tutti i
compagni. Quando capitava loro di essere ripresi dalle telecamere o di avere concluso un comizio o
una relazione, il loro primo interesse era quello di sentirsi dire che l’esibizione era stata un
successo. Amavano le adulazioni e non disdegnavano essere al centro dell’attenzione e lodati.
Quando eravamo ancora al Pci e io ero alle prime armi, Eliseo mi ripeteva spesso che era meglio
essere numero uno a Bergamo piuttosto che numero due a Roma. Quando però egli è divenuto
deputato, e ha conosciuto gli effetti della notorietà e il fascino dei privilegi, ha dimostrato di non
avere più nostalgia di essere un’esclusiva di periferia.
Un caso in particolare mi aveva colpito nel comportamento dei dirigenti del mio movimento. I
compagni di Napoli un giorno mi avevano raccontato che anche dopo aver concluso il suo mandato
parlamentare, Massimo Caprara, già segretario di Togliatti, quando rientrava nella sua città, talvolta
ad attenderlo alla stazione c’era un gruppetto di persone che oltre a riverirlo gli baciavano le mani
(una pratica questa riservata a chi concede favori). Non mi riusciva di comprendere come un
comportamento simile potesse conciliarsi con l’ambizione di riscattare gli uomini dalle condizioni
di servitù e di ignoranza. Lo consideravo una forma di vanagloria, compensativa della rinuncia al
potere e ai privilegi, pur sempre però non degna di un comunista.
Quando poi, nella mia veste di responsabile pro tempore dell’organizzazione, mi capitava di avere
una richiesta d’intervista da parte di giornali o di reti televisive, mi trovavo spesso di fronte a
contese tra compagni per farsi assegnare quel compito. La corsa alle occasioni per apparire in
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pubblico era infatti sempre affollata. E lo stesso succedeva per la distribuzione delle presenze alle
riunioni e alle iniziative pubbliche sul territorio nazionale. Vi erano dei luoghi ambiti dalla
generalità dei dirigenti del movimento, sia perché il successo delle manifestazioni era
tradizionalmente garantito, sia anche perché (e questo valeva per i maschi) era assicurata l’ospitalità
delle belle compagne del luogo. Aveva sicuramente ragione Lucio, quando appunto mi rammentava
che anche la carne dei compagni è debole.
Un'altra caratteristica degli stessi nostri leader politici era la tendenza al personalismo e alla
scontrosità. Tra loro non mancava certo il dialogo e il confronto, ma spesso subentravano
atteggiamenti pregiudiziali che portavano a una difficoltà nei rapporti. In genere erano
manifestazioni banali, come quando a me accadeva di essere in compagnia di Lucio ed Eliseo i
quali, però, dopo aver tra di loro bisticciato, non si parlavano direttamente e mentre eravamo seduti
tutti e tre allo stesso tavolo, uno si rivolgeva a me affinché riferissi all’altro quel che poi esprimeva
a voce alta. Era come assistere a un gioco da bambini.
In alcune circostanze però, purtroppo, questi comportamenti hanno contribuito a determinare
incomprensioni e scontri che si sono rivelati letali per il movimento e per la causa. Una di queste si
è verificata, anni dopo, al congresso del partito a Viareggio, quando è stata sancita la rottura tra il
giornale e il movimento.
15. Il travaglio dei processi di unificazione e di scissione
Allorquando Milani è stato in condizioni di recuperare la sua autonomia e riprendere il suo ruolo di
sempre, io ero pronto a rientrare a Bergamo. Poiché, però, nel frattempo la funzione che avevo
prima di recarmi a Roma era stata assunta egregiamente da un altro compagno, il gruppo dirigente
mi ha proposto di occuparmi del partito a livello lombardo: a quel tempo un coordinamento
regionale non esisteva e, considerate le prospettive di unificazione con altri gruppi della “nuova”
sinistra, la sua istituzione era una necessità.
Verso la metà degli anni ’70, in rapporto al quadro nazionale, il movimento del “manifesto” in
Lombardia vantava una presenza discreta che, però, aveva il difetto di essere distribuita a macchie
di leopardo. Esistevano diversi centri diffusi sul territorio solo nelle province di Bergamo e Milano.
Oltre alle organizzazioni cittadine, nelle periferie del Bresciano, del Comasco, del Pavese e del
Varesotto erano presenti solo alcuni nuclei di militanti. Nelle province di Cremona, Mantova e
Sondrio, invece, i pochi iscritti erano prevalentemente concentrati nei capoluoghi.
Si poneva dunque una doppia esigenza: anzitutto quella di rafforzare ed estendere sul territorio la
struttura organizzativa, poi occorreva garantire e intensificare l’iniziativa politica anche laddove
non eravamo organizzati.
La prima sede milanese era situata in via San Gottardo, a pochi passi da Porta Ticinese. Lo spazio
disponibile era scarso, perciò ci siamo organizzati in modo tale da conciliare la convocazione delle
riunioni regionali con quelle cittadine e provinciali le quali ovviamente erano più frequenti. Per
ragioni di disponibilità d’orario, i compagni delle province venivano tendenzialmente convocati nel
tardo pomeriggio, pertanto le riunioni duravano spesso fino a sera inoltrata, quando cioè diventava
quasi impossibile trovare un locale pubblico per ristorarci.
A un centinaio di metri dalla sede vi era un night club con il cui gestore avevamo stabilito buoni
rapporti ed eccezionalmente, quando ne avevamo bisogno, egli ci concedeva l’accesso a un piccolo
vano riservato e quindi la possibilità di consumare in sede appartata qualche panino. Quel locale era
frequentato anche da altri politici milanesi la cui presenza, però, non era dettata da esigenze
identiche alle nostre. Un cameriere che ci aveva in simpatia, una sera ci ha informati che era
presente nel night un gruppo di esponenti di un altro partito, i quali erano di casa, e ci confidò con
molta discrezione che essi non disdegnavano far uso di sostanze allucinogene. Tra di loro vi era
anche un politico che anni dopo sarebbe diventato un potente leader il quale, in occasione
dell’approvazione dei provvedimenti legislativi contro il dilagare delle tossicodipendenze, ha
sostenuto in maniera intransigente la tesi dell’incarcerazione anche di chi faceva semplicemente uso
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di spinelli. Quella è stata per me un’altra testimonianza degli effetti deleteri che la boria determinata
dal potere è destinata a provocare anche su politici che hanno giurato fedeltà ai principi del
socialismo.
Per tutta una prima fase del mio nuovo incarico, ho viaggiato sul territorio lombardo come una
trottola, impegnato a costruire un legame tra le presenze sparse di militanti e a consolidare la loro
iniziativa politica. Nonostante le adesioni al “manifesto” non fossero numerose e la nostra capacità
d’incidenza sull’opinione pubblica fosse limitata, laddove riuscivamo ad argomentare il nostro
programma politico riscuotevamo consensi. Tra le attestazioni più emblematiche di quel periodo
ricordo il successo che riscuoteva la nostra linea sui contratti operai. Un esempio significativo l’ho
avuto alla Kodak di Cinisello Balsamo.
L’azienda allora occupava oltre un migliaio di persone e il consiglio di fabbrica aveva promosso
un’assemblea aperta ai rappresentanti di Pci, Psi e gruppo del “manifesto”. Poiché il socialista non
si era presentato, mi sono trovato ad avere come interlocutore solo Claudio Petruccioli, già a quel
tempo illustre dirigente del Pci. Mentre nel corso del suo intervento egli è stato oggetto di qualche
contestazione, io sono stato seguito dai presenti con grande attenzione e quando ho concluso il mio
discorso, non solo ho raccolto calorosi applausi, ma numerosi delegati e lavoratori sono venuti alla
presidenza a complimentarsi con me. L’apprezzamento è stato tale che qualche mese dopo sono
stato di nuovo invitato ad incontrarmi con il Consiglio di fabbrica. Analoghe attestazioni di
approvazione alle nostre proposte sulla contrattazione sindacale collettiva le ho avute anche all’Om-
Iveco di Brescia, alla Snia di Pavia, alla Faema di Zingonia, alla Bianchi di Treviglio e in alte
fabbriche ancora di minore entità e importanza.
Quelli sono stati anni di duro lavoro, ma di grande soddisfazione. La nostra linea politica era chiara
e coerente con lo spirito con cui avevano condotto le battaglie nel Pci.
I compagni davano dimostrazione di essere orgogliosi di appartenere al gruppo del “manifesto” ed
erano disposti a fare qualsiasi sacrificio per sostenere le lotte che avevamo ingaggiato non solo sul
piano politico-sociale, ma anche su quello etico-culturale. Eravamo esclusi dal Parlamento, ma
avevamo una presa su un parte delle avanguardie sociali e un credito intellettuale che compensava
ampiamente i nostri sforzi.
Era vivo in noi uno spirito di riflessione e di ricerca che raramente a me è capitato di avvertire in
tempi successivi. La critica e l’autocritica erano requisiti fondamentali del nostro agire. Il “fare
politica” significava pensare, essere ansiosi di apprendere e capire, vivere il confronto come pratica
irrinunciabile, essere creativi e mai soddisfatti dei risultati conseguiti. La politica come calcolo delle
opportunità ci era completamente estranea.
E questo modo di essere era tipico della gran parte dei nostri militanti.
Ricordo ancora il lungo dialogo che una sera ho avuto con il compagno Sandro Comaschi il quale,
essendo originario dell’Oltrepò Pavese, mi accompagnava spesso alle riunioni dei compagni di
quella provincia. Egli era un commercialista e lavorava in uno degli studi più noti di Milano. La sua
condizione di subalterno gli imponeva di fare quel che comandava il suo datore di lavoro. In quella
occasione mi ha confidato di essere in profonda crisi. Si chiedeva che senso avesse venire come me
la sera a discutere di rivoluzione, quando di giorno era costretto a mettere il suo sapere al servizio di
contribuenti che avevano come obiettivo principale quello di evadere il fisco. Mi ha raccontato che
qualche ora prima, nel compilare la denuncia dei redditi di un imprenditore aveva fatto risparmiare
a questo suo cliente ben duecento milioni di lire di imposta, sottraendoli così allo Stato, cioè ai
bisogni collettivi. E lo aveva fatto attraverso il raggiro delle normative. Per essersi reso complice di
quella truffa, si struggeva. Quello che Sandro viveva interiormente era un conflitto politico e morale
che non riusciva più a gestire. Poco tempo dopo, infatti, egli ha fatto dei debiti e ha aperto un ufficio
per conto suo.
Quello di Comaschi è solo uno dei tanti esempi di come molti compagni del gruppo del
“manifesto”, a quell’epoca, vivevano la loro militanza politica.
Noi funzionari, in particolare, eravamo soggetti a condizioni di vita per nulla invidiabili. Chi era
membro del gruppo dirigente nazionale, ad ogni sua convocazione era obbligato ad affrontare
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indescrivibili trasferte. Si viaggiava la notte in quattro o cinque su automobili che non sempre erano
affidabili. Una volta siamo addirittura rimasti senza benzina in autostrada per scarsità di denaro. Si
guidava a turno, spesso stanchi e dopo aver assolto i quotidiani impegni politici, con il rischio di
addormentarsi al volante. Quando si riusciva ad avere il biglietto dai parlamentari per viaggiare in
treno (questo fu possibile nel periodo precedente le elezioni politiche del ’72 e negli anni successivi
al ’76), per poterlo utilizzare più volte cancellavamo con la scolorina i nomi e i viaggi precedenti e
lo utilizzavamo fino all’impossibile, rischiando così di essere denunciati per truffa a danno delle
Ferrovie dello Stato. E solo poche volte potevamo permetterci di prenotare la cuccetta, perché in
genere si viaggiava seduti, magari su carrozze di legno, e qualche volta anche in piedi, per l’intero
tragitto Milano-Roma e viceversa.
Si può immaginare quanta lucidità di mente potevamo avere alle riunioni dopo quelle disastrose
condizioni di viaggio. Non una sola volta mi è capitato di sentirmi dire dai compagni che del mio
intervento non si era compreso nulla.
Fino a quando siamo sopravissuti come gruppo autonomo, cioè fino al momento della nostra
confluenza nel Pci, questa è stata la nostra condizione materiale di “rivoluzionari di professione”,
anche se nel corso degli anni si è verificato un qualche miglioramento.
Sul piano della tensione politica ed etica, invece, le cose hanno subito un cambiamento a partire dal
momento in cui, verso la metà degli anni ’70, hanno avuto inizio i processi di unificazione con gli
altri gruppi della “nuova” sinistra.
L’ultima campagna politica nella quale ci siamo trovati nella condizione di esprimere senza alcun
compromesso i nostri orientamenti politici e la nostra visione del mondo, credo sia stata quella sul
divorzio. A quel tempo contavamo su una significativa presenza di compagne che avevano sposato
la causa del femminismo e sui temi etici e morali al nostro interno si era aperta un’interessante
riflessione. E questo nostro essere in permanente ricerca non impediva che il dialogo con le punte
avanzate del mondo cattolico avesse svolgimento. In occasione del referendum per l’abrogazione
della legge sul divorzio, voluto testardamente dai democristiani, ho scorazzato per il territorio
lombardo in difesa di quel provvedimento in compagnia addirittura di un monsignore: Franco
Servetti, parroco di un paesino delle Langhe piemontesi, che in gioventù era stato uno dei
responsabili dei seminari vescovili d’Italia, poi degradato e segregato dalle gerarchie ecclesiastiche
perché il suo comportamento era considerato trasgressivo delle regole canoniche. In effetti, dei
precetti sacerdotali aveva una considerazione labile. La sera in cui l’ho incontrato per la prima
volta, ho avuto modo di costatare che egli era ospite in casa di una monaca insegnante di Bergamo
con la quale era legato sentimentalmente da tempo. Costituivano una coppia simpaticissima. Ligio
difensore del messaggio evangelico, era libertino nei rapporti umani e, politicamente orientato a
sinistra, vantava una mentalità aperta. Con lui ho mantenuto cordiali rapporti per lungo tempo e in
occasione del referendum contro l’aborto, nell’81, ho avuto di nuovo occasione di averlo compagno
in diversi comizi. Nel corso degli anni, di sacerdoti di quella sorta mi è capitato di conoscerne
diversi.
L’operazione voluta dalla maggioranza del gruppo dirigente di procedere alla costituzione del Pdup
per il comunismo, tramite l’apparentamento con i compagni del Partito di unità proletaria e
successivamente di una parte di quelli di Avanguardia operaia e del Movimento lavoratori per il
socialismo, non aveva convinto tutti, anche perché le ragioni politiche avevano prevalso sul diffuso
bisogno di ricerca, di sperimentazione e di libero dibattito. La stessa presentazione alle elezioni
regionali del ’75, sotto la sigla di “Democrazia proletaria”, aveva suscitato dissensi e malumori.
Non è un caso che proprio a partire da quelle scelte, il rapporto tra i compagni che gestivano il
quotidiano e quelli che erano a capo del movimento si è venuto incrinando.
L’opportunità di questo processo di unificazione consisteva soprattutto nel riunire le forze per avere
maggior peso sulla scena politica e per conseguire una più larga rappresentanza istituzionale che il
procedere separato di ogni formazione non avrebbe garantito. L’assemblare però compagni di
diversa estrazione politico-culturale, le cui esperienze e tradizioni erano differenti, non equivaleva a
dare automaticamente vita a un soggetto unico e monolitico. Per ottenere un risultato del genere
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occorreva tempo e ferma volontà dei protagonisti e non solo dei loro delegati. Non bastava cioè un
imprimatur dei gruppi dirigenti, ma occorreva il convincimento e l’azione conseguente dei rispettivi
militanti di base. E purtroppo questi requisiti non sussistevano perché non tutti i protagonisti
dell’una e dell’altra parte erano convinti che quella fosse la giusta soluzione. Nei fatti, e per la
stragrande maggioranza dei compagni di ognuna delle componenti in gioco, la sfida è risultata
essere quella di esercitare la propria egemonia sugli altri.
Durante la campagna elettorale per le regionali e amministrative del ’75, ogni formazione politica
aderente al cartello “Dp” si è infatti mobilitata per conseguire l’elezione dei propri candidati dando
così vita a una contesa degna delle più feroci pratiche democristiane.
In occasione di un congresso a Bologna, mi è capitato persino di avere una vivace discussione
polemica con Vittorio Foa a riguardo della composizione degli organismi direttivi, nel mentre uno
accanto all’altro eravamo al vespasiano.
Lo stesso processo di unificazione tra “manifesto” e Pdup, infatti, è stato caratterizzato da continue
competizioni intestine tali da rendere impossibile quella osmosi necessaria a ogni formazione
politica per presentarsi alla società civile in modo compatto e convincente.
Ho trascorso quegli anni portando dentro di me un grande imbarazzo, soprattutto perché il mio
operare quotidiano non risultava affatto in sintonia con le mie convinzioni politiche. Il mio dovere
di dirigente era quello di convincere i compagni della giustezza della scelta unitaria che era stata
compiuta e ciò mi induceva a mentire con loro e con me stesso.
A seguito dei processi di unificazione e di scissione che hanno caratterizzato la vita del movimento
di quegli anni, la sede del regionale lombardo ha traslocato da via S. Gottardo
a via Pasteur, successivamente si è trasferita in via Valtellina, tra lo scalo Farini e la stazione
Garibaldi, e, infine, in piazza Santo Stefano, tra l’Università Statale e Piazza Fontana, sede che
originariamente era stata del Movimento studentesco.
A ogni cambio di sede corrispondeva un mutamento della composizione degli organismi dirigenti, il
che per certi aspetti comportava un arricchimento di esperienze, per altri invece significava un
incremento delle conflittualità politiche e richiedeva una sempre maggiore capacità di mediazione e
di sopportazione.
E quando una formazione politica è costretta a spendere le sue energie in simili pratiche, non può
certo pretendere di avere un largo consenso e un grande futuro davanti a sé.
16. L’impegno a favore degli emigrati all’estero
Nei primi anni ’70, in Svizzera, il partito di Alleanza nazionale guidato da James Schwarzenbach ha
promosso una serie di referendum popolari contro la presenza degli immigrati. Verso la metà del
decennio, Rossana Rossanda mi ha pregato di recarmi in quel Paese per fare dei servizi per il
quotidiano sull’esito di una di quelle consultazioni. Avendo una zia emigrata e sposata nel Canton
Thurgau, con parentele in Ticino e nella Svizzera francese, conoscevo un poco il territorio elvetico
per aver fatto loro visita più volte, perciò ho accettato l’incarico di buon grado. Ha avuto così inizio
la mia esperienza politica sull’emigrazione, un impegno che seppure in modo saltuario ho
mantenuto fino alla fine del decennio.
I primi contatti con il mondo degli emigrati li ho avuti con un gruppo di italiani residenti a Zurigo i
quali facevano riferimento alle formazioni politiche extraparlamentari, ma avevano un rapporto
positivo anche con le Colonie Libere e con i rappresentanti dei partiti storici della sinistra italiana.
Questi compagni gestivano un collettivo teatrale e la loro collaborazione mi è risultata preziosa
anche per entrare in contatto con alcune formazioni della “nuova” sinistra elvetica.
Quel primo impatto politico-giornalistico, mi ha permesso di visitare i sobborghi della città più
industrializzata della Federazione elvetica e intervistare alcuni rappresentanti istituzionali elvetici,
nonché alcuni lavoratori immigrati di diverse nazionalità. Ho avuto anche il piacere di incrociare
per la strada il dissidente sovietico Aleksandr Solzenitzyn il quale, in quel periodo, dimorava a
Zurigo.
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Successivamente, ho partecipato in più circostanze alle iniziative delle Colonie Libere e ho avuto
l’occasione di incontrarmi con Giuliano Pajetta, a quel tempo responsabile del lavoro
sull’emigrazione del Pci, e con lo scrittore, nonché dirigente storico comunista, Paolo Cinanni, con
il quale ho poi mantenuto per anni un affettuoso rapporto di amicizia.
A Ginevra, invece, avevo come referente un gruppo di compagni di orientamento di sinistra
extraparlamentare, senza peraltro essere legati ad alcuna formazione partitica. Nella Svizzera
italiana avevo stabilito ottimi rapporti con il Psa, un gruppo di compagni che si era staccato dal
Partito socialista svizzero e faceva riferimento all’insieme della “nuova” sinistra italiana.
Negli anni ’70, in Italia, il bilancio fra immigrati ed emigrati era ancora a favore di quest’ultima
categoria. La presenza di stranieri nel nostro Paese era molto esigua, mentre quella dei lavoratori
italiani emigrati nei Paesi dell’Europa del Nord era ancora consistente. Per questa ragione
l’interesse dei politici per il fenomeno migratorio era elevato, soprattutto in funzione elettorale.
Poiché ero l’unico compagno del “manifesto” che si occupava del lavoro italiano all’estero, in più
circostanze ho avuto l’incarico dalla direzione di rappresentare il partito nei vari convegni
sull’emigrazione che venivano promossi con una certa frequenza. Ricordo di essere stato presente ai
convegni nazionali di Napoli, di Torino e di Venezia e di avere conosciuto in quelle occasioni
parecchi compagni emigranti, nonché i dirigenti dei vari partiti politici responsabili di quel settore
di lavoro.
Un rapporto di reciproca stima l’ho stabilito con il socialista Sergio Moroni che a quel tempo era
assessore regionale al lavoro della Lombardia e sul problema dell’emigrazione aveva mostrato
attenzione e impegno. Lo avevo conosciuto anni prima a Brescia in una strana circostanza.
In occasione di una campagna elettorale, mi era stato programmato un comizio fuori dai cancelli
dell’OM-Iveco, negli orari di entrata dei lavoratori del turno pomeridiano-serale e di uscita di quelli
che avevano iniziato il lavoro al mattino presto. Mentre con i compagni stavo piazzando l’impianto
di amplificazione, è sopraggiunto sul posto il camioncino elettorale del Psi. A differenza di noi che
disponevamo di mezzi rudimentali, il partito di Craxi era attrezzato di apparecchiature elettroniche
moderne. A bordo del mezzo vi era anche Moroni che, avvicinatosi, mi fece notare che anche per
lui era stato preannunciato il comizio proprio a quell’ora e pertanto appariva ragionevole distribuirci
il tempo. Di fronte al rischio di una contesa che sarebbe stata dannosa per entrambi, ho avuto
l’intuizione di avanzargli la proposta di svolgere il comizio a due voci, invitando i lavoratori
presenti a porci delle domande alle quali noi avremmo risposto a turno. Egli ha trovato l’idea
interessante e ha accettato di buon grado di sperimentare quel modo nuovo e singolare di fare
campagna elettorale. E’ così successo che, davanti ad alcune centinaia di operai e impiegati della
Om, abbiamo dato vita a un originale comizio, con soddisfazione sia nostra che di chi ci ha
ascoltato. Da quel giorno tra noi due è iniziato un rapporto di simpatia che è durato qualche anno.
Tanto è vero che in occasione della Conferenza sull’emigrazione promossa dalle Regioni italiane,
egli ha insistito perché assicurassi la mia presenza e il mio contributo. Considerava le mie analisi e
le mie proposte interessanti; soprattutto apprezzava la richiesta ai governi dei Paesi ospitanti di
concedere il voto ai lavoratori immigrati.
Al convegno che si è svolto a Venezia, ha voluto che a pranzo sedessi al tavolo accanto a lui e al
quale trovavano posto, tra gli altri, Carlo Ripa di Meana, sua moglie Marina Lante della Rovere e il
fascista Mirko Tremaglia. Quest’ultimo, avendo stretti rapporti con le dittature dell’America Latina
e con i vecchi fascisti residenti in quei Paesi, godeva di un notevole prestigio negli ambienti politici
interessati al fenomeno migratorio. Seduto a quel tavolo, sono stato costretto a sopportare discorsi
stomachevoli e per dovere d’ospitalità ho trascorso un’ora e mezza di vero supplizio.
Con Moroni ho avuto contatti fino a quando egli venne eletto al Parlamento, dopo di che l’ho perso
di vista. Entrato nell’Olimpo craxiano, è stato coinvolto in “tangentopoli” e un giorno, alla vigilia di
un’inchiesta, già malato di un tumore inguaribile, si è sparato alla gola con il fucile.
Non posso dire di averlo conosciuto a fondo per poter giudicare la sua statura morale, per quel poco
che mi è stato dato di conoscerlo, lo ritenevo una persona affabile, mite e onesta. Credo egli sia
appartenuto a quella schiera di uomini politici che, dopo essersi prestati a rastrellare risorse
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finanziarie non per se stessi ma per il proprio partito, sono stati abbandonati da amici e compagni a
un destino di disperazione.
Dopo due anni di contatti con gli immigrati italiani in Svizzera, avevo accumulato una serie di
documenti e di riflessioni sulla loro condizione di lavoro e di vita che, a giudizio di Rossana
Rossanda e di Valentino Parlato, avrebbe potuto rappresentare materiale utile per una pubblicazione
divulgativa. Dietro loro sollecitazione ho interpellato l’editore Franco Alfani il quale ha ritenuto
fosse il caso di ricavarne un libro. E’ così che ho fatto esordio come pubblicista.
Da quando quelle mie note sono state pubblicate, ogni qual volta mi capitava di recarmi in territorio
elvetico, dovevo fare i conti con dei piccoli ostacoli: alla frontiera, soprattutto quando viaggiavo in
treno, mi venivano ritirati i documenti di identità per qualche minuto; trasferendomi da una città
all’altra ho avuto spesso l’impressione di essere sorvegliato dalla polizia degli stranieri che a quel
tempo era molto severa ed efficiente. Qualche anno prima, era accaduto che un compagno del Pci,
che organizzava riunioni di immigrati italiani, è stato espulso dal territorio elvetico e ricondotto alla
frontiera italiana con l’accusa di aver turbato l’ordine pubblico. Per un certo periodo ho temuto che
una sorte del genere capitasse anche a me. Ad alimentare quel sospetto concorreva un altro
episodio. Dopo che anni prima ne avevo fatto richiesta, ogni mese ricevevo puntualmente il
bollettino delle società bancarie svizzere che mi era prezioso per conoscere l’andamento
dell’economia di quel Paese. Dopo la pubblicazione del libro quella rivista non mi venne mai più
inviata.
A un tratto mi sono deciso di non usare più il treno, ma di attraversare la frontiera in automobile e
da quel momento non ho più avuto motivo di sentirmi controllato. Tant’è che, convinto di non
essere più sorvegliato, ho avuto l’ardire di affrontare una vicenda molto rischiosa.
Eravamo in uno dei periodi in cui le finanze del quotidiano “il manifesto”, oltre a quelle del
movimento, languivano. Da mesi i compagni della redazione non prendevano il regolare stipendio
ed erano alla ricerca di finanziamenti. Erano arrivati al punto che Rossanda, un mattino, si è
presentata in sede con gli ori di famiglia (anelli, collane, catenine, ecc. di sua madre e sua nonna)
perché venissero portati al Monte dei pegni.
Un giorno la stessa Rossanda mi ha telefonato chiedendomi se per favore potevo fare un salto a
Ginevra. Lei aveva tanti amici in Francia tra cui persone del mondo dello spettacolo come Yves
Montand, Simone Signoret, nonché una regista cinematografica di cui mi sfugge il nome. Mi disse
che questi suoi amici avevano messo insieme una somma di 25 mila franchi svizzeri da destinare
come prestito al giornale e che il denaro era depositato presso un’agenzia finanziaria di Ginevra. Mi
ha pregato di andarli a ritirare e di portarli a Roma. A bella prima le ho suggerito di rivolgersi a
Gianni Montani, il corrispondente del quotidiano della redazione di Torino, il quale avrebbe
sicuramente fatto prima di me a raggiungere Ginevra. Ma lei ha insistito perché ci andassi io.
Venti giorni prima, la stampa aveva dato notizia dell’arresto di un sindacalista della Uil che a
Chiasso attraversava la frontiera con una somma di denaro non denunciata. Oltre al fatto che io
avevo i precedenti con la polizia degli stranieri, mi preoccupava l’eventualità che mi fermassero con
i soldi addosso, non solo per le ovvie conseguenze personali, ma anche perché ero membro del
direttivo nazionale del “manifesto” e ciò avrebbe causato sicuramente uno scandalo politico.
Considerate però l’insistenza di Rossanda e la condizione finanziaria disperata dei compagni della
redazione, ho superato le riserve e ho deciso di recarmi a Ginevra il giorno appresso.
Poiché viaggiavo con un’automobile scassata (solo una volta nella mia vita ho posseduto
un’automobile nuova, una Fiat 500, per il resto ho sempre viaggiato su automobili usate), ho
considerato opportuno rimediare anzitutto un mezzo di trasporto più sicuro e veloce. Mi sono perciò
rivolto a Beppe Belotti, il compagno bancario, il quale possedeva una “Giulietta” Alfa Romeo e gli
ho chiesto se me l’avrebbe concessa in prestito per quel viaggio. Non solo egli ha acconsentito alla
mia richiesta, ma si è addirittura proposto di accompagnarmi. Il giorno dopo siamo partiti per
Ginevra.
Il titolare dell’agenzia era stato avvisato del mio arrivo e quando abbiamo raggiunto il suo ufficio,
espletati i convenevoli, egli si fece portare dalla segretaria un plico che poi ha aperto sotto i nostri
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occhi riversando il contenuto sul tavolo. Dentro vi erano alcune mazzette di denaro alla cui vista io
ebbi un sobbalzo: non si trattava di franchi svizzeri, come mi aveva riferito Rossanda, ma di dollari.
Allora il valore della moneta americana era tre volte superiore del franco svizzero. Non ho detto
nulla al riguardo, ho chiesto solo l’entità della somma, e l’intermediario mi ha confermato che si
trattava di 25 mila dollari. Mi ha fatto firmare una ricevuta e mi ha consegnato il plico. Prima che ci
congedassimo ci ha chiesto come avremmo fatto a trasferirli oltre frontiera, rammentandoci che le
leggi al riguardo erano severissime. Gli abbiamo spiegato che li avremmo portati noi stessi e che nel
caso fossimo stati scoperti, non avremmo rivelato nel modo più assoluto la loro provenienza.
Usciti da quell’ufficio abbiamo frettolosamente raggiunto l’automobile e abbiamo imboccato
velocemente la via del ritorno. Giunti nei pressi della dogana tra la Svizzera e la Francia, mi sono
infilato le mazzette tra la camicia e la canottiera, assicurandomi che fossero aderenti al corpo e che
sotto la giacca non apparissero rigonfiamenti sospetti. Abbiamo attraversato senza problemi la
frontiera tra la Svizzera e la Francia e poi anche quella tra la Francia e l’Italia e indisturbati ci siamo
diretti a Bergamo. Raggiunta la sede del “manifesto”, per telefono, ho informato Rossanda della
missione compiuta e le ho comunicato che non si trattava di 25 mila franchi svizzeri, bensì di 25
mila dollari. Dopo aver esultato sia per il buon andamento della missione che per l’inattesa entità
della somma, mi ha invitato a raggiungere Roma all’indomani stesso suggerendomi di prendere
l’aereo.
Quando la sera sono rientrato a casa, ho mostrato ai miei figli quel mucchio di soldi invitandoli a
toccarli con mano, giacché nella loro vita, supponevo, non ne avrebbero mai visti così tanti tutti
assieme.
Il mattino successivo, giunto nella sede romana de “il manifesto”, sono stato accolto con baci e
abbracci. Venivo così ripagato del rischio che avevo corso.
Nei mesi e negli anni successivi, il mio impegno sul fronte dell’emigrazione si è allargato ad altri
Paesi europei. Nella fase di unificazione con il Pdup, alla direzione di Roma era giunta una strana
richiesta: un’associazione di lavoratori emigrati in Belgio aveva fatto sapere di voler aderire alla
nostra formazione politica e chiedeva l’invio di 900 tessere. Si tenga presente che a quel tempo gli
iscritti complessivi dei due movimenti (gruppo del “manifesto” e Pdup) superavano a mala pena, a
livello nazionale, le diecimila unità. Poiché tale richiesta appariva strumentale, e per nulla
compatibile con la prassi da noi seguita, Magri mi ha incaricato di recarmi in Belgio per verificare
la situazione e scoprire chi fossero quei richiedenti e quali intendimenti avessero.
Ho colto l’occasione di quel viaggio per incontrarmi con alcuni nostri compagni di Strasburgo e con
una compagna che lavorava alla Comunità economica europea. Giunto nel capoluogo belga ho poi
raggiunto La Louvière, il centro industriale in cui aveva sede l’associazione di emigranti che aveva
chiesto le tessere. L’impatto con questa comunità è stato impressionante. Quando sono arrivato a
destinazione sono stato condotto in un salone gremito di persone. Invitato a prendere posto alla
presidenza, sono stato presentato come il compagno che era stato inviato dal centro di Roma, dopo
di che davanti alla mia postazione si è formata in modo sorprendente una fila di una trentina
persone che in piedi hanno sostato in attesa di poter prendere posto, a turno, su una sedia che era
stata posta davanti a me per espormi i loro casi. Si trattava di persone che avevano in corso annose
richieste di pensionamento e di assistenza e vertenze di lavoro o che avevano problemi familiari e di
proprietà abitativa. Molte di loro avevano esposto, già tempo addietro, i loro casi a parlamentari dei
partiti storici della sinistra, ma da questi non avevano mai avuto notizia dello stato delle loro
richieste e delle vertenze che supponevano fossero state aperte a livello istituzionale. A me veniva
rivolto l’invito di accertare, attraverso il gruppo parlamentare, il destino di queste loro vertenze e di
sollecitarne la soluzione.
Quella presenza è stata per me un’esperienza penosa, che mi ha profondamente scioccato e aperto
uno squarcio su un aspetto della condizione migratoria che non conoscevo. Dopo due e più ore di
quell’uditorio, avevo accumulato così tanta documentazione per i nostri parlamentari, da non poter
essere contenuta nella valigetta che portavo con me, perciò dovetti confezionare un plico a parte.
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Si trattava di un’associazione di emigranti calabresi residenti ormai da tempo con le loro famiglie in
Belgio. Associati prima al Psi, poi al Psiup e infine al Pdup, i suoi dirigenti chiedevano di avere il
nostro patrocinio. Tra l’altro, essi gestivano uno strano traffico di generi alimentari provenienti
dalla regione d’origine e verso i loro associati, più che vantare un rapporto politico, mantenevano
una relazione commerciale. Il partito, evidentemente, serviva loro come copertura e referente
politico-assistenziale.
In quei due giorni di permanenza a La Louvière, non ho avuto modo di discutere di politica, ma solo
di emergenze assistenziali e a fatica sono riuscito a farmi accompagnare a Marcinelle, che era
distante solo pochi chilometri, per rendere omaggio ai lavoratori periti nella tragedia della miniera.
Quando sono rientrato a Roma ho consegnato al gruppo parlamentare le richieste di quei poveracci,
come avevo promesso. Ma anche dai miei compagni deputati non ho più avuto modo di sapere
quale sorte fosse stata riservata alle loro istanze.
L’impegno che avevo profuso nell’affrontare i problemi dei lavoratori emigrati ha convinto i
compagni del gruppo dirigente a considerarmi un possibile supplente in situazioni di emergenza,
cioè nei casi in cui loro erano invitati a partecipare a manifestazioni all’estero, ma non erano in
condizioni di onorare gli impegni assunti.
Nel ’79, a Saint-Etienne ha avuto svolgimento il congresso del Partito socialista unificato francese e
a rappresentare il “manifesto” era stata designata Luciana Castellina. All’ultimo momento, però, un
impegno parlamentare l’ha trattenuta a Roma e così è stato chiesto a me di sostituirla. Come al
solito, la richiesta mi è stata avanzata poche ore prima dell’evento, quando cioè il dichiararsi non
disponibile avrebbe significato compromettere la presenza a quell’importante appuntamento e
rischiare di essere considerato irresponsabile. Proprio per non rischiare di essere ritenuto tale , ho
fatto le valige in quattro e quattr’otto e sono partito.
Arrivato sul posto, sono stato accolto dai compagni francesi con entusiasmo insperato. Sono stato
ripreso dalla tv e fotografato dai reporter di alcune testate.
Il mio francese era stentato, appena sufficiente a farmi intendere per i bisogni essenziali, perciò ho
fatto una fatica titanica a interpretare il senso della relazione e degli interventi che ne erano seguiti.
Conclusi i lavori della prima giornata, sono stato informato che per il giorno successivo avrebbero
dedicato una frazione di tempo al mio intervento. A quella notizia sono stato assalito dal panico.
Luciana non mi aveva avvertito che avrei dovuto intervenire. Ho trascorso la sera e metà della notte
a ravvivare le mie reminiscenze scolastiche per stendere l’intervento che avrei svolto in lingua
francese. Al mattino, in stato ancora assonnato, e con una paura tremenda di fare cattiva figura, ho
preso la parola di fronte a un’assemblea attenta, silenziosa e curiosa di ascoltare il saluto di un
compagno italiano. Inaspettatamente, il mio intervento è stato accolto da scroscianti applausi: il mio
francese impacciato aveva conquistato la platea. L’effetto sui presenti è stato tale che due giorni
dopo, Luciana mi ha telefonato per complimentarsi e per chiedermi cosa avevo mai fatto per
ingraziarmi quella platea.
Il pomeriggio del giorno stesso in cui sono intervenuto, ho lasciato Saint-Etienne per rientrare in
Italia, e sinceramente l’ho fatto a malincuore. Oltre a essermi investito della parte, mi ero convinto
che se fossi rimasto ancora qualche giorno avrei di certo migliorato di molto la mia conoscenza
della lingua d’oltralpe.
Qualche tempo dopo, ancora la compagna Castellina, mi ha chiesto di sostituirla in un viaggio in
Mauritania per presenziare al suo posto a un congresso del Fronte Polisario. Quel viaggio lo avrei
fatto molto volentieri, ma sfortunatamente non avevo il passaporto in ordine. Ho così perso
l’occasione per conoscere un angolo del continente africano.
17. Gli anni delle sofferenze
Gli ultimi anni ’70 e i primi ’80 hanno costituito per me un periodo di emozioni forti dalla valenza
alterna: a momenti di soddisfazione si sono accompagnati momenti dolorosi, traumatici.
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Oltre all’impegno come coordinatore regionale, che richiedeva una presenza costante sul territorio,
in specie nelle realtà più deboli, mi era capitato anche di dover intervenire fuori dai confini della
Lombardia, sia per ragioni di organizzazione di partito che per presenziare a iniziative pubbliche ed
essere da supporto ai compagni dell’apparato centrale.
Tra il ’78 e il ’79 ho partecipato a due campagne elettorali e a una referendaria, precisamente alle
elezioni provinciali nel Pavese, alle regionali in Sardegna e alla campagna per l’abolizione del
finanziamento pubblico dei partiti.
In quel periodo, il movimento del “manifesto” stava vivendo una fase tormentata. Oltre al clima
pesante che si era determinato durante gli “anni di piombo”, il quale rendeva difficile la vita a un
movimento come il nostro, nel gruppo dirigente incominciavano ad emergere dissidi e
incomprensioni. Le incertezze sul futuro sono state tali da indurre gli organizzatori a rinunciare alla
tradizionale campagna di tesseramento. In Lombardia abbiamo riparato a questa inadempienza del
centro stampando tessere per uso locale e questa nostra iniziativa ha riscosso un apprezzamento tale
da venire imitata da alcune organizzazioni di altre regioni.
Eppure, un tale clima di sfiducia e di irresolutezza, a mio avviso, non era affatto giustificato.
Nonostante i tempi difficili, e la confusione politica, tra i militanti di sinistra impegnati nelle
fabbriche, nelle scuole, nei quartieri, noi godevamo ancora di un discreto credito.
Nella campagna referendaria contro il finanziamento pubblico dei partiti promossa dai radicali, per
esempio, noi avevamo avanzato delle proposte alternative che avevano trovato largo consenso in
quella parte dell’opinione pubblica che era sensibile alle questioni politiche.
Ricordo di aver partecipato, tra le tante manifestazioni promosse nel corso di quella campagna
referendaria, a un’assemblea dei lavoratori della Pavesi di Novara. Il consiglio di quella fabbrica
aveva invitato i rappresentati dei partiti di sinistra affinché esponessero le loro posizioni sulla
questione, considerato che i propositi erano contrastanti. Ci eravamo presentati in tre: un compagno
del Psi, Lucio Libertini del Pci ed io. A presiedere il confronto era Pio Galli, allora membro della
segreteria Cgil e futuro segretario generale della Fiom. L’iniziativa si svolgeva nel salone della
mensa aziendale e si articolava in due sessioni: una al mattino con i lavoratori del primo turno,
l’altra nel pomeriggio con quelli del secondo turno. La sala era gremita di lavoratori attenti, anche
perché era in corso una vertenza sindacale sulla riduzione degli organici e per una parte di loro si
prospettava il ricorso alla cassa integrazione. Il tema della destinazione delle risorse pubbliche era
dunque motivo di grande interesse.
Io ho preso la parola dopo che erano intervenuti gli altri oratori e il fatto di essere l’ultimo a
intervenire ha costituito per me un vantaggio. Oltre a spiegare la posizione del “manifesto”, che
consisteva nell’abolizione del finanziamento pubblico e la sua sostituzione con la messa a
disposizione dei partiti, da parte dello Stato, di servizi e di agevolazioni per l’attività da loro svolta,
ovviamente dietro severi controlli, avevo dimostrato punto per punto l’ambiguità delle proposizioni
sia del Psi, che pure era per l’abolizione, che del Pci il quale invece continuava a essere convinto
della necessità di un sostegno finanziario dello Stato. La mia esposizione ha visibilmente convinto
una larga parte dei lavoratori presenti molti dei quali mi hanno testimoniato personalmente il loro
consenso.
Conclusi i lavori, mentre stavamo pranzando, mi si è avvicinato Pio Galli per riferirmi che Libertini
se l’era presa con me per il modo in cui avevo criticato la linea del Pci e che se avessi persistito
nella mia polemica, egli avrebbe abbandonato senza indugio l’assemblea. Pertanto venivo invitato a
essere meno ostile nei suoi confronti quando avrei svolto il mio secondo intervento. Ripreso il
dibattito, mi è stata data la parola per primo. Io non ho rinunciato alla chiarezza delle mie posizioni,
però mi sono limitato nella polemica verso la posizione del “no” assunta dal Partito comunista.
Dalla minore intensità di applausi che ho riscosso durante quella mia seconda esposizione, mi sono
reso conto di aver concesso all’illustre rappresentante del Pci una tregua che forse non meritava. E
me ne sono pentito. A consolarmi è stato poi l’esito del referendum che ha dato ragione alle tesi di
chi era per l’abolizione. Come è risaputo, i partiti poi non hanno voluto tener conto di quel
pronunciamento e si sono prodigati per trovare la maniera di raggirare l’ostacolo e continuare a
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beneficiare del denaro pubblico fino al punto di indurre larga parte dell’opinione pubblica a credere
che l’intero mondo della politica fosse marcio.
Quando è venuto a scadere il mandato dell’Amministrazione provinciale di Pavia, a noi del Pdup
per il comunismo si pose l’interrogativo se partecipare o meno alle elezioni. Io mi sono battuto
senza indugio per la presentazione di nostre liste. Sinceramente, avevo molti dubbi sulla possibilità
di un successo, ma oltre a credere nell’utilità di una presenza istituzionale, ero convinto che fosse
una scelta quasi obbligata per misurare il livello di consenso verso il nostro progetto politico.
C’eravamo appena separati dal Pdup e Democrazia proletaria aveva deciso di presentarsi. Non solo
la preoccupazione di non lasciare campo libero a questa formazione, ma la stessa curiosità di
conoscere il livello di consenso che l’elettorato ci riservava, mi avevano convinto dell’opportunità
di una nostra presentazione. Per di più, eravamo alla vigilia delle elezioni europee e di quelle
regionali e amministrative e mi pareva saggio sondare gli umori dell’elettorato per avere
un’indicazione sulle scelte che saremmo stati obbligati a compiere di fronte a quelle scadenze.
Sul territorio pavese la nostra consistenza organizzativa non era tale da far prevedere un buon
risultato, tanto meno era d’incoraggiamento la nostra incidenza in termini di proposta politica. Io
però ero convinto che lo stesso impegno nella campagna elettorale avrebbe contribuito a rafforzare
le nostre file e la nostra immagine. E anche se non avessimo conquistato dei seggi, e quindi
avessimo disperso voti, data la scarsa importanza dell’istituzione provinciale, un nostro insuccesso
non avrebbe rappresentato un grande guaio né per noi né per l’arco delle forze di sinistra. I
compagni si sono convinti dell’opportunità di essere presenti e si sono pronunciati per la
candidatura.
La presentazione alle elezioni ha comportato per me personalmente un impegno molto oneroso: ho
dovuto provvedere all’individuazione delle candidature nei vari collegi, alle formalità legali,
all’organizzazione della campagna elettorale, alla presenza stessa a molti dei comizi e delle
iniziative pubbliche programmate.
Una di queste presenze mi ha tormentato per parecchio tempo dopo. Un mese prima della
presentazione delle liste, a Roma era stato rapito Aldo Moro. La vicenda ha scosso tutti e
inevitabilmente ha costituito uno degli argomenti più importanti della campagna elettorale. Durante
le discussioni che si sono svolte nel nostro gruppo dirigente, io mi sono fatto un’opinione di quel
tragico rapimento che non era del tutto in sintonia con l’interpretazione degli alti compagni, tanto
meno lo era con quella dominante negli ambienti politici.
Nel corso di un comizio che, a pochi giorni dell’assassinio di Moro, tenni a Belgioioso, in un
impeto di passione politica, ho argomentato senza riserve il mio pensiero: ho cioè dichiarato che
non credevo affatto che a rapire quel personaggio politico fossero state le sole Brigate rosse,
giacché consideravo quella scelta il prodotto di una mente politica fine, non congeniale a un
movimento che praticava la lotta armata ed era abituato a individuare le sue vittime in personaggi
violenti e arroganti. Consideravo le Brigate rosse il soggetto esecutore di quell’assassinio, dietro al
quale vi si celavano dei mandanti che non sopportavano l’apertura del “palazzo” ai comunisti i
quali, a mio avviso, andavano individuati non solo negli ambienti di potere del nostro Paese, ma
anche in quelli che operavano a livello internazionale.
Al comizio era presente un maresciallo dei carabinieri il quale, durante il mio discorso, l’ho visto
prendere appunti e confabulare vivacemente con il collega che lo accompagnava. Mi sono reso
conto in quel momento che forse quel mio argomentare poteva costituire per le forze dell’ordine
materia quanto meno di chiarimento e per molti giorni successivi al comizio ho temuto che potessi
essere chiamato a dare conto di quelle mie affermazioni che, ovviamente, erano dettate da una
riflessione politica e per nulla supportate da prove. Sono trascorse invece settimane e poi mesi e,
con mia soddisfazione, nessuno si è fatto mai avanti per pretendere una qualche giustificazione di
quella mia ipotesi. Forse la mia preoccupazione era giustificata solo da un eccesso di presunzione.
Alla consultazione elettorale, purtroppo, abbiamo conseguito un risultato negativo. I voti raccolti
erano superiori ai consensi ottenuti da Democrazia proletaria, ma non erano sufficienti per garantire
una presenza in Consiglio provinciale. Poiché già in partenza le prospettive non erano rosee, anche
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la delusione è stata tale da essere presto superata. Soprattutto, le sofferenze per quel buco elettorale
non sono state tali da sconvolgere la nostra esistenza e nemmeno quella dello schieramento di
sinistra.
Così come, poco dopo, siamo sopravissuti alla mancata presentazione alle elezioni regionali in
Friuli-Venezia Giulia. Anche in questa operazione fallimentare, purtroppo, io ho avuto un ruolo di
primo piano. Quando sono scattati i termini per la presentazione delle liste, Magri mi ha chiesto di
trasferirmi per qualche giorno a Trieste in modo di dare una mano ai compagni di quella regione nel
raccogliere le firme necessarie. Oltre a me, si erano trasferiti in Vanezia Giulia anche Luciana
Castellina e Mario Catalano. Data la scarsa presenza della nostra organizzazione sul territorio, ad
aiutarci a prendere contatto con i nostri potenziali interlocutori, sono intervenuti anche il famoso
psichiatra Franco Basaglia e la moglie Franca Ongaro.
Nella corsa contro il tempo, ci siamo adoperati in tutte le maniere per convincere le persone a
sottoscrivere davanti al notaio la presentazione delle nostre liste. Abbiamo mendicato tali adesioni
postandoci davanti ai cancelli dei cantieri di Monfalcone e fuori delle grandi fabbriche, abbiamo
bussato casa per casa nei quartieri popolari di Trieste e di Udine, abbiamo messo dei banchetti
provvisori per le strade di Gorizia e di altri comuni della regione. Nonostante tutti questi sforzi,
però, non siamo riusciti a raccogliere il numero sufficiente di firme per poter presentare le liste. Io
ho abbandonato il Friuli-Venezia Giulia in preda alla delusione e alla tristezza.
Le cose sono andate meglio l’anno successivo, quando mi è stato chiesto di dare una mano ai
compagni sardi nel condurre la campagna elettorale per l’elezione del Consiglio regionale
dell’isola. La settimana precedente le elezioni ci siamo recati in quella regione in gruppo e siamo
stati distribuiti in modo tale da coprire l’intero territorio regionale. A me è stata affidata la provincia
di Cagliari dove mi sono stati programmati tre-quattro comizi al giorno, nei quartieri periferici del
capoluogo e nei paesi della provincia.
Era la prima volta che mi recavo in Sardegna e l’impressione che ho ricavato è stata decisamente
positiva. Oltre alla magnificenza dell’ambiente, mi ha colpito la simpatia, la cordialità e soprattutto
la generosità dei suoi abitanti. Data la particolarità degli usi e dei costumi sardi, mi sono chiesto
spesso quale credibilità avrebbe potuto avere ai loro occhi il discorso di un politico proveniente
dalla Lombardia.
A superare i miei dubbi ha contribuito la costatazione che in occasione di quella campagna
elettorale, l’isola era stata letteralmente invasa da parecchi rappresentanti non sardi di tutti gli altri
partiti. Il Fokker in partenza da Cagliari la sera del venerdì, ultimo giorno di campagna, e diretto a
Milano, era difatti gremito di esponenti politici, tant’è che a un certo punto ho rischiato di dover
compiere il viaggio seduto su una poltroncina in mezzo a Carlo Donat Cattin, il dirigente
democristiano più volte ministro, e il repubblicano Antonio Del Pennino. Quella prospettiva mi era
risultata orripilante, perciò ho fatto il ruffiano con la hostess e sono riuscito a rimediare una
postazione alternativa.
Durante la campagna elettorale, sulla stampa quotidiana regionale venivano annunciate tutte le
manifestazioni politiche con l’indicazione del luogo, del giorno, dell’ora e dell’oratore, pertanto era
facile individuare gli esponenti di partito presenti sull’isola.
A svolgere la campagna elettorale, in quei giorni, vi era anche Giulio Andreotti il cui nome, però,
non è mai apparso sui giornali. Compagni ben informati mi hanno riferito che l’illustre uomo di
governo frequentava solo luoghi riservati (alberghi, ristoranti, oratori, sedi di associazioni varie,
persino conventi) nei quali era presente un pubblico selezionato.
Anche questo suo modo di fare politica, che nascondeva comportamenti equivoci, ha contribuito a
suscitare in me la curiosità di scoprire i segreti della sua influenza e del suo potere, nonché del ruolo
che egli quasi sicuramente ha avuto nelle inquietanti vicende del nostro Paese durante il suo
dominio istituzionale.
La mia presenza in Sardegna, a differenza dell’esperienza friulana, è stata gratificata dall’elezione
di un nostro compagno al Consiglio regionale. Il piccolo contributo che anch’io avevo dato non era
stato vano.
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Una delle sofferenze più grandi che ho provato in quel periodo è stata quella relativa al divorzio
intervenuto tra il movimento politico e il gruppo di compagni della redazione del quotidiano.
Come ho già ricordato, le diversità di orientamento politico si erano manifestate tempo addietro e
alle differenti posizioni si erano aggiunte tensioni di natura personale. La tattica delle unificazioni e
delle successive scissioni e le politiche che la ispiravano, aveva scavato un solco tra chi guidava il
movimento e chi dirigeva il giornale.
Al congresso di Viareggio, sin dalle prime battute, i due schieramenti si erano dimostrati non
disponibili a recedere dai propri convincimenti ed erano intenzionati a portare fino alle estreme
conseguenze lo scontro. Io consideravo la prospettiva di una rottura tra movimento e giornale una
vera sciagura, pertanto mi sono adoperato perché si trovasse un compromesso. Sono stato così
determinato nei miei proponimenti da costringere la commissione di cui facevo parte a continuare i
lavori fino a notte inoltrata per raggiungere una soluzione che fosse accettabile da ambedue le parti.
Quando però al mattino abbiamo sottoposto quella mediazione a Magri e a Rossanda, ho visto
vanificare lo sforzo che avevo compiuto in commissione. Le posizioni si sono rivelate inconciliabili
e i propositi dei due rispettivi dirigenti inamovibili. I due collettivi si sono separati e ognuno ha
proseguito per la propria strada. Era l’inizio della fine di un’esperienza che aveva suscitato
l’interesse delle forze di sinistra a livello internazionale.
Da quel giorno la mia tensione politica si è sensibilmente allentata.
18 – Il processo per il dossier sugli Ospedali Riuniti di Bergamo
Nel 1978 il Parlamento italiano ha approvato la legge di riforma sanitaria la quale è entrata in
vigore a pieno regime il 1° gennaio 1980. Una delle caratteristiche di quel provvedimento era
rappresentata dall’istituzione delle Unità sanitarie locali (in Lombardia, Unita socio-sanitarie locali)
attraverso le quali il governo della sanità veniva decentrato e attribuita la sua gestione agli
amministratori degli enti locali.
Dalla sinistra, in specie dal Pci, che ne era stato uno dei suoi più convinti sostenitori, questa riforma
era interpretata come un’importante operazione di rinnovamento del sistema sanitario, giacché – si
diceva – avrebbe sottratto sostanziali quote di potere non solo all’apparato centrale dello Stato, ma
anche agli operatori economici privati del settore.
A quel tempo, io avevo maturato alcune esperienze di lotta sulle problematiche della salute in
fabbrica e avevo avuto occasione di occuparmi di alcuni casi di malasanità che si erano verificati
nelle strutture pubbliche e private della Lombardia e della provincia di Bergamo in particolare. Le
mie conoscenze erano modeste, sufficienti però a consentirmi di formulare una previsione circa
l’impatto che una riforma di quella portata avrebbe avuto sul funzionamento delle strutture sanitarie
e sulle prestazioni che esse garantivano ai cittadini. Con alcuni compagni medici, tra i quali il
professor Maccacaro, avevo avuto modo di analizzare nel dettaglio il provvedimento e ciò mi aveva
consentito di formulare alcune ipotesi sui suoi effetti reali e sui suoi limiti.
Pur riconoscendo l’importanza delle novità che la legge di riforma introduceva nel sistema, ero
convinto che molti degli atteggiamenti entusiastici che avevano accompagnato il suo varo, erano da
considerarsi fuori luogo, frutto cioè di demagogia politica piuttosto che di una obiettiva
interpretazione della nuova normativa. E’ così nata in me l’esigenza di evidenziare le carenze di
quella riforma e di contrastare il senso comune che era stato artatamente creato in occasione della
sua approvazione. Ritenevo che quella enfatizzazione avrebbe prodotto illusioni anziché
consapevolezza.
Affinché le mie obiezioni non rischiassero di essere interpretate come una presa di posizione
politica preconcetta, mi ero convinto dell’opportunità di argomentarle partendo dall’esame di una
situazione concreta, quella cioè che avevo conosciuto attraverso la mia attività politica.
In quel periodo, nel reparto di cardiochirurgia pediatrica degli Ospedali Riuniti di Bergamo, era
scoppiata un’infezione da “serratia” che ha causato la morte di alcuni bambini sottoposti a
intervento al cuore; e questo tragico evento ha rischiato di minare il prestigio e compromettere la
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normale attività medico-chirurgica di quell’unità operativa. Il reparto era diretto da un luminare del
settore, il professor Lucio Parenzan, il quale godeva di una notevole fama professionale a livello
nazionale.
Irritato per l’allarmismo che la notizia aveva suscitato nell’opinione pubblica, l’illustre chirurgo ha
attribuito senza esitazione alcuna la responsabilità di quel grave episodio all’incuria del personale
paramedico e sull’onda di una polemica strumentale, sulla stampa locale ha attaccato a fondo sia le
organizzazioni sindacali dei lavoratori che l’ente pubblico ospedaliero.
Nel mio girovagare per il Paese, tempo addietro, avevo avuto modo di prendere conoscenza dello
stato di difficoltà e di trascuratezza in cui si trovavano i cosiddetti “bambini blu”, quelli cioè affetti
da malformazioni cardiache. La probabilità che essi avevano di aver assicurato un intervento
chirurgico riparatore era scarsa; più che nella scienza medica le loro famiglie dovevano sperare
nella dea bendata. Le strutture pubbliche non erano nella condizione di accogliere tutti i bisognosi
d’intervento. Per chi era escluso da quel “privilegio” non restava che ricorrere alle cliniche private
assumendosi il carico del 70% circa del costo della degenza e dell’intervento. In media ogni
intervento chirurgico, a quel tempo, veniva a costare attorno ai dieci milioni di lire, una somma
inaccessibile alla generalità delle famiglie italiane. A quelle che si trovavano nella necessità di
ricorrere con urgenza al cardiochirurgo, non restava altra soluzione che lanciare mortificanti
campagne di solidarietà per rimediare il denaro necessario ad impedire così la morte del proprio
figlioletto.
Avevo altresì scoperto che il trattamento riservato a questi piccoli pazienti dal sistema sanitario
nazionale era sottoposto a incredibili meccanismi selettivi e discriminatori: molti bambini con
malformazioni al cuore residenti nelle regioni del Sud Italia, venivano selezionati nei loro luoghi di
residenza dagli stessi cardiochirurghi del Nord e inviati transitoriamente in una struttura sanitaria
pubblica lombarda per poi essere spediti a Bergamo, alcuni (pochi per la verità) agli Ospedali
Riuniti, i più a una nota clinica privata dove a operare, tra gli altri, vi si recava lo stesso professor
Parenzan.
In sostanza, avevo scoperto l’esistenza di un vero e proprio racket dei “bambini blu” il quale, a chi
lo governava, fruttava parecchi soldi.
Dopo che il primario della Cardiochirurgia di Bergamo ha sferrato l’attacco alle organizzazioni
sindacali e al servizio pubblico, ho sollecitato le forze politiche e sociali della sinistra, nonché il
Consiglio dei delegati dell’ospedale, a prendere posizione e a respingere quella provocatoria
offensiva. Una denuncia del reale stato di cose e delle cause dell’epidemia che si era verificata nel
reparto della Cardiochirurgia, sottoscritta unitariamente avrebbe sicuramente avuto maggior peso
dell’intervento di una singola organizzazione. Quella mia esortazione, però, non ha sortito alcun
effetto.
A quel punto ho deciso di avviare io stesso un’indagine avvalendomi delle conoscenze che avevo
acquisito negli ambienti medici di Bergamo e della regione lombarda.
Mi sono recato più volte agli Ospedali Riuniti per incontrare il personale medico e paramedico dei
reparti interessati e raccogliere testimonianze, giudizi e opinioni sulle vicende che erano oggetto di
polemica e di contesa. Mio interesse era fare chiarezza sulle cause dei comportamenti di Parenzan, e
insieme accertare l’efficienza del suo operato professionale, nonché scoprire le sue attività
extraospedaliere. Contemporaneamente ho preso contatto con alcuni esponenti del mondo della
cardiochirurgia impegnati in strutture regionali e nazionali.
Uno dei più autorevoli esponenti di questo mondo che ho incontrato e dal quale ho avuto non solo
un attestato di solidarietà, ma anche la disponibilità ad assistermi in un’eventuale contesa
giudiziaria, è stato Gaetano Azzolina il quale, dopo avermi fatto visitare la sua clinica di Firenze, ha
voluto ospitarmi a cena a casa sua.
Nel corso di questi incontri ho avuto modo di costatare quanto fossero diffusi anche negli ambienti
sanitari gli atteggiamenti omertosi da parte non solo del personale medico, ma dello stesso
personale paramedico e questo fenomeno mi ha profondamente colpito. A essere reticenti erano
spesso gli stessi rappresentanti sindacali ospedalieri i quali avrebbero avuto il dovere di essere
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protagonisti loro stessi della denuncia delle cattive funzioni e degli abusi che venivano perpetrati ai
danni del sistema sanitario pubblico e dei pazienti.
Durante le interviste fatte ad alcuni operatori sanitari degli Ospedali Riuniti di Bergamo, mi è
capitato ripetutamente di sentirmi porre un interrogativo: mi si chiedeva il perché, oltre al caso dei
“bambini blu”, non mi interessassi di quanto, in termini di malasanità, avveniva nel reparto di
Chirurgia II. Io non ero mai stato in quel reparto ed ero all’oscuro delle imperizie del primario e dei
sospetti decessi di pazienti ricoverati in quell’unità operativa che mi venivano riferiti da questi miei
interlocutori. Dietro insistenza e data la gravità dei fatti, ho deciso di estendere le indagini anche
alla Chirurgia II. Anche qui, però, mi sono immediatamente scontrato con un muro di silenzio
impenetrabile. Informato che il vice primario era in conflitto con il suo superiore a causa
dell’ingiustificata sua esclusione dalla direzione del reparto, ho azzardato contattarlo e chiedergli un
appuntamento, nella speranza appunto di ottenere informazioni. La mia richiesta ha trovato in lui
piena disponibilità e così, proprio dal primo collaboratore del primario, ho avuto non solo conferma
di quanto mi era stato riferito, ma sono anche riuscito a farmi dare i nomi dei pazienti vittime
dell’imperizia del suo capo. Mi sono stati, infatti, indicati dieci nominativi di persone quattro delle
quali erano decedute dopo che erano state sottoposte a intervento chirurgico.
Rintracciati i loro indirizzi, mi sono messo in contatto con loro e con le famiglie dei deceduti
richiedendo ulteriori informazioni e, in specifico, le cartelle cliniche del ricovero. Da alcuni di loro
sono stato gentilmente cacciato da casa, da altri mi è stata negata la disponibilità a fornire
documenti e a presentarsi eventualmente come testimoni in sede giudiziaria; solo da tre di loro sono
riuscito a rimediare la documentazione clinica.
Come ho fatto per i “bambini blu”, anche per i casi della Chirurgia II mi sono dato da fare per
rimediare, attraverso uno stratagemma, documenti riservati comprovanti i giudizi critici che
avrebbero poi costituito oggetto della denuncia pubblica che mi proponevo di fare.
Ultimate le ricerche, ho convocato una riunione del gruppo dirigente del Pdup di Bergamo e dei
compagni medici e paramedici impegnati nelle strutture sanitarie interessate, e ho sottoposto alla
loro verifica i miei propositi. Avuto il consenso all’iniziativa, ho steso il dossier e riconvocato gli
stessi compagni, oltre a due avvocati, per l’approvazione del testo. Preoccupato di una possibile
querela da parte dei soggetti incriminati, ho poi mostrato il testo della denuncia a un magistrato
affinché esprimesse in anteprima un verdetto e mi consigliasse eventuali tagli o correzioni.
Venuto a conoscenza che la mia insistente presenza in alcuni reparti degli Ospedali Riuniti era stata
notata dai dirigenti della stessa struttura suscitando in loro sospetti, ho accelerato i tempi della
messa a punto della denuncia e ho passato il dossier alla tipografia per la stampa.
Il testo era suddiviso in quattro parti: la prima commentava l’inefficacia della riforma nel debellare
certi mali del sistema sanitario; la seconda documentava il racket dei “bambini blu” e l’alterazione
dei dati forniti ufficialmente da Parenzan a riguardo dell’esito dei suoi interventi; la terza
denunciava le morti sospette alla Chirurgia II; la quarta metteva sotto accusa alcuni primari
dell’ospedale, sia per le loro abusive prestazioni nelle cliniche private sia per aver costituto una
società che gestiva in regime di monopolio, presso una clinica cittadina, la Tac, quando ancora
questa sofisticata apparecchiatura non era disponibile presso le strutture pubbliche territoriali.
Avevo accertato che i primari proprietari della Tac avevano rapidamente ammortizzato il capitale
investito e dall’attività diagnostica che essi stessi prescrivevano ai pazienti, ricavano un sacco di
soldi.
Alla fine di novembre del ’79, stampato il dossier in diecimila copie, ho convocato due conferenze
stampa: una a Bergamo e una a Milano.
Poche ore dopo aver inoltrato il comunicato alle testate giornalistiche, ho ricevuto una telefonata
dalla redazione de “L’Occhio”, la cui direzione era affidata a Maurizio Costanzo. A nome del
direttore, mi si chiedeva di fornire in anteprima e in esclusiva al loro giornale un’intervista in
cambio di un ampio servizio e dell’invito a “Grand’Italia”, un talk show condotto dallo stesso
Costanzo sulla rete televisiva Rai Uno. Non ebbi esitazione alcuna: respinsi l’offerta precisando
loro che detestavo il loro disprezzo per la democrazia e per le altre testate giornalistiche.
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Il giorno in cui la stampa riportava la notizia, venivano diffuse le copie del dossier.
Hanno dedicato un servizio al caso una diecina di quotidiani e periodici a tiratura nazionale, tranne
che “l’Unità” e “l’Avanti!”, i cui corrispondenti erano pure presenti alle conferenze stampa.
Una settimana dopo, il Consiglio di Amministrazione degli Ospedali Riuniti ha emesso un
comunicato in cui la mia denuncia veniva giudicata “scandalistica e artificiosa” e veniva promesso
all’opinione pubblica che la direzione dell’ospedale avrebbe accertato la verità e dato conto delle
supposte inefficienze.
Qualche giorno dopo, un gruppo di dipendenti ospedalieri del sindacato unitario distribuiva un
volantino in cui veniva contestata la decisione della direzione dell’ospedale di affidare a un’unica
persona (un cattedratico per di più discusso), anziché a un organo collegiale, l’indagine sui fatti
denunciati. Altresì contestavano il dichiarato proposito della stessa direzione di intervenire in sede
giudiziaria e disciplinare per colpire coloro che si sarebbero resi responsabili della fuga di notizie
contenute nel dossier.
Successivamente, Cisl, Cgil e Uil, l’Anaao, la Flo e il Consiglio dei delegati dell’ospedale,
giudicando la nostra denuncia un errore perché limitata al malfunzionamento dei soli reparti di
Cardiochirurgia e di Chirurgia II e non invece dell’intera struttura, hanno convocato un’assemblea
per affrontare il tema della riforma sanitaria, mentre l’Anaao ha indirizzato alla direzione
dell’Ospedale una lettera in cui veniva denunciato il processo di scadimento in cui era venuta a
ritrovarsi la 2^ divisione chirurgica dopo la reggenza del primario professor Pierluigi Parola.
Nel corso di quell’assise sindacale, un medico dell’ospedale, noto emissario in quell’ente della
Democrazia cristiana e politico potente , ebbe ad accusarmi di voler gambizzare onesti lavoratori.
Qualche anno dopo, questo paladino della giustizia, già influente consulente della Magistratura, è
stato nominato sovrintendente della stessa struttura ospedaliera, quindi eletto deputato. Negli anni
successivi è stato più volte incriminato per malaffare e rinviato a processo.
Un mese dopo che mi era stata rivolta quell’accusa, agli Ospedali Riuniti sono apparsi volantini di
“Prima Linea”.
Sulla stampa locale e nazionale, intanto, veniva sollevata in termini problematici la questione della
presenza nelle cliniche private dei chirurghi dipendenti dagli enti pubblici e si apriva una
inconcludente querelle che è durata mesi. Se non altro, il sasso che avevo gettato nello stagno,
aveva smosso le acque e costretto i soggetti interessati a uscire da uno stato di indecorosa abulia.
Nel frattempo mi giungeva l’ordine di comparizione da parte del Procuratore della Repubblica in
quanto imputato del delitto di diffamazione nei confronti del primario della Chirurgia II, il professor
Parola, il quale, appunto, mi aveva querelato.
Devo confessare che, nonostante le rassicurazioni che avevo avuto del magistrato cui avevo
sottoposto il testo, ero convinto fin dall’inizio che sarei finito in tribunale, perciò la notizia
dell’imputazione non mi ha trovato impreparato. Anzi, mi ha sorpreso che a ricorrere alla
Magistratura fosse solo il primario della Chirurgia II.
Inizialmente mi aspettavo un ricorso legale anche da parte di Parenzan, e pure della direzione
dell’Ospedale, nonché della categoria dei primari o di qualche singolo primario.
Parenzan mi aveva telefonato una ventina di giorni dopo la diffusione del dossier richiedendomi
provocatoriamente una copia. Concordammo di incontrarci. Gli feci visita qualche giorno dopo in
ospedale. Mi aveva ricevuto nel suo ufficio, alla presenza del vice primario e di un suo assistente.
Dopo esserci salutati, mi ha informato di essere interessato a conoscere i nomi di chi mi aveva
passato le informazioni sull’andamento del suo reparto e fornito dati sui suoi interventi. A quella
richiesta, il clima è diventato incandescente. Gli ho fatto notare che il suo era un comportamento
ingenuo, non degno di un luminare quale lui veniva considerato; gli ho quindi precisato che quelle
informazioni, e altre ancora, gliele avrei fornite davanti o a una telecamera o a un magistrato e lo
avevo invitato a fare come Parola, cioè a querelarmi. Dopo esserci insultati a vicenda, sono uscito
dal suo ufficio con la convinzione di essermi guadagnato un’altra querela. Lui però,
intelligentemente, non ha imitato il suo collega e con me si è comportato come se nulla fosse
successo.
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Due mesi dopo, sulla stampa pavese, appariva la notizia che egli stava per trasferirsi all’ospedale
San Matteo, avendo partecipato al concorso per il posto di primario in quella struttura. Intervistato
precisava: “Verrò a Pavia se mi daranno di più e di meglio” e aggiungeva, “Non vedrei niente di
male se, nell’ambito della riforma sanitaria, l’Università si interessasse a Parenzan”. Sull’esito di
quel concorso non ho mai avuto notizia, né l’ho mai cercata. Quel che mi risulta è che Parenzan è
rimasto a Bergamo nonostante tutto.
Ai primi di aprile, il personale infermieristico del Quartiere operatorio della II Divisione Chirurgica
degli Ospedali Riuniti, con il quale mi era risultato impossibile entrare in contatto, ha inviato una
lettera alla direzione denunciando il comportamento “scorretto e offensivo” del primario nei
confronti dei subalterni e richiedendo un intervento d’autorità.
Alla vigilia dell’inizio del processo a mio carico, il conduttore della trasmissione “Sala stampa” di
Videobergamo, una rete che già mi aveva ospitato in precedenza, mi ha telefonato per invitarmi a
partecipare a una tavola rotonda alla quale erano stati invitati il presidente degli Ospedali Riuniti,
dottor Franco Cortesi, il professor Parola e il professor Parenzan. All’istante ho avuto una reazione
negativa, giacché accettando mi sarei trovato da solo a fare i conti con tre sicuri avversari agguerriti
fino ai denti, ma poi ho accettato considerando la mia presenza alla trasmissione, oltre che un
dovere, un’opportunità per chiarire ulteriormente le ragioni della mia denuncia.
La sera della trasmissione, però, al tavolo della “Sala stampa” di Videobergamo mi sono trovato da
solo. Nessuno dei tre illustri personaggi invitati allo scopo di contraddire la mia denuncia, aveva
ritenuto opportuno essere presente.
Di fronte alla preoccupazione del conduttore di non poter reggere l’intera durata della trasmissione
causa quelle assenze, gli ho suggerito di invitare i telespettatori, dopo l’intervista che avrebbe fatto
a me, a intervenire telefonicamente per dire la loro. La trasmissione è durata due ore e mezzo e le
telefonate sono state parecchie, nella stragrande maggioranza solidali con la mia denuncia.
Il giorno dopo ha avuto inizio il processo che è stato aggiornato ben quattro o cinque volte. Oggetto
del contendere era il riconoscimento della facoltà di prova. Secondo la legge italiana, a quel tempo
(ora non so come sia regolata la materia) la possibilità di portare prove in tribunale nei casi di
diffamazione era riconosciuta all’imputato solo se il querelante era un pubblico ufficiale. In caso
contrario (ed era il mio, giacché un primario d’ospedale non era considerato pubblico ufficiale), era
facoltà del querelante concederla. E il professor Parola a me l’ha sempre negata. Così come non mi
si è mai consentito di prendere visione delle conclusioni a cui erano giunti i due titolari delle
inchieste che erano state commissionate dalla direzione degli Ospedali Riuniti a due illustri
cattedratici.
Mi veniva così preclusa la possibilità di dimostrare come e da chi avevo raccolto le informazioni e
quali verifiche avevo fatto per accertare che esse corrispondevano al vero.
Dopo lunghi ed estenuanti dibattimenti, grazie all’abilità del mio avvocato difensore, Riccardo
Olivati, la possibilità di esporre le mie prove mi è stata finalmente riconosciuta e a quel punto, oltre
a documentare il mio operato, ho presentato una lista di 19 testimoni.
Qualche giorno dopo, il mio avvocato mi ha informato di essere stato contattato da quel famoso
personaggio che mi aveva pubblicamente rimproverato di gambizzare onesti lavoratori, il quale gli
aveva prospettato l’ipotesi di una remissione della querela alla condizione che io sottoscrivessi una
dichiarazione di scuse nei confronti di Parola. Presa visione della bozza di quella dichiarazione, ho
escluso la possibilità di una mia sottoscrizione, poiché la forma era ambigua al punto da suscitare
dubbi sul mio comportamento.
Alla convocazione successiva del dibattimento processuale, avrebbero dovuto essere sentiti i
testimoni e io confidavo nelle dichiarazioni che loro avrebbero rilasciato. E’ successo invece che
quel mattino, il presidente di tribunale che mi aveva concesso la facoltà di prova, è stato esonerato
dal suo incarico e sostituito da un altro magistrato il quale si è subito dichiarato di tutt’altro
orientamento. Aprendo la seduta, infatti, egli si è rivolto a me precisando che non era assolutamente
intenzionato a sentire i testimoni, che non intendeva istruire un dibattimento e che mi avrebbe
giudicato in base a quanto fino a quel momento era stato acquisito dai magistrati. Insomma, mi ha
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fatto capire che avrei la mia condanna sarebbe stata certa. La soluzione alternativa che lui
suggeriva, era quella della remissione della querela, alla condizione che io sottoscrivessi,
congiuntamente a Parola, una dichiarazione che lui stesso aveva steso. La dichiarazione consisteva
nella precisazione che io avevo reso pubblici i dati che mi erano stati forniti dal vice primario del
reparto ritenendoli attendibili, e che non ero animato da intenti di mera diffamazione personale nei
confronti di Parola.
Si trattava, in sostanza, di sottoscrivere ciò che io avevo precisato ai giudici sin dall’inizio del
processo, cioè che le mie finalità erano squisitamente politiche e che nei confronti di Parola non
nutrivo alcun risentimento personale.
A turbarmi non era la sottoscrizione di un simile documento, bensì la costatazione della palese
volontà di quel giudice (e quindi del sistema di potere) di non procedere all’accertamento della
verità e di affossare il processo.
Nel corso della mezz’oretta che mi è stata concessa per decidere sul da farsi, ho provato un
tormento atroce. Per un verso mi sentivo sfidato dagli stessi organi della giustizia, per altro
avvertivo il peso dell’isolamento politico in cui mi ero venuto a trovare in seguito alla denuncia.
Nel caso avessi rifiutato il compromesso, avrei sicuramente dovuto fronteggiare da solo una
battaglia impari alle mie forze e alle mie possibilità.
I due partiti della sinistra storica, infatti, anziché essere interessati a fare chiarezza sul reale stato di
cose, avevano preso le distanze nei miei confronti, coprendo le corresponsabilità dei loro due
rappresentanti nel consiglio di amministrazione degli Ospedali Riuniti.
Uno dei primari che mi aveva giusto sollecitato a indagare sul caso della Chirurgia II, e che era il
responsabile della commissione sanità del suo partito, due giorni prima del processo mi ha inviato
una lettera con cui mi diffidava di citarlo come teste nel procedimento penale che avevo in corso.
Le organizzazioni sindacali e lo stesso consiglio dei delegati dell’ospedale avevano assunto una
posizione pilatesca di fronte alla denuncia e da essi non ho mai avuto una solo testimonianza di
condivisione del mio operato. In più circostanze li avevo sollecitati a dare corpo a un organismo
unitario in grado di monitorare il funzionamento e le prestazioni dell’ente ospedaliero, ma ogni
volta non sono stato nemmeno preso in considerazione.
Nel mio stesso partito, dal quale mi aspettavo un sostegno incondizionato, avevo costatato
l’esistenza di sensibilità differenti. Avevo sollevato un problema che a mio avviso aveva una
valenza politica e sociale e un’importanza non solo provinciale, ma regionale e nazionale. Mi
aspettavo che i miei deputati e il mio consigliere regionale sollevassero il problema nelle loro
rispettive sedi istituzionali, che presentassero almeno delle interrogazioni al ministro e all’assessore
regionale, ma così non è stato.
Avvertivo la presenza di sentimenti di condivisione e di solidarietà solo in alcuni compagni e,
soprattutto, nel mio avvocato il quale, responsabilmente, ha insistito nel consigliarmi di firmare
quella dichiarazione e chiudere definitivamente la vicenda. “Quel che potevi dare – mi disse – l’hai
dato”.
Dopo che avevo sottoscritto quel documento, il pubblico ministero Antonio Di Pietro ha dichiarato
la sua insoddisfazione per quell’epilogo e ha annunciato di impugnare lui stesso il caso. Da allora,
però, più nessuno ha riaperto quella piaga.
Due o tre anni dopo sono venuto a sapere che il professor Parola mi aveva querelato non solo
perché io avevo messo in discussione la sua perizia professionale, ma anche perché – sollecitato
dalle gerarchie ecclesiastiche – avevo sostenuto che egli era inamovibile essendo protetto dal
vescovo monsignor Giulio Oggioni, suo concittadino e amico.
Nel 1988 il professor Parenzan è stato insignito di medaglia d’oro al merito della sanità. Cinque
anni dopo a denunciare che negli ambienti della cardiochirurgia esisteva la pratica delle mazzette, è
stato proprio un cardiochirurgo, e la Magistratura di Bergamo ha aperto un’inchiesta su Parenzan e
la sua equipe con l’imputazione di “associazione a delinquere finalizzata a una serie di
concussioni”. Nel 1995 lo stesso Parenzan ha patteggiato per abuso d’ufficio con la condanna a un
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anno di reclusione, ottenendo la sospensione della pena e un anno di semidetenzione. L’anno
successivo, a seguito di un’inchiesta sui concorsi truccati, è stato rinviato nuovamente a giudizio.
Una diecina di anni dopo quel processo sono stato contattato da uno dei più noti commercialisti di
Milano il quale, su consiglio di un magistrato di Bergamo, mi chiedeva un aiuto nell’espletamento
dell’incarico che aveva ricevuto dalla Procura bergamasca di indagare su sospetti illeciti
nell’amministrazione degli Ospedali Riuniti. Io ero ormai estraneo a quel tipo di impegno politico-
investigativo e quindi non ho potuto aderire all’invito rivoltomi, ma ho considerato quell’approccio
la testimonianza che almeno in alcuni era vivo un positivo ricordo delle mie denunce.
A distanza ormai di decenni, se sono convinto di aver fatto cosa giusta nel denunciare quei casi di
malasanità, non sono ancora riuscito a stabilire se ho fatto bene oppure male a cedere alle pressioni
di quel giudice che ha chiuso il processo affossandolo proprio nel momento in cui stava per entrare
nel vivo.
19 – La trombatura alle elezioni per il Consiglio regionale
Nel giugno dell’80, alla vigilia delle elezioni per il rinnovo del Consiglio regionale e della maggior
parte dei Consigli provinciali e comunali, si era aperta nel partito una riflessione sui risultati politici
conseguiti nelle istituzioni in cui avevamo una rappresentanza.
Il bilancio serviva sia per mettere a punto i programmi elettorali, sia per individuare i compagni che
avrebbero dovuto essere candidati.
Dopo la scissione con l’ala movimentista del partito che era meno propensa al dialogo con il Pci, a
rappresentare il Pdup per il comunismo in Consiglio regionale era rimasto Franco Petenzi.
Io ero convinto che la sua presenza in quell’assise non avesse prodotto i risultati sperati rivelandosi
al di sotto delle potenzialità che una espressione politica come la nostra vantava. Per tutta la prima
fase della legislatura il suo ruolo politico era stato oscurato dalla figura di Mario Capanna il quale
fungeva da capogruppo e la cui retorica esercitava un fascino anche in sede istituzionale.
Successivamente, quando il rapporto politico solidale con lui si era sciolto a causa della scissione,
l’azione di Petenzi era risultata parziale, cioè indirizzata verso soli alcuni settori, in specifico
l’ambiente, e manchevole di una strategia complessiva, in particolare sui temi dell’economia, della
programmazione dello sviluppo e del protagonismo sociale.
Quando Petenzi è stato eletto, nella cultura della “nuova” sinistra era radicato il convincimento che
una delle condizioni della lotta al revisionismo e all’opportunismo politico della sinistra fosse
quella di collocare nelle assemblee rappresentative i delegati operai di fabbrica. Un tale principio,
discutibile in teoria, tradotto nella pratica, salvo rarissime eccezioni, ha messo in evidenza come
non sia cosa semplice per chi proviene da un’esperienza di fabbrica, superare di colpo i limiti di
cultura politica che sono determinati da tale condizione sociale. Petenzi era una persona molto
intelligente, poliedrica, generosa, impegnata politicamente al massimo; nel ruolo istituzionale che
gli era stato assegnato, però, aveva mostrato delle incertezze che gli avevano impedito di raccordare
le lotte che si svolgevano sul territorio con la battaglia che conduceva nel “palazzo”.
Nella mia qualità di coordinatore regionale avevo cercato di costruire alcune esperienze di lotta sui
fronti della riconversione produttiva in aziende precipitate in stato di crisi a causa delle logiche di
mercato; avevo contribuito alla costruzione di vertenze sul territorio che esigevano l’unificazione
delle istanze dei lavoratori con quelle dei comitati di quartiere e dei consigli dei genitori sorti nelle
scuole: l’esperienza delle “150 ore” era uno dei terreni più significativi dello scontro politico-
culturale di quegli anni; avevo sostenuto alcune esperienze che si proponevano di promuovere
campagne di prevenzione sanitaria e di diagnosi precoce; avevo partecipato all’elaborazione di un
progetto di decentramento dei poteri istituzionali a livello regionale che avrebbe comportato il
riconoscimento legislativo delle strutture di democrazia diretta.
Insomma, seppure in maniera ancora insufficiente, approssimativa e disorganica, avevo dato inizio
in alcune realtà della regione alla sperimentazione sul territorio di una pratica politica che per
consolidarsi esigeva un autorevole referente istituzionale, nonché un progetto che la presenza di
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Petenzi non garantiva. Il suo impegno risultava a mio avviso subalterno all’agenda dell’istituzione,
quando invece era necessario costruire vertenze fuori dal “palazzo” per proiettarle in esso e farle
esplodere.
Nel momento in cui, a fronte del rinnovo del Consiglio regionale, siamo stati costretti a coniugare la
linea politica con le candidature, il giudizio sulla passata esperienza divenne oggetto di dibattito e di
confronto e le decisioni che vennero prese sancirono la necessità di procedere a un ricambio. A
entrare nell’assemblea rappresentativa regionale il partito aveva designato me.
In quella tornata elettorale io ho fatto il pieno di presenze nelle liste elettorali: sono stato candidato
alla Regione, alla Provincia e al mio Comune, Ponte San Pietro. Era talmente scontato che l’eletto
in Regione avrei dovuto essere io, che sono stato designato capolista sia a Bergamo che a Brescia,
mentre a Milano, non essendo molto noto all’elettorato di quella provincia, a guidare la lista sono
stati Luciana Castellina, per la componente “manifesto”, e Giovanni Cominelli, già dirigente del
Mls. In base alle decisioni prese dal partito, ai compagni è stata data l’indicazione di indirizzare le
preferenze sul mio nome ed eventualmente non fossi risultato eletto in prima battuta, chi mi avrebbe
preceduto avrebbe dato le dimissioni. La stessa stampa regionale, commentando la composizione
delle liste, aveva dato per scontato il mio ingresso nell’istituzione lombarda. La mia speranza era di
poter conquistare due seggi e risultare eletto nel collegio di Bergamo.
Purtroppo le cose sono andate diversamente dalle aspettative. Al Consiglio regionale abbiamo
ottenuto solo un seggio e a risultare eletta è stata Luciana Castellina. Più preferenze di me hanno
preso sia Cominelli che l’altro coordinatore regionale Tonino Mulas, pure lui ex Mls. A Milano i
nostri alleati avevano condotto una campagna con l’obiettivo di rimarcare una maggior influenza
della loro organizzazione rispetto alla nostra, e nell’orientare i compagni hanno contravvenuto gli
accordi politici che erano stati raggiunti dopo faticose discussioni.
Nell’imminenza dell’insediamento del nuovo Consiglio regionale, è divenuto necessario stabilire
chi sarebbe entrato. Mentre Luciana era pronta a dare le dimissioni, Cominelli ha dichiarato che
avrebbe rinunciato al seggio solo se fosse stato incluso nella segreteria nazionale del partito. Dai
compagni dell’ex Mls è stato così aperto un contenzioso con la direzione nazionale che è durato
mesi.
Consapevole della mortificazione che avevo subito, Lucio Magri mi ha convocato a Roma e mi ha
avanzato l’ipotesi di procedere alla surroga di Eliseo Milani alla Camera dei deputati qualora
Cominelli non si fosse dimesso. Alle elezioni politiche dell’anno precedente, mi ero candidato nel
collegio Bergamo-Brescia, risultando il primo dei non eletti. Nel frattempo il partito aveva adottato
il criterio della rotazione nei ruoli parlamentari e poiché Eliseo era già stato parlamentare in
precedenza, l’eventualità che io fossi subentrato a lui avrebbe rispettato una prassi che era stata
decisa all’unanimità e la sostituzione di Milani in Parlamento avrebbe rappresentato, al tempo
stesso, una soluzione della grana politica insorta.
Sui due piedi, a Lucio ho manifestato le mie perplessità e gli ho chiesto tempo per rifletterci. Quella
proposta non poteva ovviamente lasciarmi indifferente: diventare deputato era una prospettiva
seducente, ma a me francamente non è che interessasse molto, anzi mi poneva problemi di non poco
conto.
Anzitutto, nel corso della mia esperienza politica avevo costatato che, a quel tempo, il ruolo del
parlamentare, se per un verso comportava delle indubbie gratificazioni, dall’altro relegava il politico
a un’attività prevalentemente chiusa negli ambienti istituzionali che a me poco attirava. Riverito nel
suo collegio, a Roma l’eletto era di fatto un burocrate, immerso in un ambiente che nei miei sei
mesi di permanenza nella capitale non ero riuscito ad amare. L’unico momento in cui la sua azione
ha un qualche peso, oltre ovviamente all’approvazione o al contrasto delle leggi, era e resta
tutt’oggi quella di presentare interrogazioni al governo e discuterle in un’aula deserta e distante
mille miglia dalla realtà sociale.
Era poi mia ferma convinzione che rappresentare una realtà sociale in una istituzione parlamentare
significasse avere necessariamente una buona conoscenza della realtà che si è chiamati a governare,
e mentre nel corso degli anni avevo avuto modo di rendermi conto delle problematiche della società
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lombarda, non mi sentivo preparato a cimentarmi sulla scena nazionale. Ero certo che mentre avrei
potuto assolvere con soddisfazione mia e del partito il compito di consigliere regionale, ad assolvere
il ruolo di deputato sarei risultato inadeguato, comunque poco efficiente.
La presenza in Parlamento comportava poi, almeno a quell’epoca, un distacco dai propri cari per
almeno quattro giorni la settimana e un sacrificio del genere non mi sentivo di sopportarlo.
Non ultimo, conoscendolo bene, mi chiedevo se veramente Eliseo Milani era disposto a cedermi il
posto senza sollevare obiezioni, visto che lui, invece, a fare il deputato ci teneva molto.
Lucio mi diede tempo una settimana per rifletterci, dopo di che avrei dovuto comunicargli la mia
decisione. Ho trascorso quei giorni meditando sui possibili scenari che mi si sarebbero aperti nel
futuro. Ho ponderato il pro e il contro dell’ipotesi di Magri, senza per altro riuscire a venire a capo
del dilemma. In cuor mio c’era la speranza che si sbloccasse il contenzioso Cominelli e che si
creassero le condizioni perché l’accordo pre-elettorale venisse rispettato.
Giorni dopo, quando mi sono ritrovato con Lucio, dopo averlo fatto partecipe di questa mia
speranza, gli precisai che rispetto alla sua ipotesi mantenevo ancora tutte le mie riserve. Avrei
potuto semmai prenderla in considerazione a una condizione. Sul gruppo del Pdup per il
comunismo alla Camera, essendo composto da soli sei deputati, gravava indubbiamente una mole
enorme di lavoro e non ero certo io a sottovalutare lo sforzo cui erano sottoposti i compagni eletti.
Ritenevo però che nella loro agenda non ci fosse un obiettivo che io consideravo importante e, se
fossi subentrato a Milani, avrei desiderato avere il benestare del gruppo per perseguirlo: mi sarei
dato da fare, oltre alle competenze che mi sarebbero state attribuite, per smascherare e incastrare
Giulio Andreotti. Del suo fare ambiguo avevo avuto sentore e testimonianza in più circostanze.
Nando Dalla Chiesa mi aveva confidato i suoi sospetti circa il ruolo che questo potente uomo
politico aveva avuto nell’assassinio di suo padre. Pertanto consideravo fondamentale dare avvio a
un’indagine politica che portasse a produrre un dossier di denuncia.
Questa mia inaspettata dichiarazione sbalordì letteralmente Lucio, tanto da produrre in me
l’impressione che avesse pensato fossi andato fuori senno. Mentre egli si è limitato a dirmi che
avremmo ripreso il discorso più avanti, io ho avuto la netta sensazione che quella mia sortita
avrebbe determinato la chiusura del discorso sulla mia collocazione futura. Difatti, da allora non ne
parlammo più. Involontariamente ho fornito ai compagni della segreteria un pretesto per non aprire
altri conflitti.
Qualche giorno dopo quel dialogo, Castellina si è dimessa e in Consiglio regionale è entrato
Cominelli. Egli ha occupato quello scanno senza onta e senza onore fino alla fine del mandato, dopo
aver però abbandonato il partito per passare al gruppo del Pci.
E’ così accaduto che il Pdup per il comunismo è stato privato della rappresentanza nel parlamentino
della Lombardia e non ha avuto più alcun referente in quell’assise per dare sbocco alle esperienze di
lotta sociale che faticosamente la base del partito aveva costruito in alcune realtà della regione.
Quella vicenda mi ha colpito profondamente nello spirito fino al punto di procurarmi un malessere
fisico. Per un certo periodo ho sofferto di attacchi di emicrania, sono diventato iperteso e di colpo
mi si sono ingrigiti i capelli. Per un lungo periodo ho provato un senso di sfiducia per il lavoro che
svolgevo e ho partecipato alle riunioni per forza d’inerzia.
La mancata elezione era certamente un aspetto che mi aveva procurato delusione e dolore, ma non
era la causa principale della crisi d’identità che mi aveva assalito. A tormentarmi era l’inquietante
interrogativo che quella vicenda aveva fatto sorgere nella mia mente. E cioè: com’era mai possibile
realizzare una società più solidale e più giusta quando i suoi stessi declamatori dimostravano di non
aver nessuno scrupolo a pugnalare il proprio compagno per contendersi un seggio elettorale? Con
chi mai mi ero accompagnato nella lotta per migliorare gli uomini e la società? Che senso aveva la
mia militanza politica?
Quella è stata per me una lezione indimenticabile, tant’è che da allora non ho preso mai più in
considerazione alcuna ipotesi di elezione nelle istituzioni, se non quella di fungere da prestanome
per consentire a compagni più giovani di me di entrare nel Consiglio comunale del mio paese natio.
E’ stata un’esperienza che mi ha dimostrato come le miserie umane possano convivere anche con la
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retorica rivoluzionaria, e insieme mi ha insegnato quanti danni fisici e morali possono essere
provocati dall’ambizione di conseguire una delega politico-istituzionale.
20. La denuncia degli abusi urbanistico-edilizi nel comune di Ponte San Pietro
La candidatura a consigliere comunale di Ponte San Pietro costituiva per me una forzatura. Già
cinque anni prima ero stato rieletto e mi ero dimesso per consentire a un altro compagno più
giovane di me di fare quell’esperienza. Proprio perché questa era la mia concezione della politica,
quando mi è stato chiesto di ricandidarmi, senza alcuna esitazione mi sono dichiarato indisponibile.
Tra l’altro, la prospettiva di essere eletto in Regione mi faceva escludere qualsiasi altro impegno
istituzionale. Non solo consideravo un comportamento non corretto quello di ripresentarmi
all’elettorato di Ponte S. Pietro dopo aver precedentemente rinunciato al mandato, ma già a quel
tempo ritenevo la pratica del doppio incarico una scelta sbagliata: già è difficile assolvere a un solo
incarico quando si vogliono fare le cose per bene, il pretendere di ricoprirne due lo consideravo e
continuo a considerarlo un atto di presunzione, motivato solo da ambizioni smodate, quando non di
interessi ambigui.
L’insistenza dei compagni è stata però tale che alla fine mi sono piegato alla loro volontà, con
l’accordo comunque che se fossi risultato rieletto avrei di nuovo dato le dimissioni.
La lista di “Alternativa democratica” ha riscosso il 7,1% dei consensi e sono diventato di nuovo
consigliere comunale.
Quando fu evidente che la mia presenza in Consiglio regionale non era certa, nonostante fossi fermo
nei miei propositi, mi è stato chiesto di non dimettermi subito e di rinviare la decisione al momento
in cui le prospettive si fossero chiarite. L’incertezza del gruppo dirigente nazionale del partito sulla
vicenda Cominelli ha infatti contribuito a spostare in avanti i tempi di una mia decisione al
riguardo. A farmi desistere dal proposito di dimettermi in tempi ravvicinati è intervenuto poi un
fatto inaspettato.
Al ritorno da una riunione della direzione nazionale del partito, un compagno mi ha avvisato che in
mia assenza, un tizio si era rivolto a lui per chiedere una mia disponibilità a un incontro a proposito
di un caso di speculazione urbanistica per il quale, poco tempo prima, nel corso di una seduta del
Consiglio comunale, avevo minacciato guerra aperta. La ragione di quella richiesta d’incontro non
era stata precisata, mi venne solo riferito il nome e il numero di telefono del latore, persona che
peraltro era parente di un compagno. Gli sviluppi di quella vicenda, come chiarirò fra poco, mi
hanno indotto a soprassedere alle dimissioni nei tempi da me prospettati e a proseguire invece
l’impegno istituzionale.
Nel frattempo, avevo posto ai compagni quale condizione per arricchire l’esperienza del collettivo,
la realizzazione di alcuni obiettivi tra cui: la pubblicazione di un foglio mensile allo scopo di
rendere conto alla popolazione del nostro operato in Comune; la promozione di riunioni settimanali
del collettivo per fare costantemente il punto sul nostro lavoro e riflettere sugli avvenimenti politici
nazionali e internazionali; la costituzione di un circolo culturale al fine di produrre a livello di
massa un nuovo senso comune, anche per dare continuità a iniziative che erano state intraprese da
tempo dai compagni e che avevano riscosso successo.
L’interesse e la disponibilità dei compagni a realizzare un tale programma di lavoro è stata tale da
sorprendermi e ciò ha contribuito alla riconsiderazione dei miei propositi. Mi ero reso conto che
stavo per mettere in moto un processo il quale – almeno ai miei occhi – avrebbe significato la
trasformazione di quella modesta realtà di periferia in un piccolo laboratorio politico. Peraltro, il
clima di solidarietà e l’alto livello d’impegno che avevo riscontrato nel collettivo,
controbilanciavano le delusioni e i patimenti che mi stava procurando la militanza su scala
regionale, e ciò costituiva una giustificazione per dare senso e continuità della mia esperienza
politica.
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Nel giro di alcune settimane, abbiamo dato vita a “Setteeunpercento” e al Circolo culturale “Il
ponte”: due iniziative che ci hanno impegnato per quattro anni e mezzo, esattamente fino alla
confluenza del Pdup per il comunismo nel Pci.
Dal ’75, cioè da quando era venuto in scadenza il mio primo mandato di consigliere, non mi ero più
occupato delle vicende comunali di Ponte San Pietro. Ho ripreso conoscenza di quanto nel
frattempo era successo di nuovo solo nel momento in cui sono stato costretto a ripresentarmi
candidato. A quel punto mi sono reso conto che al nuovo piano regolatore erano state apportate,
attraverso delle varianti, modifiche significative destinate a trasformare una zona situata a nord-
ovest della Villa Mapelli-Mozzi (patrimonio storico-ambientale protetto) e destinata a verde
agricolo, in zona industriale su cui avrebbe dovuto essere trasferita la fonderia Mazzucconi.
Consideravo quella scelta un errore urbanistico-ambientale, non solo perché sottraeva verde a un
territorio già ipercementificato, ma anche perché quel trasferimento (già anni addietro prospettato in
una zona industriale dell’Isola bergamasca) avrebbe comportato un sicuro inquinamento per le zone
residenziali limitrofe.
Non solo mi sono opposto in sede comunale a quel progetto, ma ho inviato un memorandum
all’assessore regionale all’urbanistica denunciando l’assenza di uno studio d’impatto ambientale,
invitandolo quindi a non approvarlo. Contemporaneamente ho contestato l’intendimento di
procedere all’approvazione di un piano di ristrutturazione di un’area industriale adiacente a quella
zona. In una riunione del Consiglio comunale ho minacciato di procedere alla denuncia delle
violazioni di legge se quei progetti non fossero stati ritirati.
Probabilmente preoccupati della mia opposizione, coloro che erano interessati a quell’operazione
avevano pensato bene di prendere contatto con me personalmente per comprendere le mie
intenzioni e le disponibilità a una mediazione: così almeno io avevo interpretato la richiesta
d’incontro che mi era stata avanzata.
Quando mi sono incontrato con il latore del messaggio, mi sono reso conto che l’obiettivo del
contatto non si limitava a uno scambio di informazioni. Questi, infatti, mi ha informato che quei
signori erano disposti a compensare la mia accondiscendenza all’approvazione del progetto con del
denaro e che questa era la vera ragione della richiesta d’incontro.
La prima cosa che a quel punto ho ritenuto giusto fare, è stata quella di riunire i compagni e renderli
edotti della vicenda. Ho chiesto loro la massima discrezione e li ho ragguagliati sulle mie
intenzioni. Se quei signori erano disposti a versare denaro a me, sicuramente avevano già corrotto
altri e io, oltre a essere determinato a far saltare il progetto, ero interessato a sapere chi
dell’Amministrazione comunale era coinvolto in quell’intrigo. All’unanimità si decise che dovevo
stare al gioco, fingere cioè di essere disponibile a un accordo con gli speculatori. Perché un
tentativo del genere riuscisse, si rendeva però necessario studiare il modo di non risultare coinvolto
nel pasticcio.
A quel tempo ero già un frequentatore, ovviamente non per volontà mia, dei palazzi di giustizia e
mi ero reso conto di come in quegli ambienti persone come me non godessero grandi simpatie. Se
però volevo mettermi con le spalle al muro, e tentare un’operazione di smascheramento, un accordo
con i rappresentanti della giustizia si rivelava un passaggio obbligato. Pensai bene allora di
informare della vicenda non uno solo, ma più esponenti istituzionali e concordare con loro le
modalità del tentativo che ero intenzionato a fare. Presi contatto con un giudice di tribunale, poi con
un sostituto procuratore della Repubblica e infine con un capitano dell’arma dei carabinieri. Dopo
aver loro spiegato gli avvenimenti e illustrato i miei propositi, ho chiesto il loro parere. Tutti e tre
hanno giudicato positivamente il mio progetto e mi hanno assicurato la loro piena collaborazione. A
quel punto ho deciso di procedere e all’intermediario ho comunicato la mia disponibilità.
Due giorni dopo egli mi ha comunicato il giorno e l’ora dell’incontro precisandomi che mi avrebbe
accompagnato lui stesso, senza peraltro rendermi noto dove e con chi mi sarei incontrato.
A quel punto si poneva il problema di come avrei dovuto comportarmi affinché la conversazione
che avrei avuto con i miei interlocutori venisse registrata o intercettata. Sono perciò ritornato dal
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capitano dei carabinieri sia per informarlo della conferma dell’incontro sia per avere indicazioni sul
come costruire la prova di quella conversazione.
L’impressione che ho ricavato da quel colloquio, è stata decisamente sorprendente e scoraggiante.
Egli mi ha dapprima prospettato l’intenzione di farmi seguire da un’auto dei carabinieri e di
procedere al blocco del traffico nella zona in cui sarei stato portato. Mi manifestò preoccupazione
per la mia incolumità e giustificò quella misura come un atto cautelativo. Non solo non mi era
chiaro come potesse servire allo scopo, ma intravedevo in un simile intervento la compromissione
dello stesso tentativo di smascherare l’intrigo. Per quanto riguardava poi la registrazione della
conversazione, mi ha sottoposto una radio ricetrasmittente abbastanza voluminosa (formato
15x10x5 centimetri) da nascondere sotto il cappotto; l’inconveniente di un tale strumento consisteva
nel fatto che, affinché il colloquio potesse essere intercettato dai carabinieri, io avrei dovuto alzare
un’antenna lunga circa 40 centimetri in presenza dei miei interlocutori. A fronte delle mie riserve,
mi ha precisato che non disponeva di meglio. Senza indugi gli confessai la mia delusione. Erano
quelli i tempi in cui nelle sale cinematografiche venivano proiettati i film di James Bond il quale, da
un capo all’altro del mondo, comunicava attraverso minuscoli apparecchi ed era mia convinzione
che le forze dell’ordine italiane, per combattere mafia e delinquenza, disponessero di congegni più o
meno analoghi. Invece, tecnologicamente erano rimaste ai tempi prebellici.
Per quanto riguardava la scorta, cioè la mia incolumità, gli assicurai che potevamo risolvere il
problema con i nostri mezzi. Infatti, quando mi sono recato a quell’incontro, mi sono fatto seguire
da due compagni con i quali mi sono accordato che nel caso, trascorsa un’ora, non fossi uscito dal
luogo in cui sarei stato portato, loro avrebbero dovuto avvisare i carabinieri. A riguardo invece della
ricezione della conversazione, non ho trovato alcuna soluzione. Non avrei di certo potuto usufruire
di quella ricetrasmittente senza sollevare sospetti, pertanto mi sono accordato con il capitano che il
mattino successivo all’incontro, gli avrei riferito per filo e per segno il contenuto del colloquio.
Colsi così l’occasione per accertarmi del grado di fiducia che i carabinieri nutrivano nei miei
confronti.
La sera dell’incontro sono stato portato in una sorta di night club casereccio, ad alcuni chilometri da
Ponte San Pietro, nel quale ad attendermi vi era un signore che io non avevo mai visto. Egli si è
presentato come uno dei proprietari dell’area in questione e senza alcun preambolo mi ha detto che
se avessi desistito dal fare opposizione al progetto in iter presso la commissione urbanistica
comunale, loro sarebbero stati disposti a versare a me o al partito una somma di denaro. Gli ho
dichiarato la mia disponibilità alla condizione che loro mi avessero dimostrato che oltre al mio
consenso avevano già ottenuto quello degli amministratori comunali e che a prendere soldi non
sarei stato il solo. Gli ho precisato che quella era una garanzia inderogabile affinché tra tutti i
coinvolti ci fosse un tacito e reciproco accordo al silenzio. Soddisfatto in volto, mi ha promesso che
ne avrebbe parlato con il suo socio e che ci saremmo risentiti. Dopo mezz’ora circa mi sono
ritrovato con i compagni che mi avevano seguito a distanza e ho rivelato loro il contenuto della
conversazione. All’indomani mattina mi sono ripresentato dal capitano dei carabinieri per rendergli
conto dell’incontro. Successivamente, ho informato i magistrati.
Trascorsa una quindicina di giorni, mi sono rivisto nuovamente con quel personaggio il quale mi ha
confermato il consenso all’operazione del suo socio nei termini che avevamo stabilito. Mi sono però
reso conto che la mia richiesta di conoscere quali amministratori comunali erano coinvolti e di
avere le prove di questo coinvolgimento, lo aveva messo in grande difficoltà. Per questo, infatti, mi
ha pregato di avere pazienza per alcuni giorni ancora.
Nel frattempo io avevo cercato di rintracciare le prove per altra via e avevo messo all’opera alcuni
compagni affinché si recassero alla Conservatoria dei registri immobiliari al fine di accertare se
qualche esponente della giunta comunale fosse stato artefice di una compravendita di immobili
quale probabile contropartita per l’approvazione dell’operazione speculativa. A un compagno che
lavorava in banca, avevo invece chiesto di fare un’indagine molto discreta sui conti correnti di
alcuni di loro per verificare se in quel tempo fossero avvenuti movimenti di denaro sospetti.
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Mano a mano che il nostro lavoro di scavo procedeva, tenevo diligentemente informati sia il
capitano dei carabinieri sia il sostituto procuratore.
La trattativa con il personaggio con cui mi ero incontrato col passare dei giorni divenne però sempre
più difficoltosa, al punto che a un tratto ho maturato il sospetto che avesse intuito il mio gioco. Un
giorno, questi mi ha chiesto d’incontrarlo e dopo aver ammesso che tra i proprietari di quel terreno e
un esponente della giunta c’era stata una vendita di immobili a costi agevolati, mi ha annunciato che
loro erano disposti a compensare la mia “non opposizione” in Comune con 30-40 milioni di lire. E
per mettermi al riparo da inopportuni accertamenti da parte della Finanza, mi ha informato che me li
avrebbero versati su un conto corrente in Svizzera.
Nei giorni precedenti avevamo, infatti, accertato un passaggio di proprietà di un immobile da uno
dei proprietari dell’area a un assessore comunale, mentre dal compagno bancario, avevo avuto la
conferma dell’esistenza di un assegno che rivelava il coinvolgimento di almeno due amministratori
comunali.
Al magistrato e al capitano dei carabinieri ho fornito gli estremi della documentazione che avevamo
rimediato e li ho pregati di accelerare l’iter giudiziario, dal momento che ritenevo improbabile
ottenere dal mio interlocutore le prove e le testimonianze che avevo richiesto. Del resto, la
documentazione che avevamo raccolto noi era di per sé sufficiente per procedere
all’incriminazione.
Giorni dopo, un mattino alle 7, dopo che la sera precedente si era svolta una vivace riunione del
Consiglio comunale, sono stato svegliato da una telefonata del magistrato il quale mi ha comunicato
di aver proceduto all’incarcerazione di coloro che erano coinvolti nel malaffare, e precisamente di
un assessore e dei due proprietari di quell’area. Io avevo documentato al magistrato il
coinvolgimento di un altro personaggio per il quale, però, stranamente l’arresto non era scattato.
Dietro la mia insistenza nell’avere spiegazioni su quella diversità di trattamento, il magistrato mi ha
confidato che a difesa di quell’esponente democristiano era intervenuto di persona un ministro.
Quando, mesi dopo, mi sono recato in Tribunale per visionare gli atti del processo, essendomi
costituito parte lesa, ho dovuto costatare che il famoso assegno compromissorio dei due esponenti
della Giunta non figurava più tra la documentazione. Ho fatto una nota di denuncia al giudice
istruttore, ma di quella sparizione non ho saputo più nulla.
Tempo dopo è stato incarcerato anche un funzionario dell’Ispettorato agricolo provinciale, pure lui
esponente democristiano; l’accusa era di aver alterato i documenti al tempo della costituzione della
società da parte dei due proprietari del terreno che erano già agli arresti.
Due particolari di questa vicenda, che pure aveva rappresentato un successo politico per me e per i
compagni che avevano collaborato alle indagini, si sono rivelati motivo di inquietudine. Il primo ha
riguardato la mia coscienza: avevo mandato in carcere delle persone e l’essere stato costretto ad
arrivare a tanto mi aveva turbato. Pensavo non tanto alle pene dei reclusi. Del resto, in più
circostanze io avevo pubblicamente consigliato all’assessore incriminato di dare le dimissioni, ma
lui non ha voluto seguire il mio consiglio e perciò ritengo si sia meritato la reclusione. Il mio
cruccio era per i loro familiari, in specie per i figli nei confronti dei quali sarebbero scattate
umiliazioni e discriminazioni.
Il secondo motivo di amarezza era dovuto alle insinuazioni seppur velate che in Consiglio comunale
sono fatte sul mio conto dal rappresentante del Pci, cioè dall’ultimo da cui mi sarei aspettato un
atteggiamento critico. Essendo in corso l’istruttoria giudiziaria, io sono stato obbligato per un lungo
periodo al segreto su tutta la vicenda ed evidentemente non potevo rivelare all’assemblea consiliare
alcuni particolari che rappresentavano la chiave del misfatto e per i quali giustamente ci si
interrogava. Tanto è vero che dagli stessi inquirenti mi fu impedito di tenere un comizio che avevo
programmato nei giorni successivi all’arresto di corrotti e corruttori.
Non bastavano le maldicenze che sul mio conto avevano messo in giro i democristiani, ora ci
provavano anche i compagni della sinistra e ciò mi provocava immenso dolore. Evidentemente essi
mal tolleravano il nostro protagonismo politico e non si rendevano conto che esso era frutto sia
della loro pochezza sia dell’ostinato rifiuto all’azione unitaria da noi insistentemente perseguita.
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Non potevamo certo essere considerati responsabili noi di “Alternativa democratica” e del Pdup per
il comunismo dei loro limiti e delle loro manchevolezze.
Più tardi nel tempo, in specie durante gli anni di “tangentopoli”, il ricordo della vicenda che ho
vissuto in quella circostanza, mi ha indotto a una serie di riflessioni. Mi sono spesso chiesto come
fosse possibile che un decennio precedente, io avessi rappresentato una rarità nel panorama politico
della sinistra. Forse a causa delle mie limitate conoscenze della cronaca politica, di casi come il mio
non ne avevo avuto sentore. Eppure, i compagni impegnati in istituzioni ben più importanti di
quella cui appartenevo io, erano molti, un vero e proprio esercito. Pensavo agli interessi in gioco
sull’uso del territorio e dell’attività edilizia nelle grandi città, nelle aree metropolitane, e mi
meravigliava il fatto che la quasi totalità dei miei compagni eletti non avessero mai avuto avances
come quelle che erano state fatte a me. O comunque non avessero avuto motivo di farne pubblica
denuncia, quasi che altrove i tentativi di corruzione non avessero avuto svolgimento.
E mentre questo tarlo mi rodeva nel cervello, mi consolavo con il considerarmi un precursore della
lotta a “tangentopoli”.
21. L’attività politica e culturale durante il secondo mandato istituzionale
Il clima di scontro politico che è venuto a crearsi nei primi mesi del mio secondo mandato di
consigliere comunale, unitamente al fatto che la prospettiva di succedere a Cominelli in Consiglio
regionale era ormai svanita, mi ha indotto a considerare l’opportunità di dare continuità alle
battaglie che avevo ingaggiato assecondando così le insistenze dei compagni perché non rassegnassi
le dimissioni.
Nei quattro anni e mezzo che sono stato presente in Consiglio comunale di Ponte San Pietro, grazie
all’insostituibile supporto del collettivo di compagni che mi sono stati accanto garantendomi una
preziosa collaborazione, ho cercato di dare il meglio di me stesso per contrastare le politiche
democristiane e formulare proposte alternative in ogni ambito di competenza dell’ente locale.
Prima ancora che in sede istituzionale, la nostra lotta fondava le radici nel vivo della società civile.
Consideravamo gli istituti della rappresentanza democratica una cassa di risonanza delle
problematiche sociali e attribuivamo loro un’importanza in ragione del grado di ricettività delle
istanze dei governati. In Consiglio comunale ci consideravamo portavoce dei bisogni collettivi e
dell’interesse generale e in questa sede formulavamo proposte e soluzioni che avevamo maturato
mediando la prassi politico-sociale sul territorio con le esperienze più generali di cui avevamo
conoscenza, nonché con il sapere e con le teorie politiche ereditate dalla tradizione del movimento
operaio e democratico.
La nostra forza consisteva dunque non già nella semplice dialettica o polemica politica, come
qualcuno insisteva nel far credere, ma nel radicamento sociale e nella predisposizione al progetto,
all’elaborazione e alla sperimentazione, oltre che all’integrità morale.
E’ con questo spirito che abbiamo dato continuità alle nostre battaglie sui fronti dell’urbanistica e
dell’edilizia, dell’inquinamento e della salvaguardia dell’ambiente; che abbiamo affrontato il
problema del diritto all’abitazione, quello delle case malsane e degli affitti; che ci siamo battuti per
il rivoluzionamento della scuola e per una presenza qualificata in essa degli organi collegiali; per
l’istituzione dei comitati di quartiere, per le politiche giovanili, contro la diffusione delle pratiche
alienanti, per lo sviluppo di iniziative culturali, ricreative e sportive al riparo dalle degenerazioni
competitive e dal conformismo.
In due settori d’intervento abbiamo profuso particolare impegno: quello dell’occupazione e del
lavoro e quello della sanità, della salvaguardia della salute e dell’assistenza agli anziani e alle
persone con handicap.
Già nei primi anni ’80 la transizione postfordista aveva messo in discussione il futuro di molte
aziende che avevano fatto la storia del territorio e i problemi della garanzia del posto di lavoro e
della conseguente precarietà incominciavano ad assumere aspetti drammatici. Mentre le strategie
aziendali rimanevano materia d’intervento esclusiva del ceto imprenditoriale, i vari governi centrali
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e periferici si limitavano ad assecondare le loro pretese (riduzione del costo del lavoro,
intensificazione dei ritmi, facilità di licenziamento, ecc.) senza chiedere alcuna contropartita:
eloquente è stato l’esempio dell’abolizione della “scala mobile” insistentemente perseguita dal
“socialista” Craxi.
Noi ci siamo battuti a fondo contro l’offensiva padronale e governativa tentando non solo di fare
trincea sui diritti acquisiti, ma cercando di elaborare soluzioni di riconversioni produttive e far
crescere il potere di controllo e di intervento delle classi lavoratrici attraverso la diffusione dei
consigli di fabbrica e l’istituzione dei consigli di zona.
Nell’82, in preparazione di un convegno che era stato progettato come momento di riflessione
unitaria delle espressioni della sinistra politica e delle organizzazioni sindacali, abbiamo prodotto e
pubblicato uno studio sullo sviluppo dell’Isola bergamasca alla cui realizzazione hanno contribuito
quasi una cinquantina di soggetti individuali e collettivi. Suo obiettivo era appunto quello di far
emergere nuovi indirizzi di sviluppo produttivo e di programmazione territoriale e impegnare nella
loro realizzazione l’intero arco delle forze progressiste. Il progetto purtroppo non ha avuto successo
a causa delle spinte antiunitarie mai sopite nei nostri confronti della componente moderata del Pci.
Sul fronte della salute, anche in rapporto alla nostra presenza nell’Unità socio-sanitaria locale
territoriale, sempre con la piena collaborazione del collettivo dei compagni di “Alternativa
democratica” e dei collettivi di base e giovanili della zona, abbiamo dichiarato guerra alla
malasanità e alle disfunzioni del sistema che nonostante la riforma stentava a essere rinnovato a
causa degli interessi privati che continuavano a foraggiarlo.
Abbiamo lottato contro gli abusi della Casa di cura S. Pietro, per l’istituzione di un “pronto
soccorso” efficiente e gratuito, per il miglioramento della qualità dei servizi, contro le
compromissioni e gli illeciti dei gestori della Ussl. In più occasioni abbiamo presentato denunce ed
esposti alla Magistratura e agli organi istituzionali superiori e abbiamo cercato di smascherare gli
intrighi e gli abusi che sul fronte della salute pubblica venivano perpetrati da chi aveva la
responsabilità del suo governo.
Tutta la nostra attività politico-istituzionale svolta durante il mandato 1980-1984, è documentata
nelle raccolte del mensile “Setteeunpercento”, una pubblicazione di informazione e confronto,
satirica e di denuncia, ma anche propositiva. Per i primi due anni la sua diffusione è stata limitata al
comune di Ponte S. Pietro, per gli altri due invece è stata estesa a tutta l’Isola bergamasca.
Questo modesto foglio ha rappresentato per noi uno strumento non solo di comunicazione, ma di
critica e di autocritica del nostro stesso operato. La sua esistenza è stata il frutto di sacrifici da parte
anzitutto dei compagni del gruppo redazionale, ma anche di tutti coloro che hanno contribuito a
realizzarlo e a diffonderlo. Nei primi due anni alla sua fattura hanno contribuito in modo
continuativo Lino Biffi, Antonio Boschini, Emanuela Brumana, Enzo Calvi, Beppe Marasci,
Marcello Oberti, Marco Ravasio, Edo Ruggeri; nei due anni successivi, a questi compagni si sono
aggiunti Annamaria Brembilla, Marco Caio, Marco Crotti, Luca Fois, Giovanni Mangili, Fabio
Perico, Dario Preda, Emilio Schivardi e Giovanni Testa. Al suo sostegno hanno comunque concorso
decine e decine di collaboratori, tra i più assidui Graziana Brembilla, Ornella Capelli, Fabrizio
Consonni, Claudio Fasola, Luigino Lazzarini, Gianni Magni, Sperandio Mangili, Aldo e Donato
Rota, il cui rapporto di fiducia e di solidarietà e l’entusiasmo dimostrato non potrò mai dimenticare.
La presenza di “Setteeunpercento” ha infatti riscosso l’attenzione di un largo pubblico rispetto alla
modesta consistenza politico-organizzativa del collettivo di compagni che lo ha realizzato, tant’è
che ci sono stati momenti in cui la sua diffusione (a pagamento) ha superato le mille copie mensili.
Uno dei criteri di gestione democratica e aperta del mensile era costituito dalle periodiche verifiche
con i lettori sui suoi contenuti e sulla sua impostazione; la gestione amministrativa era invece
fondata sul principio dell’autofinanziamento e della severità contabile il cui merito va attribuito
soprattutto al compagno che teneva i cordoni della borsa, cioè Beppe Marasci.
Oltre al mensile avevamo fondato un circolo culturale, “Il ponte”, e in maniera combinata tra i due
soggetti, abbiamo promosso una serie di iniziative che per la nostra realtà territoriale hanno
rappresentato delle vere e proprie novità. Abbiamo organizzato incontri oltre che politici, anche
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culturali, promosso manifestazioni di piazza e mostre; al Cinema Italia di Ponte San Pietro abbiamo
organizzato spettacoli di Dario Fo e Franca Rame, tutte iniziative che hanno ottenendo successi
insperati.
Il circolo culturale “Il ponte” ha poi realizzato due libri di immagini e di testimonianze sulla storia
di Ponte San Pietro i quali hanno incontrato un indiscusso apprezzamento dell’opinione pubblica.
Di ognuno di essi ne sono state stampate oltre 1.500 copie che nel giro di poco tempo sono andate a
esaurimento. Abbiamo avuto conoscenza che sono state apprezzate anche da ex cittadini di Ponte
San Pietro emigrati all’estero e che alcune copie sono finite in Paesi come la Svizzera, la Germania,
la Francia, gli Stati Uniti.
La loro realizzazione e la loro pubblicazione sono state curate da una parte degli stessi compagni
della redazione di “Setteeunpercento”, con il contributo integrativo di Gianni Magni, Gianmario
Natali, Bruno Ravasio e Virgilio Zambelli. Queste pubblicazioni hanno rappresentato per noi una
vera e propria impresa che, almeno in alcuni suoi aspetti, vale la pena di ricordare.
22. La pubblicazione dei libri sulla storia del paese natio
Quando nella primavera dell’80 mi è stato proposto di ricandidarmi al Consiglio comunale, i
compagni mi hanno mostrato centinaia di fotografie della gente e dei luoghi di Ponte S. Pietro. Le
avevano raccolte nel corso degli anni precedenti ed essendo loro intenzione di raccoglierle in un
pamphlet da pubblicare, desideravano che le visionassi e stendessi un breve testo di presentazione.
Scorrendole, mi sono reso conto che, se sistemate in successione di tempo, integrate con altro
materiale da raccogliere e accompagnate da un commento, avrebbero potuto rappresentare la
ricostruzione di alcune importanti fasi della storia della comunità locale. L’idea di arricchire,
ordinare e commentare quel materiale fotografico è piaciuta a tutti e ha avuto così inizio un lavoro
collettivo di raccolta ulteriore tra la popolazione di fotografie insieme a quello di ricerca e di
documentazione storica. Dopo alcuni mesi il materiale fotografico raccolto si è moltiplicato e ha
avuto inizio la fase di selezione e di sistemazione. A me è stato affidato il compito di stendere delle
schede e tutti insieme abbiamo impostato il volume.
Pronti per la stampa, abbiamo richiesto dei preventivi di spesa ad alcuni tipografi e abbiamo
incominciato a ragionare come realizzare il progetto. Ci siamo mossi in due direzioni: la prima, è
stata quella di verificare la disponibilità di eventuali sponsor o finanziatori; la seconda, non avendo
a nostra disposizione il capitale necessario da investire, quella di individuare il modo di rimediare le
risorse necessarie alla stampa.
Per noi costituiva già un rischio la pubblicazione di “Setteeunpercento” e non potevamo
assolutamente azzardare di fare passi più lunghi della nostra gamba.
Che l’ambiente in cui operavamo non ci fosse amico, e che dunque non dovevamo illuderci di facili
sostegni, l’avevamo capito sin dall’inizio dell’impresa. Per arricchire la documentazione che
stavamo mettendo insieme, avevo chiesto di consultare l’archivio parrocchiale, ma l’accesso mi era
stato perentoriamente negato dal parroco. La Parrocchia aveva già aperto il suo prezioso scrigno a
uno storico che aveva poi pubblicato un libro e riteneva di aver esaurito così il suo dovere
d’informazione verso la comunità. Ero poi interessato a che la più grande azienda del territorio ci
fornisse un contributo fotografico e documentario della sua storia, ma la mia istanza non è stata
nemmeno presa in considerazione. Nonostante questi dinieghi, c’era in noi la speranza che qualcuno
apprezzasse il nostro sforzo.
Per quanto riguardava il problema delle risorse, ho dapprima interpellato un direttore di banca
sull’eventuale disponibilità a una loro sponsorizzazione del libro, poi ho chiesto
all’Amministrazione comunale la disponibilità a un patrocinio dell’iniziativa. Da entrambi i
soggetti, però, ho avuto segnali di chiaro disinteresse e dunque risposte negative.
A quel punto abbiamo proceduto nell’esplorazione di soluzioni alternative e individuato la
possibilità di rimediare parte delle risorse lanciando una campagna di prenotazioni della
pubblicazione attraverso la richiesta di versamento di una quota anticipata di denaro.
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Quell’intuizione si è rivelata geniale: in poche settimane abbiamo raccolto oltre 700 prenotazioni.
L’anticipo di denaro ci ha consentito non solo di procedere alla stampa del libro, con la certezza che
almeno la metà del debito sarebbe stata coperta, ma ci ha dimostrato l’esistenza nella società civile
di Ponte San Pietro di una fiducia insperata nei nostri confronti e questa testimonianza ci ha
incoraggiato nella nostra azione.
Nel maggio del 1981 è venuto così alla luce “Cronache e immagini storiche di Ponte San Pietro”. E
nel giro di alcuni mesi siamo riusciti a saldare il debito contratto con la tipografia. Visto il successo
ottenuto, abbiamo incominciato a ragionare su una nuova pubblicazione.
Eravamo consapevoli che la ricostruzione storica da noi compiuta e contenuta nel volume,
rispondeva a una visione parziale e a un’interpretazione unilaterale degli avvenimenti, perciò
ritenevamo non solo giusto, ma doveroso offrire la possibilità a chi ne fosse stato interessato, di
esprimere liberamente il proprio pensiero e di raccontare la propria esperienza di vita. In questo
spirito abbiamo deciso di continuare a raccogliere nuovo materiale fotografico e insieme le
testimonianze di chiunque ritenesse utile farlo ai fini di una seconda pubblicazione.
Abbiamo lanciato una nuova campagna promozionale e, lasciando aperta la possibilità a tutti di
contribuire alla costruzione di un racconto collettivo, abbiamo individuato alcune decine di persone
e di soggetti collettivi ai quali rivolgere un formale invito alla collaborazione.
E’ stato un lavoro immane, non solo fatto di contatti e di sollecitazioni, ma anche di ausilio alla
stesura dei testi. Per la stragrande maggioranza dei nostri interlocutori, infatti, a causa della loro
scarsa disposizione alla scrittura, abbiamo dovuto ricorrere alla registrazione orale del racconto, alla
sua stesura e alla successiva verifica da parte degli autori prima di essere ufficializzato. Lasciando
piena libertà a ognuno di esprimere il proprio credo e la propria esperienza, sia politicamente che
moralmente, ci siamo limitati a esercitare un’azione censoria solo in quei casi in cui la descrizione
dei fatti o le tesi sostenute potevano risultare offensivi per le persone chiamate in causa, e quindi
suscettibili di contestazioni se non addirittura di formali denunce.
Siamo riusciti a far parlare o scrivere oltre una novantina tra persone fisiche e soggetti collettivi di
svariata estrazione sociale e di diverso orientamento politico.
Purtroppo, abbiamo dovuto registrare il rifiuto di molti soggetti da noi interpellati e sollecitati a
scrivere. Tra questi meritano di essere citati un ex sindaco del paese, un esponente locale di spicco
della Democrazia cristiana, un sacerdote, un dirigente storico dell’oratorio giovanile maschile, i
titolari di una famosa famiglia imprenditoriale, due importanti ex dirigenti d’azienda, un dirigente
sindacalista “bianco”. E a rendersi non disponibili alla collaborazione sono state anche alcune
persone appartenenti ai ceti popolari, compresa una lavoratrice tessile sindacalista della Cgil.
Tra coloro che non hanno accolto il nostro invito, solo una persona si è sentita in dovere di
giustificare in modo chiaro le ragioni del diniego. Si è trattato di un anziano signore, molto
rispettato in paese e con precedenti d’impegno politico amministrativo, il quale si è scusato
dichiarandosi dispiaciuto di non aderire alla nostra iniziativa. E ha motivato la sua defezione
sostenendo che una sua eventuale testimonianza si sarebbe inevitabilmente scontrata con un comune
sentimento diffuso nell’opinione pubblica locale a riguardo dell’operato di un sacerdote dei tempi
passati, il quale veniva celebrato come persona di indubbia integrità morale, quando invece, pur
essendo noto a molti, veniva pubblicamente nascosta la sua omosessualità. Un suo contributo alla
comprensione della storia della comunità locale – mi ha confessato – non avrebbe potuto occultare
tale verità, pertanto, piuttosto che rischiare di suscitare polemiche e provocare litigi, anche se con
dispiacere, aveva preferito rinunciare alla testimonianza. A me non rimase che rispettare il suo
silenzio e rendergli grazie per il coraggio morale, per la sincerità e la chiarezza dimostrate.
La presentazione pubblica del libro è avvenuta nel maggio dell’84, dinanzi a un auditorio gremito e
attento, alla presenza di autorevoli critici. Apprezzando il lavoro del Circolo “il ponte”, il parroco
Don Giovanni Carminati ha esordito sottolineando che quella era una serata eccezionale per Ponte
San Pietro, perchè a fare i conti con la storia “si incontravano il diavolo e l’acqua santa” e ciò – a
suo dire – rappresentava un buon segno per il futuro. Mente il direttore didattico delle scuole
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elementari e medie locali, Antonino Speziale, ci ha gratificati considerandoci gli “Omero” di Ponte
San Pietro.
Sta di fatto, però, che nel corso degli anni a quel lavoro è stata prestata scarsa attenzione da parte sia
delle istituzioni sia di tutti coloro che si sono dichiarati magnificatori della storia locale. Per ben
trent’anni “L’Eco di Bergamo”, pur riprendendo la storia di Ponte San Pietro, in occasione della
ricorrenza del santo patrono, non ha mai citato una sola volta le pubblicazioni da noi prodotte,
mentre in ogni occasione ha esaltato il libro commissionato dalla Parrocchia. E pure le
amministrazioni comunali che si sono succedute le hanno ignorate, quando non hanno addirittura
reso difficile il loro reperimento.
Nessun docente delle scuole in cui i temi della cultura locale sono pure stati oggetto di attenzione,
ha mai avvertito il bisogno di invitare gli autori di quelle ricostruzioni per favorire nei ragazzi la
memoria, la dialettica e lo spirito critico. Eppure, come ha fatto notare Bruno Ravasio, il secondo
volume da noi pubblicato è da considerarsi un “unicum” nel panorama delle storie locali. La sua
caratteristica, infatti, è quella di rappresentare uno sforzo di memoria collettivo e dialettico e il suo
valore odierno è determinato dal fatto che oltre la metà degli autori non è più in vita, e senza le loro
testimonianze scritte parte della storia popolare di Ponte S. Pietro sarebbe stata destinata all’oblio.
Come si evince dagli avvenimenti che qui ho richiamato, l’azione politica e culturale da noi svolta
durante il primo lustro degli anni ’80 è stata sicuramente positiva, ma se da un lato abbiamo
conseguito lusinghieri successi, dall’altro abbiamo fallito non pochi obiettivi. Oltre tutto siamo stati
anche oggetto di angherie da parte dei poteri costituiti e degli avversari politici.
A fronte di una nostra denuncia alla Magistratura, il sindaco democristiano, in carica a quel tempo,
ha subito una condanna in primo grado all’interdizione dai pubblici uffici per un anno e alla pena
pecuniaria di 500 mila lire, anche se poi, in nome del garantismo e secondo la morale del partito dei
cattolici, egli non si è sentito in dovere di dimettersi.
In seguito alle nostre battaglie abbiamo costretto alle dimissioni, oltre all’assessore Antonino
Mittiga finito in carcere, anche altri due membri delle giunta comunale e poi due consiglieri, tutti
democristiani, mentre un terzo è stato espulso dal partito per essersi associato alle nostre proteste.
Abbiamo pure imposto parecchie modifiche a bilanci, regolamenti e deliberazioni varie. Abbiamo
introdotto un criterio di valutazione dell’attività amministrativa locale innovativo costringendo il
Consiglio comunale a discutere nel dettaglio, spesa per spesa, il bilancio consultivo confrontandolo
con quello preventivo, cioè con le scelte programmatiche dell’Amministrazione. Siamo riusciti
persino a far approvare, contro il culto speculativo della morte, una riforma delle norme cimiteriali
che aboliva la costruzione di tombe di famiglia per i facoltosi e incoraggiava la sepoltura in fossa, in
alternativa alla costruzione dei mostruosi loculi multipiani, come segno di uguaglianza almeno dopo
la morte. La nostra proposta di insediare un forno crematorio nel cimitero è stata invece considerata
frutto di fantapolitica e d’immoralità.
Una delle conquiste di cui mi sento fiero ancor oggi è consistita nella realizzazione della
“conferenza di servizio” dei dipendenti comunali. Ci sono voluti mesi di battaglie per convincere il
Consiglio comunale ad approvarla e un’infinità di discussioni per convincere sindacati e lavoratori
della sua utilità. Seppure boicottata dall’Amministrazione comunale che non si è nemmeno degnata
di essere presente con un suo esponente durante il suo svolgimento, essa ha rappresentato un
interessante momento di confronto sia sulle condizioni di lavoro e di trattamento dei dipendenti, sia
sulla qualità del servizio da loro stressi prestato a favore della comunità. Si è trattato di
un’esperienza che per dare frutti avrebbe dovuto essere aggiornata periodicamente, ma dopo di
allora non ebbe più impulsi né dalle amministrazioni comunali che si sono succedute né dalle
organizzazioni sindacali.
Di buone pratiche e di orientamenti amministrativi nuovi, insomma, ne abbiamo imposti parecchi,
solo che essi si sono rivelati insufficienti a determinare una generale svolta di indirizzi e,
soprattutto, si sono rivelati frutto di una particolare stagione politica che non si è più ripetuta. E
pure a livello della società civile crediamo di aver contribuito a modificare, seppure in dimensioni
limitate, il senso comune di una parte dei cittadini e di aver incoraggiato il protagonismo sociale.
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Evidenziato questo, però, non possono essere negati o nascosti i nostri limiti e i nostri fallimenti che
sicuramente sono stati più numerosi delle conquiste conseguite.
Uno dei rimpianti maggiori riguarda sicuramente la mancata rimozione di un sindaco che è stato al
centro degli scandali e che, come ho ricordato, è stato dichiarato interdetto.
Personalmente poi, ho il rammarico di non essere riuscito a convincere i compagni a realizzare
un’ambizione che ho coltivato per un certo periodo di tempo: allestire una rappresentazione teatrale
con interpreti noi stessi sulle iniquità degli amministratori democristiani.
Evidentemente, oltre ai condizionamenti del sistema politico e sociale con cui avevamo a che fare,
le ragioni di un tale negativo bilancio sono da individuarsi nella non adeguata qualità della nostra
stessa azione e in una palese insufficienza di credibilità nell’opinione pubblica dei nostri progetti e
dei nostri comportamenti.
In effetti, in quel periodo, io mi sentivo amato e stimato da una sola parte della popolazione, mentre
venivo osteggiato, temuto e persino odiato dagli avversari politici. Dalla stragrande maggioranza
dei cittadini mi sentivo considerato con distacco e spesso pure con cinismo, ero visto come colui
che operava non per l’interesse comune, ma per crearsi le condizioni di conseguire una brillante
carriera politica; il che non corrispondeva alle mie ambizioni.
Sono stato pure oggetto di discriminazioni e di soprusi. La Dc, ad esempio, ha posto
pregiudizialmente il veto sul mio ingresso nel Comitato di gestione della Ussl, ruolo che per la
verità a me non interessava affatto. Dai democristiani ero aborrito al punto che mi è stata persino
negata la delega, da parte del sindaco, di celebrare le nozze civili di mio cugino Giovanbattista
Beretta il quale desiderava tanto che fossi io a suggellare la sua unione.
Più ancora di simili miserandi atteggiamenti da parte dei maneggioni del potere, a ferirmi
moralmente, è stato però il contegno settario assunto verso di noi, in particolare verso di me, dai
compagni del Pci. Come documentano le cronache dell’epoca, il nostro sforzo per mantenere aperto
il dialogo e per intensificare l’iniziativa unitaria con loro e con le altre forze di sinistra e
progressiste è stato costante. Del resto, in una realtà “bianca” come la nostra non era possibile fare
altrimenti.
Nel momento in cui abbiamo deciso di organizzare il convegno sullo sviluppo dell’Isola, abbiamo
coinvolto tutti i rappresentanti delle forze della sinistra nella sua preparazione e nella sua gestione.
Sul fronte della sanità e dell’azione, nella Ussl abbiamo sempre concordato con loro i termini
dell’iniziativa e delle denunce pubbliche e alla Magistratura.
Non ci siamo proprio mai sentiti in concorrenza con loro, perciò le critiche che spesso ci sono state
rivolte erano del tutto pretestuose e un simile comportamento, purtroppo, ha nuociuto non tanto e
solo a noi, ma alla stessa causa del cambiamento.
23. I guai con la giustizia
Nel periodo che va dai primi anni ’70 alla fine del ‘900, sono stato trascinato davanti ai tribunali
della giustizia italiana oltre una decina di volte. Sul numero esatto delle denunce ho perso il conto,
ricordo solo i casi più gravi e politicamente più significativi.
Le sedi giudiziarie cui ho dovuto rendere conto dei miei presunti reati sono state quelle di Bergamo,
Brescia, Como, Milano e Monza. Le imputazioni sono state varie: dai comizi non autorizzati ai
manifesti affissi abusivamente, fino alla diffamazione a mezzo stampa, reato di cui sono stato
accusato almeno cinque volte.
L’aspetto positivo di queste drammatiche esperienze è che non ho mai subito una condanna: nella
maggioranza dei casi sono stato assolto, in due è stata ritirata la querela, mentre in uno è intervenuta
la prescrizione.
Tra la fine degli anni ’70 e la metà di quelli ’80, ero diventato – mio malgrado – un assiduo
frequentatore del foro bergamasco costruendomi di conseguenza una cattiva nomea. Ricordo che il
difensore legale di un esponente democristiano che mi aveva querelato, ha iniziato la sua arringa
avvertendo il presidente del Tribunale che davanti a lui c’era un “diffamatore di professione”, che
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appunto sarei stato io. Quando l’ho sentito pronunciare quell’accusa gratuita e provocatoria, ho
avuto uno scatto d’ira e a salvarmi da un’ulteriore probabile imputazione di aggressione è stato il
pronto intervento delle forze dell’ordine presenti al dibattimento.
In due o tre processi ho avuto come sostituto procuratore Antonio Di Pietro, mente a difendermi
nella maggioranza dei casi è stato l’avvocato Riccardo Olivati il quale, oltre a essere un compagno,
mi è stato amico sincero. A lui devo non solo il merito di avermi messo al riparo da possibili
condanne, ma anche di avermi assistito gratuitamente in tre importanti e tormentate occasioni.
Quando gli chiedevo doverosamente la parcella, mi rispondeva che l’avevano già saldata i suoi
clienti facoltosi. Egli è stato uno degli avvocati più apprezzati e stimati del foro di Bergamo e
protagonista di molti processi che hanno avuto risonanza nazionale.
Un giorno mi ha confessato la sua meraviglia per il fatto che i magistrati non mi avessero convocato
a deporre al “processone” a carico degli esponenti di Prima linea, che si era tenuto a Bergamo tra la
fine dell’’81 e la primavera dell’82, nel quale ha avuto un ruolo di avvocato difensore. Mi ha
spiegato che nel corso del dibattimento, da parte di alcuni degli imputati, ero stato più volte indicato
come protagonista di avvenimenti e di episodi che erano attinenti alle manifestazioni di protesta di
quel tempo. Evidentemente la Magistratura mi conosceva talmente bene da non aver bisogno di
alcuna verifica sul mio comportamento.
Si era da poco concluso il processo a mio carico per il dossier sulla malasanità agli Ospedali Riuniti
di Bergamo quando, a seguito della denuncia di un provvedimento di favore riservato a una
cooperativa edilizia “bianco-verde”, a scapito di un’altra costituita invece da socialisti e comunisti,
sono stato querelato da un sindaco democristiano per diffamazione.
Dopo parecchie convocazioni, sono stato dichiarato assolto dal reato imputatomi, a dispetto non
solo dei democristiani, ma anche di una dirigente locale del Pci, un avvocato, che si era resa
disponibile come testimone a scagionare il sindaco e, di conseguenza, ad avvalorare la sua querela
nei miei confronti.
Udita la sentenza, il sostituto procuratore Di Pietro, che nel corso del dibattimento aveva sostenuto
la mia assoluzione, ha dichiarato, anche in questo caso, di avocare a se l’imputazione del sindaco
per malaffare; una tale procedura però non ha mai avuto seguito. A riprendere in mano il caso è
stato invece un procuratore della Repubblica della corte d’appello di Brescia, probabilmente dietro
sollecitazione dei querelanti, il quale si è opposto alla mia assoluzione. Quando un anno dopo sono
stato convocato davanti ai giudici di secondo grado, sono stato destinatario di un riconoscimento
inatteso. Aprendo l’udienza, il presidente della Corte d’appello si è rivolto all’avvocato della
controparte, informandolo che aveva letto attentamente gli atti processuali ed era giunto alla
conclusione che il ricorso era da respingere. Invitandolo a non far perdere tempo agli operatori della
giustizia, ha espresso pubblicamente l’auspicio che rappresentanti istituzionali come Moioli ce ne
fossero molti, giacché una loro massiccia presenza avrebbe evitato privilegi e abusi e favorito lo
stesso lavoro della Magistratura. Mai mi sarei aspettato di ricevere un simile complimento in
un’aula giudiziaria da un’autorità di quel rango.
In verità, con la Magistratura ho avuto rapporti dall’alterna valenza. Se da un lato mi è stata data la
possibilità di verificare l’imparzialità di molti di coloro che sono chiamati a giudicare, dall’altro –
come del resto mi ha testimoniato la risoluzione del caso Ospedali riuniti di Bergamo – ho
conosciuto i lati deboli e ambigui del sistema e il fare meschino di alcuni suoi operatori.
In uno di questi processi in cui ero imputato di diffamazione a mezzo stampa, nel corso di una
udienza, un magistrato mi aveva rimproverato di aver fatto ricorso allo scandalo pubblico, quando
invece sarebbe stato cosa più ragionevole che io avessi sottoposto direttamente il caso alla
Magistratura la quale – a dir suo – avrebbe provveduto a intervenire secondo giustizia. Gli ho fatto
notare che il mio ruolo era quello del politico e che il mio naturale interlocutore era la società civile
nei confronti della quale ero tra l’altro impegnato a formare una nuova coscienza sociale. La sua
osservazione, però, ebbe a colpirmi e a farmi riflettere. Per un verso, la consideravo offensiva,
perché sott’intendeva che io ero mosso più dal desiderio di notorietà, piuttosto che dal senso di
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giustizia sociale; per altro, la interpretavo come una sfida e quindi l’occasione per mettere alla
prova la sua coerenza.
Erano trascorsi alcuni mesi da quel rimprovero, quando mi è stata offerta l’opportunità di scoprire
quali fossero le vere intenzioni e proposizioni di quell’uomo di legge.
Mi era stato segnalato che in un presidio ospedaliero bergamasco venivano usati filtri per dialisi e
protesi vascolari di equivoca provenienza e che vi era ragione di supporre che dal punto di vista
economico si verificassero delle irregolarità a danno del sistema sanitario, dal momento che si
trattava di materiale molto costoso. Di riscontro, i servizi riservati ai pazienti erano insufficienti e
avevano già da tempo suscitato lamentele e proteste.
Con l’obiettivo di accertare i fatti e con la collaborazione di alcuni operatori dei rispettivi enti
interessati, ho avviato un’indagine che mi ha portato a delle scoperte sorprendenti. Il primario del
reparto del presidio ospedaliero bergamasco era anche direttore di un’unità sanitaria analoga di un
grande ospedale di una città lombarda; in questa ultima struttura, nei mesi precedenti, si erano
verificati dei furti di materiale sanitario corrispondente a quello ritenuto sospetto. Questa
coincidenza l’ho accertata analizzando le denunce che erano state regolarmente fatte alle forze
dell’ordine dalla direzione dell’ospedale.
A quel punto ho allargato le ricerche anche al presidio ospedaliero della città lombarda e,
contemporaneamente, ho fatto i dovuti accertamenti a riguardo della fatturazione del materiale in
questione presso l’assessorato regionale della sanità.
Detto in sintesi, ho scoperto: a) che il materiale rubato nel presidio ospedaliero della città lombarda
corrispondeva a quello usato nel presidio bergamasco; b) che a trasferirlo da un ospedale all’altro
era lo stesso primario il quale, con la complicità di un infermiere, lo caricava clandestinamente sulla
sua automobile in un sacco dell’immondizia che veniva calato dalla finestra; c) che il presidio
ospedaliero bergamasco metteva in carico al sistema sanitario il suo impiego, determinando così un
duplice esborso da parte della Regione.
Quando sono riuscito a svelare questo ignobile intrigo e a raccogliere una documentazione
dettagliata con precisi riferimenti al materiale, alle strutture sanitarie interessate e alle persone
coinvolte, ho telefonato a quel magistrato che mi aveva rivolto il rimprovero; gli ho accennato i fatti
e gli ho chiesto un incontro. Supponevo mi invitasse nel suo ufficio, ma invece non è stato così. Mi
ha precisato che sarebbe stato compromettente per lui se si fosse saputo che aveva rapporti con me,
perciò mi ha proposto di vederci in un bar di periferia. All’incontro, gli ho spiegato nel dettaglio la
vicenda, gli ho consegnato la documentazione che mi ero procurato e l’ho avvertito che in quel giro
risultavano implicati personaggi eccellenti del mondo medico-scientifico bergamasco e lombardo.
Perciò gli ho chiesto se era disposto a far fronte a un impatto di quel genere, sapendo che lo
smascheramento di quell’intrigo avrebbe provocato uno scandalo e una reazione degli stessi poteri
costituiti.
Egli mi ha rassicurato a riguardo della sua determinazione e lo ha fatto in una maniera tale che mi
ha convinto della sua sincerità. A quel punto abbiamo deciso di mantenerci in stretto contatto, lui
aggiornandomi sulle varie tappe della procedura che avrebbe messo in atto, io comunicandogli altri
eventuali particolari delle mie indagini.
Due giorni dopo quell’incontro, nella struttura del presidio ospedaliero bergamasco è stata inviata
un’équipe della Guardia di Finanza con il compito di fare gli accertamenti sia contabili che sulle
prestazioni sanitarie erogate. Io ho seguito il lavoro di questa squadra tramite i miei informatori.
Una settimana dopo che avevano avuto inizio i controlli, ho avuto notizia che la direzione del
presidio aveva sottoposto la moglie dell’ufficiale della Finanza incaricato delle indagini a un check-
up gratuito. Ho avvisato immediatamente del fatto il magistrato e il giorno dopo la squadra
d’indagine era diretta da un altro graduato. Il pronto intervento del mio interlocutore inquirente mi
così ha confermato la sua buona fede.
Alcuni giorni dopo questa sostituzione, egli mi ha avvertito che non riuscivano a rintracciare il
materiale sanitario clandestino proveniente dall’altra struttura ospedaliera; evidentemente i dirigenti
della struttura ospedaliera avevano provveduto ad occultarlo. Ho consultato urgentemente i miei
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informatori e ho saputo che lo nascondevano in un ripostiglio dell’altare della chiesetta del presidio.
In quel luogo sacro, infatti, dai finanzieri sono stati rinvenuti numerosi filtri per dialisi e protesi
vascolari.
Con quel magistrato mi sono incontrato altre due o tre volte, mai però nel suo ufficio e sempre in
luoghi poco frequentati e durante le ore serali, cioè di nascosto.
Trascorsa una ventina di giorni, sono stato informato dai miei referenti nella struttura ospedaliera
privata che il primario era in procinto di partire per gli Stati Uniti. Preoccupato per una sua
eventuale fuga, ho riferito immediatamente la notizia al magistrato. In quell’occasione mi è stato da
lui stesso confermato che avevano recuperato le prove materiali e contabili per l’incriminazione. Il
danno procurato al sistema sanitario – mi è stato detto – era di almeno cinque o sei volte superiore
alla stima che avevo fatto io. Data l’entità del reato, sul suo tavolo erano già pronti cinque mandati
di arresto. A quel punto mi ero illuso di aver fatto una buona scelta ricorrendo direttamente alla
Magistratura, rinunciando a una denuncia pubblica che avrebbe costituito per me un merito politico.
Il corso della vicenda, però, ha smentito quel mio convincimento.
Dopo alcuni giorni, non avendo più notizie e, soprattutto, non avendo il riscontro che mi aspettavo
dagli organi di stampa, ho cercato di mettermi in contatto con il magistrato il quale, però, è risultato
irreperibile e da allora non ho più avuto occasione né di incontrarlo né di sentirlo. Doveva essere
intervenuto qualcosa o qualcuno che ha bloccato il regolare decorso dell’iter giudiziario e al
magistrato, evidentemente, tornava difficile giustificare a me l’avvenuto affossamento
dell’indagine.
Erano trascorsi dei mesi quando un giorno mi è capitato di intravederlo da lontano mentre
percorrevo una via cittadina; lui stava procedendo verso di me e avremmo dovuto incontrarci, a un
tratto però non l’ho più visto, si è improvvisamente eclissato. Probabilmente il suo imbarazzo era
tale da indurlo a far di tutto per evitarmi. Non trascorse molto tempo e venni a sapere che era stato
trasferito in un'altra città del Nord Italia.
Alcuni mesi dopo ho vissuto un’altra vicenda con un altro magistrato il cui significato considero
assai eloquente di come vanno le cosa nel nostro Paese.
Un giorno, a casa mia, ho ricevuto la telefonata di un presidente di Tribunale il quale era stato
giudice in due dei miei processi per diffamazione. Egli mi ha invitato a recarmi presso il suo ufficio
avendo una questione urgente da sottopormi. Il giorno dopo mi sono presentato all’appuntamento e
ho avuto la spiegazione di quella inattesa e strana convocazione.
Lui era un aderente al Msi e aveva deciso di presentare la sua candidatura al Consiglio Superiore
della Magistratura. Come suo programma aveva intenzione di pubblicare un volumetto in cui erano
raccolte le sue esperienze giudiziarie, nonché le sue proposte di riforma della giustizia. A me
chiedeva di leggere il manoscritto, di esprimergli il mio giudizio e di aiutarlo a trovare un tipografo
che gli stampasse alcune centinaia di copie.
La sua proposta mi ha letteralmente sconvolto. Gli ho chiesto anzitutto la ragione per cui aveva
pensato di rivolgersi a me, considerato che ero all’opposto dello schieramento politico cui egli
apparteneva e che dalla più parte dei magistrati godevo di una reputazione poco raccomandabile.
Mi ha risposto che mi considerava una persona onesta di cui aveva una fiducia che altri non
meritavano. Sul momento non sono riuscito a situare lo spartiacque tra quanto fosse sincero il suo
dire e quanto invece intendesse fare uso spregiudicato della mia persona. Nonostante questa
incertezza, mi sono fatto consegnare il manoscritto con la promessa di leggerlo in tempi brevi e di
comunicargli il mio giudizio a riguardo del suo contenuto.
Si trattava di 40-50 fogli dattiloscritti, in parte corretti e fitti di aggiunte a mano, che ho letto la sera
stessa. All’istante ho giudicato il testo una vera e propria bomba: quel magistrato aveva ripreso
alcune vicende giudiziarie e facendo riferimento a precisi ruoli e personaggi, denunciava
interferenze, manomissioni, deviazioni, false certificazioni e sentenze pilotate di cui era stato
testimone. Non citava nomi, ma i loro autori erano facilmente identificabili. I contenuti propositivi
di riforma della giustizia, che avrebbero dovuto essere la parte più corposa e importante dello
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scritto, erano poca cosa rispetto alle accuse che egli rivolgeva al sistema e, in specifico, al mondo
giudiziario nel quale egli stesso era inserito.
Non ho perso tempo e il mattino successivo gli ho telefonato per dirgli che il pomeriggio sarei
andato a trovarlo nel suo ufficio. Quando ci siamo incontrati gli ho espresso la mia meraviglia e mi
sono complimentato per il suo coraggio. Gli ho però confessato che consideravo la sua iniziativa un
atto non solo azzardato, ma decisamente compromettente la sua carriera, anzi un atto pericoloso per
la sua stessa incolumità. Il sistema non avrebbe sopportato una denuncia del genere, per di più
formulata da un suo stesso autorevole rappresentante.
Egli mi ha ascoltato con attenzione, mi ha detto di apprezzare la mia franchezza, ma mi ha precisato
che non intendeva per nulla rinunciare alla pubblicazione di quel dossier, il quale per lui costituiva
l’unico mezzo per avanzare di grado. Infine mi ha pregato di indicargli una tipografia che sarebbe
stata disposta a stamparlo.
Seppure con grande esitazione ho esaudito il suo desiderio e gli ho fornito l’indirizzo di uno
stampatore di mia conoscenza, impegnandomi a contattarlo per spiegargli preventivamente il caso.
Ho insistito nel fargli presente i rischi che egli avrebbe corso, ma non c’è stato verso di fargli
cambiare proposito. Mi sono accordato di risentirci a stampa avvenuta.
Purtroppo, però, come del resto avevo previsto, quel libello non è mai venuto alla luce. Allorquando
il tipografo aveva appena dato inizio alla stampa, si è trovato in azienda la polizia giudiziaria la
quale ha requisito il manoscritto e tutto quanto era stato stampato.
La sera del giorno di quel sequestro, poco dopo la mezzanotte, ho ricevuto una telefonata dal
magistrato. Mi ha comunicato di essere fuggito dalla città e di essersi rifugiato nella sua roulotte
parcheggiata sulle rive di un lago, perché aveva saputo che i suoi superiori lo stavano cercando e mi
chiedeva di essere disponibile a seguire la sua vicenda. La sera del giorno successivo mi ha
ritelefonato. Era alloggiato in un albergo cittadino e mi detto che anche suo padre lo stava cercando
e temeva di essere trasferito con la forza in una struttura sanitaria di una località del centro Italia.
Ho avvertito la sua disperazione e mi ha impressionato il suo appello a non lasciarlo solo.
Francamente, però, io non avevo alcuna idea di come avrei potuto aiutarlo. Dopo quella sera non si
è fatto più vivo.
Un mesetto dopo, da un avvocato, ho saputo che era stato rimosso dal suo incarico presso il
Tribunale di Bergamo e trasferito in una località ignota.
Dato certo è che una sua candidatura al Consiglio Superiore della Magistratura non c’è mai stata.
24. L’autoscioglimento del Pdup e il ritorno al Pci
Se dai miei avversari politici ero detestato e da alcuni ero addirittura temuto, da una piccola cerchia
di povera gente ero considerato una brava persona. C’è stato un periodo in cui mi sembrava
d’interpretare la parte di un azzeccagarbugli paesano. Mi ero fatto la fama di difensore dei più
deboli e da alcuni ero ritenuto una sorta di avvocato delle cause perse.
Durante i miei mandati istituzionali, a seguito delle pubbliche denunce di casi e di situazioni di
ingiustizia di cui ero autore, si sono rivolte a me molte persone che avevano subito torti o avevano
problemi annosi irrisolti, le quali riponevano in un mio intervento l’ultima speranza. Mi si chiedeva
di far fronte a casi in cui non venivano rispettate le norme di legge in materia occupazionale, in cui
veniva negato il riconoscimento dell’assicurazione previdenziale; spesso erano vicende di
malasanità, di situazioni abitative inadeguate o antigieniche, di contese di proprietà e via di questo
passo.
In molti casi indirizzavo chi si rivolgeva a me alle organizzazioni sindacali competenti o ai
compagni e amici avvocati, notai, medici, operatori sociali che si rendevano disponibili ad
adoperarsi per la risoluzione dei loro problemi. In alcuni casi, invece, intervenivo direttamente
minacciando denunce pubbliche o vertenze giudiziarie.
Una volta ho avuto a che fare direttamente con uno dei titolari del Cotonificio Legler il quale, dopo
una mia richiesta di rispetto dei diritti sindacali nei confronti di un dipendente di una società
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sportiva che lo stesso imprenditore presiedeva, non si è nemmeno degnato di dare risposta scritta
alla mia istanza. Dopo un mese di silenzio, gli ho scritto nuovamente minacciando la denuncia alla
Magistratura e accusandolo di avere comportamenti tipici della “razza padrona”. Quel mio
improperio – come mi è stato poi riferito – lo ha molto contrariato, ma non intendendo manifestarmi
personalmente la sua irritazione, ha incaricato il sindaco, che era un suo diretto collaboratore, di
trasmettermela pubblicamente nel corso di una seduta del Consiglio comunale. Qualche giorno
dopo, però, ha incaricato il suo studio legale di trovare una mediazione al problema e io ho così
avuto la soddisfazione di aver piegato la sua resistenza e aperto la strada a una ragionevole
soluzione del contenzioso. Devo confessare che ancor più del risultato conseguito, ad appagarmi è
stato l’avergli ricordato in maniera accusatoria l’appartenenza al mondo dei prepotenti.
Di soddisfazioni del genere ne ho avute parecchie e per me hanno costituito un compenso dal valore
inestimabile e insostituibile. Vedere personaggi potenti e arroganti chinare la testa, anche se per soli
alcuni istanti, dopo essere stati colpiti nei loro punti deboli, costituiva per me motivo di grande
gioia. Lo vivevo come una piccola manifestazione di riscatto delle classi subalterne nei confronti di
chi aveva il dominio della società.
Quando questi miei interventi si concludevano con esiti positivi, come è avvenuto nella
maggioranza dei casi che ho affrontato, succedeva che da parte di alcuni beneficiati divenivo
oggetto di riconoscimenti non solo morali, ma anche materiali. Mi sono trovato spesso nelle
condizioni di dover fronteggiare delle battaglie di carattere etico-morale. A casa mia sono spesso
arrivate buste di ringraziamento che contenevano soldi e pure regalucci di varia natura. Il
proprietario di un terreno sul lago di Endine, dopo che era riuscito a risolvere una vertenza di
eredità tramite un mio modesto contributo, in segno di gratitudine, voleva donarmi una piccola
porzione di bosco.
Ebbene, tranne che farmi offrire un caffé o al massimo una cena in compagnia, ho sempre respinto
qualsiasi offerta di ricompensa. Ricordo che in un sol caso l’ho fatto con grande dispiacere. Avevo
aiutato un professionista a risolvere una sua vicenda edilizia e lui, in occasione delle festività
natalizie, mi aveva recapitato a casa uno di quei cestini pieni di generi vari (panettone, spumante,
cioccolatini, frutta esotica, ecc.) alla cui vista i miei figli avevano esultato. Quando sono rientrato a
casa, vedendo quel cesto, ho preso il telefono e ho invitato quel signore a venire immediatamente a
riprendersi quell’omaggio, pena la minaccia di una denuncia per corruzione. Con quell’atto, però,
ho oggettivamente assunto il ruolo di padre insensibile e ingrato, sottovalutando il desiderio dei
miei figli di poter godere di quelle ghiottonerie. Quell’atteggiamento di rigore politico-morale ha
pesato per lungo tempo sulla mia coscienza.
Eppure, ritenevo di non avere alternative a tali comportamenti. Ero convinto, come del resto lo sono
ancor oggi, che per un politico, l’evitare la deriva morale significa essere rigoroso anche di fronte a
piccoli e insignificanti favori e privilegi. Non bisognava transigere, occorre mantenere sempre una
condotta severa, perché diversamente si rischia di divenire prigionieri di meccanismi incontrollabili.
Dopo lo smacco per la mancata elezione al Consiglio regionale, i miei rapporti con i compagni
hanno subito un mutamento. Memore dello sgambetto che mi era stato fatto, mi chiedevo spesso
quanto sincero e leale fosse il loro atteggiamento nei miei confronti. La frequentazione degli
ambienti sia romani che milanesi mi procurava spesso disagio e sofferenza.
Avevo preso coscienza che anche nei rapporti tra coloro che si dichiaravano comunisti, ad avere il
sopravvento sullo spirito di solidarietà e sulla chiarezza dei rapporti era a volte la competizione.
Non mi riusciva più di distinguere chi mi fosse amico da chi invece avversario o competitor. E’ così
successo che per un lungo periodo la mia attività politica ne ha risentito sul piano dell’efficienza e
della dedizione.
Mi consolavo con la mia attività istituzionale a Ponte San Pietro e trovavo serenità negli ambienti di
periferia. Il mio lavoro al regionale si limitava alle realtà più deboli e concentravo le mie presenze
soprattutto a Lecco, Mantova, Pavia, Sondrio, dove il partito costituiva poca cosa e le tensioni erano
meno aspre, mentre gli interessi politici erano ancora genuini.
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Paradossalmente, è stato quello il periodo in cui durante alcuni miei comizi ho raccolto successi che
fino ad allora non avevo conosciuto e che nemmeno negli anni successivi ho potuto vantare.
In alcune località della stessa Lombardia, l’ultima sera di campagna elettorale, era consuetudine
degli elettori scendere numerosi in piazza per ascoltare gli ultimi comizi dei rappresentati dei vari
partiti che si svolgevano in sequenza dal tardo pomeriggio fino alla mezzanotte. In specie nelle
realtà dove la sinistra era forte sul piano elettorale, era abitudine di molte persone portarsi la sedia
in piazza per assistere per ore allo spettacolo di scontro oratorio tra i vari esponenti politici.
Dai compagni di Suzzara, nel mantovano, sono stato per alcuni anni il prescelto per concludere la
campagna elettorale del Pdup per il comunismo. Venivo sistematicamente abbinato al deputato
locale della Dc, che era un diretto collaboratore di Aldo Moro, affinché, intervenendo prima di lui o
dopo di lui, innescassi la polemica politica. Questa combinazione divertiva non solo loro, ma larga
parte degli ascoltatori. Io, del resto, potevo permettermi di contendere l’avversario a mio
piacimento, cosa che non potevano fare i compagni del Pci e del Psi, e questo mi aveva reso
popolare anche tra l’elettorato comunista locale.
Una consuetudine più o meno simile si era stabilita con i compagni di Calolziocorte, alle porte di
Lecco, dove mi è capitato – durante appunto dei comizi – di suscitare negli ascoltatori una tale
tensione da indurli a contestare platealmente gli avversari politici. Una volta oggetto della polemica
e della contestazione è stato il presidente della Giunta regionale Cesare Golfari, un’altra volta il
ministro Tommaso Morlino, cioè due pezzi da novanta dello staff democristiano. Per me quelli
erano momenti esaltanti.
Devo confessare che nell’esibirmi davanti a piazze gremite di persone attente e plaudenti, provavo
un’immensa soddisfazione e ciò compensava in parte le delusioni che la militanza politica mi aveva
riservato. Quelle polemiche plateali mi facevano sentire ancora utile e valido.
Il mio entusiasmo per l’attività di “rivoluzionario di professione” si è ridotto al minimo nel
momento in cui si è prospettata l’ipotesi di confluenza del Pdup nel Pci. Ciò era dovuto non tanto a
un ritorno alle origini, che ormai anche a me appariva l’unica prospettiva per dare continuità a un
impegno politico fattivo, ma perché ciò decretava il fallimento di un’esperienza nella quale avevo
riposto molte aspettative e per la quale avevo cercato di dare il meglio di me stesso.
Alla vigilia delle elezioni politiche dell’83, dalla direzione del partito è stata presa la decisione di
non presentare nostre liste e di includere i nostri candidati in quelle del Pci. Era il preludio dello
scioglimento del Pdup per il comunismo e l’inizio del lungo processo che ci avrebbe portato al
ritorno alla casa madre.
I compagni dell’esecutivo, del resto, già tempo prima avevano avuto rapporti con Berlinguer e, in
base a quanto ebbe a confidarmi personalmente anzitempo Lucio Magri,
l’operazione era caldeggiata dallo stesso segretario comunista il quale intendeva avvalersi di una
nostra presenza nelle file del partito per dare corso a quel rinnovamento di strategia che lui riteneva
inevitabile per un futuro di successo, e che incontrava invece forti resistenze sia nel gruppo
dirigente che nel quadro intermedio del partito.
Non tutti gli aderenti al Pdup, però, erano convinti della bontà di quella scelta e le divergenze
avevano creato in una considerevole area di compagni un clima non solo di tensione, ma anche di
disimpegno.
La confluenza ha avuto ufficialmente inizio il 2 gennaio dell’85, e come conseguenza ha
comportato una scissione consumata tra il grosso del partito e un gruppo di compagni che non
intendeva entrare a far parte del Pci. Tra chi non è confluito vi era anche un eminente esponente del
gruppo dirigente che non solo si era ufficialmente dichiarato favorevole a quella scelta, ma
addirittura – almeno secondo le indiscrezioni fattemi successivamente da un autorevole esponente
delle direzione – aveva brigato non poco con i dirigenti di quel partito affinché l’operazione
confluenza avesse successo. Si è trattato di Eliseo Milani il quale, eletto senatore proprio nelle liste
del Pci, faceva parte del gruppo della Sinistra indipendente.
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La sua scelta mi ha sconvolto; non mi è mai riuscito di giustificarla se non come una testimonianza
di opportunismo. Da quel momento non sono più riuscito ad avere con lui un rapporto di
collaborazione e di confronto.
Credo che quel mio atteggiamento fosse giustificato non solo da un astratto giudizio morale, ma
dalla consapevolezza che per tanti altri compagni lo scioglimento del Pdup ha comportato seri
problemi non solo sul piano dell’appartenenza politica, ma anche riguardanti le loro stesse
prospettive esistenziali. E il fatto che esistessero dirigenti i quali, al senso di responsabilità
collettiva, privilegiavano il tornaconto personale, non era da me facilmente digeribile.
Anche perché, rientrando nel Pci, io ero costretto a fare i conti con il particolare che tra i compagni
bergamaschi di quel partito non godevo affatto di una buona reputazione. Non solo in molti suoi
iscritti era ancora vivo il ricordo della mia radiazione, ma il mio successivo agire politico li aveva
indispettiti in molteplici circostanze e il mio rientro era vissuto come un problema. Si trattava di un
ostacolo che dovevo necessariamente affrontare, perché a quel tempo il rilascio della tessera del
partito era vincolato al luogo di residenza, e a me non restava altra scelta che iscrivermi a Ponte San
Pietro.
Ricordo che Luigi Marchi, allora vice segretario regionale del Pci, con il quale, una quindicina di
giorni prima che morisse, mi sono incontrato proprio per scambiarci le opinioni sulla nostra
confluenza, mi aveva avvertito delle ostilità che avrei incontrato. Mi disse testualmente che
l’avversione di diversi compagni del gruppo dirigente bergamasco verso di me era superiore a
quella che era riservata a Eliseo Milani. E purtroppo, Marchi è stato profetico.
Non solo ho incominciato a incontrare resistenze a avversità prima ancora che confluissimo nel Pci,
ma sono stato oggetto, assieme al compagno Vittorio Armanni, di un tentativo di emarginazione
ordito dal gruppo dirigente comunista bergamasco con la complicità di due esponenti locali dello
stesso Pdup ai quali, come contropartita, erano state promesse prospettive di carriera che poi sono
state puntualmente onorate.
Già alla fine dell’84 avevo allentato il mio impegno istituzionale a Ponte San Pietro disertando le
sedute del Consiglio comunale, proprio per evitare polemiche con i compagni del Pci i cui
comportamenti politici non mi riusciva proprio di sopportare.
Con i compagni della redazione di “Setteeunpercento Isola”, una parte dei quali non approvava la
confluenza, avevo concordato la chiusura del mensile e la nascita al suo posto di “Progetto
alternativa”, quale frutto di un accordo con i responsabili di zona del Pci i quali, a differenza di
molti loro compagni, avevano apprezzato la nostra decisione di rientrare. Questa operazione
giornalistica ha incontrato però perplessità e riserve da parte del gruppo dirigente provinciale del
partito le quali hanno condizionato gli accordi rendendo laboriose e tormentate le trattative. Alla
fine, il nostro obiettivo di mantenere in essere un mensile di zona, è stato conseguito, ma i contrasti
non sono mai cessati, anzi, con il passare del tempo sono aumentati.
Non migliori erano per me le prospettive su scala regionale. Non solo i compagni del Pdup che non
condividevano la scelta di aderire al Pci rappresentavano una parte consistente dell’organizzazione
ed erano distribuiti su tutto quanto il territorio regionale, ma anche tra coloro che avevano
approvato la decisione non vi era omogeneità di orientamenti e di comportamenti. Taluni ex
appartenenti al Movimento Lavoratori per il Socialismo, per esempio, invocando una Bad
Godesberg italiana, interpretavano la confluenza nel Pci come una svolta di strategia all’insegna di
un saggio moderatismo, mentre noi che in quel partito avevamo già militato la vivevamo come una
sfida di innovazione.
Alcuni compagni, poi, anziché attenersi agli accordi ufficiali, avevano avviato trattative dirette e
personali con i dirigenti delle strutture del Pci alle quali facevano territorialmente riferimento. E ciò
depotenziava e rendeva superflui o inutili gli accordi a livello regionale.
Quando aprii ufficialmente le trattative sulle condizioni della confluenza, la quasi totalità dei
problemi riguardanti le federazioni provinciali erano già stati istruiti e risolti; da chiarire rimaneva
solamente il destino che il Pci intendeva riservare alla mia persona. Già qualche tempo prima,
Riccardo Terzi, a quel tempo segretario regionale della Cgil, mi aveva prospettato un mio
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inserimento nell’organico sindacale, mentre il segretario regionale del Pci, Roberto Vitali, mi aveva
ventilato l’ipotesi di un mio inserimento in un non ben precisato consiglio di amministrazione.
Non presi nemmeno in considerazione le due proposte. Mi limitai a precisare loro che mio
intendimento era lavorare per il partito e che a quella condizione vincolavo il mio rientro.
Diversamente mi sarei trovato per conto mio una collocazione alternativa.
Non mi ero reso conto che nel Pci di quel tempo, spazio per soggetti come me non ne esistevano più
e che pure per loro il mio rientro costituiva un serio problema.
25. Il tormentato inserimento nell’organico del comitato regionale lombardo
La mattina del 2 gennaio ‘85 mi sono presentato alla segreteria del comitato regionale del Pci in via
Fulvio Testi, a Milano. Poiché la sede di via Volturno era in corso di ristrutturazione, gli uffici del
partito erano stati momentaneamente trasferiti al quarto piano dell’edificio de “l’Unità”.
Il ritorno al Pci costituiva per me motivo di curiosità e insieme di apprensione: ero ansioso di sapere
quale ruolo mi sarebbe stato assegnato e quale accoglimento avrei avuto.
Il segretario del partito Enrico Berlinguer, che aveva sollecitato la nostra confluenza, non c’era più
e al suo posto era stato designato Alessandro Natta, cioè colui che più di altri aveva operato per la
radiazione dei compagni del “manifesto”. A questa complicazione si aggiungeva il fatto che l’unico
membro del regionale del partito che mi era amico, Luigi Marchi, era anche lui deceduto mesi
prima per un cancro al cervello. Gli ambienti comunisti milanesi, peraltro, erano famosi per la loro
tradizionale avversione alle posizioni di estrema sinistra e per la loro indole riformista. Tutto questo
costituiva per me un problema ed ero pienamente convinto di dover affrontare un’ennesima prova di
duro adattamento.
Quel mattino sono stato ricevuto da Roberto Vitali e dai compagni della segreteria con cordialità.
Dopo avermi dato il benvenuto, mi hanno precisato che avrei potuto evitare di trasferirmi
quotidianamente da Bergamo a Milano e non avrei dovuto preoccuparmi di essere presente
costantemente in ufficio. Il giorno stesso sono stato assegnato al dipartimento economia-lavoro del
comitato regionale.
A quel tempo quel settore d’intervento era diretto da Piero Borghini e con lui ho da subito stabilito
un buon rapporto. La funzione che mi è stata affidata era di grande interesse per me, infatti, nei
mesi successivi mi ha permesso di prendere conoscenza di situazioni e problemi nuovi e di
allacciare rapporti con interessanti realtà sociali e con personaggi di indubbio valore politico e
professionale.
Nei due anni in cui ho svolto quel ruolo ho partecipato a convegni e riunioni su temi di grande
importanza quali: la programmazione economica, l’innovazione, le nuove tecnologie, la questione
energetica, la contrattazione sindacale, il protocollo Iri; ho avuto così modo di arricchire il mio
bagaglio culturale e politico e di conoscere da vicino molti compagni dirigenti del partito e del
sindacato.
Quella esperienza, però, anziché favorire la mia integrazione politica, è servita soprattutto a
stimolare la mia riflessione accentuando il mio spirito critico, con la conseguenza che le mie riserve
nei confronti della strategia e delle politiche del partito, anziché sciogliersi hanno subito
un’accentuazione. In alcune occasioni mi è addirittura capitato di dover mortificare il bisogno di
manifestare i miei convincimenti per non entrare in collisione con i miei interlocutori. Uno di questi
momenti l’ho vissuto in maniera tormentata in occasione del dibattito sulle tesi preparatorie del 17°
congresso del partito.
Erano i tempi in cui l’Alfa Romeo era entrata in crisi e a contendersi l’acquisizione dell’azienda
erano da un lato la Fiat, dall’altro la Ford. La commissione congressuale regionale del partito, della
quale facevo parte, era stata incaricata di avanzare un’ipotesi di soluzione del problema, sia dal
punto di vista produttivo che occupazionale. Poiché il dibattito si era arenato sul nodo della futura
proprietà, e i compagni si erano divisi tra coloro che parteggiavano per la Fiat e quelli invece che
privilegiavano la Ford, io mi sono permesso di far notare che valeva la pena di riflettere su una terza
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possibilità. In alternativa all’assorbimento dell’azienda da parte di uno dei due colossi dell’auto, era
da prendere in considerazione la possibilità di mettere a punto un progetto di riconversione
produttiva ricorrendo al sostegno della Gepi, cioè della finanziaria di Stato impegnata nel
salvataggio delle aziende in crisi. Sulla base della compatibilità degli impianti e attraverso l’avvio
di un graduale processo tecnologico innovativo, con i lavoratori dell’Alfa poteva essere studiata la
produzione di automobili non inquinanti e di beni di utilità sociale da introdurre sul mercato
attraverso il concorso degli enti locali e del sistema cooperativistico.
Quella mia proposta, anziché allargare la riflessione com’era nei miei intendimenti, ha provocato
visibilmente nei miei interlocutori stupore e incredulità. Tra gli altri, formavano la commissione,
Silvio Leonardi, europarlamentare ed esperto in materia economica, Aldo Bonaccini, deputato ed ex
dirigente sindacale, Riccardo Terzi, segretario regionale Cgil, e Sergio Soave, presidente della
Legacoop Lombardia. Era come se fosse loro apparso un marziano. Il compagno che presiedeva la
riunione mi liquidò con un secco commento: “bella idea, ma impraticabile”. Nella discussione che
è proseguita sono stato ignorato da tutti, sindacalisti compresi. Eppure il mio suggerimento era in
linea con la politica di austerità invocata qualche anno prima da Enrico Berlinguer e con i propositi
di riconversione ecologica dell’economia enunciati dai congressi precedenti.
Un altro smacco l’ho subito in occasione di alcuni congressi regionali delle categorie sindacali della
Cgil ai quali sono intervenuto come rappresentante del partito.
Ai tessili, già in crisi per le delocalizzazioni delle imprese nei Paesi in cui il costo del lavoro era più
conveniente, suggerivo la necessità di sovvertire l’influenza che sui tessuti e sui capi
d’abbigliamento avevano le case di moda per imporre invece uno stile conformato ai criteri della
semplicità e dell’utilità, dando così vita a un nuovo mercato fondato più sul valore d’uso e più
consono ai consumi popolari. Ai chimici sollecitavo un controllo e un intervento sugli effetti nocivi
per l’uomo e per l’ambiente di taluni cicli di produzione e degli stessi beni prodotti, affinché la lotta
contro l’inquinamento avesse luogo sul suo nascere e non solo quando il danno era ormai stato
provocato. Agli alimentaristi consigliavo il coraggio della denuncia nei casi, non rari, in cui veniva
praticato l’uso di sostanze pregiudizievoli alla salute nella confezione di alimenti a fini lucrativi e
l’estensione della produzione di taluni alimenti stagionali e legati a festività al resto dell’anno.
Salvo che raccogliere qualche applauso di ospitalità, questi miei suggerimenti non hanno avuto
alcun altra efficacia.
Un giorno ho elaborato delle statistiche sullo stato dell’occupazione in Lombardia e ho fatto delle
proiezioni sugli indici di disoccupazione per gli anni a venire. Avendo confuso le quantità degli
occupati con quelle delle forze lavoro, le previsioni che ho stimato si sono rivelate errate, almeno
così mi è stato fatto notare dagli esperti. Quella è stata per me un’esperienza mortificante; poco
dopo la mia presenza al dipartimento economia-lavoro del regionale ha avuto fine. Mi è stata fatta
la proposta di assumere la responsabilità dell’ufficio di segreteria regionale e anche se non ero
consapevole di cosa avrebbe significato, ho accettato il cambiamento.
Questa nuova funzione comportava l’onere di coordinare il lavoro dell’ufficio segreteria che
consisteva soprattutto nelle relazioni con le strutture centrali del partito e con quelle periferiche.
Altresì, implicava la mia presenza a tutte le riunioni dell’esecutivo regionale.
Si è trattato di un’esperienza per me molto interessante ed eloquente, anche se a un certo punto mi
ha procurato un vero e proprio rigetto, inducendomi a disertare le riunioni e a chiedere, dopo
qualche esitazione, l’assegnazione ad altro ruolo.
Il fatto che la segreteria regionale avesse deciso che dovevo essere presente a tutte le sue
convocazioni assistendo così alle discussioni, anche le più riservate, del gruppo dirigente, e venendo
di conseguenza a conoscenza dei problemi che in regione il partito era chiamato a risolvere, era
indubbiamente una testimonianza di fiducia nei miei confronti. Anzi, più volte sono stato sollecitato
dal segretario e dai membri di quell’organismo a esprimere le mie opinioni e quindi a interloquire
nel dibattito, e ciò non poteva che essere il segno di una volontà di coinvolgimento che mi
gratificava.
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Per tutta la fase iniziale di quell’esperienza sono stato lusingato di un tale benevolo atteggiamento
nei miei confronti, ma con il passare del tempo l’assistere ai lavori della segreteria mi è divenuto un
peso insopportabile.
Ero stato anch’io segretario regionale, seppure di una piccola formazione politica, ma mai mi era
capitato di presiedere una riunione in cui parlassi per ore riducendo al lumicino il confronto delle
posizioni tra i partecipanti. La segreteria del regionale del Pci era allora composta da sette membri i
quali, più che interlocutori, apparivano a me degli spettatori. Il “capo” parlava per ore e ore, molto
spesso esibendo una retorica insopportabile, mentre i componenti dell’esecutivo intervenivano in
modo saltuario, limitandosi in genere a sparse e brevi considerazioni e manifestando costantemente
il loro assenso. Rarissime volte mi è capitato di assistere a una manifestazione di dissenso e mai a
uno scontro politico. In sostanza, ero costretto ad assistere a uno spettacolo di falsa democrazia e
ciò urtava con le mie consuetudini e con i miei principi.
Questa mia nuova collocazione era compensata dalla soddisfazione che mi procuravano i numerosi
contatti che avevo con i dirigenti nazionali del partito e con i quadri delle strutture periferiche. Ero
collocato in un punto nevralgico dell’organizzazione politica e ciò mi offriva la possibilità di
conoscere nuove persone e nuove realtà, di fare nuove esperienze e di avere anche nuove
responsabilità.
Nel luglio dell’87, a seguito dello smottamento del Pizzo Coppetto che ha causato la distruzione di
due frazioni di Valdisotto e la morte di trentacinque persone, sono stato incaricato di coordinare
l’attività del partito in Valtellina. Anche l’affidamento di un tale compito ha rappresentato un
attestato di fiducia nei miei confronti da parte dei dirigenti regionali e io ho molto apprezzato questa
loro benevolenza.
Il mio rapporto con la segreteria, però, si è venuto deteriorando fino al punto di entrare in crisi nel
momento in cui nel partito si sono materializzate alla luce del sole le correnti. Da quel momento,
infatti, i comportamenti della maggioranza dei singoli compagni non hanno più obbedito al
principio della solidarietà e della lealtà di partito, ma hanno subito il condizionamento degli
interessi delle rispettive fazioni di appartenenza. Il mio antico disagio si è trasformato in
insofferenza, pertanto ho chiesto ufficialmente di essere trasferito ad altra funzione.
Contemporaneamente, la mia stessa attività politica di base in provincia di Bergamo era divenuta
oggetto di contestazioni e di attacchi da parte dei dirigenti della federazione. Nel gestire “Progetto
alternativa” ero riuscito a mettere assieme un gruppo di compagni che operavano con diligenza ed
entusiasmo e ciò turbava gli equilibri interni al partito. L’apparato di federazione non apprezzava
questo mio sforzo, anzi lo considerava un elemento di disturbo, una minaccia al moderatismo
politico che gli era proprio.
Attraverso il mensile, nella zona dell’Isola bergamasca, avevamo dato corso a pratiche e a iniziative
politiche che avevano un peso non solo negli ambienti di partito, ma nella stessa opinione pubblica.
Avevamo organizzato periodicamente dibatti con la presenza dei dirigenti nazionali del partito e di
esponenti di altre forze politiche, del mondo dell’economia, della cultura, del giornalismo, dello
sport, della società civile. Tra i tanti che avevano partecipato a tali iniziative ricordo Lucio Magri,
Claudio Petruccioli, Gianni Cervetti, Giovanni Brambilla, Giuseppe Vacca, Luciano Gruppi, Pio
Galli, Marina Rossanda, Giovanni Galloni, Gianni Baget Bozzo, Davide Maria Turoldo, Anna Del
Bo Boffino, Bruno Ambrosi, Nando Dalla Chiesa, il console sovietico Serghei Kuznetzov, un
rappresentante dell’Olp, i campioni sportivi Alberto Cova e Claudio Corti.
A Sotto il Monte Giovanni XXIII avevamo organizzato iniziative sul tema del confronto tra cattolici
e comunisti che hanno avuto un successo strepitoso.
Abbiamo pubblicato uno studio su “scuola e lavoro” nella zona dell’Isola e della Valle Imagna
prodotto da una quarantina di persone e divenuto oggetto di riflessione e confronto non solo
politico, ma anche sociale.
Evidentemente, tutta questa produttività politica era mal tollerata dagli esponenti bergamaschi del
partito i quali, peraltro, sul carattere non ortodosso dello stesso mensile non avevano mai cessato di
manifestare le loro riserve.
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Sta di fatto che dopo oltre tre anni e mezzo di impegno politico nella periferia bergamasca, sono
stato messo nelle condizioni di abbandonare la direzione di “Progetto alternativa” e di richiedere la
tessera del partito a una sezione milanese. E a sospingermi a questo distacco non sono stati solo
quei dirigenti bergamaschi del Pci che sin dall’inizio avevano considerato il rientro nel partito mio e
della compagna Liliana un problema, ma anche quella parte di ex militanti del Pdup che hanno
trovato conveniente ai fini della loro carriera politica la mia emarginazione. Non posso tralasciare di
ricordare che per garantire a Liliana una sistemazione occupazionale non precaria, dieci mesi dopo
il rientro, dovetti scrivere una lettera di protesta a Gavino Angius, responsabile nazionale
dell’organizzazione del partito, ricordandogli che la nostra confluenza aveva comportato l’entrata
nelle casse del Pci di un patrimonio, tra liquidi e beni immobiliari, stimabile in 700-800 milioni di
lire e che pertanto era inaccettabile che i compagni di Bergamo non garantissero prospettive a una
compagna che era nell’organico del Pdup.
Ad aggravare le mie sofferenze hanno però concorso sia l’atteggiamento passivo degli stessi
compagni della redazione di “Progetto alternativa”, i quali non hanno avuto il coraggio di ribellarsi
alle subdole manovre del gruppo dirigente provinciale ma ad esso si sono piegati ossequiosi, sia
l’indifferenza degli esponenti del comitato regionale.
26 – La responsabilità della formazione politica
Qualche mese prima che si aprisse il dibattito sulle tesi del 18° congresso del partito, mi è stata
affidata la responsabilità della formazione politica a livello regionale. Non sono mai riuscito a
darmi ragione di quella scelta da parte della segreteria, anche se era forte in me il sospetto che fosse
una maniera per rendermi del tutto innocuo. Ad ogni modo ho accolto quella decisione con
compiacimento. Ero ben consapevole dell’inesorabile processo riformista che stava investendo il
partito e che, di conseguenza, la stessa attività di formazione politica vecchio stampo era ormai in
declino, eppure l’idea di essere ufficialmente autorizzato dal gruppo dirigente a concorrere a
formare le coscienze dei compagni mi esaltava. E il fatto stesso che con quella scelta io rischiavo di
entrare definitivamente nel “cimitero degli elefanti”, cioè in quell’area di parcheggio che
rappresentava un po’ l’anticamera del pensionamento, non mi turbava più di tanto.
Fare formazione politica significava, tra l’altro, lavorare a stretto contatto con la scuola centrale di
partito, cioè con l’Istituto di studi comunisti delle Frattocchie, dove quasi un quarto di secolo prima
avevo vissuto un’esperienza che era ancora viva in me come uno dei momenti più gratificanti della
mia esistenza. Da subito, infatti, i miei rapporti con quel tempio della cultura comunista sono stati
ottimi e intensi. Con il gruppo di compagni che aveva la responsabilità della sua direzione ho
stabilito un feeling che mai avrei immaginato fosse possibile.
Rispetto ai tempi in cui l’avevo frequentata, la scuola di Frattocchie aveva subito un cambiamento
sia di metodo che di merito. Si era adeguata alle nuove strategie del partito, non aveva però perso la
sua austerità e su di me continuava a esercitare un fascino irresistibile. In quell’istituto si erano
forgiate generazioni di comunisti, si erano temprati i gruppi dirigenti del partito e io intravedevo in
essa la martoriata storia del movimento operaio. Ogni volta che varcavo la sua soglia avvertivo un
senso di rispetto e di gioia insieme e mi sentivo orgoglioso di essere parte di quel contingente di
uomini che nella lotta contro lo sfruttamento dell’uomo, per la pace, la solidarietà e la giustizia
sociale si sono resi disponibili a sacrificare i propri personali vantaggi.
Vivevo pertanto quell’incarico politico come una missione e insieme come una sfida; in primo
luogo con me stesso, considerato che la mia preparazione culturale era limitata, e questa mia
debolezza era un incentivo per accrescere le conoscenze; e poi nei confronti di quelle pratiche del
partito che in nome della modernità assopivano nella coscienza dei compagni l’interesse e il senso
di rispetto verso la storia e le tradizioni del movimento operaio e verso il valore dell’acquisizione di
un’autonomia di pensiero da parte di ogni singolo militante.
Purtroppo, nel partito la formazione politica era considerata sia dai gruppi dirigenti che dalla base
una pratica marginale, di secondaria importanza, da taluni addirittura residuale, e per essa non
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esistevano adeguate risorse e sensibilità. Lo stesso archivio che mi è stato messo a disposizione, il
quale costituiva una parte della memoria storica dello stesso partito a livello regionale, consisteva in
una documentazione scarsa e frammentata di libretti, opuscoli e documenti riposti in un bugigattolo
ammuffito. La maggioranza delle federazioni era addirittura priva di un responsabile del settore e
laddove nel passato l’attività di formazione dei quadri aveva avuto svolgimento, da anni ormai era
stata abbandonata. Insomma, il compito che mi era stato affidato costituiva una vera e propria
impresa. E forse era anche questa una chiave d’interpretazione della scelta che il gruppo dirigente
aveva fatto a mio carico.
Poco dopo aver assunto la responsabilità della formazione, ho promosso un sondaggio indirizzando
a 170 segretari di sezione un questionario per conoscere disponibilità e opinioni sulla promozione di
iniziative (cicli di studio e di riflessione) e per avere suggerimenti e consigli sia sui modi di
procedere che sui temi da trattare. Solo un terzo di loro mi ha gratificato di una risposta e il 98% si è
dichiarato disponibile a un incontro considerando fondamentale l’attività di formazione. Alla
segreteria regionale ho proposto la convocazione di una riunione per discutere l’esito di quel
sondaggio e decidere un itinerario di lavoro, ma la mia istanza non è stata accolta. E’ stato invece
incaricato il presidente della commissione regionale di controllo, il senatore Giovanni Brambilla, di
svolgere una verifica sui miei propositi di lavoro.
Di fronte a quell’atteggiamento non mi sono scoraggiato e, seppure incontrando ostacoli e
difficoltà, in pochi mesi sono riuscito a organizzare dei cicli di riflessione sulla storia del
movimento operaio e del Pci in specifico, in alcune sezioni della periferia lombarda. A rispondere al
mio appello sono stati soprattutto i giovani, alcuni iscritti al partito altri alla Fgci, i quali hanno
dimostrato sincero interesse per la conoscenza del passato e una ferma determinazione nel voler
essere protagonisti nel processo di elaborazione delle strategie e delle politiche del partito. La loro
presenza e il loro impegno hanno rappresentato per me motivo di incoraggiamento nel proseguire in
un compito che mi si presentava più difficile del previsto.
Nonostante le difficoltà, sono riuscito a estendere l’esperienza dei cicli di riflessione storico-politica
a diverse realtà sia di alcuni capoluoghi di provincia che di periferia. Altresì mi sono sforzato nel
coniugare la storia del partito con il dibattito sulle scelte politiche del momento e con le tesi
congressuali. In questo modo ho legittimato l’esistenza e l’utilità dell’ufficio formazione. E non ho
nemmeno trascurato il confronto esterno al partito incontrando anche qui numerosi ostacoli e
imbattendomi in alcune sorprese.
In occasione di un dibattito sull’eredità di Antonio Gramsci, ho ritenuto interessante coinvolgere
oltre ai dirigenti di partito anche uomini di cultura e politici di altri partiti. Ho quindi chiesto la
disponibilità a partecipare all’iniziativa, tra gli altri, a Giorgio Bocca che in quel periodo aveva
assunto un atteggiamento critico nei confronti del Pci. Dopo avergli spiegato l’argomento della
riflessione, in modo laconico e con tono provocatorio egli mi ha risposto: “Chi è Antonio
Gramsci?”. Mai da un ex partigiano mi sarei aspettato una reazione simile.
Nella realtà bergamasca non sono invece riuscito a organizzare nemmeno un solo ciclo di
riflessioni, probabilmente perché era tale la disistima nei miei confronti da indurre il gruppo
dirigente di quella federazione a scoraggiare nel partito qualsiasi iniziativa che potesse
coinvolgermi.
Come ho già ricordato, la segreteria regionale aveva delegato a vegliare sul mio operato il
presidente stesso della commissione di controllo del comitato regionale al quale, almeno nella fase
iniziale, ho sottoposto progetti e risultati. Da lui ho sempre avuto incoraggiamenti e suggerimenti e
non è mai capitato che mi fossero rivolte critiche o riserve.
Un giorno, un compagno dell’amministrazione mi ha fatto una soffiata. Mi ha informato che un
anziano compagno benestante, alla sua morte aveva lasciato in eredità al partito, oltre a un numero
imprecisato di appartamenti, anche una villa con parco da destinarsi a una fondazione il cui scopo
doveva essere quello di promuovere la formazione politica dei giovani comunisti. Non ho avuto
alcuna esitazione, dopo aver appreso la notizia mi sono precipitato dal segretario regionale per
chiedergli conto se quanto mi era stato riferito corrispondeva al vero. Con molto imbarazzo mi è
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stato confermato il lascito, non mi è però stato spiegato il perché ero stato tenuto all’oscuro. Sono
così venuto a sapere che a seguire la pratica notarile era stato incaricato il compagno Giuliano
Asperti, allora consigliere regionale. Da quel giorno non ho più avuto notizie sul destino di quel
patrimonio e sulla fondazione che avrebbe dovuto essere costituita; mai nessuno si è sentito in
dovere di fornirmi una qualche spiegazione.
Con l’avvio del dibattito precongressuale, il mio impegno è stato indirizzato nel coniugare la storia
con l’attualità politica e questo accostamento mi ha portato a concentrare la mia attenzione su due
argomenti la cui importanza veniva, a mio avviso, colpevolmente trascurata dalla stragrande
maggioranza dei compagni. Il primo era quello riguardante la divisione del partito in vere e proprie
correnti; il secondo l’esplodere nelle aree del Nord Italia del fenomeno leghista.
Il mattino successivo a una direzione nazionale del partito, il segretario regionale mi ha chiamato
nel suo ufficio e mi ha informato che il giorno precedente aveva parlato di me con il segretario
Occhetto. Giorni prima la direzione aveva deciso che la preparazione del 18° congresso sarebbe
stata istruita attraverso la discussione di tre progetti di tesi e ogni compagno avrebbe dovuto
schierarsi in favore di uno di essi. Era questa l’ufficializzazione dell’esistenza nel partito di correnti
e della legittimazione della contesa tra di loro.
Io avevo appreso la notizia di questa decisione una sera mentre ero a Pegognaga, nel mantovano,
impegnato in un ciclo di riflessioni sulla storia del Pci. L’evento mi ha profondamente turbato e mi
ha fatto riflettere per tutto il tempo del rientro in automobile. Giunto a casa, verso le 2 di notte, mi
sono dato da fare per rintracciare un testo del famoso psicologo-zoologo Konrad Lorenz sullo studio
dei comportamenti animali che mi era rimasto impresso. L’insigne studioso aveva osservato che
quando un gruppo di oche non è più chiamato a fare i conti con il nemico esterno, immancabilmente
si crea il nemico al proprio interno dando così luogo a una lotta fratricida. Ebbene, quella mi
sembrava essere la sorte che la direzione del partito si era scelta. Avendo già vissuto sulla mia pelle
le conseguenze di una lotta politica tra schieramenti, mi sentivo un antesignano di fazioni intestine a
un’organizzazione politica e perciò consideravo la scelta compiuta dalla direzione una vera
sciagura.
Secondo quanto riportato dal segretario regionale Vitali, Occhetto lo avrebbe invitato a informarmi
che sarebbe stata gradita una mia adesione alla mozione n° 1, cioè a quella componente di cui egli
era il massimo rappresentante. Questo, anche in rapporto al fatto che il grosso del gruppo di
compagni dell’ex Pdup, Magri in testa, aveva annunciato di aderire alle tesi sostenute da Ingrao. Da
parte dei due dirigenti del partito, dunque, mi veniva rivolto l’invito alla rottura con la mia storia e
alla diserzione dei miei vecchi compagni.
A Vitali ho anzitutto ricordato lo studio di Lorenz, e dopo avergli precisato che a mio avviso, con la
decisione presa dalla direzione, il partito si sarebbe dilaniato con le proprie mani, poiché,
combattendosi a vicenda per la supremazia della corrente di appartenenza, i compagni avrebbero
trascurato la lotta politica e perso di mira l’avversario esterno, gli precisai che non intendevo
parteggiare per nessun schieramento e che la mia scelta era di rimanere nel partito come comunista
senza alcuna connotazione di parte, almeno se questa collocazione era considerata legittima.
Ero pienamente consapevole che anche in questo caso, col non aver assecondato i suggerimenti dei
“capi”, avrei compromesso qualsiasi prospettiva, se mai ci fosse stata, di avanzamento nella carriera
politica.
In me prevaleva la preoccupazione per il futuro della sinistra. Fin che a lacerarsi con le proprie mani
erano le piccole formazioni di sinistra, i danni conseguenti potevano essere sopportati dall’insieme
dello schieramento, ma se ad autoflagellarsi era il grande partito comunista, a pagarne le
conseguenze sarebbe stato di sicuro l’intero movimento dei lavoratori, in primo luogo le fasce
sociali più deboli. Difatti, nel momento in cui il confronto-scontro di posizioni ha avuto inizio, il
rapporto tra i compagni, non solo a livello dirigenziale ma anche di base, si è deteriorato, hanno
avuto inizio le riunioni di conventicola e l’unità d’intenti è venuta meno. Il “nemico” principale non
era più all’esterno, ma all’interno dello stesso partito. La forza della sinistra ne è risultata
enormemente indebolita, la sua credibilità è stata messa a rischio e nel Paese, già immerso nella
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crisi del fordismo, ha avuto inizio quel processo politico che ha portato le forze moderate e
conservatrici, vecchie e nuove, ad avere il sopravvento.
Sono così venute scemando sia la forza di contestazione del sistema che l’aggressività dell’azione e
della proposizione politica alternativa, e la stessa capacità di avvertire quanto di nuovo stava
maturando nel tessuto sociale ha registrato un collasso.
E’ stato proprio in quella fase politica che, di fronte allo stato di distrazione in cui era venuto a
trovarsi l’insieme del partito, ho avvertito il bisogno e la responsabilità di concentrare la mia
attenzione sul fenomeno leghista.
Per la verità, nel marzo dell’88, il Comitato regionale lombardo aveva promosso un seminario sul
nascente movimento di Bossi, ma a quel momento di riflessione non ha più fatto seguito alcuna
altra iniziativa specifica. Il partito era impegnato in ben altre dispute.
Ho incominciato così a interessarmi alla vita di quel movimento e a studiarne le mosse in un
contesto politico che mostrava vistosi segni della profonda crisi che stava investendo l’intero
sistema dei partiti.
Nei programmi di riflessione che proponevo ai compagni, avevo incluso anche il tema delle nuove
forme di razzismo che stavano emergendo e del pericolo rappresentato dalla presenza, nelle regioni
del nord del Paese, delle leghe secessioniste.
Avevo dato così inizio a quel lavoro che mi avrebbe portato alla stesura su tale argomento di ben tre
saggi.
27 – L’impegno nello studio del leghismo
Nella primavera del 1990, quando ho deciso di dare alle stampe il mio primo saggio sul leghismo,
mi sono prodigato affinché a pubblicarlo fosse il partito, tramite gli Editori Riuniti o un altro ente
editoriale. Era questa una scelta che consideravo doverosa, poiché non vi era confine tra il mio
impegno politico e il mio tempo libero; ero poi convinto, così facendo, di contribuire ad arricchire il
patrimonio di analisi del partito stesso. Roberto Vitali, al quale avevo espresso questo mio
desiderio, ha ritenuto però che non fosse il caso di assumersi una tale responsabilità, perciò sono
stato messo nella condizione di brigare personalmente per trovarmi un editore. A pubblicarlo sono
state infatti le Edizione Associate di Roma, mentre a stendere la prefazione si è prestato Valentino
Parlato, allora direttore de “il manifesto”. E sì che mesi dopo, lo stesso Vitali andava dicendo nelle
sezioni del partito che era stato lui a sollecitare la pubblicazione del mio lavoro!
“I nuovi razzismi. Miserie e fortune della Lega Lombarda” ha rappresentato la prima analisi
organica, dal punto di vista politico, del fenomeno leghista e proprio per questo i mas-media hanno
dato segno di apprezzarlo. Per me è stato un successo inatteso, considerato sia il mio modesto ruolo
politico sia la mancanza di notorietà come autore di saggi.
Nei mesi successivi ho avuto modo di presentare il volume in settantacinque iniziative pubbliche;
ad esso sono state dedicate da parte di quotidiani, settimanali e riviste una sessantina di recensioni e
io sono stato gratificato da diverse interviste radiofoniche e televisive.
Durante una delle prime presentazioni, in un capoluogo lombardo, ho avuto modo di incontrare Il
direttore si un istituto di ricerca milanese il quale mi ha riferito che il presidente del Cnel, Giuseppe
De Rita, era interessato al mio lavoro e mi proponeva un rapporto di collaborazione.
Quell’autorevole attenzione ovviamente mi ha lusingato, ma al latore di quel messaggio ho
precisato in maniera perentoria che le mie prestazioni erano riservate esclusivamente al mio partito.
Non ebbi mai motivo di pentirmi di quella presa di posizione, ma qualche anno dopo, sulla mia
dedizione allo schieramento di sinistra, sono stato indotto a ricredermi e a chiedere io stesso a
quello stesso ricercatore di poter collaborare con il suo istituto.
I miei studi sul fenomeno leghista mi hanno consentito di entrare in contatto con molteplici realtà
dello schieramento politico progressista e di conoscere e interloquire con famosi personaggi del
mondo politico, della cultura e della ricerca sociale.
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Nei primi anni ’90, l’atteggiamento dei gruppi dirigenti della sinistra verso il leghismo emergente
non era omogeneo. Le federazioni comuniste interessate a studiare il fenomeno e a mettere in
campo una strategia per contrastarlo erano poche. Dopo la pubblicazione del mio saggio sono stato
chiamato a svolgere relazioni sull’argomento dai comitati federali di Modena e di Lecco. Altrove la
promozione di dibattiti e di momenti di riflessione è stata affidata all’iniziativa spontanea delle
singole organizzazioni territoriali.
Maggiormente interessato al fenomeno, in quel periodo, è stato il sindacato dei metalmeccanici
della Cgil il quale mi ha invitato a partecipare a una tavola rotonda alla Sala stampa di Milano alla
quale, oltre al segretario nazionale di categoria, Angelo Airoldi, a Susanna Camusso, allora
all’inizio dell’attività sindacale, e ai sociologi Laura Balbo e Renato Mannheimer, era presente il
“teologo” della Lega, il professor Gianfranco Miglio.
Dopo aver partecipato ad alcune decine di iniziative pubbliche, attraverso le quali ho potuto
rendermi conto della scarsa consapevolezza del pericolo rappresentato dal montare nella società
dell’intolleranza verso le diverse etnie e della fobia antistatalista alimentata dal leghismo, mi sono
convinto dell’opportunità di approfondire le mie argomentazioni coinvolgendo quelle sezioni e quei
compagni che si erano dimostrati disponibili al dialogo. Ho dato così inizio alla stesura del secondo
libro sull’argomento, cioè de “Il tarlo delle leghe”.
A pubblicarlo, nell’autunno del ’91, si è resa disponibile l’Associazione Gramsci di Milano la quale
qualche tempo prima aveva dato vita a una piccola casa editrice, la Comedit 2000.
Pietro Ingrao, leader storico della sinistra comunista, mi aveva promesso di stendere la prefazione,
perciò, appena ho arrangiato il testo definitivo, mi sono premurato di inviarglielo non solo per
conoscenza, ma anche per avere da lui un giudizio ed eventuali suggerimenti. Trascorso un mese
senza avere né un suo cenno né la presentazione promessa, ed essendo io interessato a rendere
pubblico il saggio prima della tornata elettorale di novembre, l’ho richiamato per conoscere le
ragioni di quel silenzio. Scusandosi per il ritardo, Ingrao mi ha chiesto di avere pazienza per un
altro mesetto, giacché i suoi impegni erano tali da non consentirgli di onorare la promessa fattami.
Ho interpretato quel suo ritardo come una manifestazione di reticenza nel prendere una chiara
posizione sul leghismo. In quel momento, il capo storico della sinistra comunista mi si rivelava
uomo di scarsa coerenza. Come nel ‘56, quand’era direttore de “l’Unità”, aveva tergiversato sulla
condanna dell’intervento sovietico in Ungheria; come ancora nel ’69 non aveva preso la difesa dei
compagni del “manifesto” di fronte alla decisione della direzione di radiarli, così di fronte al mio
invito dimostrava di non avere il coraggio di manifestare il dissenso nei confronti delle mie
posizioni o, in alternativa, di opporsi al silenzio della direzione del partito sull’argomento.
Ho quindi rinunciato al suo prestigioso patrocinio e ho consegnato il mio lavoro alle stampe. Prima
di farlo, ho sottoposto il testo alla visione dei compagni dell’Associazione Gramsci affinché
prendessero atto del contenuto. Da uno di loro mi è stato chiesto di togliere alcuni passaggi
riguardanti la critica che esprimevo alle posizioni prese sul leghismo da parte di alcuni dirigenti di
sinistra del partito. Meravigliato e indignato, ho escluso qualsiasi modificazione in tal senso,
avvertendoli che se fosse stato messo in discussione l’impianto critico del testo, mi sarei rivolto ad
altre case editrici.
La richiesta di autocensura è così stata ritirata, comunque la pubblicazione è stata mal digerita non
solo da quella componente del partito che dava segno di essere interessata a un approccio con il
movimento di Bossi, ma anche da alcuni intellettuali della stessa sinistra comunista, sia per motivi
di dissenso con le mie posizioni sia per il privilegio che, secondo loro, mi sarebbe stato riservato
dall’Associazione Gramsci. Dell’avversione di questi ultimi ho avuto conferma qualche tempo dopo
in occasione di un dibattito al quale era partecipe Mario Spinella, scrittore e dirigente storico del
Pci.
Nonostante tali ritrosie, il mio secondo saggio sul leghismo ha riscosso un successo che io
considero strepitoso. Gli stati maggiori del Pds piemontese hanno organizzato un convegno durato
un’intera giornata e mi hanno invitato a portare il mio contributo. La mia presenza è stato richiesta
anche dai dirigenti del Pci del Mezzogiorno d’Italia i quali mi hanno invitato a partecipare alla
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conferenza dei quadri di quelle regioni impegnati in una discussione sui temi dello sviluppo
economico e delle alleanze politiche per la rinascita del Sud.
Sono stato invitato a presentare il saggio in oltre duecento località; la stampa quotidiana e periodica
lo ha recensito, commentato, stralciato e citato in centotrenta occasioni; oltre trenta sono state le
interviste rilasciate alle reti radiofoniche, tra le quali la Rai e la Bbc, mentre tredici sono state le
interviste televisive. Se Piero Chiambretti ha ripreso il mio libro in una sua trasmissione, Michele
Santoro, dopo avermi richiesto la disponibilità a un’intervista televisiva e fissato il giorno delle
riprese, si è invece fatto uccel di bosco senza nemmeno più farsi vivo per giustificare il
contrattempo. Evidentemente qualcuno lo ha consigliato di lasciarmi perdere. Ho rifiutato l’invito a
partecipare a trasmissioni Rai condotte da Gad Lerner e da Enrico Deaglio, perché le consideravo
controproducenti e un pessimo servizio fatto alla formazione del buon senso. Di malavoglia, infine,
sono stato indotto a partecipare alla puntata di “Uno contro tutti”, condotta da Maurizio Costanzo
alla presenza di Bossi, e nonostante il patteggiamento preventivo con il conduttore della
trasmissione, a seguito di una baruffa accesasi tra i leghisti di vecchia data, il confronto è stato
sospeso e io ho finito per fare la comparsa muta.
Oltre alle testate giornalistiche italiane, il saggio è stato ripreso da “Guardian”, “L’Humanité”,
“Libération” e da quotidiani o riviste greche, spagnole, statunitensi e svizzere.
Stando a quanto riferitomi da compagni, amici, docenti universitari e giornalisti (tra cui John
Agnew, Alberto Asor Rosa, Renzo Foa, Ramon Mantovani, Pier Paolo Poggio, Daniel Singer), “Il
tarlo delle leghe” è stato oggetto di studio nella University Siracuse di New York, in un Ateneo di
Tokio e in alcune Università di Francia, Germania, Inghilterra e Spagna. Dalla moglie di Asor Rosa
è stato notato nella Biblioteca di Stato di Sidney, in Australia.
Sui quotidiani italiani è stato recensito, tra gli altri, da Miriam Mafai e da Corrado Stajano. “Il
Mondo”, dopo aver commentato “I nuovi razzismi” confrontandolo con il libro di Leoluca Orlando
“Palermo”, ha recensito “Il tarlo delle leghe” comparandolo con “Governare con la crisi” di Giulio
Andreotti. E’ stato anche ripreso da diversi autori di saggi tra i quali Bruno Vespa.
Com’era già successo per “I nuovi razzismi”, anche “Il tarlo delle leghe” è stato oggetto di studio da
parte di giovani universitari quattro dei quali, dopo avermi contattato e intervistato, mi hanno fatto
avere le loro tesi di laurea riguardanti appunto il fenomeno leghista con ampi riferimenti alle mie
pubblicazioni.
Ho anche ricevuto alcune lettere di apprezzamento da parte di lettori sparsi nel centro-nord d’Italia.
Durante le mie presentazioni ho avuto come interlocutori autorevoli dirigenti nazionali e regionali
del Pci, del Psi, di Dp, della Dc, deputati e senatori, consiglieri regionali e sindaci,
dirigenti sindacali della Cgil e della Cisl, personaggi della cultura e della scienza, scrittori,
giornalisti, pesino dei prelati.
Raramente, nel corso delle discussioni pubbliche che ho sostenuto, mi è capitato di dover affrontare
polemiche o assistere a contestazioni. Il politologo Gianfranco Pasquino, che ho incontrato più volte
in occasione di tavole rotonde, soleva definirmi ironicamente un “vetero intelligente”. In genere la
mia presenza è stata apprezzata come occasione di riflessione e di confronto.
Diversi uomini politici, compresi alcuni dirigenti dello stesso Pci, invitati a partecipare a dibattiti e
a tavole rotonde, però, piuttosto che misurarsi con le mie tesi hanno preferito declinare l’invito o
disertare.
Ho poi subito la censura de “l’Unità”, quando a dirigerla erano Renzo Foa (il quale tempo dopo è
venuto a trovarmi per scusarsi) e Walter Veltroni. Alcuni miei articoli sono stati infatti cestinati
senza che mi venisse fornita alcuna spiegazione e ogni volta che cercavo telefonicamente di
interloquire con il direttore, mi veniva sistematicamente negata la sua presenza in redazione.
Durante le mie tournèe promozionali, in due circostanze mi è capitato d’imbattermi in personaggi
che mi hanno fornito delle informazioni sensazionali. Dopo un’intervista televisiva, un giornalista,
scoprendo che ero un bergamasco, mi ha raccontato di avere avuto contatti con un generale dei
servizi segreti il quale gli aveva confidato che in via Fani, il giorno in cui è stato rapito Aldo Moro e
assassinata la sua scorta, era presente anche un appartenente all’arma dei carabinieri ufficialmente
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residente in provincia di Bergamo, anche lui arruolato nei servizi segreti. Mi riferì il suo nome e
cognome e il comune di residenza affinché accertassi la sua esistenza. Quella notizia era
sorprendente, giacché dalle cronache su quel tragico evento, non era mai emerso che sul posto ci
fosse un tale individuo. Rientrato a Bergamo, ho svolto le dovute indagini e ho scoperto che mentre
in quel paese continuavano a risiedere i suoi genitori, da alcuni anni quell’individuo si era trasferito
a Roma e dai suoi ritornava solo raramente. Alcuni suoi amici d’infanzia lo ricordavano come un
tipo perspicace e intraprendente, ma nessuno di loro era a conoscenza della sua professione. La sua
stessa vita era avvolta nel mistero e ciò rendeva plausibile il racconto che mi era stato fatto da quel
giornalista televisivo.
Una sera di primavera dei primi anni ‘90, invece, dopo una presentazione del mio saggio, mentre
ero a cena con dei compagni in una trattoria di Trastevere, a Roma, dalla moglie di uno di loro, la
quale svolgeva la funzione di segretaria in uno degli studi medici più prestigiosi della capitale, sono
venuto a conoscenza che il titolare di una delle più importanti cariche dello Stato era in terapia
psichiatrica presso il suo datore di lavoro. Quella confidenza, di cui non avevo motivo di dubitare
circa la sua veridicità conoscendo la serietà della fonte, mi ha svelato la ragione dei comportamenti
anomali di quell’illustre politico e mi ha fatto sorgere un interrogativo: poteva essere che una tale
informazione, da me appresa in maniera del tutto fortuita, non fosse giunta alle orecchie di un
cronista o di un rappresentante dell’opposizione politica? Come si spiegava che nessuno di questi
dimostrava di avere il coraggio di rompere il clima di omertà che avvolgeva una tale sconcertante
vicenda al cui centro vi era un prestigioso rappresentante dello Stato il cui compito era quello di
garantire sicurezza e ordine pubblico?
Qualche mese dopo la pubblicazione de “Il tarlo delle leghe”, dall’Associazione Gramsci sono stato
coinvolto in una discussione sull’utilità e sulla possibilità di dare vita a un mensile le cui finalità
avrebbero dovuto essere quelle di favorire il confronto di idee e di proposizioni nell’area della
sinistra e di costituire un punto di riferimento per una battaglia contro il leghismo e le intolleranze
che stavano crescendo nella società del nord del Paese. Quella proposizione ha preso poi corpo ne
“il ponte” (successivamente divenuto “il ponte della Lombardia”) e io ne sono divenuto il direttore
responsabile.
E’ stata quella un’esperienza interessante la quale, però, non mi ha consentito di realizzare le
ambizioni che erano all’origine dell’iniziativa.
28 – L’abbandono del Pds e l’adesione a Rifondazione comunista
“il ponte”, di cui sono stato direttore dal ’92 al ’98 (nell’ultimo anno e mezzo solo nominalmente), è
nato con due finalità: favorire il confronto politico nella sinistra per accrescere la sua capacità
progettuale; contribuire a fare chiarezza sull’emergente fenomeno leghista e costruire le condizioni
per alzare un argine al suo avanzamento.
La messa in campo del mensile altro non era che un modesto contributo al tentativo di arrestare la
deriva politica della sinistra che era in corso da tempo.
In Lombardia la componente di sinistra del Pds era poca cosa e l’invito a un sostegno a tale
iniziativa politico-giornalistica rivolto ai compagni di quella che un tempo è stata la “nuova”
sinistra, ha registrato scarse adesioni. Solo un gruppo ristretto di compagni ha manifestato curiosità
e interesse per la nuova pubblicazione.
Dopo la fase iniziale, nel corso della quale l’entusiasmo dei promotori aveva costituito un fattore
propulsivo, la diffusione del mensile si è concentrata soprattutto nell’area dell’Est milanese dove
era insediata la redazione. L’autonomia finanziaria, che era uno degli obiettivi fondamentali del
gruppo redazionale, è rimasta nel tempo un pio desiderio e a coprire una parte delle spese di stampa
ha contribuito la Comedit.
La ristrettezza degli interlocutori ha oggettivamente limitato il confronto politico a sinistra che
come redazione c’eravamo proposti di suscitare, e pure ha vanificato la nostra ambizione di essere
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un referente della sperimentazione politico-sociale a livello della regione locomotiva economica del
Paese.
Il nostro stesso impegno antileghista ne è risultato conseguentemente mortificato. Ad avvertire la
pericolosità del fenomeno bossiano sono stati in pochi, gli stessi compagni della sinistra Pds
avevano idee confuse al proposito e il nostro sforzo si è rivelato non sufficientemente chiaro
affinché si prendesse coscienza che occorreva un urgente intervento di bonifica politico-culturale.
Un giorno, come mensile, abbiamo convocato un numero abbastanza largo di consiglieri comunali,
provinciali e regionali per proporre loro l’istituzione di un osservatorio regionale sulle politiche e
sull’attività della Lega Nord, ma a rispondere all’appello sono stati in pochi e quel progetto si è
dimostrato impraticabile.
Il partito, del resto, aveva rivelato una superficialità analitica di fronte all’emergenza dei movimenti
autonomisti e xenofobi e anziché contrastarli con campagne culturali, oltre che con l’azione
politica, si era limitato a contestarli verbalmente con una polemica rozza, mentre poi si rendeva
disponibile all’approccio e in nome dell’opportunità politica praticava una spregiudicata tattica di
collusione. Anche questo fattore ha contribuito a rendere difficoltosa la nostra azione.
In più circostanze mi è capitato di toccare con mano le contraddizioni insite nel gruppo dirigente
nazionale del partito su tale questione. Numerose sono state le manifestazioni omertose di cui sono
stato diretto testimone, allorquando a seguito delle mie sollecitazioni ai compagni, specie a quelli
che avevano un peso nella direzione del partito, affinché prendessero una posizione chiara alla luce
del sole, mi sono ritrovato nella condizione di chi parla al vento.
In occasione di una serata di riflessione sul fenomeno leghista organizzata a Bergamo da “il ponte”,
alla quale abbiamo invitato a partecipare il Pds, Rifondazione comunista, “il manifesto” e la Cgil,
per assicurare la presenza di un dirigente pidiessino, ho dovuto interloquire personalmente con una
diecina di membri della direzione prima di trovare chi era disposto ad accettare l’invito. Tra questi
mi hanno dichiarato la loro indisponibilità, o hanno accampato giustificazioni fittizie, Pietro Ingrao,
Massimo D’Alema, Walter Veltroni, Piero Fassino, Giovanni Berlinguer, Claudio Petruccioli e
Alberto Asor Rosa. Ad accogliere l’invito a misurarsi con Rossana Rossanda, Sergio Garavini e
Giorgio Cremaschi è stato invece Emanuele Macaluso, noto esponente migliorista del partito.
Non è un caso che, a proposito dell’impegno profuso nello studiare il fenomeno leghista, durante la
mia militanza nel Pds, abbia avuto pochissime manifestazioni di apprezzamento e tutte
esclusivamente da esponenti della sinistra del partito. Solo due dirigenti non appartenenti a
quest’area mi hanno eccezionalmente gratificato dichiarandosi riconoscenti per il lavoro che avevo
svolto: uno è stato il politologo Gianfranco Pasquino, l’altro Fiorella Ghilardotti, già governatrice
della Regione Lombardia e a quel tempo deputato europeo.
Ho spesso pensato che l’esperienza de “il ponte” abbia, in sostanza, rappresentato la cartina di
tornasole del mio corso politico nelle file pidiessine.
Come si evince da quanto ho sin qui raccontato, il ritorno al Pci anziché rappresentare un
coronamento delle mie ambizioni, mi ha procurato soprattutto dispiaceri.
Quando avevo deciso di sposare la decisione della direzione del Pdup di chiudere quell’esperienza
politica e ritornare alla casa madre, ero consapevole che non era consuetudine dei comunisti
festeggiare il ritorno del figliol prodigo, ma non immaginavo che, dopo il processo di laicizzazione
che aveva investito il partito, fossero ancora vivi e insistenti i risentimenti verso i “non ortodossi”.
Sin dai tempi del mio rientro nel Pci, nei suoi gruppi dirigenti ho avvertito l’esistenza di pregiudizi
nei miei confronti; la legittimità della mia presenza nel partito non mi è mai apparsa scontata e i
momenti di incomprensione e persino di polemica e di scontro sono stati ricorrenti.
Dopo aver pubblicato il primo saggio sul fenomeno leghista, il gruppo dirigente regionale, anziché
apprezzare il contributo di analisi che mi ero sforzato di dare, mi ha mortificato ignorando la mia
disponibilità e il mio interesse per il confronto e privilegiando nei dibattiti pubblici sull’argomento
la presenza di interlocutori esterni, per di più compiacenti con la Lega, inducendomi così a inviare a
Vitali una lettera di protesta.
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Tra la fine del ‘90 e la primavera del ‘92, alla vigilia delle elezioni politiche, dopo che avevo
pubblicato il secondo volume sul leghismo e assicurato la presenza in oltre un centinaio di iniziative
pubbliche, peraltro sostenendo la campagna elettorale di molti compagni candidati al Parlamento,
un membro della segreteria è venuto nel mio ufficio per comunicarmi che la mia funzione nel
partito era da considerasi superflua e che pertanto avrei dovuto aspettarmi un trasferimento ad altre
mansioni. Ho invitato quel compagno a spiegarmi le ragioni di quella decisione e a motivarmi il
perché avrei dovuto andarmene io e non lui quando, proprio a riguardo della produttività politica,
era uso chiudersi spesso in ufficio e trastullarsi con i giochini al computer, anziché assolvere ai suoi
doveri di dirigente. Ho richiesto immediatamente una chiarificazione ufficiale al segretario
regionale, ma non ho mai avuto la soddisfazione di avere una qualsiasi spiegazione. Per inciso,
mentre io dopo alcuni mesi ho lasciato il partito, quel compagno dopo qualche tempo è divenuto il
massimo dirigente del movimento cooperativo lombardo.
In occasione delle elezioni comunali di Brescia, Vitali mi ha informato che Occhetto gli aveva
chiesto se ero disposto ad accompagnarlo in quella città il giorno in cui si sarebbe recato a
concludere la campagna elettorale, giacché intendeva affrontare l’argomento Lega. Qualche giorno
dopo ho ricevuto una telefonata dal segretario particolare dello stesso Occhetto che mi confermava
il suo interesse ad avere un colloquio con me sul tema del leghismo. Quella richiesta mi ha
inorgoglito e mi è tornata come un riscatto di credibilità e di rispetto. Il giorno in cui Occhetto è
giunto a Milano per trasferirsi poi a Brescia, io ero pronto ad accompagnarlo, ma nessuno dei
dirigenti si è fatto vivo per invitarmi all’incontro. Nelle ore successive ho saputo che al suo seguito
ci sono andati i membri della segreteria i quali, per contendersi il posto sulle automobili hanno fatto
scaramucce. Ho vissuto quell’esperienza come un ennesimo segno della scarsa considerazione che
il gruppo dirigente del partito riservava alla mia persona al mio lavoro e insieme del decadimento
dello spirito di solidarietà tra compagni.
A quel punto la situazione è divenuta per me insopportabile ed è peggiorata nei mesi successivi. In
nome dell’opportunità politica il gruppo dirigente ha dato palesemente segno di trascurare il
pericolo del prorompere sulla scena politica di un movimento che cavalcava i più biechi istinti
egoistici e predicava l’intolleranza verso i diversi.
Mentre il nome di Antonio Gramsci faceva bella mostra sulla testata del quotidiano, per molti
compagni la sua esortazione al rigore politico, culturale e morale finiva per essere roba d’archivio.
Era il periodo in cui si venivano sciogliendo, per me in negativo, le ambiguità del 18° congresso. Il
gruppo dirigente era impegnato a brigare con Craxi per essere ammesso all’Internazionale
socialista, mentre sulle colonne de “l’Unità” incominciavano ad apparire gli spot pubblicitari di
maghi, sensitivi e chiromanti.
Come ebbe a dire bene Vincenzo Consolo qualche tempo dopo, proprio sul quotidiano fondato da
Gramsci, “la massa non distingueva più tra ideologia e merce, fra politica e pubblicità. Fu allora
che su questo mostruoso connubio, caduto il vecchio, sorse il nuovo potere di oggi”.
Soprattutto, era il tempo in cui la politica veniva scossa dalla vicenda di “tangentopoli”.
Fino a quel momento il pool di “Mani pulite” si era occupato degli episodi di corruzione che
avevano avuto come protagonisti i dirigenti del Psi e della Dc, mentre l’apparto del Pds non era
ancora stato oggetto di citazioni o imputazioni.
Il clima che si era creato nel gruppo dirigente milanese e regionale era, però, di una eccitazione tale
da far sospettare che in alcuni compagni vi fosse un fondato timore che la Magistratura
coinvolgesse nelle indagini anche esponenti del partito. E quello stato di agitazione induceva in me
disagio e sospetti.
Tra la fine del ’92 e l’inizio del ’93, la direzione del partito ha incominciato a prospettare
pubblicamente un possibile rapporto con la Lega Nord e negli ambienti lombardi si è venuta
delineando la volontà di assumere quel movimento come un interlocutore politico. Aveva così
inizio quel percorso che avrebbe portato alla disponibilità dei comunisti a dare corpo alle famose
“giunte tecniche” di Monza e Varese le quali appunto presupponevano un’alleanza politica del Pds
con il movimento di Bossi.
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Di fronte a una tale decisione che, a dire il vero, ai miei occhi non costituiva ormai più una sorpresa,
bensì un’evenienza assai probabile, la mia permanenza nel Pds perdeva decisamente di senso. In
discussione, a quel punto, era la mia coerenza e il bisogno di preservare la mia dignità mi obbligava
a sciogliere le ultime riserve.
Il 30 gennaio del ’92, ho rassegnato le mie dimissioni da funzionario e dal partito considerandole
“un doloroso atto di coerenza politica, unica risorsa che mi è rimasta dopo aver dedicato quasi
l’intera vita alla causa del movimento operaio”.
Il miei rapporti con il Pds non hanno avuto però fine con quell’atto. Per poter ottenere le mie
modeste spettanze di fine rapporto lavorativo, ho dovuto rivolgermi all’ufficio vertenze della Cgil e
trattare con i compagni dell’amministrazione onde evitare il ricorso a un procedimento giudiziario.
Mi sono difatti trovato di fronte a un atteggiamento da parte dei dirigenti lombardi del Pds che
ritenevo inimmaginabile: un partito che proclamava di difendere i diritti dei lavoratori non
rispettava quelli dei suoi stessi funzionari.
La mia decisione di rompere con il Pds non è maturata a seguito di un calcolo politico, è stata
invece frutto di una reazione istintiva, anche se – come ho già detto – il senso di disagio che
provavo nell’operare in quell’ambiente era gradualmente cresciuto fino al punto di rivelarsi
insopportabile. Solo dopo aver dato le dimissioni mi sono reso conto di aver agito per certi versi
d’impulso e di non aver fatto sufficientemente i conti con le mie prospettive politiche e
occupazionali.
Alla fine di gennaio del ‘93, dopo alcuni contatti che avevo avuto con i compagni di Rifondazione
comunista, i quali mi sollecitavano a passare nelle loro file, ho avuto un approccio con Sergio
Garavini, neosegretario di quel partito, e con lui ho avviato una comune riflessione sulle prospettive
di Rifondazione e su una mia possibile collaborazione. Il dialogo che si era aperto non mi
consentiva però di prendere delle decisioni immediate, giacché a riguardo di un’adesione a quel
partito sussistevano in me molte perplessità. Ero ad esempio profondamente convinto che Armando
Cossutta, allora padre-padrone di quel movimento (almeno questa era la mia convinzione maturata
sin dalla nascita di quella forza politica), rappresentasse un ibrido di stalinismo e di riformismo e
fosse per nulla credibile come leader rifondatore del comunismo. A determinare questo mio
giudizio non erano solo i ricordi degli anni ’60, quando egli veniva in quel di Bergamo a
scomunicare il gruppo del “manifesto”, ma la sua stessa condotta politica negli anni successivi e il
suo contraddittorio operare tra la strenua difesa dell’Urss e il pedissequo sostegno alla strategia
berlingueriana del compromesso storico.
L’idea di accoppiarmi con un compagno di quelle caratteristiche al fine di elaborare e sperimentare
un’alternativa all’ortodossia della sinistra , mi appariva un controsenso e un atto che sarebbe
corrisposto solo a uno spregiudicato opportunismo politico.
Con l’avvento di Garavini alla segreteria del partito sembrava si fosse aperto un nuovo corso, però
la prospettiva non mi appariva ancora chiara ed ero interessato a verificare quali fossero gli intenti e
soprattutto i comportamenti del nuovo leader.
La precipitazione dei rapporti con il Pds, però, mi costringeva a compiere rapidamente una scelta.
Se per un verso mi sentivo in dovere con la mia coscienza di dare un taglio definitivo a
quell’esperienza, ero fermamente interessato a non rompere con la sinistra.
Dopo essermi incontrato a Roma con Rino Serri, vice segretario e braccio destro di Garavini, e aver
concordato con lui la mia eventuale collocazione in Rifondazione comunista e il tipo di contributo
che avrei potuto dare a quel movimento, ai primi di febbraio del ’93 mi sono iscritto a quel partito.
Le mie riserve su quella scelta di appartenenza politica non erano ancora del tutto superate, ma sia
la comprensione di Garavini circa le mie perplessità, nonché la sua dichiarata determinazione a
voler rifondare per davvero la sinistra, sia il fatto che uno come me, considerata la scelta di vita che
aveva compiuto, non poteva vivere senza “fare politica”, giacché questa rappresentava il senso della
mia stessa esistenza, mi hanno fatto superare le esitazioni.
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29 – L’ipocrisia di Bertinotti e compagni
Ho aderito a Rifondazione ponendo alcune condizioni. Ho escluso anzitutto l’ipotesi di una regolare
assunzione come funzionario, anche perché ero in attesa del pensionamento dopo quaranta anni di
contribuzioni all’Inps (prima della confluenza nel Pci, il Pdup aveva provveduto a versare i
contributi per gli anni in cui non ero stato assicurato). Ho pure escluso un mio eventuale
inserimento, attraverso il metodo della cooptazione, nei gruppi dirigenti. Le competizioni e le
manovre di palazzo mi avevano disgustato a tal punto da non poterle più sopportare e dai centri di
“potere” avevo deciso di starmene ben alla larga. Con il gruppo dirigente di Rifondazione ho
stabilito un rapporto di collaborazione e ho assunto il compito di promuovere nel partito una
campagna di riflessione e di orientamento sul fenomeno leghista.
La mia sede di lavoro era Milano, mentre la tessera mi è stata rilasciata dai compagni di Bergamo
dove a reggere le funzioni di segretario era un vecchio compagno dell’apparato comunista degli
anni ’60 con il quale avevo lavorato per anni: l’ex deputato Giuseppe Brighenti.
L’impegno che ho assunto con i compagni di Bergamo è stato quello di promuovere e gestire alcune
presenze in provincia sul tema del leghismo e partecipare senza vincolo e senza diritto di voto alle
riunioni del gruppo dirigente locale.
Essendo in prossimità del rinnovo del Consiglio comunale di Ponte S. Pietro, mi è stato chiesto di
presentarmi come candidato sindaco per una lista di sinistra. Ho assecondato quella richiesta
controvoglia e solo per senso del dovere. Consideravo un errore politico la scelta di presentare una
lista a sinistra del Pds, anziché sforzarsi di ricercare una soluzione unitaria. Dai compagni milanesi
ero per altro già stato sollecitato a far parte della lista per l’elezione del Consiglio comunale del
capoluogo lombardo e le due candidature risultavano incompatibili, perciò mi sentivo costretto a
rispondere positivamente a una delle due richieste, pena smentire la mia dichiarata disponibilità
politica e dimostrandomi già dall’inizio insofferente alla disciplina. Inoltre, ero avverso al
coinvolgimento in quella competizione elettorale perché nel mio paese mi ero già presentato quattro
volte e solo in due occasioni avevo mantenuto fede al mandato, mentre per le altre due avevo dato
le dimissioni facendomi sostituire da un altro compagno. Una quinta candidatura, con la certezza
che avrei di nuovo rinnegato il mandato, non essendo disponibile a un nuovo incarico istituzionale,
la consideravo una decisione non seria, anzi una presa in giro bella e buona dell’elettorato. Le
pressioni dei compagni, però, sono state più forti delle mie ragioni e la situazione di imbarazzo che
temevo mi si è riproposta nuovamente. Come già era avvenuto nel passato, sono stato eletto e ho
dato immediatamente le dimissioni.
Già a partire dal febbraio ‘93, il mio impegno nel programmare le iniziative che avevo concordato
con la direzione del partito era coronato da successo: con molte federazioni sono riuscito a
organizzare, dibattiti pubblici, tavole rotonde e seminari sul fenomeno leghista. Nel corso dei 15
mesi che ho collaborato con Rifondazione, ho assicurato la presenza in oltre 130 manifestazioni
sparse nelle regioni del Centro-Nord del Paese, coinvolgendo oltre 6.000 interlocutori e rilasciando
più di una ventina di interviste radio-televisive.
Contemporaneamente, ho assicurato la mia collaborazione ai compagni della redazione milanese di
“Liberazione” scrivendo alcuni articoli sulla Lega e sul quadro politico, e quando mi è stato
richiesto, sono intervenuto a supporto del dibattito congressuale presenziando ai momenti di
confronto sulla linea politica del partito.
Un risultato che neppure in Rifondazione mi è stato possibile conseguire, e al quale tenevo molto, è
stata la proposta di istituzione di un osservatorio sul fenomeno leghista. Consideravo un tale
organismo una delle condizioni fondamentali per approfondire la conoscenza di quel movimento e
per contrastarlo politicamente e culturalmente in maniera adeguata.
Poco dopo essere approdato a Rifondazione, ho inoltrato alla direzione una proposta dettagliata per
l’istituzione di tale organismo. Intendevo coinvolgere le organizzazioni territoriali del partito, i
gruppi parlamentari e quelli delle Regioni, oltre ai compagni eletti nelle istituzioni provinciali e
comunali, impegnandoli a segnalare le iniziative politiche, le prese di posizione, le proposte di
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legge di quel movimento consentendo all’osservatorio di documentarsi in modo tale di avere gli
elementi per aggiornare di continuo l’analisi della sua natura e formulare orientamenti e indirizzi al
partito per un’azione di denuncia e di contrasto.
Purtroppo, la mia proposta, che pure aveva trovato il pieno consenso della direzione, non ha
incontrato la dovuta considerazione dalla più parte dei compagni ai quali era indirizzata ed è stata
presto lasciata cadere nel dimenticatoio.
Quel che mi è riuscito di fare, invece, è stato mobilitare alcuni compagni per accertare se
corrispondeva al vero la notizia che circolava in alcuni ambienti vicini alla Lega e secondo la quale
in certe zone del Nord del Paese erano in funzione campi clandestini di addestramento all’azione
armata. Mentre raccoglievo le testimonianze di tali presenze, da un giornalista sono stato informato
che un magistrato lombardo stava occupandosi dello stesso problema e aveva aperto un’indagine.
Ho preso contatto con questo togato e, fissato un appuntamento, sono andato a trovarlo per riferirgli
i risultati del mio lavoro e fornirgli le testimonianze di cui ero in possesso. Da lui ho avuto non solo
ascolto, ma conferma di alcuni miei sospetti attraverso le informazioni che mi ha fornito
sull’inchiesta che stava conducendo.
Trascorsi alcuni mesi, però, mentre ancora ero in attesa del riscontro di un’iniziativa legale, quel
magistrato si candidava nelle liste della destra, suscitando in me non solo indignazione, ma
rammarico per non essere stato sufficientemente accorto nello scegliere per un così delicato
problema un interlocutore affidabile.
Dopo alcuni mesi di frequentazione delle organizzazioni di Rifondazione delle regioni dell’Italia
centro-settentrionale, mi sono convinto dell’opportunità che il mio intervento non si limitasse alla
semplice informazione-riflessione sul fenomeno leghista, ma si estendesse alle problematiche e alle
prospettive della sinistra. Era inevitabile che nelle mie esposizioni affrontassi un simile argomento,
ma essendo il mio mandato politico quello di erudire i compagni sulla natura perversa di quel
movimento e sulla sua pericolosità, il ragionamento sul “che fare” della sinistra risultava sempre
mortificato e perciò le mie sollecitazioni si rivelavano superficiali e inefficaci. Più che oggetto di
dibattito, le mie tesi finivano per tradursi in un avvertimento sulla necessità e urgenza di cambiare
rotta strategica; un argomento questo che era avvertito da molti, ma che veniva rinviato a tempi
successivi quando invece io lo consideravo compito principale di chi si era posto l’obiettivo di
rifondare la sinistra.
A quel tempo, in Rifondazione confluivano e convivevano tutte le culture della sinistra e ciò
costituiva, a mio avviso, una straordinaria condizione per coniugare memoria storica ed
elaborazione politica. Occorreva però far emergere la necessità e l’urgenza di una simile operazione
e fare sintesi superiore delle esperienze di cui ognuna di queste espressioni era portatrice. Accanto
al ceppo originario costituito dai cossuttiani, vi erano gli ingraiani, i berlingueriani di sinistra, gli ex
della “nuova” sinistra provenienti dai gruppi del “manifesto”, di Democrazia proletaria, di Lotta
continua, di Potere operaio. Vi era anche una presenza di catto-comunismi, di ex anarchici, di
aderenti alle formazioni dell’autonomia operaia, di socialisti di sinistra, oltre che di giovani alle
prime esperienze politiche. E tutti si proclamavano impegnati in una ricerca dell’alternativa.
Insomma, ai primi degli anni ’90, a mio parere, Rifondazione comunista costituiva un vero e
proprio laboratorio politico nel quale avrebbe potuto prendere finalmente corpo un soggetto
rivoluzionario nuovo, capace di salvaguardare la tradizione del movimento socialista innovando
strategia e azione politica. Quella diversità di esperienze, di orientamenti e di idee, se valorizzati,
posti a confronto e portati a sintesi, avrebbero potuto offrire un importante contributo alla
definizione di un nuovo itinerario progettuale e di un nuovo protagonismo politico e sociale.
Un giorno, in occasione di un’iniziativa pubblica, ho avuto modo di discutere di questa caratteristica
e dell’opportunità che essa offriva al partito con Garavini. Gli ho espresso la mia convinzione che ci
si trovava di fronte a un’occasione storica eccezionale, seppure limitata sul piano della quantità, che
non bisognava perdere e che era opportuno sfruttarla mettendo in campo nuovi criteri di gestione
del dibattito, del confronto e dell’elaborazione. Gli ho suggerito di considerare, tra le altre
innovazioni da prendere, l’istituzione di una scuola quadri fondata sulla base di criteri moderni con
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il compito di elaborare piattaforme programmatiche da sottoporre a sperimentazione, e gli ho
prospettato la mia disponibilità a contribuire a un tale progetto mettendo a punto itinerari inediti di
prassi politica.
Il segretario del partito mi ha ascoltato con attenzione, acconsentendo su diversi aspetti del mio
ragionamento, ma alla fine mi ha detto di considerare non ancora maturo il tempo per compiere un
simile balzo in avanti. Di fronte a quella risposta ho compreso quanti fossero i condizionamenti che
subiva nell’espletazione del suo mandato.
Qualche mese dopo il gruppo dirigente di Rifondazione comunista è stato investito da una lotta
intestina che ha portato al ricambio del segretario. Garavini è stato emarginato e al suo posto è stato
collocato Fausto Bertinotti, un ex sindacalista di area socialista che godeva della piena fiducia di
Armando Cossutta.
Ho incontrato Bertinotti una sera, ai primi di aprile, a Bergamo, in occasione di una gremita
assemblea. Gli ho consegnato un rapporto sull’attività che avevo svolto a partire dal giorno in cui
ho aderito a Rifondazione, sollecitando una verifica del nuovo gruppo dirigente e richiedendo al
riguardo un incontro.
La mattina successiva, interloquendo con un’impiegata dell’ufficio amministrazione del partito,
sono venuto a conoscenza che già due mesi prima qualcuno della direzione aveva deciso di troncare
il mio rapporto di collaborazione. Nessuno però si era preso la briga di avvisarmi. Nemmeno il
segretario con il quale mi ero incontrato la sera prima.
Cercai immediatamente di mettermi in contatto con Bertinotti stesso per avere una chiarificazione,
ma egli non si è mai reso disponibile a interloquire con me. Gli ho inviato per fax una lettera
denunciando l’incomprensibile situazione in cui mi ero venuto a trovare e ho sollecitato il suo
segretario particolare, Alfonso Gianni, a mettermi in contatto con lui. Non mi interessava se per
iscritto o per telefono, ma una qualche spiegazione me l’aspettavo come atto di correttezza tra
compagni.
Sono trascorsi ormai oltre vent’anni da quel giorno e ancora sono in attesa che qualche dirigente di
Rifondazione prenda coraggio e mi fornisca una giustificazione di quanto avvenuto.
Sette o otto anni dopo, nel corso di un seminario sulla storia del movimento operaio, da un
compagno di Rifondazione che aveva stretti rapporti con il gruppo dirigente, sono stato informato
che a decidere la mia defenestrazione è stato Armando Cossutta in persona.
In verità, quella spifferata non mi ha meravigliato più di tanto; sin da quando avevo appreso la
notizia della mia cacciata, mi era apparso chiaro che io ero stato classificato un garaviniano e perciò
dovevo subire la stessa sorte del capo. Del resto, in più circostanze, durante le mie peregrinazioni
nelle sezioni di Rifondazione, mi era capitato di sentirmi dire che da alcuni compagni ero
considerato un emissario del Pds nel partito e che era saggio guardarsi bene dallo stabilire rapporti
con me. Perciò, la notizia che a decretare la mia emarginazione era stato Cossutta non mi ha
sorpreso. A meravigliarmi è stato invece l’atteggiamento piratesco di quei compagni della direzione
che mi conoscevano bene, sin dai tempi della mia militanza nel Pci, poi nel “manifesto” e poi
ancora nel Pdup e con i quali ho condiviso anni d’impegno politico. Infatti, mentre non mi aspettavo
affatto attestati di rispetto da parte di chi con Cossutta aveva sottoscritto “patti faustiani”, vendendo
l’anima per gestire una misera quota di potere politico, dai miei vecchi compagni di lotta mi
aspettavo un contegno più onesto e sincero.
Dopo questa disgustosa vicenda mi sono chiesto spesse volte in che misura sia il caso di attribuire
credibilità e fiducia a quei compagni che proclamano la volontà di cambiare il mondo, con
l’obiettivo di garantire a tutti gli esseri umani solidarietà e giustizia sociale, quando poi, per
meschine ragioni di convenienza personale, non sanno essere coerenti con ciò che dicono.
Da quando Rifondazione non ha più avuto bisogno del mio contributo, è iniziato per me un periodo
di isolamento politico che, salvo alcuni momenti di ritrovato dialogo, non ha più avuto fine.
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30. La fugace esperienza nel campo della ricerca sociale
Sei giorni dopo aver appreso che Rifondazione non aveva più bisogno delle mie prestazioni, ho
inoltrato una lettera di disponibilità a svolgere ricerca sociale al direttore di un istituto di ricerca,
quello che quattro anni prima mi aveva offerto una collaborazione e io l’avevo rifiutata in modo un
po’ sprezzante. Esattamente due settimane dopo ero in Toscana, aggregato a un’équipe di ricercatori
sociali per compiere un’indagine sul rapporto potere-cittadini, o meglio ancora, governanti-
governati.
L’inserimento in questo nuovo campo di attività mi si è rivelato meno faticoso di quanto
presupponessi; probabilmente ad agevolarmi ha concorso non solo l’esperienza politica acquisita,
ma anche l’interesse che ho sempre avuto per le questioni socio-economiche e per le relazioni
sociali.
Dopo quell’indagine mi è stata affidata una ricerca in Emilia Romagna su inclusione e welfare, nel
corso della quale ho ritessuto cordiali rapporti con alcuni compagni del Pds che già conoscevo, i
quali avevano apprezzato i miei saggi sul leghismo. Tra questi vi era un compagno che poi sarebbe
diventato governatore di quella regione.
Mesi dopo ho partecipato a un’indagine sul postfordismo e sulla competitività delle aziende nelle
regioni del Centro-Nord del Paese, nel corso della quale ho intervistato personaggi del mondo
industriale e finanziario del Centro-Italia e del Nord-Est, nonché della Lombardia. Questo nuovo
incarico mi ha consentito di venire a contatto con un mondo che conoscevo solo da lontano e che
era in antagonismo radicale con le mie convinzioni politiche e la mia appartenenza, anche se a quel
tempo non più certificata da iscrizione o da formale adesione.
Questa fase del mio impegno come ricercatore sociale mi si è rivelata di grande interesse, giacché
mi ha consentito di trascorrere ore di conversazione con imprenditori e operatori della finanza,
alcuni dei quali hanno ricoperto importanti ruoli in Confindustria, mettendomi in condizione di
conoscere da vicino l’“avversario politico” di sempre e scoprendo la visione del mondo e i criteri
con cui questi condottieri d’azienda affrontano i problemi economici e sociali.
A colpirmi profondamente è stato un aspetto del loro comune comportamento, precisamente la
dinamicità del loro agire. Io ero abituato ai tempi lunghi della politica, alla meditazione prima
dell’azione, mentre nel mondo imprenditoriale la rapidità delle decisioni è una componente
essenziale, pena la compromissione delle capacità competitive sui mercati. Messa a confronto con il
modo di essere delle istituzioni pubbliche e in particolare delle assemblee rappresentative, e alla
notoria lungaggine che le caratterizza nel prendere decisioni, peraltro non sempre giustificata, la
prassi degli imprenditori mi si rivelava un modo alternativo di gestione dei rapporti socio-
economici. Il conflitto tra economia e politica è difatti generato anche da un tale fattore.
Al tempo stesso, però, ho avuto modo di costatare come una visione del mondo di quel genere, e
l’azione che ne consegue, non siano adatte a garantire certezze per il futuro. Intervistando questi
personaggi, infatti, allorquando ponevo loro domande sulle problematiche del “fare impresa” a
breve scadenza (dinamica dei mercati, concorrenza, ricadute sulla società, risvolti politico-
istituzionali, ecc.) avevo motivo di rimanere a bocca aperta di fronte alla loro elevata conoscenza
delle tematiche e all’abilità nell’individuare le soluzioni più opportune; quando invece li
interpellavo sulle prospettive di lungo periodo, la loro lucidità si spegneva. In loro emergeva una
scarsa capacità di previsione e di programmazione del sistema imprenditoriale a tempi prolungati e,
a quel punto, la prospettiva veniva fatta dipendere dalle dinamiche di mercato le quali però non
erano interpretabili in anticipo. Ho costatato, in sostanza, che la classe imprenditoriale è
oggettivamente miope nella programmazione economica e sociale, perciò inaffidabile nel ruolo di
governo di una società civile complessa per il quale non basta il decisionismo, ma servono una
paziente capacità di mediazione dei conflitti e la ricerca di soluzioni condivisibili, anche parziali,
alle istanze delle diverse categorie d’interessi.
L’esperienza acquisita nel campo della ricerca sociale ha significato per me un’importante
costatazione avendomi fatto toccare con mano una verità che in genere viene considerata frutto
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esclusivo di un’ideologia. Mi ha dato modo di capire quale madornale errore sia l’affidare le sorti
del progresso sociale a operatori industriali e finanziari, o credere addirittura che esso possa essere
garantito dalle logiche di mercato.
In occasione di quelle ricerche, ho accertato sul campo come i politici abbiano una funzione
insostituibile, quella cioè di gestire il presente alla luce di una progettualità del futuro; e quando
vengono meno a questo dettato, essi cessano oggettivamente di essere degli scienziati
dell’amministrazione della collettività e si riducono inevitabilmente a dei semplici maneggioni o
affaristi.
Mentre imparavo questa lezione, mi dolevo del fatto di non avere più occasione – dato il mio
isolamento politico – di ammonire la “mia” sinistra dal rinunciare al ruolo primario di soggetto
della progettualità.
Dopo circa un anno di esperienza nel campo della ricerca sociale, ho contribuito a un’indagine sulla
rappresentanza, anch’essa condotta nelle regioni del Centro-Nord del Paese, la quale mi ha
consentito di intrattenermi con personaggi illustri della politica e della cultura. Fra i tanti, mi è
rimasta impressa l’intervista che mi ha rilasciato per oltre due ore Mino Martinazzoli, ormai reduce
della leadership democristiana e sindaco di Brescia in carica. Le argomentazioni che egli mi ha
proposto nel corso della conversazione a riguardo dei limiti della classe politica e degli errori
compiuti dalla sua stessa compagine, mi hanno particolarmente colpito, giacché non mi sarei mai
aspettato tanta lucidità e tanto spirito autocritico da un leader di un partito che ha governato l’Italia
per oltre quarant’anni all’insegna della conservazione e con prepotenza e arroganza.
La parte di attività come ricercatore sociale che mi ha dato maggiori soddisfazioni è però stata
quella che ho svolto come operatore delle “missioni di sviluppo”.
A quel tempo era in vigore la “legge 44”, la quale si proponeva di sollecitare e favorire i giovani di
alcune aree territoriali del Paese poco sviluppate a “fare impresa”. La “missione di sviluppo” era
l’istituzione che aveva il compito di far conoscere l’esistenza di quella legge, di selezionare i
giovani che avevano l’ambizione di intraprendere un’attività in proprio, di aiutarli a tradurre in
progetto le loro idee e quindi a stendere un business plan, tecnico ed economico insieme, e di
accompagnarli fino alla richiesta di finanziamento da parte dello Stato.
Nel corso di un anno e mezzo mi è stato affidato il compito di gestire una “missione di sviluppo”
nella città di Genova, poi una in Valle Canonica e infine, assieme ad altri ricercatori, di collaborare
alla realizzazione di un’analoga esperienza in Valtellina-Valchiavenna.
E’ stata quella l’occasione per incontrare migliaia di giovani e ragionare con loro sul venire a
termine, con l’avvento del postfordismo, del posto di lavoro fisso e della necessità di ricercare una
prospettiva occupazionale fuori dagli schemi tradizionali. Non era certo un compito facile a quel
tempo, il rischio di essere vissuti come uccelli del malaugurio era grande, al tempo stesso però
consideravo quella funzione della massima importanza non solo ai fini dell’affermazione di una
nuova cultura del lavoro, ma anche perché poteva offrire, almeno ad alcuni giovani, un’opportunità
di realizzazione sociale.
Attraverso le assemblee che organizzavo nei quartieri, nelle scuole e nei paesi avevo avuto modo di
accertare il solco profondo che separava il sistema scolastico dal mercato del lavoro e lo stato di
abbandono in cui studenti e famiglie venivano lasciati nel momento in cui essi erano alla ricerca di
un’occupazione. La logica del sistema capitalistico da un lato, il cronico disinteresse delle
istituzioni pubbliche dall’altro, davano luogo a una contraddizione che mi appariva destinata a
minare sia il progresso e che la convivenza sociale.
La prassi delle “missioni di sviluppo” era informata ai principi dell’ordine capitalistico ed era
difficile derogare da una tale logica; essa lasciava però spazio anche a soluzioni che conciliavano
l’attività imprenditoriale con l’obiettivo di uno sviluppo economico e sociale solidale e sostenibile
dal punto di vista dell’ambiente. E’ stato soprattutto verso soluzioni di questo genere che io ho
indirizzato quei giovani che dimostravano di avere, oltre a una spiccata attitudine al rischio
d’impresa, l’interesse per dar vita a forme di società cooperative.
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Poiché le mie competenze si arrestavano alla soglia dell’approvazione dei progetti d’impresa e
l’entità stessa dei finanziamenti era estremamente limitata rispetto alla massa degli aspiranti
imprenditori, non sono mai riuscito a calcolare quanti di quei giovani con i quali sono venuto in
contatto abbiamo poi concluso positivamente l’itinerario intrapreso con la “44”, credo però che tra i
pochi privilegiati che hanno raggiunto il traguardo, qualcuno di loro ce l’abbia fatta.
Se da un lato, la possibilità di interloquire con una così ampia massa di giovani mi ha procurato
soddisfazione ed entusiasmo, dall’altro, l’esperienza delle “missioni di sviluppo” mi ha lasciato un
amaro in bocca di cui non sono mai riuscito a liberarmi. Non solo i benefici di quella legge, come
ho già detto, erano decisamente inadeguati rispetto alla domanda di nuove forme occupazionali, ma
all’imperdonabile inadeguatezza di risorse da parte dello Stato si accompagnava un’indifferenza
degli organi istituzionali periferici e degli stessi esponenti politici verso quei problemi che
provocava in me delusione e rabbia.
Mi sono spesso sentito solo nel condurre l’azione di orientamento e di sollecitazione dei giovani
privi di prospettiva occupazionale, affinché si rivolgessero alla “missione di sviluppo” e tentassero
di intraprendere la strada del lavoro autonomo. Per molti esponenti politici, certamente consapevoli
dei limiti della legge, il coinvolgimento in una campagna di promozione della “44” avrebbe di certo
significato l’assunzione di un impegno che poi non avrebbero potuto mantenere, e per questa
ragione – credo – essi si rendevano latitanti e indisponibili.
In alcune circostanze ho tentato di coinvolgere personaggi del mondo dell’imprenditoria, della
cultura, dello spettacolo, noti per il loro successo professionale, ma solo pochi di loro hanno
risposto positivamente al mio appello. A Genova, dietro suggerimento dei funzionari della Regione,
ho inutilmente sollecitato l’intervento di Beppe Grillo, allora noto soprattutto solo come attore
comico, il quale, però, non si è nemmeno sentito in dovere di giustificare il suo rifiuto al mio
appello. E pensare che negli anni successivi, divenuto deus ex machina del Movimento 5 stelle, ha
più volte sostenuto di essere un paladino della piccola imprenditoria!
Anche nel corso della mia attività di ricercatore sociale, purtroppo, le incomprensioni e le
polemiche non sono mancate. Era trascorso neanche un anno dall’inizio di questa nuova attività che
sono stato messo nella condizione di reclamare ufficialmente all’istituto con il quale collaboravo il
rispetto del trattamento economico pattuito, dal momento che i compensi che mi venivano
riconosciuti non erano corrispondenti alla mole delle mie prestazioni professionali.
Agli inizi del ’96, sono stato poi indirettamente, e ingiustamente, accusato di un comportamento
sleale nei confronti dello stesso istituto e di nutrire ambizioni di carrierismo politico. Nonostante
avessi dimostrato la natura calunniosa di quell’accusa, nonché l’assurdità di simili insinuazioni, i
miei rapporti con i responsabili hanno incominciato a incrinarsi. Mi è stato affidato per un certo
periodo il compito di sperimentare la costruzione dei “patti territoriali”, dopo di che la mia
collaborazione è andata esaurendosi in un clima di incomunicabilità e di silenzi.
L’ultima volta che mi sono incontrato con il direttore di quell’istituto è stato ai primi di ottobre del
’97, in occasione della presentazione a Roma del mio terzo saggio sul leghismo. Dopo di allora non
ho avuto più modo di sentirlo, nonostante le sue promesse di future collaborazioni.
In effetti, a rendere possibile la nostra convivenza per due anni e mezzo, è stata esclusivamente la
reciproca convenienza del rapporto di collaborazione che avevamo stabilito: a lui tornavano utili le
mie prestazioni; a me quel rapporto consentiva di rimediare il necessario per il mio sostentamento e
quello dei miei familiari. Per il resto avevamo poco da spartire.
Le nostre esperienze e aspirazioni politiche erano differenti: io avevo militato nelle formazioni della
sinistra tradizionale, lui era stato un esponente dell’autonomia operaia, aveva avuto problemi con i
tutori dell’ordine pubblico. Intrapresa l’attività di ricerca si era reso disponibile e compiacente con
chicchessia, indipendentemente dall’appartenenza politica. A me riusciva spesso difficile collocarlo
politicamente, nonostante egli fosse noto come esponente di sinistra e tale si autodefinisse.
Una sera, durante una cena alla quale erano presenti una diecina di ricercatori, tra lui e me è insorta
una polemica. Eravamo alla vigilia delle elezioni e si discuteva sul chi votare. Mentre io sostenevo
la tesi che era il caso di turarsi il naso e votare comunque un partito della sinistra, il meno peggio,
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egli invitava gli astanti a disertare le urne. Non ho mai avuto l’occasione di appurare le conseguenze
di quella discussione sull’orientamento elettorale del gruppo di ricercatori presenti a quella
discussione, ciò che mi è risultato chiaro è che lui non aveva affatto gradito la mia presa di
posizione.
Non erano trascorsi due mesi, quando da un quotidiano ho appreso che era stato cooptato nel
gruppo dirigente nazionale del Pds. Ho considerato questa sua promozione uno scherzo della mala
sorte: io che soffrivo per la “mia” sinistra e ad essa avevo dato tutto, ero costretto a vivere
nell’emarginazione; lui che alla sinistra negava persino il voto, veniva da essa premiato con
l’inclusione nei suoi massimi quadri dirigenti.
Quando in occasione del rinnovo di un’alta carica istituzionale, di fronte al ricambio della
compagine governativa, un apprezzato luminare delle scienze sociali aveva sollecitato il gruppo di
ricercatori di cui facevo parte a fornire un indirizzo di comportamento e una bozza di programma, il
direttore di questo istituto gli ha consigliato di imitare il comportamento del famoso diplomatico
francese Talleyrand-Pèrigord il quale, com’è noto, tra la fine del ‘700 e gli inizi dell’800, ha
cambiato casacca un’infinità di volte, mettendosi al servizio prima della monarchia, poi della
rivoluzione, quindi di Napoleone e infine dei nemici di questo.
A quell’istituto di ricerca, oltre ad alcuni collaboratori come me, operavano in pianta stabile dei
ricercatori. Uno di questi, un giorno, mi ha confidato le sue pene professionali. Suo compito era non
solo quello di fare ricerca, ma anche di stendere i rapporti che venivano consegnati al committente.
Egli lamentava la mancata apparizione del suo nome su questi testi definitivi, mentre era
consuetudine che venisse indicato solo quello del direttore. E mi ha confidato che la stessa
pubblicazione di saggi era soggetta a questo ingrato criterio. Alle ricerche sul campo partecipavano
spesso anche studenti universitari ai quali, oltre al modesto compenso economico, avrebbe giovato
per il loro futuro scolastico e professionale che le loro collaborazioni venissero indicate sulle
pubblicazioni dei lavori da loro stessi compiuti, ma ciò non era affatto costume di quell’istituto.
E’ successo anche a me di essere stato autore esclusivo di una ricerca senza che il mio nome
apparisse ufficialmente nel rapporto. Anzi, ad illustrarla pubblicamente ha provveduto il direttore. Il
merito, in sostanza, non era riconosciuto a chi aveva impiegato tempo e intelligenza nella ricerca,
ma era sempre e solo attribuito a chi sovrintendeva ai lavori. Eppure, il personaggio in questione si
proclamava paladino dell’inclusione.
Alcune settimane prima della consegna alle stampe del mio terzo volume sul leghismo, mi sono
sentito in dovere di informarlo che stavo per concludere questo mio lavoro e che l’avrei affidato a
una casa editrice. Non ho fatto in tempo a concludere l’informazione che egli e andato su tutte le
furie. Mi ha rammentato che io lavoravo per il suo istituto e che pertanto ogni mia iniziativa
pubblica doveva essere sottoposta al suo vaglio e avere il suo marchio. Gli ho precisato che a lui
vendevo le mie prestazioni professionali, non la mia autonomia di pensiero e che una rinuncia alla
pubblicazione di quel saggio sotto il mio nome era nel modo più assoluto da escludersi. Da quel
momento i nostri rapporti si sono complicati e poco tempo dopo la mia collaborazione ha avuto
fine.
Purtroppo, episodi e personaggi di perversa natura, non costituiscono un’eccezione nella storia della
sinistra moderna. Nel corso della mia esperienza lavorativa, infatti, mi è capitato di imbattermi in
parecchie situazioni del genere, dentro e fuori degli ambienti politici.
Nel corso di una ricerca sul territorio che stavo eseguendo in una località della Lombardia, mi è
capitato di avere un approccio da parte di un dirigente della Lega Nord che ho vissuto con una certa
sorpresa. Un giorno, dopo che avevo svolto un intervento a un congresso di delegati della Cgil
riguardante le caratteristiche della crisi di quella parte di territorio e suggerito alcune ipotesi
d’intervento, sono stato contattato dal deputato leghista Davide Caparini, che era presente
all’iniziativa, il quale mi ha chiesto la disponibilità a tenere una lezione ai dirigenti locali del suo
partito sull’argomento che avevo affrontato. Gli ho spiegato che apprezzavo il suo invito, ma che
una mia prestazione di quel tipo era fuori discussione. Con la Lega avevo un rapporto
esclusivamente conflittuale ed escludevo qualsiasi contatto collaborativo.
118
L’aspetto curioso della vicenda consisteva nel fatto che le mie analisi e le mie proposte
riscuotevano maggior interesse nei miei avversari politici piuttosto che nei miei compagni.
31. Il forzato isolamento politico
Era trascorso un lustro dalla pubblicazione de “Il tarlo delle leghe”, quando alla luce del montare
del movimento leghista e di fronte al persistere nelle forze della sinistra di un atteggiamento
ambiguo e irresponsabile verso tale fenomeno, mi sono sentito in dovere di aggiornare le mie analisi
e lanciare di nuovo un allarme sul pericolo di una degenerazione del quadro politico.
Allentati i miei impegni come ricercatore sociale, nei primi sei mesi del ’97, ho dedicato la maggior
parte del mio tempo alla stesura del terzo saggio sull’argomento.
Ero quasi giunto alla conclusione del mio lavoro, quando un giorno sono stato contattato da un
giornalista di “Panorama” che conoscevo da tempo il quale era interessato a intervistarmi
telefonicamente. Tra l’altro, egli ha voluto sapere se avevo in mente di scrivere ancora sul
fenomeno leghista e quando l’ho informato che stavo per concludere il nuovo saggio, mi ha chiesto
se lo autorizzavo a parlarne con il direttore della Mondadori. Due o tre giorni dopo mi ha richiamato
per informarmi che il responsabile della selezione delle pubblicazioni della casa editrice di Segrate
era interessato a prendere visione del mio lavoro e mi invitava a fissare una data per l’incontro.
La disponibilità a valutare un’eventuale pubblicazione del mio scritto da parte di un editore tanto
importante, non poteva che tornarmi gradita e rappresentare motivo d’orgoglio. Al tempo stesso,
però, quell’opportunità suscitava in me perplessità e riserve. A quel tempo, la proprietà della
Mondadori era oggetto di contestazione tra De Benedetti e Berlusconi, due eminenti rappresentanti
del capitalismo che detestavo, pertanto la consegna del mio lavoro a quel tempio dell’informazione-
formazione della cultura dominante, appariva ai miei occhi un atto di detestabile compromissione e
di cedimento politico-morale. In quegli anni, del resto, si era riproposto anche nello schieramento di
sinistra del nostro Paese il fenomeno del trasformismo politico e io non intendevo essere confuso
con la schiera dei voltagabbana.
Consapevole delle critiche severe che nel mio saggio rivolgevo alla quasi totalità dei gruppi
dirigenti della sinistra, avvertivo il pericolo che affidando la sua divulgazione all’“avversario”, avrei
rischiato di perdere il mio onore di onesto e coerente militante di sinistra, seppure nella condizione
di “cane sciolto”. La mia era una critica alla sinistra sferrata non da un suo avversario, ma da un
compagno che seppure considerato eretico, continuava a mettere a disposizione delle espressioni
politiche del movimento operaio il suo modesto sapere.
Per questa ragione, anche se a malincuore, ho declinato l’invito che mi era stato rivolto. Per una
questione di principio e di coerenza, rinunciavo a un’occasione che avrebbe forse potuto farmi
entrare nei cataloghi di un importante casa editrice assicurandomi una larga diffusione di quel mio
scritto.
Ultimato il saggio, ho proposto la sua pubblicazione alla Comedit 2000, impegnandomi
personalmente alla sua promozione e divulgazione, in cambio di un rimborso spese e dell’agibilità
della sede editoriale per prendere contatti con i compagni e promuovere le presentazioni. Risorse
finanziarie per la pubblicità del saggio, infatti, non ce n’erano, perciò si rivelavano decisive per la
sua diffusione le conoscenze che avevo acquisito nel corso della mia precedente attività politica, in
particolare in occasione dei dibattiti pubblici sul leghismo cui avevo partecipato nella prima metà
degli anni ’90.
Da subito, però, con l’editore ho avuto problemi nel definire le condizioni economiche. Poiché le
mie entrate finanziarie erano appena sufficienti a soddisfare i bisogni primari della mia famiglia,
non ero in condizioni di farmi carico dei costi della campagna di promozione, cioè dei trasferimenti
per le presentazioni, e su questo aspetto era sorta una contesa.
Nel corso del primo mese dopo la pubblicazione del saggio (“Sinistra e Lega: processo a un flirt
impossibile”), sono riuscito a ottenere nove recensioni da parte di quotidiani nazionali e periodici e
a organizzare una diecina di presentazioni nei capoluoghi di regione e di provincia.
119
All’indomani della presentazione del libro al festival de “l’Unità” di Milano, alla quale ho avuto
come interlocutore, tra gli altri, Antonio Pizzinato, l’ambiente attorno a me ha incominciato a farsi
ostico. Mentre aumentavano le difficoltà nel reperire compagni disponibili a promuovere le
occasioni d’incontro, le polemiche con l’editore aumentavano.
Quando mi recavo alla Comedit di Milano per programmare le presentazioni, dovevo passare prima
da un bar situato nei pressi della sede, per ritirare le chiavi che mi acconsentivano di accedervi,
giacché la segretaria era presente solo alcune ore la settimana. Un giorno il barista si è rifiutato di
consegnarmele, annunciandomi che quell’ordine l’aveva ricevuto dal compagno stesso che dirigeva
la casa editrice. Non ho mai avuto spiegazioni precise a riguardo di quella decisione e perciò ho
potuto solo fare supposizioni e costruire congetture.
Da quel momento non ho più messo piede in quella sede. Quando avevo bisogno di libri per le
presentazioni, avevo come riferimento un compagno legato alla casa editrice stessa al quale
consegnavo il ricavato delle vendite. Da allora sono riuscito a organizzare una quindicina di incontri
pubblici, non però tramite le organizzazioni di partito, bensì attraverso compagni della Cgil e
dell’Arci che conoscevo e poi di circoli culturali e di biblioteche comunali.
Quando, nella primavera del ’98, ho ricevuto un avviso di comparizione dal Tribunale di Milano per
una querela di diffamazione da parte di un sindaco leghista dell’Est Milanese, essendo io direttore
responsabile di un foglio che non avevo mai visto e nemmeno sapevo esistesse, ho avvisato la
Comedit che, a titolo cautelativo, non avrei onorato il debito residuo che avevo nei suoi confronti
per l’ultimo prelievo di libri (2 o 3 decine) e rassegnavo le dimissioni da direttore de “il ponte”,
della cui redazione non facevo più parte ormai da tempo.
Aveva così inizio per me quel periodo di totale isolamento politico che purtroppo continua ancora
oggi.
Nel corso di questi ultimi diciannove anni, pur non avendo mai cessato di vivere le vicende
politiche con la passione e l’apprensione di sempre, ho avuto modo di essere invitato a dibattiti e
confronti pubblici su vari argomenti politici (leghismo, razzismo, storia e politiche della sinistra,
risultati elettorali, ecc.) solo in una diecina di occasioni. L’esclusione dal “gorgo” ha costituito per
me motivo di grande mortificazione e di dolore. Mi ha fatto sentire un vecchio arnese ormai inutile
all’uso.
All’inizio di questo forzoso stato di segregazione, sono apparso a me stesso come un Re Mida a
rovescio: dalla generalità dei vecchi compagni che mi capitava di incrociare sul mio cammino,
anziché solidarietà, in essi avvertivo una sorta di repulsione, quasi che il mio contatto procurasse
loro disagio e fastidio. Venivo sistematicamente evitato.
A diversi compagni che pure mi erano stati vicini in tempi andati, ho rivolto sollecitazioni al
confronto, alla discussione; ad alcune organizzazioni di base ho offerto la disponibilità a
promuovere e condurre momenti di riflessione sulla storia e sulle strategie della sinistra. Ebbene, a
prendere in considerazione queste mie stimolazioni e richieste di confronto, sono stati pochissimi
tanto da poterli contare sulle dita di una mano.
Liberato dagli impegni politici e dalle indagini sociali, mi sono dedicato alla ricostruzione della
storia della sinistra. Ho fatto una tale scelta dal momento che ero interessato a scoprire le cause
della sua crisi e a motivare le ragioni delle mie sofferenze.
Durante questo lavoro di ricerca ho avvertito spesso il bisogno e insieme l’opportunità di
socializzare le conclusioni che incominciavo a trarre da quella riflessione; desideravo mettere a
verifica i miei convincimenti. Pertanto mi sono rivolto ad alcuni compagni di cui continuavo ad
avere stima e ho proposto loro l’organizzazione di cicli di riflessione che consideravo utili sia per i
militanti di vecchia data, sia per i giovani. Sono riuscito a promuovere solo sei iniziative della
durata di cinque/dieci serate di riflessione ciascuna.
Oltre ad aver trasmesso memoria e spirito critico a chi vi ha partecipato, queste iniziative hanno
arricchito e rassicurato me stesso circa la loro utilità e mi hanno incoraggiato nel lavoro di scavo
che mi ero proposto di compiere.
120
Dopo un ciclo nell’Est Milanese, organizzato dai compagni del Pds, ne ho gestito uno a Castelleone,
nel Cremonese, su iniziativa del Circolo Bertold Brecht e Rifondazione comunista. Ho poi ripetuto
analoghe esperienze a Trento, su invito dell’Arci, quindi a Lecco, per iniziativa dei compagni di
Rifondazione, e a Darfo Boario, in Valcamonica, dove a organizzare il ciclo sono stati l’Università
popolare e la Cgil. Più tardi nel tempo, a programmare una serie di serate che sono sfociate in due
iniziative aperte al pubblico, è stato un gruppo di compagni di Ponte San Pietro.
Nel periodo successivo alla rottura con l’istituto di ricerca e con la Comedit, ho avuto in tasca, in
modo saltuario, solo tre tipi di tessere: quella dell’Ordine dei pubblicisti; quella del Nidil-Cgil e
quella dello Spi-Cgil.
Al sindacato dei lavoratori precari sono stato iscritto solo un anno, nella fase in cui ero anch’io un
lavoratore senza garanzie sindacali. Nel sindacato dei pensionati ho militato per due anni e dopo
aver costatato che nel corso di quel tempo non ero mai stato convocato una sola volta per valutare e
discutere le finalità e le iniziative che i gruppi dirigenti di quella categoria si proponevano, ho
deciso di dissociarmi dal momento che mi sentivo solo un sostenitore finanziario e non un
protagonista.
Con l’Ordine dei giornalisti ho invece rotto nel 2006, quando di fronte alla condanna da parte della
Magistratura del giornalista di “Libero”, Renato Farina, il direttivo dell’Ordine della Lombardia non
ha avuto il coraggio di prendere atto della condanna e quindi di espellerlo dalle file
dell’organizzazione. Di fronte a quella testimonianza di viltà e di ipocrisia non ho più ritenuto
onorevole aderire a quella categoria professionale. Avevo conosciuto personalmente Farina ai tempi
in cui lavorava al “Sabato”, organo di Comunione e Liberazione. Era venuto a intervistarmi nella
sede milanese del Pds e si era intrattenuto per ben tre ore interrogandomi su svariati argomenti.
Allorquando i magistrati hanno accertato che era un agente dei servizi segreti internazionali
(l’“agente Betulla”), ho avuto motivo di dubitare sull’opportunità di avergli offerto quell’approccio
e sull’ingenuità che in quell’occasione ho dimostrato. Per questa leggerezza ho provato un senso di
rabbia e insieme di repulsione nei confronti di chi manifestava imbarazzo nel prendere le distanze
da un simile infido personaggio e nel ripudiarlo professionalmente.
Dal 2006, dunque, non ho più aderito ad alcuna aggregazione politica o sindacale, ma il mio senso
di appartenenza alla sinistra non è diminuito, anzi è accresciuto. Anziché però rappresentare motivo
di gioia ha continuato a essere causa di apprensione e di tormento.
32. L’attività autonoma di ricerca sul territorio
Alla vigilia del nuovo secolo, essendo inattivo e in rotta con la totalità delle organizzazioni di
sinistra, sono stato costretto a darmi da fare per trovare un’occasione che mi consentisse di
arrotondare la magra pensione che ero riuscito a garantirmi dopo nove anni di lavoro in fabbrica e
più di trenta di funzionariato politico. Le esigenze economiche di bilancio familiare, difatti, non
erano in sintonia con il mio corso politico.
Per mia fortuna, esisteva ancora qualche compagno amico disposto a comprendere il mio stato di
disagio e ad aiutarmi nel rimediare qualche soluzione ai miei problemi.
Dalla segreteria della Cgil della Lombardia, anche sulla scorta del lavoro che per essa avevo già
svolto quando collaboravo con l’istituto di ricerca sociale, mi è stata commissionata un’indagine
sulla diffusione nella regione del nuovo esercito di lavoratori precari. Il quadro che è emerso da
quella ricerca era decisamente allarmante, sicuramente meritevole di ulteriori approfondimenti, dato
che lo scopo del mio lavoro era limitato a un semplice monitoraggio della presenza di queste figure
e alle stime di un loro possibile incremento.
Alla consegna del rapporto non ebbi però nemmeno la soddisfazione di conoscere il giudizio degli
organismi dirigenti del sindacato sul lavoro che avevo svolto. Dietro mia insistenza, mi è stato
concesso un incontro con un impiegato dell’apparato il quale si è imitato a chiedermi spiegazioni su
cosa intendessi per “esercito industriale di riserva”, termine che io avevo richiamato nel rapporto
per evidenziare l’uso che la classe imprenditoriale faceva di quella crescente massa di lavoratori
121
senza diritti. Quel burocrate evidentemente non conosceva la storia del movimento operaio e
probabilmente aveva considerato il mio lavoro il residuato di una cultura che era ormai al tramonto.
Sta di fatto che a quel rapporto non è stata data l’attenzione che mi sarei aspettato.
Mentre stavo indagando sul fenomeno del precariato, la segreteria della Cgil di Bergamo mi ha
prospettato una ricerca sugli effetti che il passaggio dal fordismo al postfordismo aveva avuto
sull’economia e sulla società bergamasca. L’allora segretario provinciale mi aveva annunciato che
era loro intenzione pubblicare i risultati di quella ricerca in coincidenza delle celebrazioni del
centenario della locale Camera del lavoro. La proposta non poteva che tornarmi come un’insperata
gratificazione, perciò mi misi al lavoro di buon grado.
Dopo dieci mesi di ricognizioni sul campo, e di studio delle statistiche e delle tendenze economiche,
ho consegnato alla segreteria del sindacato bergamasco oltre al rapporto, il testo integrale delle
numerose interviste agli attori economici e sociali che avevo realizzato: si trattava di un malloppo di
oltre 700 pagine. Ero convinto di aver fatto un buon lavoro e mi aspettavo un lusinghiero giudizio
da parte di chi me l’aveva commissionato. Questa soddisfazione, però, non l’ho mai avuta.
Trascorsi alcuni giorni dalla consegna del rapporto di ricerca, non avendo notizie, ho chiamato per
telefono il segretario e gli ho chiesto spiegazioni su quel silenzio. Con grande imbarazzo egli si è
limitato a dirmi laconicamente che nel rapporto avevo evidenziato troppo il giudizio critico nei
confronti delle dirigenze sindacali da parte dei diversi Consigli di fabbrica con i quali avevo
realizzato dei forum. Dopo di quella telefonata non ho avuto più modo di avere un contatto con la
segreteria bergamasca della Cgil.
A fronte di quell’atteggiamento che mi ha mortificato, ho tentato di ritessere il rapporto, come del
resto avevo promesso al momento in cui avevo effettuato le interviste, con alcuni delegati di
fabbrica dichiarandomi disponibile e interessato a riprendere con loro la riflessione che mi era stata
negata dai loro dirigenti, ma anche da parte di questi non ho avuto l’attenzione che desideravo.
Trascorsi alcuni anni, in occasione di una mia visita alla responsabile della Biblioteca “Di Vittorio”,
quella appunto della Cgil bergamasca, ho avuto modo di costatare che quel mio rapporto non era
nemmeno stato considerato degno di essere incluso nell’archivio storico della Confederazione.
Anche se non era la prima volta che subivo una simile censura, la scoperta che anche la Cgil
ricorreva a tali misure per nascondere le critiche al suo operato, mi ha colpito profondamente
nell’animo e mi ha creato inquietanti problemi d’identità. Difatti, se mi riusciva di comprendere la
messa al bando, da parte delle Amministrazioni locali governate dalla Lega, dei miei saggi sul
leghismo presenti nelle biblioteche comunali, peraltro nella totale indifferenza di tutti, non riuscivo
a giustificare un simile comportamento da parte di un’organizzazione che dei principi di libertà,
solidarietà e trasparenza aveva fatto la sua bandiera.
Motivi di soddisfazione li ho invece avuti realizzando tre altre ricerche i cui rapporti hanno
costituito oggetto di apprezzate pubblicazioni e hanno provocato riflessioni collettive e interessanti
dibattiti pubblici.
Due di queste ricerche mi sono state commissionate dall’Amministrazione comunale di Pioltello, a
quel tempo retta da Mario De Gaspari, esponente dei Ds. La prima ha riguardato le trasformazioni
subite da quella città nella seconda metà del Novecento; la seconda, invece, ha avuto come oggetto
di studio il livello di coesione politico-istituzionale dell’area dell’Est Milanese in rapporto alle
problematiche del suo sviluppo. Quest’ultimo lavoro è stato apprezzato da molti amministratori del
comprensorio e oltre che dalle formazioni politiche della sinistra, dagli esponenti delle Acli, in
particolare del suo animatore Orazio Reolon, e dalle organizzazioni ambientaliste.
La terza ricerca mi è stata invece commissionata dalla Cgil di Mantova e oggetto d’indagine sono
stati la stima, le dimensioni e i caratteri del “lavoro nero” e dell’economia sommersa in quella
provincia.
Ho avuto l’onore di illustrarla al congresso della Confederazione e successivamente in
un’assemblea alla quale erano presenti, oltre ai dirigenti sindacali, anche i rappresentanti
istituzionali locali e quelli delle varie categorie economiche e sociali. Il lavoro che ho svolto e la
122
relazione che ho tenuto sono stati oggetto di pubblici complimenti da parte sia di Carlo Ghezzi che
di Carla Cantone, membri della segreteria nazionale della Cgil.
Nel corso degli otto anni in cui mi sono dedicato alla ricerca sociale, ho avuto modo di intervistare e
di avere contatti con oltre un migliaio di esponenti del mondo istituzionale, di quello della politica e
poi dell’imprenditoria, della finanza, delle rappresentanze sindacali e sociali, delle varie professioni,
della cultura e della scuola e persino del mondo ecclesiastico. I contatti con questi personaggi, la
maggior parte dei quali erano distanti dal mio credo politico, e la conoscenza diretta di ambienti
diversi da quello che avevo da sempre frequentato, hanno contribuito ad arricchire il mio bagaglio
di sapere e a stimolare la mia intelligenza e la mia curiosità intellettuale. Ho imparato ad apprezzare
la dialettica nel vivo della sua pratica, cogliendo l’importanza del confronto sui contenuti, oltre che
sulle idee, avendo rispetto delle posizioni altrui quando esse non sono frutto di egoismi e di
preconcetti, ma sono tese al bene comune.
Per tutto quel periodo, con la “mia” sinistra ho avuto rapporti molto sporadici. Dopo la rottura con
Rifondazione comunista ho partecipato, lasciandomi coinvolgere da alcuni compagni, a poco più di
una decina di iniziative pubbliche le quali hanno riguardato le tematiche del leghismo, del razzismo,
delle strategie della sinistra e della sua crisi. Tra gli interlocutori di questi momenti di confronto c’è
stato anche Maurizio Martina, allora dirigente del Pd lombardo.
Sul piano dell’impegno politico e sociale, riprendendo una vecchia pratica, mi sono limitato a dare
una mano a un gruppo di cittadini del mio quartiere che si erano impegnati in una battaglia contro
l’inquinamento, il degrado ambientale e l’ottusità e l’inerzia dell’Amministrazione comunale retta
da un illustre esponente del centro-sinistra.
In più circostanze, di fronte a episodi di malasanità, ho cercato di denunciare i responsabili di tali
atti criminosi scontrandomi con i responsabili degli enti in cui essi venivano perpetrati e tollerati.
Ho cercato inutilmente di coinvolgere in queste battaglie gli esponenti della sinistra presenti nelle
istituzioni e i gruppi dirigenti dei sindacati impegnati sul fronte dei diritti del cittadino, ma da parte
loro non ho avuto l’attenzione e l’impegno che mi aspettavo.
Sulla vicenda di un primario d’ospedale che aveva tentato di coinvolgere nei suoi raggiri mia figlia
Nadia, e che una decina di anni dopo è stato condannato dalla Magistratura per concussione e abuso
d’ufficio, ho sollecitato inutilmente l’intervento dei Ds, di Rifondazione e della Cgil. Mentre ho
ricevuto le scuse ufficiali dell’assessore regionale alla sanità, un esponente fascista, non un sol atto
né un solo cenno ho avuto da parte dei compagni cui avevo chiesto un intervento istituzionale.
A riguardo di provvedimenti ingiusti e paradossali emanati dai governi in materia di Imu e di Irpef,
ho invitato parlamentari dei Ds e di Sel a intervenire presso i rispettivi governi per avere chiarimenti
e imporre modifiche alle norme emanate, in modo di impedire che la superficialità, la non
competenza e lo scarso senso della giustizia da parte dei legislatori si riversasse sui ceti meno
abbienti come una mannaia. Da quei rappresentati del popolo, che pure io stesso avevo contribuito
ad eleggere, però, non sono stato nemmeno degnato di una risposta. Non una sola delle questioni
che ho sollevato ha trovato nella “mia” sinistra l’attenzione e l’impegno che mi attendevo.
Seppure lontano dalle sedi della politica, ho avuto così testimonianza diretta del decadimento che ha
investito lo stesso schieramento che si proclama paladino di una profonda riforma dell’agire
politico. E questa costatazione mi ha sollecitato a scavare nella storia della sinistra per individuare
le cause vecchie e nuove dei limiti, dei ritardi, delle inefficienze e delle contraddizioni che
contrassegnano la sua cultura e la sua pratica. L’esperienza di oltre trent’anni di militanza e di un
decennio di sofferto isolamento mi ha convinto che la crisi che sta vivendo lo schieramento delle
forze che si professano di sinistra non è solamente di natura politica, ma ha una dimensione teorica
e addirittura antropologica.
L’esigenza di verificare questo mio convincimento si è intrecciata con un recondito desiderio di fare
un bilancio esistenziale della mia personale esperienza politica.
E’ successo così che ho dato inizio a quel lavoro di scavo e di riflessione che mi ha portato alla
stesura di “Incoerenze e ‘buchi’ neri della sinistra”.
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33 – La riflessione sulla crisi della sinistra
Quando, nell’estate del 2014, ho concluso il saggio critico sulla storia della sinistra, mi sono trovato
di fronte al dilemma se affidare la sua pubblicazione a una casa editrice oppure se metterlo a
disposizione di chiunque fosse interessato a prenderne visione su internet. Dopo aver accertato che
il suo costo sul mercato editoriale sarebbe oscillato tra i 70 e gli 80 euro, ho escluso la prima
ipotesi: la qualità del “prodotto” non valeva di certo quella spesa e, supposto che fossi riuscito a
trovare una casa editrice disposta a pubblicarlo, quella scelta avrebbe pesantemente limitato la sua
diffusione. Costatato altresì che una pubblicazione e-book avrebbe comportato comunque la
determinazione di un prezzo di mercato, ho ritenuto cosa migliore aprire un blog e mettere il saggio
a disposizione di chiunque fosse interessato a visionarlo.
A quel punto, però, è insorto il problema di come far conoscere la sua esistenza. Non essendo in
condizioni economiche di ricorrere al mezzo della pubblicità, e non godendo di alcun sostegno da
parte di chicchessia, ho pensato bene di rimediare le
e-mail di persone e gruppi collettivi che potevano essere interessati all’argomento per invitarli a
visitare il sito e, semmai, a scaricare il saggio. Nel giro di alcuni mesi, ho spedito oltre 130
messaggi: una quarantina li ho indirizzati a partiti e a esponenti politici di sinistra; una cinquantina a
istituti di storia, circoli culturali e docenti universitari; una trentina a militanti di sinistra e dirigenti
sindacali di mia personale conoscenza; una diecina a giornalisti e amici. Oltre il 90% dei destinatari
risultavano essere residenti in Italia, distribuiti in una quarantina di province, mentre i rimanenti
erano personaggi della politica e della cultura di altri paesi con alcuni dei quali avevo già avuto
rapporti nel passato.
Settantadue di questi interlocutori mi hanno comunicato di aver gradito l’informazione che ho loro
fornito e di aver scaricato da internet il mio lavoro; una quindicina mi ha confermato di averlo
visionato, mentre solo una diecina ha dichiarato di averlo apprezzato, anche se non avevano ancora
esaurito la sua lettura. I due volumi, del resto, sono composti da 1.450 pagine ed è chiaro che anche
una semplice scorsa richiede tempo. Solo un vecchio compagno, giornalista e scrittore, dopo avermi
assicurato di aver letto l’intero saggio in sei giorni (sic!), mi ha contestato parte dell’analisi e le
conclusioni cui sono giunto. Ho tentato di tessere con lui un dialogo, ma ho presto avvertito la sua
indisponibilità. Con un compagno di vecchia data e con il direttore di un istituto storico ho invece
intrecciato una discussione che si è protratta per alcune settimane.
Quattro mesi dopo la sua pubblicazione, i compagni Pierluigi Gregis, Daniele Ghisleni e Luigi
Battaglia, del Circolo Paci-Dell’Orto di Bergamo, hanno preso coraggiosamente l’iniziativa di
invitarmi a presentare pubblicamente il saggio, offrendomi così l’opportunità di riprendere contatto
con alcuni vecchi compagni e avere con loro un confronto, seppur fugace, sul lavoro svolto.
Mentre quell’incontro mi ha gratificato, la scarsa considerazione che nel complesso mi hanno
riservato gli interlocutori che mi sono scelto mi ha decisamente deluso. Mi aspettavo una maggior
attenzione e considerazione, anzitutto dai compagni e dai dirigenti politici di mia vecchia
conoscenza, in specie da quelli che sono appartenuti al gruppo del “manifesto” e del Pdup.
Non era e non è mio proposito andare alla ricerca di consenso alle tesi cui sono giunto; ciò che mi
premeva e mi preme era ed è suscitare riflessione e confronto. L’ambizione che mi ha indotto a
pubblicare il saggio, infatti, è proprio il desiderio di contribuire a provocare un’analisi critica della
storia e del comportamento della sinistra, e l’esito della mia artigianale campagna divulgativa mi ha
dimostrato che non sono riuscito a raggiungere un tale obiettivo.
Le cause del mio fallimento sono sicuramente molteplici. Anzitutto la limitata capacità di
informazione sull’esistenza del mio lavoro. Continuo a essere convinto che ci sono compagni in
sofferenza e interessati a ricercare le ragioni della profonda crisi in cui è precipitato il progetto di
un’alternativa al capitalismo. Con questa platea non mi è riuscito di mettermi in contatto.
Poi, ci sta il particolare che le generazioni precedenti a quella dei “nativi digitali” fanno fatica ad
abbandonare il cartaceo per passare alla lettura virtuale, e avendo io affidato le fortune del mio
lavoro a internet, sicuramente ho pagato uno scotto, proprio per non aver ben calcolato che questa
124
scelta avrebbe rappresentato un ostacolo oggettivo alla sua lettura per parte di molti di coloro che
consideravo miei possibili interlocutori.
Ritengo però che la principale e fondamentale causa di questo flop sia da individuarsi nel venire
meno, nel costume della sinistra, dello spirito critico e dell’attitudine alla riflessione. L’impressione
che ho ricavato dalle poche occasioni di interlocuzione (soprattutto tramite mail) con alcuni
compagni, è infatti che la mia richiesta di confronto è stata vissuta da loro con fastidio, come se si
trattasse di una costrizione, oppure di un mio sfizio, quando non veniva addirittura interpretata –
almeno questo ho avvertito – come una mia maniacale pretesa di fare i conti con un passato che non
interessa più. E questa sensazione l’ho vissuta non solo nel contatto con compagni che si sono
facilmente integrati nei meandri del sistema, determinando così un taglio con i trascorsi tempi della
contestazione giovanile, ma anche con compagni che hanno mantenuto integra la loro moralità
politica.
Questa negativa esperienza, in sostanza, mi ha fatto sorgere il dubbio che il lavoro da me svolto sia
stato considerato di scarsa qualità e utilità e mi ha confermato che la mia condizione di isolamento
politico non è giunta a termine. Il fatto che tre importanti biblioteche e un istituto di storia abbiano
rifiutato di ospitare una copia in versione cartacea del mio saggio, mi è tornato come una conferma
di questo mio convincimento.
Parimenti, però, queste testimonianze hanno reso ancor più chiaro in me il pesante condizionamento
che la cultura di sinistra ha subito nel corso di questi decenni per conto del capitalismo globale e del
pensiero unico dominante.
Questa nuova triste esperienza mi ha pertanto indotto a ritenere che un riscatto della sinistra di certo
non potrà realizzarsi nel breve periodo, ma sarà necessariamente il prodotto di una riflessione e
dell’azione di generazioni future.
Una tale amara costatazione, non mi impedisce però di credere che il compito di innescare un
processo di rinnovamento spetti comunque soprattutto a chi è appartenuto alla vecchia generazione,
quella che ha creduto nella rivoluzione, proprio in ragione del fallimento dei progetti che essa si era
proposti. Ed è tale convincimento che mi spinge a dare continuità al mio modesto lavoro di
indagine, di analisi, di elaborazione e di proposizione. E dunque di provocazione.
A giustificare questa mia ostinata determinazione è anche il fatto che ad avvalorare le mie tesi è
proprio il progressivo decadimento della capacità dello schieramento di sinistra di incidere nella
realtà politica, economica e sociale, nonché l’insorgenza di sempre nuove difficoltà nel garantirsi la
sua stessa esistenza.
In questi ultimi tempi mi è spesso sovvenuta alla mente l’affermazione che Lev Kamenev ebbe a
fare nel corso di una delle ultime sedute del Comintern, a riguardo del diritto e del dovere di un
rivoluzionario di difendere le proprie idee sempre e in primo luogo quando va contro corrente: “Se
non lo fa – egli disse – non è un rivoluzionario ma un miserevole funzionario”.
La pratica accumulata e il modesto sapere acquisito in oltre mezzo secolo di appartenenza allo
schieramento di sinistra, mi fanno quindi sentire in dovere e in diritto di esprimere ad alta voce le
riflessioni che ho maturato. E poiché l’analisi e le argomentazioni contenute in “Incoerenze e ‘buchi
neri’ della sinistra” non hanno esaurito il mio pensiero sul modo in cui molti degli esponenti della
sinistra hanno vissuto e vivono la politica, ho deciso di proseguire la mia riflessione dopo aver
passato in rassegna la mia stessa esperienza.
125
Seconda parte
Osservazioni sulla politica e sul
comportamento dei suoi attori
126
127
34. L’analisi critica delle strategie dell’alternativa
Nel compiere l’indagine sulla storia del movimento operaio e della sinistra, ho cercato di avere una
visione non ideologica della storia e mi sono sforzato di svolgere un’analisi dialettica degli
avvenimenti.
Dopo aver individuato i momenti nevralgici e le problematiche che ne sono conseguite, sono andato
alla ricerca delle motivazioni che hanno indotto i soggetti in campo a seguire un percorso piuttosto
che un altro e ho cercato di esaminare eventuali possibili alternative,
valutandone sia gli effetti che le conseguenze.
Dal giudizio critico che ho maturato sulle esperienze compiute nel passato dalla sinistra, ho fatto
discendere la riflessione sul suo agire odierno, nonché sulle sue possibili prospettive.
Questo lavoro mi ha portato all’individuazione di tre contraddizioni, o discordanze, tra teoria e
pratica dell’insieme delle forze di sinistra sulle quali ho concentrato l’attenzione e approfondito la
riflessione. Queste incoerenze possono essere così sintetizzare:
1) Alla teoria marxiana della socializzazione del modo di produzione, secondo la quale gli uomini
devono essere protagonisti attivi e consapevoli del loro agire, la storia ci ha consegnato la pratica
politica, quella appunto seguita dalla sinistra in generale, della statalizzazione dell’economia la
quale è stata e continua a essere vissuta come un passaggio obbligato nella transizione dal
capitalismo al socialismo.
2) Anziché applicare la teoria marx-leniniana dell’estinzione dello Stato, la sinistra, a partire dallo
stesso Lenin, ha fatto sua la pratica istituzional-rappresentativa, cioè la delega, come veicolo di
transizione alla democrazia socialista e non è riuscita ad andare oltre l’istituto della rappresentanza
borghese.
3) Al partito, inteso sia da Marx che da Gramsci come produttore di weltanschauung, cioè come
soggetto con una propria originale visione del mondo e fautore di protagonismo sociale, la sinistra
ha dato vita al partito-avanguardia che si fa Stato, quale deus ex machina di ogni iniziativa,
rimanendo così intrappolata nell’ideologia e nella pratica borghese.
Se la sinistra non è stata in grado di andare oltre la proclamazione dell’alternativa, è proprio perché
non ha saputo, o forse non ha voluto, riconoscere e attribuire importanza a queste contraddizioni e,
di conseguenza, correggere le proprie strategie. Seppure abbia condotto una dura e generosa guerra
al sistema, a causa di un cronico deficit di spirito critico e autocritico e di autonomia culturale, la
sua azione ha finito per essere neutralizzata, quando non addirittura assorbita dallo stesso sistema.
E’ il caso di soffermarsi un attimo sulla genesi e sulla natura delle incoerenze che ho messo sotto la
lente nel mio ultimo saggio.
Chiunque si è premurato di conoscere, seppur superficialmente, la letteratura marxiana, sa che il
padre del socialismo scientifico ha teorizzato l’impossibilità di violare le leggi storiche dello
sviluppo e ha inteso la rivoluzione come “abbreviazione del travaglio”.
E’ con questa avvertenza che egli ha tracciato la strada per superare il sistema del capitale
prospettando implicitamente un periodo di transizione. Infatti, ha individuato il percorso del
cambiamento nel processo di socializzazione dei mezzi di produzione, nel superamento della
divisione sociale del lavoro e nella riappropriazione del sapere collettivo da parte dei produttori,
cioè del “general intellect”. Più precisamente, ha considerato necessario il rivoluzionamento
contemporaneo del modo di produzione, cioè dell’economia e del lavoro umano, dei rapporti
sociali, del sistema politico-istituzionale, del modo di pensare e di agire degli uomini, quindi della
loro cultura, del senso comune e del loro protagonismo.
In sostanza, egli ci ha indicato un processo a tutto campo e decisamente complesso.
In Marx, il rifiuto di una semplice statalizzazione delle forme del produrre capitalistico, è
categorico, giacché – come spiega – mantiene inalterato il rapporto plusvalore-salario-profitto. Egli
pensa a un lavoro non più coatto e alienato, fondato sulla ridefinizione e sulla soddisfazione dei
bisogni degli stessi produttori, i quali vengono ritenuti il soggetto primario del cambiamento.
128
Ebbene, quando Lenin ha fatto la rivoluzione in Russia, la cui economia era stata classificata dallo
stesso Marx di tipo “semi-asiatico”, cioè di natura precapitalistica, feudale, i bolscevichi si sono
trovati nell’impossibilità materiale di procedere alla socializzazione dei mezzi di produzione e
quindi non hanno avuto modo di riappropriarsi del “general intellect” giacché nel loro Paese lo
sviluppo industriale era ancora in fieri; pertanto hanno adottato il sistema taylorista, cioè il modo di
produzione capitalistico, concentrando la proprietà e la direzione dell’economia nella mani dello
Stato.
Facendo proprio tout court il taylorismo, essi hanno tenuto separata l’azione di costruzione delle
forze produttive da quella dei rapporti di produzione, rinviando al dopo la modifica di questi ultimi.
Un tale modo di affrontare il cambiamento ha reso oggettivamente impraticabile il processo di
socializzazione dei mezzi di produzione concepito da Marx. A quel punto è stato realizzato (e non
poteva succedere altrimenti) un “capitalismo di Stato” che si è rivelato un ibrido e si è tradotto
inevitabilmente in uno Stato padrone il quale ha perpetuato il lavoro comandato-salariato e avocato
a sé, in maniera esclusiva, il governo della società e la gestione del cambiamento.
Come Marx insegna, “ogni forma di produzione produce i suoi rapporti giuridici” e il capitalismo
di Stato non poteva certo produrre la socializzazione dell’economia e del potere.
Con l’industrializzazione accelerata, i soviet sono stati sostituiti dai glavkj, cioè dal ceto
burocratico-manageriale, e a imperare è stata la delega. Il “general intellect” di marxiana memoria è
stato sepolto e il protagonismo individuale non solo non ha potuto avere sviluppo, ma addirittura è
stato considerato controproducente. La rivoluzione è così divenuta norma, comando, repressione,
non prodotto della creatività di ogni singolo individuo.
Se la sinistra avesse riflettuto sul crollo del socialismo reale, anziché prendere opportunisticamente
le distanze da quell’esperienza, si sarebbe resa conto di aver compiuto un errore madornale nel
riporre le sue speranze nel crollo spontaneo del capitalismo; e avrebbe compreso la necessità e
l’urgenza di mettere in campo una nuova strategia rivoluzionaria e una nuova prassi politica di
fronte al crescere progressivo delle contraddizioni nella società moderna.
Anche se il senso comune sembra non ravvedersene, noi stiamo correndo il rischio di sprofondare
nella barbarie. Le crescenti disuguaglianze di condizione sociale, la povertà materiale e morale che
si diffonde anche nei templi del capitalismo, il persistere delle guerre, il prorompere sulla scena
mondiale del terrorismo e il ritorno ai metodi violenti del passato, il non rispetto della natura,
l’esplosione degli egoismi etnici e il riaffiorare del razzismo, la crisi dei valori della convivenza, il
dilagare della corruzione, il conflitto generazionale, la disgregazione dei vecchi vincoli istituzionali
e dei rapporti sociali, l’aumento della criminalità e dell’alienazione, la crisi della politica e
l’espandersi dell’astensionismo: sono tutte minacce alla convivenza e alla stessa sopravvivenza
della specie umana sulla Terra.
La condizione per superare una situazione tanto grave e rischiosa non sta negli aggiustamenti delle
pratiche economiche, sociali e istituzionali sin qui sperimentate, le quali sono all’origine stessa
della crisi che stiamo vivendo, ma in una profonda svolta di indirizzi; nel coraggio appunto di
cambiare strategie.
L’obiettivo della socializzazione indicato da Marx, a me appare come l’unica soluzione credibile e
percorribile. E’ la più difficile da praticare, ma è quella che offre più garanzie di successo. La
riappropriazione da parte della collettività del “sapere sociale” rappresenta, infatti, l’unico modo di
togliere dalle mani di un ristretto gruppo di uomini, che si è nel complesso dimostrato irresponsabile
di fronte all’umanità, il potere di decidere per conto di tutti e ridistribuirlo ai “produttori”.
Ma cos’è esattamente il “general intellect”?
Marx ci ha insegnato che il capitale si nutre non solamente di plusvalore, cioè della parte del lavoro
eccedente svolto dal salariato e non pagata, ma anche della capacità lavorativa degli stessi salariati
associati, la quale viene accumulata durante il processo produttivo attraverso le macchine.
Il “general intellect”, dunque, rappresenta l’intelligenza collettiva, il sapere sociale che si crea con
l’accumularsi della conoscenza, della scienza e della tecnica nel processo di produzione e in quello
129
della riproduzione, il quale si estrinseca nell’abilità lavorativa, nelle invenzioni tecniche, nelle
scoperte scientifiche, nelle innovazioni di natura produttiva e sociale.
Il capitalista ha per sua natura l’obiettivo di appropriarsi di questa intelligenza collettiva e di
incorporarla nella macchina, trasformando così il lavoro “vivo” in lavoro “morto”, cioè
materializzandolo ai fini di accrescere la quantità di plusvalore a sua disposizione e consolidando
sempre più il suo potere sulla società.
La rapina dell’intelligenza collettiva, infatti, costituisce di fatto l’elemento fondamentale della
continua riproduzione del capitale e della sua egemonia, mentre una sua riappropriazione da parte
dei produttori rappresenta la condizione essenziale per la determinazione del modo di produzione
socialista, cioè di una società in cui lo sfruttamento materiale e psichico-spirituale degli uomini è
definitivamente bandito.
Nonostante l’importanza strategica del suo ruolo, il “general intellect” è stato ignorato sia dalle
dirigenze dei Paesi del “socialismo reale”, il cui crollo trova origine proprio nella mancata
affermazione di un nuovo modo di produzione, sia dalle stesse sinistre del mondo capitalistico
avanzato, dal momento che in Occidente è prevalsa la linea evoluzionistico-statalista ed
economicista.
E’ successo così che nelle società di capitalismo avanzato la lotta sui luoghi della produzione si è
ridotta alla semplice azione rivendicativa sul fronte del salario e delle condizioni di lavoro,
generando tra l’altro inevitabilmente corporativismi e nazionalismi. Laddove ha dominato il
capitalismo, la sinistra ha finito persino di smarrire lo stesso spirito internazionalista, il quale è uno
dei requisiti fondamentali della realizzazione del socialismo.
Di fronte all’evidenza del corso storico, vale la pena di chiedersi perché mai il capitale è riuscito ad
associare ed egemonizzare gli uomini nel produrre le merci, nonostante li abbia messi
oggettivamente l’uno contro l’altro, mentre la sinistra non è riuscita ad aggregarli al fine di
privilegiare la produzione dei valori d’uso anziché il valore di scambio, il che avrebbe assicurato la
loro pacifica convivenza e il loro vero benessere.
Una delle ragioni della sottovalutazione del “general intellect” consiste, a mio avviso, nel fatto che
la sinistra ha concentrato la sua attenzione sul pluslavoro, quale unica fonte di arricchimento del
capitale, trascurando l’importanza del processo di appropriazione da parte sua dell’intelligenza e
della capacità lavorativa degli uomini, fattori questi che sono decisivi nell’assicurargli l’egemonia
sulla società.
L’esaltazione del ruolo strategico del “general intellect” avrebbe dovuto essere compito, oltre che
della sinistra politica e sindacale, della cooperazione “rossa” in particolare.
Come si è visto, però, la direzione di questo delicato settore del movimento operaio, da noi in Italia,
è stata affidata ai vari Consorte, i quali anziché la causa del “general intellect” hanno preferito
sposare quella della speculazione finanziaria e dello scimmiottamento del capitalismo.
Sulla differenza tra “socializzazione” e statalizzazione e sull’importanza dell’appropriazione della
capacità lavorativa e del “sapere” collettivo, è mancata e continua a mancare nella sinistra una
riflessione adeguata. E’ difatti difficile rintracciare riferimenti a questi concetti nei testi degli
economisti sia dei regimi del “socialismo reale” sia di quelli occidentali, come il russo A. Leont’ev
o il cinese Xu He, John Eaton o Maurice Dobb, Antonio Pesenti o Vincenzo Vitello o Luciano
Barca, i quali hanno contribuito a formare intere generazioni di comunisti.
Eppure se si vuole creare uno sbocco alternativo alla crisi del capitalismo che subordina l’economia
reale alla speculazione finanziaria e che divora il lavoro “vivo” creando nuova emarginazione, non
c’è altra soluzione per la sinistra che indurre il movimento dei lavoratori a riappropriarsi della
propria intelligenza, delle proprie capacità produttive e innovative e dare corpo, attraverso percorsi
di sperimentazione, a un modo alternativo di produrre e di consumare, orientato non più dal profitto
ma dai bisogni sociali reali.
Talune esperienze compiute dal cosiddetto “terzo settore” sono lì a dimostrare che la possibilità
oggi di percorrere una strada alternativa a quella imposta dal valore di scambio esiste, e non è
affatto un’utopia lavorare per il conseguimento di un sistema economico socialista.
130
Del resto, obiettivi come: l’impiego razionale delle risorse, uno sviluppo che sia compatibile con le
leggi della natura e preservi l’habitat, un uso sociale della scienza e della tecnica, il superamento
della divisione sociale del lavoro, nuovi valori su cui impostare l’esistenza, non si possono
realizzare che attraverso la riappropriazione del “general intellect”, cioè con il coinvolgimento
attivo della totalità degli individui.
Il socialismo altro non è che questo!
La costruzione di una società alternativa al capitalismo, al tempo nostro, non può essere il frutto né
di una rottura violenta né di un’improvvisazione, tanto meno di una dittatura o dell’operato di una
leadership illuminata. Essa richiede necessariamente un processo sociale, certamente conflittuale,
traumatico e non pacifico, ma costruito con il consenso dei più.
La realizzazione del cambiamento dell’economia non può essere affidata a una avanguardia del
movimento, bensì essa richiede il protagonismo di massa finalizzato alla conquista di un modo
nuovo di produrre, di consumare e di pensare.
L’avanguardia, cioè la sfera politica, non ha dunque altra funzione che quella di favorire questo
protagonismo sociale il quale è la condizione sine qua non per il superamento dell’economia
politica attraverso la riappropriazione del “general intellect”.
Finché la sinistra non sarà capace di sottrarre al capitalismo l’uso del sapere sociale ai fini della
produzione di profitto e non indurrà gli individui a far propria una nuova etica e morale, il
socialismo continuerà a essere un’utopia.
Occorre perciò riprendere l’esperienza interrotta della strategia consiliare sperimentata a più riprese
nel secolo scorso per andare oltre. Non bisogna accontentarsi di contrattare semplicemente più
salario e migliori condizioni di lavoro, ma occorre far maturare nel movimento dei lavoratori la
consapevolezza della necessità di riappropriarsi della propria intelligenza e accrescere la propria
autonomia di pensiero.
La risposta che la sinistra deve dare alla crisi del capitalismo non può equivalere a una sorta di
accattonaggio del posto di lavoro e nemmeno sottostare al ricatto del capitale come produttore di
valore. La sua condotta quotidiana deve essere una sfida continua di egemonia progettuale e
programmatica. E una tale operazione non può essere compiuta nella “stanza dei bottoni”, ma deve
prendere corpo nel vivo dello scontro sociale.
35. Necessità e urgenza di un nuovo modo di “far politica”
A riguardo della seconda contraddizione, va evidenziato che per Marx ed Engels lo Stato è una
macchina per l’oppressione di una classe da parte di un’altra. Esso “esiste solo a favore della
proprietà privata”, “non è altro che la forma di organizzazione che i borghesi necessariamente
adottano”. In sostanza, è una macchina che garantisce lo status quo, cioè il dominio del capitale.
Marx considera il diritto borghese non solo come strumento di coercizione, ma anche come fonte di
disuguaglianze sociali, dal momento che, parificando formalmente gli individui, esso mortifica la
diversità di ognuno di loro. Lo Stato, che è necessariamente fondato sul diritto uguale, non può
essere altro che espressione di un sistema sociale ingiusto, perciò oppressivo. A suo avviso, per
soddisfare le esigenze proprie di ciascun individuo, il diritto dovrebbe essere diseguale.
Egli definisce il sistema democratico della società capitalistica “la democrazia per un’infima
minoranza, cioè la democrazia per i ricchi”. La democrazia borghese significa per lui soltanto
uguaglianza formale che perpetua la divisione della società in classi e che, appunto, ha bisogno
dello Stato per garantire il suo ordine.
E’ tale l’avversione verso lo Stato da parte dei teorici del socialismo scientifico che Engels ne’
l’introduzione a “La guerra civile in Francia” sostiene: la classe operaia “deve assicurarsi contro i
propri deputati e impiegati ” in modo di evitare “la trasformazione dello Stato e degli organi dello
Stato da servitori della società in padroni della società ”. Questa tesi è da lui sostenuta in forza
della costatazione che in tutte le organizzazioni statali egli ha riscontrato quel fenomeno che chiama
“cretinismo parlamentare ”.
131
Si tratta di un fenomeno che è presente in modo assai diffuso ancora oggi e che ha
abbondantemente contagiato la stessa sinistra.
Contrariamente al luogo comune che considera il comunismo la negazione dell’individualità, Marx
non esalta solo la collettività, ma anche l’uomo come singolo individuo, sia nel suo essere sociale
che nella sua piena libertà e autonomia. Il comunismo è da lui inteso come il superamento di
qualsiasi retaggio materiale e culturale. Perciò, qualsiasi sovrastruttura, Stato compreso, se non
finalizzata al suo stesso superamento, è da lui interpretata come un oggettivo condizionamento del
processo di emancipazione.
All’indomani dell’esperienza della “Comune di Parigi”, Marx ed Engels elaborano la teoria
dell’“estinzione dello Stato ” la quale dovrebbe avere inizio con la conquista del potere politico e
comportare lo sviluppo massimo del protagonismo sociale.
Su tale teoria si è dilungato Lenin, proprio alla vigilia dell’Ottobre rosso, esaltandone il valore
rivoluzionario.
Nel corso della lotta che i comunisti hanno condotto al fine di modificare il nesso tra struttura e
sovrastruttura, e per dare corpo alla democrazia diretta, mentre in Russia i bolscevichi hanno
contrapposto i soviet alla Duma, in Occidente Gramsci e la Luxemburg, in particolare, hanno
sperimentato la strategia dei consigli.
Purtroppo, però, sia i soviet sia i consigli operai sono stati sconfitti e la storia ci ha consegnato, da
un lato, la forma Stato della socialdemocrazia europea che, pur sotto la direzione delle espressioni
politiche del movimento operaio, ha continuato a essere funzionale al sistema capitalistico;
dall’altro, la forma Stato del socialismo reale che era fatta di illibertà, di costrizioni, di repressioni,
di gulag, un modello cioè pieno di contraddizioni al punto di autodistruggersi.
Se riflettiamo sulla realtà dei giorni nostri, non possiamo non prendere responsabilmente atto che
fenomeni come quelli dell’astensionismo, della corruzione e del trasformismo, i quali sono prodotti
della crisi della rappresentanza e sono in progressiva espansione ovunque, non possono essere
affrontati altrimenti se non attraverso la messa in campo di forme di democrazia diretta. Come
l’esperienza insegna, le tanto decantate riforme istituzionali ed elettorali non rappresentano affatto
la soluzione di tali problemi, infatti, sono state sperimentate per decenni senza alcun esito
risolutivo.
Il suffragio universale, pur da sempre irrinunciabile terreno di lotta per il movimento operaio, quale
strumento di emancipazione umana, vive oggi una crisi irreversibile che è determinata
dall’evoluzione stessa della società del sistema capitalistico. La sua crisi non può essere superata se
non praticando forme nuove di protagonismo sociale.
Se è vero che la democrazia rappresentativa borghese costituisce un terreno obbligato di lotta per la
stessa sinistra, è altrettanto chiaro che il misurarsi solo e unicamente su tale terreno non è possibile
costruire alcuna alternativa.
Ciò che la sinistra deve mettere in campo sono gli strumenti di democrazia diretta, i soli in grado di
soppiantare qualsiasi forma di delega e assicurare il protagonismo a ogni individuo. Solo gli istituti
dei consigli sui luoghi di produzione e di riproduzione sociale (quelli diffusi sul territorio e in ogni
ambito della realtà sociale) sono in grado di garantire la realizzazione della democrazia sostanziale
e la riappropriazione del “general intellect”.
La terza contraddizione che ho individuato nella prassi della sinistra è costituita dalla struttura
stessa dell’organizzazione politica.
I padri del socialismo scientifico hanno teorizzato assai poco sul tema del partito, ma questo non ha
impedito loro di fare alcune importanti precisazioni.
Rivolto ai blanquisti, Marx ha voluto puntualizzare: “Noi vogliamo la dittatura della classe, cioè
del proletariato e non del partito rivoluzionario” e più volte ha insistito sulla necessità del
superamento della politica; mentre Engels ha sostenuto che “la scienza socialista non può vivere
senza libertà di movimento”. Per i fondatori del socialismo scientifico, dunque, la libertà e la
creatività degli individui non possono essere né mortificate né ingabbiate, giacché esse
rappresentano il lievito del progresso umano.
132
A mettere a punto la teoria del partito è stato Lenin il quale ha compiuto tale elaborazione in base
sia alle esperienze socialdemocratiche del suo tempo sia, in specifico, alle condizioni in cui si è
svolta la lotta rivoluzionaria in Russia. Egli ha sperimentato il partito del centralismo democratico
al quale ha attribuito il ruolo di avanguardia cosciente del movimento. La sua trasformazione in
molòc non fa parte del suo progetto, ma è opera conseguente di Stalin e delle circostanze storiche.
Riprendendo il concetto marxiano di “weltanschauung”, cioè di una propria autonoma visione del
mondo, Gramsci elabora la tesi del partito come “intellettuale collettivo” il cui militante non è un
semplice soldato del grande esercito di liberazione, ma il protagonista cosciente e principale della
costruzione di un nuovo modello di società il quale agisce per e nella collettività. Egli prospetta così
la formazione dell’“uomo nuovo”.
Purtroppo, l’esperienza storica ci insegna che nella pratica, su questi nobili proponimenti
gramsciani, sono prevalsi i condizionamenti politici, nonché le miopi opportunità, e che a imperare
nella cultura del movimento rivoluzionario ha continuato a essere l’idea di una forma partito
d’ispirazione borghese, quella fondata sulla delega.
E’ successo così che anche a sinistra, l’orientamento e la decisione hanno continuato a essere
prerogativa dei “capi”, nel migliore dei casi mitigati da saltuarie e formali consultazioni della base,
alla quale sono sempre e comunque stati impartiti ordini.
Nel corso del suo sviluppo, infatti, anziché liberarsi dei condizionamenti della società capitalistica,
il proletariato si è lasciato rinchiudere in nuove prigioni: nei molòc del socialismo reale e nelle
“caste” politiche prodotte dai regimi del capitalismo avanzato.
Il partito, così come si è storicamente configurato, rappresenta un limite alla libertà di
sperimentazione e si rivela un freno all’iniziativa dei singoli, quando non addirittura un ostacolo
alla loro creatività. La linea, l’unità, le regole, l’ossequio ai dirigenti, la stessa competizione
elettorale sono fattori di mortificazione, non già di sviluppo dell’individualità della stragrande
maggioranza dei militanti.
Non è un caso che la forma partito si sia rivelata nel tempo funzionale solo ed esclusivamente alle
competizioni elettorali.
Oggi non sappiamo fare altro che esorcizzare una forma di organizzazione ormai consunta, la quale
si presenta sempre più inappropriata a soddisfare gli stessi nuovi bisogni di protagonismo che,
spesso in forme degeneri, il capitalismo stesso inculca in ogni individuo.
Eloquente è il risultato di una recente indagine sulla fiducia che i giovani riservano ai partiti: solo
l’1% di essi li apprezza. C’è di che meditare!
Se facciamo nostro il principio secondo cui il processo rivoluzionario passa attraverso la
riappropriazione del “general intelect” e forme di democrazia diretta, non delegata, appare coerente
e lineare concepire il partito non fine a se stesso, ma come strumento di sviluppo del movimento e
di crescita della maturità e della capacità critica di ogni singolo aderente.
Se la delega non può condurre a un regime di democrazia diretta e al superamento dello Stato, tanto
meno essa può favorire la formazione del soggetto che deve gestire la transizione.
Il partito rivoluzionario dell’era della globalizzazione non può dunque considerarsi guida unica e
insostituibile del movimento e pretendere di funzionare come un’avanguardia, ma deve agire come
costruttore di una nuova soggettività di massa tesa a esaltare in ogni individuo il sapere, la
creatività, l’autonomia, nonché a infondere la coscienza di specie, affinché questo processo di
rinnovamento diventi patrimonio collettivo.
La crescita politico-culturale dei soggetti del cambiamento non può essere garantita né da un leader
illuminato, né dalla politica spettacolo, deve bensì essere il prodotto di uno sforzo corale e
collettivo.
Occorre perciò sperimentare un modo nuovo di “fare politica”. Il partito deve porsi l’obiettivo
dell’autonomia di ogni suo aderente e nella sua prassi quotidiana deve prefigurare nuovi rapporti
sociali fondati su valori alternativi al capitalismo.
Solo gli istituti di democrazia diretta possono garantire la realizzazione di una società che assicuri
uguaglianza, democrazia, libertà e solidarietà, cioè una società socialista.
133
Ecco quali conclusioni ho tratto dalle riflessioni che ho compiuto!
Non risponde pertanto al vero la tesi secondo cui le teorie marx-engelsiane non servono più a
interpretare la realtà e a elaborare le strategie di cambiamento. Il pensiero dei padri del socialismo è
indubbiamente il prodotto di un’epoca storica ormai superata, ma alcune loro intuizioni e certi
suggerimenti mantengono un’attualità sorprendente. Soprattutto, a ispirare ancor oggi l’azione della
sinistra sono il loro umanesimo, la loro bramosia di giustizia sociale e di uguaglianza, il loro spirito
indomito e battagliero.
Il bisogno dell’uomo di combattere le ingiustizie è parte del suo stesso dna e finché esso sarà parte
dell’universo, nessuno potrà inibire le aspirazioni che sono alla base dell’elaborazione del
socialismo scientifico.
Riflettendo sugli avvenimenti storici, sono giunto alla conclusione che la crisi del socialismo
realizzato, nonché quella che ha investito la sinistra dei Paesi del capitalismo maturo, non
corrispondono affatto a una dèbacle del pensiero marx-engelsiano, bensì a una sua errata
interpretazione e a un suo mancato sviluppo. La stessa fretta, d'altronde ben giustificata, di parte
della sinistra di superare alquanto prima il capitalismo, ha contribuito non poco a indurre il
movimento a praticare illusorie scorciatoie.
Del resto, non essendo eterno, il sistema del capitale è destinato a essere superato, almeno se
l’umanità non intende rischiare di autodistruggersi prima dell’esaurimento della sua storica
funzione. E se si vuole evitare il rischio di una catastrofe occorre intervenire urgentemente.
36. Il rischio di una catastrofe ecologica
A fronte delle drammatiche condizioni di precarietà in cui versano non solo i popoli del Terzo
mondo, ma anche larga parte degli stessi residenti nei paesi ricchi, appare inquietante la rinuncia da
parte della sinistra a condurre una sostenuta campagna di denuncia delle ingiustizie e dei pericoli
che l’evoluzione del capitalismo sta determinando. Per lunghi decenni essa ha demonizzato il
sistema del capitale e ora, nel momento in cui esso manifesta contraddizioni esplosive e letali per la
stessa sopravvivenza dell’umanità, si dimostra priva di lucidità, incapace di fornire una prospettiva
alternativa e appare persino timorosa nel ricordare a se stessa e ai suoi avversari quanto risultino
fondate le critiche al sistema che i padri del socialismo scientifico hanno espresso un secolo e
mezzo fa.
L’onere di denunciare le brutture della società del capitale e di criticare le leggi che la regolano è
lasciato al capo della Chiesa cattolica che, seppure meritevole di rispetto e di apprezzamento,
promette – non bisogna mai dimenticarlo – la salvezza dell’uomo non nella vita terrena, ma in
quella supposta dell’al di là.
Nello stendere il mio ultimo saggio mi sono sforzato di evidenziare come le contraddizioni del
sistema che governa ormai l’intero pianeta siano tali da mettere in forse non solo il mantenimento
del suo stesso ordine, ma la continuità della civiltà umana o quanto meno di gran parte di essa. E
pure come, con la crisi del fordismo, il sistema del capitale sia entrato in una nuova fase della sua
evoluzione rendendo non più efficaci le vecchie strategie di cambiamento ed evidenziando la
necessità e l’urgenza per la sinistra di un aggiornamento di indirizzi e di proposizioni.
A riguardo di una così complessa e stringente problematica ritengo utile riprendere la riflessione già
avviata in “Incoerenze e ‘buchi neri’ della sinistra” per aggiungere alcune altre osservazioni a quelle
già svolte.
L’evoluzione del capitalismo, il cui scopo finale non è certamente quello di soddisfare i bisogni dei
singoli individui, ma quello di produrre e scambiare le merci per accrescere all’infinito il profitto di
alcuni, se fino a ieri ha migliorato le condizioni esistenziali dell’umanità, oggi minaccia la sua
stessa esistenza. Il suo sviluppo, infatti, lasciando briglia sciolta agli istinti egoistici dell’uomo, è
entrato in conflitto non solo con lo spirito solidaristico che è patrimonio naturale di ciascun
individuo e condizione di pacifica convivenza, ma anche con le leggi della natura. Oggi difatti
134
l’umanità è chiamata a fare i conti con un’alterazione dell’habitat che prelude a una possibile
catastrofe ambientale e a una sicura prospettiva di non naturale mutazione permanente dell’uomo.
Hanno un bel dire coloro che sostengono la tesi secondo cui il processo di riscaldamento del nostro
pianeta sarebbe dovuto a fattori naturali e comunque si sarebbe arrestato. L’Agenzia dell’ambiente
dell’Onu ha recentemente sollecitato tutti i governi degli Stati a varare misure urgenti ed efficaci al
fine di impedire che nel 2020 le emissioni superino la soglia di sicurezza dei 2 gradi centigradi di
riscaldamento globale. La Conferenza di Parigi del dicembre scorso, alla quale hanno partecipato
196 Paesi, ha preso atto di questo allarme, ma ha affidato la soluzione alla spontaneità dei governi.
Le attuali emissioni annuali hanno quasi raggiunto il tetto dei 600 milioni di tonnellate e una tale
quantità è destinata a determinare entro la metà del secolo un aumento della temperatura di 4 gradi,
il che significherebbe un ulteriore drammatico sconvolgimento delle condizioni ambientali.
Recentissimi rilevamenti da parte di un pool di scienziati, ha accertato che tra la fine del 2015 e
l’inizio del 2016 si è verificato un balzo di temperatura superiore ai 2 gradi e questo dato fa
presagire uno scenario per nulla rassicurante.
Già da tempo il pianeta è in stato di emergenza per il caldo record. L’ultima stima elaborata dagli
scienziati ci dice che lo strappo del buco dell’ozono sull’Antartide, cioè della riduzione della fascia
che protegge il pianeta dalle radiazioni ultraviolette, è pari a 24,1 milioni di chilometri quadrati e
che, seppure rispetto al 2000 si sia registrata una diminuzione del 9%, l’entità della lacerazione
rappresenta una grave minaccia per la vita sulla Terra.
Come ha denunciato uno studio della National Accademy of Sciences, l’alterazione dell’equilibrio
geotermico “sta accelerando incredibilmente”. I disastri prodotti dagli eventi estremi si
moltiplicano a un ritmo impressionante giorno dopo giorno e sono sempre più devastanti. In molte
regioni del pianeta la siccità ha incominciato a dare origine a una migrazione di massa di contadini
verso le città tale da suscitare apprensione per quel che potrà succedere allorquando i mari si
alzeranno di un metro e molte zone abitate e coltivate verranno invase dall’acqua.
Il cambiamento climatico crea inevitabilmente un mondo caotico con centinaia di migliaia di
“rifugiati climatici”, cioè di persone non più in condizione di nutrirsi e costrette ad abbandonare i
loro territori d’origine. Chi sarà mai in grado di governare i conflitti che una tale situazione è
destinata a determinare se già oggi nei paesi ricchi stanno montando le intolleranze verso gli
stranieri, i rifugiati e i diversi?
I cambiamenti climatici sono altresì destinati a scatenare fenomeni disastrosi tra cui l’esaurimento
delle risorse alimentari su scala mondiale. Il problema dell’acqua sta diventando esplosivo. La
superficie del pianeta è coperta per quasi tre quarti dalle acque, ma quelle dolci rappresentano solo
il 2,5%. I tre quarti di queste si trovano nei ghiacciai e nelle calotte polari e non sono alla portata
dell’uomo, mentre l’acqua potabile costituisce solamente lo 0,008% del totale. Nel 1950 ogni essere
umano sulla Terra aveva a sua disposizione 17 mila litri, ora ne ha solo 7 mila.
E’ poi da tener presente che esiste il rischio di un conseguente affollamento demografico in alcune
aree del pianeta. Uno studio dell’Ipcc, il principale organismo scientifico internazionale che si
occupa delle questioni climatiche, stima che nel 2050 le rese di grano, mais, sorgo e miglio, in
Africa e nel Sudest asiatico, subiranno riduzioni dell’8%. Simili eventi producono inevitabilmente
esodi di massa, conflitti sociali e guerre che difficilmente possono essere evitati.
L’Organizzazione mondiale della sanità ha sostenuto che le ondate di calore sono destinate a
causare, in conseguenza dell’innalzamento dei mari e della desertificazione di ampie aree
antropiche, un aumento delle malattie trasmesse da zanzare e da altri vettori, come la malaria, e
stima la morte ogni anno di 250 mila persone, escluse le vittime di uragani, inondazioni e altri
fenomeni riconducibili al riscaldamento globale.
Già oggi, in Europa, si contano, ogni anno, 660 mila nuovi casi di malattie del sistema
cardiovascolare, di quello respiratorio e per tumori causati dall’inquinamento.
Un recente rapporto di The Lancet avverte che il cambiamento climatico potrebbe rendere vani i
progressi conseguiti nel corso dell’ultimo mezzo secolo in campo sanitario.
135
Alcuni scienziati sono giunti alla conclusione che il riscaldamento del pianeta interferisce anche sul
mondo della produzione determinando come effetto indiretto una perdita di produttività sui luoghi
di lavoro.
E’ pure da considerare che dalla scoperta del buco dell’ozono e dal giorno in cui tre ricercatori del
British Antartic Survey hanno lanciato l’allarme per i possibili danni causati all’atmosfera dai
clorofluorocarburi, sono ormai trascorsi trent’anni e che i governi di tutto il mondo hanno finora
esorcizzato quell’allarme e hanno continuato a sottovalutare l’impatto dell’attività antropica.
Negli scorsi decenni sono stati convocati diversi summit e conferenze internazionali con l’obiettivo
di mettere a punto una comune strategia di contrasto, ma i risultati sono sempre stati deludenti. A
vincere è stata ogni volta la regola che più importante della salvaguardia dell’ambiente è il rispetto
delle leggi del mercato. Gli egoismi nazionali in sostanza si sono rivelati più forti dello spirito di
sopravvivenza che è insito nella natura dell’uomo.
Per dare soluzione ai problemi creati dall’inquinamento, dalla povertà e dalle disuguaglianze, i
governi di tutti gli Stati dovrebbero investire in ognuno dei prossimi 15 anni fra i 2 e i 3 mila
miliardi di dollari, vale a dire il 4% del Pil globale o il 15% dei risparmi annuali dell’intero pianeta.
Un simile provvedimento, però, si rivela impraticabile, giacché la stragrande maggioranza dei
governi non è disposta a dare corso a una riconversione dell’economia e dei modelli
comportamentali dei propri amministrati per non perdere il consenso.
Viviamo in un sistema in cui l’uomo è indotto a comportarsi come se appartenesse all’ultima
generazione della storia, dimostrandosi cioè egoista e irresponsabile nei confronti delle future
generazioni, apparendo così votato all’autodistruzione.
Dal punto di vista scientifico la situazione è ormai chiara: è soprattutto il nostro sistema produttivo
e consumistico a provocare il caos climatico che sta mettendo a rischio la sopravvivenza dell’uomo.
Quella che stiamo vivendo è una crisi comparabile a quella delle cinque estinzioni di massa che
hanno investito il pianeta nei suoi 4,3 miliardi di anni. A detta di alcuni scienziati siamo ormai
entrati nella sesta estinzione. L’ultima è avvenuta 65 milioni di anni fa e ha fatto sparire dalla faccia
della Terra i dinosauri. Quella che stiamo vivendo potrebbe spazzare via l’umanità.
Gli scienziati ci spiegano che siamo entrati nell’era dell’Antropocene, cioè nell’era geologica
caratterizzata dalle trasformazioni imposte all’ecosistema globale dagli esseri umani. Secondo
alcuni, quest’era ha avuto inizio ai primi del 1600, in seguito alle guerre durate lunghi anni,
all’invasione da parte degli europei del continente americano, allo sterminio di 50 milioni di nativi
di quel continente nel quale hanno portato il vaiolo e a partire dall’inizio del trasferimento degli
schiavi neri da un continente all’altro.
Nella seconda metà del secolo successivo ha avuto inizio la rivoluzione industriale che ha
comportato un’aggressione crescente e sistematica da parte dell’uomo all’ habitat naturale. Si
consideri che da quel momento i livelli di CO2 immessi nell’atmosfera sono aumentati del 40% e
che le modificazioni strutturali del territorio hanno cambiato il volto della superficie terrestre. Se un
satellite avesse fotografato la Terra tra la fine del ‘600 e l’inizio del ‘700, durante le ore notturne,
non ci avrebbe di certo trasmesso l’immagine di una palla illuminata come avviene invece a tempi
nostri e questo sta a dimostrare in quale misura l’attività umana ha alterato la fisionomia del nostro
pianeta.
Nella seconda metà del ‘900, a violentare la natura sono poi intervenuti i ricorrenti scoppi delle
armi nucleari, sia nell’atmosfera che nel sottosuolo, e ciò ha contribuito a rendere sempre più
precario l’equilibrio dell’ecosistema.
L’uso e l’abuso del suolo, con la conseguente impermeabilizzazione delle superfici naturali e la
cementificazione selvaggia, di cui – per inciso – noi italiani siamo insuperabili maestri,
l’inquinamento dell’aria, delle acque e del terreno, l’irrazionale produzione di rifiuti e la loro
dispersione (si consideri che abbiamo creato spazzatura persino nello spazio dove esistono rottami
missilistici che orbitano intorno alla Terra), l’iperconcentramento urbano e la folle incentivazione
dell’uso dell’automobile, hanno completato la nostra opera distruttiva dell’equilibrio ambientale.
Un grosso contributo a questo disastro l’ha sicuramente fornito la tanto decantata impresa
136
capitalistica la quale, sull’altare della competitività e della concorrenza, ha sacrificato non solo
l’integrità fisico-mentale e la dignità dell’uomo, ma pure il rispetto delle leggi della natura
scaricando nel sottosuolo e nelle acque sostanze nocive che hanno messo a rischio le falde
acquifere.
A dimostrare la gravità della situazione ci sta la perdita, dagli anni ’90 ad oggi, di ben 400 specie di
vertebrati. Gli scienziati hanno stabilito che in questo ultimo quarto di secolo il ritmo di estinzione è
stato 114 volte più veloce del tasso naturale.
L’uomo sta dimenticando che a provocare grossi danni basta poco tempo, mentre per consentire alla
natura di rimediare ne serve molto; e pure che la natura si basa su connessioni che si sostengono tra
di loro grazie a degli equilibri i quali non devono assolutamente essere alterati, anche perché sono
regolati da leggi che mutano lentamente.
Da tempo è stata avvertita la necessità di una riconversione ecologica dell’economia, ma un tale
processo si rivela incompatibile con le leggi del capitale e per impedire che la situazione precipiti,
deve scendere in campo un nuovo soggetto portatore di una nuova visione dello sviluppo e capace
di andare oltre l’economia politica.
Il capitalismo, se lasciato a se stesso, non è più in grado di assicurare un futuro di progresso per tutti
e la sua evoluzione rischia di trascinare l’umanità nel baratro.
37. Povertà e disuguaglianze quali condizione dello sviluppo capitalistico
Uno dei cavalli di battaglia dei vecchi liberali nel contrastare la lotta di classe era il convincimento
(ad esclusivo uso propagandistico) che il capitalismo avrebbe alla lunga trasformato il lavoratore in
imprenditore o in lavoratore autonomo togliendolo da una condizione di subalternità e di indigenza
e assicurando in quel modo giustizia sociale e benessere generale. Ci sono stati molti lavoratori che
ci hanno creduto.
Se si considera che nel 1820 il 94% della popolazione del pianeta era in condizioni di povertà
assoluta, e che nel 2010 ad essere stimato povero era solo il 21%, si deve ammettere che una
funzione emancipatrice il capitalismo l’ha sicuramente avuta.
Nell’81 più della metà degli abitanti dei paesi in via di sviluppo viveva con meno di 1,25 dollari al
giorno, nel 2015 solo il 21% della popolazione di questi stessi paesi risultava essere nella stessa
condizione di povertà di 35 anni prima.
Le statistiche dell’Onu ci dicono che negli ultimi vent’anni il numero totale di quanti soffrono la
fame è sceso dal 18,6% al 12,5% della popolazione mondiale.
Anche se il miglioramento della condizione di vita di molti esseri umani è frutto di un’evoluzione
economico-sociale di Paesi come la Cina e l’India, e pure delle battaglie condotte dalle forze
progressiste contro la fame nel mondo, è indubbio che il capitalismo, con la diffusione del suo
sistema di produzione e di scambio, ha avuto un ruolo fondamentale nel sollevare dallo stato di
miseria importanti quote di popolazione delle regioni arretrate.
Statistiche dell’Onu ci dicono ancora che le persone in stato di povertà estrema (reddito inferiore a
1,25 dollari al giorno), dal 2000 ad oggi sono scese da 2,1 miliardi a 836 milioni. E il fatto che le
medie del reddito pro-capite a livello mondiale abbiano fatto registrare un sensibile miglioramento,
è appunto da considerarsi anche frutto del dinamismo economico del sistema del capitale.
C’è chi esalta i risultati di questa crescita complessiva delle condizioni di vita della popolazione
mondiale sostenendo che l’era del capitale ci ha fatto conoscere la più grande creazione di ricchezza
della storia umana e che il “tanto esecrato libero mercato continua a produrre ‘cose’ destinate a
migliorare l’esistenza umana”.
Questi apologeti del capitalismo hanno però il torto di dimenticare due importanti aspetti della
realtà dei nostri tempi. Il primo è che se è pur vero che la ricchezza globale prodotta è in costante
aumento, essa registra una distribuzione irrazionale, non equa, favorendo maggiormente chi già è
possessore di beni e creando disuguaglianze sociali che suscitano conflitti e minacce alla pacifica
convivenza tra i popoli. Il secondo è che con il processo di globalizzazione il capitalismo sta ora
137
determinando nuove povertà, non solo nelle periferie del mondo, ma nel cuore stesso delle società
evolute creando disagi esistenziali, squilibri economici, esasperazioni sociali e diffidenze nei poteri
costituiti.
Recentemente, il premio Nobel per l’economia 2015, Angust Deaton, ha sorprendentemente
affermato che “le disuguaglianze sono necessarie alla crescita, sono dolorose, ma sono il motore
del progresso”. Una tesi questa che, a mio avviso, è frutto di un cinismo esasperante e serve solo la
causa del capitale, dimostrando insensibilità verso chi è costretto a vivere nell’indigenza:
un’asserzione indegna di uomini che la comunità considera saggi e sapienti. Chiudere gli occhi di
fronte al montare delle crescenti disuguaglianze e sofferenze o, come fanno molti scribacchini di
casa nostra, accusare coloro che le denunciano di “eccitare gli animi”, è un atto incivile e segno
oltre che di miopia, di bieco opportunismo e servilismo.
Qualche tempo fa ad evidenziare come la globalizzazione stia portando la disuguaglianza media
mondiale a livelli mai visti, è stato il moderato Guido Rossi, il quale ha anche sostenuto che
mercato e democrazia non vanno ormai più d’accordo tanto facilmente provocando insostenibili
differenze di reddito e di opportunità.
E a denunciare che “la disuguaglianza è cresciuta a livelli senza precedenti” sia a livello globale
che italiano è stato lo stesso governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, autorevole esponente
del mondo finanziario di certo non interessato a spargere odio di classe.
Le statistiche delle Nazioni Unite documentano come oggi una persona su otto soffra la fame e una
su sette viva in condizioni di estrema povertà. I poverissimi, quelli cioè che vivono con meno di
1,25 dollari al giorno, raggiungono ancora il miliardo di unità, di cui 890 milioni non sono in grado
neanche di nutrirsi e muoiono letteralmente di fame. Un dato questo che dovrebbe scuotere le
coscienze di ogni membro della comunità civile, soprattutto di quelli che si professano rispettosi dei
valori del cristianesimo.
Mente nell’Occidente opulento si sprecano gli alimenti e molte persone si ammalano per troppo
nutrimento, nel Terzo mondo c’è chi non ha di che nutrirsi. Eppure globalmente viene prodotto cibo
in quantità sufficiente a sfamare tra i 9 e i 10 miliardi di persone.
Il vero problema che oggi l’umanità ha di fronte a sé è rappresentato non tanto da una carenza di
risorse, ma dai criteri della distribuzione di quelle che abbiamo a disposizione. Le povertà e le
ineguaglianze sono generate non dalla scarsità, ma dagli egoismi, dallo stesso sistema sociale in cui
siamo inseriti.
Una delle soluzioni potrebbe essere costituita dall’agroecologia, cioè dall’estensione delle aree
fertili e dal controllo delle specie che vi coabitano, ma la filosofia delle multinazionali non consente
affatto che un’operazione del genere venga messa in pratica.
Succede così che in alcune delle maggiori aree a vocazione cerealicola il tasso di incremento delle
rese delle colture sta diminuendo sensibilmente.
Il dramma della fame e della povertà, in sostanza, è il risultato del modello di sviluppo capitalistico
il quale più si evolve, più produce disuguaglianze. E dà segno non solo di non curarsi più di tanto
nel trovare la soluzione dei problemi che travagliano le tradizionali aree di povertà, ma crea
disparità negli stessi paesi in cui il suo sistema economico-sociale ha raggiunto i massimi livelli di
sviluppo.
Negli Stati Uniti viene stimata la presenza di quasi 50 milioni di persone in stato di povertà, vale a
dire il 15% della popolazione. Alcuni esponenti della cultura di questo Paese ci fanno notare che i
diseredati non sono mai stati tanto numerosi.
Anche nell’Unione Europea si registra un aumento consistente delle persone a rischio povertà o di
esclusione sociale. Secondo Eurostat, il dato medio di questo esercito di indigenti sulla popolazione
complessiva comunitaria è salito dal 24,3 del 2011 al 24,5% del 2013. Le persone che stanno
cadendo nel baratro dell’inconsistenza reddituale sono passate dal 22% al 24,8%. A rischio di
povertà sono 122 milioni di europei.
Nel nostro stesso Paese le persone in condizioni economiche preoccupanti raggiungono i 17 milioni,
esattamente il 28,1% della popolazione. E’ in aumento il numero degli italiani che, pur risiedendo in
138
un’abitazione di loro proprietà e avendo assicurato il posto di lavoro, si ritrovano in condizioni di
disagio. A due famiglie su tre il reddito conseguito non basta più, esse lamentano un’insufficienza
di risorse necessarie a condurre uno standard di vita imposto dalla società dei consumi; e per
sopravvivere, come rivelano certe indagini, tagliano gli acquisti di cibo e persino di medicinali.
Il 59,6% dei giovani italiani è in condizione di difficoltà sia per l’impossibilità di rimediare un
posto di lavoro sia per una precarietà del reddito a disposizione. Secondo la Caritas, l’esercito dei
poveri è in costante aumento e rispetto all’anno scorso, per il 2015 si stima una crescita ulteriore
dello 0,6%, mentre secondo il Censis il 60% degli italiani ha paura di finire in povertà: il 64% tra i
45-64 anni e il 67% tra gli operai.
Nella stessa Lombardia, la locomotiva economica del Paese, secondo Eupolis, l’Istituto della
Regione, nell’ultimo biennio si è verificato un incremento record (+52%) di poveri relativi i quali
hanno raggiunto quota 283 mila unità. Secondo uno studio della Banca d’Italia, nella nostra regione,
cresce il Pil mentre la povertà non scende.
La stessa Banca mondiale ha reso noto che le disuguaglianze sono in progressiva crescita e mentre
si riducono tra paese e paese, crescono prepotentemente all’interno di ogni Stato: tra il 1988 e il
2008 hanno fatto registrare un incremento di oltre il 15%.
E mentre i poveri diventano sempre più poveri, i ricchi accrescono i loro redditi e i loro patrimoni.
La Boston Consulting Group ha di recente documentato che a livello mondiale, tra il 2012 e il 2015
i patrimoni da 5 a 100 milioni di euro sono cresciuti di oltre il 10%.
Secondo il “Bloomberg Billionaires Index”, nel 2012 la ricchezza dei cento “uomini d’oro”, i più
ricchi del mondo, è cresciuta di 241 miliardi di dollari, toccando il tetto dei 1.900 miliardi. Nel 2014
il 48% della ricchezza del pianeta era di proprietà dell’1% della popolazione (dati Oxfam) e le 85
persone più ricche del mondo erano più ricche dei 3,5 miliardi di persone messe insieme e che
costituiscono la metà della popolazione. Un recente rapporto dello stesso Oxfan ci informa che nel
2016, l’1% più abbiente controllerà il 54% della ricchezza planetaria.
Il nostro Paese vanta il primato europeo delle disuguaglianze: a stabilirlo è l’Eurostat.
Nel 2013 il 3% delle famiglie italiane più ricche possedeva un quarto del patrimonio nazionale. Il
20% più ricco delle famiglie ha percepito il 37,7% del reddito totale, mentre il 20% di quelle più
povere ha percepito il 7,9%. I milionari nostrani sono 274.000. I dieci più ricchi vantano un
patrimonio pari a quello che è a disposizione di 3 milioni di italiani (50 miliardi di euro).
In questi anni due milioni di italiani hanno continuato a prosperare e accumulare patrimoni illeciti,
mentre il resto della popolazione ha perso, tra il 2002 e il 2014, circa 250 miliardi di Pil e la
disoccupazione è raddoppiata. Se la stragrande maggioranza degli italiani ha patito la crisi, le Borse
hanno conseguito lauti guadagni (l’indice Msci nel 2012 ha fatto registrare a livello globale un
guadagno complessivo del 13,2%) e le vendite di Suv hanno conosciuto livelli da record.
Recentemente un illustre cattedratico veronese ha dichiarato che una delle cause dei nostri mali è di
aver vissuto molto al di sopra dei nostri mezzi. Anzitutto va precisato a questo riguardo che a
indurre gli individui al consumo superfluo è proprio il sistema capitalistico e poi che a ostentare il
lusso e vivere nello spreco non sono affatto i lavoratori, ma proprio quella classe sociale parassita
che non vive del proprio lavoro e che oltretutto è dedita all’elusione e all’evasione fiscale.
Una delle battaglie che la sinistra dovrebbe condurre a livello culturale è quella riguardante l’uso
che si fa della parola crisi. Spesso, infatti, si ricorre a tale termine senza specificare a chi è da
riferirsi lo stato di difficoltà, dimenticando che la crisi colpisce chi vive del proprio lavoro, chi non
dispone di patrimoni consistenti, mentre non aggredisce i ceti benestanti, anzi – come i dati statistici
dimostrano – favorisce addirittura un incremento dei loro averi rendendo i ricchi ancor più ricchi e i
meno abbienti ancor più poveri.
La battaglia più efficace e risolutiva da condurre consiste nell’aggredire il sistema e nel dare corso a
un nuovo ordinamento economico-sociale. E purtroppo, nonostante sia ormai evidente che la
globalizzazione fa pagare i suoi costi alle classi subalterne, la sinistra dà segno di non avvertire i
guasti materiali e le lacerazioni culturali che i processi in atto stanno determinando; e non sembra
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essere disposta a scontrarsi con gli interessi dei poteri forti dell’economia e della finanza e con il
senso comune da questi stessi generato. Non crea cioè le premesse per un’alternativa di sistema.
Se si considera che l’Italia, membro del G8, nel decennio 2003-2012 si è collocata al tredicesimo
posto nella graduatoria degli Stati che assicurano gli aiuti umanitari ai paesi poveri e in via di
sviluppo, versando meno di 4 euro per ogni suo abitante contro i 101 della Norvegia e i 14 della
Turchia, si ha l’idea di quale grado di sensibilità e di solidarietà
viva nella coscienza collettiva della nostra comunità. Oggi la spesa dell’Italia destinata agli aiuti ai
paesi poveri è ferma allo 0.16% del Pil, una cifra ben lontana dallo 0,70% fissato dai Paesi
dell’Ocse.
Eppure la sinistra non ha mai fatto una battaglia seria per superare questo deficit di umanità e di
solidarietà, questa cronica carenza di aspirazione alla giustizia sociale. E quando è stata al governo
si è supinamente adeguata agli indirizzi stabiliti dai precedenti governi di destra e di centrodestra;
nulla ha fatto allorquando il finanziamento dei progetti di sviluppo per i paesi poveri è stato
consegnato al settore privato.
Non si è ancora resa conto che le disuguaglianze stanno diventando una vera e propria bomba
sociale a orologeria. Recentemente la società italiana di psichiatria ha accertato l’esistenza di una
relazione bidirezionale tra povertà e malattie mentali e pure ha stabilito che, in determinate
condizioni, nelle donne gravide può addirittura portare alla modificazione del dna del nascituro: un
avvertimento, questo, che dovrebbe inquietare chiunque.
Non solo la sinistra moderna non si sente più in dovere di lottare contro la ricchezza, contro
l’ingordigia, contro il lusso, ma di fronte al dilagare degli egoismi etnici e delle intolleranze si rivela
incapace di reagire rischiando così di essere contagiata. Non avverte che con l’intensificarsi delle
migrazioni, nelle cittadelle del capitalismo la guerra tra poveri ha già raggiunto una fase avanzata.
Per superare le povertà e le disuguaglianze tra paesi poveri e paesi ricchi si rende necessaria
l’istituzione di un governo mondiale. Solo con la realizzazione di una tale istituzione sopranazionale
è possibile realizzare un nuovo ordinamento economico e un sistema fiscale unico a livello
planetario. Per comprenderne l’esigenza basta considerare che a causa dell’evasione fiscale delle
multinazionali i paesi poveri e in via di sviluppo vengono privati ogni anno di cento miliardi di
dollari i quali potrebbero essere impiegati per realizzare opere pubbliche e incentivare i loro sistemi
produttivi.
Un tempo, nell’agenda della sinistra, vi era l’obiettivo del governo mondiale, anzi, di un nuovo
ordine economico e politico mondiale, ora invece i suoi leader inseguono i nazionalismi. Segno che
lo spirito internazionalista è ormai finito nel dimenticatoio. E intanto il capitalismo ci immiserisce e
ci divide.
38. L’acutizzazione del conflitto capitale-lavoro
Un altro fattore inquietante che contraddistingue l’evoluzione del sistema capitalistico è costituito
dal fatto che da qualche tempo la creazione di posti di lavoro cui ci aveva abituati non è più tale da
compensare gli esuberi di manodopera che le attività produttive di tutti i paesi a sviluppo intensivo
fanno registrare.
I dati diffusi di recente sulla disoccupazione dall’Organizzazione internazionale del lavoro appaiono
eloquenti e testimoniano tale impasse: i senza lavoro, cioè le persone ufficialmente in cerca di
occupazione, a livello globale sono in continuo aumento e recentemente hanno raggiunto quota 210
milioni. Nel pieno della crisi, in neanche sei mesi, sono aumentati di oltre 8 milioni di unità e le
previsioni non segnalano significative inversioni di tendenza. Se si considerano i non occupati reali
la cifra fornita dall’Oil deve essere moltiplicata per parecchie unità.
Nell’Unione Europea se ne contano 23 milioni di cui 12 milioni senza lavoro da più di un anno. Tra
il 2007 e il 2014 nel nostro continente i lavoratori che hanno perso il posto e le persone che erano in
cerca di occupazione sono drammaticamente raddoppiati.
140
In Italia si contano 3 milioni di iscritti alle liste di collocamento ai quali vanno aggiunti altri 3
milioni di persone disposte a lavorare, ma che non cercano il posto perché sfiduciate, e ancora un
altro milione e 800 mila persone inattive, per un totale di circa 8 milioni. Secondo i dati dell’Istat, il
tasso di disoccupazione in Italia oggi raggiunge il 13% delle forze lavoro, mentre nel 2007 le
persone prive di occupazione rappresentavano il 6,1%.
A giudizio di alcuni esperti, la recente crescita dell’economia italiana è talmente lenta che per
ridurre il tasso di disoccupazione ai livelli pre-crisi ci vorranno almeno vent’anni.
A livello continentale i giovani tra i 15 e i 24 anni senza lavoro sono oltre 7 milioni e mezzo. Come
ha scritto recentemente uno storico, la condizione occupazionale dei giovani d’oggi somiglia a
quella dei nostri avi ai primi del XX secolo.
Il capitale sta di fatto stravolgendo i valori su cui è stato costruito il progresso economico e sociale.
Il lavoro, cioè l’attività fondamentale dell’uomo, da fonte di ricchezza è divenuto un peso per il
sistema e un freno per lo stesso sviluppo economico. Dare lavoro a chi non ce l’ha diventa
sconveniente per l’economia. Succede così che l’attività umana per eccellenza si contrappone di
fatto al conseguimento del profitto e alle convenienze del calcolo economico.
E pensare che certi teorici del liberismo hanno il coraggio di ripeterci ancora fino alla noia che il
fine dell’impresa capitalistica non sarebbe il profitto, bensì il “dar da vivere a qualcuno”; e che per
questa sua funzione l’intera comunità dovrebbe essere grata agli imprenditori. In realtà, la new
economy sta producendo modelli sociali – e di pensiero – che, suscitando egoismi e competizione,
esasperando gli interessi e i rapporti tra le persone.
Mentre nel mondo la popolazione cresce, le opportunità d’impiego dell’attività umana per
soddisfare i bisogni della collettività che restano inappagati, vengono meno.
Ovunque le quote di reddito nazionale destinate al lavoro sono in diminuzione, mentre a crescere
sono le remunerazioni al capitale. Negli Stati Uniti, dove dal dopoguerra a fine secolo le risorse
allocate al lavoro si erano stabilizzate attorno al 65% del reddito nazionale, con l’inizio del nuovo
secolo hanno subito una diminuzione di 15 punti percentuali. La ricchezza viene sempre più
concentrata nella speculazione finanziaria. Nonostante ciò la forbice tra occupazione e aumento
della produttività del lavoro continua ad ampliarsi e questo significa che è in aumento lo
sfruttamento dei lavoratori. Le aziende più efficienti hanno sempre meno bisogno di manodopera,
anche di quella specializzata. Le banche statunitensi – per esempio – hanno mille miliardi di dollari
di crediti inesigibili perché i neolaureandi non trovano lavoro abbastanza remunerativo per
rimborsare i debiti che hanno contratto per portare a termine gli studi.
Se potesse, il capitale per risparmiare i costi della manodopera sostituirebbe completamente il
lavoro umano con le macchine, trasformando appunto il “lavoro vivo” in “lavoro morto”.
La svolta storica cui stiamo assistendo è determinata dall’applicazione nei processi produttivi
dell’informatica e dall’introduzione dei robot, che è appunto un modo per abbassare i costi di
produzione e ridurre il ricorso alle prestazioni umane. Mentre questi congegni consentono di ridurre
la fatica psico-fisica del lavoratore e di aumentare gli indici di produttività, la soppressione di posti
di lavoro diventa pratica diffusa e la creazione di nuove occasioni occupazionali viene rinviata al
futuro. L’avvento delle nuove tecnologie informatiche, infatti, mentre favorisce la moltiplicazione
delle occasioni di intrattenimento, si rivela scarsamente fecondo nel produrre nuova occupazione.
Una dimostrazione ce la fornisce internet che se da un lato produce autostrade digitali, dall’altro
crea pochissimo lavoro diretto. Gli ultimi progressi tecnologici ci dicono che non è fantascienza
immaginare aziende agricole, industrie, reti logistiche completamente automatizzate che
riforniscono le popolazioni dei beni alimentari e dei prodotti di cui necessitano impiegando un
esiguo numero di tecnici. I bisogni illimitati di cui molti esperti cianciano, non sono infatti garanzia
di piena occupazione in un mondo dalla tecnologia avanzata.
Martin Ford, un imprenditore di software della Silicon Valley, di recente ha sostenuto che
se non gestita nel modo giusto, la robotica può scatenare la disoccupazione di massa e il collasso
economico della società. Se ad avvertire un tale pericolo è uno dei protagonisti della rivoluzione
informatica, c’è ben donde di essere preoccupati delle prospettive che la nuova economia ci riserva.
141
Del resto, diversi esempi confermano che la tendenza è proprio questa. Apple, uno dei colossi della
new economy, è in procinto di raggiungere quota 88 miliardi di euro di profitti, occupando
solamente 92.600 persone. E’ da ricordare che negli anni ’70 la General Motors raggiungeva i 7
miliardi di dollari di fatturato avendo alle dipendenze oltre 600.000 persone. E un simile scenario
caratterizza ormai tutto quanto il mondo della produzione. Il processo di modernizzazione che nel
secolo scorso ha investito l’agricoltura, oggi sta aggredendo il secondario e il terziario e lo stesso
sviluppo del quaternario non produce occupazione tale da compensare le conseguenti perdite.
Uno studio della London School of Economics ha documentato che il 56% dei lavoratori italiani
potrebbe essere sostituito entro dieci anni da robot e da altre macchine intelligenti.
Di fronte alla marea dei senza lavoro l’impresa capitalistica, quella che secondo alcuni suoi cultori
rappresenterebbe l’istituto emancipatore dell’umanità, si spoglia di qualsiasi responsabilità sociale e
affida alle pubbliche istituzioni il compito di provvedere al sostentamento degli emarginati.
Da parte loro, i governi non sanno che pesci pigliare. Non solo essi risultano privi delle risorse
necessarie per assistere l’esercito dei senza lavoro e dei senza redditi che ogni giorno si fa più
consistente, ma si rivelano ancorati agli schemi di un keynesismo impotente a correggere le
politiche dei poteri forti dell’economia.
Non la lotta di classe, ma il buonsenso suggerirebbe di affrontare una così drammatica situazione
attraverso l’attuazione di una riduzione dei tempi di lavoro e una conseguente ripartizione tra
occupati e disoccupati dei posti disponibili. Gli interessi del capitale, però, non si conciliano con
un’operazione del genere. Lo stesso Stato preferisce allungare i tempi del pensionamento e ridurre i
benefici previdenziali, piuttosto che perseguire una lotta serrata all’evasione e all’elusione fiscale
che consentirebbe di rimediare le risorse necessarie ad alimentare il welfare e istituire il reddito di
cittadinanza. La riverenza delle nostre istituzioni democratiche nei confronti del capitale è tale da
non consentire nemmeno l’introduzione del salario minimo.
Se fino a qualche tempo fa il capitalismo è riuscito a tenere insieme economia e società, ora questo
rapporto è divenuto complicato e l’evoluzione del sistema non garantisce più a larga parte del
genere umano quel minimo di benessere economico che è richiesto per sopravvivere dignitosamente
in sintonia con la modernità dei tempi.
Si illudono coloro che perseguono l’obiettivo del superamento della crisi e del ripristino delle
potenzialità sociali del sistema invocando una maggiore flessibilità di chi lavora e una loro
trasformazione in dipendenti azionisti. E nemmeno le riforme del mercato del lavoro – come
dimostra l’esperienza dei governi italiani di questi ultimi vent’anni – sono sufficienti a creare nuova
occupazione. Il tanto decantato Job act, dopo solo un anno di applicazione, sta esaurendo i suoi
effetti. Il boom dei contratti di lavoro si è sgonfiato ed è venuto in evidenza che a favorire la loro
crescita temporanea sono stati soprattutto gli incentivi alle imprese e non già i nuovi criteri che il
governo ha introdotto nel reclutamento della manodopera.
Si deve prendere atto che con l’avvento del postfordismo e della globalizzazione il capitale ha
incominciato a produrre sempre meno valore condiviso e, al contrario di ciò che sostengono i
prezzolati studiosi di economia e di sociologia, il conflitto tra capitale e lavoro non solo non è
superato, ma si è fatto più complesso e meno gestibile. La crisi degli istituti della contrattazione e
della rappresentanza denunciata dai sindacati non è altro che uno degli effetti dell’accrescimento del
dominio del capitale e della sua penetrazione in tutti i gangli della società, processo questo reso
possibile non solo dalla centralizzazione del potere economico e finanziario, ma anche da una
sterilizzazione della democrazia.
Così come appare pietosa la posizione di quegli esponenti del movimento dei lavoratori che
sollecitano gli imprenditori a “fare di più” per creare posti di lavoro e migliorare le relazioni con le
organizzazioni sindacali. Essi dimostrano di confidare in un buon senso che non appartiene alla
logica del capitale e di non aver compreso la portata dei cambiamenti che sono intervenuti in questi
ultimi decenni.
Ci sono uomini di pensiero come il francese Jean-Marc Levy-Leblond e il nostro Emanuele
Severino, che ritengono sia in atto un processo che sottrae all’economia il ruolo di guida della
142
società e prevedono che a dominarci sarà la tecnoscienza. Una simile tesi non può che indurre a
riflessione anche perché già oggi il sistema produttivo è dominato dalla tecnica e molte delle attività
che l’uomo svolgeva direttamente con fatica fisica e mentale sono eseguite dalle macchine. Le
nostre stesse istituzioni, lo Stato in primis, si stanno gradualmente trasformando da espressioni della
politica in organizzazioni tecno-burocratiche.
Se si pensa che appena sessant’anni fa una lettera, per viaggiare da una capo all’altro del pianeta,
impiegava settimane e che oggi in soli alcuni decimi di secondo un individuo può mettersi in
contatto con qualsiasi altro punto del globo, si ha l’idea di quali progressi l’uomo abbia fatto in
campo tecnico-scientifico e quali siano gli sconvolgimenti in atto nella vita quotidiana di ogni
abitante del pianeta.
Siamo alla vigilia della produzione di massa dell’auto che si guida da sola e l’avatar, l’alterego
robotico, si muove, parla, interloquisce con l’uomo, visita per conto del medico.
Fra non molto su internet condivideremo anche gli odori e i sapori e mentre la mappatura del
genoma consente di individuare gli interruttori di lunga vita, in laboratorio vengono artificialmente
creati gli spermatozoi. Negli Usa si sta programmando la colonizzazione di Marte e si progetta non
solo la possibilità di permanenza dell’uomo nello spazio per lunghi periodi, ma anche la
realizzazione di miniere sugli asteroidi per estrarre materiali preziosi. Siamo entrati nell’era della
post-scrittura e alcuni sociologi ci fanno notare che stiamo assistendo alla fine dell’uomo
rinascimentale. L’umanità è entrata in una nuova epoca.
In quest’ultimo mezzo secolo l’uomo ha fatto passi da gigante e ha rivoluzionato il modo di vivere
sull’intero pianeta, dimostrando potenzialità intellettive e materiali sorprendenti.
Nonostante questi progressi non è ancora riuscito a soddisfare le aspirazioni che hanno originato la
civiltà moderna, cioè la messa a servizio dell’intera comunità delle conoscenze scientifiche e
tecnologiche acquisite, in modo di favorire il progresso di ognuno dei suoi membri, il pieno
godimento delle libertà politiche e civili, l’opportunità di esprimere a pieno la propria personalità e
realizzare le proprie aspirazioni.
Mentre i progressi sul piano tecnico-scientifico conseguiti in questi decenni ci dimostrano che le
condizioni oggettive per realizzare uno stato di cose superiore esistono, la stragrande maggioranza
degli uomini continua a essere prigioniera della miseria e della costrizione del lavoro obbligato. A
impedire l’evoluzione sociale è il sistema economico, sono le leggi del capitale che sull’altare del
profitto sacrificano valori, ideali e sentimenti.
L’uso della scienza e della tecnica è appannaggio esclusivo dei grandi poteri economici e questo
monopolio impedisce il corso di un vero progresso umano. Eppure, le invenzioni, le innovazioni, le
sperimentazioni non sono affatto il prodotto della mente e delle braccia dei magnati della finanza e
dei possessori di capitale, ma il frutto dell’impegno quotidiano, della fatica e dell’intelligenza di
miliardi di persone, le quali sono costrette a vendere il meglio di sé, la loro stessa personalità in
cambio di una manciata di denaro spesso insufficiente a garantire a loro stessi e ai loro congiunti
una decente esistenza.
La potenza del capitale sta proprio in questa spoliazione del sapere collettivo e del suo impiego nel
rafforzamento e nell’estensione del suo potere su tutta la società.
Ecco allora l’importanza che la sinistra riscopra le riflessioni che i padri del socialismo hanno
compiuto sul “general intellect” e si rendano finalmente conto che è solo attraverso una
riappropriazione e una riunificazione del sapere sociale e delle professionalità diffuse
che diventa possibile costruire un’alternativa al sistema capitalistico.
E oggi questa operazione non solo è divenuta praticabile, ma appare necessaria e urgente a risolvere
gli stessi problemi occupazionali e impedire che l’uso di parte e irrazionale della scienza e della
tecnica faccia precipitare l’umanità nella barbarie.
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39. La crisi della rappresentanza politica
Un eminente politologo ha scritto che “nessun altro processo come l’evoluzione del rapporto tra
democrazia e capitalismo attorno ai principi di sovranità, proprietà, uguaglianza e solidarietà, ha
consolidato e ampliato il concetto di dignità della persona umana”. In effetti, è proprio al
capitalismo che si deve la nascita dello Stato moderno e della scienza politica e la conseguente
estensione, oltre a un miglioramento della condizione economica, dei diritti e delle libertà di cui
gode ormai la maggioranza degli esseri umani. Le classi subalterne hanno certamente dovuto lottare
per conseguire la loro emancipazione, sta di fatto però che il sistema del capitale ha garantito a larga
parte dell’umanità una condizione di vita e una libertà di iniziativa che altri ordinamenti sociali,
socialismo realizzato compreso, non sono stati capaci di assicurare.
Il regime di democrazia rappresentativa è una conquista della borghesia e laddove è stato reso
operante esso ha significato progresso economico e sociale. Attraverso il suffragio universale anche
l’ultimo dei cittadini è messo in condizione di determinare o almeno di orientare le scelte politiche
della comunità di cui fa parte.
Da qualche tempo, però, questo ruolo emancipatore del capitalismo si è affievolito, anzi è venuto
esaurendosi. Lo Stato nazione e l’istituto della democrazia rappresentativa sono precipitati in una
crisi profonda e irreversibile che produce anomia, mentre le libertà e i diritti acquisiti dagli individui
vengono messi in pericolo.
A determinare questa rottura con il passato sono, da un lato, il concentramento del potere
economico e finanziario nelle mani di pochi trust e il pesante condizionamento che essi esercitano
sulle pubbliche istituzioni, fino all’esproprio di alcune delle loro vitali funzioni; dall’altro, il
distacco e la disaffezione dei cittadini verso la politica e i partiti, fenomeno questo indotto dalle
inadempienze e dall’arroganza delle stesse classi dirigenti.
Nelle “società del benessere” si è venuto creando un clima di sfiducia tale da provocare fenomeni
inquietanti come l’astensionismo, il qualunquismo, il populismo, i quali rappresentano la negazione
della democrazia e il preludio a forme di moderno assolutismo.
Il tessuto democratico su cui è stata costruita la civiltà moderna si sta lacerando e il solco che divide
il cittadino dal “palazzo” si sta approfondendo giorno dopo giorno.
Fa riflettere la costatazione che, mentre dieci anni fa in Eurasia una persona su cinque viveva sotto
un potere autoritario, oggi, le persone che vivono in regimi non democratici governati dai novelli
zar sono due su cinque; qualcuno sostiene addirittura siano tre su cinque. Da almeno un quarto di
secolo le istituzioni democratiche stanno ovunque perdendo prestigio e lo scollamento tra la società
civile e la società politica ha raggiunto livelli allarmanti. Anziché migliorare, la situazione peggiora
e le prospettive si sono fatte inquietanti.
Quando all’inizio degli anni ’90, avendo avvertito che il movimento leghista, allora montante, era il
prodotto della crisi del sistema politico, ho lanciato l’allarme sul progressivo incremento
dell’astensionismo che era appunto l’alimento di quel tarlo, sono stato considerato da molti un
visionario. Eppure, da allora la disaffezione verso la politica e la diserzione delle urne hanno fatto
registrare una sorprendente escalation.
Siamo ormai giunti al punto che in occasione delle elezioni amministrative a votare è appena la
metà degli elettori e ai ballottaggi è addirittura solo una minoranza degli stessi che determina la
scelta del vincitore. Recentemente, in alcuni comuni il sindaco non ha potuto essere eletto a causa
del non raggiungimento del quorum necessario perché la consultazione potesse essere ritenuta
valida.
Regge ancora la partecipazione alle elezioni politiche, ma anche in queste occasioni la diserzione ha
raggiunto proporzioni consistenti fino a superare il 40% degli iscritti alle liste elettorali, il che è la
dimostrazione che la pratica astensionista è in continua espansione.
Quel processo di americanizzazione della politica auspicato per lungo tempo da alcuni nostri esegeti
dell’ordine democratico si è dunque compiuto. Anche da noi i gestori del potere, i quali per
principio dovrebbero essere fedele espressione della maggioranza della popolazione, vengono
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investiti del loro mandato da una minoranza spesso infima, proprio grazie alla diserzione delle urne
di larga parte dell’elettorato.
E’ questo un processo che investe non solo il nostro Paese, ma tutto il mondo occidentale come
insegnano i casi recenti del Giappone, del Regno Unito e di altri paesi ancora.
Qualche tempo fa, un sondaggio condotto da Mtv Italia ha rilevato che tre su quattro dei nostri
giovani tra i 18 e i 34 anni vedono nell’astensionismo “un modo per protestare e per esprimere il
loro dissenso”. Ma anche molti degli stessi elettori adulti che continuano a credere nel suffragio
universale non destinano più il loro voto ai partiti, ma scelgono direttamente i candidati mostrando
spesso una volatilità politica e una superficialità nella scelta che denota deresponsabilizzazione e
scarso senso civico. E a ogni tornata elettorale questi fenomeni si accentuano, mentre la classe
politica non dà segno d‘imbarazzo e di ripensamento del suo operato e del suo ruolo.
Recentemente, il nostro presidente del Consiglio dei ministri, il boy scout guascone che costituisce
uno dei paradossi del panorama politico italiano non essendo prodotto della pratica democratica, ma
degli intrighi di palazzo, ha manifestato il suo cinismo e la sua arroganza sostenendo che “la non
grande affluenza è un fatto che deve preoccupare tutti, ma è un fatto secondario”. Cosa intenda per
primario questo moderno imbonitore è deducibile solo dalla sua ostentazione dell’arte del comando.
Un politico serio dovrebbe aver chiaro che l’astensionismo, aprendo la via ai populismi e
all’autoritarismo, mette a rischio la democrazia la quale è per sua natura inclusiva. Non riconoscere
questa verità significa essere miopi e impudenti. Oltretutto non deve sfuggire il particolare che
elettoralmente gran parte di quella che fu la sinistra, oggi si colloca nelle file dell’esercito degli
sfiduciati e dei disimpegnati e ciò dovrebbe costituire motivo di preoccupazione per qualsiasi
appartenente allo schieramento progressista.
Se si considera che nel recente passato (dall’inizio di gennaio alla metà ottobre del 2011) dal
Parlamento italiano sono state approvate solo 14 leggi di iniziativa di deputati e di senatori, si ha
un’idea di quali malattie soffrano gli istituti di democrazia rappresentativa. Sono ormai decenni che
è avvertita la necessità di una semplificazione degli organi istituzionali (e dei conseguenti sprechi),
ma la nostra classe politica si dimostra incapace, nonché indisponibile, a superare le inefficienze e
ridurre i propri organici.
Lo Stato è investito da un processo di burocratizzazione tale da asfissiare l’intera società e inficiare
il suo sviluppo. Se da un lato opprime fiscalmente vasti strati di cittadini (eludendo lo stesso
principio borghese dalla progressività dell’imposizione in ragione dello stato di ricchezza),
dall’altro si dimostra incapace persino di riscuotere le imposte e le tasse da chi le ha evase e gli è
stato intimato il versamento.
Le stesse Regioni che avrebbero dovuto rappresentare un antidoto alla centralizzazione e alla
sclerotizzazione dei pletorici organismi statali, si sono rivelate carrozzoni di burocrati e di clientele.
Che i cittadini manifestino sfiducia anche nei confronti degli enti locali e che in talune aree del
Paese vengano invocati autonomia e addirittura secessione, non deve pertanto meravigliare.
La crisi della rappresentanza è causata anche dalle irresponsabilità e dalle negligenze delle classi
dirigenti; non solo di quelle che gestiscono il potere, ma anche di quelle che dovrebbero opporsi ad
esso e costituire un’alternativa di sistema. Ognuno degli eletti ha accettato di agire per conto del
popolo, ma anziché far diventare la politica un esercizio di massa suscitando protagonismo sociale e
rendendo trasparente il “palazzo”, si è beato della delega e ha sequestrato ai suoi mandanti il diritto
di controllo e di revoca.
Esiste un paradosso nella società moderna su cui si riflette non a sufficienza: mentre da un lato
cresce la diffidenza nei confronti della classe politica e dilaga l’astensionismo, nel tessuto sociale si
moltiplicano le esperienze di volontariato e di solidarietà le quali rappresentano una rinnovata
esigenza di protagonismo individuale e collettivo. La classe politica dovrebbe vedere in queste
pratiche il lievito della democrazia, ma una tale interpretazione entra in conflitto con gli interessi di
chi è deciso a non perdere le posizioni di potere conseguite. L’iniziativa popolare, infatti, è vissuta
da molti politici con fastidio, come fattore destabilizzante il proprio status e i propri privilegi.
Al fine di dare corso al processo di emancipazione dovrebbero essere sperimentate nuove forme di
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democrazia diretta favorendo la crescita di aggregazioni e movimenti che sono portatori di istanze e
di progetti solidali e innovativi, quali espressioni di un protagonismo sociale teso al conseguimento
del benessere collettivo. Ma a non essere interessati a un tale processo di rinnovamento non sono
solo i politici conservatori, bensì gli stessi esponenti del movimento progressista, visto che si
dimostrano paghi di sedere sugli scanni delle istituzioni rappresentative e non si curano di favorire
una socializzazione della politica che vada oltre l’esercizio elettorale. La loro indifferenza verso il
protagonismo diffuso è tale da far sospettare che siano anche loro influenzati da chi spudoratamente
sostiene che “il popolo, inteso come massa indistinta di cittadini, non può amministrare la cosa
pubblica, impartire la giustizia, negoziare i trattati, affrontare i problemi creati da una calamità
naturale, fare programmi di lungo respiro per lo sviluppo del Paese, combattere il crimine,
l’evasione fiscale, la frode, la corruzione.... L’esperienza dimostra che nei principali Stati federali,
dalla Svizzera agli Usa, il potere centrale si è progressivamente rafforzato, con il passare del
tempo, assumendo funzioni che erano prima strettamente locali… Una delle maggiori
preoccupazioni dei liberali europei, fra l’Ottocento e il Novecento, fu la ‘dittatura della
maggioranza’. Sapevano che il popolo quando crede di conquistare il potere, lo consegna prima o
dopo nelle mani di un dittatore, spesso demagogo e populista” (Sergio Romano, “Corriere della
sera”). E pare non si rendano conto che i demagoghi e i populisti hanno già plagiato larga parte
degli eletti del popolo.
Il dramma è che a questo processo di disgregazione degli istituti di democrazia rappresentativa si
accompagna un deterioramento della convivenza civile e della coscienza sociale che suscita
inquietudine e paura.
I processi indotti dall’evoluzione del capitalismo non solo hanno modificato la struttura della
società e le condizioni ambientali della nostra esistenza, e quindi le nostre abitudini di vita, ma
hanno influito anche sul nostro modo di pensare e sui nostri sentimenti. A favorire la disgregazione
sociale hanno contribuito e contribuiscono le nuove tecnologie, i modelli di business, le
modificazioni comportamentali indotte da internet.
Il filosofo francese Paul Virilio sostiene che ogni rivoluzione politica è certamente un dramma, ma
che la rivoluzione dell’informatica rappresenta una “tragedia della conoscenza”, generando “una
confusione babelica dei saperi individuali e collettivi”.
In effetti, i cambiamenti in atto inducono a una dimenticanza della realtà sostituendola con la
dimensione virtuale. Con l’evoluzione del sistema i nostri stili di vita sono radicalmente cambiati e
con essi è venuta modificandosi la nostra scala di valori. Studiosi americani hanno accertato che le
tecnologie digitali stanno provocando un’atrofizzazione delle capacità umane come l’empatia e
l’introspezione.
Se fino a ieri il capitalismo ha esaltato il nostro individualismo, oggi – proprio in forza delle
innovazioni che ha messo in campo e della velocità delle trasformazioni indotte – ci sta alienando.
L’esistenza umana è sempre più condizionata dalle leggi dell’economia. La sete di possesso
soggioga ormai l’animo del genere umano. Sul dio dei cieli predominano i moderni demoni della
Terra: il denaro, il potere, l’ambizione. Sono mali questi che esistono dai tempi in cui l’uomo ha
acquisito coscienza delle sue facoltà, ma il dominio del capitale li ha nobilitati e magnificati. In
nome loro vengono rinnegate le fedi, vengono traditi gli affetti e i sentimenti, vengono disfatti i
rapporti sociali e interpersonali. A causa della sete di possesso viene meno nelle persone il senso
della comunità: come dimostra una recente indagine dell’Istat, solo 1 italiano su 5 ha fiducia verso
gli altri, mentre i rimanenti 4 ce l’hanno solo per se stessi. Per denaro, per potere e per sesso si odia
e si uccide.
La dissoluzione dell’etica lamentata da alcuni è da imputare prima ancora che alla cattiva coscienza
dei singoli, al processo di mercificazione degli stessi sentimenti imposto dal capitale e al
conseguente primato nella scala valoriale della competizione e del possesso.
L’Office for National Statistics del Regno Unito ha recentemente documentato come in Occidente
la soddisfazione per il proprio stato esistenziale, la stessa autostima delle persone e la gioia di
vivere, dipendono in larga parte dall’entità del conto in banca, mentre l’ansia di chi sta bene tende a
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calare. Insomma, in regime capitalistico la felicità può essere comprata con i soldi; e a coloro che
non ne hanno il destino riserva solo patimenti.
A chi in modo subdolo attribuisce al movimento del ’68-’69 la responsabilità di aver generato quel
soggettivismo etico che oggi sta destabilizzando i rapporti sociali, la convivenza familiare e le
antiche certezze, è bene ricordare che a dare scacco matto ai valori della tradizione sono proprio i
cambiamenti strutturali e comportamentali che il sistema del capitale ha indotto.
E’ il caso di chiedersi quali prospettive avranno le generazioni future se il sistema capitalistico
persisterà nel conseguire le finalità che lo hanno si qui animato. Il rischio di un’alterazione delle
stesse facoltà intellettuali e morali dell’uomo appare reale.
Già oggi assistiamo a eventi e a comportamenti umani scellerati che per l’intensità del loro
succedersi inducono a supporre che il processo di alienazione sta galoppando. Il dilagare delle
intolleranze e dell’odio razziale nei confronti degli stranieri e dei diversi, spesso indotto dallo stato
di indigenza e dalla privazione dei diritti fondamentali; il moltiplicarsi degli uxoricidi e delle
soppressioni violente della propria prole; i ricorrenti suicidi di giovani e adolescenti per sfiducia
nella vita o per l’assunzione di droghe; i delitti a sfondo sessuale; l’abbandono delle persone
anziane: sono tutte manifestazioni di una società profondamente malata che dovrebbero inquietare
coloro che si sono assunti il compito di governarla.
Se in Giappone sempre più persone deluse del proprio lavoro e della propria esistenza ricorrono alla
pratica del karoshi, in Occidente aumentano i casi di suicidio.
Negli Stati Uniti, tra i maschi over 45, è scoppiata una nuova epidemia di disperazione la quale ha
già fatto 500 mila vittime. Il tasso di mortalità degli adulti di 45-54 anni è infatti in costante crescita
dal ’98. Le cause principali sono l’intossicazione involontaria di farmaci, principalmente
antidolorifici, e poi di droghe e di alcol. Si tratta delle conseguenze di un disagio sociale dovuto
anche all’assenza di sicurezza per l’avvenire.
Da anni ormai, anche in Francia i suicidi aziendali hanno registrato un progressivo incremento.
Molti di questi casi hanno riguardato dipendenti della France Telecom, della Renault, della Peugeot,
del Ministero dell’Educazione nazionale e di alcune banche. Gli accertamenti eseguiti dalle forze
dell’ordine hanno stabilito che buona parte di questi disperati che si sono tolti la vita non erano né
depressi né notoriamente infelici in famiglia o in amore, ma solo tormentati dalle loro incerte
prospettive professionali e sociali. Non a caso essi hanno scelto di suicidarsi sul luogo di lavoro.
Queste vittime sono esempi inquietanti del processo di alienazione che il capitale, nel suo grado
massimo di evoluzione, sta producendo.
Siamo dunque di fronte a una crisi non solo degli istituti della democrazia, ma anche a una crisi di
identità che mette a dura prova ogni individuo. E a produrla è il sistema del capitale.
40. La minaccia di un modernismo autoritario
Il capitalismo ha messo in moto sistemi e pratiche sociali che sempre più si rivelano ingovernabili,
poiché si traducono in condizionamenti forzati, in gabbie dalle quali diventa difficile uscire. A
testimoniare che questa non è un’illazione di chi avversa il sistema bensì una realtà dei fatti, è la
crisi del capitalismo che a livello globale stiamo vivendo da ormai otto anni. La vita per molti degli
esseri umani è resa più difficoltosa che nel passato e le loro prospettive incerte proprio perché
l’economia, lo Stato, le leggi, tutte creature dell’uomo, si rivelano sempre più degli ostacoli alla
realizzazione del benessere collettivo e delle libertà di ciascuno.
Marx ha sostenuto che in regime capitalistico le crisi economiche sarebbero state sempre più
frequenti e sempre più destabilizzanti dei rapporti sociali. A distanza di un secolo e mezzo questa
sua previsione si è rivelata esatta.
La crisi finanziaria che ha avuto inizio nel 2007 è senza precedenti. Non è certo nuova dal momento
che, come ci spiega uno studio effettuato da Pew Research su dati del Fondo monetario
internazionale, tra il 1970 e i giorni nostri si sono verificate ben 147 crisi bancarie e numerose sono
147
state le fasi di difficoltà congiunturali. Di sicuro però essa segna uno spartiacque tra un ciclo e
l’altro dello sviluppo del sistema aprendo per l’umanità un corso inedito.
L’esperienza che stiamo vivendo rende ancor più evidente un dato che dagli osservatori, purtroppo
anche di quelli di sinistra, è stato spesso trascurato o comunque mai denunciato con la dovuta forza:
le crisi del capitalismo, mentre impoveriscono coloro che si sostengono con il proprio lavoro,
arricchiscono sempre più chi vive parassitariamente di rendita e di espedienti sfruttando il lavoro e
l’intelligenza altrui. Questo processo, di certo non nuovo, oggi si è acuito e accelerato dal momento
che il capitale ha incominciato a penalizzare il mondo del lavoro e a premiare in maniera impudente
oltre misura chi possiede denaro e azioni, i giocatori in Borsa in primis i quali moltiplicano i propri
patrimoni a scapito di altri.
Non si spiegherebbe altrimenti il motivo per cui negli ultimi cinque anni, mentre tutta l’industria ha
arrancato, i marchi del lusso hanno registrato un incremento del 2,3% e i grandi colossi della
finanza e dell’industria hanno conseguito enormi profitti. La Brembo, per fare un esempio
eloquente e a noi vicino, ha chiuso il suo quinto anno consecutivo (2014) in crescita con un fatturato
record che ha raggiunto 1,8 miliardi di euro (nel 2007 il fatturato ammontava a 911 milioni di euro).
E a vantare bilanci positivi e profitti record è stata la stragrande maggioranza delle multinazionali e
delle società finanziarie, mentre le piccole e medie imprese hanno lamentano e continuano a
lamentare difficoltà come mai prima d’ora.
Dal canto loro, gli enti pubblici e la quasi totalità delle famiglie del ceto medio e delle classi
lavoratrici hanno accusato una consistente flessione delle risorse finanziarie a loro disposizione.
Nonostante la crisi, l’economia mondiale è cresciuta e i benefici della sua espansione sono stati
sequestrati dai poteri forti. Si consideri che nel corso del biennio 2013-2014, in un contesto di
redditi stagnanti, il valore delle attività finanziarie è cresciuto di quasi 400 miliardi di euro.
La finanziarizzazione dell’economia reale penalizza in primo luogo il mondo del lavoro e quindi gli
Stati, sia attraverso il sequestro di larga parte del reddito prodotto su scala globale sia anche
obbligando imprenditori e governanti a comportarsi secondo le regole della moneta piuttosto che in
funzione delle esigenze produttive e sociali. Se il Pil, istituito all’indomani della grande depressione
degli anni trenta del Novecento, è divenuto un feticcio, perché non più in grado di assolvere alla
funzione di strumento di monitoraggio e di regolazione della produzione e della distribuzione della
ricchezza, è anche dovuto al fatto che l’economia è stata sconvolta da una vera e propria rivoluzione
la quale non è affatto portatrice di benessere per tutti.
Alla fine della guerra fredda, al di qua della vecchia cortina di ferro, si era diffusa una dottrina
fondata sulla convinzione che il futuro del mondo da quel momento sarebbe dipeso dalla
combinazione di due fattori: il diritto dei popoli di scegliere liberamente i loro governi e la libertà
dei mercati. Un quarto di secolo dopo costatiamo invece che le urne non bastano a garantire la
democrazia e che l’economia di mercato è finita in un tunnel.
L’illusione che il mondo si fosse semplificato e che il benessere potesse solo crescere grazie a un
pilota automatico, il mercato, è finita per tutti. Le classi medie che fino a ieri sono state gratificate
dall’evoluzione del sistema, oggi rischiano di precipitare anch’esse in uno stato di precarietà.
La verità è che gli obiettivi di fondo del capitale non coincidono con le finalità di una società
razionale e solidale. La finanza, che gestisce enormi risorse, si dimostra cieca di fronte ai bisogni
sociali. E a riconoscere che questa è la realtà è lo stesso governatore della Banca d’Italia, Ignazio
Visco, il quale recentemente ha dichiarato che “l’errore principale che abbiamo commesso è stato
pensare che il mercato si potesse autoregolare… L’innovazione ci ha portato solo comportamenti
da veduta corta… Gli economisti non sono stati in grado di prevedere una crisi di simili
proporzioni”. Del resto, a sostenere che i mercati ci danneggiano, essendo “per loro natura pieni di
trucchi e trappole”, perciò “vanno a caccia di potenziali vittime di raggiri”, sono anche due premi
Nobel per l’economia, gli statunitensi Robert Shiller e George Akerlof.
Il dato preoccupante è che nessuno dei difensori del sistema capitalistico è in grado di indicare un
percorso che porti fuori il sistema dal tunnel in cui si è infilato.
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I governi sono alle prese con bilanci pubblici difficili da gestire e dimostrano di non avere idee per
superare lo stato di difficoltà in cui si trovano. Mentre il risparmio cresce gli investimenti pubblici e
privati calano, poiché il denaro viene sequestrato dai poteri finanziari. L’economia è tenuta in piedi
da continue emissioni di moneta le quali però non si traducono in lavoro, anche perché le scelte
produttive vengono lasciate in balia delle “libere” forze del mercato e quindi affidate nelle mani dei
poteri forti.
E mentre lo sviluppo socio-economico stenta a riprendere la corsa, il tanto decantato diritto di
proprietà si restringe paurosamente. A parole si esalta la concorrenza, mentre nei fatti ad avere il
sopravvento sono le fusioni che portano verso la concentrazione di capitale e i monopoli.
Di fronte agli interrogativi suscitati dal perdurare della crisi e dal rallentamento della produttività, la
stessa Federal Reserve appare incerta nel fornire una risposta.
I commentatori del World economic forum che si è svolto a Davos nel gennaio del 2015, hanno
messo in evidenza come tra i 2.500 partecipanti si è avvertita “una sorta di stordimento
nell’affrontare le problematiche all’ordine del giorno”. Dal dibattito, infatti, sono emerse tante
informazioni, tanti spunti di riflessione, ma nemmeno una sola idea nuova, fresca, non un solo
punto di vista originale su come uscire dall’attuale stato di crisi. I potenti si sono dimostrati incapaci
di decifrare i fenomeni complessi e si sono limitati a recitare la solita litania “non c’è crescita senza
riforme strutturali, senza investimenti nell’educazione e nell’innovazione”.
E mentre Verizon, Facebook, Uber, Airbnb e altri cartelli predicano l’“economia della
condivisione”, che a dir loro ci permetterebbe di avere quel che vogliamo su richiesta e senza oneri
di proprietà, e alcuni intellettuali della Silicon Valley festeggiano addirittura un “socialismo
digitale” considerandolo una terza via, la disoccupazione, le ineguaglianze e le povertà aumentano.
L’impressione che si ricava da un’osservazione obiettiva e non ideologica della realtà è che il
processo di evoluzione del capitalismo stia spogliando la società di qualsiasi regola morale, semmai
nel passato ne abbia avuta una. Di certo il suo fare spregiudicato non ha più limiti. Si pensi solo agli
affari che le società petrolifere occidentali stanno facendo con i produttori di gas e di petrolio della
Siberia o alle politiche garantiste dei governi verso gli oligarchi russi che hanno investito i loro
patrimoni nei paesi occidentali, nonostante la decretazione da parte degli Stati del regime di
embargo nei confronti della Russia a seguito delle vicende ucraine. A regnare sono il tornaconto e
l’ipocrisia.
Gli stessi principi che hanno ispirato la rivoluzione francese sono sistematicamente disattesi: la
libertà da noi è ormai una prerogativa riservata solo a chi detiene il capitale; l’uguaglianza è un
valore che è addirittura temuto e demonizzato da coloro che stanno economicamente bene; la
fraternità è un sentimento che appartiene solo ai nostalgici della rivoluzione e ai pochi credenti
coerenti e puri di spirito. Eppure, la società borghese si è edificata sulle fondamenta di questa triade
di ideali. Ci viene ricordato ogni giorno che il socialismo reale è fallito e non si ha il coraggio di
prendere atto che la borghesia ha tradito le premesse della sua rivoluzione.
Se perfino il Censis in un suo recente rapporto conclude che “il capitalismo ha vinto, ma mai come
oggi è apparso incerto, disorientato, carico di problemi interni”, c’è ben motivo di essere allarmati.
Andrebbe compiuta una riflessione autocritica, andrebbero messi in discussione i fondamenti del
pensiero liberista e quanto esso ha storicamente prodotto e sta producendo, ma questa esigenza
viene rimossa dalle coscienze nonostante che a rischio sia il futuro della civiltà.
Che l’avvenire, infatti, sia pieno di incognite lo riconosce chiunque non abbia rinunciato al buon
senso. Personalmente non ho mai dato credito all’evangelica visione apocalittica di San Giovanni e
nemmeno credo che la fine della specie umana sulla Terra sia prossima. La preoccupazione che mi
assale è che il capitalismo sta determinando processi che compromettono la convivenza degli
uomini e la stessa sopravvivenza di larga parte di essi e sta modificando la morale. Il conflitto tra la
logica del sistema e le leggi della natura, tra lo spirito edonistico ed egoistico che produce e la
natura solidale e sociale dell’uomo, non promettono altro che tempi incerti e burrascosi. Basti
pensare al pericolo costituito dalla presenza diffusa delle armi di sterminio. Papa Francesco ha fatto
notare che è in corso una terza guerra mondiale “a pezzettini”; in effetti, la pace risulta essere
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minacciata in più punti del globo. Il Conflict Barometer ha calcolato che nel 2013 si sono registrate
20 guerre (due in più rispetto al 2012), oltre a 414 conflitti armati (9 in più rispetto all’anno
precedente); è stato l’anno che ha fatto registrare più guerre dal secondo conflitto mondiale.
Secondo lo Stockholm Internazional Peace Research Institute, nel 2012 sono stati investiti in spese
militari 1.750 miliardi di dollari.
Se si considera che il terrorismo sta dilagando in ogni dove con modalità difficilmente controllabili
e contrastabili, assumendo la forma di guerra civile; che gli attentati terroristici potrebbero colpire
le reti di energia, di comunicazione, di trasporti, di computer, sabotare la catena alimentare,
impiegare armi batteriologice che provocherebbero pandemie dovute a virus sconosciuti; che il
duello fra gli Stati (si pensi appunto allo Stato islamico) viene sostituito da una guerra senza limiti e
senza regole che fa saltare i confini fra militare e civile, è facile comprendere che ogni focolaio di
questo genere può dar luogo a una deflagrazione cosmica.
Il rischio di una barbarie non è dunque remoto.
Un altro pericolo che si affaccia all’orizzonte degli stessi paesi evoluti non è, come qualcuno pensa,
un ritorno ai tempi andati, ma l’avvento di un modernismo autoritario che spoglia l’uomo dei suoi
valori e dei suoi sentimenti per irreggimentarlo in un sistema in cui tutto viene omologato e
sottoposto a controllo da parte di un “grande fratello”.
Cinque anni fa lo psichiatra Vittorino Andreoli ha fatto osservare che il “digital world” modifica
l’uso dei sensi (vista, udito, tatto) e questo può cambiare la formazione delle idee e il procedere
della mente. “La rivoluzione da esso indotta – egli ha scritto – porta alla scomparsa di alcune
capacità mnemoniche che non vengono più stimolate. Anche il cervello della digital generation sta
significativamente modificandosi. Le aree dell’homunculus relative al tatto e all’udito sono diverse
da quelle delle generazioni precedenti. Sarà un pensiero sempre meno razionale. Della dialettica –
ad esempio – non rimarrà nemmeno l’ombra, del cartesiano “dubbio” (cogito, ergo sum)
sopravviverà solo una incomprensibile espressione: non ci sarà più niente da dimostrare e
soprattutto nulla che sia oltre l’individuo, poiché esperienza e credo appartengono alla dimensione
dell’ego.
Il mondo virtuale ha una fondamentale caratteristica che lo rende attraente: se qualcosa non piace,
si clicca e lo si fa sparire. E se questo venisse messo in pratica nel mondo reale?”. Le nuove
tecnologie stanno plasmando un uomo nuovo, di certo meno autonomo, più condizionato dal
contesto sociale in cui è inserito.
C’è addirittura chi insinua che la stessa intelligenza artificiale potrebbe prendere il controllo del
mondo e decidere di sterminare gli umani. L’autore di fantascienza Herbert Georg Wells, già
sessant’anni fa, prima di morire, ha sostenuto che “la specie umana è a fine corsa, non è più in
grado di adattarsi abbastanza velocemente a delle condizioni che mutano più rapidamente che
mai”.
Meno fantascientifica e più realistica è la prospettiva che in un futuro non lontano chi è ricco
continuerà a usufruire del personale in carne ed ossa, mentre i ceti che vivono in povertà saranno
serviti da robot inespressivi come quelli che già ora in Giappone accudiscono anziani e malati.
Finché la convivenza umana sarà modulata sui principi della competizione-sfruttamento l’avvenire
dell’umanità non sarà sicuro, ma sarà denso di incognite e di problemi.
Di fronte a tale prospettiva può forse non mostrare preoccupazione chi vive di fede e di speranza in
un aldilà divino, non certo chi ha una cultura e una visione laica e scientifica delle cose di questo
mondo. A nessun essere umano che ha coscienza della propria natura può sfuggire il bisogno e
l’urgenza della costruzione di un’alternativa.
41. La crisi della politica
Di fronte alle persistenti difficoltà e alle ombre che si proiettano sul futuro dell’umanità, da molti è
avvertito il bisogno di una rinascita politica e intellettuale. La crisi, infatti, sollecita una riflessione
sui grandi temi dell’esistenza umana. La politica, però, dà segno di non essere in grado di affrontare
150
un tale compito. Essa si rivela disorientata e impotente poiché, da un lato è plagiata dai poteri forti
ed è quindi succube dell’economia, dall’altro patisce la diffidenza e il disprezzo di larga parte dei
governati. Il processo di globalizzazione ha ulteriormente corroso il suo essere scienza del
governare.
La complessità dei problemi che affliggono la società contemporanea richiede risposte chiare,
lungimiranti, non demagogiche o superficiali, reclama la messa in campo di strategie e di strumenti
d’intervento coordinati a livello internazionale e presuppone la costituzione di un governo
mondiale. Rispetto a tutto ciò la politica si mostra meschina e inetta. Rinchiusa nel “palazzo”, si
sottrae al controllo democratico e suscita negli individui un disgusto tale da sospingerli nelle braccia
del qualunquismo, del localismo egoistico e miope, al punto di scoraggiarli fino alla disperazione.
Non siamo certo di fronte a una novità. Già alla fine degli anni ’60 dell’Ottocento, cioè nel periodo
immediatamente successivo all’unità d’Italia, il discredito della politica da noi era alle stelle. Da un
lato i governanti, per coprire le loro debolezze e i loro errori, avevano inventato quella che ai nostri
tempi viene chiamata la teoria degli opposti estremismi: proprio a quel tempo è stata coniata la
teoria del “complotto dei rossi e dei neri”, rappresentati dalle sette repubblicane e dai clericali,
schieramenti ambedue in conflitto con il neonato regno. Dall’altro, il malcostume politico e il
conformismo erano diffusi a tal punto da far dire ad Agostino Bertani, deputato di sinistra, che tutti
erano “adoratori del medesimo Dio, tutti sacerdoti del medesimo culto, colle stesse giaculatorie
sulle labbra; tengono alti i lembi di quella tenda che nasconde agli sguardi profani le arcane
magagne di tutti i Ministeri”. L’aula del Parlamento veniva paragonata al Mar Morto la cui
atmosfera era “ammorbante” e nel cui “pantano sprofondano anche gli amici”, mentre la nuova
classe dirigente era definita “camorra piemontese… un’oligarchia assai più illiberale dei governi
assoluti che ha rovesciati”.
E non si possono poi dimenticare le degenerazioni della seconda metà dell’Ottocento quando la
politica si è trasformata in mercato; e nemmeno la decadenza dei primi del Novecento quando il
fare ambiguo dei suoi attori ha generato la dittatura fascista.
Come nei periodi bui, anche oggi la grande maggioranza dei politici dà segno di non darsi da fare
più di tanto per evitare una deriva populista e autoritaria. Essi sono impegnati a difendere le proprie
prerogative e i propri privilegi confondendo con le ciance la società civile ed erigendo un muro
impenetrabile nei confronti non solo di chi li avversa, ma anche degli stessi elettori che li hanno
delegati a difendere i loro diritti e l’interesse generale.
Luigi Pintor in uno dei suoi libri ha scritto che il potere è pessimo e induce chiunque lo eserciti a
dare il peggio di sé. Osservando i comportamenti tutt’altro che irreprensibili e trasparenti di taluni
degli eletti, anche di quelli appartenenti allo schieramento di sinistra, e considerando lo spirito di
sopportazione e il silenzio complice manifestato dagli stessi di fronte al marciume e agli scandali
ricorrenti, non si può certo concludere che egli avesse torto. E pure la tragica sentenza che, a metà
degli anni ’90, ebbe a pronunciare Alain Touraine secondo cui “la politica non deve più essere
considerata come la realizzazione della libertà umana”, rappresenta una profezia che avremmo
preferito fosse da interpretarsi come una forzatura polemica.
A dimostrazione dello stato comatoso in cui si ritrova la politica ci sta l’evidente assenza di forza, di
orgoglio e di dignità dei suoi protagonisti nel respingere le critiche severe che vengono loro rivolte
ormai da larghi settori della società civile. Essi sembrano non interessati e neppure in condizione di
costruire un argine al montare dell’antipolitica nonostante che la sfiducia nei loro confronti sia al
minimo storico. Secondo un recente sondaggio Demos, solo il 3% degli italiani mantiene un
atteggiamento positivo verso i partiti. Non va dimenticato che durante la vicenda “Mani pulite”,
vent’anni e più fa, gli sfiduciati oscillavano tra il 20 e il 25%. Il 65% degli elettori ha recentemente
dichiarato di avere addirittura disgusto per il sistema dei partiti. A ulteriore conferma ci stanno i dati
del due per mille nella dichiarazione dei redditi: nel 2014 su 41 milioni di contribuenti, a destinare
la quota ai partiti sono stati solo 16.518 contribuenti, cioè lo 0,04% del totale. Nelle dichiarazioni
2015 la quota di chi ha destinato il due per mille ai partiti è sensibilmente aumentata, e seppure
abbia suscitato l’entusiasmo dei dirigenti del Pd per il successo ottenuto rispetto alle altre
151
formazioni (in favore del partito di Renzi hanno dato indicazione 550 mila contribuenti a fronte di
350 mila iscritti nel ’14), il numero dei cittadini sensibili al finanziamento dei partiti è rimasto
molto al di sotto delle aspettative.
Secondo Eurobarometro, il fenomeno della disaffezione investe l’insieme dei paesi del nostro
continente: solo un cittadino europeo su sei manifesta fiducia nelle organizzazioni politiche. Non
diversa è la situazione oltreoceano: secondo un sondaggio di tre anni fa, la maggioranza degli
americani (dal 79 all’86%) si è dichiarata stanca della classe politica.
L’Italia, però, sembra detenere il primato, nonostante che da noi, in questo ultimo quarto di secolo,
siano stati promossi numerosi referendum per semplificare l’esercizio del voto e rendere trasparente
l’attività politica; nonostante siano state varate diverse riforme delle leggi elettorali e si sia decretata
la fine della proliferazione dei partiti e inaugurata l’era del bipolarismo, ritenuto all’unanimità un
sistema di garanzia della stabilità dei governi.
E ancora, sebbene sia avvenuto nel Parlamento e in tutti gli organismi del potere locale, un ricambio
di personale senza precedenti, la fiducia non è aumentata. La politica ha continuato a degenerare e i
partiti e le sigle politiche sono progressivamente cresciuti: vent’anni fa si contavano 38 tra simboli e
sigle, alle ultime elezioni europee, nel 2014, sono stati presentati 64 loghi. Sul palcoscenico
politico, come causa ed effetto del processo di decadimento che ha investito il mondo politico, sono
saliti cani e porci. Dopo “tangentopoli” a contendersi gli scanni delle istituzioni rappresentative ci
hanno provato imprenditori, commercianti, affaristi, magistrati, attori, calciatori, sindacalisti,
magari preparati professionalmente e coronati di successi nel proprio ambito lavorativo, ma privi di
qualsiasi esperienza politica.
Sessanta, settanta anni fa i nostri padri si scandalizzavano di fronte alla sfida ai partiti tradizionali
lanciata da un commediografo meridionale attraverso la fondazione di un movimento qualunquista.
Oggi è diventata consuetudine dei partiti andare alla ricerca di candidati che grazie alla loro
notorietà assicurano la conquista di voti. Non importa se non hanno alcuna cognizione di scienze
politiche, se sono privi di cultura adeguata e buon senso e se finiscono poi per apparire ai vertici
delle classifiche dell’assenteismo parlamentare. Ciò che importa è catturare consensi.
Eppure, la politica è la scienza più complessa e difficile che esista; per ben governare sono
indispensabili il possesso di una visione poliedrica dei processi sociali e del mondo, un solido
equilibrio morale, una disponibilità all’ascolto e al confronto e una saggezza nel prendere decisioni.
Doti queste che non sono innate, ma si acquisiscono con l’applicazione e l’esperienza.
E mai possibile che per intraprendere una qualsiasi attività lavorativa venga richiesta la
certificazione di determinate conoscenze e la maturazione di un’adeguata specifica esperienza
dell’attività che si vuole intraprendere, mentre per assolvere al compito più delicato e difficile,
quello di governare una comunità e assicurare ad essa un presente e un futuro di giustizia, di
benessere e di tranquillità, basti aver assicurato un pacchetto di voti? Questo modo di selezionare
chi ci deve rappresentare e governare risulta funzionale solo alle classi parassitarie, ai poteri forti e
inevitabilmente riporta la società ai tempi precedenti l’affermazione della liberal-democrazia,
quando la politica era esercitata a discrezione dei potenti.
La crisi della politica svuota dunque la democrazia rappresentativa di massa e rende fittizio il
meccanismo della delega. A causarla sono molteplici fattori sia di natura strutturale che inerenti al
comportamento dei suoi attori. C’è chi sostiene che essa sia dovuta al venir meno dei valori della
tradizione occidentale, come se a determinarla fossero delle forze estranee al volere degli umani. Di
fatto, a mettere in crisi la politica è il sopravvento dell’economia, della scienza e della tecnica nella
determinazione e nel governo dei rapporti sociali. La riduzione al minimo dei poteri della politica è
causata dalle trasformazioni che, con la fine del fordismo e l’inizio del processo di globalizzazione,
hanno rivoluzionato la struttura economica e la vita sociale; i processi produttivi in primis nonché
gli stili di vita sono stati lasciati alla mercé del capitale. Da quel momento, infatti, a dettare i
percorsi della politica, più ancora che gli orientamenti espressi dall’elettorato, sono stati e
continuano a essere gli interessi delle élite economiche e mediatiche. Manipolato e mercificato, il
consenso è divenuto merce tra le merci assumendo la funzione di elemento connettivo della società.
152
Anche a causa della carenza di analisi e quindi della capacità di comprendere le trasformazioni in
atto, la politica ha perso la sua egemonia sulla società ed è divenuta più che mai serva dei poteri
forti e delle corporazioni.
Le responsabilità dei suoi attori sono perciò grandi e grevi.
Se la “nuova politica” è video-plasmata è anche perché i politici, impegnati a conseguire la fama,
hanno ceduto al fascino dei mass-media a scapito del loro rigore culturale e morale. Per non
apparire impopolari e per prendere più voti, promettono agli elettori più di quanto materialmente
sono in grado di realizzare e sull’altare del suffragio universale sacrificano la progettualità del
futuro. Per non scontrarsi con il montare dei localismi e dei nazionalismi rinunciano ad avere una
visione universale dei processi sociali, proprio nel momento in cui l’economia azzera le frontiere e
il villaggio si fa globale.
Con il trionfo del leaderismo e dell’affarismo politico la dialettica è stata messa fuori dalla porta e
la corruzione ha dilagato. Sono spariti i congressi e le occasioni di confronto e sono avanzati il
decisionismo e l’intolleranza verso il dissenso. Chi viene eletto si sente intoccabile e non rinuncia
allo scanno nemmeno di fronte ai provvedimenti giudiziari. E per risaldare la propria posizione di
comando si attornia di collaboratori mediocri e ubbidienti, sempre pronti a dire di sì e ad adulare il
capo.
E’ a tal punto diffuso un tale modo perverso di essere del politico, che nell’opinione pubblica gli
scandali non suscitano più stupore, e tanto meno indignazione. Il fatto che un leader come Silvio
Berlusconi, dopo i tanti scandali di cui è stato protagonista e per i quali dovrebbe provare vergogna
ad apparire in pubblico, si presenti a un’assemblea del cosiddetto “Popolo delle libertà” mostrando
alle signore i pettorali e suggerendo ai suoi fans che per fare le campagne elettorali occorre fare i
complimenti alle persone che si incontrano, è di per sé eloquente del degrado morale che ha
investito la nostra società.
Considerato il decadimento del senso comune e dello spirito critico, non può dunque meravigliare
che 7 italiani su 10, come un recente sondaggio Demos documenta, ritengano che di fronte alla crisi
della politica sia auspicabile l’intervento sulla scena di un uomo forte capace di guidare il Paese.
Tutti scongiurano una prospettiva populista, ma poi non fanno nulla per evitarla. E nel caos
generale la figura del “messia” riappare come l’unica speranza di salvezza.
Se si considera che la politica continua a essere la disciplina capace di mediare oltre che gli
interessi, la scienza, la cultura, la tecnica con lo Stato e con le classi sociali e che è attraverso di
essa che si realizza un processo di reale emancipazione umana, di fronte a un tale stato di cose ci
sarebbe ben motivo di intervenire pesantemente per impedire il pericolo di una decadenza di civiltà
e per invertire urgentemente la tendenza.
Ci si aspetterebbe che le forze del fronte di sinistra e progressista compiano uno scatto di reni per
dare avvio a un’azione di bonifica e di rinnovamento culturale e morale e che quelle frange
dell’intellettualità che si sono sottratte alle lusinghe del potere e al fascino dell’adulazione,
esprimano la loro severa disapprovazione per ciò che accade sotto i nostri occhi. Purtroppo, però,
così non è, anche i proclamatori dell’alternativa sembrano darsi alla latitanza.
42. Le cause antiche della crisi della sinistra
Se alla politica spetta il compito di impedire che l’evoluzione del sistema capitalistico produca le
contraddizioni sociali che affliggono la società moderna, alla sinistra compete quello di contrastare
in maniera energica la subalternità della classe politica alle sue regole e di impedire il mal governo
della società. Se si considera che, secondo le teorie dei padri del socialismo scientifico, le forze del
movimento operaio avrebbero dovuto operare per il superamento del sistema della delega,
politicizzando la società e rendendo superflue le èlite, si comprende quale sia la portata delle
inadempienze della sinistra.
E’ invece successo che il soggetto del cambiamento è finito sotto le macerie del terremoto che il
posfordismo e la globalizzazione hanno provocato. Anche la sinistra, infatti, da ormai un quarto di
153
secolo è investita da una crisi d’identità dalla quale sembra non avere né la capacità né la sufficiente
determinazione di uscirne.
Uno dei più prestigiosi intellettuali di sinistra, il comunista Alberto Asor Rosa, negli anni di
“tangentopoli” scriveva che “in Italia si verifica una bancarotta dello spirito pubblico…Si è fatta
avanti la tendenza a occupare il potere pubblico a tutti i costi… Responsabile è la Chiesa di Roma
e la Dc ne è stata il soggetto esecutore” e concludeva la sua arringa sostenendo che “altri sono stati
i limiti dell’etica comunista”. In un saggio successivo si è detto convinto che il popolo sia sparito
nel nulla e, rimpiangendo la “sintesi tra popolo e democrazia”, ha sostenuto che la nostra è una
società destrutturata a causa del dominio del capitalismo.
Dubito che se i processi sociali sono andati in senso contrario rispetto ai propositi e alle aspettative
di noi comunisti, le responsabilità siano da attribuire esclusivamente al capitale, alla Dc e alla
Chiesa. Sarebbe molto interessante capire a quali limiti dell’etica comunista Asor Rosa si riferiva,
giacché prendendoli in esame si chiarirebbero molte cose. Fare sintesi tra popolo e democrazia, per
esempio, per un comunista avrebbe dovuto significare superare il sistema della delega, ma come la
storia insegna questo non è stato un obiettivo del Pci. Se il popolo non conta più come un tempo, è
anche dovuto al fatto che gli stessi eredi del pensiero comunista, chiusi essi stessi nelle gabbie della
delega, hanno contribuito a zittirlo.
Come è ovvio, anche la crisi della sinistra si presta a essere vista in modi e in termini diversi a
seconda di quale interpretazione si dà del soggetto del cambiamento e delle sue funzioni.
Per riprendere un’altra citazione eloquente, ancora un eminente esponente del Pci, Aldo Schiavone,
già a metà degli anni ’80, sosteneva che “la crisi esplode quando, nella seconda metà degli anni
settanta, il rapporto privilegiato fra teoria e politica nel Pci viene progressivamente ma
irresistibilmente a logorarsi, e le scelte e le dichiarazioni di principio del partito si lasciano sempre
meno collocare con tranquillità dentro gli schemi, per quanto flessibili, della tradizione di pensiero
fino ad allora privilegiata. Nel fuoco degli anni settanta la ‘modernizzazione’ del Pci (uso questa
parola per intenderci e con qualche perplessità – precisa) avviene non contro il marxismo, ma
certamente al di fuori di esso - molto spesso semplicemente ignorandolo”.
Anche Alfredo Reichlin, in “Riprendiamoci la vita”, situa le radici della crisi della sinistra negli
anni ’70, ma egli la attribuisce a differenti cause: a suo giudizio la sinistra si sarebbe dimostrata
culturalmente subalterna all’idea che la rivoluzione del capitalismo era di natura conservatrice.
Sono poi in molti a ritenere che la crisi della sinistra sia da imputare soprattutto alla disfatta del
socialismo reale.
Un tempo era consuetudine giudicare una forza politica non in base a quello che essa dice o crede di
essere, cioè non per i suoi propositi e proclami, ma per quello che essa fa e dimostra di essere
concretamente nella prassi quotidiana. Giancarlo Pajetta al proposito ebbe a scrivere che “uomini e
partiti non vanno giudicati per quello che hanno creduto di essere, ma per quello che sono stati
realmente. E quello che sono stati realmente non è rappresentato solo dagli avvenimenti di cui sono
stati protagonisti, ma anche da quello che quegli avvenimenti hanno prodotto a distanza, da quello
che essi hanno lasciato in eredità e che è parte del nostro presente”.
Se si adotta un tale criterio di giudizio, che a mio avviso ha una valenza storico-dialettica, l’analisi
di ciò che la sinistra è stata, dei suoi errori e delle sue deficienze, deve necessariamente estendersi al
lontano passato, cioè alle sue origini, giacché i suoi limiti odierni hanno radici antiche.
Sin dalla sua nascita, come si sa, il movimento operaio ha dovuto fare i conti con ricorrenti divisioni
e scontri al suo interno e a più riprese ha vissuto profonde crisi d’identità.
Non si può dimenticare che il socialismo scientifico è nato dallo scontro con l’anarchismo e con il
populismo e la sua affermazione è stata il risultato di un lungo travaglio. E’ lo stesso Engels a
denunciare al 5° congresso della 1^ Internazionale la degenerazione dei rapporti tra i suoi membri.
Dopo che si è affermata, la teoria marx-engelsiana ha subìto la contaminazione della
socialdemocrazia e successivamente, incarnandosi nel bolscevismo, è stata stravolta dallo
stalinismo. Queste contese e schematizzazioni si sono tradotte in lacerazioni e contrapposizioni che
hanno indebolito e segnato in permanenza il movimento operaio compromettendo l’unità delle forze
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politiche e sociali che si sono date come obiettivo la costruzione di una società nuova, socialista
appunto. Sulla sinistra tali rotture e divisioni pesano ancor oggi come un macigno e sicuramente
rappresentano una delle cause principali della sua debolezza e una delle ragioni delle difficoltà che
essa incontra nella lotta contro il capitalismo.
In un tal tormentato contesto, la stessa teoria marx-engelsiana è stata travisata e ogni contendente ha
tirato per la giacchetta i padri del socialismo trasformando così il confronto in una guerra ideologica
che non ha avuto mai fine. Il pensiero di Marx è stato ideologizzato e alcuni suoi assunti che
avrebbero dovuto essere sperimentati e rielaborati sono stati lasciati cadere nell’oblio.
La sinistra odierna è dunque il prodotto di un travaglio che è durato un secolo e mezzo e che non si
è ancora concluso.
Se si assume questa ottica, diviene chiaro che le cause della disfatta del socialismo reale sono da
ricercarsi negli errori che sono stati compiuti nell’edificazione del socialismo in una realtà la cui
economia aveva carattere semi asiatico e dove era improponibile un processo di socializzazione. E
che la crisi della sinistra occidentale è dovuta anche al fatto che nel portare avanti la sua lotta per il
socialismo, non ha saputo andare oltre l’imitazione di ciò che è stato realizzato nell’Est europeo,
rinunciando così a quello spirito critico e creativo e a quella autonomia che sono alla base del
pensiero marxiano e che rappresentano la condizione del cambiamento.
Nella mia riflessione critica sulla storia del movimento operaio e della sinistra ho evidenziato come
le incoerenze della teoria e della pratica delle forze del socialismo, rispetto al pensiero e ai
suggerimenti dei suoi teorici, siano riscontrabili e databili. E’ soprattutto in quattro fasi storiche
nevralgiche che le forze che si ispiravano al marxismo, certamente anche per ragioni storiche e di
natura strutturale, non si sono dimostrate all’altezza della propria missione. In queste fasi (1917-
1923: rivoluzioni in Russia e in Germania; 1944-1948: ricostruzione post-bellica; 1968-1972:
movimenti studenteschi e operai; 1989-1991: caduta del socialismo reale e opportunità-necessità di
una rifondazione dei partiti comunisti) l’obiettivo della socializzazione si è tradotto nella
statalizzazione; il proposito dell’estinzione dello Stato e dell’autogoverno del popolo ha ceduto al
fascino della delega; la realizzazione dell’“uomo nuovo” è stata eclissata dal processo di
integrazione del movimento operaio nel sistema del capitale.
Queste incoerenze e questi “buchi neri” sono venuti in risalto soprattutto nel momento in cui il
sistema capitalistico ha raggiunto un grado di sviluppo tale da estendere la sua logica e la sua
egemonia sull’intero pianeta, non lasciando spazio a regimi che non fossero compatibili con le sue
dinamiche. Il socialismo reale, infatti, non ha retto alla sfida del capitalismo sul piano della
competitività economica e scientifica e delle libertà civili e politiche.
Per la sinistra occidentale, infatti, la crisi si è fatta più acuta a partire proprio dalla fine degli anni
’70, quando da noi ha avuto inizio la fase che ha poi portato all’autoscioglimento del Pci e alla
frammentazione del movimento. E’ a partire da quel momento che le sue ambiguità hanno
incominciato a venire prepotentemente alla luce e a provocare la crisi d’identità. Poiché la sinistra
comunista aveva già rinunciato da tempo a far propri come pratica quotidiana alcuni capisaldi del
marxismo; avendo optato per una strategia compatibile con il sistema, la sua funzione storica è
venuta conseguentemente esaurendosi.
Scriveva Rossanda alla fine degli anni ’70: “I partiti comunisti hanno optato per non rovesciare più
niente e conservare, possibilmente riveduto e corretto, tutto. Il loro rapporto con i Paesi dell’Est è
riservato o cinico: ciascuno va bene per sé” e a riguardo dello schieramento di cui faceva parte
aggiungeva che “la nuova sinistra rivive non nella sua elaborazione teorica ma in sé stessa i
dilemmi: nella sua difficoltà a farsi società politica nuova, stato in nuce”. Una diagnosi severa, ma
corrispondente al vero.
E a confermare questo suo giudizio, più tardi interveniva Ludovico Geymonat il quale asseriva: “Il
Pci non è più marxista, non è più un partito combattivo, da molto tempo. E un partito liberal-
democratico e questo è una specie di tradimento di quelli che hanno lavorato attivamente per il
comunismo”.
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In effetti, già da tempo il partito di Gramsci e Togliatti aveva cambiato fisionomia. La stessa
componente di sinistra aveva deposto le armi e si era rassegnata alla svolta. Il suo leader più
prestigioso, Pietro Ingrao, a metà degli anni ’70, aveva così spiegato la prospettiva per cui lavorare:
“Vogliamo giungere a un mutamento delle strutture e quindi dei rapporti di potere, per il quale non
basta solo un cambiamento di uomini e di formule politiche… vogliamo giungerci mediante il
consenso e in un regime di economia mista. Quando parlo di economia mista intendo non solo
un’economia in cui convivano imprese pubbliche e imprese private, ma più esattamente un regime
in cui agiscano grandi imprese che obbediscono tuttora a corposissimi interessi privati”.
Anche l’ala più radicale della sinistra aveva dunque reciso i suoi rapporti con la teoria marxiana per
ispirarsi alle tesi keynesiane. E pure la sinistra sociale, ormai culturalmente integrata, si muoveva
nel solco del vecchio piano del lavoro degli anni ’50 e condizionava le rivendicazioni sindacali alle
garanzie di un miglior funzionamento del mercato.
Come anni prima aveva fatto la Spd tedesca, anche la sinistra italiana ha celebrato la sua Bad
Godesberg liberandosi del pesante fardello della rivoluzione.
E lo ha fatto senza neanche interrogarsi sul perché la socialdemocrazia, nonostante sia andata al
governo in numerosi paesi europei, fosse precipitata anch’essa in una crisi profonda.
Non va dimenticato che socialdemocratici e socialisti sono stati al governo in Belgio, in Francia, in
Germania, in Gran Bretagna, in Italia, nei paesi scandinavi, cioè in tutti i principali Stati europei
senza aver innescato alcuna contro-tendenza progressista; al contrario, alla lunga essa ha assunto
come proprio il progetto neoliberista. La sinistra avrebbe dovuto riflettere anche sul perché la
partecipazione ai governi delle forze che si ispirano al movimento operaio non siano riuscite a dare
uno sbocco politico alle contraddizioni che, sin dal tempo della loro massima espansione, sono
esplose tra lavoro e rapporto di produzione capitalistico, tra concentrazione del potere economico e
welfare state. E ancora come sia stato possibile che queste forze abbiano non solo mantenuto in vita
il capitalismo, ma abbiano anche lasciato intatta la struttura interna di fondo della borghesia. Le
strutture di potere delle banche, dei gruppi industriali e delle famiglie capitalistiche, infatti, hanno
registrato una sconcertante continuità con quelle del periodo anteriore agli anni trenta e i soli
mutamenti che sono intervenuti in questo ambito sono risultati essere il portato della concentrazione
e della centralizzazione del capitale.
Se oggi nelle elezioni la sinistra europea non riesce a ottenere successi, è proprio anche per le sue
deludenti esperienze di governo. Essa non è nemmeno riuscita a ritagliarsi all’interno del sistema
capitalistico una propria specifica collocazione, né a livello ideologico né a livello programmatico.
In compenso ha accentuato il suo livore anticomunista.
Come diceva Max Weber, “in questo modo, a lungo andare, non è la socialdemocrazia che
conquista le città o lo Stato, ma al contrario è lo Stato che conquista il partito. E io non vedo come
ciò potrebbe costituire un pericolo per la società borghese in quanto tale”.
Non è certo con il pragmatismo e neppure con la “politica del possibile” che si risolvono i problemi
che affliggono le classi subalterne e che si garantisce una prospettiva serena per l’intera umanità.
43. Il ripudio del socialismo
Con l’implosione del socialismo reale il Pci è andato in confusione. L’unica certezza che il suo
leader, Achille Occhetto, ha dimostrato di avere è che bisognava disfarsi al più presto del fardello
del marchio di fabbrica.
Tempo prima, sulle colonne de “l’Unità”, Giorgio Napolitano aveva asserito: “Siamo usciti dai
confini della tradizione comunista” e mentre la corrente “migliorista” scalpitava invocando la svolta
socialdemocratica, dall’esterno le pressioni per l’abiura delle tradizioni si facevano sempre più
chiassose e insistenti. Filosofi, sociologi, politologi, opinionisti sentenziavano la fine dell’ideologia
comunista, delle “terze vie”, l’inutilità del socialismo, la sparizione dello stesso proletariato,
sospingendo i partiti che ancora si ispiravano al movimento operaio a battersi per civilizzare il
capitalismo. Occorreva quindi sbarazzarsi del “vecchio” e, come ironicamente amava dire Federico
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Caffè, scegliere “il poco al tutto, il realizzabile all’utopico, il gradualismo delle trasformazioni a
una sempre rinviata trasformazione del sistema”.
Se i socialdemocratici della 2° Internazionale erano stati evoluzionisti, ma comunque avevano
mantenuto come obiettivo il socialismo, i democratici di sinistra, secondo la intellighentia moderna,
avrebbero dovuto rinunciare anche a quello.
Erano i tempi in cui il capitalismo stava entrando in una nuova fase della sua evoluzione e si
organizzava nella teoria e nella pratica sul terreno sopranazionale, e mentre politicamente da noi
montava il leghismo ed era in incubazione il berlusconismo.
A fronte della necessità di elaborare una strategia in grado di impedire che le classi subalterne
fossero esposte agli effetti perversi dei processi di mondializzazione dell’economia e che la politica
fosse dominata dai poteri forti, gli eredi di Gramsci e di Togliatti cedevano al fascino del
modernismo e lasciavano che la società italiana venisse assalita dal tarlo delle leghe e aprisse le
porte all’egemonia del despota di Arcore.
Il gruppo dirigente che ha trasformato il Pci in Pds, alla strategia del “che fare” ha preferito quella
del “con chi stare”. Il vecchio partito che a dire di Occhetto era “la componente più dinamica, più
intelligente, più critica del movimento comunista… quella che aveva influito sulla perestrojka”,
trasformato in “Quercia” avrebbe dovuto significare stabilità e longevità. Di lì a poco, invece, esso
sarebbe collassato travolgendo lo stesso segretario-liquidatore e avrebbe sepolto sotto le macerie
gran parte della sinistra.
Luigi Pintor sulle colonne de “il manifesto” aveva ammonito che “nessuno può recidere le proprie
radici impunemente senza avvizzire e morire, e impedirsi comunque una nuova fioritura”, ma come
è successo in tante altre circostanze la sua premonizione è stata lasciata cadere nell’oblio.
Trascorsi appena tre anni dalla Bolognina, al settimanale satirico di Michele Serra, “Cuore”, a
“l’Unità”, a Italia Radio e alla direzione di Botteghe Oscure giungevano migliaia e migliaia di
lettere, telegrammi, telefonate, fax inviati da parte di iscritti al partito che rivendicavano
un’ulteriore svolta politica. Erano delusi e incazzati non per l’abbandono della tradizione, ma per i
mancati successi elettorali e per la vittoria della destra. “La sinistra in Italia non vincerà mai le
politiche – recitava uno di questi messaggi – il pregiudizio contro di noi è imbattibile… non resta
che provare a formare un unico partito democratico, nel cui simbolo non devono esserci falci e
martelli”.
Patrizio Roversi, un fatuo personaggio cui “l’Unità” ha dato immeritato spazio, ha sentenziato:
“Berlusconi ha vinto le elezioni perché l’Italia è un paese di merda e la metà degli italiani sono
teste di cazzo”. Altri militanti hanno inveito: “La maggioranza degli italiani o è fascista o è
assolutamente idiota… quando l’imbecillità stravince essere sconfitti è un onore”.
Lo spirito battagliero e la consapevolezza del ruolo antagonista che distingueva il militante
comunista, e che negli avversari incuteva terrore e ammirazione insieme, si stava esaurendo e si
traduceva in lagna; l’obiettivo che ora animava la stragrande maggioranza dei post-comunisti era
l’assalto alla “stanza dei bottoni”. L’intero agire del nuovo partito risultava infatti modulato
sull’economia politica e sulla delega e questo nuovo modo di essere e di fare rompeva
definitivamente con il socialismo scientifico.
Tra la metà e la fine degli anni ’90, come ha testimoniato Emanuele Macaluso, a Botteghe Oscure le
diverse anime risultavano essere l’una contro l’altra. “E’ in atto – scriveva – “una guerriglia sul
terreno del potere… abbiamo una degenerazione per assenza di dibattito”.
Da quel momento ognuno dei dirigenti si è sentito autorizzato a mettere in mostra sul mercato della
politica le proprie credenziali e la propria linea. Motivo costante, l’abiura del passato.
Luigi Berlinguer faceva orgogliosamente sapere di considerarsi “un intruglio di culture, un po’
liberal, un po’ democratico, un po’ progressista”. Umberto Ranieri dichiarava: “Noi siamo
socialdemocratici... e come tutti i partiti socialdemocratici, critichiamo il comunismo che incarna
l’essenza di un sistema dispotico, senza libertà e stato di diritto”.
Aldo Schiavone, direttore dell’Istituto Gramsci, ha incominciato a sostenere l’inattualità di Marx e a
criticare coloro che sostenevano la necessità del comunismo.
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Intellettuali comunisti come Massimo Salvatori e Miriam Mafai hanno sancito la fine della lotta di
classe e preso le distanze dalla sinistra.
Più in là nel tempo, ma sempre mossi dal desiderio di togliersi di dosso qualsiasi traccia della loro
appartenenza al movimento comunista, Giuseppe Caldarola, direttore de “l’Unità”, Massimo De
Angelis, braccio destro di Occhetto, Michele Salvati, economista e teorizzatore del Partito
democratico, hanno decretato l’incompatibilità tra comunismo e libertà.
Alfredo Reichlin si è dichiarato apertamente riformista. E a proposito del Pci, nel suo saggio “Il
midollo del leone”, il prestigioso dirigente di tutte le stagioni, ha sostenuto che proponendosi la
realizzazione del comunismo, il Pci “assegnò a se stesso un compito del tutto irreale” e che il suo
ruolo storico “fu profondamente contraddittorio”. Più tardi negli anni ha confessato di non aver mai
pensato di assaltare “palazzi d’Inverno” e di essersi sentito un rivoluzionario nel senso che “a noi
spettava di portare a termine il Risorgimento” e dare alle classi lavoratrici “un nuovo ruolo nello
Stato”. E ha aggiunto: “Abbiamo perso anni in dispute demenziali su querce e ulivi”. Peccato non
abbia chiarito questi suoi convincimenti quando sedeva accanto a Togliatti, a Longo, a Berlinguer, a
Natta e a Occhetto.
Il vice direttore del “l’Unità” Giancarlo Bosetti si è sentito in dovere di rimproverare la sinistra di
avere per troppo tempo “contrastato ideologicamente selezione e meritocrazia a favore di un
egualitarismo difensivo”.
Il direttore dell’Istituto di Studi Comunisti, Franco Ottaviano, il quale in gioventù ha militato nei
gruppi marxisti-leninisti, a un giornalista de “La Repubblica” che lo ha interpellato sulla possibilità
di uscire dalla scuola di partito senza aver letto Marx e Gramsci, ha candidamente risposto: “Sì,
certo: non sono letture indispensabili per chi aderisce al partito”.
Silvio Pons, direttore dell’Istituto Gramsci, curatore del “Dizionario del comunismo nel XX
secolo”, edito da Einaudi, ha escluso dallo stesso dizionario Amadeo Bordiga, che non solo fu il
primo segretario del Pcd’I, ma rivolse anche aspre critiche a Stalin circa la politica del Pcus. Pons
ha giustificato questa esclusione affermando: “Noi riteniamo che la matrice sovietica sia stata
fondamentale e costitutiva, che abbia dato il segno alla lunga durata del comunismo…Quel
comunismo alternativo è puramente immaginario, non è mai esistito”.
Divenuto presidente del Consiglio dei ministri, Massimo D’Alema, nel corso di un convegno a
Catania, ha così arringato i suoi ascoltatori: “Crescete, arricchitevi, investite! Se ci sono ostacoli li
toglieremo di mezzo…noi dobbiamo dare coraggio e fiducia agli imprenditori che devono investire
e ai cittadini che devono comprare”.
Qualche tempo dopo, nel vivo di un confronto sul problema dell’omosessualità, ha voluto ricordare
a chi polemizzava con lui che “il matrimonio, come previsto dalla Costituzione, è l’unione tra un
uomo e una donna, finalizzata alla procreazione”, suscitando la reazione dei rappresentanti dei
movimenti “arcobaleno”.
Tanti altri post-comunisti hanno manifestato a scoppio ritardato ripensamenti e riserve sul proprio
passato. C’è stato anche chi, dopo aver condiviso per anni la direzione del partito con Enrico
Berlinguer, ha sostenuto che l’allora segretario, pur essendo in rotta con Mosca, era prigioniero di
una visione anticapitalistica e antiamericana che non era condivisibile e ha perciò criticato
l’illusione che egli nutriva di una “terza via” tra comunismo e socialdemocrazia.
Divise sulle strategie, in particolare sulla politica economica, le diverse anime della Quercia non si
confrontavano ormai più da tempo. A questo riguardo, nel suo libro “Capitalismi”, Napoleone
Colajanni ha scritto che la sinistra, pur avendo prodotto analisi feconde, sul pensiero economico si
era appiattita. In effetti, voltate le spalle al socialismo, essa ha sposato senza riserve la causa della
modernizzazione del capitalismo.
Dopo che agli inizi del secolo, la direzione Ds aveva preso le distanze dalla Cgil sul famoso articolo
18, mentre il segretario Fassino dava ragione a Craxi sulla storica battaglia degli anni ’80 a riguardo
della scala mobile, in nome di una difesa dell’economia nazionale, il partito stabiliva un rapporto
stretto con il mondo imprenditoriale determinando conseguentemente uno strappo con lo storico
sindacato “rosso”. Sollecitava poi la Fiat a investire affinché, in barba all’inquinamento e al caos
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viario, fosse ampliata la presenza del settore auto in Italia e sottoponeva al giudizio della
Confindustria le proprie bozze programmatiche.
In occasione delle elezioni amministrative, in alcune località candidava esponenti delle associazioni
imprenditoriali e conduceva la campagna elettorale organizzando cene alle quali venivano invitati i
big dell’industria e della finanza. A uno di questi simposi, la cui presenza era severamente
selezionata ed era consigliato l’abito scuro (era il 2005), è stato presentato in anticipo il programma
di partito alla presenza di Cesare Romiti, Carlo De Benedetti e Matteo Colaninno. Nessuno alla
base del partito ha avuto di che ridire.
Non può dunque meravigliare se da quel momento in molte città governate dai Ds l’interesse
pubblico si è venuto sempre più confondendo con l’interesse privato e se, come è successo nella
Napoli di Antonio Bassolino, a essere privatizzato era un bene fondamentale come l’acqua.
Mentre a livello dirigenziale si moltiplicavano e si intensificavano i rapporti con il mondo
dell’imprenditoria e della finanza, nel partito diminuiva l’interesse per la ricerca e per il confronto
teorico e politico. Le discussioni si animavano solo in occasione delle competizioni elettorali.
Eppure, erano tempi in cui il centro-sinistra amministrava la stragrande maggioranza delle regioni,
delle province e dei comuni italiani, perciò la necessità di maggiori conoscenze e di una forte
dialettica apparivano requisiti irrinunciabili per garantire un buono e lungimirante governo.
La sinistra che avevamo conosciuto stava sparendo. I nostalgici, i “veteri”, coloro che non erano
disposti a essere omologati, per sopravvivere erano sospinti a rinchiudersi in piccoli recinti
mostrandosi sospettosi e diffidenti verso quelli che erano stati i loro compagni di lotta. Quello che
era il popolo di sinistra si stava pian piano trasformando in un esercito di moderni oblomov,
incapaci ormai di avere coscienza di quel che stava succedendo e di reagire.
I ritratti dei padri del socialismo venivano oscurati o gettati nel cestino. Giorgio Napolitano
decretava finita la ricerca di improbabili “terze vie” tra comunismo e socialdemocrazia. Piero
Fassino esaltava Tony Blair e il New Labour indicandoli come modelli da imitare. L’emergente
Maurizio Martina con stile ridondante affermava a un quotidiano che esisteva “una generazione per
la quale la politica diventa interessante più parlando di Grossman che di Berlinguer”. Contestare la
presenza di Bush a Roma per i diessini era diventato un comportamento “poco civile”.
I Democratici di sinistra si stavano trasformando in un partito come tanti altri e il criterio adottato
nello stabilire le alleanze era solo ed esclusivamente quello dell’opportunità politica. In alcune
località (vedi Colico) i suoi iscritti entravano in giunte municipali guidate da sindaci forzisti e di
destra. Dopo che Luciano Violante ebbe a lanciare l’appello alla pacificazione nazionale, invitando
a interrogarsi sui “ragazzi di Salò”, sono state fatte cadere le pregiudiziali nei confronti dei
neofascisti. All’assemblea provinciale dei Ds di Livorno è stato invitato il ministro di Alleanza
nazionale Altero Matteoli al quale sono stati tributati onori e applausi. In Emilia Romagna, a
Bergamo, a Lecco e a Varese i dirigenti Ds si sono prestati ad autenticare firme per la presentazione
alle elezioni dei neofascisti e dei forzisti di Berlusconi, finendo poi per essere incriminati dalla
Magistratura avendo considerato valide sottoscrizioni che invece erano false.
Tra i diessini ha quindi cominciato a dilagare il contagio dei messaggi leghisti. In un suo saggio
(“Giustizia e sicurezza”), Piero Fassino, divenuto segretario dei “Democratici di sinistra”, ha
confessato di essere “personalmente non contrario all’idea che vi siano organismi di polizia locale”
e ha considerato valide sia la soluzione della polizia regionale che il rilevamento delle impronte
digitali degli extracomunitari.
Nei confronti degli stessi profughi immigrati dai paesi in guerra, da parte di alcune realtà del partito
sono state sollevate riserve. Le famose “ronde” a garanzia della sicurezza sono state istituite in
numerose città governate dal centro-sinistra e persino dalla sola sinistra. A Milano i consiglieri
diessini hanno acconsentito che venisse assegnato l’“ambrogino” anche a Gianfranco Miglio, quel
personaggio che in vita ha predicato l’egoismo e l’intolleranza quali virtù del “popolo padano”.
Intanto “l’Unità”, il quotidiano fondato da Antonio Gramsci, sdoganava il “Grande Fratello” e al
suo vincitore dedicava intere pagine di giornale. La nuova direttrice giustificava così la decisione:
“Televotare un rom aiuta a sentirsi antirazzisti… e costa poco”. Di fatto, il foglio dei Ds
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testimoniava la rinuncia del partito a formare un nuovo senso comune, mentre Claudio Petruccioli,
in qualità di presidente della Rai, difendeva le trasmissioni televisive dei reality e de “l’isola dei
famosi”. Alle “nuove Frattocchie” tornava la scuola politica e tra le materie di studio venivano
incluse anche la moda e la tv. I corsi avevano svolgimento in sedi alberghiere e il titolo dato a una
serie di lezioni era “Amare l’Italia. Specchiarsi nel futuro”.
Anziché crescere, gli iscritti al partito incominciavano a calare paurosamente, nonostante la
tolleranza delle doppie tessere (poteva iscriversi al Pd anche chi aveva in tasca la tessera di un altro
partito). Nei primi anni del 2000 è stata denunciata una falla di circa 300 mila iscrizioni. Alla fine
del 2004 gli iscritti raggiungevano le 555 mila unità. Un sondaggio condotto da Renato
Mannheimer accertava la defezione di giovani e di operai e una modifica sostanziale nella
composizione dell’elettorato: Ds era votato per il 28% da ultrasessantenni, mentre i giovani tra i 18
e i 29 anni rappresentavano il 16%; per il 23% da impiegati, quadri e dirigenti, per il 22% da
pensionati, mentre gli operai erano solo il 14%.
Essendosi ridotti gli iscritti ed essendo venuto meno nella base il livello di partecipazione
all’elaborazione della linea politica, il quotidiano “l’Unità” ne ha risentito in termini di diffusione e
di risorse finanziarie. A metà del primo decennio del 2000 accusava un buco di 200 miliardi di lire.
Nonostante che nella società proprietaria fossero entrati degli azionisti, tra i quali una holding
straniera, il giornale accusava difficoltà finanziarie al punto di non avere certezze sul futuro e di
indurre i giornalisti allo sciopero.
In presenza di un così desolante stato di cose, nuovamente amareggiato, Luigi Pintor scriveva sul
quotidiano “il manifesto”: “La sinistra italiana che conosciamo è morta”.
44 – L’americanizzazione dei post-comunisti
Nel 2007 è nato il Partito democratico. Nella denominazione e nel simbolo è sparita qualsiasi
traccia delle sue origini di sinistra.
I suoi promotori hanno assicurato: sarà “un partito plurale e post-ideologico”; “funzionerà come il
Partito democratico americano” (nel quale – come si sa – convivono linee politiche, idee, valori
diversi e contrapposti). “Non ci saranno maggioranze o minoranze precostituite, bensì forme di
democrazia diretta, precisamente le “primarie” per i gruppi dirigenti e per le candidature alle
elezioni, poi i referendum sulle grandi questioni”.
La rottura con la tradizione è dunque stata totale.
A neanche due anni dalla sua nascita, però, il nuovo partito si è rivelato tutt’altro che compatto e
pieno di malessere. Si è confermato come partito trasversale pigliatutto, una vera e propria “agenzia
di interessi” dei vari strati di elettorato che rappresenta.
Le lotte intestine hanno incominciato a essere tali da indurre uno dei suoi padri, Walter Veltroni, a
invocare una tregua di sei mesi contro “la vocazione spesso irresistibile a farci del male da soli”.
Più tardi nel tempo, prima ancora di lasciare il partito, un altro suo prestigioso dirigente, Stefano
Fassina, ha denunciato la presenza nell’organizzazione di un male endemico: le “bande”. Prima di
lui, l’allora responsabile dell’organizzazione, Andrea Orlando, ammetteva che il Pd “ha cercato di
reggersi su un accordo tra maggiorenti, per gestire il potere, spartirsi incarichi, decidere le
candidature”. E pure il giovane Tobia Zevi, in occasione degli scandali romani, ha confessato che
“da candidato alla segreteria di Roma vidi di tutto: correnti, circoli fasulli, tessere gonfiate,
interessi. Precisando poi che comunque restava “convinto che la maggioranza del partito sia fatta
di gente perbene”.
In effetti, già tre anni dopo la fondazione, nel Pd si contavano al suo interno 16 correnti. Mentre
veniva meno la presenza degli operai, si intensificava quella della classe media. Tra gli iscritti
venivano identificati anche dei massoni i quali, a dire del venerabile romano Gioele Magaldi,
sarebbero ammontati a 4 mila unità e avrebbero avuto una rappresentanza nella stessa direzione del
partito: fenomeno questo che non deve assolutamente meravigliare, se si considera il suo carattere
“plurale” e che l’obiettivo di correre verso il “centro” era e resta una scelta deliberata del gruppo
160
dirigente. Evidentemente Renzi e amici non la pensano come Papa Francesco il quale recentemente
ha fatto sapere di considerare “l’estremismo di centro” il peggior estremismo che esista.
Fatto è che il Pd con il passare del tempo è venuto assomigliando sempre più alla vecchia
Democrazia cristiana, si è cioè venuto configurando un partito galassia, paludoso, senza una precisa
identità, incapace di assumere una chiara e coerente linea di condotta e nel quale i veti incrociati
rappresentano la pratica prevalente, anche se poi ad averla vinta è il segretario-presidente.
L’unico dato chiaro è appunto il cambio di campo. In occasione della sua Conferenza del lavoro, al
quarto anno di vita, la direzione del partito ha commissionato un’indagine sulla condizione operaia
in Italia la quale ha sancito che “la macchina per la lotta di classe non esiste più e non ha più senso
riproporla”. Confortati nello spirito da questa costatazione, i suoi dirigenti hanno rivolto in maniera
decisa il loro sguardo alla classe media facendosi portatori dei suoi interessi. Qualcuno non si è
lasciato sfuggire l’occasione per rimproverare la sinistra di aver fatto degli operai “una macchina
per la lotta di classe”. Qualcun altro, come il sindaco di Firenze Dario Nardella, ha sostenuto che
“l’importante è che il Pd sia un partito legato alla dimensione del governo, non della lotta… e con
un leader forte”.
I post-comunisti che hanno contribuito a costruire il nuovo soggetto politico, pare non si siano resi
conto che la metamorfosi intervenuta in ciò che è rimasto del vecchio Pci non è solo politica, ma
vanta una natura antropologica; e che l’assenza di una strategia di cambiamento porta
inevitabilmente a una caduta nel moderatismo più bieco.
Immanuel Kant, che non sognava certo una società comunista, sosteneva che i sistemi democratici
non possono esistere senza ideali. Il Pd di Renzi si considera democratico per eccellenza, eppure,
salvo nutrire l’ambizione di occupare il “centro” per consolidare il proprio potere, di ideali non
sembra proprio averne.
Numerosi compagni, fra quelli che ai tempi del Pci hanno orgogliosamente dato corpo
alll’intellighentia comunista, anziché reagire al declino teorico-culturale, oltre che politico, del
nuovo soggetto di cui ora sono parte, si sono opportunisticamente adeguati al nuovo corso. Alcuni
di loro (Pietro Barcellona, Mario Tronti, Giuseppe Vacca, Paolo Sorbi) hanno avuto la sfrontatezza
di invocare un dialogo sui temi della manipolazione della vita, del rifiuto del relativismo etico e sui
valori “non negoziabili” tanto cari a Ratzinger, non già per problematizzarli dialetticamente, ma per
farli assumere quali discriminanti della linea del partito, ignorando il loro millantato marxismo di
un tempo.
Del resto, nel Pantheon del nuovo partito, a detta dei suoi stessi dirigenti, convivono molti
personaggi: Nelson Mandela, Giuseppe Dossetti, Alexander Langer, Giorgio La Pira, John
Kennedy, Piero Calamandrei, Mahatma Gandhi, Papa Giovanni XXIII, Willy Brandt, Jacques
Maritain, la blogger tunisina Lina. Un piccolo spazio è stato riservato anche ad Antonio Gramsci e a
Enrico Berlinguer, ma tutti gli altri padri del socialismo sono stati categoricamente esclusi. La
stessa inclusione dei due leader storici, peraltro, si è rivelata presto una pantomima poiché, quando
si è trattato di commemorare alla Camera Berlinguer, la presenza degli ex del Pci che sono stati più
vicini al leader, non è stata gradita e ha suscitato polemiche e divisioni nello stesso gruppo
dirigente. A confermare in ogni modo la rottura con la storia, interveniva poco dopo la decisione
degli iscritti di San Martino Siccomario, un paese in provincia di Pavia, di cambiare nome alla
locale sezione intitolata a Enrico Berlinguer per dedicarla al democristiano Beniamino Andreatta.
Non deve pertanto sorprendere nemmeno quanto è successo per la Provincia di Bergamo, il cui
presidente, il democratico Matteo Rossi, regge una giunta composta da esponenti di Forza Italia
oltre che del Nuovo centro destra. Per stare al potere, secondo la logica renziana, diventa lecito
allearsi anche con il diavolo. Il Pds lo ha fatto con i leghisti, il Pd lo fa con i proseliti di quel
berlusconismo che Asor Rosa ha considerato “peggio del fascismo… prodotto finale e
consequenziale di una lunga decadenza – l’involuzione del sistema liberal-democratico – cui
nessuno per trent’anni ha saputo offrire uno sbocco politico-istituzionale in positivo… nonché di un
diffuso degrado morale” e che, allorquando Forza Italia era al potere, ha invocato l’intervento dei
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carabinieri e della polizia di Stato per spazzarlo via. Evidentemente non credeva più nemmeno lui
nella capacità di lotta del suo partito.
Va preso atto che in fatto di coerenza il Pd proprio non brilla. E a confermarlo non è solamente la
sua politica delle alleanze, bensì il modo stesso in cui interpreta e pratica la democrazia.
“Dobbiamo puntare su forme di democrazia diretta come le primarie… Trasformare la rete e il web
da strumento di stalking politico a strumento di partecipazione”, esortava Piero Fassino alla vigilia
delle primarie a Livorno per l’elezione del segretario territoriale. Quel banco di prova, però, si è
rivelato un fallimento: l’apertura della consultazione ai non iscritti ha portato alle urne poco più del
2% dei cittadini livornesi.
Qualche tempo dopo le primarie in Liguria si sono tradotte in una guerra aperta tra i contendenti
provocando non solo la richiesta da parte di alcune sezioni del Pd di Genova di annullamento della
consultazione, ma la compromissione dello stesso successo del candidato del partito al governo
della regione. Anche ai giorni nostri, le primarie pidiessine anziché costituire momento di
democrazia nel partito rappresentano occasione di contesa e di scontro.
A screditare questi appuntamenti, già tempo addietro, quand’era ministro dell’istruzione, era
intervenuta Maria Chiara Carrozza la quale aveva denunciato che nel corso delle consultazioni “non
si è mai parlato di contenuti”.
Aveva dunque detto bene Valentino Parlato quando, a fronte dell’elezione di Luigi Bersani a
segretario, aveva sostenuto che si trattava di “un’inutile americanizzazione del confronto e del
trionfo del personalismo”.
Quando, in occasione del compimento dei sessant’anni di Bersani, allora segretario del partito, nella
sala in cui stava per iniziare il dibattito è apparsa una sosia di Marylin Monroe che al leader ha
dedicato un “Happy birthday segretario pd, che speriamo diventi premier, anche se lo auguro al
peggiore dei miei nemici”. Contrariamente a quell’auspicio, dopo essere stato appunto portato in
carrozza alle primarie, a Bersani è stata maliziosamente negata dai suoi stessi compagni la
possibilità di diventare premier e, caduto in disgrazia, ha finito per tradursi in fattore di disturbo per
il partito.
Che una formazione democratica non solo scambi le “primarie” per democrazia diretta, ma di fronte
alle divergenze interne minacci di non ricandidare chi non condivide la linea del segretario, offre
oggettivamente una chiara testimonianza dell’esistenza al suo interno di tendenze dispotiche.
Nel Pd le idee sulla democrazia sembrano, infatti, non essere del tutto chiare. A dimostrarlo è anche
il comportamento che il segretario ha avuto in occasione della riforma della scuola. Anziché
sollecitare insegnanti, presidi, studenti e genitori a formulare i loro giudizi e le loro proposte, Renzi
si è affidato a facebook e a mille iscritti e simpatizzanti del suo partito assumendoli come
“ambasciatori della Buona Scuola sul territorio”. Un simile atteggiamento, oltre che offensivo nei
confronti degli operatori e degli utenti della scuola che sono da considerarsi tra i principali artefici
del processo di rinnovamento, è dimostrativo di una distorta visione dei rapporti democratici.
E’ anche questa, a mio avviso, una delle ragioni per cui il transito dal Pci, al Pds, ai Ds e, infine, al
Pd è stato contrassegnato da un pauroso calo degli iscritti.
Due anni dopo la sua costituzione, i tesserati al partito che sono andati a votare per la prima tornata
di elezione dei dirigenti locali sono stati solo il 38,5% degli aventi diritto. Al dibattito congressuale
ha partecipato solo il 50% degli iscritti. Dopo di che, le iscrizioni hanno incominciato ovunque a
calare. Nell’autunno del 2014 le cronache annunciavano una perdita di 400 mila tesserati.
L’aumento di adesioni si registrava solo nei “circoli feudali” come a Roma città, dove le successive
inchieste provocate dagli scandali consigliavano la chiusura di un circolo su tre.
Di fronte alle degenerazioni della militanza e al calo degli iscritti, Renzi ha dato però segno di non
essere preoccupato più di tanto. La sua idea di politica, infatti, non è fondata sulla quantità delle
adesioni al partito, ma sul rapporto diretto con gli elettori. Egli ha in testa il modello americano e
viaggia sull’onda della cosiddetta modernità. E poiché nelle democrazie contemporanee la tendenza
dominante è populistico-plebiscitaria, il problema del tesseramento e della partecipazione alle scelte
del partito assume per lui e per i suoi accoliti un’importanza marginale.
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Così come scarsa attenzione è stata prestata dal gruppo dirigente del Pd agli organi di stampa. Per il
vecchio Pci “l’Unità” ha da sempre rappresentato uno strumento insostituibile non solo per far
conoscere le proprie elaborazioni e proposizioni, ma anche per favorire tra i compagni il confronto
politico-teorico e offrire loro uno strumento di partecipazione. Le feste de “l’Unità” avevano non
solo l’obiettivo di raccogliere le risorse necessarie al mantenimento del giornale, ma anche di
promuovere e allargare la discussione sugli indirizzi e sulle scelte del partito. Con l’inizio del
percorso di transizione che ha portato alla costituzione del Pd, gli organi di stampa per i nuovi
gruppi dirigenti sono diventati un peso. Nei rapporti tra la direzione e i giornalisti sono esplosi i
conflitti politici e sindacali. I contributi di sostegno sono venuti meno e la direzione delle feste de
“l’Unità” è stata affidata agli imprenditori. Sono cominciati gli scioperi dei giornalisti e sono state
sospese le pubblicazioni. Dapprima la proprietà è stata aperta al mercato finanziario, dopo di che il
giornale è stato messo in vendita. Fino a giungere alla sua chiusura.
Identica fine hanno fatto il “Riformista” diretto da Emanuele Macaluso ed “Europa”, il quotidiano
che era stato della Margherita.
Nel frattempo anche le casse del partito hanno incominciato a far registrare una voragine di debiti.
Nell’autunno del 2014, dopo che il patrimonio dei Ds (eredità del Pci) era stato conferito a 57
fondazioni distribuite su tutto il territorio nazionale, il deficit ammontava a 150 milioni di euro.
Per rimediare a una tanto disastrata situazione, Renzi ha pensato bene di ricorrere all’ausilio dei ceti
benestanti. A Roma e a Milano ha organizzato due cene per partecipare alle quali era necessario
versare 1.000 euro a testa. Fuori dell’hotel di Milano nel quale si è celebrato l’evento erano
parcheggiate Porche, Cayenne, Suv e Jaguar.
Nel 2013, attraverso il fundraising, il partito ha rastrellato 1,7 milioni di euro, contro 1,1 milioni di
euro del tesseramento. Di regola a decidere la linea politica di un partito sono coloro che lo
sostengono idealmente e materialmente. Di fronte al cambio dei cavalli sorge legittimamente
l’interrogativo su chi sia ora a dettare gli orientamenti del partito e del giornale. Anche perché, se
l’assegnazione del 2 per mille nella denuncia dei redditi del 2014, il Pd è stato premiato rispetto agli
altri partiti ottenendo il favore di 549.196 contribuenti, la somma incassata è pur sempre irrisoria
nel portare al pareggio di bilancio e per continuare a esistere il partito ha bisogno di altri
finanziatori.
Di fronte a questo preoccupante stato di cose diventa inevitabile una considerazione. Le generazioni
di politici che si sono susseguite all’indomani della liquidazione del Pci hanno dimostrato di essersi
comportate alla maniera dei rampolli scialacquatori della vecchia borghesia dilapidando tutto il
patrimonio storico della sinistra: dalla consistenza elettorale al numero delle adesioni al partito,
dagli organi di stampa alle proprietà immobiliari. La famosa “ditta” tanto cara a Bersani è così
risultata in stato di fallimento.
45. La mancata rifondazione della sinistra
Quando Occhetto ha seppellito il Pci trasformandolo in “Quercia”, quella parte del partito che non
ha approvato il suo autoscioglimento ha dato vita a Rifondazione comunista. In questo nuovo
movimento sono confluite non solo le diverse componenti della sinistra interna al partito, cioè i
cossuttiani, parte degli ingraiani (escluso il loro leader) e gli ex Pdup, ma anche parecchi superstiti
della “nuova” sinistra. Proposito dichiarato di questi compagni era appunto la ricostruzione teorica,
politica e organizzativa del soggetto del cambiamento. Uno dei suoi protagonisti, Mario Cazzaniga,
giustificava così la nuova impresa: “La globalizzazione in atto ci spinge a ritornare a Marx, perché
ripropone in forme nuove la questione dell’unità del mercato mondiale e quindi della genesi della
nuova formazione economico-sociale nei punti alti dello sviluppo”.
Dai rifondatori era lecito dunque aspettarsi uno sforzo analitico, critico e autocritico, nonché
progettuale, ma così non è stato. E non poteva essere altrimenti. Infatti, nello stesso momento in cui
è maturata la decisione di raccogliere la bandiera del comunismo che Occhetto stava per gettare alle
ortiche, a prevalere tra le diverse componenti politiche che avevano proclamato la nascita del nuovo
163
soggetto è stato il rapporto di forza decretato dall’entità dei rispettivi schieramenti che vi aderivano,
non già la comune volontà di giungere a una sintesi superiore, cioè a una elaborazione collettiva al
riparo dai vecchi schemi. La nuova formazione è stata così edificata su categorie teoriche e politiche
ormai consunte, quelle stesse che sono state all’origine del fallimento del socialismo realizzato. Era
il caso di fare chiarezza sulle ragioni dell’implosione di quei regimi quale condizione per evitare gli
errori del passato e tracciare un nuovo itinerario. Oltretutto, di fronte all’offensiva del capitale che
si stava dispiegando sul piano globale attraverso un’egemonia che era insieme economica,
scientifica e culturale, appariva d’obbligo una rifondazione della teoria e delle strategie della
sinistra. A imporsi invece, sin dai primi passi del nuovo movimento, è stata la continuità. Anziché
guardare in avanti, i rifondatori hanno trovato più logico e più comodo volgere lo sguardo alle loro
spalle. Più che dei pionieri, si sono rivelati dei reduci.
Nel marzo ’99, Stefano Azzarà giustificava così l’imbarazzo di una parte del nuovo partito: “A otto
anni dalla sua nascita Prc manca della cosa più elementare ed urgente: un programma
fondamentale”.
Come ho già ricordato, nei primi anni ’90, Rifondazione vantava una ricca presenza nelle proprie
file di compagni di diversi orientamenti e di svariate militanze in organizzazioni sia della vecchia
che della “nuova” sinistra, e ciò costituiva a mio avviso un interessante patrimonio politico-
culturale che poneva il nascente partito nella condizione di rappresentare un vero e proprio
laboratorio. Portate a sintesi, quelle esperienze avrebbero potuto consentire di metter a punto una
nuova teoria rivoluzionaria, un modo nuovo di “far politica” e una nuova forma di organizzazione.
Purtroppo quell’occasione è stata sprecata e in assenza di un nuovo orizzonte è stato inevitabile che
prevalessero le vecchie logiche.
Ai primi del nuovo secolo, alcuni compagni scrivevano su “l’Ernesto”: “Nel documento conclusivo
dei lavori del Comitato politico di Rifondazione del settembre 2001 vi si legge la volontà della
definitiva archiviazione di tutta l’esperienza comunista del XX secolo. Esiste nel partito il proposito
di buttare in lavatrice la ‘macchie’ staliniste del più grande movimento rivoluzionario del secolo e
di chiudere una volta per tutte, senza neanche averla mai seriamente iniziata, la discussione nel
partito sul comunismo novecentesco ed il socialismo realizzato. La storia va studiata e capita…. È
più facile dare la colpa a Stalin che cercare di capire”.
A quel tempo Rifondazione aveva già desistito dall’intraprendere un itinerario d’innovazione e nella
sua linea politica prevalevano le ipoteche del passato, quando non addirittura le nostalgie. Un
comportamento identico ha caratterizzato tutte le altre piccole formazioni che erano il prodotto della
frammentazione di quel che restava della sinistra.
Le novità determinate dal processo di globalizzazione non hanno turbato più di tanto i gruppi
dirigenti di queste forze i quali hanno continuato a ragionare e a comportarsi alla vecchia maniera.
Eloquenti sono alcune loro prese di posizione.
“Condizione necessaria, ancorché non sufficiente, di una strategia alternativa alla
mondializzazione capitalistica è un recupero sia pure parziale di sovranità degli Stati nazionali, in
primo luogo in campo economico, con la difesa (o il ripristino) e la qualificazione di un forte
settore pubblico”.
“La costruzione dell’alternativa è nei processi di integrazione regionale, essi si basano sulla
riscoperta e la valorizzazione delle economie mondo, cioè dei legami storici esistenti fra i sistemi
produttivi, il soddisfacimento dei bisogni nelle singole aree, le correnti di scambio e le forme
istituzionali e culturali... Le meso-regioni oppongono i vantaggi cooperativi delle nazioni....gli
autori sono i gruppi imprenditoriali nazionali che non accettano il ruolo di borghesia compradora
e i lavoratori colpiti dalla marginalizzazione economica... gli attori sono le istituzioni di
cooperazione culturale, universitaria, economica e sociale meso-regionali”.
“Noi partiamo dalla convinzione che lo stato nazionale resta tuttora un luogo ed uno strumento
importante per portare avanti la lotta antimperialista nonché per costruire la solidarietà
internazionale delle forze di progresso”.
164
“La globalizzazione non può essere considerata come l’estinzione degli stati e delle economie
nazionali; siamo anzi di fronte a una politica del capitale che può essere messa in scacco
nell’ambito nazionale”.
“Rivendichiamo la nazionalizzazione delle maggiori aziende, sotto il controllo dei lavoratori”.
“Espropriare le banche, creare lavoro”.
“Una risposta alla globalizzazione può essere la cooperazione internazionale fra gli Stati nazione
al fine di porre sotto controllo banche e istituti finanziari in primo luogo. Non dunque uno Stato
mondiale, ma un ‘procedere insieme’ degli Stati nazionali. Gli Stati nazionali non devono più
competere l’un con l’altro, ma ridimensionare il potere delle imprese transnazionali”.
Nelle analisi di queste formazioni, il processo di globalizzazione non è stato interpretato come un
passaggio del capitalismo a una inedita fase della sua evoluzione che avrebbe comportato la messa
in crisi dello stesso modello sociale su cui poggiava, Stato compreso, pertanto l’esigenza di
procedere a un radicale rinnovamento delle loro strategie è stata sottovalutata. Esse hanno preferito
ascoltare Samir Amin il quale teorizzava che la globalizzazione avrebbe dovuto essere contrastata
attraverso “la costruzione di grandi unità regionali concepite come blocchi di resistenza capaci di
imporre una rinegoziazione dei termini”. L’esigenza di superare la statualità borghese e l’economia
politica non è stata avvertita o comunque non ha costituito motivo di riflessione e gli obiettivi della
socializzazione, della riappropriazione del “general intellect”, del superamento della politica sono
stati elusi.
E pure sul fronte dell’unificazione a livello internazionale delle strategie delle forze socialiste, quale
presupposto per una lotta efficace, l’impegno si è rivelato inadeguato. Se nei primi anni del nuovo
secolo la maggioranza dei 19 leader dei partiti di sinistra europei che erano sopravvissuti al
dissolvimento del socialismo reale, hanno sottoscritto l’atto di costituzione di European Left, poco
tempo dopo la sua fondazione, anziché imboccare un nuovo corso, si sono pronunciati contro la
presa di distanza dallo stalinismo. Anziché riproporsi il tema della rivoluzione in Occidente,
mettendo in campo una nuova e originale teoria del cambiamento e sperimentando una prassi
rivoluzionaria adeguata ai tempi della globalizzazione, hanno ripiegato sul déjà vu, chi trincerandosi
in difesa dei metodi sovietici, chi facendo riferimento all’esperienza cinese, chi assumendo come
esempio da imitare i regimi dei Castro o dei Chàvez, chi ancora riponendo le proprie speranze in
esperienze politiche come Syriza, Podemos e il nuovo Labour di Corbyn.
Dimostrando di non rendersi conto che il processo di unificazione del vecchio continente è un
passaggio obbligato per la realizzazione dello stesso socialismo, alcuni di questi partiti si sono posti
l’obiettivo dell’uscita dall’euro e dall’Unione europea, retrocedendo così consapevolmente o meno
su posizioni nazionaliste e legittimando certe istanze di quello schieramento di estrema destra,
xenofobo e fascista, che sta montando in ogni dove.
In occasione del voto negativo di Francia e Olanda alla Costituzione europea di dieci anni fa,
Giorgio Cremaschi ha sorprendentemente proclamato che il “no del mondo del lavoro all’Europa
liberista è un grande voto proletario”, mentre Marco Rizzo, segretario dei “Comunisti-sinistra
popolare”, ancora recentemente ha posto l’obiettivo dell’uscita dei comunisti dall’Unione europea
come discriminante per il rilancio dell’internazionalismo proletario.
Tra le file dei superstiti di sinistra sembra dunque esistere una grande confusione. Le ambiguità e le
incoerenze tra il proclamarsi rivoluzionario e il coltivare nostalgie per il passato sono state e
continuano a essere molte.
Oliviero Diliberto, per esempio, quand’era segretario del Pdci ha orgogliosamente dichiarato: “Nel
Pci il mio modello non era Berlinguer, ma Amendola… e sono rimasto amendoliano. Sono gli altri
a essere cambiati”. Precisando che Togliatti era il suo riferimento ideale, ha confessato di aver
“letto tutto di lui, come solo di Marx. I discorsi alla Costituente sono straordinari. I discorsi sulla
politica delle alleanze rappresentano tuttora la mia bussola politica”. Qualche tempo dopo,
dimostrando grande coerenza, ha voluto puntualizzare che del pantheon del Pdci fanno parte, in
modo esclusivo, anche il doctor House e George Clooney.
165
Lo stesso Marco Rizzo, segretario di Comunisti-Sinistra popolare, pare non aver le idee chiare.
Difatti, mentre nel 2008, in un’intervista al “Corriere della sera” sulle innovazioni a Cuba, ha
asserito che “si sa che l’essere umano è contrario al comunismo… può dirsi che il singolo
diminuisca il proprio lavoro e danneggi la collettività stessa. E’ comprensibile, no?... Il problema
dell’inefficienza nei Paesi socialisti c’è sempre stato… molto dipende dalla congiuntura
economica”, quattro anni dopo ha sostenuto che “il comunismo è l’unico antidoto al capitalismo”.
Ma non è certo il solo a far registrare perdite di memoria e incoerenze teoriche e comportamentali.
Niki Vendola, segretario di Sel, la cui retorica urta spesso con il buon senso, mentre ha sentenziato
che “i super ricchi devono andare al diavolo” è stato chiamato a rispondere davanti ai giudici per
supposte tresche imbastite con i padroni dell’Ilva.
Al consiglio del VII Municipio di Roma, uno dei capisaldi “rossi” della cintura a cavallo tra
Prenestina e Casilina, è stata approvata a maggioranza una mozione presentata da un compagno di
Rifondazione comunista (contrari i rappresentanti del Pd) in cui si è chiesto all’assessore comunale
alla scuola di valutare la possibilità di tornare a separare sugli scuolabus i bimbi rom dagli altri
bimbi.
Gli stessi compagni della redazione de “il manifesto”, che per decenni hanno combattuto la logica
capitalistica, di fronte alla voragine di debiti che ha minacciato la sopravvivenza del giornale, hanno
proceduto all’“aziendalizzazione” e incaricato l’ex finanziere e faccendiere Sergio Cusani,
coinvolto in “tangentopoli” nella vicenda Gardini, di stendere un piano di risanamento dei conti
economici. Il direttore Gabriele Polo ha spiegato che si è trattato di una scelta “sofferta, ma
necessaria” e che, a dir suo, sarebbe comunque giunta l’“ora di diventare grandi e abbandonare la
fase adolescenziale”.
La stessa sinistra sociale ha dato segni di incongruenza e di sbandamento.
La Lega delle cooperative da tempo ormai si comporta come un’azienda capitalistica e, in
Lombardia, ha disdetto il contratto integrativo e ai suoi lavoratori chiedendo più flessibilità, misure
contro l’assenteismo e una riduzione delle retribuzioni.
Dopo che, nella primavera del 2008, sul voto operaio alla Lega Nord alle elezioni politiche Giorgio
Cremaschi aveva sostenuto che “gli operai non sono di destra, sono rimasti di sinistra ma hanno
punito chi li ha traditi”, nel corso della lotta contro lo smantellamento dell’azienda Tosi di
Legnano, i dirigenti della Fiom sono scesi in piazza accanto al leader della Lega Matteo Salvini
dimenticando le sue invettive e quelle del suo movimento contro le Confederazioni sindacali e
ignorando che i loro indirizzi politici sono iperliberisti e ancora che le loro posizioni nei confronti
dei “diversi” e degli immigrati, nonché della stessa sinistra, sono un insulto al buon senso. Se, come
ha rilevato Maurizio Landini, “le parole più di sinistra in questo Paese le sento dire dal Papa”, è
anche perché il suo stesso sindacato si è prestato e si presta a simili ambigui atteggiamenti.
Non ci si deve dunque meravigliare se in occasione dei funerali di Carlo Giuliani, il giovane ucciso
dalla polizia a Genova durante una manifestazione no global, sulla sua bara anziché la bandiera
rossa sia stata riposta quella giallo-rossa della squadra di calcio di cui era tifoso. Il venir meno della
lucidità politica e culturale delle leadership di sinistra si traduce inevitabilmente in una caduta della
sua credibilità e della sua influenza sui soggetti sociali, collettivi e individuali, con un conseguente
decadimento della coscienza politica e sociale dell’intero Paese.
Ad alimentare lo stato di sfiducia e di confusione che è sotto i nostri occhi sono anche i continui e
frequenti scontri e le incomprensioni e divisioni che contraddistinguono storicamente i rapporti tra
le varie componenti della sinistra. E’ la storia ad insegnarci che il movimento operaio è risultato
vincente solo quanto ha saputo trovare un’intesa unitaria, mentre ha subito sconfitte ogni volta che
si è diviso e che al suo interno sono prevalse le contrapposizioni, le arroganze, le scomuniche. E’
davvero tanto difficile prendere atto che la mancanza di unità porta a una sola prospettiva, quella
cioè della sconfitta e dell’autodistruzione? Sembra che una tale verità venga largamente ignorata.
Anche a questo riguardo si potrebbero scrivere interi volumi.
166
Per chi si è proposto la rifondazione della sinistra l’esperienza storica avrebbe dovuto costituire
materia di riflessione e di insegnamento, invece si è preferito e si preferisce eludere e ignorare. E si
persiste nel ripetere gli stessi errori.
Erano trascorsi appena tre anni dalla nascita del partito di Rifondazione comunista che Armando
Cossutta defenestrava il segretario Sergio Garavini e, attraverso un patto faustiano, lo sostituiva con
Fausto Bertinotti. L’armonia tra le varie anime della nuova formazione veniva così compromessa e
il clima nel partito alterato dalle spinte competitive. Quattro anni dopo i rapporti tra il presidente e il
segretario del partito si sono fatti tesi fino al punto di portare a una nuova rottura: Bertinotti è
rimasto leader di Rifondazione, mentre Cossutta ha fondato un nuovo partito: Il Partito dei
comunisti italiani. Due anni dopo, il vecchio satrapo nostalgico di Stalin e del “compromesso
storico” ha sentenziato: “Quella di Bertinotti è una sinistra massimalista che non ha nulla a che
fare con la storia dei comunisti in Italia... è una sinistra infantile”.
Mentre più tardi, con la benedizione dello stesso Bertinotti, da Rifondazione se ne sono andati, tra
gli altri, Nichi Vendola, Franco Giordano, Gennaro Migliore, Alfonso Gianni, Piero Sansonetti e
Rina Gagliardi per dare vita a un nuovo partito. Dal canto suo il Partito dei comunisti italiani ha
espulso Marco Rizzo il quale a sua volta ha fondato Comunisti-Sinistra Popolare.
Insomma, quel che è rimasto della sinistra è risultato essere sempre più un campo di battaglia
dilaniato da faide e da divisioni.
Persino la redazione del quotidiano “il manifesto” a causa di incomprensioni e disaccordi è entrata
in crisi e si è frantumata. A dire addio a una delle esperienze politico-giornalistiche più apprezzate a
livello internazionale sono stati gli stessi fondatori Rossana Rossanda e Valentino Parlato, dopo che
anni prima a sbattere la porta era stato Luigi Pintor.
E non si può certo dire che meglio della sinistra italiana stia quella di altri paesi. A livello
internazionale in più occasioni si sono riuniti diversi partiti e movimenti comunisti per tentare
l’individuazione di un comune itinerario. Dalle convention, però, sono state sistematicamente
bandite tutte quelle formazioni che erano ritenute non sufficientemente rivoluzionarie; l’obiettivo
dell’unità è stato così vanificato.
Osservando con distacco e obiettività le vicissitudini delle formazioni neo comuniste,
si ricava l’impressione di essere ritornati ai famigerati anni ’20 e ’30 del Novecento, quando in
condizioni di illegalità e di emigrazione la sinistra, anche a causa delle lotte intestine, era dilaniata
da lacerazioni e rotture fino a ridursi a piccole sette nelle quali i rancori e i personalismi sono
divenuti mali endemici.
Andrebbe compiuta una seria riflessione sulle ragioni per cui nonostante l’impegno profuso dai
militanti, dopo la sparizione del Pci, nelle campagne elettorali le formazioni di sinistra (escluse
quelle di centro-sinistra) non sono riuscite ad andare oltre le percentuali a una sola cifra; sul perché
l’elettorato comunista, in quanto tale, non vanta più una sua rappresentanza formale nelle istituzioni
a livello regionale, nazionale ed europeo; sui motivi per cui la stampa comunista è ormai da tempo
in stato comatoso; e ancora sul progressivo calo delle adesioni militanti e sull’indifferenza
dimostrata dalle giovani generazioni verso la politica e i partiti. Ma simili problematiche non
trovano adeguato spazio nell’agenda dei gruppi dirigenti di queste forze. La loro priorità sembra
essere quella di inventare nuovi simboli, nuove sigle, nuovi soggetti politici per perpetuare la
conservazione del loro stato di privilegio e non già a suscitare protagonismo sociale. Mentre il
popolo di sinistra, quello che continua ancora a recarsi alle urne, si accontenta di delegare alle sue
avanguardie la costruzione di un’alternativa senza avvertire che essa si rivela sempre più
improbabile proprio a causa del persistere della delega e senza sentire il bisogno e l’urgenza di una
radicale svolta di indirizzi.
46. Il partito ridotto a un’arena degli ambiziosi
In sede di ricostruzione storica anche un partito deve essere giudicato non solo in rapporto alle sue
motivazioni e alle sue dichiarate intenzioni, ma anche e soprattutto in base ai mutamenti che esso
167
provoca nella realtà sociale e politica, alle esigenze che riesce a interpretare ed esprimere e al grado
di consenso che riscuote nel tessuto sociale.
Considerata l’incapacità dei partiti odierni di dare soluzione ai problemi che la società ha di fronte a
sé e di rispondere alle aspirazioni e alle aspettative dei governati, viene spontaneo riconoscere la
giustezza di taluni non lusinghieri giudizi che alcuni critici storici dei partiti hanno formulato ai
primi del secolo scorso.
Robert Michels, primo studioso dei partiti di massa, ha profetizzato che, indipendentemente
dall’ideologia sposata, l’obiettivo di un partito sarebbe stato inevitabilmente la conservazione della
propria organizzazione e per questa ragione avrebbe manifestato tendenze autoritarie e oligarchiche.
Egli ha individuato nel modo di essere di ogni formazione politica quei sintomi del processo di
degenerazione che oggi sono divenuti palesi, precisamente: l’inamovibilità dei capi, le sempre più
rare consultazioni della base, le decisioni prese nell’ambito di una stretta cerchia di dirigenti, la
concentrazione in poche mani del controllo della stampa e delle finanze, la cooptazione come
metodo principale nella formazione dei gruppi dirigenti. Al di là dei fini e dei programmi
annunciati, gli stessi partiti socialisti si sarebbero, a suo dire, rivelati macchine dominate da un
processo di crescente burocratizzazione.
Un altro uomo di pensiero, antisocialista, Max Nordau, ha sostenuto che i partiti non si
costituiscono che sotto il predominio di un’ambizione e di un egoismo personali, precisamente sotto
la forza attraente di un uomo illustre e accentratore.
Il sociologo Max Weber ha attribuito loro la caratteristica di essere soprattutto dei distributori di
cariche e di uffici.
Se si osserva con spirito distaccato e critico il panorama politico odierno, non si può che dare atto a
questi uomini di pensiero di aver visto giusto, almeno per quanto riguarda alcuni ambiti operativi
delle formazioni politiche.
Il partito, come è risaputo, ha incominciato a configurarsi come principale soggetto della politica ai
tempi della rivoluzione francese attraverso l’esperienza dei club giacobini. All’inizio era
prevalentemente un movimento di opinione incentrato su alcune forti personalità, poi col tempo si è
allargato divenendo un soggetto di massa.
Il primo tentativo di costruire un partito del proletariato è avvenuto verso la metà dell’Ottocento,
quando è stata fondata la Lega dei comunisti che, essendo stata stroncata dalle persecuzioni, ha
avuto vita breve.
Il primo partito di sinistra nel senso moderno è stato fondato dai socialdemocratici tedeschi a
Eisenach nel 1869. Da noi le prime organizzazioni politiche del movimento operaio hanno visto la
luce agli inizi degli anni ’80 dell’Ottocento, con la costituzione del Partito rivoluzionario di
Romagna e del Partito operaio milanese, famoso per essere stato definito “partito delle mani
callose”. Da queste due formazioni, nel ‘92, ha preso corpo il Partito socialista dei lavoratori
italiani.
E’ appunto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo scorso, sotto la spinta della rivoluzione
industriale, dell’urbanizzazione, delle emergenti ideologie (socialista, nazionalista, cristiano-
sociale), dell’estensione del suffragio universale e dello sviluppo del sindacalismo, che si è venuto a
formare il sistema dei partiti politici di massa.
Negli anni precedenti e successivi alla prima guerra mondiale, il movimento operaio ha vissuto una
profonda lacerazione che ha portato alla sua divisione in tre correnti: quella socialdemocratica,
quella socialista e quella comunista.
Durante il ventennio fascista, con la soppressione della democrazia e l’affermazione della dittatura,
in Italia e non solo qui, i partiti democratici sono stati costretti a vivere in clandestinità riducendosi
al lumicino e hanno potuto riprendere visibilità e vitalità solo dopo la Liberazione. Le forze di
sinistra, anziché ricomporsi in un unico soggetto, sono rimaste divise. Dapprima frammentate in te
partiti: il Pci, il Psi e Psdi, nei decenni successivi a queste tre entità se ne sono aggiunte altre dando
così corso a una frammentazione che è continuata anche dopo la crisi del vecchio sistema dei partiti
168
e la quale è stata accompagnata da una vera e propria metamorfosi non solo politica ma anche
d’identità.
Nel corso della storia del movimento operaio sono stati molti i politici e gli osservatori che, di
fronte alla crisi dei partiti, hanno lamentato l’assenza nell’elaborazione dei padri del socialismo
scientifico di una teoria del partito. In effetti, Marx ed Engels hanno scritto poco sul partito e, come
si sa, a riempire questo vuoto ci ha pensato Lenin.
Pretendere però dai due teorici tedeschi una dottrina sull’organizzazione politica del proletariato,
significa non aver compreso il loro pensiero e i loro suggerimenti. Essi non si sono soffermati su
questo aspetto non già per negligenza o per sottovalutazione, ma perchè la prospettiva che hanno
tracciato contempla il superamento dell’economia politica attraverso la socializzazione sia
dell’economia che della politica, prevede l’estinzione dello Stato attraverso la realizzazione degli
istituti di democrazia diretta e un protagonismo sociale a tutti i livelli. Il suffragio universale e la
delega sono stati da loro concepiti come momenti irrinunciabili, ma transitori e il partito è stato
vissuto come strumento e non come fine a se stesso.
A interpretare in modo distorto il pensiero marx-engelsiano non sono dunque stati solo gli esponenti
della 2^ Internazionale i quali, nel far propria una concezione evolutiva del passaggio dal
capitalismo al socialismo, hanno sminuito la funzione del partito, ma anche coloro i quali, al
contrario, hanno enfatizzato il suo ruolo finendo per trasformarlo in un feticcio. Questi ultimi hanno
dimenticato che a costituire il volano del processo di cambiamento non è la delega, ma il
protagonismo cosciente di massa e che l’obiettivo di un’avanguardia rivoluzionaria deve essere
quello di elevare al suo livello le masse e quindi operare per il progressivo superamento di se stessa,
fino a rendersi superflua e inutile.
Nella Russia dei primi del Novecento, Lenin non poteva oggettivamente mettere in pratica gli
indirizzi di Marx e di Engels. Egli si è trovato nella condizione di dover “introdurre nel proletariato
la coscienza della sua situazione e della sua missione”. Ha perciò dato vita a un partito di
rivoluzionari di professione, costruito a partire dal vertice verso la base, dai congressi alle singole
organizzazioni territoriali, impegnato a fondere la teoria e la coscienza socialista con il movimento
spontaneo degli operai. Alla massa degli iscritti ha chiesto una delega di fiducia, un’adesione che in
molti casi era acritica e incondizionata, e per governare il partito ha introdotto il “centralismo
democratico” che in sostanza ha significato consegnare la direzione del partito a delle élite.
Georgij V. Plechanov ha sostenuto che Lenin “non ha capito né Kautsky, né Engels, né Marx, cioè
non ha capito il socialismo scientifico per quel che riguarda il rapporto tra situazione oggettiva e
intervento soggettivo”. A suo dire la tesi leniniana di una “coscienza esterna” avrebbe riconsegnato
agli intellettuali il compito storico della rivoluzione.
Anche Rosa Luxemburg ha criticato la teoria di Lenin e il suo “ultracentrismo”. Sta di fatto, però,
che se la rivoluzione d’ottobre ha avuto svolgimento è proprio grazie alle scelte compiute dal capo
dei bolscevichi.
L’aspetto su cui riflettere, a mio avviso, non è tanto quello di stabilire se Lenin ha fatto bene oppure
male a imporre al movimento russo la sua teoria. Ciò su cui meditare è l’assunzione acritica da parte
di tutti i partiti comunisti della teoria leniniana del partito e l’oblio invece delle indicazioni
marxiane che individuano nel superamento della politica la chiave di volta del processo
rivoluzionario.
Non c’è alcun dubbio che anche nell’epoca del capitalismo maturo l’unità della classe e la
coscienza rivoluzionaria sono degli obiettivi che non possono essere raggiunti senza la mediazione
di un’organizzazione politica. Senza il partito non si realizza, neanche nell’epoca della
globalizzazione, l’unità tra teoria e pratica e le classi subalterne non riescono a rendersi autonome e
a imporre la loro egemonia.
Il problema sta nei propositi e nelle finalità del partito.
Non mi risulta che ci sia un solo statuto dei partiti della sinistra oggi esistenti in cui sia affermato
l’obiettivo del proprio scioglimento nella società civile attraverso un processo di graduale
trasferimento alla stessa del potere di autogovernarsi, mettendola in condizioni di esercitarlo.
169
Qualcuno potrebbe obiettare che un tale intendimento è implicito nella stessa ragion d’essere di una
formazione politica di sinistra. E’ però da osservare che per una tale formazione anche la sua natura
democratica è implicita nella sua stessa costituzione, e perciò è data per scontata, eppure mentre alle
forme, ai tempi e ai modi del suo esercizio vengono dedicate un’infinità di prescrizioni, per il suo
essere strumento provvisorio e non fine a se stesso non viene fatto alcun cenno. Così come non ho
mai assistito a un discorso pubblico di un leader di queste formazioni in cui sia stato affrontato un
tale argomento.
Insomma, la delega è purtroppo parte del dna delle forze politiche che abbiamo conosciuto e che
conosciamo e questo significa che la socializzazione del potere, oltre che dell’economia, è un
obiettivo che è appartenuto esclusivamente ai padri del socialismo scientifico e a qualche altro
dirigente del movimento operaio che, proprio per averlo riproposto, ha finito per essere considerato
di fatto un eretico. Un esempio classico è Antonio Gramsci.
Va riconosciuto che è nella natura del partito il suo tendere a farsi Stato. Un partito che non si
proponga la conquista del governo, del potere, non è un partito politico. A differenza dei partiti
borghesi, però, quello di sinistra deve proporsi una propria originale forma di statualità, quella cioè
che fonda sugli istituti di democrazia diretta e che persegue la strategia dei consigli. Ma anche
questo è un argomento che è sparito dall’agenda delle formazioni di sinistra odierne o che
comunque riscuote scarsa considerazione.
Le stesse formazioni d’avanguardia, mentre predicano la rivoluzione, si appiattiscono nelle
istituzioni rappresentative (almeno quando riescono ad entrarci) e cavalcano la delega.
Non c’è dubbio che anche questo ripiegamento teorico-strategico è dovuto al fatto che pure la
politica è stata investita in pieno dai cambiamenti che l’evoluzione del capitalismo ha determinato.
Un tempo i partiti erano tra i principali soggetti della formazione del senso comune e della
coscienza sociale, mentre oggi questo ruolo lo svolgono i mass-media i quali semplificano la
complessità e condizionano pesantemente gli orientamenti e le volontà degli individui. Gli stessi
politici sono prigionieri dei nuovi mezzi di comunicazione e la loro autonomia culturale, nonché la
loro stessa azione ne risultano mortificate.
Da luoghi di discussione e di confronto sui grandi temi, e quindi di formazione delle coscienze, i
partiti si sono trasformati in macchine elettorali e la mancanza di democrazia nella loro gestione li
ha resi dei carrozzoni burocratici. I loro gruppi dirigenti sono diventati, come diceva Gramsci, “una
consorteria angusta che tende a perpetuare i suoi gretti privilegi”. Anziché aumentare la capacità
di controllo degli elettori sugli eletti e sui partiti è cresciuto a dismisura il controllo del partito sugli
eletti, al punto che parlamentari e consiglieri sono di fatto nominati dai suoi vertici. Il burocratismo
che ha investito le organizzazioni politiche tende a rendere autonomo l’apparato del potere statale e
del partito e ad innalzarlo al di sopra della società, trasformando i dirigenti in amministratori e i
militanti in esecutori di direttive, anziché in soggetti consapevoli e protagonisti.
Il consenso, che dovrebbe essere costruito attraverso un’azione culturale ed educativa, è sempre più
il prodotto della politica spettacolo e nello stesso partito del cambiamento, mentre dovrebbe
cominciare a vivere una nuova società razionale e solidale, crescono la competizione, i dissidi e le
divisioni. E il partito diventa una fabbrica di chiacchiere e, come si sa, le chiacchiere non fanno la
storia.
Il male della sinistra è di non aver reagito e di non reagire con determinazione a questi processi
degenerativi.
47. I miei “buchi neri”
Nel corso della mia militanza politica e della mia attività di ricercatore sociale ho avuto modo di
conoscere da vicino centinaia e centinaia di dirigenti politici di alto grado. Tra questi, compagni e
non compagni, parecchi già erano o sono poi diventati dei personaggi illustri: segretari nazionali di
partito, parlamentari italiani ed europei, ministri, governatori di regioni, presidenti e amministratori
di enti d’importanza nazionale, segretari nazionali e regionali di organizzazioni sindacali, del
170
movimento cooperativo e ricreativo, consiglieri di regione e di grandi città. Ho pure avuto rapporti
con uomini e donne di cultura e di scienza, docenti universitari, scrittori, giornalisti della carta
stampata e della tv e ho persino interloquito con dei prelati.
Con alcune di queste personalità ho condiviso anche momenti di impegno politico e sociale. Ho
lavorato gomito a gomito con compagni che nel corso della loro carriera hanno raggiunto i massimi
livelli della responsabilità politica e amministrativa e della notorietà occupando ruoli di grande
importanza e prestigio.
Si è trattato di conoscenze e di rapporti che non solo mi hanno arricchito politicamente e
culturalmente, ma mi hanno offerto la possibilità di scoprire virtù e debolezze della classe dirigente,
in particolare di quella di sinistra alla quale ero e sono maggiormente interessato. E la varietà di
relazioni che ho intessuto, mi ha consentito di comprendere alcune delle ragioni per cui quel mondo
è stato investito dalla crisi che oggi lo tormenta.
Le note contenute in questo saggio sono appunto anche un’esposizione delle osservazioni che ho
maturato sul comportamento dei politici nel corso della mia esperienza di militante di sinistra.
Il mio racconto non è dunque una digressione rispetto alle problematiche che riguardano la deriva e
le prospettive incerte della sinistra, bensì parte organica della mia riflessione sui motivi non solo
strutturali ma anche soggettivi del suo degrado.
Prima di esprimere le mie valutazioni e i miei giudizi sui limiti e sui vizi di alcuni esponenti del
mondo della sinistra che ho avuto modo di conoscere, ritengo utile premettere una nota critica a
riguardo del mio stesso comportamento negli anni della militanza attiva e del mio modo di pensare
e di agire.
Come si evince dalle annotazioni che ho sin qui esposto, al tempo in cui ho compiuto la scelta di
sposare la causa del movimento operaio, il “fare” politica, il partito, la sinistra, la stessa militanza
nel senso comune delle persone avevano un’accezione diversa da quella che si ha oggi.
Se a far emergere in me lo spirito di rivolta sono state le ingiustizie sociali che ho toccato con mano,
a formare la mia coscienza politica è stata la lettura dei classici del socialismo scientifico e insieme
l’esempio di vita di parecchi compagni che ho conosciuto, soprattutto di militanti di base, la cui
dedizione alla causa e la determinazione che essi avevano nell’affrontare le avversità della vita mi
sono stati di grande insegnamento.
Essere di sinistra ha significato per me avere la passione di operare per il bene comune, per la
giustizia sociale, lottare contro le disuguaglianze.“Fare politica” ha voluto dire assicurare un
servizio alla comunità, in specie ai ceti più deboli e subalterni. Essere compagni ha comportato per
me essere coerente con il significato etimologico del termine (dal latino “cum panis”, cioè mangiare
lo stesso pane), mentre il partito, la sezione hanno rappresentato i luoghi in cui prendevano corpo in
me lo spirito comunitario e la solidarietà. La militanza significava essere parte del progetto di
cambiamento in senso progressista e universalista e comportava il rifiuto del conformismo e la
critica dello stato di cose esistente.
In un clima in cui, anche nelle file del movimento operaio, purtroppo, erano diffusi il culto della
personalità e l’adulazione dei potenti e dei vincenti, ho privilegiato gli insegnamenti dei Marx, dei
Gramsci, delle Luxemburg, dei “Che” Guevara, cioè di coloro che la storia ha decretato come
sconfitti, come non vincenti dal punto di vista della conquista del potere, perché era nei loro
pensieri e nei loro coerenti comportamenti che intravedevo il giusto modo di essere comunista.
Ad affascinarmi sono stati quei personaggi che hanno vissuto in modo coerente con le scelte
compiute in campo politico e ideale e che alle organizzazioni cui sono appartenuti hanno dato tutto
se stessi senza chiedere nulla in cambio.
Uno di questi uomini eccezionali che mi è stato d’esempio a partire dal tempo in cui sono diventato
un militante a tempo pieno del Pci, nonché negli anni seguenti, è Wilhelm Wolff, un amico di
Lassalle, di Marx e di Engels e del quale Franz Mehering ha scritto: “Apparteneva a quelle nobili
nature che, secondo la parola del poeta, pagano di persona; il suo carattere saldo quanto una
quercia, la sua fedeltà incorruttibile, la sua severa coscienziosità, il suo inalterabile disinteresse, la
sua tranquilla modestia facevano di lui un campione di lottatore rivoluzionario e spiegavano la
171
profonda stima con cui, a parte tutto l’amore e tutto l’odio, solevano parlare di lui sia i suoi amici
politici che i suoi nemici politici”.
Più avanti negli anni, ho avuto rapporti con parecchi compagni dalla personalità di quel genere. Uno
di loro mi è rimasto impresso nella memoria per la sua generosità e per il suo impegno nel difendere
i poveri e i disperati: si tratta dell’avvocato Sergio Spazzali, morto prematuramente in esilio dopo
essere stato condannato alla galera dalla giustizia italiana. Un giorno mi sono recato nel suo ufficio
e ho scoperto che tutti i suoi modesti averi erano stati ipotecati per morosità (compresa la scrivania
su cui lavorava). Egli ha sempre difeso compagni e non compagni senza mai chiedere un soldo per
la parcella.
Altra figura indimenticabile di compagno, che ovviamente non ho conosciuto di persona ma che ho
profondamente ammirato, è quella dello spagnolo Gerardo Iglesias. Nell’82, è stato eletto segretario
del Partito comunista succedendo a Santiago Carrillo. Dopo sei anni (ne aveva 44) concluso il suo
mandato, rinunciando a qualsiasi soluzione di privilegio, è tornato a fare il suo vecchio mestiere: il
minatore nella regione natale delle Asturie. “E’ l’unico modo in cui posso guadagnarmi
degnamente la vita”, ebbe a dichiarare, precisando che aveva preso quella decisione “per ritrovare
l’autenticità personale che quasi avevo del tutto perso” nei corridoi del potere madrileno. “La vita
politica è corrotta dappertutto… per me è stata un’esperienza tremenda”.
Mi sono chiesto spesse volte quanti dei politici di sinistra possono vantare tanto rigore morale e
avere tanto coraggio da ritornare a essere quelli che erano prima di conoscere il successo.
Ebbene, io sono cresciuto politicamente all’ombra di questi compagni, di questi insegnamenti,
nutrendomi della passione politica che essi mi hanno trasmesso, del loro spirito umanitario, della
loro sete di sapere, del loro rigore morale.
Quando mi capitava di scambiare con Franco Petenzi questi miei sentimenti, egli diceva di
considerarmi un moralista, eppure io ero orgoglioso di pensarla in quel modo. A essermi maestri,
del resto, erano proprio anche quegli stessi militanti operai come lui che non si lasciavano
inquadrare negli stereotipi dell’obbedienza e della idiozia del lavoro comandato, e che per difendere
gli interessi della classe cui appartenevano erano disposti a qualsiasi sacrifico e alla rinuncia di ogni
beneficio personale.
C’è chi rimprovera agli ex e ai post-comunisti di non aver ancora consegnato alla storia quel
“complesso dei migliori” che sarebbe una della cause profonde della crisi del Pd. Una tale
presunzione di diversità – sentenziano questi saccenti – avrebbe reso la sinistra distante dai
problemi e dalle aspirazioni di una larga fetta di italiani; e secondo un sondaggio pubblicato dal
“Sole 24 Ore”, perfino dai problemi e dalle aspirazioni degli operai. Simili teorie non sono altro che
panzane di prezzolati cavalier serventi del capitale i quali, oltre tutto, vengono smentiti da qualche
loro capoccia che non disdegna confessare l’ammirazione che ha avuto per i suoi avversari. Nel
2005, è stato lo stesso Cesare Romiti a rendere pubblica la seguente testimonianza: “Con molti del
Pci ho avuto scontri violenti, ma ho dovuto riconoscere comportamenti leali e coerenti. Spesso
erano uomini non soltanto da rispettare, ma forse addirittura migliori di altri”.
E nessuno è in condizione di mettere in dubbio questa verità.
Il ruolo che ho avuto nelle file della sinistra è stato modestissimo. Non solo sono appartenuto alle
espressioni minoritarie del movimento, ma nei confronti delle dirigenze di queste stesse formazioni
ho spesso assunto posizioni difformi e critiche.
A differenza di tanti miei compagni che, in cambio di ruoli più gratificanti, alla coerenza hanno
preferito la discontinuità, ho cercato testardamente di restare fedele alla scelta di vita che ho
compiuto nei primi anni ’60 e di mantenere una costanza di principi e di propositi, ben attento a non
scadere nel settarismo e nell’integralismo.
Lungi da me è sempre stata la nostalgia per il passato del movimento operaio e socialista.
Da quando ho imparato a leggere criticamente la sua storia, ho condannato gli orrori dei gulag e ho
detestato il conformismo del socialismo reale, le sue discriminazioni verso i dissidenti e la
persecuzione di chi veniva considerato eretico.
172
Ogni qualvolta che ho rotto con l’ortodossia, ho dovuto sopportare mortificazioni ed emarginazioni,
e nel difendere le mie opinioni mi sono procurato inimicizie e isolamento. Sono stato inviso a molti
e ogni volta che mi è capitato di subire torti e ingiustizie, ho sempre reagito guardando avanti
consapevole che, come un giorno ebbe ad affermare Jurgen Habermas, “chi si sporge dal finestrino
del treno non deve lamentarsi del vento”. E io controvento ci sono andato più volte e sempre con
piena consapevolezza delle conseguenze, anche se a volte mi è capitato di mal sopportarle.
A differenza di altri compagni, non ho mai sognato la luna, ma nel mio modesto ambito mi sono
battuto con realismo per conseguire l’emancipazione delle classi subalterne e al tempo stesso il
progresso di tutta quanta l’umanità, compresa quella classe contro i cui privilegi ed egoismi mi sono
battuto. Ho considerato miei avversari solamente i cultori della società capitalistica e ho detestato i
saccenti e gli stolti, mentre ho assunto tutti gli altri come possibili interlocutori nella lotta per il
cambiamento.
Purtroppo però, nonostante i miei propositi, ho vissuto il condizionamento dei tempi e degli schemi
del mondo in cui ero inserito e ho commesso anch’io molti errori e del mio agire politico non sono
per nulla soddisfatto. Ho spesso il rammarico per i miei cedimenti e per le mie debolezze, in
particolare per la mia insufficiente capacità di contestare il sistema, ma anche le incoerenze dei miei
compagni. Ancor oggi mi sento addosso la responsabilità di non aver agito sempre con
determinazione e temperanza e di non aver riparato per tempo a taluni errori che ho compiuto.
Ripassando in rassegna la mia esperienza politica, oltre a costatare qualche motivo di soddisfazione,
mi sento soprattutto indotto a far i conti con certi miei comportamenti sbagliati e fuori luogo, in
particolare con i miei fallimenti.
Ai fini della chiarezza, vale la pena che ne elenchi alcuni.
Avrei dovuto essere più determinato nel portare avanti la battaglia sul fronte della sperimentazione
di processi di riconversione economica in alcune situazioni di crisi aziendali appartenenti ai settori
metalmeccanico, elettronico, tessile-abbigliamento e alimentare nelle quali mi sono trovato
coinvolto. In alcune di queste esperienze vi erano le condizioni per avviare una riflessione
sull’appropriazione del “general intellect” e per sollecitare il coinvolgimento di tecnici ed esperti
del settore, del mondo cooperativo, nonché dei sindacati in un processo di sperimentazione, ma non
ho avuto il coraggio necessario per sfidare il conservatorismo dominante e il timore del “nuovo”
che erano diffusi nelle stesse avanguardie della classe operaia.
Sul fronte della riconversione ecologica dell’economia, oggetto di appassionata discussione negli
ambienti intellettuali, non sono riuscito a produrre le necessarie idee per trasferire questa strategia
dal piano teorico alla prassi quotidiana.
A riguardo del graduale superamento degli istituti di democrazia rappresentativa e dell’espansione
delle forme di democrazia diretta, non sono riuscito ad andare oltre la difesa dei consigli di fabbrica
e di zona, dei comitati di quartiere e dei consigli scolastici già in essere. Vi era la necessità di
condurre un’energica azione di denuncia del ruolo della delega ed estendere a nuovi livelli sociali il
protagonismo, ma io non ho saputo trovare il modo di spingere il movimento sul terreno della
ricerca e della sperimentazione di esperienze più avanzate. Mi sono accontentato dei positivi
risultati che un uso più accorto della delega mi ha consentito di ottenere, ma non ho avuto la
capacità di determinare un corso diverso da quello che era in atto. Ai miei stessi collaboratori non
sono riuscito a far comprendere l’importanza dell’agire autonomamente e di non essere secondi a
nessuno nel valutare e giudicare gli uomini e gli avvenimenti.
Considerate le numerose imputazioni per diffamazione che ho collezionato, nessuno può
rimproverarmi di aver lesinato nel denunciare i casi di malgoverno e di malasanità di cui sono
venuto a conoscenza, ma non posso certo vantarmi di avere fatto tutto il possibile per smascherare
truffe e abusi di potere e spesse volte, riflettendo sulle esperienze compiute, mi dolgo di non essere
stato ancor più inflessibile nel combattere i profittatori e i corrotti.
Nel denunciare e contrastare il fenomeno leghista non sono riuscito ad essere sufficientemente
convincente nei confronti dei miei stessi compagni e ho sopportato senza reagire adeguatamente che
attorno a me venisse costruito una sorta di cordone inibitorio. Mi sono dato troppo poco da fare per
173
conseguire l’obiettivo dell’istituzione di osservatori in grado di monitorare l’evoluzione del
fenomeno e, scoraggiato, ho abbandonato troppo presto il terreno di lotta.
Sulla questione delle migrazioni avrei dovuto dare continuità al mio lavoro di ricerca e di
elaborazione politica sia continuando a seguire i nostri emigrati all’estero sia predisponendomi a
gestire quell’inversione di tendenza che si è registrata tra la fine degli anni ’70 e l’inizio di quelli
’80 del secolo scorso (calo del numero degli emigrati e aumento della presenza nel nostro Paese di
immigrati dai paesi poveri e dall’Est europeo) la quale ha dato luogo all’emersione nel tessuto
sociale di tendenze xenofobe e razziste.
Credo altresì di aver gestito sotto tono, anche se i tempi non erano per nulla propizi per la
realizzazione degli obiettivi che mi proponevo, il mandato avuto alla fine degli anni ’80 di fare
formazione politica nel Pci, poi nel Pds. Avrei dovuto osare di più, per esempio sfidare,
contrastandole, le manovre trasformistiche dei gruppi dirigenti di quelle formazioni mettendo in
chiaro le contraddizioni tra le sue radici storiche, i postulati del socialismo scientifico e la deriva
riformistica che ne sarebbe scaturita. Ho subito e me ne sono andato. Forse dovevo rendermi conto
prima o forse non avrei dovuto rientrare nel vecchio partito quando si sciolse il Pdup. La stessa
debolezza d’intenti, però, l’ho accusata anche durante la breve militanza in Rifondazione
allorquando le condizioni soggettive dei militanti erano sicuramente migliori rispetto alle sensibilità
dei pidiessini.
E prima ancora, ho sbagliato nel non oppormi con forza all’istituzionalizzazione del gruppo del
“manifesto” il quale, anziché costituire una nuova forma di avanguardia del movimento, ha
preferito ripercorrere la strada del tradizionalismo politico.
Soprattutto, mi dolgo di avere dedicato troppo poco tempo allo studio della scienza politica e alla
storia dell’umanità.
Chissà quante altre esperienze negative ho compiuto durante i miei oltre trent’anni di militanza
politica attiva! Con il tempo sono evidentemente sparite dalla mia memoria.
Una vicenda che non ho mai dimenticato e che spesso ha costituito motivo di vergogna per
l’incoerenza che ho dimostrato, è stata l’emarginazione dal gruppo del “manifesto” di Luciano
Ongaro. A quel tempo ero coordinatore regionale del movimento e sono stato sollecitato dai
compagni della segreteria di Bergamo ad intervenire d’autorità per impedire che Luciano
continuasse a opporsi alle direttive del partito. A quel tempo a dirigere il gruppo bergamasco era
Silvio Rocchi, finito poi nell’area del centro-destra, il quale era ossessionato dalla minaccia che in
seno al movimento si costituisse una frazione. Ho presenziato a una riunione in cui la maggioranza
ha deciso l’allontanamento di Ongaro e ho finito per coprire quel bizzarro e iniquo provvedimento,
decisamente indegno per una formazione come quella del “manifesto” che aveva fatto propria la
causa dei dissidenti dei Paesi del socialismo reale.
Il bilancio per nulla soddisfacente della mia esperienza, però, non solo non mi impedisce di
esprimere un giudizio sui vizi della politica e dei suoi attori, ma addirittura mi stimola ancor di più a
farlo giacché considero gli stessi miei contraddittori comportamenti una delle concause della crisi
che la sinistra sta vivendo.
48. La tara dell’opportunismo
A dire di molti commentatori politici, a minacciare la democrazia oggi sarebbe soprattutto il
populismo. Si tratta a mio avviso di una diagnosi semplicistica perché prescinde da una seria analisi
della crisi della rappresentanza e tralascia di fare i conti con le cause che provocano la sfiducia dei
cittadini nella politica e nello Stato.
Il populismo di oggi ha una natura diversa rispetto al passato. Il movimento populista russo, che si è
sviluppato nella seconda metà del secolo 19°, aveva una matrice ideologica di sinistra e si
proponeva la realizzazione di una società socialista, mentre quello odierno, che trova diffusione in
molte realtà del globo compresa la democratica Europa, si ispira ai valori della destra politica,
anche quando è personificato da sedicenti leader di sinistra; esso presume la riduzione del popolo a
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audience. Dal populista la democrazia rappresentativa viene demonizzata e in nome di una falsa
democrazia diretta e di un vincolo più stretto e più diretto tra governati e governanti, vengono
perseguiti la personalizzazione del potere e il plebiscitarismo.
Una testimonianza eloquente di populismo moderno è costituita dal berlusconismo.
Il populismo di oggi è indubbiamente un prodotto del processo di globalizzazione che ha messo in
crisi non solo il potere dello Stato e gli istituti di democrazia rappresentativa, ma anche la scala di
valori su cui si è realizzata l’evoluzione del sistema borghese. Al tempo stesso, però, è anche frutto
della degenerazione della politica.
Il populismo dunque, sia quello antico che quello odierno, rinnega non solo Marx e la democrazia
socialista, ma lo stesso Tocqueville e il pensiero democratico borghese. E su questo aspetto
andrebbero compiute molte riflessioni.
Quel che a me preme far notare è che la sinistra ha subito e sta subendo passivamente
quest’ideologia dando segno di non avere il coraggio di compiere un’analisi approfondita del
fenomeno e di non avere la capacità di affrontarlo mettendo in campo un’alternativa.
Fino a qualche tempo fa, nell’esprimere le sue idee, l’esponente politico sentiva il bisogno di
sottoporle al vaglio degli aderenti al suo partito, oltre che dell’elettorato, suscitando un confronto
serrato e, prima di tradurle in programma e in azione, le aggiustava e perfezionava in base alle
critiche e ai contributi propositivi ricevuti. Era questa una pratica irrinunciabile e il partito serviva
allo scopo. Oggi, invece, l’uomo politico appare come il “padrone” del partito, fa di tutto per
risultare compiacente ai suoi fans e ai suoi elettori, interpretando le loro esigenze e i loro desideri
tramite il ricorso ai sondaggi; e di fronte a scelte che appaiono necessarie e improrogabili evita con
scrupolo di apparire impopolare. Il contributo che richiede ai suoi sostenitori e al popolo è
esclusivamente quello di pronunciare un “sì” o un “no” di approvazione o meno delle sue
proposizioni. Per questo i partiti moderni hanno sempre meno bisogno di istruire congressi e di
organizzare discussioni nelle quali vengano sollecitati la creatività e lo spirito critico dei propri
aderenti.
Al vecchio politico pensante è in sostanza subentrato il politico pragmatico il quale tende a ridurre
tutto alla sfera utilitaristica e a conseguire un effetto immediato. In quest’ottica la manipolazione
dell’elettorato per il conseguimento del dominio a tutti i costi si rivela una pratica irrinunciabile.
Pertanto la degradazione del popolo a massa anonima non deve suscitare meraviglia essendo una
delle condizioni dell’odierno “far politica”.
Come già alla fine degli anni ’60 del secolo scorso Karel Kosik sosteneva in “La nostra crisi
attuale”, “la coscienza, la dignità umana, il senso della verità e della giustizia, l’onore, il decoro, il
coraggio sono una zavorra non necessaria, ingombrante nella caccia al benessere reale o
presunto” e questo vale sia per il detentore che per il contendente del potere.
Se si tiene a mente tutto questo, si comprende il perché oggi la politica appare come un mondo di
“nani” la cui diffusa presenza consente a “nani-giganti” di primeggiare. In un tale contesto a
proliferare sono gli adulatori, gli impostori, i giullari, i trasformisti, gli opportunisti, mentre le
persone serie e oneste sono destinate a soccombere, a diventare vittime del malaffare.
Nei discorsi dei politici prevale sempre più frequentemente non la sostanza, ma la forma,
l’accademia, la furbizia, il raggiro, mentre nel loro modo di rapportarsi ai colleghi ha il sopravvento
la competizione esasperata che non esclude il ricorso alla lotta violenta.
E a questo modo di essere e di fare, purtroppo, si è adeguata anche la sinistra. Eloquenti a questo
riguardo sono i piagnistei di un personaggio autorevole qual è stato Achille Occhetto. Nel 2002 il
fondatore del Pds così dichiarava pubblicamente: “Per i miei compagni sono diventato un fantasma.
Il mio è un partito che è abituato a vedere uscire i segretari con i piedi davanti, con un bel funerale,
com’è nella tradizione comunista. Forse, la mia stessa esistenza in vita li turba. Non mi cercano, a
malapena mi salutano: quelli che avrebbero dovuto difendermi hanno fatto finta di niente e i
dalemiani mi hanno fatto passare per pazzo”. E nel 2004, quando alla festa nazionale de “l’Unità”
svoltasi a Genova è stata allestita una mostra di 750 fotografie sulla storia locale del Pci-Pds, e
Occhetto è stato fatto apparire solo in tre scatti, preso di spalle e da lontano, l’ex segretario ha così
175
commentato: “Che addirittura tentino di cancellarmi dalla storia del Pci e da quella del Pds mi
sembra un ritorno ai vecchi metodi staliniani… Se sono andati al governo, se alcuni di loro hanno
potuto fare i ministri e i sottosegretari è per la Bolognina… Sono rancorosi”.
Che un leader del rango di Occhetto dopo aver occupato i massimi vertici del partito sia stato
maltrattato dai suoi stessi collaboratori, altro non è che il segno di un degrado politico e morale.
Memorabili sono pure gli insulti tra i dirigenti di questo stesso partito: Occhetto ebbe a
stigmatizzare D’Alema “un buffone”, mentre questi ha definito Veltroni e Prodi “due flaccidi
imbroglioni”.
Comportamenti simili, da parte di massimi dirigenti di una forza che si propone di costruire una
società più solidale e più umana, non possono che provocare sconcerto, sfiducia e repulsione sia nei
militanti che nella pubblica opinione.
Una delle tante cause della crisi della sinistra consiste nell’assunzione come obiettivi prioritari per
la generalità dei suoi dirigenti, l’essere eletti a qualche carica pubblica e aver garantita una qualche
gratificazione personale. Sentirsi al di sopra degli altri appare una condizione essenziale per chi
aspira al comando. Il desiderio di cambiare la società, di essere d’aiuto agli altri nel superamento di
uno stato di subalternità materiale e intellettuale, sembra essere ormai scemato.
Anche negli ambienti di sinistra a dominare sono l’arrivismo, l’opportunismo, l’attaccamento alle
poltrone. L’abilità nel cogliere e selezionare le opportunità per se stessi è diventata una professione
diffusa, la condizione stessa per “far carriera”.
Si taccia di qualunquismo l’elettore deluso e sfiduciato, mentre poi si insegue spudoratamente il
proprio tornaconto e da ogni scelta che si compie si cerca di ricavare un vantaggio personale.
Se in Italia c’è stato un periodo in cui a sinistra si sono disprezzati i riformisti è proprio perché una
buona parte di essi era in realtà opportunista. Oggi, essendo l’arrivismo divenuto una patologia
diffusa, una distinzione fra le diverse correnti politiche si rivela
impossibile.
E’ il caso di ricordare che nelle file del movimento operaio ci sono stati dirigenti storici come
Amadeo Bordiga e Giacinto Menotti Serrati che hanno sempre rifiutato di diventare parlamentari. E
che a metà degli anni ’90, Alessandro Galante Garrone, uno dei padri della Repubblica, ha
pubblicamente confessato: “Mi ha preso quasi un colpo dalla rabbia quando ho letto sui giornali
che un gruppo di amici aveva proposto il mio nome come senatore a vita al posto di Spadolini… mi
ripugna solo l’idea di poter godere di un seggio e di un’indennità che non mi spettano”. Considerati
i tempi che corrono, appare naturale chiedersi se personaggi di questo stampo costituiscano ancora
per i nostri politici un positivo esempio, oppure se per molti di loro sia preferibile porre in oblio chi
al tornaconto personale ha contrapposto coerenza e onestà. Per esperienza personale, sono indotto a
ritenere che dalla maggior parte degli attuali attori politici tali testimonianze siano mal tollerate,
vissute come un fastidioso ricordo di un passato da dimenticare.
Alla fine degli anni ’80, nel Pci mi è capitato di assistere a un episodio che non sono mai riuscito a
distogliere dalla mente tanto mi ha turbato. Com’era consuetudine, per pubblicizzare un dibattito
era stato fatto stampare un cartoncino d’invito sul quale, mentre i nomi degli oratori erano scritti
con caratteri grandi, quello di chi presiedeva l’assise era scritto in corpo tipografico leggermente più
ridotto. L’interessato, quando ha preso visione di quella differenza di trattamento, è andato su tutte
le furie e facendo valere il suo ruolo di dirigente al pari degli altri, ha ordinato d’autorità la ristampa
di alcune migliaia di copie mandando al macero gli inviti già pronti. Si è trattato di una decisione
che ha comportato un esborso da parte del partito di alcune centinaia di migliaia di lire. Questo
avveniva in un periodo di tempo in cui ai funzionari di partito non erano assicurati a fine mese gli
stipendi causa la mancanza di denaro. Nessuno dei compagni ha avuto il coraggio di contestare
quella irresponsabile decisione: l’ambizione di chi “stava sopra” aveva così il sopravvento sul buon
senso e sul rispetto dei diritti altrui.
Poco tempo dopo, in occasione delle elezioni politiche, quello stesso personaggio ha trascurato per
due mesi la sua importante funzione direttiva per impegnarsi nella campagna elettorale in una
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provincia lombarda alla conquista di un seggio al Senato, senza peraltro riuscire a conseguire il suo
obiettivo.
Quando penso a tali comportamenti, mi viene alla mente la tesi di Thomas Hobbes secondo cui
l’uomo è da considerarsi una macchina per lo più tesa ad autoaffermarsi a spese degli altri. E
l’aspetto drammatico di questa interpretazione è che ad agire nel senso dell’homo homini lupus sono
spesso anche coloro che si proclamano comunisti.
L’arrivismo e l’attaccamento alle poltrone sono difatti vizi assai diffusi anche negli ambienti della
sinistra e la stragrande maggioranza di chi occupa posti di comando ben difficilmente è disposto a
farsi da parte, neppure in nome del grande ideale che pubblicamente professa.
Dopo essere stato spodestato dai suoi più stretti collaboratori, pur di rimanere in sella, Occhetto si è
perfino alleato con Antonio Di Pietro per fondare un nuovo cartello elettorale e quando D’Alema è
stato nominato ministro degli esteri, con disappunto ha lamentato: “Solo io mi sono autorottamato”.
Il fascino di stare sul palcoscenico della politica, di gestire il potere, insomma, è forte anche in chi
dice di sognare un mondo di uguali.
Un altro leader, Sergio Cofferati, dopo aver esaurito l’esperienza sindacale, ha fatto il sindaco a
Bologna dopo di che è stato eletto parlamentare europeo, ma non ancora gratificato da questi suoi
ruoli, si è candidato alla carica di governatore in Liguria. Le ambizioni sue e dei suoi sostenitori non
solo hanno portato a una spaccatura del fronte di sinistra, ma subendo una clamorosa sconfitta, ha
consegnato la Regione alla destra berlusconiana. Come si può costatare, anche a sinistra il
personalismo sovrasta la ragionevolezza.
A metà degli anni ’90, un altro pidiessino, Walter Canapini, ha dato vita a una nuova stagione degli
arlecchini politici. Assessore all’ambiente nell’amministrazione comunale di Bologna, retta da
Walter Vitali, ha accettato di ricoprire contemporaneamente lo stesso ruolo nella giunta leghista
milanese di Marco Formentini. Come sia risultato possibile a un politico che è stato comunista
servire due padroni, di cui uno animato da egoismi e pregiudizi bossiani, resta per me un mistero
ancora da svelare.
Claudio Petruccioli, di fronte alla messa in discussione della sua permanenza alla presidenza della
Rai da parte dei suoi stessi compagni, ha categoricamente affermato: “L’investitura che ho ricevuto
m’induce a non comportarmi come esponente di un’area… No, non mi dimetto”. E non soddisfatto
dell’alto incarico di cui è rimasto titolare, in occasione delle elezioni comunali, ha lanciato la “lista
Capalbio” e inviato e-mail a un gruppo di personalità perché lo sostenessero.
Non tanto differenti sono altri casi tra i quali, per citare i più recenti, quelli di Vincenzo De Luca e
Antonio Bassolino. Le giustificazioni addotte dal primo di candidarsi anche se indagato e dal
secondo di riproporsi per assicurare il suo “servizio alla comunità” contro il parere del partito,
appaiono decisamente patetiche. Se fossero coerenti con la loro scelta di appartenenza politica e
avessero rispetto degli elettori, questi due campioni della politica campana non avrebbero esitato un
minuto a farsi da parte e non avrebbero permesso che l’ambizione personale compromettesse la loro
onorabilità assieme a quella della formazione politica cui appartengono.
Un altro vizio che parificano molti esponenti della moderna sinistra ai politici degli altri
schieramenti, è rappresentato dall’assunzione di due o tre mandati contemporaneamente. I
parlamentari che ricoprono altre cariche pubbliche sono difatti un’infinità. Negli anni passati, ad
aver dimostrato di non avere il senso della misura sono stati, tra gli altri, anche Walter Veltroni,
Fausto Bertinotti e Armando Cossutta i quali, oltre a sedere nel Parlamento italiano, hanno occupato
un seggio anche in quello europeo. Pure questa pretesa di assolvere a un duplice, spesso triplice
mandato è segno di irresponsabilità, di presunzione e di tracotanza politica.
Luigi Pintor soleva tra l’altro dire che il potere è pessimo, giacché induce chiunque lo eserciti a dare
il peggio di sé. Le testimonianze che ho qui richiamato non smentiscono questo suo convincimento
e dimostrano che un virus sta infettando mortalmente quel che è rimasto della sinistra.
Durante la mia militanza politica ho potuto costatare di persona la presenza nelle file della sinistra
anche di innumerevoli ciarlatani, di piccoli Saint-Germain. E’ naturale che, in un’epoca in cui il
politico, per avere successo è indotto a essere un demagogo, simili personaggi si insinuino in ogni
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schieramento. Eppure, la sinistra dovrebbe avere cura di evitare tali infiltrazioni e allorquando si
manifestano dovrebbe porvi prontamente riparo. Dovrebbe saper distinguere, come faceva Lenin,
tra “chiacchieroni” e “lavoratori” e impedire che la sua immagine venga infangata. Ma anche in
questo caso essa dà segno di debolezza venendo meno al suo dovere.
Eppure, essere persone serie, mantenere la parola data è un principio universale che è alla base di
tutte le società e di tutte le culture: dall’etica cristiana al sistema economico e creditizio su cui fonda
la società moderna. Nonostante ciò, il palcoscenico della politica è affollato di volgari strilloni. E
nelle assemblee ad imporsi assai spesso non è la parola assennata, bensì quella pomposamente
declamata.
Di questo paradosso è responsabile lo stesso diritto che regola la nostra società. Nessun politico è
mai stato condannato e messo in carcere per aver promesso nel corso delle campagne elettorali
scelte e provvedimenti che poi ha disatteso e dimenticato. Questa regola non vale per tutti.
L’articolo 2105 del Codice civile sancisce l’obbligo della fedeltà per il lavoratore dipendente nei
confronti del proprio datore di lavoro; se questo dovere viene disatteso, scatta la condanna.
L’articolo 143 stabilisce che il matrimonio presuppone l’obbligo reciproco alla fedeltà di chi lo
contrae; in caso di adulterio – almeno se denunciato – la giustizia persegue il coniuge infedele (fino
a qualche tempo fa ad essere condannate erano però sole le donne).
Il politico, insomma, è al riparo da qualsiasi gogna e proprio a causa di questa sua condizione di
privilegio imbonitori, imbroglioni e individui senza scrupoli danno l’assalto ai “palazzi” e quando ci
arrivano hanno vita facile e non sloggiano mai di propria volontà.
49. Ripulse del passato e ipocrisie elevate a virtù
Altre tare di molti politici di sinistra, oltre alla ricusazione del proprio passato, sono l’ambiguità
nelle prese di posizione, l’incoerenza tra principi proclamati e pratica quotidiana.
Dopo che è imploso il socialismo reale, la sinistra italiana ha dato vita a un vero e proprio festival
delle palinodie. Fin che l’Urss ha rappresentato la patria del socialismo, i dirigenti comunisti, anche
dopo lo strappo, si sono ben guardati dal mettere doverosamente in evidenza le contraddizioni di
quel sistema e denunciare le violazioni dei diritti civili e politici. Parecchi di loro hanno continuato
a vantare pubblicamente un rapporto di fraterna solidarietà con le dirigenze sovietiche e a
frequentare con gaudio la patria del socialismo.
Quando però sul Cremlino è stata ammainata la bandiera rossa, quelli che erano definiti fratelli sono
stati declassati a lontani parenti, da alcuni sono stati ritenuti colpevoli al punto da essere ripudiati.
“Il Pci si ispira al pensiero di Gramsci e ha niente a che vedere con il socialismo realizzato”, si è
sentito recitare insistentemente in coro.
Dopo qualche anno dal crollo, la rimozione di qualsiasi reminiscenza di antichi rapporti era
completa. Fabio Mussi, esponente della sinistra del partito, ha rilasciato a un quotidiano
un’intervista in cui ha precisato che già ai tempi della sua gioventù aveva “ben chiaro che il regime
dell’Unione sovietica era una grande truffa”, perciò si riconosceva “in chi, da anti-comunista,
criticava il totalitarismo”. Walter Veltroni ha lamentato che nell’86 il Pci non aveva celebrato come
avrebbe dovuto, cioè criticamente, il trentennale dell’invasione dell’Ungheria perché, ha sostenuto,
“o si sta con Jan Palac o si sta coi russi”. E all’indomani della pubblicazione del “dossier
Mitrokhin” sulle spie del Kgb, ha scritto una lettera a “La Stampa” sostenendo che il ‘900 è stato “il
secolo del sangue” anche a causa “della tragedia del comunismo e degli orrori dello stalinismo”.
Ha quindi negato di essere mai stato “comunista in senso sovietico”.
Quando a Cuba sono stati condannati 78 oppositori del regime, Antonio Bassolino ha dichiarato:
“No, non andrò a Cuba. Ciò che sta avvenendo mi fa orrore. E non intendo offrire alibi politici a
un governo che fucila i dissidenti”.
Silvio Pons, direttore dell’Istituto Gramsci, si è sentito in dovere di assicurare l’opinione pubblica
che “il popolo della sinistra nella sua stragrande maggioranza ha tirato un sospiro di sollievo di
fronte alla caduta dell’impero sovietico”.
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Luciano Violante ha sostenuto che “il Pci si è schierato per molti anni dalla parte sbagliata, quella
dell’Unione Sovietica. .. I suoi valori non erano più adeguati alla modernizzazione della società
italiana, il suo modello politico rischiava di confliggere con quanto di nuovo e di positivo emergeva
nella società italiana… La svolta (Democratici di sinistra) ci ha consentito di fare, per tempo e fino
in fondo, i conti con le degenerazioni di una ideologia e di un sistema politico per ritrovare la
ragion d’essere dei valori e degli stessi ideali di una moderna democrazia”.
Piero Fassino ha voluto sottolineare che “la responsabilità morale di Togliatti e di altri capi
comunisti nelle tragedie degli italiani in Urss non sfugge a nessuno”. E ha deciso di recarsi a San
Pietroburgo per una visita ai gulag in onore delle vittime dello stalinismo.
Più cauto, ma pur sempre sulla linea del distacco, Massimo D’Alema, ha voluto precisare che –
secondo lui – il Pci “seppe via via elaborare una propria autonoma visione ed anche una ricerca
sulle cause di fondo del totalitarismo dell’Est: la concezione dello Stato e del partito, la negazione
del valore universale della democrazia e della libertà umana in tutti i suoi aspetti (sociale,
religioso, economico, culturale). E’ stato un cammino tormentato, pieno di contraddizioni, di
reticenze e di timidezze; lento e tardivo nelle sue determinazioni ultime... La storia non è andata
così e la caduta del Muro di Berlino ha segnato anche la fine dell’illusione di un comunismo
democratico, e quindi dell’esperienza originale che il Pci aveva rappresentato”. Elaborazione
questa che risulta difficile rintracciare negli archivi del vecchio partito nei termini perentori con cui
D’Alema la riassume.
A rileggere queste prese di posizione e queste considerazioni viene spontaneo chiedersi il perché
questi compagni, nel momento in cui il partito ha radiato il gruppo del “manifesto”, me compreso,
non abbiano sollevato un qualche dubbio sulla giustezza di quel provvedimento e non si siano
smarcati da quel fare stalinista di cui il Pci non è mai riuscito a liberarsi completamente; e ancora
perché non abbiano mai riconosciuto quello sbaglio considerato che una delle ragioni della nostra
radiazione riguardava proprio la critica severa che facevamo ai regimi dell’Est. Per la verità
qualcuno l’ha fatto. Tra i pochi, Emanuele Macaluso il quale, però, ha precisato: “Non rinnego il
giudizio su quel gruppo di compagni e le scelte di fondo del partito, però sbagliammo a mandarli
via: la loro presenza era un significativo segno di pluralismo”. Vale a dire che, a suo giudizio, si
trattava solo di una questione di metodo e non di sostanza.
E ci si chiede legittimamente ancora: dov’erano questi compagni quando il Pci dipendeva da
Mosca. Perché mai quando si trattava di essere solidali con i dissidenti perseguitati, loro sono stati
zitti e non hanno scatenato una battaglia politica nel partito?
La verità è che a dominare in loro non erano il desiderio di chiarezza e il buon senso, bensì
l’opportunismo politico.
Quale credibilità possono del resto avere dei politici che ripudiano il loro stesso passato e rinnegano
quegli stessi compagni che sono stati loro maestri e con i quali hanno condiviso non solo un lungo
tratto della loro militanza, ma scelte e comportamenti?
Ai primi del secolo D’Alema ha dichiarato: “Noi siamo storici marxisti, almeno io ancora”. Poco
tempo dopo, però, alla presentazione del libro di Silvio Pons “Berlinguer e la fine del comunismo”,
ha sostenuto che Berlinguer è stato “un critico illuminato, ma (ahimé!) interno al comunismo”,
giudicando implicitamente in modo negativo questa sua collocazione.
Veltroni ha orgogliosamente ammesso: “Sono stato nel Pci. Meglio: nel Pci di Berlinguer. Non
credo che avrei potuto esserlo nel Pci di prima. Mi rendo conto che oggi la mia può sembrare una
risposta facile, ma per fortuna c’è una biografia a testimoniare quello che dico. Comunista nel
senso di credere alla dittatura del proletariato o alla collettivizzazione delle terre non lo sono stato
mai. Sinceramente mai. D’altra parte anche il Pci non è mai stato ideologico come il Pc francese”.
“Quando l’anticomunismo ha difeso la democrazia e le libertà individuali, era l’anticomunismo e
non il comunismo realizzato a essere dalla parte della ragione”. “Comunismo e libertà sono stati
incompatibili”.
Nel suo libro di memorie, Fassino considera Enrico Berlinguer l’artefice della “deriva identitaria e
solipsistica di un partito che non sa opporsi al richiamo del passato” e si esilia “in una malinconica
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e solitaria navigazione senza bussola”. Ma lui non era forse sulla stessa barca? E perché non l’ha
detto a Berlinguer che sbagliava rotta?
Un altro esimio esponente del Pci, Claudio Petruccioli ha affermato: “Io mi considero democratico
e non accosterei mai le parole comunismo e democrazia: siamo in presenza di un ossimoro, cioè di
due termini che sono in contrasto tra loro”. E ha definito il comunismo “uno dei più grandi
fallimenti della storia”, senza nemmeno giustificare questo suo giudizio con una riflessione critica e
autocritica. E’ il caso di ricordare che Petruccioli è stato segretario della Fgci nel 1968 e nell’89 ha
fatto parte della segreteria del Pci. A metà degli anni ’80, ricordando Luigi Longo, su “Rinascita”
ha voluto precisare: “Proprio perché siamo marxisti, comunisti, rivoluzionari noi sappiamo…”.
Nei primi anni ’90, ho potuto misurare di persona il grado di coerenza e la dose di coraggio di
questi stessi ex comunisti nel prendere posizione nei confronti dell’emergente fenomeno leghista.
Come ho già ricordato, sia D’Alema che Veltroni, sia Fassino che Petruccioli, invitati a partecipare
a pubblici dibattiti sui rapporti tra la sinistra e la Lega, si sono opportunisticamente defilati. Identico
comportamento hanno avuto Franco Bassanini, Chicco Testa, Nerio Nesi e i trasformisti Piero
Borghini e Sergio Scalpelli.
A proposito di lucidità e coraggio nel contrastare l’avanzata leghista, ho assistito a un’infinità di
atteggiamenti ambigui, farisaici e compromissori.
Dopo aver organizzato convegni sul leghismo, in qualità di dirigente sindacale, Antonio Panzeri
non solo ha assistito in modo passivo all’esperienza delle “giunte tecniche” sperimentate a Monza e
Varese e fondate sull’alleanza Pds-Lega Nord, ma quando è divenuto parlamentare europeo è stato
uno dei protagonisti della fondazione a Strasburgo della lobby dei deputati milanesi il cui scopo era
quello di “realizzare progetti e portare finanziamenti per la Grande Milano”, stabilendo un patto di
alleanza con l’obbrobrioso esponente della Lega Nord Matteo Salvini.
Quando nel 2001, il preside della facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano,
Alberto Quadrio Curzio, ha pronunciato l’elogio funebre di Gianfranco Miglio sostenendo che “è
stato un docente esemplare. Aveva un aristocratico rispetto per la funzione accademica e usò la sua
acutissima intelligenza per stimolare quella dei suoi interlocutori. Fu uno studioso particolarmente
creativo ed eclettico”, e a Brescia all’illustre teologo del leghismo e panegirista dell’egoismo e
dell’intolleranza è stata dedicata una piazza ed eretto un busto bronzeo, nessun esponente del Pds ha
avuto di che ridire pubblicamente.
Era il tempo, del resto, in cui molti amministratori del Pds-Ds, a cominciare da quelli della “rossa”
Bologna, adottavano provvedimenti invocati e praticati dai leghisti come le “ronde” o l’allestimento
di presepi in città.
A proposito delle ambiguità nei confronti degli esponenti leghisti, ho avuto un diverbio con lo
stesso segretario di Rifondazione comunista, Sergio Garavini. Avevo da poco aderito a quel
movimento ed ero impegnato a organizzare momenti di riflessione e dibattiti sul fenomeno
emergente nelle regioni centro settentrionali del Paese. Un giorno, un compagno deputato di sinistra
con il quale avevo partecipato a una pubblica iniziativa, mi ha rivelato una notizia che mi ha
letteralmente scioccato. A Roma, a quel tempo (non so se questo avviene ancora oggi), esistevano
delle signore benestanti che avevano aperto le loro lussuose abitazioni ai parlamentari provenienti
dalla provincia allo scopo di rendere più piacevole e meno pesante il loro soggiorno nella capitale.
In queste dimore gli invitati trovavano modo di trascorrere delle serate in piacevole compagnia
conversando, ristorandosi e divertendosi con giochi vari. Quel deputato mi ha spifferato che
Garavini frequentava una di queste case di cui era ospite anche Umberto Bossi e che i due erano usi
giocare spesso insieme al biliardo. Il mio informatore aveva ovviamente l’infido proposito di
mettermi in difficoltà, sta di fatto che io ho preso male quella notizia e ho voluto immediatamente
accertarmi del suo grado di fondatezza. Il mattino seguente ho cercato di mettermi in contatto con lo
stesso Garavini col quale però sono riuscito a comunicare solo verso sera. Quando l’ho sentito gli
ho posto in modo secco la domanda: “E’ vero che tu giochi a biliardo con Bossi?”. Sorpreso, egli
esitò un attimo e io compresi che quanto mi era stato riferito corrispondeva al vero. Allora, prima
ancora che proferisse parola, l’ho incalzato: “Io mi faccio il mazzo nello spiegare ai compagni la
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pericolosità del leghismo e tu fai pappa e ciccia con il suo capo. Ti pare una maniera onesta di
comportarti?”. Di fronte a quel mio fare incazzato, Sergio mi ha invitato alla moderazione e mi ha
spiegato che si è trattato di un solo incontro fortuito. Dopo di quel fugace alterco non ho più dato
importanza alla questione, però in me è venuto meno il senso di fiducia che nutrivo nei suoi
confronti.
Alle incoerenze e ambiguità dei compagni ero ormai avvezzo e più che provare meraviglia ero
assalito da rabbia e disgusto. Ciò che soprattutto turbava la mia mente era la costatazione
dell’esistenza negli ambienti di sinistra di una diffusa abitudine a dire una cosa e ha praticarne
un’altra.
Nei primi anni ’90 mi era capitato di imbattermi in un dirigente della federazione comunista
milanese, Faustino Boioli, che si proponeva l’instaurazione di una monarchia costituzionale e si
batteva per il rientro in Italia della salma di Vittorio Emanuele III. E l’aspetto inquietante era
costituito non solo dalla follia politica di questo soggetto, ma dall’adesione alla sua assurda
battaglia di prestigiosi esponenti del Pds quali Elio Quercioli, Fabio Binelli, Piero Borghini e Sergio
Scalpelli. E simili paradossali vicende politiche si svolgevano senza che nel partito venissero
sollevate obiezioni.
Alle Frattocchie, più di una volta, mi è capitato di assistere alle profusioni dei vari Chicco Testa e
Mercedes Bresso, sulle loro affascinanti teorie ambientaliste, in particolare sulla riconversione
ecologica dell’economia. Qualche anno dopo, quando questi stessi “maestri” sono diventati soggetti
di potere, me li sono visti sposare con sorprendente imperturbabilità le tesi nucleariste e avversare
coloro che contestavano la realizzazione della Tav.
Il cambiare orizzonti stava diventando anche a sinistra un modo virtuoso di “fare politica”.
Di fronte alle buie prospettive del mondo moderno, compagni che hanno ricoperto posti di grande
responsabilità nelle organizzazioni di sinistra, dovrebbero mostrare preoccupazione per il destino
delle future generazioni. Dovrebbero sentirsi in dovere di
riflettere su quanto di buono e di non buono hanno fatto, allo scopo di suggerire il successo
personale: D’Alema producendo e vendendo prodotti enogastronomici; Veltroni rilanciandosi come
giornalista sportivo e cineasta; Gianni Cervetti dedicandosi alla bibliofilia per i bambini. E possono
permettersi di fare questo nell’indifferenza generale.
Il compito di rimuginare il passato e fare autocoscienza politica è lasciato ai tanto vituperati vetero
comunisti.
50. Incoerenze e meschinità
Che la classe politica borghese sia storicamente vissuta di privilegi, mentre quella di sinistra abbia
sistematicamente cercato di contrastare questa sua prerogativa, è un dato inconfutabile. E’ anche
vero, però, che come nell’Ottocento i borghesi hanno scimmiottato lo stile di vita degli aristocratici,
così ci sono stati esponenti della sinistra i quali, conquistato il potere, hanno ceduto al fascino dei
benefici che il “far politica” offre e, imitando il modo di vivere dei loro avversari, sono venuti meno
al dovere di mantenersi integri e coerenti con la causa del socialismo.
La forza di seduzione del comando, del denaro, del possesso, dell’agiatezza, come si sa, è
irresistibile, tale da mettere a dura prova anche il più determinato dei rivoluzionari. La teoria di
Marx secondo cui il denaro è fonte di alienazione non è stata tenuta in debito conto da molti suoi
discepoli. Non tutti coloro che sono passati alla storia come comunisti marxisti, infatti, hanno
detestato come avrebbero dovuto la ricchezza e il possesso, così come aveva suggerito e fatto il
teorico del socialismo scientifico.
La storia ci ha fatto certamente conoscere dirigenti di sinistra come Antonio Gramsci, che hanno
vissuto gran parte della loro esistenza nella miseria e in stato di reclusione e non hanno mai
conosciuto l’agiatezza, anche per averla rifiutata per principio; uomini di potere come Chou En Lai,
di cui si racconta che fino alla sua morte ha indossato un pigiama che aveva acquistato un quarto di
secolo prima, che per oltre vent’anni ha fatto uso di un asciugamano con le toppe e che alla sua
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morte ha lasciato in eredità un patrimonio del valore di 5.100 renminbi, pari più o meno a 500 euro.
O ancora dirigenti politici come Ferruccio Parri il quale dormiva su una brandina nei suoi uffici alla
presidenza del Consiglio; come Luigi Longo e Teresa Noce che vivevano come tanti altri compagni
in appartamenti modesti senza alcuna concessione al lusso.
Ci racconta però anche dell’esistenza di dirigenti comunisti che non hanno disdegnato la bella vita
mentre parte del loro stesso popolo era privo dell’essenziale.
Josip Broz Tito, per esempio, era un uomo che amava, tra l’altro, lo champagne e gli yacht; la sua
via al socialismo non escludeva galanti colazioni con Josèphine Baker,
Gina Lollobrigida, Liz Taylor, Jacqueline Kennedy Onassis, Sofia Loren e altre attrici. Non si
vergognava di essere amante del lusso e di condurre una vita da aristocratico. Qualcuno non a torto
lo ha classificato come il precursore dell’edonismo di sinistra. Leonid Breznev faceva collezione di
automobili. Slobodan Milosevic è stato un comunista che approfittando del potere si è costruito una
fortuna personale. Quando l’epoca dell’autogestione si è esaurita e l’economia serba è stata gestita
come un affare di pochi, egli ha trasferito denaro per centinaia di milioni di franchi in Svizzera, ha
acquistato immobili in Grecia, è divenuto proprietario di ville e di yacht a Corfù. Identico
comportamento è stato assunto da Wladimir Putin, ex capo del Kgb, il quale dopo il crollo
dell’Urss, è diventato uno dei maggiori azionisti di Gazprom e della Gunvor. La Magistratura
americana ha stimato che il suo patrimonio personale ammonterebbe a 28 miliardi di dollari e
consisterebbe, oltre che in investimenti azionari, in proprietà immobiliari tra cui venti residenze,
quattro yacht e numerosi aerei.
La rivista finanziaria americana Forbez, la cui matrice è decisamente anticastrista (per cui il dato va
preso con le pinze), ha valutato la fortuna personale di Fidel Castro in centinaia di milioni di dollari
investiti in aziende industriali e turistiche.
Come si può costatare, la storia dei cultori del comunismo non è immacolata e ciò prova che le
discordanze tra la fede politica professata e lo stile di vita conseguito per alcuni di loro sono
risultate essere una prassi consolidata. Ciò che appare indubbio è che tali modi di essere non
possono nel modo più assoluto favorire la realizzazione di una società nuova fondata sui valori
dell’uguaglianza, della giustizia sociale e della solidarietà.
A dimostrarlo ci stanno i prodotti della socialdemocrazia. Nelle realtà in cui i suoi rappresentanti
hanno governato, non solo non si sono realizzati gli auspicati cambiamenti nell’assetto economico-
sociale, ma si sono addirittura creati mostriciattoli politici.
Tony Blair, il “narcisista con il complesso del Messia”, come lo ha descritto il suo amico Robert
Harris, ha voltato le spalle al popolo abbracciando la causa dei ricchi. Trasformatosi in uomo
d’affari, egli ha fatto e continua a fare disinvoltamente consulenze a multinazionali e governi, anche
a quelli di natura dittatoriale, e con i milioni di sterline incassati si è costruito un impero economico.
Invitato a tenere una conferenza dal Forum sulla fame nel mondo, gli è stata declinata la
convocazione dopo che aveva chiesto un cachet di 460 mila euro per un discorso di venti minuti.
Anche Gerhard Schroder, abbandonata la cancelleria, ha assunto la guida del consorzio per il
gasdotto russo-tedesco rimediando uno stipendio da favola e godendo al tempo stesso di benefici
dalla dubbia legittimità per le politiche sociali perseguite durante la sua investitura.
Oskar Lafontaine, il “rosso” della Spd e nominato il “Napoleone della Saar”, mentre in qualità di
leader della Linke chiama a raccolta i delusi della sinistra, conduce una vita lussuosa al punto di
suscitare proteste nei militanti del suo stesso partito.
Lo spagnolo Felipe Gonzalez si è messo al servizio di un magnate messicano che risulta essere il
secondo uomo più ricco del mondo.
E pure il tornitore brasiliano Luis Inacio da Silva, Lula, divenuto presidente del suo Paese è finito
sotto inchiesta per aver goduto di favori quand’era al potere.
Ritenere che questi declamatori del socialismo moderno pecchino di incoerenza, significa essere
generosi. I loro comportamenti sono semplicemente disgustosi, rivoltanti e non ci può essere
giustificazione alcuna perché il giudizio sul loro operato sia meno severo. Eppure, agli occhi di
molti dei politici nostrani essi rappresentano dei modelli da esaltare e da imitare. Veltroni, ad
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esempio, nel 2006 a Roma ha imitato Blair e i Clinton: davanti a 1.200 spettatori paganti (il costo
dell’accesso era modestissimo, solo 5 euro), ha tenuto una lezione sul tema “Cos’è la politica”
dando vita a cento minuti di “veltronismo” all’ennesima potenza,
Mi sono chiesto spesse volte come dei politici che un tempo mi furono compagni, anzi dirigenti
verso i quali ho nutrito fiducia e rispetto, abbiano potuto conciliare la loro proclamata volontà di
riscattare la condizione di subalternità del popolo lavoratore e di perseguire una società di uguali,
con il godimento di privilegi che il loro essere espressione istituzionale dello schieramento di
sinistra ha comportato.
L’ambientalista Chicco Testa divenuto presidente dell’Enel ha goduto, nei primi anni del secolo, di
un compenso annuo che ha raggiunto il miliardo e 789 milioni di lire. Franco Bassanini, nella sua
qualità di presidente della Cassa Depositi e Prestiti, ai primi di questo decennio ha ricevuto quale
retribuzione annua la somma di 567.000 euro. Lo stesso Walter Veltroni, nel 2007, quand’era
segretario dei Ds e sindaco di Roma, ha denunciato un reddito di 477.000 euro. Massimo D’Alema,
che – come lui stesso ha precisato – anni fa ha perso in Borsa 45 milioni di lire, quando nel 2013 è
stato liquidato dal Parlamento ha ricevuto una buona uscita di 217.000 euro. Fausto Bertinotti, nel
2008, ha dichiarato un reddito di 233.000 euro e il possesso, unitamente alla moglie, di 12 tra case e
ville. E quando è deceduto il suo carissimo amico Mario D’Urso, un manager che per un quarto di
secolo ha fatto parte del consiglio di amministrazione di una delle massime centrali del capitalismo
mondiale, ha ricevuto in eredità 500.000 euro, che però – come ha precisato la moglie – sono da
considerarsi “virtuali” (sic!). E pensare che nell’estate del 2005 aveva suggerito la ricetta contro i
privilegi degli eletti! Così infatti aveva dichiarato: “Per riconsegnare la politica all’etica
aumentiamo l’aspetto volontario di chi ricopre cariche pubbliche, fissando un tetto alle
retribuzioni… parametro di riferimento lo stipendio di un dipendente pubblico”.
Francamente, nei panni di questi illustri militanti nelle file della sinistra io mi sentirei in grande
imbarazzo. Loro, pare di no!
Mi sono ancora chiesto se questi beneficiati dalle pubbliche casse, i quali un tempo sono stati miei
compagni di lotta, abbiano riflettuto a sufficienza sul fatto che nel nostro Paese esistono quattro
pensionati su dieci che vivono con neanche mille euro al mese e che anche da noi, con al governo il
centrosinistra, la povertà sta dilagando.
Forse aveva ragione Petenzi a sostenere che sono un moralista, sta di fatto che a me non riesce di
separare il far propria la causa del socialismo dal comportamento quotidiano che poi si assume. Un
comunista non dovrebbe mai dimenticare un solo istante che esistono delle priorità nella
distribuzione delle risorse che la comunità ha a disposizione e che il superfluo non deve mai
penalizzare i bisogni essenziali. Purtroppo, nella nostra società vengono sperperate montagne di
soldi per lo sport e lo spettacolo, mentre ci sono persone che non hanno di che tirare a campare
dignitosamente e lesinano addirittura sulla cura della propria salute. Se oggi la sinistra registra un
progressivo calo di fiducia, è anche perché non è sempre attenta a queste contraddizioni sociali e di
conseguenza perde il consenso dei suoi stessi elettori.
Per questa stessa ragione non mi è mai riuscito di giustificare nemmeno le leggerezze e le
incongruenze che molti compagni manifestano, ad esempio, nell’ostentare il loro tifo sportivo di
fronte all’opinione pubblica.
Il calcio è uno sport che è sempre piaciuto anche a me, tant’è che quand’ero giovane, ho frequentato
anch’io gli stadi. Ho sempre apprezzato l’agonismo vero e leale e ho imparato a fare distinzione tra
l’essere sportivo e l’essere tifoso: mentre nel primo caso si apprezza il bel gioco, compreso quello
dell’avversario, e quando la propria squadra perde ci si rassegna all’evidenza; nel secondo caso ci si
comporta da fanatici, si diventa cioè imparziali e ciechi. Ho staccato la spina della passione
sportiva, quando mi sono reso conto che lo sport, insieme allo spettacolo, è vissuto dalle classi
dominanti come strumento di distrazione dei governati e persino come occasione di speculazione e
oggetto di corruzione.
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Molti politici di sinistra hanno ritenuto cosa giusta dichiararsi pubblicamente sostenitori di squadre
di calcio e a favore di esse hanno ingaggiato polemiche e scontri, anche nell’intento di ricavare
consensi dall’elettorato sportivo. E’ anche questo un vizio che considero intollerabile.
E’ vero che anche i vecchi leader della sinistra hanno orgogliosamente tifato per le squadre di
calcio. Togliatti simpatizzava per la Juventus, squadra che ha avuto come sostenitori tanti altri
compagni, compreso Luciano Lama. Enrico Berlinguer aveva simpatie per il Cagliari. Ai loro
tempi, però, il calcio non era corrotto e ai giocatori non venivano riconosciuti compensi da favola
come avviene ai giorni nostri. Questi compagni erano per altro impegnati in dure battaglie contro gli
sprechi e la corruzione e la loro critica, quando è stato il caso, ha coinvolto anche i loro stessi
beniamini dello sport. Da qualche tempo, invece, gli atteggiamenti assunti dai dirigenti della sinistra
non sono più identici a quelli dei loro maestri.
Fassino, di fronte alle lodevoli inchieste della Magistratura sul mondo del calcio, in veste di tifoso,
ha invocato la “clemenza della corte”. Veltroni ha pomposamente fatto sapere che gli piacerebbe
essere il presidente della Juventus e che un suo idolo è quel Michel Platinì che oggi è sospettato di
essere coinvolto negli scandali della Fifa. Bertinotti, ricordando che un vecchio sindacalista faceva
notare che tutte le squadre di calcio sono dei padroni, definendosi un milanista doc, ha così
giustificato la sua predilezione per la squadra di Berlusconi: “Se proprio devo scegliere un padrone,
meglio uno che mi fa vincere il campionato”. D’Alema, oltre a essere non solo un amante, ma un
protagonista delle gare di vela e possessore di barche dal valore di miliardi di lire, è tifoso della
Roma e ha pubblicamente confessato di essere preoccupato della sorte di Totti e essere intervenuto
per garantirgli una prospettiva migliore.
Insomma, anziché battersi per la bonifica degli ambienti corrotti del calcio, per denunciare
l’assurdità di un mercato calcistico che macina miliardi di euro, al fine di non apparire impopolari
agli occhi dei tifosi-elettori e perdere consensi, si allineano al comune pensare.
Un altro esempio eloquente lo ha dato spesso l’europarlamentare, già segretario milanese della Cgil,
Antonio Panzeri. Noto interista, è stato spesso protagonista di quelle demenziali trasmissioni
televisive in cui vengono commentate in diretta le partite senza che giocatori e pallone appaiano
sugli schermi, e i cui partecipanti si parlano addosso insultandosi e millantando di essere conoscitori
delle tecniche di gioco meglio di chi svolge la professione. Si tratta di aberranti fiction il cui scopo
è esclusivamente quello di esasperare i bassi istinti degli ascoltatori e contribuire ad accrescere il
loro grado di alienazione. Come sia possibile che un difensore degli interessi dei lavoratori cada
così in basso, non sono mai riuscito a comprenderlo.
Infine, sempre a riguardo di un deficit di coerenza, vanno ricordati i comportamenti contraddittori
che i politici, molto spesso, manifestano a riguardo del rapporto tra le convinzioni esistenziali e la
prassi quotidiana.
Che personaggi come Tony Blair decidano a un tratto di convertirsi alla religione cattolica; che
Claudio Martelli, raggiunta la maturità, frequenti il “Gruppo del Vangelo” e si consideri un “uomo
in pellegrinaggio”; che Alfonso Pecoraro Scanio creda nell’angelo custode; che la cattolicissima
Irene Pivetti, mentre confessa di adorare padre Pio, si trasformi in star televisiva e posando come
una diva mostri le attrattive del suo corpo, non fa assolutamente scandalo. Considerata l’ideologia e
lo spessore morale di questi personaggi, il loro modo contraddittorio e disinvolto di fare rientra
nella normalità dei loro stili di vita.
Diverso è il giudizio che si deve dare a riguardo del modo di comportarsi di chi si è proclamato e si
proclama comunista.
Prima che Marx ed Engels proponessero al movimento operaio le loro teorie sul socialismo
scientifico, il comunismo aveva carattere utopistico. Prima di loro diversi uomini di pensiero e di
azione avevano coniugato il comunismo con la religione. Con l’avvento delle teorie marx-
engelsiane, il comunismo è stato liberato dalle ambiguità ideologiche e le avanguardie del
proletariato hanno cominciato a interpretarlo come concezione storico-dialettica del mondo e teoria
scientifica del cambiamento sociale.
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Durante il percorso di crescita, il movimento comunista non ha però sempre tenuto fede al carattere
scientifico della teoria marxiana. Il marxismo ha ideologizzato il pensiero dei padri del socialismo
scientifico e per ragioni di opportunità politica, per un verso ha interpretato schematicamente la
lotta alla religione (si pensi alle persecuzioni staliniane dei credenti), per altro ha consentito
l’adesione al movimento di chi aveva una concezione trascendentale della vita, producendo così un
inquinamento teorico-culturale che è all’origine di talune incoerenze comportamentali di chi si
proclama comunista. Andava spiegato e superato il bisogno di religiosità che è insito nell’uomo, in
modo di renderlo consapevole del suo stato esistenziale, ma ciò non è stato fatto in maniera
sufficiente.
Nel secondo dopoguerra, da noi ha avuto sviluppo un movimento cosiddetto “cattocomunista” al
quale hanno fatto capo diversi personaggi che hanno assolto anche ruoli di spicco nelle file del
partito. Loro convinzione era che la concezione storico-materialista del mondo fosse conciliabile
con la fede religiosa. Eppure, se il comunismo lo si spoglia del materialismo storico-dialettico,
inevitabilmente lo si sterilizza facendolo diventare un’ideologia.
Anche in forza del processo di secolarizzazione, queste posizioni interne al partito da minoritarie
sono divenute maggioritarie e hanno dato luogo ad atteggiamenti e comportamenti che a me
appaiono paradossali.
Che dirigenti politici del calibro di Massimo Caprara, Renzo Foa e Pietro Barcellona, prima di
morire, abbiano rinnegato la loro scelta politico-culturale, si siano convertiti al cristianesimo e
abbiano scoperto “la bellezza di Dio”, lo ritengo un fatto sconvolgente.
O questi dirigenti comunisti sono stati dei millantatori, oppure la loro formazione politico-culturale
si è rivelata così fragile da far supporre che è stato un errore consegnare nelle loro mani
responsabilità di direzione di un movimento comunista.
Se è pur vero che anche nel passato del movimento operaio si è registrata una presenza nelle sue file
di uomini dal credo antagonista con la causa proletaria (un esempio è costituito dalla presenza nel
Pci di aderenti alla massoneria), nonostante la decretata incompatibilità, e se anche in campo
internazionale ci sono stati e continuano ad esserci casi clamorosi di riconversioni al cattolicesimo
(basti ricordare i recenti casi di Hugo Chàvez e dei fratelli Castro), queste deviazioni non possono
giustificare la deriva teorico-culturale che ha caratterizzato e caratterizza la sinistra odierna.
Che Piero Fassino, allievo dei gesuiti, già dirigente del Pci e segretario del Ds, si proclami cattolico
e veda nell’elezione di papa Wojtyla “un segnale profetico” e consideri il suo “un insegnamento di
grande laicità contrapposta all’integralismo”, a me suscita molti dubbi sulla decisione di avergli
attribuito la responsabilità di guidare una partito che si proponeva una società alternativa nei
rapporti sociali e nei valori. Soprattutto se si considera che – come lui stesso ha tenuto a
puntualizzare – è al tempo stesso superstizioso e porta sempre in tasca un Pulcinella porta fortuna
che gli hanno regalato i napoletani.
Che un altro prestigioso leader della sinistra, Massimo D’Alema, affermi che “non abbiamo
bisogno di atei devoti che mettano il potere al servizio della tradizione: abbiamo bisogno di
cattolici” e che, oltre a ostentare pure lui riverenza al Santo Padre tanto da portare al suo cospetto
l’intera famiglia, il giorno della canonizzazione di Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei,
dichiari ammirazione per costui quando è risaputo che, di fronte all’accordo tra Hitler e il generale
spagnolo Franco per combattere insieme il comunismo, egli ha esultato, non mi sembra possa
considerarsi degno di una persona seria e coerente, tanto meno di un dirigente che si è proclamato
comunista.
Nel Pci (post togliattiano)-Pds-Ds, del resto, ha sempre regnato una confusione tra l’umano e il
soprannaturale. Mario Tronti, ad esempio, considera una sciagura la contrapposizione tra l’orizzonte
cristiano e il comunismo, giacché l’unico argine alla crescente volgarizzazione della vita sarebbe la
spiritualità, cioè la religione, il cristianesimo. Egli ha sostenuto che “solo la libertà del cristiano è
libertà radicale, sovversiva dell’ordine costituito”.
Livia Turco si è premurata di far sapere all’opinione pubblica che a lei non è piaciuto ciò che è
successo in Francia quando il rispetto dei simboli religiosi è stato definito un fatto privato. Ha
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giudicato quel provvedimento “un’arcaica e ottocentesca concezione della laicità”. “Le religioni –
ha aggiunto – sono risorse”.
Non può perciò sorprendere che Antonio Bassolino baci la teca con il sangue di San Gennaro nel
momento in cui si scioglie. Che il sindaco Pds di Civitavecchia Pietro Tidei veda le statue della
Madonna piangere;. Che il suo collega di Brescello, Marcello Coffrini, sfili in processione per le vie
del paese con il parroco a fianco per scongiurare la piena del Po; che Gianni Cuperlo, nel corso
della sua campagna per la segreteria Pd, si senta in dovere di fare tappa a Sotto il Monte per visitare
la casa natale di Giovanni XXIII.
Se perfino Wladimir Putin, in occasione della sua visita in Vaticano, di fronte al Papa bacia la copia
dell’icona della Madonna Theotòkos, non c’è proprio motivo di meravigliarsi delle vicissitudini di
questi nostri esponenti della sinistra. Evidentemente, essere moderni significa essere poliedrici e
plurimi anche sul piano dei valori e dei sentimenti.
E a praticare questo nuovo stile comportamentale fondato su un affastellamento cultural-politico-
morale concorre anche chi ha continuato a dichiararsi comunista anche dopo l’implosione del
socialismo reale.
Nichi Vendola, ai tempi in cui militava in Rifondazione ha solennemente dichiarato: “Sono
cattolico e comunista… non rinuncio alla fede”. In occasione dell’elezione di Papa Ratzinger ha
definito il nuovo pontefice “il mio Papa”. E nella sua veste di leader di Sel ha voluto precisare: “Io
credo in dio padre onnipotente”. Evviva la libertà di pensiero! Ma come la mettiamo con la
coerenza politica e culturale?
Per presentare il suo libro “Sempre daccapo”, Fausto Bertinotti ha affidato la prefazione non a un
suo vecchio compagno, ma al cardinale Gianfranco Ravasi. E in occasione della sua presentazione a
Bergamo, non si è scelto come interlocutori i dirigenti comunisti di questa città, ma il vescovo e il
presidente di Federmeccanica. D’altronde, se si ritiene che insieme al socialismo reale lo tsunami
storico abbia travolto anche i pilastri costruiti da Marx e che, come Bertinotti stesso ricorda, la
Lettera ai Galati di San Paolo recita che l’uguaglianza assoluta può essere realizzata solo davanti a
dio, è logico che ai comunisti siano da preferire i prelati.
Il dramma è che ci troviamo di fronte a dirigenti della sinistra che non sono più comunisti, ma non
possono nemmeno vantare di essere discepoli di Cristo considerati i loro comportamenti.
Max Nordau, già un secolo fa, si diceva convinto che l’uomo politico nelle sue azioni non ha altro
scopo che l’appagamento delle proprie ambizioni. Per questa ragione, esso deve “saper fingere e
mentire, perché è obbligato a far buon viso a uomini che gli ripugnano; o, almeno, gli sono
indifferenti; se no, si creerebbe una caterva di nemici. E poi deve far promesse, ch’egli sa
preventivamente di non poter mantenere. Deve volgersi e parlare alle abitudini e alle passioni
volgari della moltitudine… Il mandato dovrebbe ottenerlo il cittadino più idoneo e più saggio;
l’ottiene invece quello che si caccia innanzi.... Ciò che innanzi tutto occorre è presunzione,
audacia, parlantina e volgarismo”.
Chi, osservando le vicissitudini della generalità della nostra classe politica, si sente in condizione di
dargli torto?
51. Il dilagante fenomeno del narcisismo
Altre gravi incongruenze di non pochi politici della sinistra sono attinenti ai loro comportamenti
narcisisti, trasformisti e corruttivi.
Il narcisismo, com’è risaputo, è un termine che proviene dal mito greco di Narciso il quale si era
innamorato della sua stessa immagine riflessa nell’acqua. Storicamente ha assunto una vasta gamma
di significati. L’interpretazione che ricorrentemente viene data a questo termine è quella che prende
in esame l’eccessivo amore che un individuo ha di sé.
In psicologia, narcisismo sta a indicare anche l’insano egocentrismo che è causato da un disturbo
del senso di sé. Sigmund Freud, osservando questa manifestazione nell’età adulta, ha messo
l’accento sul fenomeno del ripiegamento sull’io giudicando normale tale comportamento e
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ritenendo che una dose adeguata di amore di sé è la premessa necessaria alla vita affettiva. Solo
l’eccesso di narcisismo sarebbe da considerarsi negativamente.
Su tale comportamento dei politici si sono pronunciati molti uomini di pensiero. Tra questi, Thomas
Hobbes che già nel 17° secolo ha confessato di detestare l’amore che gli uomini di potere hanno per
se stessi e ha sostenuto che quando non ci sono carestie e guerre a disturbare l’agire dell’uomo è la
vanagloria.
Max Weber ha visto nella vanità un peccato mortale dell’uomo politico,.
Martin Buber ha asserito che il narcisismo porta spesso a stabilire relazioni con altre persone come
se queste fossero degli oggetti, facendone uso senza considerare il prezzo di una tale azione. Il
narcisista adulerebbe le persone che lo ammirano, mentre detesterebbe quelle che verso di lui si
mostrano indifferenti.
Otto Kemberg ritiene che nel modo in cui il narcisista si mette in relazione con altre persone ci sia
un che di spaventoso e che tale soggetto sia particolarmente equipaggiato per assumere funzioni di
leadership.
In effetti, se si osservano attentamente i comportamenti di molti uomini politici, non si può fare a
meno di constatare che essi manifestano anzitutto un esasperato bisogno di affermare tutto il proprio
io non curandosi dei danni provocati ai loro simili. In loro non c’è limite alcuno al desiderio di
eccellere, di primeggiare, di essere ammirati. Loro primo obiettivo è raggiungere la notorietà. Essi
fanno di tutto per essere all’attenzione degli altri, per apparire, per diventare oggetto di consumo
pubblico. Qualcuno ha scritto: “Date improvvisamente una carica, un grande potere a qualcuno e
costui si crederà un padreterno”.
Nel corso della mia esperienza politica, di soggetti simili ne ho incontrati parecchi. Ho assistito alla
modifica radicale del modo di essere, addirittura di atteggiarsi e di esprimersi, da parte di diversi
compagni all’indomani della loro elezione al Parlamento.
Se si prendono in considerazione i grandi uomini, quelli che almeno la storia ha decretato tali, si
scopre che pochissimi di loro sono sfuggiti alle tendenze narcisiste, al punto che si è indotti a
chiedersi se sia mai possibile diventare o essere “grandi” senza essere dei narcisisti.
Il narcisismo, infatti, ha trovato e trova diffusione in tutti i sistemi politici del mondo e in tutte le
epoche. Esso si manifesta anche in formazioni e in uomini impegnati a costruire nuovi modelli di
società e che perseguono la giustizia e l’uguaglianza.
Ricordo ancora lo stupore che mi ha suscitato il leggere quanto un illustre e amato precursore del
socialismo utopistico, Charles Fourier, ha scritto nella sua “Teoria dei quattro movimenti”: “Io solo
avrò umiliato venti secoli d’imbecillità politica, e solo a me le generazioni presenti e future
dovranno l’iniziativa della loro immensa felicità. Prima di me l’umanità ha perso parecchie
migliaia d’anni a lottare follemente contro la natura... Possessore del libro dei Destini, ho infranto
le tenebre politiche e morali e sulle rovine delle scienze incerte levo la teoria dell’armonia
universale”.
Certi studiosi americani considerano il narcisismo un fenomeno endemico da non poter essere
politicamente etichettato.
In Italia, le tendenze all’adulazione di se stessi oggi trova larga diffusione non solamente negli
ambienti politici della destra e del centro moderato, ma anche in quelli della sinistra. Ho avuto
modo di costatare questa verità in più occasioni. Già ho accennato al narcisismo dei compagni
Lucio Magri ed Eliseo Milani con i quali ho avuto rapporti stretti.
Tra le tante altre costatazioni che ho fatto, due in particolare mi sono rimaste impresse in maniera
indelebile. Un giorno mi è capitato di scoprire che il segretario di uno dei più importanti partiti
italiani, prima del suo comizio davanti a decine di migliaia di persone, si faceva somministrare
l’anfetamina. Quando mi sono trovato di fronte a quell’inaspettato e sconcertante riscontro, ho
immediatamente consultato un compagno noto psico-terapeuta per avere chiarimenti. Oltre ad
avermi fornito spiegazioni sulle ragioni di quella pratica (è un modo – mi spiegò – per poter far
fronte a tutti gli impegni di pubbliche relazioni che un leader deve affrontare e di risultare sempre
gradito ai propri interlocutori) e sulle sue conseguenze, egli mi ha confessato di essere sorpreso
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della mia meraviglia, giacché a fare uso di quella droga o di altre sostanze simili erano molti
esponenti del mondo politico. A fronte di quella spiegazione mi sono sentito un ingenuo funzionario
politico di provincia.
Quando poi avevo la responsabilità della segreteria regionale lombarda del Pci, ho avuto modo di
avere rapporti personali con Gian Carlo Pajetta. Egli era un personaggio straordinario, simpatico e
affabile, alla mano. Era però un narcisista inveterato. In occasione delle sue presenze a Milano, i
compagni che lo ospitavano dovevano sottostare a due sue condizioni. Nel pomeriggio del giorno in
cui veniva organizzato il suo comizio, doveva essere messa a disposizione per lui una terna di
compagni disposti a giocare a scopa e preparati a lasciarlo vincere a tutti i costi, in modo di non
turbare il suo umore. La seconda: prima del comizio, quand’era organizzato al chiuso, doveva
essergli assicurato che la sala fosse gremita di ascoltatori, altrimenti egli minacciava di astenersi dal
parlare.
Se ai miei tempi il fenomeno assumeva un carattere d’eccezione riguardando solo i principali leader
politici, con lo sviluppo dei mass-media e con la conseguente affermazione della politica-spettacolo,
esso è dilagato contagiando la maggior parte di chi è impegnato in politica. Basti considerare che
fino alla fine degli anni ’70 - primi anni ‘80, sui manifesti elettorali apparivano esclusivamente le
fotografie dei soli leader massimi e che dopo, invece, hanno costituito una rarità quei politici che
hanno rifiutato questa pratica esibizionista.
Anche tra i narcisisti in ogni modo è doveroso fare una distinzione. Ci sono uomini politici che non
riescono a mascherare l’amore che hanno per se stessi, ma che però non lo ostentano
pubblicamente. Uno di questi era Pietro Ingrao il quale, poco prima di morire, ha confessato di aver
“amato un po’ troppo l’applauso”. Ce ne sono invece di quelli che non possono fare a meno di
attrarre su di sé l’attenzione della pubblica opinione. Si tratta di soggetti che credono di aver qualità
eccezionali ed esclusive, di vantare una propria originalità. Questi personaggi hanno cura nel
parlare, nel vestire, nel muoversi e disdegnano essere contraddetti.
Un campione di questa categoria di politici è sicuramente Massimo D’Alema. Egli è stato un
politico importante: segretario della Fgci, segretario del Pds, presidente del Consiglio dei ministri,
ministro degli Esteri, presidente della Bicamerale, vice presidente dell’Internazionale socialista,
candidato al Quirinale e poi alla carica di ministro degli Esteri della Ue e infine aspirante alla
Commissione europea. Si era detto interessato anche alla presidenza della Camera dei deputati, ma
anche in questo caso è stato deluso dall’indifferenza dei suoi stessi compagni. .
Di recente D’Alema ha accusato Matteo Renzi, di avere “un certo grado di arroganza” eppure, se
in fatto di narcisismo i due sono gemelli, a riguardo di un atteggiamento borioso e presuntuoso egli
vanta pochi concorrenti. Cesare Luporini lo ha definito “homo del flectar, non frangar”, cioè uomo
che si piega e non si spezza; Luigi Pintor “la volpe del Tavoliere”, altri compagni “Baffin di ferro”.
Claudia Mancina e Gloria Buffo l’hanno accusato di essere abituato a decidere da solo e di parlare
troppo di presidenzialismo. Il suo ex braccio destro ai tempi in cui era a Palazzo Chigi, Claudio
Velardi, ha detto che “il problema di Massimo è che ha troppa considerazione della sua
intelligenza e poca della sua umanità”. Guido Rossi lo ha addirittura definito “un borghese”.
Ovviamente, D’Alema smentisce l’opinione che molti si sono fatti sul suo conto e assicura che lui
non si è mai lasciato andare al “vedettismo”. Ammette “Mi piaccio, non lo nego: So di avere molti
difetti, ma nondimeno sono abbastanza soddisfatto di me”. “Non mi sono mai preoccupato della
mia immagine, mi occupo della sostanza”.
E’ noto però che calza scarpe che costano centinaia di migliaia di euro, ama frequentare ristoranti
rinomati e lussuosi e non disdegna esibirsi in tv mentre cucina ai fornelli. Quando parla sembra che
pontifichi. Qualche maligno ha affermato che ha trafficato per diventare conte e che è riuscito a
rimediare solamente il titolo di viceconte.
Un altro campione di narcisismo è Fausto Bertinotti. Noto per i suoi cachemirini e per le costose
cravatte che si fa spedire da Luca Roda, ama frequentare i salotti e non disdegna la frequentazione
di chi è caritatevole con i ricchi anziché con i poveri. A un convegno organizzato da Economist
Conferences a Roma nel 2006 su “Leadership e narcisismo”, egli ha dichiarato: “Il tema è serissimo
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perché nella società della spettacolarizzazione si può forse fare a meno della vanità, ma non della
propensione narcisistica… Un uomo politico che appare sistematicamente in pubblico deve essere
un narciso, negarlo è ipocrita”. Ha tenuto a confermare in ogni modo che il suo impegno per la
costruzione di una società di liberi e di uguali è in cima ai suoi pensieri.
Appare evidente che anche la sinistra, sia quella riformista che quella rivoluzionaria, è figlia del
sistema. Alcuni suoi dirigenti non avvertono il bisogno di contenere e dominare la propria
ambizione personale e il proprio ego intellettuale, sembra non abbiano freni inibitori. Oltre a non
rinunciare ai privilegi che la delega comporta, considerano il narcisismo una normale e legittima
manifestazione di chi è stato investito dal mandato di rappresentanza. E di questo mandato abusano
mortificando i propri elettori e collaboratori, anziché farli crescere per renderli autonomi e portarli
al loro pari. Sembra ignorino che chi
è impegnato a soddisfare le proprie ambizioni egocentriche, sottrae necessariamente tempo e risorse
alla causa dell’interesse generale.
Secondo i principi del socialismo, il leader dovrebbe essere colui che stimola l’intelligenza, la
creatività, la personalità di chi ha riposto in lui stima e fiducia. Una società alternativa non può
essere realizzata su mandato, tanto meno da personaggi narcisisti; essa è necessariamente il prodotto
di uno sforzo corale, di un protagonismo diffuso.
Lo stesso mandato rappresentativo dovrebbe essere inteso dal politico di sinistra come un impegno
per il conseguimento della solidarietà e dell’uguaglianza, invece viene spesso interpretato, proprio a
causa della fobia narcisista, come l’occasione per soddisfare la propria libidine.
Si è condannato il culto della personalità di stampo staliniano e si è abbracciato il soggettivismo
esasperato di matrice borghese. Sotto le spoglie dell’amor proprio del leader, infatti, fa capolino la
figura del capo supremo dal profilo forte e autoritario.
Ci si dimentica spesso che la divinazione dei capi ha sempre rappresentato una sciagura per
l’umanità, in specie per il movimento operaio.
Olrtre un secolo e mezzo fa, Carlo Pisacane scriveva in “Guerra combattuta”: “Guai allorché le
masse giungono a credere all’inviolabilità ed all’infallibilità di un uomo. Guai allorché le masse si
avvezzano alla fede e alla ragione.... Tutti i partiti che hanno per bandiera un uomo col tempo si
assottigliano e poi spariscono”.
Chi si lascia affascinare dal soggettivismo si distacca necessariamente dal popolo. Il culto della
personalità porta inevitabilmente il leader a disprezzare i propri simili e lo spinge a considerarsi
onnipotente.
Ha scritto negli anni ’70 Umberto Cerroni commentando i drammi del movimento operaio:
“Avemmo dei capi politici che si ritennero in grado di risolvere problemi di linguistica, di genetica,
di musica, di economia politica riuscendo soltanto a frenare il progresso di queste e altre
discipline”. Ed è il caso di aggiungere, distruggendo qualsiasi rapporto democratico. Questo è
successo quando, anziché operare in direzione dell’emancipazione degli individui, del
potenziamento degli strumenti della partecipazione e del protagonismo sociale, al fine di
consolidare il proprio potere e soddisfare il proprio io, i “capi” hanno atomizzato i governati, li
hanno resi poveri di cultura, di spirito, di iniziativa, inducendoli a proiettare le loro aspirazioni in
chi aveva preso il loro comando.
Chiunque, tra coloro che sono investiti dalla delega, antepone all’interesse generale il
soddisfacimento delle proprie ambizioni personali, non fa altro che imitare quei capi politici del
passato che per il movimento operaio hanno rappresentato una sciagura.
Non è certo facile, specie nell’epoca dei net work e della politica-spettacolo, sottrarsi al fascino del
successo e dell’adulazione, e stabilire dei confini tra l’autocompiacimento e la scelta di voler essere
utili ai propri simili. Nel periodo di tempo in cui mi sono occupato del fenomeno leghista, ho
provato anch’io, ovviamente in misura molto modesta, la gratificazione di essere oggetto di
attenzioni da parte di compagni e di giornalisti. L’“esposizione al pubblico” rischia oggettivamente
di inebriare, fa girare la testa anche a chi narcisista non è.
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Un politico che si propone la costruzione di una società alternativa a quella capitalistica, però, deve
avere la forza di non lasciarsi vincere da simili debolezze e deve saper compensare la rinuncia a una
tale gratificazione con il piacere che deriva dall’essere al servizio della comunità.
La competizione è una pratica che appartiene alla natura umana e rappresenta una delle condizioni
del progresso. Il problema sta nell’uso che se ne fa. Il sistema entro il quale siamo immersi induce
in tutte le maniere a fare dell’emulazione un uso ai fini individuali, egoistici, eppure se l’umanità si
è emancipata è proprio perché ci sono stati degli uomini che hanno messo la loro intelligenza, il loro
genio al servizio non di sé stessi, ma dell’intera comunità; non per soddisfare il proprio
egocentrismo, ma per gioire nel vedere i dannati che emergono dal fango anche grazie al loro
contributo e alla loro dedizione.
La storia ci insegna che se si vuole estirpare la vanagloria dal comportamento dei politici, non basta
fare guerra ai narcisisti, ma è necessario superare le condizioni sociali che favoriscono questa
patologia morale. E chi sposa la causa del socialismo non può che far propria questa battaglia,
consapevoli che diversamente anche nel mondo della sinistra a vincere sarà inesorabilmente quel
che alcuni sociologi chiamano “darwinismo sociale”.
52. Le radici storiche del trasformismo moderno
Pure il termine trasformismo nel corso del tempo ha assunto significati diversi rispetto al senso
politico che aveva in origine. Inteso come processo, inizialmente stava a indicare il consolidamento
degli equilibri politici e parlamentari in una fase storica di instabilità governativa. Rappresentava
cioè il tentativo di far convergere uomini politici di diverso orientamento su obiettivi di interesse
generale. Nel corso del tempo, però, nella pratica politica è subentrata la tendenza a perseguire i
propri particolari interessi e il termine trasformismo è divenuto sinonimo di opportunismo,
corruzione, assenza di ideali, disinvolta disponibilità al cambio di bandiera. A favorire una tale
mutazione, ha contribuito la natura stessa della politica il cui esercizio induce i suoi protagonisti a
rinnovarsi di continuo, giacché la società è investita in permanenza da un processo di cambiamento.
Al riparo da qualsiasi forma di controllo dal basso, gli esponenti politici si sono così specializzati
nell’arte dell’adattarsi alle circostanze, nello sfruttamento delle opportunità e nell’autoriproduzione
della propria leadeship.
Se dunque un tempo il trasformismo ha rappresentato un rimedio a situazioni di impotenza politica,
successivamente ha costituito un connubio di tutte quelle forme degenerative di individualismo e di
autosufficienza che sono tipiche di quegli uomini politici che si proclamano portatori della verità,
ma nel concreto fanno abuso della delega venendo meno al dettato democratico.
Ai tempi nostri, si è trasformisti non in forza di un semplice cambio di bandiera, ma lo si diventa
quando questo atto di conversione procura vantaggi personali a chi lo compie in dispregio
dell’interesse generale di cui ci si proclama fautori. Ogni salto di campo in politica deve perciò
essere valutato attentamente e individualmente, giacché esso può essere dettato sia da coerenza
intellettuale, se non addirittura da lungimiranza, sia da convenienza politica personale.
Guai a essere immobili, cocciuti, indisponibili a un processo evolutivo! Il saggista statunitense
James Russell Lowell ha asserito che “solo i morti e gli stupidi non cambiano mai idea”. In un
mondo in continua evoluzione se non si avverte il bisogno di rinnovarsi, di cambiare opinione e
atteggiamenti, di rifiutare l’irrigidimento intellettuale, nel rispetto dei valori universali, ci si riduce a
dei fossili.
A un politico di sinistra è richiesto di far proprio il metodo dialettico che presuppone appunto un
continuo ripensamento del proprio modo di essere e di fare. Ogni modifica del suo comportamento
e del suo pensiero deve essere però giustificata e compiuta nel massimo della trasparenza.
Soprattutto, per non avere carattere trasformista, essa deve rispondere sempre al conseguimento
dell’interesse della comunità, non già del proprio vantaggio personale.
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Sul trasformismo politico i giudizi non sono unanimi. C’è chi lo considera una normale
manifestazione di libertà e chi invece lo condanna come un tradimento della buona fede degli
elettori.
Massimo Salvadori ritiene che il fenomeno non sia determinato “da un originario vizio morale, ma
dalla dinamica dei rapporti tra le forze politiche” e per certi versi lo giustifica. Sergio Romano
nega abbia sempre una connotazione deteriore. Karl Popper giudica il cambiare idea un modo per
“addentrarsi in nuovi territori”, attribuendo a chi lo fa il coraggio di rischiare. C’è infatti chi lo
considera uno scouting, cioè un’esplorazione, una ricognizione, uno scoutismo.
Molti politici lo giudicano senza riserve in modo positivo. Quando Francesco Cossiga veniva
sollecitato ad esprimere la sua opinione sul comportamento trasformistico di alcuni suoi colleghi,
soleva ricordare che il primo voltagabbana della storia è stato San Paolo, convertito sulla via di
Damasco. Anche Claudio Martelli, nel corso di uno dibattito polemico sull’argomento, ha voluto
ricordare che pure Lutero è stato un trasformista. Cirino Pomicino, ex democristiano inquisito nel
corso di “tangentopoli”, ha teorizzato che “la fedeltà in politica non esiste. Solo nei sistemi
autoritari si deve essere fedeli a un leader o a uno schieramento. Questa storiella dei voltagabbana
è l’ultima coda velenosa dell’antipolitica. In democrazia si è fedeli solo alla propria linea”,
“cambiare parte è un diritto”.
Al contrario di tutti questi benpensanti, Giosué Carducci ebbe a commentare che il trasformismo è
“brutta parola e cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non
però rimanere sinistri”, ed è stato perentorio nel condannarlo. E pure Carlo Goldoni, nel presentare
Arlecchino come il personaggio dei travestimenti, degli equivoci, dei quiproquo, servo di due
padroni, non ha esitato a condannare la pratica del travestimento.
Chi cambia casacca per opportunità e per interesse personale, non può che essere considerato un
mercenario della politica. La storia annovera parecchi campioni del trasformismo che non hanno
avuto alcuno scrupolo nel rigettare la causa della giustizia sociale e delle classi meno abbienti, dopo
che avevano scalato il potere. Avevano promesso di operare per il bene comune, ma poi si sono dati
come obiettivo prioritario il soddisfacimento delle proprie ambizioni personali.
Tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento, la Francia ha rappresentato la culla del
trasformismo, avendo avuto una classe politica disinvolta al punto da provocare, nel 1815, la
pubblicazione del “Dizionario delle banderuole”, opera nella quale vengono citati uomini e ripresi
discorsi, proclami e canzoni che testimoniano quanto a quel tempo fosse diffusa la pratica di
cambiare idee e schieramento.
Nel corso della rivoluzione francese sono stati molti i politici che dopo aver fatto parte di organismi
dirigenti al tempo di Luigi XVI, hanno continuato a svolgere la loro funzione al servizio della
repubblica. Tra questi personaggi disposti al servilismo indiscriminato domina la figura di Charles
M. Talleyrand-Périgord il quale è passato attraverso l’antico regime, la rivoluzione, la restaurazione
e una nuova rivoluzione servendo gli uomini di Stato che si sono via via succeduti. Appartenente a
una stirpe aristocratica fra le più antiche e illustri, egli è stato dapprima vescovo e poi consigliere,
ministro, diplomatico e ambasciatore. E’ stato pure principe di Benevento. Anche quando diceva
messa non ha mai smesso di passare da un letto all’altro. Era un uomo venale e ha sempre
approfittato delle sue investiture per fare soldi. Ha tradito non solo la Chiesa, operando per la
costituzione civile del clero, ma anche il re e Napoleone il quale lo ha definito “Merde in una calza
di seta”. In compenso è morto con il conforto dell’estrema unzione.
Lo stesso Napoleone era un trasformista in fatto di religione, Quand’era in Egitto si atteggiava a
musulmano, mentre in Francia dichiarava di essere cattolico e tra i professori dell’Institut di Parigi
faceva il libero pensatore.
Il trasformismo è stato presente anche tra i seguaci di Saint-Simon, parecchi di loro, infatti, hanno
finito per diventare imprenditori, capitani d’industria, costruttori di mezzi di comunicazione. Uno
dei principali rappresentanti del socialismo riformista francese, Alexandre Millerand, ha fatto parte
di un governo di “difesa repubblicana” il cui ministro della guerra era il generale Galliffet, quello
che ha massacrato i membri della Comune di Parigi.
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Anche in Germania non sono mancati i trasformisti. Gottfried Kinkel, un teologo ortodosso che
aveva aderito al partito di Marx ed Engels, nel 1849, davanti al tribunale militare di Rastatt che
aveva condannato e mandato alla fucilazione 26 suoi compagni, ha osannato il potere gridando
“evviva l’impero degli Hohenzollern”. Franz Mehering lo ha definito un “mercante d’anime”.
A vantare un’antica presenza di voltagabbana è pure l’Italia che è da considerarsi un’altra culla del
trasformismo. Prima del 1848, il nostro Paese era popolato da molti uomini politici che
esprimevano con forza idee pacifiste e cosmopolite. Trascorso il tempo dei moti, però, parecchi di
loro hanno rinnegato il proprio passato definendo scempiaggini gli ideali in cui avevano creduto.
Una caratteristica costante dei tempi del Risorgimento e dei primi decenni dell’unificazione del
Paese è stato il riassorbimento di ogni spinta riformistica in un sistema appunto di tipo
trasformistico. Questo fenomeno ha investito per lunghi decenni lo stesso movimento operaio e ha
fatto sì che, interi gruppi dei suoi quadri anarco-sindacalisti e riformisti, in specie ai tempi della
guerra libica e del primo conflitto mondiale, confluissero nel campo moderato-conservatore.
Istigatore al trasformismo è stato lo stesso Camillo Benso conte di Cavour il quale, accogliendo nel
suo governo di destra il capo della sinistra Urbano Rattazzi, si è assicurato un sostegno
parlamentare che lo ha reso inattaccabile. Marco Minghetti, che dopo essere stato capo di un
governo di destra, si è prodigato per favorire l’alleanza tra la destra e la sinistra, dapprima ha
sostenuto che il trasformismo è sinonimo di evoluzione (“la legge generale delle cose viventi”),
tempo dopo lo ha giudicato “apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo
scopo è il potere come tale”.
All’indomani dell’unità d’Italia, allo schieramento di destra venivano attribuite molte virtù
(moralità, senso dello Stato, coerenza politica), mentre quello di sinistra veniva accusato di essere
facile al malcostume, all’incoerenza e al trasformismo. Campioni di un tale degrado sono stati
alcuni suoi massimi esponenti, nonché statisti, come Agostino Depretis e Francesco Crispi i quali,
assieme a Giovanni Nicotera, da leader della sinistra sono diventati simulacri della destra.
Depretis si è contraddistinto per la sua capacità di tessere compromessi e patteggiamenti e di ordire
intrighi. Ha inventato il consociativismo partitocratrico e ha favorito il dilagare della corruzione. Ha
saputo manovrare il Parlamento, manipolare governi e ministeri, formare clientele e perseguire
come un unico, primario scopo politico il mantenere il potere a qualunque costo. E’ stato pure un
precursore nella lotta agli opposti estremismi: ha combattuto contemporaneamente la reazione
clericale e il movimento socialista. Nel 1882 ha avanzato la proposta di un grande partito nazionale
che fosse privo di qualsiasi connotazione e nel quale ha incluso quei rappresentanti dell’opposizione
che si sono resi disponibili a “concorrere alla stabilità del Paese”. Egli è stato peraltro un
conoscitore acutissimo delle vanità, delle debolezze e delle ambizioni umane.
Crispi, da mazziniano e garibaldino ha finito per servire la monarchia. Prima si è definito lui stesso
“borghese rivoluzionario” poi, in veste di ministro, ha decretato lo scioglimento del Partito
socialista e ha represso selvaggiamente sia i fasci siciliani che il movimento dei lavoratori. Per il
suo modo disinvolto nell’ottenere i prestiti dalla Banca romana è stato accusato anche di corruzione.
Cresciuto in seminario, egli ha ostentato un anticlericalismo esasperato, salvo poi tendere la mano al
Vaticano nel momento in cui aveva bisogno di appoggi.
Anche il barone Nicotera, dopo aver partecipato alla spedizione di Pisacane ed essere stato
garibaldino, è passato nelle file della monarchia. Uno dei suoi capolavori è stata la decisione di
condannare e perseguitare gli anarchici che, con in testa Carlo Cafiero ed Enrico Malatesta, avevano
dato l’assalto ai comuni del Beneventano.
Commentando quella fase politica, Giulio Trevisani in “Storia del movimento operaio italiano” ha
scritto: “In quel tempo nella vita pubblica italiana si accentua il clima di sfiducia nella classe
dirigente e nel governo e dilagano il favoritismo e l’affarismo. Ai principi del secolo verrà alla luce
tutto il marciume che già da quel tempo serpeggia nelle banche e inquina la classe politica
dirigente”.
Sta di fatto che a quell’epoca il trasformismo paradossalmente ha consentito all’Italia di diventare
una nazione. Per il movimento operaio, invece, esso ha rappresentato una forma di “rivoluzione
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passiva”, dal momento che ha favorito l’inclusione nell’area moderato-conservatrice di molti suoi
illustri esponenti. Caratteristica dominante del sistema di potere che anche attraverso tale inclusione
si è consolidato, è stata quella di avversare ogni intervento delle masse popolari nella vita dello
Stato.
Con il primo conflitto mondiale ha poi avuto inizio una vera e propria migrazione di personalità e di
idee da uno schieramento politico all’altro, dalla sinistra alla destra e viceversa. Due esempi
eloquenti sono quelli di Gabriele D’Annunzio che, eletto nello schieramento della destra, è passato
alla sinistra e di Benito Mussolini che da leader socialista e direttore de “l’Avanti!”, fondando il
Partito fascista, è divenuto uno spietato dittatore e persecutore del movimento operaio.
Tra i trasformisti illustri di quel tempo è da annoverare anche Giovanni Giolitti il quale ha oscillato
dalla destra alla sinistra e viceversa in più circostanze, fino al punto di favorire l’avvento del
fascismo. Salvemini lo ha definito “il ministro della malavita”.
E poi Nicola Bombacci che è stato prima socialista riformista, poi massimalista, quindi comunista e
dopo aver collaborato con Mussolini ha aderito alla Repubblica di Salò.
E Alberto Beneduce che da socialista riformista ha avversato il fascismo, ma poi ha accettato di
presiedere enti e società finanziarie create dal regime di Mussolini.
E’ da tener presente che il regime fascista ha potuto affermarsi proprio grazie all’inglobazione nei
suoi ranghi di un gran numero di quadri dell’Italia liberale. Piero Gobetti è stato assassinato anche
perché si è orgogliosamente battuto contro tutti quei liberali che si sono accodati al carro del
vincitore. Pure Antonio Gramsci si è scagliato contro “i nipotini di padre Bresciani” e ha condotto
una dura lotta contro il trasformismo presente nelle file del movimento operaio.
Un altro leader socialista che non ha resistito all’onda trasformista è stato Gaetano Salvemini. Egli
non ha mai avuto un posto stabile nel pantheon politico italiano proprio perchè è stato nel contempo
socialista e liberale, marxista ed elitista, nonché anticomunista. Nel 1923 ebbe a dichiarare che
“dittatura per dittatura, preferisco quella di Mussolini a quella di Giolitti”. Al nascente partito di
massa (da lui definito “chiesuola coi suoi preti e i suoi papi”) ha contrapposto un partito d’opinione
leggero, programmatico e trasversale. Proprio di quel genere oggi sognato dai moderni progressisti.
Dalle file del Pci al regime filonazista di Vichy è passato invece Angelo Tasca. E pure
Giuseppe Berti, eminente dirigente comunista, da braccio destro di Bordiga si è affiancato alle
posizioni di Tasca.
Lo stesso regime sovietico per poter reggere e governare, ha dovuto richiamare in servizio un
numero elevatissimo di specialisti borghesi e di funzionari zaristi costringendoli così a una
conversione politica che non ha certo giovato al socialismo. Se Peter B. Struve da marxista
revisionista è passato dapprima alla socialdemocrazia, poi è divenuto un eminente uomo politico
liberale e infine ha fondato il partito dei cosiddetti “cadetti”, Arthur Koestler, membro ungherese
del Comintern, nel 1938 ha abbandonato il partito comunista e con gli anni è divenuto un
anticomunista viscerale, fino al punto di schierarsi con la nuova destra.
Se si tiene conto di questo straordinario via vai politico che ha caratterizzato lo stesso mondo della
sinistra, non si può di certo mostrare meraviglia di fronte a un voltagabbana come Winston
Churchill il quale ha abbandonato i conservatori per passare con i liberali, e più tardi ha voltato le
spalle ai liberali per passare di nuovo tra i conservatori.
L’ex politico Paolo Mieli, nella sua veste di storico, ha precisato che “infinite sono le leggi che
regolano lo studio del tradimento nella storia. Ma due sono superiori alle altre. La prima: chi vince
non viene mai considerato un traditore. La seconda: il tradimento è questione di date, ciò che oggi
è considerato un tradimento, domani potrà essere tenuto nel conto di un atto coraggioso”. A lui,
del resto, il coraggio di cambiare non è di certo mancato.
Gli episodi di trasformismo si intensificano infatti nei periodi in cui il mondo della politica è
pressato dai cambiamenti sociali. Dall’inizio della seconda guerra mondiale alla fine del secolo
scorso, da noi, questo fenomeno si è registrato in particolar modo nel biennio 1943-44, poi si è
ripetuto negli anni 1947-48, quindi nel 1968-69 e ancora nel 1993-94.
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Con la caduta del fascismo e la fine del conflitto mondiale il nostro sistema democratico ha
ereditato un gran numero di funzionari dello Stato fascista e inglobato repubblichini di Salò, com’è
il caso di Mirko Tremaglia che è stato addirittura nominato ministro della Repubblica, senza che
questi personaggi avessero a rinnegare il loro passato.
Successivamente, con la guerra fredda il trasformismo ha di nuovo investito la componente
moderata del movimento operaio, mente all’indomani della contestazione studentesca e operaia, a
seguito del riflusso del movimento, a rinnegare quella che venne definita “infatuazione
rivoluzionaria” sono stati molti esponenti della sua ala sinistra più estrema.
Alla fine degli anni ’70, a dominare la scena politica italiana è stato invece il consociativismo al
quale è poi subentrato il craxismo che ha indotto molti vecchi hippies a trasformarsi in yuppies.
Dopo il crollo del socialismo reale sono invece proliferati gli ex o post comunisti. Anche da noi si è
registrato un processo identico a quello che si è verificato in Russia e che il dissidente Jurij Karjakin
ha così descritto: “La massa dei politici-cinici del mio Paese in un sol giorno ha rifiutato la tessera
del partito, e questa velocità nel cambio di idea è indice che l’unico obiettivo che li muoveva era
l’interesse per il potere”.
Da quel momento, in Italia, i partiti della sinistra non hanno fatto altro che preoccuparsi di cambiare
nomi e insegne. Hanno fatto tabula rasa di tutta l’attrezzatura politico culturale che il movimento
operaio si era faticosamente costruito e hanno abbracciato la “modernità”.
E’ così successo che a seguito di quel terremoto l’Italia è stata governata dalla peggiore classe
politica che sia mai esistita nel corso della sua storia unitaria ad eccezione del ventennio fascista.
Ai primi del secolo,il fenomeno trasformista si è ingigantito a tal punto che il presidente della
Camera dei deputati si è sentito in dovere di elaborare un decalogo per frenare il trasferimento dei
parlamentari da un gruppo all’altro. Il suo sforzo, però, si è rivelato vano: la pratica del cambio di
casacca ha continuato ad allargarsi al punto che nel gennaio 2016, cioè a due anni e mezzo dalla
loro elezione, ben 226 dei 950 eletti al Parlamento italiano, esattamente il 24% circa, risultavano
appartenenti a una formazione politica diversa da quella per la quale erano stati eletti.
Negare che questa sia una delle testimonianze della crisi della delega significa far finta di non
vedere l’evidenza.
53. I voltagabbana dell’era postfordista
Recentemente alcuni osservatori politici europei hanno attribuito a noi italiani una propensione al
trasformismo. In realtà, se si considera il nostro passato e talune perverse consolidate abitudini della
nostra classe politica, non si può ritenere che questa critica rappresenti un pregiudizio nei nostri
confronti. In effetti, noi italiani tra l’altro vantiamo una particolare predilezione a risolvere le
situazioni d’ingovernabilità attraverso riforme del sistema elettorale che, anziché rendere più snello
ed efficiente il meccanismo della rappresentanza, contribuiscono alla degenerazione del sistema
democratico e sollecitano di fatto pratiche narcisiste e trasformiste. L’adozione dei collegi
uninominali a doppio turno ne sono un esempio, come pure lo è la lotta per la conquista e la
conservazione del potere condotta a scapito dei meriti e dei valori.
Quando la politica si presenta come spettacolo ed è priva di grandi idee e di progetti a lungo
termine, è destino che l’arte del governare si riduca a maneggioneria producendo illegalità e
trasformismo.
Se però, oltre al nostro caso, si prendono in considerazione le esperienze degli altri Paesi
democraticamente evoluti, ci si rende conto che il trasformismo non è affatto una nostra prerogativa
esclusiva. Per fare qualche esempio, la Francia moderna vanta Michel Rocard che da segretario del
Psu, formazione extraparlamentare, è divenuto segretario del Partito socialista, quindi ministro, poi
primo ministro e infine si è ridotto a collaborare come membro della Commissione Pochard con il
destro Sarkozy. La Germania è la patria di Joschka Fischer che da supercontestatore verde e
sostenitore della non violenza, quando è divenuto ministro degli esteri del governo Schroder, ha
sostenuto l’intervento Nato in Kossovo al grido “mai più Auschwitz”. Gli stessi Stati Uniti, negli
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anni ’80, hanno avuto come ambasciatrice all’Onu Jane Kirkpatrick che da democratica si è
trasformata in eroina dei conservatori facendo parte del team di politica estera di Ronald Reagan.
Se poi si prendono in considerazioni le esperienze trasversaliste, non si può ignorare che se da noi
c’è stata la fase del compromesso storico, in Austria, nella regione della Corinzia, i
socialdemocratici sono entrati nel governo presieduto dallo xenofobo Jorg Haider e che attualmente
Angela Merkel governa la Germania sostenuta da una coalizione composta dai conservatori della
Cdu e dai socialdemocratici della Spd. Del resto, sono proprio i sistemi politici vigenti e la
conseguente crisi della rappresentanza a favorire simili tendenze.
Detto questo, va riconosciuto che mentre nella stragrande maggioranza degli altri paesi il cambio di
casacca resta un’eccezione, da noi è una consuetudine che caratterizza tutti gli schieramenti politici.
Di più ancora, da noi i voltagabbana di regola anziché essere biasimati vengono premiati.
Vantiamo addirittura la presenza di partiti i cui gruppi dirigenti sono il frutto di operazioni di
trasformismo collettivo: è il caso della Lega Nord il cui leader fondatore era un iscritto al Pci e il
suo gruppo dirigente era composto in larga parte da ex appartenenti ad altri partiti, e di Forza Italia
il cui staff dirigenziale era formato quasi esclusivamente da superstiti della Dc e del Psi, oltre che
del Pli.
Il nostro stesso Parlamento, che teoricamente dovrebbe essere il simbolo della moralità pubblica e
della chiarezza politico-programmatica, se si considera che una gran quantità dei suoi membri non
sono solo dei voltagabbana, ma anche degli inquisiti dalla Magistratura, è nei fatti in larga parte
espressione dell’ambiguità e dell’equivoco. Una delle tante dimostrazioni di questa sua
caratteristica la si è avuta recentemente, allorquando la Consulta ha decretato la discutibile
illegittimità dei tagli alle pensioni più alte. In quell’occasione, un consistente numero di
parlamentari ha accolto tale decisione esultando, scordandosi che il provvedimento che ha bloccato
l’indicizzazione delle pensioni e che ha contribuito al varo di quella legge era stato votato
dall’80,6% di loro. Anche questo è trasformismo. E purtroppo simili incoerenti atteggiamenti
collettivi e trasversali da parte degli eletti sono ricorrenti.
Il dato però che ci colloca tra i Paesi la cui classe politica è segnata a fondo dalle pratiche
trasformistiche è costituito proprio dalla presenza da noi di un elevato numero di dirigenti di partito
e parlamentari volubili e dal fatto che essi sono presenti in pressoché tutti gli schieramenti.
In quest’ultimo quarto di secolo, difatti, il via vai dei politici da un partito all’altro e da una
coalizione all’altra ha assunto un’intensità impressionante.
La nostra classe politica vanta trasformisti di varia natura. E’ popolata da giullari come Vittorio
Sgarbi che sono usi andare a servizio di chiunque sia disposto a soddisfare il loro edonismo; da
illusionisti come Giorgio La Malfa o Carlo Fattuzzo, specialisti nell’inventare partitini funzionali
solo a catturare gli allocchi con l’obiettivo di conquistarsi un seggio parlamentare; da una variopinta
schiera di trasformisti inveterati, alcuni dei quali ho avuto l’ingrato destino di incrociare
personalmente sul mio percorso.
Gianni Baget Bozzo, sacerdote e di origine democristiana, ha avuto più volte la sfacciataggine di
rimproverarmi di essere comunista, “un profeta senza dio”, “un figlio di Satana”, ammonendomi a
seguire il suo esempio. Egli si vantava orgogliosamente di essere il mentore di Bettino Craxi.
Quando il segretario socialista è sparito dalla scena politica, ha cambiato disinvoltamente cavallo
passando a servizio di Silvio Berlusconi che lui considerava “un evento spirituale”, “il frutto
provvidenziale dello Spirito Santo”.
Marco Pannella, abile incantatore, si è sempre dimostrato attento a capire da quale parte pendesse la
bilancia per restare eternamente sulla scena. Da antimilitarista e marciatore della pace, quando il
guerrafondaio George Bush ha fatto visita ai potenti del nostro Paese, lui, l’emblema della politica
radicale, ha voluto esprimergli il benvenuto.
Marco Formentini, in origine socialista, è divenuto borgomastro leghista di Milano, poi ha aderito ai
Democratici, alla Margherita e all’Ulivo venendo eletto al Parlamento europeo. Non soddisfatto, è
ritornato nel centrodestra con la Nuova democrazia cristiana e quindi con il Popolo delle libertà.
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Philippe Daverio, intellettuale che ama definirsi “politicamente daltonico”, da assessore leghista
alla cultura è stato eletto consigliere provinciale nelle liste diessine di Filippo Penati, poi è
ridiventato assessore alla cultura a Palermo con la giunta guidata dal forzista Diego Cammarata. Ha
voluto pontificare che il futuro si chiama trasversalità e precisare che considera “i partiti dei
produttori di mobili: sedie e poltrone”.
Pier Gianni Prosperini, ex liberale, poi leghista, quindi transfuga (“traditur” come lo hanno definito
i “padani”) in Lega Alpina Lombarda, ha aderito ad An ed è finito nel Pdl.
Sergio De Gregorio, sindaco e parlamentare, è stato socialista, forzista, democristiano per le
autonomie, ha aderito a Italia dei valori, poi è passato al Polo delle libertà. Ha avuto la faccia tosta
di affermare: “Sono sempre stato coerente con me stesso”.
Clemente Mastella è stato dirigente democristiano, poi del Ccd, del Cdr, dell’Udr, dell’Udeur, poi si
è aggregato all’Unione di Prodi diventando ministro, quindi ha fondato il movimento Popolari per il
Sud e infine è approdato al Polo delle Libertà.
Maria Fida Moro, dopo essere stata senatrice Dc, è passata a Rifondazione comunista, poi al
Movimento sociale, poi si è candidata nella “Lista Dini”, quindi ha aderito al Partito radicale e in
fine ha fondato il Movimento cristiano sociale.
Daniele Capezzone, già segretario del partito radicale è diventato portavoce di Forza Italia.
Diego Masi, candidato del centro sinistra a governatore della Lombardia, pur di diventare assessore
della Provincia di Milano, si è alleato con la forzista Ombretta Colli.
Francesco Acquaroli, già governatore delle Marche per il centrosinistra, si è ricandidato con il
centrodestra.
Massimo Calearo, imprenditore sceso in politica ed eletto deputato nelle liste del Pd, dopo essere
passato all’Api di Francesco Rutelli, si è alleato con Domenico Scilipoti dichiarandosi esponente di
“Popolo e territorio”. Ha disertato la Camera considerando usurante il lavoro del parlamentare, però
se n’è ben guardato dal dare le dimissioni.
Maria Antonietta Maciocchi , da esponente di spicco della sinistra è passata prima con i radicali, poi
si è candidata alle elezioni europee con i pattisti di Mario Segni.
Tutti questi personaggi, che rappresentano solamente un frammento della classe politica
trasformista, hanno indubbiamente dimostrato di essere dei soggetti politicamente inquieti, mai
soddisfatti, protesi alla ricerca del “nuovo”, pertanto lo spirito di rinnovamento che li ha
contraddistinti potrebbe apparire a qualcuno encomiabile. In verità, visto i risultati del loro operato,
questo essere in permanente ricerca del “meglio”, non è consistito nella volontà di fare del bene alla
comunità, bensì nel soddisfare le loro grette ambizioni personali.
Se a dare preminenza alle aspirazioni individuali rispetto all’interesse collettivo, è un
comportamento che può ritenersi congeniale e comprensibile nel politico moderato-conservatore,
proprio per la sua concezione della politica e dei rapporti sociali, nel politico di sinistra non
dovrebbe essere assolutamente tollerato. Così però non è stato e non è.
Anche tra chi assicura di perseguire l’interesse delle classi subalterne c’è qualcuno che alla
coerenza predilige l’opportunismo e per conseguire un seggio nelle istituzioni rinnega
disinvoltamente il proprio passato.
Pietro Ichino, ex dirigente Pci milanese e appartenente al gruppo dei fondatori del Pd, dopo le
primarie del dicembre 2012, è stato eletto nella lista “Scelta civica”. Successivamente, ha
abbandonato questa formazione per rientrare nel Pd.
Salvatore Buglio, unico operaio che i Ds hanno avuto in Parlamento nella XIV legislatura, non
essendo stato riproposto dal partito per aver già occupato il seggio per due legislature, si è candidato
nella lista “La Rosa nel pugno”, una formazione promossa dal socialista Enrico Boselli e dai
radicali di Pannella. Da genuino rappresentante del proletariato rosso, in occasione della guerra in
Afghanistan, ha messo in circolo un suo ritratto con la scritta “Io sto con Bush”, dopo di che si è
iscritto alla Cisl e infine ha fatto un’interrogazione in Parlamento chiedendo al governo di fermare i
giudici torinesi che stavano indagando sui casi di doping riscontrati tra i giocatori della Juventus.
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Roberto Conte, ex consigliere regionale campano del Pd, si è candidato in una lista collegata al
Popolo delle libertà.
Gavino Angius, responsabile organizzativo del Pci-Pds, membro della direzione e vice presidente
del gruppo senatoriale, dopo l’uscita dal correntone di Fabio Mussi e Cesare Salvi, ha abbandonato
il partito per aderire allo Sdi.
Lanfranco Turci, storico presidente della Lega Coop e senatore Ds, ha abbandonato il partito per
farsi eleggere nelle liste de “La rosa nel pugno”.
Marco Malinverno, già sindaco Pci-Pds di Peschiera Borromeo, nel Milanese, inquisito e
condannato, è passato alla destra divenendo capogruppo Udc alla Provincia di Milano.
Che differenza ci sia tra questi personaggi, che un tempo hanno militato nelle file del comunismo, e
quei socialisti come Fabrizio Cicchitto, Maurizio Sacconi e Giuliano Cazzola che dopo l’era del
craxismo sono approdati sui lidi della destra di Berlusconi e successivamente su quelli della “nuova
destra” di Alfano, trasformandosi in nuovi simboli del conservatorismo, non è certo facile stabilirlo.
Se è pur vero che nei paesi dell’evoluto Occidente i maestri e i discepoli del socialismo che si sono
trasformati in suoi aspri e saccenti critici sono stati parecchi, è da riconoscere che nel nostro Paese
questa razza di voltagabbana ha costituito addirittura un movimento.
Un loro esemplare è stato senz’altro Lucio Colletti. Considerato da alcuni il miglior filosofo del
marxismo, anzi uno dei suoi interpreti di sinistra, è stato un critico feroce della socialdemocrazia e
ha definito la rappresentanza parlamentare una falsa democrazia. Ha esaltato il Lenin di “Stato e
rivoluzione” e teorizzato la distruzione della macchina dello Stato. Con la maturità, però, si è
ricreduto e, sconfessato l’intero suo passato, si è trasformato in un acerrimo nemico del comunismo.
Ha concluso la sua carriera politica sedendo in Parlamento con i colori di Forza Italia, sotto l’egida
del potente dulcamara di Arcore, colui che è ancora convinto che i comunisti mangino i bambini.
A fare più o meno lo stesso percorso di Colletti sono stati tanti altri rappresentanti del comunismo.
Sandro Bondi è uno di questi. In gioventù è stato segretario della Fgci della Lunigiana, poi è
diventato sindaco comunista di Fivizzano. Quando gli è capitato di incontrare Berlusconi ha avuto
una folgorazione: in lui ha visto il “candore”, la “purezza” ed è perciò passato a Forza Italia
divenendo addirittura il suo coordinatore. “Avverto l’afflato religioso per la giustizia sociale”, ha
dichiarato, e ha confessato di portare sempre con sé l’immaginetta di Padre Pio. La sua fede e il suo
servilismo gli hanno fruttato la nomina a ministro. Di fronte alla presa di distanza dal comunismo di
Veltroni, ha fatto sapere di provare per lui una pena profonda. Qualche anno dopo, assieme alla sua
compagna, ha fatto di nuovo le valige e ha accusato il divino Silvio di essere “un sadico”.
Chicco Testa è stato uno studente liceale cresciuto nel vivaio dei salesiani. Laureatosi in filosofia
con una tesi su Adam Smith e Carl Marx, è divenuto presidente di Legambiente.
In occasione del referendum sul nucleare è stato alla testa della rivolta popolare contro l’atomo. Poi
è finito sugli scanni di Montecitorio a rappresentare il Pci-Pds (ahimé, anche con il mio voto). A
metà degli anni ’90 è divenuto presidente dell’azienda comunale romana Acea, poi della Cispel, la
confindustria delle municipalizzate, dopo di che è sbarcato all’Enel in qualità di presidente. Durante
il suo mandato, le tariffe dell’elettricità hanno subito un aumento mentre nell’area dell’euro, salvo
che in Olanda e in Danimarca, registravano un calo. Ha fatto parte anche dell’Advisor board,
comitato consultivo a livello europeo il cui compito è quello di dare consigli ai grandi gruppi
industriali su temi di politica ed economia a livello internazionale, e pure del fondo Usa Carlye. E’
stato director della banca d’affari Rothschild. Rassicurando che pur essendo diventato manager
continuava a odiare le ingiustizie sociali, si è convertito al sistema. A metà del primo decennio del
secolo ha dichiarato: “Oggi un mondo senza energia nucleare è impensabile” e nel 2009 ha
sostenuto che “il nucleare è il sistema più sicuro di tutti”. E’ così divenuto presidente di Telit e del
Forum nucleare italiano. Non sembra casuale dunque che di recente, al teatro Parioli di Roma, in
compagnia di esponenti di Scelta Civica, egli abbia partecipato a una rappresentazione teatrale
impersonando Winston Churchill. Gli amici lo chiamano Chicco Festa.
Franco Bassanini, socialista, eletto nelle liste del Pci-Pds, è stato parlamentare, sottosegretario,
ministro e poi presidente della Cassa depositi e prestiti. Ha sostenuto che la riforma
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dell’amministrazione pubblica non è né di destra né di sinistra. Ultimato il mandato è stato chiamato
da Sarkozy a far parte della commissione Attali, incarico che lui ha accettato di buon grado: “Stetti
al gioco… e oggi (era il 2012) non mi pento”. Ora è advisor di Renzi.
Giampiero Borghini, dirigente nazionale della Fgci, segretario della federazione bresciana del Pci,
consigliere regionale, vicedirettore de “l’Unità”, da responsabile economico del Pci lombardo e
membro del comitato centrale del partito, si è identificato a tal punto con i riformisti di Craxi da
diventare, con l’ausilio del patriarca del garofano, sindaco di Milano. Decaduto, col sostegno di
Forza Italia è divenuto assessore regionale nelle giunta di Roberto Formigoni. Trombato come
candidato consigliere comunale nelle liste di Forza Italia, è stato nominato direttore generale del
Comune di Milano, mantenendo al tempo stesso il seggio in Consiglio regionale. Con l’obiettivo di
dare vita a un nuovo grande partito, è stato tra i firmatari del manifesto “La nuova casa comune dei
moderati e dei riformisti”, accanto a Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, Renato Schifani, Rocco
Buttiglione, Gianni Baget Bozzo, Fabrizio Cicchitto e Renzo Foa. E’ stato anche membro di diversi
consigli d’amministrazione di enti pubblici.
Pure il fratello gemello Gianfranco, membro della direzione nazionale del Pci, ha voltato le spalle
alla sinistra e nella fase in cui la presidenza del Consiglio è stata occupata da Silvio Berlusconi, è
assurto alla guida della task force sulle crisi aziendali.
Giuliano Asperti, quand’era manager della Pigna di Alzano Lombardo è stato consigliere regionale
del Pci e uno dei dirigenti più influenti a livello regionale. Dopo di che ha presieduto o ha fatto
parte dei consigli di amministrazione di enti pubblici quali la Metropolitana milanese, l’Agsm, la
Tem, la Pedemontana, la Banca Imi. E’ stato talmente apprezzato dai rappresentanti del capitalismo
da diventare vicepresidente di Assolombarda e candidato alla sua stessa presidenza.
Massimo Ferlini è stato segretario della Fgci milanese e poi dirigente del Pci. Assessore al Comune
di Milano, dopo aver avuto problemi con i magistrati di “tangentopoli”, è approdato alla Compagnia
delle Opere diventandone presidente. E’ stato uno degli artefici dell’agenzia interinale “Obiettivo
lavoro”, capolavoro del connubio Comunione e Liberazione e Coop rosse. Ora si è reso disponibile
a sostenere Beppe Sala nella corsa al governo di Milano.
Sergio Soave, presidente della Legacoop lombarda, poi membro della segretaria regionale del Pds,
con la maturità ha deciso di collaborare con il “Foglio” e con “Avvenire”.
Patrizio Del Nero, già segretario provinciale del Pci-Pds e presidente del Consiglio provinciale di
Sondrio, sospinto dall’ondata dei socialisti post-craxiani è passato disinvoltamente al Partito delle
libertà.
Il fenomeno trasformista non ha nemmeno mancato di investire il movimento dei riformatori
comunisti. Oltre a Maria Fida Moro, Rifondazione ha avuto nelle sue file Nerio Nesi, ex presidente
della Banca Nazionale del Lavoro, il quale dopo quell’“avventura politica” è andato prima con il
Pcdi e poi è ritornato alle origini passando allo Sdi di Boselli.
E ha avuto pure l’onore di avere come rappresentante in Parlamento Vladimir Luxuria, nume
tutelare del mondo dei transessuali, la quale di recente, in coerenza con la sua appartenenza politica,
si è recata a Villa S. Martino, ad Arcore, per cenare con Berlusconi e la sua nuova fidanzata
Francesca Pascale. Vladimir ha confessato di aver trascorso una serata memorabile, e ha riferito che
“lui”, il re del bunga-bunga, le “ha anche letto una poesia di madre Teresa di Calcutta ed un
sonetto di Dante”, e lei ne è rimasta inebriata.
Sono poi da includere nella categoria dei trasformisti anche quei politici e sindacalisti che pur non
essendo stati gratificati da mandati rappresentativi hanno avuto ruoli di rilievo nel funzionamento
delle loro rispettive organizzazioni di appartenenza. Tra questi meritano di essere segnalati: Valter
Lavitola, ex direttore de “l’Avanti!”, che si è messo al servizio di Berlusconi come faccendiere;
Maurizio Carlotti, ex funzionario del Pci, che è diventato amministratore delegato della Fininvest;
Fausto Tonna che da sindacalista Cgil ha fatto carriera al servizio di Calisto Tanzi diventando suo
vice; e poi Angelo Ugolotti, suo collega, che da delegato sindacale è diventato presidente o
consigliere di una trentina di società fantasma italiane e straniere utili a tenere in piedi la grande
truffa Parmalat.
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Ci sono anche trasformisti in tono minore i quali, nella veste di collaboratori di importanti
personaggi politici, non hanno disdegnato di rendersi utili ai loro avversari o di dimenticare il livore
di questi verso la sinistra. Fabrizio Rondolino, ex collaboratore di D’Alema, è stato scelto da
Daniela Santanchè come suo rappresentante alle primarie (che non si sono mai svolte) del Partito
delle libertà. Orgoglioso, egli ha assicurato: “Farò vincere Santanchè”. Claudio Velardi, pure
consigliere di D’Alema, ha scritto il libro “L’anno che doveva cambiare l’Italia” e ha ritenuto giusto
presentarlo ai giovani del centrodestra in compagnia di Marcello Dell’Utri.
Ad avere grande responsabilità nella propagazione del trasformismo, oltre agli uomini di cultura,
agli intellettuali, sono anche coloro che si sono dati il compito di formare l’opinione pubblica, cioè i
giornalisti. Sono pochi gli operatori della carta stampata e della televisione che hanno usato della
loro professione, e del loro potere, per denunciare e contrastare questo tipo di degenerazione della
politica. La più parte di loro ha vissuto e vive questo fenomeno passivamente, muovendosi cioè
nella direzione in cui spira il vento; alcuni ne sono rimasti addirittura contagiati. Vittorio Feltri da
giovane era socialista; Ferdinando Adornato è stato un comunista, dopo di che è passato prima a
Forza Italia, poi all’Udc; e pure Saverio Vertone da militante comunista ha aderito al Psi, poi si è
schierato con Mario Segni e infine è entrato nelle file di Forza Italia. Pochi hanno invece fatto il
percorso inverso. Tra questi è da ricordare Indro Montanelli che per una vita ha servito la destra e
da vegliardo ha rivolto il suo interesse per il mondo della sinistra.
L’assenza di un contrasto forte alle tendenze trasformiste non può che essere vissuta con grande
inquietudine da chi milita nella sinistra. Gramsci individuava in questo fenomeno una forma di
“rivoluzione passiva”, uno strumento della borghesia italiana nel portare avanti la sua lotta per la
disgregazione delle forze antagoniste al sistema.
Alla fine degli anni ’80, Rossana Rossanda scriveva al riguardo sulle colonne de “il manifesto”:
“Sta sempre meglio chi fa uno strappo miserando dopo l’altro, strappo da sé, dall’’altro’ che è
stato, dalla propria parte, dalla fine della spinta propulsiva e via dicendo – miserande crisi
d’anima che si risolvono perlopiù in un mucchietto di potere, incarichi, soldi. Ma non è questo il
grave, la cosa seria. E’ la domanda perché noi non abbiamo retto, non reggiamo?”. E’ proprio
questo l’interrogativo che la sinistra avrebbe dovuto porsi da tempo e che fino ad oggi non ha avuto
il coraggio di affrontare.
54. Il dramma della corruzione
Come l’opportunismo, il narcisismo e il trasformismo anche il fenomeno della corruzione è un male
che riguarda la generalità delle classi politiche di tutto il mondo. Non a caso esistono delle agenzie
internazionali che si sono date il compito di monitorare il grado di pervertimento dei sistemi politici
di tutti i Paesi e di tenere aggiornata un’apposita classifica.
Nel 2012, nella graduatoria stilata da Transparency International, l’associazione non governativa
che opera in sede Onu e la quale misura la percezione della corruzione, l’Italia figurava al 69° posto
a pari merito con la Macedonia e il Ghana. Nel corso di un ventennio il nostro Paese ha perso ben
36 posizioni. Assieme a Bulgaria, Grecia e Romania è lo Stato più corrotto d’Europa.
Anche altri Paesi evoluti dell’Occidente vantano episodi degenerativi del mondo politico. E’ il caso
della Francia che ha avuto come ministro Jéerome Cahuzac il quale, mentre lanciava campagne
moraleggianti contro i paradisi fiscali, aveva conti non denunciati al fisco in banche svizzere e di
Singapore. Oppure della Spagna, Paese in cui, secondo la denuncia di “El Pais”, i politici del Partito
popolare hanno ricevuto bustarelle sottobanco per ben 19 anni. O ancora del Portogallo il cui capo
di governo, il socialista José Socrates Carvalho Pinto de Sousa, è stato condannato per corruzione,
frode fiscale, riciclaggio di capitali e falsificazione di documenti.
In sostanza, non esiste regime i cui uomini di potere non abbiano monetizzato la loro autorità.
L’Italia, però, anche in questo campo vanta una posizione d’eccellenza.
Da noi la corruzione è un vizio antico. Non era ancora compiuta l’unità d’Italia che già si parlava di
“decomposizione morale”. Ai tempi dell’“affaire tabacchi”, la rivista dei gesuiti “Civiltà cattolica”
199
definiva gli ambienti politici un “brulicamento di vermi schifosi”. Giuseppe Garibaldi, dal canto
suo, accusava la classe politica di gesuitismo e la rimproverava di rinnovare i tempi borgiani. Negli
anni successivi si è assistito allo scandalo delle ferrovie. A fine secolo è esploso quello della Banca
romana. Il ventennio fascista è passato alla storia come il regime in cui la corruzione è divenuta
sistema; sotto il regime di Mussolini si sono verificati persino scandali a sfondo sessuale.
Con l’occupazione del potere da parte della Democrazia cristiana, gli scandali si sono susseguiti con
una regolarità sorprendente: petroli, Lockheed, lenzuola d’oro, Federconsorzi, fino allo scoppio di
“tangentopoli”. In tutti questi episodi di malaffare si sono distinti gli esponenti governativi e i
componenti degli schieramenti di maggioranza i quali si sono tra l’altro dati costantemente da fare
per impedire e affossare le inchieste della Magistratura.
Se Francesco De Sanctis a fine Ottocento ha sostenuto che esisteva “una corruzione organizzata
chiamata governo”, all’inizio degli anni ’80 del Novecento, Italo Calvino scriveva che “l’Italia è un
Paese che si regge sull’illecito”.
In effetti, da noi non si sono verificati solamente casi di corruzione politica, ma organici intrecci tra
mafia, malavita organizzata e partiti di governo e addirittura assassini di uomini scomodi e “stragi
di Stato” ordite da servizi segreti e da esponenti del potere.
Quando i giudici istruttori di Milano Gherardo Colombo e Giuliano Turone hanno iniziato a
indagare sulla mafia e hanno scoperto le liste della P2, sono rimasti sbalorditi davanti ai nomi degli
affiliati a quell’associazione segreta fuorilegge che non solo perseguiva una politica affaristica e
corruttiva, ma agiva nell’intento di demolire lo Stato democratico. A tale setta sono risultati affiliati
ministri, capi dei servizi segreti, generali, ammiragli, diplomatici, segretari di partito, direttori di
giornale.
Nei primi anni ’90 il pool di “Mani pulite” ha innescato un domino che ha portato all’inquisizione
di 4.000 tra politici, imprenditori e faccendieri, scoprendo un giro di tangenti per migliaia di
miliardi di lire in una rete sterminata di conti esteri. L’inchiesta ha provocato la sparizione dalla
scena politica di ben cinque partiti.
Piercamillo Davigo, magistrato di “Mani pulite”, ha sostenuto che dopo quell’esperienza “il potere
politico, di centrodestra e centrosinistra, non si è preoccupato di prendere provvedimenti per
contenere la corruzione, ma semplicemente di contrastare e rendere più difficili i processi”.
In effetti, le dirigenze di partito non hanno inteso riflettere sulle ragioni di quanto era successo e
non si sono preoccupate del fatto che quella perversione politica aveva inquinato tutte le classi
sociali.
La stessa Magistratura, all’indomani di “tangentopoli”, ha allentato la morsa sulla degenerazione
del governo della cosa pubblica. A dimostrazione di questo ripiegamento ci sta il dato che in Italia
sono state emesse meno condanne per corruzione che in Finlandia, Paese che Transparency
International considera il meno corrotto del mondo.
A differenza del passato, in cui gli scandali scoppiavano su iniziativa dei parlamentari, trovando
appunto nell’istituzione rappresentativa il naturale luogo di denuncia, nei tempi successivi il
malaffare è venuto alla superficie per l’implosione delle stesse situazioni degenerate, dimostrando
non solo che la classe politica nel suo complesso non era più in grado di autoriformarsi, ma che le
stesse forze dell’opposizione avevano cessato di fare il loro mestiere.
Hanno pertanto ragione quegli osservatori che considerano l’attuale fenomeno corruttivo peggiore
di quello di “tangentopoli”. Oggi, a incidere non è più il manuale Cencelli dei pesi elettorali che nel
passato serviva a dividere esattamente le percentuali tangentizie a favore dei partiti, ciò che impera
è la capacità affaristica dei singoli individui, perciò il fenomeno non è più controllato e governato
da ristretti gruppi dirigenti, ma vanta un’estensione diffusa.
I capi d’imputazione più frequenti formulati dai magistrati nei confronti dei politici sono: peculato,
concussione, conflitto d’interessi, abuso d’ufficio, violazione delle leggi sul finanziamento
pubblico, scambi di favori, concorsi pilotati, nomine pubbliche di parenti, amanti e amici. La
violazione delle leggi ha ormai assunto un carattere sistemico e riguarda non più solo ed
esclusivamente gli esponenti di maggioranza, ma anche quelli dell’opposizione. Se alcuni decenni
200
fa i politici seguivano la regola dei gesuiti “se dovete peccare, fatelo con cautela”, da qualche
tempo i corrotti fanno i loro affari impudentemente.
Un tempo a fare la parte del leone erano i vip della politica, ora a questi si sono aggiunti nuovi
protagonisti. Dopo la P2 sono proliferate nuove associazioni a delinquere: la P4, la struttura Delta;
agli scandali tradizionali si sono aggiunti quelli della Parmalat, della Crediteuronord, della
Finmeccanica, della Maugeri-San Raffaele, di Parentopoli, dello Ior-Vaticano. Tra gli indagati e i
condannati ci sono non solo gli uomini di partito, ma anche esponenti della finanza e
dell’imprenditoria. Il mondo degli appalti pubblici e della sanità brulica di affaristi alcuni dei quali
sono giunti persino a pagare le escort per intrattenere i politici al fine di poterli meglio corrompere.
Nel solo 2011, in campo sanitario sono state scoperte frodi per un valore di 276 milioni di euro; per
la corruzione è stato accertato un danno erariale pari a un miliardo e 836 milioni di euro. Stime
della Funzione pubblica dicono che la corruzione ci ruba 60 miliardi di euro l’anno. Si tenga
presente che, sempre nel 2011, sono state pronunciate condanne per un valore di soli 75 milioni.
Truffe e malversazioni sono state riscontrate anche nell’emergente settore dell’eolico e pure nella
gestione dei centri di assistenza agli immigrati. La corruzione dilaga anche nello sport: nel calcio,
nel ciclismo, nel tennis. E’ difficile trovare un ambito sociale in cui non esistano inquisiti e
condannati. Tra i corrotti accertati e perseguiti dalla Magistratura ci sono anche dirigenti del mondo
cooperativo, della Compagnia delle opere, esponenti del sindacato “rosso” e “bianco” e persino
degli operatori della Caritas e dei sacerdoti.
L’aspetto inquietante è che a essere coinvolti nel malaffare sono addirittura coloro ai quali è stato
affidato il compito di prevenire e stroncare la corruzione, cioè agenti della Guardia di Finanza, della
Polizia, dei Carabinieri, dirigenti dell’Arpa, alcuni stessi magistrati.
Il procuratore della Repubblica della Corte dei Conti della Lombardia, Antonio Caruso, nel 2013 ha
dichiarato che “la corruzione è entrata nel sistema, ne fa parte integrante… è una piaga ben più
grave di 20 anni fa… Si è ormai annidata nel profondo del tessuto sociale”.
Recentemente il guardasigilli Andrea Orlando ha sostenuto che la corruzione ha raggiunto
“dimensioni intollerabili”. E persino Papa Francesco, di fronte alla vastità del fenomeno, si è sentito
in dovere di ammonire che mentre “il peccato si perdona, la corruzione non può essere perdonata”.
E a differenza del passato il fenomeno degenerativo ha investito in pieno anche il mondo della
sinistra.
Non si deve mai dimenticare che uno degli strumenti della lotta politica è proprio l’orchestrazione
di casi giudiziari contro l’avversario, per cui qualche volta ci si è trovati di fronte ad accuse e
imputazioni infondate, o quanto meno discutibili, come di recente è capitato a Filippo Penati, ad
Antonio Bassolino, a Nichi Vendola e a Vincenzo De Luca i quali imputati o condannati sono stati
successivamente prosciolti e dichiarati innocenti.
Per alcuni esponenti della sinistra, però, le imputazioni si sono tradotte in condanna e se la fama di
illustri rappresentanti dello schieramento alternativo alla classe dominante scade al punto di poterli
confondere con i Pomicino, i Lusi, i Belsito, i Prosperini, i Galan, ecc. ecc., significa che la sinistra
è gravemente malata e che c’è motivo di essere preoccupati.
Se si considera che tra la folla degli inquisiti ci sono stati e ci sono numerosi parlamentari,
governatori, consiglieri regionali, sindaci, amministratori di centrosinistra e di sinistra, il grido
d’allarme è ben giustificato. La vicenda delle spese pazze dei consiglieri regionali ha visto coinvolti
anche gli esponenti di sinistra dimostrando così che la loro condotta non è sempre stata in sintonia
con i propositi di perseguire il pubblico interesse. E questa loro incoerenza appare ancor più grave
se si considera che il degrado della politica altro non è che la causa-effetto della più generale
corruzione della società in cui siamo inseriti.
Friedrich Hegel ha sostenuto che la cattiva qualità del governo trova la sua giustificazione e la sua
spiegazione nel basso livello morale dei suoi sudditi. Di fatto, passando in rassegna la storia dei
popoli, io non ho mai riscontrato l’esistenza di una classe dirigente malata chiamata a governare una
società sana o di un governo onesto che operasse in un ambiente sociale corrotto.
201
Da noi accade persino che personaggi condannati dalla Magistratura vengano candidati e addirittura
eletti a cariche pubbliche senza che l’opinione pubblica abbia a manifestare dissenso e sdegno.
L’onestà in Italia non è considerata una virtù e ad averla vinta sono spesso i furbi e i prepotenti. A
riprova ci stanno i fenomeni dell’evasione fiscale, dei falsi esenti dai ticket, dell’abusivismo
edilizio, dei falsi invalidi. Da un sondaggio svolto nel 2013 è emerso che il 12,3% delle persone
intervistate ha ammesso di aver pagato per avere giustizia. Livia Pomodoro che è stata presidente
del Tribunale di Milano dal 2007 al febbraio 2015, ha dichiarato che “la convivenza civile si è fatta
drammatica… La nostra comunità umana è avvelenata, dominata dall’odio e dal rancore”, rancore
non solo verso i “diversi”, ma nei confronti dello Stato, dell’interesse collettivo.
Ogni anno in Italia si verificano tre milioni di reati. Nel 2012 la Guardia di finanza ha stimato che
tra tangenti, finti poveri e malversazioni nel pubblico impiego i danni alle casse dello Stato
ammontano a una cifra compresa tra i 4,5 e i 5 miliardi di euro.
Negli stessi ambienti politici, di fronte alla corruzione, assai spesso si preferisce tacere, giacché il
procedere alla denuncia comporta il rischio di essere marginalizzati, se non addirittura espulsi dai
gruppi dirigenti. L’omertà è la condizione per rimanere al proprio posto.
Su di noi tutti, ma in particolare sulla classe politica di sinistra, cade la responsabilità di questa
drammatica situazione.
Stante un simile stato di degrado morale, la costruzione di una società alternativa più giusta e più
umana appare improponibile.
Se si pensa che persino nell’antica Grecia coloro che predicavano bene e razzolavano male
perdevano di credibilità nella comunità, si ha un’idea di quanto pochi progressi abbia fatto la civiltà
umana sul piano della moralità pubblica.
Mentre negli altri Paesi dell’Europa occidentale, di fronte a casi di corruzione, l’opinione pubblica
reagisce innalzando una sorta di muraglia civile, da noi a prevalere è un comune atteggiamento
d’indifferenza. Al massimo la denuncia produce best-seller come ha dimostrato il caso de “La
casta” di Gianantonio Stella e Sergio Rizzo.
Ad aggravare la situazione concorre un deficit dello stesso impianto legislativo del nostro Paese.
Transparency International, nel suo recente rapporto sui paesi impegnati nella lotta alla corruzione,
ci ha collocati al 17° posto nella classifica dei 22 Stati più industrializzati.
Mentre da noi la corruzione è in continuo aumento, le denunce diminuiscono e di conseguenza sono
sempre meno i processi. Nel ’96 le sentenze di condanna per reati di corruzione sono state 1.700,
nel 2006 sono scese a 239. Si consideri che in occasione di un sondaggio eseguito nel 2009, a
dichiarare di aver ricevuto l’offerta o la richiesta di una tangente è stato il 17% degli italiani, mentre
la media europea era del 9%.
Se nella legislatura di “tangentopoli” il Parlamento ha respinto 28 richieste di arresto su 28, da
allora ad oggi, nel dibattito sulle riforme e nella formulazione delle leggi, esso ha decisamente
trascurato i reati economici come la corruzione, il falso in bilancio e il riciclaggio. A causa della
prescrizione, altro fattore su cui è stata dimostrata molta ambiguità da parte del complesso dei
politici, nel 2011 sono andati in fumo 180 mila processi.
A fronte della mancanza di mezzi nei tribunali (dalla benzina, ai computer, fino alla carta igienica),
nel corso degli anni i magistrati sono stati beneficiati di continui aumenti di stipendio. I nostri togati
sono difatti quelli che nell’Europa continentale vantano le paghe più alte e, come se non bastasse,
molti di essi arrotondano lo stipendio facendo lavori extra. Gli organici sono generalmente carenti
al punto che la Procura della Corte dei conti, alla quale spetta il compito di controllare l’attività
delle pubbliche amministrazioni, oltre al procuratore vanta appena 6 magistrati.
Nel 2013 il governo Monti ha approvato una legge che ha istituito la figura del whistleblower
(dipendente informatore) il cui scopo è quello di incoraggiare l’abbattimento del muro di omertà
che vige nei palazzi del potere e favorire la denuncia delle illegalità che in essi si consumano, ma la
sua applicazione ha incontrato molte resistenze.
La battaglia per la moralizzazione della politica, insomma, non vanta molti paladini, tant’è che nel
2012 il presidente dell’Istat Enrico Giovannini ha abbandonato la Commissione sui costi della
202
politica, di cui è presidente, dopo aver riscontrato che quel “compito è impossibile” e ha sostenuto
che “i vincoli della legge, l’eterogeneità delle situazioni e le difficoltà della raccolta dati non hanno
consentito di produrre i risultati attesi”.
Se si tiene conto di tutto questo, non ci si può allora meravigliare se i nostri parlamentari non sono
obbligati da nessuna norma a garantire una dignitosa e coerente condotta, mentre a qualsiasi
professionista che ha un rapporto di responsabilità verso le persone è tassativamente richiesto il
rispetto di un codice deontologico. E si capisce anche perché da noi a rappresentare il popolo si può
candidare chiunque a prescindere non solo dal livello delle sue doti intellettuali e professionali, ma
dallo stesso contenuto del suo certificato del casellario giudiziario.
55. Gli abnormi costi della delega
Uno studio promosso due anni fa dalla Uil ha stabilito che in Italia la politica costa a ogni
contribuente irpef 757 euro l’anno e a ogni cittadino, neonati compresi, 386 euro. A quel tempo,
venivano spesi annualmente per il funzionamento degli organi istituzionali e delle società pubbliche
23,2 miliardi di euro, una somma non indifferente che corrispondeva all’1,5% del Pil.
La nostra Camera dei deputati continua a costare un miliardo di euro all’anno, il doppio rispetto a
quella di Francia e due volte e mezzo rispetto a quella del Regno Unito.
A vivere di politica, direttamente o indirettamente, sono 1.100.000 italiani i quali rappresentano il
5% degli occupati.
Se si fa eccezione della Svizzera e della Gran Bretagna, la quale assicura alle organizzazioni
politiche una copertura parziale dei costi, tutti i Paesi europei finanziano a vario titolo i partiti.
Nel corso degli anni ’90, in Francia il finanziamento pubblico alla politica è cresciuto del 500%. In
Germania, nel 1959, il finanziamento diretto era pari a 5 milioni di marchi, alla vigilia dell’entrata
nell’euro era salito a oltre 300 milioni, oggi, se si calcola anche quello indiretto, giunge a circa un
miliardo e mezzo di euro.
Ovunque, la quantità di denaro necessaria al funzionamento dei sistemi di democrazia
rappresentativa aumenta esponenzialmente e, paradossalmente, in proporzione diretta alla loro crisi
di fiducia.
Nel 1993 da noi è stato promosso un referendum sul finanziamento pubblico ai partiti che ha sancito
la sua abolizione. Il 90,3% di chi si è recato alle urne si è pronunciato contro i sussidi di Stato. E’
successo però che dopo quel pronunciamento popolare il finanziamento pubblico ha assunto una
forma nuova: quella del rimborso delle spese elettorali. Dal ’94 al 2008, cioè in 14 anni, la spesa
della politica a carico dei contribuenti si è addirittura decuplicata. Una delle cause di questa
lievitazione di costi è senz’altro la riduzione della politica a mercato.
La questione del finanziamento pubblico alle forze politiche, in questi anni, è stata al centro di un
intenso dibattito suscitando molte polemiche, al punto di produrre movimenti che sono stati tacciati
di antipolitica. E’ anche da ricordare che si sono verificati dei ripensamenti nello schieramento che
aveva sostenuto l’abrogazione della legge sul finanziamento. Cinque anni dopo lo svolgimento del
referendum, sulle colonne de “il manifesto”, Michelangelo Notarianni ha scritto un editoriale in cui
ha teorizzato che non c’era nulla di male a essere favorevoli ai sussidi statali. E sì che noi eravamo
stati tra i più convinti sostenitori della sua abolizione!
Come ci ha ricordato il rapporto di Giuliano Amato che gli è stato commissionato dal governo
Monti, “non esiste ordinamento realmente democratico che non preveda un accettabile
finanziamento pubblico del momento elettorale”. Se ai tempi dello Statuto albertino il “fare
politica” era appannaggio della sola classe benestante, la quale poteva esercitare quel ruolo senza
pretendere alcun rimborso o retribuzione, con l’estensione del suffragio universale che ha favorito
l’accesso alle istituzioni rappresentative anche delle classi subalterne, la politica ha iniziato a pesare
sulle casse dello Stato.
La continua lievitazione dei costi ha dato luogo nel tempo a situazioni paradossali.
203
E’ stato calcolato che dal 1974 al 2013 i partiti italiani hanno incassato dallo Stato, sotto varie
forme, 10 miliardi di euro. Dal 1999 al 2008, mentre le retribuzioni dei dipendenti pubblici sono
aumentate del 42,5%, quelli che ipocritamente vengono definiti rimborsi elettorali sono lievitati del
1.110%.
Attraverso l’iniziativa parlamentare i partiti sono riusciti a farsi rimborsare le spese elettorali in
misura superiore (per le tornate elettorali tra il 1994 e il 2008, a fronte di un totale di spese di
579.004.383,83 euro, lo Stato ha elargito ai partiti 2.253.612.233,79 euro, cioè una somma quasi
quattro volte superiore) e persino quando le elezioni non si svolgevano. I rimborsi sono stati erogati
anche a partiti che non esistevano più. Nonostante la legge lo preveda, non tutti i partiti hanno fatto
certificare i bilanci sui quali per altro la sfera “pubblica” non può metter becco, giacché i partiti
sono considerati alla stregua di associazioni private.
Per le europee del 2004, il partito dei “Pensionati” ha certificato una spesa di 16.435 euro, mentre
ha ottenuto un rimborso 180 volte superiore, quasi 3 milioni di euro.
Di fronte al montare delle contestazioni da parte dell’opinione pubblica, sono stati presi in più
circostanze dei provvedimenti che avrebbero dovuto essere riparatori. I governi di Mario Monti e di
Enrico Letta hanno dato avvio a una cura dimagrante e hanno istituito il “2 per mille” mettendo
l’onere a carico di tutti i contribuenti. Mentre il Parlamento ha tagliato il suo bilancio (si è trattato di
un’amputazione dello 0,34%), con la manovra di governo è stato deciso un taglio delle retribuzioni
e delle indennità di carica dei componenti gli organi costituzionali del 10-20% a seconda della loro
entità. Tali provvedimenti hanno scatenato l’ira di una parte del ceto politico.
E’ da mettere in conto che i partiti hanno sempre goduto non solo dei finanziamenti dello Stato, ma
anche del sostegno dei privati e che tali sovvenzioni non sempre sono state rese chiare alla luce del
sole. In passato, diversi partiti hanno potuto contare anche su finanziamenti di Paesi esteri: la Dc e il
Psdi ricevano fondi dagli Stati Uniti, il Pci dall’Unione sovietica, il Msi da alcuni Paesi
dell’America latina. Il Psi vantava uscite pari a 90 miliardi di lire contro i 10 miliardi assicurati dal
finanziamento pubblico.
In tempi meno lontani, quando è scoppiato lo scandalo Parmalat, si è scoperto che quattro società
fantasma legate a quel gruppo, nel 2001 avevano elargito 400 milioni a Forza Italia per la campagna
elettorale. Il Pci, poi Pds, poi Ds storicamente ha potuto contare sui contributi delle Coop “rosse”.
La Lega di Bossi è finita nel calderone di “tangentopoli” per aver incassato fondi neri da Gardini
della Montedison. Nel corso degli anni, attraverso il meccanismo dei subappalti, nelle casse dei
partiti sono finiti persino soldi di dubbia provenienza.
Gli estensori del “rapporto Cottarelli” sul finanziamento pubblico reso noto qualche mese fa, hanno
sostenuto che i canali attraverso cui i finanziamenti seguitano ad arrivare alla cattiva politica sono
“misteriosi e non accessibili”. “Il lavoro è stato reso difficoltoso dalla difficoltà di accesso ai dati e
dalla bassa qualità degli stessi”. Il gruppo di studio guidato da Massimo Bordignon si è
rammaricato di non essere stato in grado di fornire dati precisi sulle buste paga reali di governatori,
assessori e consiglieri proprio per l’assenza di trasparenza.
Che il finanziamento dei politici obbedisca a criteri che non sempre risultano chiari agli occhi
dell’elettorato non è certo una novità e non è nemmeno un segreto. Recentemente il segretario
pugliese del Pd Michele Emiliano è sbottato affermando: “Bersani si è fatto finanziare dall’Ilva,
restituisca i soldi… 95mila euro ricevuti”.
Nel 2004, in corsa per il seggio europeo, l’ex segretario milanese della Cgil, Antonio Panzeri, ha
dichiarato: “Dispongo di un budget di 160 mila euro”. E per finanziare la sua campagna elettorale
ha organizzato feste di fund raising (fondo di sostegno) e cene elettorali al Blue Note dal costo di
300 euro a persona.
Che differenza passi tra un candidato della destra e un candidato della sinistra nella corsa alla
conquista di un seggio non è dunque certo facile stabilirlo! Se anche gli esponenti della sinistra sono
giunti al punto di far dipendere la conquista del consenso popolare dal grado di disponibilità di
denaro, significa che nel dna del movimento che voleva essere alternativo al sistema capitalistico si
è venuto alterando qualche cromosoma. A loro, infatti, spetterebbe il compito di combattere a fondo
204
l’affarismo che si è infiltrato nella politica e la sua spettacolarizzazione nell’intento di catturare gli
elettori, invece, avviene che si sono arresi e obbediscono alle leggi di mercato anche nella gestione
della democrazia. E per essere eletti sottostanno all’odiosa regola che favorisce il privato cittadino
che finanzia i partiti premiandolo con sgravi fiscali assai più convenienti di quelli che vengono
riservati a chi fa una donazione a un’associazione benefica.
Se durante la prima Repubblica i nostri parlamentari erano sottopagati rispetto ai loro colleghi
americani, quelli della seconda Repubblica godono di trattamenti di gran lunga più vantaggiosi.
Senatori e deputati hanno uno stipendio lordo annuo che ammonta in media a 220-230 mila euro. Al
netto incassano una somma che oscilla tra i 160 e i 170 mila euro.
Si tenga conto che a loro è consentito di continuare a esercitare senza limitazioni un’attività
professionale privata parallela. La legge si limita a proibire loro incarichi in società che svolgono
attività finanziarie, ma anche a questo riguardo il Senato, riconoscendo ad alcuni suoi membri la
compatibilità con le cariche societarie da loro ricoperte, ha decretato la discrezionalità
nell’applicazione di tale norma. Del resto, la possibilità di svolgere altre attività è riconosciuta
anche agli europarlamentari. Uno di loro, per esempio, Nicola Caputo del Pd e appartenente
all’Alleanza progressista dei socialisti e democratici, nel 2014 vantava addirittura 16 impegni o
incarichi professionali ed era anche consigliere regionale in Campania. Il 53% degli eurodeputati
difatti lavora anche fuori del Parlamento.
L’essere eletto in Parlamento comporta poi una serie di vantaggi che il comune mortale può solo
sognare. All’indomani delle ultime elezioni politiche ben 165 parlamentari democratici della
passata legislatura non sono stati rieletti. Di loro, uno su due ha avuto assicurato un posto in società
pubbliche o in impieghi politici.
Mentre nell’84 ai lavoratori italiani è stata tolta la “scala mobile”, per i politici il meccanismo di
adeguamento (aumento) dell’indennità ha continuato tranquillamente a sussistere. E così è avvenuto
anche per i magistrati le cui retribuzioni sono parificate a quelle dei parlamentari.
L’indennità di chi è eletto a senatore o deputato non è pignorabile e le diarie e i rimborsi che
vengono loro riconosciuti non sono sottoposti ad alcuna imposizione. Essi vantano diversi benefit e
godono di particolari trattamenti. Si sono addirittura assicurati la possibilità di andare in
pellegrinaggio in Terra santa a spese della comunità. E poi hanno l’immunità.
Fino ai primi anni ’90 succedeva che di fronte alla richiesta della Magistratura di procedere nei
confronti di un membro del Parlamento che aveva commesso un reato, l’assemblea poteva negare
l’autorizzazione. Il caso di Bettino Craxi è passato alla storia. Dopo di allora l’articolo 68 della
costituzione che sancisce l’immunità è stato modificato e la richiesta di autorizzazione a procedere
nei confronti di un parlamentare è stata limitata alla perquisizione e all’arresto. Considerata utile al
funzionamento della democrazia, l’immunità è così divenuta sinonimo di privilegio. Si consideri
che nel Regno Unito l’immunità è garantita solo alla regina.
Per definizione un parlamentare è un personaggio pubblico e in quanto tale la sua condotta
dovrebbe essere controllabile e risultare trasparente a chi gli ha conferito la delega. La difesa della
sua privacy dovrebbe essere limitata alla sfera strettamente privata. Sulle intercettazioni telefoniche,
però, ci sono stati deputati e senatori che hanno fatto le barricate.
Nel nostro Paese risulta poi difficile che un parlamentare finisca in galera. A differenza dei comuni
mortali, egli è appunto protetto dall’immunità. E nonostante che tutti i cittadini siano per principio
considerati uguali davanti alla legge, la reclusione in carcere scatta prontamente per coloro i quali,
presi dalla fame, rubano beni alimentari per pochi euro al supermercato, non già per l’eletto che ha
sottratto ingenti somme di denaro all’erario o alle casse dello Stato. Questi vengono reclusi
raramente.
Ma non basta. Al parlamentare che è stato condannato dalla Magistratura non vengono sospesi i
benefici economici derivanti dall’essere stato eletto. Recentemente, lo stesso presidente del Senato,
Pietro Grasso, si è sentito in dovere di lamentare che “non è possibile che rappresentanti del
popolo, poi giudicati indegni, vengano pagati con soldi pubblici da un organo costituzionale”. E
questa è una prassi che costa ai cittadini italiani 170 milioni di euro l’anno.
205
A godere di una situazione di privilegi sono anche gli eletti ai Consigli regionali.
Un governatore di regione italiano guadagna anche fino a 175 mila euro netti contro una media dei
governatori statunitensi di 88.523. Tra di loro si registrano ovviamente delle disparità di
trattamento; ad esempio, il presidente del consiglio regionale pugliese guadagna quasi il triplo del
suo collega umbro, la condizione di privilegio però è un dato generalizzato. L’ex presidente del
Consiglio regionale sardo, Claudia Lombardo, è andata in quiescenza a 41 anni con 5.100 euro netti
al mese. Nel 2012, quando ha dovuto subire un intervento chirurgico, Renata Polverini è stata
ricoverata in un reparto dell’ospedale S. Andrea di 30 posti letto e ha avuto a disposizione tutto per
lei un blocco operatorio. I pazienti comuni devono aspettare mesi per una visita in alcuni casi anche
urgente, mentre gli eletti si concedono questi lussi. Mercedes Bresso, quand’era governatrice della
regione Piemonte ha potuto contare su due liste di sostegno formate da una sola persona, entrambe
destinatarie di una dote annua di 225.000 euro. A chi le ha contestato questo privilegio ha risposto:
“La democrazia ha i suoi costi… Mi ribello a quella china di populismo dove tutta la politica fa
schifo. La democrazia non è un optional”.
Anche i consiglieri regionali vantano uno status di favore rispetto al cittadino comune.
Quelli del Consiglio regionale siciliano sono meglio pagati del governatore di New York. Nel 2012
incassavano complessivamente quasi 15 mila euro al mese.
Mentre la Regione Campania affondava per debiti e malgoverno, nel 2010 il Consiglio regionale ha
approvato una delibera con la quale dotava 27 consiglieri su 60 di televisore, studio dirigenziale con
trittico di poltrone in pelle, telepass per evitare code ai caselli autostradali, computer fisso, Ipad o
notebook a scelta.
Nel 2011 alla Regione Lazio su 71 consiglieri uno solo non vantava un doppio incarico.
Ci sono stati casi in cui ad assessori e consiglieri regionali arrestati per corruzione, sono state
elargite superliquidazioni di migliaia e centinaia di migliaia di euro.
Negli anni scorsi, in più circostanze, la Corte dei Conti è intervenuta per condannare le “spese
pazze” dei consiglieri regionali, meravigliandosi che si potesse giungere a tanto e bacchettando gli
uffici di presidenza per non essere intervenuti sulle violazioni. Il denaro pubblico è stato usato per
cene, soggiorni in alberghi di lusso, organizzazione di feste di nozze, acquisto di regali vari, di
alimenti e persino di indumenti intimi. E purtroppo anche i consiglieri di centrosinistra e di sinistra
hanno partecipato al sinistro banchetto.
In alcune realtà i partiti hanno reagito all’intervento della Magistratura candidando alle elezioni
politiche gli stessi consiglieri regionali inquisiti.
Allorquando, nel 2011, il governo ha deciso il taglio del 10% dei vitalizi e prospettato una loro
futura abolizione, sostituendoli con un sistema contributivo pro rata, larga parte della classe politica
è insorta. Non solo i rappresentanti della destra, ma anche quelli della sinistra. Giovanna Melandri,
deputata Pd dal ’94, ministro dal ’98 al 2001 e dal 2006 al 2008, ha sostenuto che i tagli ai vitalizi
erano sbagliati. “Ho lasciato il lavoro per la politica… non ci sarà più un’altra come me”. Fausto
Bertinotti a un giornalista che lo ha intervistato ha dichiarato: “Se mi toglierei il vitalizio? Se mi
dessero qualcos’altro per vivere sì… se mi dessero una pensione sì. Ho lavorato una vita e ho
diritto a una pensione, poi come si chiami non conta”. Sta di fatto che il vitalizio non gliel’hanno
tolto e per sua fortuna ha una moglie che da tempo ha assicurato un assegno da baby pensionata. Ci
sono milioni di anziani che pur avendo lavorato una vita sono costretti ad accontentarsi di un
assegno mensile che non supera i mille euro. E rispetto a molti altri che vivono con neanche 400
euro mensili, sono da ritenersi privilegiati.
Alcuni ex deputati ed ex consiglieri regionali hanno fatto ricorso alla Magistratura invocando la
revoca del provvedimento di riduzione dei vitalizi sostenendo che quanto è stato loro riconosciuto
va considerato un diritto acquisito. Una pattuglia di consiglieri regionali lombardi capitanata da
Luigi Corbani, ex segretario del Pci milanese, ha fatto ricorso alla Corte dei Conti invocando il
rispetto della Costituzione di cui sarebbero stati violati, a loro avviso, ben sette articoli compreso
quello che garantisce “l’uguaglianza e la ragionevolezza correlati alla capacità contributiva, la
certezza del diritto e i diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. A questa stregua più della
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metà degli italiani dovrebbe far ricorso alla Magistratura invocando la tutela della loro
professionalità calpestata dai datori di lavoro. Si tenga presente che fino al 2012 ai parlamentari
bastava raggiungere i 50 anni di età per percepire il vitalizio la cui entità non è neanche
paragonabile con la stragrande maggioranza degli assegni garantiti ai lavoratori dalla previdenza
sociale.
Quando si è trattato di decidere se ai parlamentari condannati dovesse essere riconfermato il diritto
a godere del vitalizio, la politica si è data una pausa di riflessione. E dopo il ripensamento, il
Parlamento ha deciso di abolire i vitalizi solo per i condannati in via definitiva e per i soli reati di
particolare gravità superiori ai due anni. Sono stati esclusi dal provvedimento di revoca i
parlamentari condannati per abuso d’ufficio e per corruzione in atto d’ufficio. Insomma, per chi
ruba poco è intervenuta la clemenza dei colleghi.
Se si tengono presenti queste caratteristiche della nostra classe politica e si cerca di confrontarle con
i suoi livelli di efficienza nel governare il Paese, diventa difficile sottrarsi a un sentimento di
sconforto. Un confronto effettuato qualche anno fa tra la funzionalità del Senato statunitense e
quello italiano ha rilevato che mentre i senatori americani si riuniscono in assemblea 180 giorni
l’anno, i nostri senatori lo fanno per 114 giorni. Mentre il tasso di assenteismo del senatore Usa è
del 3,1%, quello del nostro senatore è dieci volte superiore. Oltreoceano vige il criterio che tutti
coloro che hanno cariche pubbliche e pagano le tasse in ritardo o non versano i contributi per la loro
colf vengono fatti decadere. Da noi questo costume non c’è. Come ha dichiarato il senatore leghista
Sandro Mazzatorta in un’intervista a Radio 24, respingendo indispettito ogni critica all’operato
degli eletti, “noi (senatori) arriviamo il lunedì sera e al giovedì sera siamo ancora qua”.
Nel 2010, l’assemblea di Montecitorio si è riunita per 760 ore e 16 minuti: 14 ore e 27 minuti a
settimana. Più di un quarto del tempo (quasi 219 ore) è stato dedicato alle interrogazioni e ai
question time, quando in aula non c’è quasi mai nessuno. Altre 82 ore se ne sono andate in
discussioni che riguardavano il destino di questo o quel parlamentare, a seguito delle decisioni prese
dalla giunta per le elezioni. Per la mission vera e propria, cioè per l’attività legislativa, sono rimaste
459 ore e 54 minuti: 8 ore e 50 minuti la settimana.
Per non dire dell’efficienza dello Stato. Negli ultimi sei anni, le amministrazioni locali e le società
pubbliche hanno recuperato appena l’1,4% della somma derivante dalle condanne della Corte dei
conti. Fra il 2009 e il 2014 sono state emesse condanne per 4.898.004.014 euro e 59 centesimi,
mentre nelle casse pubbliche sono entrati solo 68.726.010 euro e 44 centesimi. Questo nostro Paese
è popolato da amministratori incapaci e infedeli, da evasori del fisco e da corrotti e le pubbliche
istituzioni si rivelano impotenti.
Ancora Alessandro Galante Garrone, nel 1995 scriveva: “Quando penso alla corruzione che vedo
intorno a me, allo sfacelo, mi chiedo quanto poco è rimasto di quei sacrifici che io e tanti altri
milioni di uomini e di donne (abbiamo sopportato nel corso della Resistenza)… nella nostra lotta
politica vedo tanta furbizia e pochi programmi”.
La sinistra odierna, o almeno chi la rappresenta nelle istituzioni, sembra aver perso questa memoria
e questa sensibilità, al punto di scaricare sulle spalle delle Procure il compito di condurre la lotta
alla corruzione e non si rende conto che per bonificare la nostra società malata è necessario
condurre una massiccia campagna di massa al fine di incoraggiare e promuovere un protagonismo
in ogni ganglio della società.
56. Le antilogie di chi si è proclamato rivoluzionario
Le tare che sin qui ho documentato, in particolare l’opportunismo, il narcisismo, il trasformismo e
la corruzione, non sono esclusive della classe politica tradizionale, ma sono patrimonio anche di
quella sinistra che ha avuto la pretesa di presentarsi sulla scena come nuova, per intenderci quella
scaturita dal movimento del ’68.’69. Anche la contestazione studentesca e operaia, purtroppo, ha
generato mostri.
207
In seguito al riflusso del movimento, mentre un gruppo di contestatori delusi ha impugnato la P38
altri, in quantità più consistente e inclini all’opportunismo, hanno imboccato la strada del
trasformismo. Parecchi rivoluzionari, anche tra i più “duri”, si sono trasformati in uomini dabbene:
dal “disordine” sono passati all’ordine, dai cub si sono trasferiti nei Rotary, dopo il culto di Mao, di
Stalin e di “Che” Guevara hanno abbracciato le liturgie del sistema che avevano giurato di
abbattere. Alcuni di loro hanno scalato posizioni di potere, chi in politica, chi nei mass-media, chi
nelle università, chi nel mondo dell’industria e della finanza. Alcuni hanno perduto a tal punto la
memoria e il senso del pudore da ridursi a osannare e servire leader politici gretti e conservatori
come Berlusconi e Bossi.
Federico Caffé era solito dire che il riformista “preferisce il poco al tutto, il realizzabile all’utopico,
il gradualismo delle trasformazioni a una sempre rinviata trasformazione del sistema”. Questa
razza di rivoluzionari voltagabbana al cambiamento, anche a quello graduale, hanno preferito lo
statu quo, la conservazione.
Alcuni di questi saltimbanchi li ho potuti osservare solo da lontano, altri invece li ho scrutati da
vicino avendo condiviso con loro la passione e l’impegno politico.
Giuliano Ferrara è senz’altro da ritenersi un campione di questa schiera di soggetti. Se non ricordo
male, ho avuto modo di partecipare a una riunione a Botteghe oscure alla quale era presente anche
lui. Figlio d’arte, da bambino giocava sulle ginocchia di Palmiro Togliatti. Durante il ’68 è stato
uno dei suoi protagonisti. Nei primi anni ’70 ha militato nel Pci e si è guadagnato tanta stima da
essere incaricato di tenere conferenze alle Frattocchie su argomenti come “La cultura
dell’estremismo”. Da migliorista ha ben presto criticato la linea del partito e dopo qualche tempo è
finito nell’area socialista. Come giornalista ha collaborato con Adriano Sofri ed Enrico Deaglio. Si
è vantato di aver svolto, a metà degli anni ’80, l’attività di spia (a pagamento) per la Cia. Negli anni
’90 ha definito “l’Unità”, di cui è stato corrispondente, un giornale “tendenzialmente omicida” ed è
stato uno dei promotori di un’associazione politico-culturale impegnata a riformare in senso liberale
la politica e le istituzioni. Divenuto europarlamentare ha collaborato con la Finivest e
successivamente è stato nominato ministro del governo Berlusconi. Passato alle dipendenze del
cavaliere di Arcore, a coronamento del suo camaleontismo, si è convertito alla causa del movimento
per la vita divenendo uno strenuo oppositore del diritto di aborto.
Massimo Caprara è stato uno fra i primi compagni eretici che ho conosciuto. Per quasi vent’anni, è
stato segretario particolare di Togliatti e poi uno dei fondatori del gruppo del “manifesto” con il
quale, però, ha rotto assai presto i rapporti. Liberatosi del fardello della tradizione, ha giudicato
negativa l’esperienza vissuta e ha sostenuto che “il comunismo è il disprezzo per l’uomo”. Ha fatto
quindi sua la causa liberale e si è avvicinato al centrodestra finendo per scrivere sul “Secolo
d’Italia” e frequentando, in nome del vangelo, Comunione e liberazione.
Pio Marconi, di origini trotzkiste, è stato membro della direzione del “manifesto” e dopo qualche
tempo è passato alla destra risultando eletto al Consiglio Superiore della Magistratura.
Giovan Battista Zorzoli, fisico membro del Cnr, a metà degli anni ’70 ha contribuito
all’elaborazione della piattaforma antinucleare del “manifesto”. Passato al Pci, è entrato nel
Consiglio d’amministrazione dell’Enel e si è schierato su posizioni filo-nucleari. A metà degli anni
’80, in polemica con gli antinuclearisti, si è chiesto: “Dove sono i morti prodotti dalle centrali
nucleari?”. La risposta gliela data poco dopo Cernobyl.
Con Tiziana Maiolo ho avuto rapporti quotidiani condividendo per un certo periodo di tempo la
sede regionale del movimento del “manifesto” con la redazione milanese del quotidiano. A quel
tempo il suo interesse per la politica era assai scarso e salvo attendere alla cronaca giornalistica il
suo impegno militante era nullo. Più tardi ebbe a confessare di aver “fatto il ’68 solo per
giovanilismo, con superficialità”. Negli anni ’90 si è candidata al Comune di Milano con i radicali,
poi è stata eletta parlamentare nelle liste di Rifondazione comunista, a metà del decennio ha aderito
a Forza Italia e in seguito è stata più volte assessore nelle giunte milanesi di destra. Nel 2004 è stata
nominata membro del Comitato dell’Onu contro la discriminazione nei confronti delle donne. Nel
2010 ha aderito a “Futuro e Libertà” di Gianfranco Fini e poco dopo è ritornata alla Casa delle
208
libertà. Nel 2011, nel corso di un’intervista alla “Zanzara”, ha manifestato tutta la sua dirittura
morale affermando: “E’ più facile educare un cane di un rom”.
Gianni Riotta l’ho conosciuto a metà degli anni ’70, quando dalla Sicilia è approdato alla redazione
de “il manifesto”. Dopo la permanenza a New York come corrispondente del quotidiano ha fatto
registrare un’evoluzione: dapprima si è aggregato al “Corriere della sera”, diventando vice direttore,
poi ha diretto il Tg1 Rai e in seguito il quotidiano Sole 24 Ore. Attualmente è editorialista de “La
Stampa”, conduttore alla Rai e docente di new media alla Princeton University. Qualche anno fa ha
dichiarato: “Non si tratta più di destra o sinistra, progressisti o conservatori, ma della differenza
tra dogma e senso comune, tra i principi che contano e le posizioni del momento”.
Lucia Annunziata, dopo un periodo di militanza nel gruppo del “manifesto”, è stata pure lei
corrispondente da New York del quotidiano. Poi ha collaborato dapprima con il “Corriere della
sera” poi con “La Stampa” e infine è diventata presidente della Rai. Di recente è stata accusata di
aver goduto di finanziamenti non chiari dall’Eni e attualmente conduce la rubrica “In mezz’ora” alla
Rai.
Un altro giornalista, Riccardo Barenghi, dopo essere stato direttore de “il manifesto” è
disinvoltamente approdato a “La Stampa”.
Ritanna Armeni, dalla militanza in Potere Operaio è approdata alla redazione de “il manifesto”.
Oltre ad aver collaborato con il “Corriere della sera” è stata portavoce di Fausto Bertinotti e poi,
dimostrando molta spregiudicatezza e poca coerenza, si è accompagnata a Giuliano Ferrara nella
trasmissione televisiva “Otto e mezzo”.
Sandro Ruotolo, da giornalista de “il manifesto” è divenuto collaboratore di Michele Santoro alla
Rai e quando ha abbandonato la rete pubblica per approdare a un altro net work, è stato liquidato
con un assegno da nababbi.
Altro giornalista de “il manifesto” è stato Corradino Mineo il quale è passato alla Rai diventando
direttore di Rai News 24, ruolo questo che gli ha procurato un compenso annuo superiore ai 300
mila euro lordi. Eletto deputato nelle liste del Pd si è rifiutato di versare al partito la quota del
canonico contributo e quando il governo ha deciso la riduzione dei privilegi ai politici, è stato tra i
parlamentari che si sono platealmente opposti con accanimento a quel provvedimento.
Come si può evincere, oltre che una fucina di rivoluzionari, il quotidiano “il manifesto” è stato
anche un incubatore di giornalisti arrivisti i quali non hanno avuto scrupoli nel rinnegare
l’originario ruolo contestatore per inserirsi nei meandri della società capitalistica godendo dei
vantaggi che essa riserva ai suoi cultori.
Casi di trasformismo si sono verificati anche nel movimento politico del gruppo del “manifesto”,
ma sono stati rarissimi. Ho vivo ricordo di tre di essi per averli vissuti con grande turbamento.
Silvio Rocchi è stato un brillante dirigente del gruppo bergamasco. Era uno studente di medicina
che per passione politica aveva sospeso gli studi. Nello svolgere la sua funzione ci aveva messo non
solo impegno, ma anche passione ed entusiasmo. Un giorno mi ha confidato che nel tenere una
lezione su Gramsci aveva provato un’ immensa soddisfazione nel costatare la presa che il suo
discorso aveva avuto sui compagni. Per un breve periodo di tempo è stato anche membro della
direzione nazionale. Ripresi gli studi è diventato medico. Le sue capacità professionali gli hanno
consentito di fare carriera: dapprima ha ricoperto il ruolo di direttore sanitario poi di direttore di
Asl. A quel punto ha avuto un ripensamento nell’orientamento politico ed è approdato ai lidi del
centrodestra. Qualche anno fa è stato incriminato di concussione e abuso d’ufficio e ha patteggiato
la condanna di un anno.
Goffredo Cassader, nel periodo di fondazione del gruppo del “manifesto” a Bergamo, si è rivelato
un assiduo militante finché un giorno ho avuto il sospetto che avesse rapporti non chiari con
esponenti dell’estrema destra e l’ho consigliato di astenersi dal frequentare il movimento. Con il
passare degli anni è diventato un dirigente del movimento fondato da Antonio Di Pietro e
allorquando a Italia dei valori è stato assegnato il posto di assessore al commercio al Comune di
Bergamo, è stato protagonista con Susanna Mazzoleni, moglie di Di Pietro, di una lotta fratricida
per la sua assegnazione.
209
Infine, Franco Colleoni era un frequentatore degli ambienti del “manifesto”-Pdup. Quell’esperienza
però ha inciso poco nella formazione della sua coscienza politica. Con l’affermarsi del movimento
di Bossi, infatti, egli ha sposato la causa del Carroccio diventando segretario della Lega Nord di
Bergamo
Con i processi di unificazione e con la trasformazione del gruppo del “manifesto” in Partito di unità
proletaria per il comunismo, i casi di degenerazione politica di dirigenti e militanti, seppure limitati,
non hanno cessato di verificarsi.
Militante del Pdup è stato Antonio Azzolini, avvocato di Molfetta e attualmente senatore del Nuovo
centrodestra-Udc. Dopo la sua militanza nelle formazioni rivoluzionarie, ha trasmigrato nei Verdi,
poi nel Pci-Pds, quindi nel Partito popolare e infine è caduto nelle braccia di Berlusconi. Tre anni fa
è stato accusato di associazione a delinquere e truffa e nel 2015 la Magistratura ha avanzato la
richiesta di un suo arresto che però il Parlamento ha bocciato.
Giovanni Cominelli, colui che mi è stato di ostacolo nell’elezione a consigliere regionale, dopo
un’esperienza in seminario, nel ’68 si è iscritto al Pci. Ne è uscito nel ’69 diventando un attivista del
movimento degli studenti e in seguito un dirigente del Mls e poi del Pdup. Ha contribuito alla
stesura di manuali politici che esaltavano Mao e Stalin. Nell’82, quando era unico consigliere
regionale lombardo di quel partito, è rientrato nel Pci schierandosi con la componente migliorista.
Polemizzando con i suoi vecchi compagni di sinistra ha dichiarato: “Contrariamente a quanto dice
la new age marxista e pacifista di Bertinotti, il comunismo non è affatto una bellissima idea male
realizzata nella storia; all’opposto, è una pessima idea realizzata benissimo”. Nel 2000 ha
abbandonato i Ds ed è passato ai radicali dichiarando: “Il mio progetto resta riformista liberale, ma
ho capito che può realizzarlo solo la Bonino”. Qualche anno dopo, però, in lui è prevalso lo spirito
religioso e si è avvicinato a Comunione e liberazione. Ai ragazzi del Meeting di Rimini ha
confidato che “la scoperta che il senso religioso dà è una percezione più radicale e più completa
della realtà”. E ha aggiunto: “Per me non è una cosa nuova”. “Citando anch’io Don Giussani: la
speranza è che la fede mi si riveli ‘non come un cielo sopra la terra, ma come una vibrazione della
terra’. Che avvenga come una nuova fioritura umana”.
Ho poi conosciuto un numero considerevole di compagni che pur non avendo ceduto a pratiche
trasformistiche, trascorso il tempo della contestazione di massa, si sono accomodati negli ambienti
della sinistra moderata senza dare alcun segno d’imbarazzo. Per il loro rinsavimento, alcuni hanno
avuto riconoscimenti ufficiali e incarichi di prestigio. Tra i tanti ricordo Erminio Quartiani, al tempo
uno dei responsabili del servizio d’ordine dei katanga del movimento studentesco milanese,
divenuto dirigente migliorista del Pci-Pds-Pd e deputato; Vincenzo Vita, eletto deputato Pds-Pd e
nominato sottosegretario nei governi Prodi e D’Alema; Alfonso Gianni, pure lui sottosegretario;
Valerio Calzolaio, eletto parlamentare dal Pds-Pd; Valeria Fedeli, senatrice Pd designata alla vice
presidenza del Senato; Giangiacomo Migone, senatore per i Ds; Pietro Marcenaro, dirigente Pd e
deputato; Giuseppe Benigni, Carlo Porcari, Beppe Tadioli, Agostino Agostinelli, ex dirigenti del
“manifesto” o del Pdup che dopo aver aderito i al Pci sono diventati consiglieri regionali.
E l’elenco potrebbe continuare a lungo. E’ da notare che alcuni di questi compagni, i quali alla
continuità hanno trovato più giusta la rottura con il passato, si sono ben guardati dall’indicare nei
loro curriculum di aver militato nelle file della “nuova” sinistra.
A proposito di incoerenze, va tenuto presente che non erano immuni nemmeno quei “sacri mostri”
del movimento operaio che in presenza delle lotte del ’68-’69 si sono aggregati alle formazioni
cosiddette extraparlamentari. Ricordo di aver avuto, in occasione di un convegno su economia e
lavoro, un’animata discussione con Vittorio Foa il quale negava l’importanza di una riflessione
sulle esperienze di autogestione sulle quali aveva riserve, mentre riteneva più importante un riesame
del ruolo dello Stato nel processo rivoluzionario. E pure con il leader dell’antifascismo, capo degli
Arditi del popolo e storico dirigente della Cgil, Giuseppe Alberganti, ho avuto modo di questionare
sul rapporto stalinismo-democrazia e sul problema della delega.
Un caso particolare e più vicino nel tempo è quello di Mario Capanna. Con la rottura del Pdup per il
comunismo egli ha scelto di stare con Democrazia proletaria diventando parlamentare. Sui banchi di
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Strasburgo ha poi vissuto l’esperienza europea, mentre politicamente ha fatto parte dello
schieramento dell’Arcobaleno e poi dei Verdi. Ora è pensionato e continua il suo impegno
scrivendo e partecipando a convegni e conferenze. Quando il governo ha deciso di ridurre l’entità
dei vitalizi, egli ha reagito come se fosse stato ferito. Tale è stata la sua contrarietà a quel
provvedimento da aggregarsi a Giampiero Borghini, Luigi Corbani, Danierla Benelli di Sel e ad
altri ex consiglieri regionali lombardi moderati e di destra per inoltrare ricorso al Tar. Quando mi è
giunta la notizia sono rimasto allibito dal momento che con lui ho condiviso momenti di lotta.
Come si spiega – mi sono chiesto – che colui che ha lanciato uova fuori dalla Scala contro le
signore della Milano bene e che sulle piazze d’Italia e di altri paesi ha perorato la causa degli
affamati del terzo mondo, si sia ridotto a difendere un privilegio della casta politica?
Forse che il simbolo della contestazione studentesca e della lotta dura al capitalismo, invecchiando,
ha subito un indebolimento del sistema immunitario ed è stato contagiato dalla febbre del denaro?
Godere di una rendita di oltre 7.000 euro al mese, rimediati dal servizio che si è fatto alla comunità,
non è poi una condizione sociale di disagio, comunque tale da giustificare una rivolta nel momento
in cui, per motivi di equità sociale, viene leggermente ridotta. Io ho lavorato quasi dieci anni in
fabbrica, ne ho dedicati oltre trenta alla politica e altri dieci alla ricerca sociale e ora vivo con 1.200
euro al mese. Francamente non ho alcun motivo di lamentarmi, giacché sbarco il lunario in modo
dignitoso. Anzi, rispetto a tanti altri pensionati della mia età che hanno sgobbato un’intera vita mi
considero un privilegiato. E quando penso al destino previdenziale che avranno i giovani d’oggi,
addirittura mi vergogno di non essermi battuto a sufficienza per cambiare le loro prospettive. Dove
sono mai finiti i nobili propositi di tanti miei compagni, Capanna compreso, con i quali ho
condiviso progetti e speranze di un mondo fondato sulla giustizia e sull’uguaglianza?
Purtroppo è da prendere atto che se la capacità egemonica del capitalismo in questi ultimi decenni si
è rapidamente estesa a tutti i gangli della società, paradossalmente, è anche dovuto al servizievole
contributo che molti ex rivoluzionari hanno offerto al sistema. Molti di questi, in cambio di uno
scanno di sindaco, di consigliere regionale, di parlamentare, di sottosegretario o di ministro, hanno
venduto la loro anima.
Se si osserva con occhio critico il sistema di potere ci si accorge che esso è popolato da ex
sessantottini che un tempo nutrivano la velleità di abbattere lo Stato e di chiudere la bocca alla
stampa borghese al grido “ribellarsi è giusto”. Trascorso il tempo della gioventù si sono trasformati
in difensori, manifesti od occulti, dello stato di cose esistente. Nella veste di politici, amministratori,
dirigenti di enti e di aziende, docenti universitari, giornalisti della carta stampata e televisivi,
costituiscono l’impalcatura del sistema.
Il movimento studentesco ha partorito non solo personaggi come Gino Strada, medico emerito che
ha dedicato la sua esistenza alla cura dei disperati, ma anche i Sergio Cusani, i Ferruccio De Bortoli,
i Michele Cocuzza, i Paolo Gentiloni, i Dario di Vico, i Tito Boeri.
Il movimento marxista-leninista di “Servire il popolo”, capitanato dal “Papa rosso” Aldo Brandirali
che dopo aver teorizzato “l’orgasmo rivoluzionario” e celebrato i matrimoni endogamici è ritornato
ai sacramenti, ha regalato al sistema del capitale i Renato Mannheimer, i Michele Santoro, gli
Antonio Polito, i Nicola Latorre, le Linda Lanzilotta.
Potere Operaio, oltre ai terroristi Valerio Morucci e Adriana Faranda, allo showman Massimo
Cacciari e alla showoman Ritanna Armeni, ha sfornato il saggio ed equilibrato Paolo Mieli,
Lanfranco Pace e Gaetano Pecorella, l’avvocato difensore dell’uomo dei bunga-bunga.
A rafforzare i ranghi del sistema ha contribuito anche Lotta continua che mentre alla stampa e alla
televisione borghesi ha regalato Gad Lerner, Paolo Liguori, Enrico Deaglio, Andrea Marcenaro,
Toni Capuozzo, Giampiero Mughini e Carlo Rossella, alla politica (quella conservatrice) Sergio
Scalpelli, Antonio Intiglietta e Paolo Sorbi.
Anche Avanguardia operaia non ha mancato di dare il suo contributo al sistema. Mentre alla sinistra
riformista ha dato Pierluigi Bersani ed Edo Ronchi, esimi ministri della Repubblica, all’industria
dell’intrattenimento ha assicurato Claudio Bisio.
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Sessantottini sono stati anche Antonio Ricci, il patron di “striscia la notizia”, Paolo Guzzanti, ex
pupillo di Eugenio Scalfari, che ha trasmigrato dal Psi al Patto Segni a Forza Italia, e Paolo Flores
D’Arcais, direttore di Micromega.
L’editore della “nuova” sinistra Giulio Savelli da giovane era un militante del Pci che in seguito ha
sposato il trotzkismo. In crisi d’identità, dapprima è approdato al Psdi poi ha scoperto il populismo
di destra ed è diventato direttore dell’organo della Lega Nord. Smarrita di nuovo la bussola, ha
ammiccato al Partito liberale e poi ha aderito a Forza Italia. Al movimento leghista sono approdati
altri ex rivoluzionari comunisti tra i quali
Elidio De Paoli, fervente militante marxista-leninista e successivamente ambientalista, e Renzo Del
Carria, pure lui maoista. Il loro approdo al partito di Bossi non deve però meravigliare giacché
questa è una formazione il cui gruppo dirigente è strutturalmente trasformista. Non solo Umberto
Bossi è stato un iscritto al Pci, ma lo stesso Roberto Maroni proviene dalle file marxiste-leniniste. E
l’attuale segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, si è fatto le ossa politiche al centro sociale
Leoncavallo di Milano. Non a caso egli è stato il fondatore e leader dei “Comunisti padani”.
Tutti questi episodi di trasformismo avrebbero dovuto indurre la sinistra a riflettere sul proprio
operato e sulla manifesta incapacità di formare coscienze di classe solide e al riparo dalle diaspore,
ma ahimé anche di fronte a un fenomeno tanto grave ed evidente essa ha preferito e preferisce
chiudere gli occhi.
57. Occorre il coraggio di sperimentare il “nuovo”
Quando ho ideato questo scritto avevo piena consapevolezza che la denuncia del degrado della
sinistra cui sarei giunto e le riflessioni che al riguardo avrei svolto, avrebbero provocato reazioni
polemiche e contrarietà, specie da parte di quei compagni che hanno perso l’abitudine a osservare il
mondo e il proprio stesso operato in modo critico. Mi sono perciò predisposto da tempo a
sopportare i dissensi che la sua lettura susciterà e pure l’accusa di essere stato impietoso nella
denuncia, addirittura prevenuto nei giudizi, e di generare pessimismo anziché incoraggiamento.
Del resto, il mio intento non era e non è quello di andare alla ricerca del consenso, bensì di
provocare il confronto, la polemica e se del caso lo scontro.
Sono cresciuto alla scuola di Antonio Gramsci il quale mi ha insegnato che “nella politica di massa
dire la verità è una necessità”, e a quella di Luigi Longo che ai tempi del ’68 scriveva su
“Rinascita” che il dovere del comunista è “respingere come negativa, e direi non da comunisti, la
tendenza a non parlare delle cose sgradevoli, a tacere o negare le differenziazioni ed i contrasti”.
Essendo questo il mio modo di intendere la politica, non ho potuto fare a meno di documentare il
processo di degenerazione che ha investito lo schieramento di cui mi sento parte e di dire la mia.
Nell’odierno mondo della politica a imperare non sono la chiarezza di propositi, la coerenza
dell’azione, la lealtà verso amici e avversari, ma la furbizia, l’inganno, la menzogna, il gesuitismo,
il tradimento degli ideali per i quali ci si è impegnati ad affermare. E da questo modo di essere la
sinistra è largamente contagiata.
Marx aveva invitato i comunisti a lavorare per il superamento della politica; molti di quelli che
furono i suoi discepoli, invece, hanno dato dimostrazione di saper guazzare nella politica come
fanno i pesci nell’acqua.
Occorre prendere onestamente atto che il sistema del capitale, quale potenza economica e sociale,
ha imposto le sue leggi non solo nella gestione materiale dell’esistenza umana, ma anche nella
formazione delle coscienze, del senso comune. Purtroppo, da qualche tempo la sinistra ha ceduto
enorme terreno sul piano della sua capacità d’incidenza egemonica nella società. Basti considerare
che la pratica della solidarietà è ormai divenuta un bene raro e prezioso e che la si può trovare quasi
esclusivamente nel mondo del volontariato.
Solo partendo dalla costatazione della sconfitta subita sul fronte non solo politico, ma prima ancora
su quello culturale, in specie nella scala dei valori, è possibile, a mio avviso, ritessere la tela
dell’alternativa, aggiustare strategie e dare corso a una nuova prassi.
212
E’ indubbiamente amaro fare i conti con una realtà che decreta il tuo fallimento, ma è la sola
condizione per poter rilanciare l’iniziativa su nuovi binari e con la prospettiva di un successo.
Questo mio lavoro vuole appunto essere un contributo alla costruzione di una rimonta.
Ho vissuto anch’io momenti di scoramento, di angoscia e addirittura di smarrimento, pertanto so
comprendere il disagio e la rabbia che si prova quando ci si scontra con posizioni, atteggiamenti e
argomentazioni che configgono con il proprio modo di essere e di pensare. Negli anni passati ci
sono stati momenti in cui mi sono chiesto con chi mai mi ero aggregato nella sfida di cambiare il
mondo. Seppure i padri del socialismo mi abbiano insegnato che non si sa mai in quale strana
compagnia ci si può venire a trovare, in più di una circostanza mi sono sentito sperduto in mezzo a
“giocatori della rivoluzione”, a contestatori del sistema che però non sono riusciti a spogliarsi dei
vizi che da esso avevano ereditato.
Con il trascorrere del tempo e dell’esperienza mi sono reso conto che alla rivoluzione socialista
molti compagni hanno di fatto privilegiato la rivoluzione della loro posizione sociale e che ormai
integrati nel sistema, hanno giudicato il loro passato di contestazione un errore di gioventù. Con
l’invecchiamento, hanno dimenticato Marx e Gramsci e si sono nutriti degli insegnamenti dei
Talleyrand e dei Depretis.
Per chi è coerente con i principi di giustizia e di uguaglianza diventa indubbiamente difficile fare
carriera, mentre torna più facile e conveniente rinnegare gli ideali in cui si è creduto, piegarsi al
conformismo sociale e mettere la propria intelligenza al servizio del sistema per trarne vantaggi
personali.
Quando penso a quanti sforzi e a quante speranze sono stati sacrificati sull’altare delle pratiche
trasformistiche di molti compagni che hanno avuto responsabilità di comando e di guida del
movimento rivoluzionario, non mi riesce di darmi pace.
E ad albergare nel mio animo non è affatto il pessimismo per l’avvenire, come qualcuno mi ha
rimproverato, ma la rabbia di essere stato troppo indulgente e riverente con il sistema e con chi ha
tradito la buona fede delle classi subalterne.
Mi tornano spesso alla memoria le affollate e infuocate assemblee alle quali ho partecipato e in cui
a prevalere nell’ascolto dei partecipanti non era il discorso assennato, ma quello pomposamente
declamato da chi poi per opportunismo ha disertato l’impegno di lotta che si era assunto. Questi
ricordi mi fanno sentire colpevole di troppa ingenuità e bonarietà.
Mi ha sempre procurato grande sdegno il costatare che anche negli ambienti politici di sinistra ad
emergere e a collezionare deleghe di responsabilità siano coloro che sono più astuti e spregiudicati,
bravi nell’organizzare le conventicole, mentre le brave persone finiscono per essere sospinte dietro
le quinte quando non vengono addirittura emarginate. Di fronte a simili situazioni, e non sono state
poche le esperienze di questo genere che ho vissuto, avrei dovuto agire con più coraggio e più
determinazione.
Federico Caffé si diceva convinto che, in Italia, quando si cerca di cambiare le cose ci si trova
inevitabilmente di fronte a molte difficoltà e a tanta solitudine. E proprio perché questa, nella
modestia del mio ruolo, è stata anche la mia sorte, ho finito per ridurmi nello stesso stato di Jean
Paul Sartre il quale un giorno ha confessato che “in nome dei principi che essa (la borghesia) mi
aveva inculcati, in nome del suo umanesimo e della sua ‘cultura umanistica’, in nome della libertà
dell’uguaglianza, della fraternità, io consacrai alla borghesia un odio che finirà solo con me”.
Oltre a detestare l’avversario, a me capita anche di non avere più rispetto per una parte di quel che è
rimasto della sinistra. I crucci maggiori che oggi mi tormentano sono due. Il primo riguarda
l’atteggiamento passivo del popolo di sinistra di fronte al processo di corrompimento di parte della
sua classe dirigente. Non intravedo reazioni e sensibilità adeguate e a volte mi sorge il dubbio che si
sia assuefatto. Il timore che nutro è che la base dei partiti che a parole si propongono il
cambiamento sia incapace e forse addirittura non si ponga l’obiettivo di uscire dallo stato di
manovalanza politica in cui è stata relegata ormai da tempo. Eppure, appare evidente che senza un
suo protagonismo nessuna trasformazione sociale è possibile e immaginabile.
213
Il secondo motivo di rammarico concerne l’assenza di una visione strategica e di una teoria
dell’alternativa. Il constatare che a pianificare il futuro del mondo e ad affrontare le prospettive di
vita dell’uomo, della modificazione dei suoi geni e delle conseguenze che ne derivano, siano gli
World Economic Forum di Davos e i club dei potenti del mondo e non la sinistra, è per me un
supplizio. Che a fare i conti con la prospettiva di un allungamento della vita a 150 anni e
l’innalzamento dell’età pensionabile a 80 anni siano gli stessi sfruttatori del lavoro umano e coloro
che hanno costruito le loro fortune sulle miserie di intere popolazioni, è un paradosso che mi
sconcerta e mi offende.
La debolezza morale e strategica della sinistra non può dunque non inquietare. La storia ci insegna
che senza grandi idee e grandi progetti le forze che si propongono di trasformare la società sono
destinate a un sicuro fallimento.
Ecco le ragioni che mi hanno convinto a insistere nella mia analisi e nelle mie riflessioni!
In “Incoerenze e ‘buchi neri’ della sinistra” mi sono sforzato, attraverso la rivisitazione
dell’esperienza della sinistra, di mettere in chiaro quelli che io considero essere i limiti e le
contraddizioni della sua strategia e, di conseguenza, ho delineato un percorso di rilancio del
progetto di cambiamento.
Una delle condizioni di un suo successo è costituita dalla consapevolezza che il marxismo non
rappresenta affatto la “bibbia” dei comunisti, ma è una scienza di analisi e di azione che va
criticamente applicata e rielaborata di continuo. Qualche tempo fa Alberto Burgio e Alfonso Gianni
sulle colonne de “il manifesto” hanno sostenuto che occorre tornare a Marx, ma non andare oltre. Al
contrario, io sono convito che le teorie marxiane costituiscono le fondamenta di una cultura della
trasformazione e che la loro attualità dipende dalla nostra capacità di aggiornare l’analisi sociale e
l’elaborazione delle strategie e delle politiche. Da Marx non si possono pretendere le risposte alla
crisi della società moderna, egli ci ha fornito gli strumenti perché le elaborassimo noi. La cultura
della sinistra ha mostrato grossi limiti a questo riguardo ed è per questa ragione che essa ha sin qui
fallito. A noi e non ai classici del pensiero marxista spetta di sciogliere i nodi gordiani che finora
hanno impedito il successo delle rivoluzioni proletarie.
In tempi in cui a dominare è il pragmatismo sorge la necessità di recuperare quell’utopia che
coniugata al progetto trasforma le idee in forza materiale. La storia dell’uomo ci insegna che lo
sviluppo della civiltà, della stessa modernità, è il prodotto di idee e di progetti trasformati in
pratiche sociali per iniziativa di movimenti che si sono sviluppati dal basso.
Oggi siamo in presenza di una transizione epocale la quale ha in sé le potenzialità per un cambio di
civiltà. Se non si vuole essere prigionieri della forza delle cose, delle pratiche imposte dal
capitalismo, si deve scendere in campo per sperimentare il “nuovo”.
Nelle odierne nuove generazioni si avvertono spinte spontanee al cambiamento: dal rifiuto del
consumismo capitalistico alle pratiche di sharing, dalla ripulsa del denaro e del possesso alle
innumerevoli forme di volontariato, dal bisogno di indipendenza e di libertà al desiderio di pace e
sicurezza.
Nello stesso schieramento delle forze progressiste e di sinistra, a livello globale, si manifestano
inquietudini e aspirazioni (si pensi al caso di Jeremy Corbyn nel Regno Unito o a quello di Bernie
Sanders negli Stati Uniti) che rappresentano il segno dell’emergenza di un bisogno del “nuovo” e di
una profonda svolta di prospettiva.
Rispetto a questa situazione di fermento, le elaborazioni politiche della sinistra sono non solo
inadeguate, ma mostrano addirittura un’assenza di sensibilità e uno scarso interesse. Suo compito
sarebbe quello di far piazza pulita delle vecchie idee che si sono dimostrate superate, di aprire gli
orizzonti della propria azione e di perseguire nuovi itinerari, invece molto spesso su alcuni fronti si
presenta addirittura in veste conservatrice. Non avverte che il bisogno di cambiamento, anche se
attraverso manifestazioni timide e non sempre condivisibili, si sta diffondendo ovunque.
In presenza di una crisi del capitalismo che mostra come non mai contraddizioni difficilmente
sanabili, dovrebbe saper portare avanti un’operazione analoga a quella che la borghesia ha
realizzato già a partire dall’alto medioevo mettendo in campo la manifattura e soppiantando in quel
214
modo, sul fronte delle forme della produzione e della riproduzione, l’aristocrazia. Ma per una tale
impresa non solo si dimostra impreparata, ma addirittura dà segno di non avvertirne il bisogno.
In “Incoerenze e ‘buchi neri’ della sinistra”, come ho già ricordato in questo stesso scritto, dalla
rilettura critica della storia del movimento operaio ho ricavato la convinzione che la sinistra è
chiamata a misurarsi in condizione di innovazione teorica e politica su te fronti: quello del
superamento dell’economia politica, quello della statualità e del protagonismo di massa e quello
della riforma intellettuale e morale della società e prima ancora di se stessa. Una sfida questa che
essa non può disattendere, pena il perpetuarsi della sua condizione di subalternità al sistema.
Per rompere la supremazia che il valore di scambio ha sul valore d’uso è necessario dare corso nel
concreto a un modo nuovo di produrre e di consumare. Per fare questo occorre avere il coraggio e
l’intelligenza di sperimentare nuovi percorsi che non comportano un semplice ritorno al baratto, ma
devono andare oltre le esperienze sin qui acquisite.
La sinistra, in sostanza, deve dare corpo a un nuovo modo di impiegare le risorse naturali e l’attività
manuale e intellettuale dell’uomo.
Non si deve mai dimenticare che il capitale non è solo concentrazione di denaro e di potere, ma è
anche accumulazione di sapere, frutto dell’intelligenza e della creatività espropriate ai lavoratori.
Operare per la riappropriazione del “general intellect” è dunque una delle condizioni per costruire
l’alternativa al sistema.
Al mondo del lavoro va fatto prendere coscienza dell’importanza di sottrarre al capitale il
monopolio della conoscenza e di coordinare i “saperi” diffusi per dare vita a nuove esperienze
lavorative capaci di conciliare il modo di produrre e di consumare con le compatibilità ambientali e
la soddisfazione dei bisogni reali, primari e non, dell’uomo. E’ solo questo il modo per costruire
nuovi rapporti sociali alternativi a quelli imposti dal sistema del capitale.
Sul fronte della statualità, anziché consumarsi nelle istituzioni borghesi, la sinistra deve recuperare
lo spirito dell’esperienza della “Comune di Parigi” e disporsi a sperimentare nelle pieghe della
società la costruzione di un tessuto di rapporti sociali e di strutture di democrazia diretta che
prefiguri nuove forme di convivenza non più gerarchica, ma fondate sul protagonismo di tutti. Si
deve operare per l’estinzione graduale del mandato di delega il quale, nella fase di transizione, deve
considerarsi uno strumento di lotta dal carattere transitorio.
Infine, deve dichiarare guerra al processo di alienazione indotto dalla società capitalistica, dando
corso a una riforma morale e intellettuale capace di formare un nuovo senso comune, propagando
una visione scientifica del mondo e dell’esistenza umana, liberando così le menti da ogni
condizionamento ideologico.
I rischi di una barbarie impongono alle forze che storicamente sono impegnate nella costruzione di
un’alternativa al sistema capitalistico un radicale cambio di passo. Se la sinistra indugia nel farlo, le
prospettive dell’umanità di certo si fanno ancor più grigie.
E’ altresì da tener presente che sullo schieramento delle forze progressive e di sinistra
dell’Occidente europeo, su quella italiana in particolare, ricade una responsabilità che spesso non è
tenuta in debita considerazione. Come la storia insegna, un processo di rinnovamento sociale per
essere vincente ha bisogno che esistano determinate condizioni. La realtà in cui esso ha svolgimento
deve vantare il più alto livello di sviluppo economico, sociale e culturale che l’umanità ha
conosciuto. I soggetti che lo promuovono devono avere maturato una solida esperienza di gestione
sociale e di lotta e devono possedere una memoria storica delle sconfitte subite dai movimenti
innovatori in modo da rendersi avveduti dal non ripetere gli errori del passato. Devono poi essere
capaci di elaborare una teoria del cambiamento che sia praticabile e poter contare su una larga
schiera di protagonisti con conoscenze ed esperienze acquisite nei gangli del sistema capitalistico.
Una simile condizione, a mio modo di vedere, esiste solo nel vecchio continente e non è un caso che
tutte le rivoluzioni socialiste realizzate in ogni altro angolo del pianeta siano alla lunga finite in un
fallimento.
Dunque, è a noi che spetta di tracciare il percorso che porta alla liberazione dell’uomo dalla
condizione di servitù imposta dal capitale e all’edificazione di una società socialista. Non è certo
215
cosa semplice, il secondo principio della termodinamica ci ricorda che “distruggere le cose è molto
facile, crearle è molto difficile” e proporsi la costruzione di un sistema sociale nuovo è l’operazione
più complessa che possa esistere. Ma è anche chiaro che solo perseguendo tale obiettivo è possibile
assicurare all’umanità un futuro di progresso.
E a chi mostra scetticismo va ricordato che prima o poi gli uomini si accorgono di non vivere nel
migliore dei mondi possibili e scendono in lotta per un nuovo modo e pure che la storia non è stata
fatta dalle maggioranze silenziose, ma dalle minoranze attive.
Poter dire di aver concorso a cambiare in meglio il mondo è la più grande soddisfazione che un
militante di sinistra possa avere.
216
217
Appendice
218
219
Località in cui sono stato invitato a presentare i miei saggi sul
leghismo o nelle quali ho partecipato a pubblici dibattiti
sull’argomento
Lombardia
Bergamo, Albino, Almenno S.Bartolomeo, Alzano Lombardo, Calolziocorte, Dalmine, Clusone,
Lovere, Nembro, Ponte S. Pietro, Romano di Lombaria, San Pellegrino, Seriate, San Paolo
d’Argon, Sotto il Monte, Spirano, Trescore Balneario, Treviglio, Zogno.
Brescia, Bienno, Castelmella, Collebeato, Darfo Boario Terme, Edolo, Gardone Valtrompia,
Gussago, Poncarale.
Como, Menaggio, Barzio, Cantù, Lecco, Lomazzo, Mandello Lario, Mariano Comense, Merate,
Olginate, Valmadrera, Verderio Inferiore.
Cremona, Castelleone, Crema, Vaiano.
Mantova, Canneto sull’Oglio, Ostiglia, Pegognaga, Suzzara, Viadana.
Milano, Arluno, Bollate, Binasco, Bovisio Masciago, Brugherio, Busnago, Bussero, Casarile,
Casalpusterlengo, Carugate, Cassano d’Adda, Cassina de’ Pecchi, Cesano Maderno, Cinisello
Balsamo, Cologno Monzese, Concorrezzo, Corsico, Dairago, Legnano, Lodi, Lodi Vecchio,
Melegnano, Monza, Noviglio, Paderno Dugnano, Parabiago, Paullo, Rho, Rosate, Rozzano, San
Giuliano Milanese, Sedriano, Sesto San Giovanni, Sovico, Trezzo sull’Adda, Vimercate,
Vimodrone.
Pavia, Mede, Mortara, Stradella, Vigevano, Voghera.
Sondrio, Bormio, Chiavenna, Sondalo.
Varese, Induno Olona, Samarate, Saronno, Solbiate Arno, Somma Lombardo.
Piemonte
Torino, Alba, Cuneo, Novara, Domodossola, Valenza Po.
Liguria
Genova, Ronco Scrivia, Sarzana, Savona.
Veneto
Venezia, Belluno, Lonigo, Malcesine, Mestre, Padova, Verona, Vicenza.
Trentino-Alto Adige
Trento.
Friuli-Venezia Giulia
Trieste, Cervignano, Gorizia, Pordenone, Sacile.
Emilia-Romagna
Bologna, Campogalliano, Carpi, Castelfranco, Cavriago, Cesena, Finale Emilia, Forlì, Gualtieri,
Mirandola, Modena, Parma, Pavullo, Ravenna, Reggio Emilia, Sassuolo, Spilamberto.
Toscana
Certaldo, Livorno, Pisa, Siena, Sovicille.
Umbria
Perugia.
Lazio
Roma.
Campania
Napoli.
Svizzera
Losanna.
Nota: In alcune di queste località, in particolare nelle città capoluogo, la mia presenza è stata
richiesta più volte.
220
Interviste rilasciate a net work in occasione della
pubblicazione dei miei saggi sul leghismo
Radio
Radio Popolare – Milano / Italia Radio – Roma e Mi / Gr1 e Gr2 Rai / Radio Carpi / Radio Golden
– Alessandria / BBC – Londra / Radio Suisse Romande / Radio Città – Modena / Radio Città del
Capo – Bologna / Radio Pavia / Radio Onda d’urto - Brescia.
Tv
TRL 55 – Varese / Telemontepenice – Pavia / Tv Pavia / Tv Svizzera – Ginevra / TG3-Rai –
Veneto / TG3-Rai – Lombardia / TeleBelluno / TeleDolomiti / TeleChiavenna / Bergamo Tv/
TeleVicenza / TG2 Dossier – Rai / BBC – Londra.
Citato da Chiambretti, censurato da Santoro.
Rifiutato l’invito a trasmissioni Rai condotte da Gad Lerner ed Enrico Deaglio.
Costretto dalla direzione di Rifondazione comunista a partecipare al “Costanzo Show” – Canale 5,
sono alla fine risultato una comparsa muta giacché il conduttore non mi ha dato la parola.
Recensioni su quotidiani e periodici e citazioni in saggi
Agorà – Colonie Libere – Svizzera / Airone – Varese / Alternative Europa / Arel Padania –
Mantova / A sinistra – Roma / Avanti! / Avti – Grecia / Bandiera rossa / Bergamo Oggi / Bergamo
15 / Bollettino Biblioteca “Di Vittorio” – Bergamo / Bollettino Camera dei Deputati / Brescia Oggi
/ Cominform / Corriere della sera / Critica marxista / “Dieci anni che hanno sconvolto l’Italia” di
Bruno Vespa / “Ethnos e Demos” di Autori vari / Europeo / Falce e martello / “Figli Bene” di
Autori vari / Fuori Linea / Gazzetta di Mantova / Giornale di Cantù / H Eiioxh – Grecia / Il Carlone
– Bologna / Il Cittadino – Monza / Il Cittadino – Paullo / Il Gazzettino – Belluno / Il Giornale
dell’Adda – Milano / Il Giorno / Il lavoratore – Svizzera / Il manifesto / Il Mondo / Il Nuovo
Torrazzo – Cremona / Il Ponte / Il Punto stampa – Lecco / Il Resegone – Lecco / Il Sabato /
Informazione, Scuola Sindacato Cgil – Bergamo / “I razzismi possibili” di Laura Balbo e Luigi
Manconi / L’Agenzia – Lecco / “La Lega Lombarda” di Renato Mannheimer / L’Area – Milano /
La Citta – Voghera / La Gazzetta della Martesana – Milano / La Grande Mantova / “La Lega” di
Ilvo Diamanti / La Prealpina – Varese / La Provincia – Como / La Provincia Pavese / La Repubblica
/ La Rivisteria / “La Rivoluzione” di Umberto Bossi e Daniele Vimercati / La Stampa / La Voce /
L’Eco di Bergamo / L’Eco notizie – Paullo (Mi) / “Le due destre” di Marco Revelli / “Le parole
della Lega” di Stefano Allevi / L’Espresso / L’Humanité – Francia / Libération - Francia /
Liberazione / L’Indice / L’Informatore vigevanese / L’Unità / Nuova Rassegna Sindacale / Pagine
Valtellinesi / Panorama / Per l’Alternativa – Milano / Primirski Dneunik – Gorizia / Rassegna
Istituto Storico della Resistenza – Bergamo / Polis / Punto a capo – Crema / Osservatorio – Livorno
/ Rinascita / Segno Rosso – Belluno / Segrate Oggi (Mi) / Sette Giorni – Bergamo / Guardian –
Inghilterra / Trescore, informazione / Valenza, Informazioni.
Interlocutori avuti in occasione delle presentazioni e dei
dibattiti
Tra gli altri: John Agnew (ricercatore, docente universitario Usa), Mario Agostinelli (segretario
Cgil Lombardia), Angelo Airoldi (segretario nazionale Fiom), Uber Anghinoni (deputato Lega),
Sandro Antoniazzi (segretario Cisl Lombardia), Paolo Arrigoni (presidente Giunta della Regione
Lombardia), Laura Balbo (sociologa - deputato Pci), Augusto Barbera (deputato Pds -
istituzionalista), Antonio Bassolino (deputato - direzione Pds), Vittorio Bellavite (dirigente Cristiani
221
per il socialismo), Angelo Bendotti (presidente Irec Bergamo), Piergiorgio Bergonzi (senatore Prc),
Anna Bernasconi (deputato Pci), Fausto Bertinotti (deputato -segretario nazionale Prc), Walter
Bielli (deputato Prc), Roberto Biorcio (docente e ricercatore universitario), Marida Bolognesi
(deutato Prc), Stefano Bonaccini (futuro governatore Emilia-Romagna), Davide Boni (presidente
Provincia di Mantova), Aldo Bonomi (direttore A.aster e ricercatore Cnel), Rinaldo Bontempi
(deutato.europeo Pds), Roberto Borroni (deputato Pds), Gianfranco Burchiellaro (sindaco Mantova
- Pds), Alberto Burgio (storico - docente universitario), Paolo Cacciari (consigliere regionale
Veneto Prc), Franco Calamida (deputato Prc), Susanna Camusso (futuro segretario generale Cgil),
Alfredo Canavero (storico, docente universitario), Mario Capanna (deputato, leader movimento
studentesco ’68), Maria Carazzi (deputato Prc), Bruno Casati (segretario Prc Milano), Giampiero
Castano (segretario Fiom Lombardia), Franco Castellazzi (già n°2 Lega), Vincenzo Ciabarri
(deputato Pds), Franco Colleoni (segretario Lega Provincia di Bergamo), Paolo Corsini (storico -
deputato Pds), Giorgio Cremaschi (dirigente nazionale Fiom), Chicco Crippa (deputato Verdi),
Antonino Cuffaro (deputato - coordinatore nazionale Prc), Massimo D’Alema (deputato - vice
segretario nazionale Pds), Nando Dalla Chiesa (sociologo - deputato Italia Democratica), Silvana
Dameri (segretario Pds Piemonte), Stefano Draghi (docente universitario - Pds), Lino Duilio
(deputato Partito popolare), Renato Farina (giornalista Comunione Liberazione), Marco Ferrando
(dirigente nazionale Prc), Pierangelo Ferrari (segretario Pds Lombardia), Carla Filosa (scrittrice),
Renzo Foa (giornalista, già direttore de l’Unità), Mimmo Franzinelli (storico), Sergio Garavini
(deputato - segretario nazionale Prc), Aldo Garzia (giornalista e scrittore), Luciano Gelpi (deputato
DC), Filippo Gentiloni (giornalista - studioso questione cattolica), Francesco Germinario (storico),
Luciano Ghelfi (giornalista Tg2 Rai), Carlo Ghezzi (segretario Cgil Milano), Thomas Gold (docente
e ricercatore universitario Usa), Margherita Hagh (astrofisica), Paolo Hutter (consigliere comunale
Milano di Sinistra), Mirko Lombardi (sociologo - docente universitario Cattolica),
Giorgio Lunghini (economista), Emanuele Macaluso (deputato - direzione nazionale Pds), Padre
Angelo Macchi (teologo - direttore Civiltà cristiana), Loris Maconi (segretario Cgil Brianza), Lucio
Magri (deputato - direzione nazionale Prc), Lucio Manisco (giornalista - eurodeputato Prc), Renato
Mannheimer (sociologo - docente universitario), Ramon Mantovani (deputato Prc), Maurizio
Martina (segretario Pd Lombardia, futuro ministro), Graziella Mascia (segretario Prc Milano), Lidia
Menapace (giornalista - leader MPA), Luigi Meriggi (deputato Prc), Gianfranco Miglio
(costituzionalista – “teologo” della Lega), Luigi Moretti (eurodeputato Lega) , Primo Moroni
(ricercatore - dirigente Calusca), Luigi Negri (segretario Lega Milano), Zaverio Pagani (segretario
Cisl Lombardia), Antonio Panzeri (segretario Cgil Milano), Carlo Paolini (direzione nazionale Prc),
Fulvio Papi (rettore universitario), Valentino Parlato (direttore “il manifesto”), Gianfranco Pasquino
(politologo - docente universitario - deputato Pds), Gianni Pedò (segretario Cgil Brescia), Anna
Pedrazzi (deputato Pds), Gian Luigi Pegolo (direzione nazionale Prc), Corrado Peraboni (deputato
Lega), Marco Pezzoni (deputato Pds), Gianni Piatti (deputato Pds), Antonio Pizzinato (senatore Pds
- già segretario nazionale Cgil), PierPaolo Poggio (storico), Enrico Pugliese (docente universitario -
ricercatore), Carla Ravaioli (scrittrice), Bruno Ravasio (segreteria nazionale Filtra-Cgil), Marco
Revelli (ricercatore - docente universitario - scrittore), Gianni Riccamboni (ricercatore - docente
universitario), Basilio Rizzo (consigliere comunale Milano Verdi), Augusto Rocchi (segretario Cgil
Lombardia - leader Essere sindacato), Carlo Rognoni (direttore Secolo XIX - deputato Pds),
Rossana Rossanda (fondatrice Manifesto), Gian Enrico Rusconi (storico e docente universitario),
Giovanni Russo Spena (deputato Prc - già segretario nazionale DP), Mario Sai (direzione nazionale
Cgil), Isaia Sales (deputato Pds – dirigente quadri Mezzogiorno), Massimo Salvadori (storico -
deputato Pds), Cesare Salvi (presidente deputati Pds), Gianna Senesi (deputato Pds), Rino Serri
(coordinatore nazionale Prc - già presidente nazionale Arci), Daniel Singer (giornalista Francia),
Pino Soriero (dirigente Pds Mezzogiorno), Corrado Stajano (opinionista - scrittore), Michele
Straniero (linguista - docente universitario - ex cantante), Jems Sturz (ricercatore universitario Usa),
Riccardo Terzi (segretario Cgil Lombardia), Tode (ricercatore docente universitario Usa), Aldo
Tortorella (deputato - direzione nazionale Pds), Elio Veltri (difensore civico Milano), Nichi
222
Vendola (direzione Prc); Daniele Vimercati (giornalista – biografo ufficiale di Bossi), Luciano
Violante (deputato - direzione nazionale Pds), Roberto Vitali (segretario Pci-Pds Lombardia),
Walter Vitali (assessore Bologna Pds , poi sindaco).
Caricatura eseguita da un artista durante la presentazione de “Il tarlo delle leghe” in
una località del Milanese nell’autunno del 1992
223
Indice dei nomi
Acquaroli Francesco 195
Adornato Ferdinando 198
Adorno Theodor 34
Agnew John 106 - 220
Agosti Giorgio 38
Agostinelli Agostino 209
Agostinelli Mario 220
Airoldi Angelo 105 - 220
Akerlof George 147
Alberganti Giuseppe 209
Alberoni Francesco 28
Alfani Franco 66
Alfano Angelino 196
Alicata Mario 18 - 29
Althusser Louis 34
Amato Giuliano 202
Amboni Angelo 20
Ambrosi Bruno 100
Amendola Giorgio 18 - 21 - 34 - 164
Andreatta Beniamino 160
Andreoli Vittorino 149
Andreotti Giulio 59 - 71 - 80 - 106
Anghinoni Uber 220
Angius Gavino 101 - 196
Annunziata Lucia 58 - 208
Antoniazzi Sandro 220
Armanni Vittorio 97
Armeni Ritanna 208 - 210
Arrigoni Paolo 220
Asor Rosa Alberto 106 - 108 - 153 - 160
Asperti Giuliano 103 - 197
Asperti Piero 47 - 53
Azzarà Stefano 163
Azzolina Gaetano 73
Azzolini Antonio 209
Baget Bozzo Gianni 100 - 194 - 197
Baker Josèphine 181
Balbo Laura 105 - 220
Barbera Augusto 220
Barca Luciano 129
Barcellona Pietro 160 - 184
Barenghi Riccardo 208
Baroni Ninì 29
Basaglia Franco 71
Bassanini Franco 179 - 182 - 196
Bassolino Antonio 158 - 176 - 177 - 185 - 200
- 220
Battaglia Luigi 123
Bellavite Vittorio 220
Belotti Giuseppe 46 - 66
Belsito Francesco 200
Bendotti Angelo 221
Benedetto XVI – Joseph A. Ratzinger 160 -185
Beneduce Alberto 192
Benelli Daniela 210
Benigna Sandra 52
Benigni Giuseppe 209
Ben Mhenni Lina 160
Benso Camillo conte di Cavour 191
Beretta Giovanbattista 90
Bergonzi Piergiorgio 221
Berlinguer Enrico 41 - 96 - 98 - 99 - 157 - 158
- 160 - 164 - 178 - 179 - 183
Berlinguer Giovanni 108
Berlinguer Luigi 156
Berlusconi Silvio 118 -152 -156 -158 - 183 -
194 - 196 - 197 - 207 - 209
Bernasconi Anna 221
Bersani Pierluigi 161 - 162 - 203 - 210
Bertani Agostino 150
Berti Giuseppe 192
Bertinotti Fausto 113 - 166 - 176 - 182 - 183 -
185 - 187 - 205 - 208 - 209 - 221
Bielli Walter 221
Biffi Lino 86
Binelli Fabio 180
Biorcio Roberto 221
Bisio Claudio 210
Blair Tony 158 - 181 - 182 - 183
Bobbio Luigi 36
Bocca Giorgio 102
Boeri Tito 210
Boioli Faustino 180
Bolognesi Marida 221
Bombacci Nicola 192
Bonaccini Aldo 99
Bonaccini Stefano 221
Bonacina Antonio 20
Bonacina Clementina 12
Bonacina Giuseppina 11
Bonacina Mario 20
Bonalumi Gilberto 47
Bonalumi Silvio 11
Bonaparte Napoleone 117 - 190
Bondi Sandro 196
224
Boni Davide 221
Bonino Emma 209
Bonomi Aldo 221
Bontempi Rinaldo 221
Bordiga Amadeo 157 - 175 - 192
Bordignon Massimo 203
Borghini Gianfranco 197
Borghini Giampiero 98 - 179 -180 - 197 - 211
Borroni Roberto 221
Boschini Antonio 86
Boselli Enrico 195 - 197
Bosetti Giancarlo 157
Bossi Alfredo 19 - 39 - 41
Bossi Umberto 104 - 105 - 106 - 109 - 179 -
203 - 207 - 209 - 211 - 220 - 222
Brambilla Giovanni 100 - 102 -
Brand Willy 160
Brandirali Aldo 45 - 210
Brembilla Annamaria 86
Brembilla Edoardo 20
Brembilla Graziana 86
Bresciani Antonio 192
Bresso Mercedes 180 - 205
Breznev Leonid 57 - 181
Brighenti Giuseppe 19 - 38 - 39 - 40 - 111
Briolini Silvana 32
Brumana Emanuela 86
Buber Martin 186
Bufalini Paolo 29
Buffo Gloria 187
Bugada Mario 54
Buglio Salvatore 195
Buratti Luigi 20
Burchiellaro Gianfranco 221
Burgio Alberto 213 - 221
Bush Gorge 158 - 194 - 195
Buttiglione Rocco 197
Cacciari Massimo 32 - 210
Cacciari Paolo 221
Caffè Federico 156 - 207 - 212
Cafiero Carlo 191
Cahuzac Jéerome 198
Caio Marco 86
Calabresi Luigi 51 - 52
Calamandrei Piero 160
Calamida Franco 221
Caldarola Giuseppe 157
Calearo Massimo 195
Calvi Enzo 54 – 56 - 86
Calvino Italo 199
Calzolaio Valerio 209
Cammarata Diego 195
Camusso Susanna 105 - 221
Canapini Walter 176
Canavero Alfredo 221
Cantone Carla 122
Canu Silvano 39
Capanna Mario 30 - 78 - 209 - 210 - 221
Caparini Davide 117
Capelli Ornella 86
Capezzone Daniele 195
Capodaglio Everardo 20 - 23 - 24
Caprara Massimo 39 - 60 - 184 - 207
Capuozzo Toni 210
Caputo Nicola 204
Carazzi Maria 221
Carducci Giosué 190
Carlotti Maurizio 197
Carminati Ferdinando 48
Carminati Giovanni 88
Carniti Pierre 35
Carrillo Santiago 171
Caruso Antonio 201
Carrozza Maria Chiara 161
Casati Bruno 221
Cassader Goffredo 50 - 208
Castano Giampiero 221
Castellazzi Franco 221
Castelli Mosè 20
Castellina Luciana 68 - 71 - 79 - 80
Castro Fidel 32 - 164 - 181 - 184
Castro Raul 184
Catalano Mario 71
Cavalli Alfredo 19 - 36 - 40 - 41
Cavenati Mario 20
Cazzaniga Mario 162
Cazzola Giuliano 196
Cencelli Massimiliano 199
Cerroni Umberto 188
Cervetti Gianni 100 - 180
Chàvez Hugo 164 - 184
“Che” Guerava Ernesto 170 - 207
Chiambretti Piero 106
Chou En- lai 180
Churchill Winston 192 - 196
Ciabarri Vincenzo 221
Cicchino Fabrizio 196 - 197
Cinanni Paolo 65
Cittaristi Severino 53
225
Clinton Bill 182
Clinton Hillary 182
Clooney George 164
Cocuzza Michele 210
Cofferati Sergio 176
Coffrini Marcello 185
Colajanni Napoleone 157
Colaninno Matteo 158
Colleoni Franco 209 - 221
Colletti Lucio 196
Colli Ombretta 195
Cologni Fausto 55
Colombo Gherardo 199
Comaschi Sandro 62
Cominelli Giovanni 79 - 80 - 81 - 85 - 209
Consolo Vincenzo 109
Consonni Fabrizio 86
Consorte Giovanni 129
Conte Roberto 196
Corbani Luigi 205 - 210
Corbyn Jeremy 164 - 213
Corsini Paolo 221
Cortesi Franco 76
Corti Claudio 100
Cossiga Francesco 190
Cossutta Armando 29 - 110 - 113 - 166 - 176
Costanzo Maurizio 74 - 106
Cova Alberto 100
Craxi Bettino 45 - 65 - 86 - 109 - 157 - 194 -
197 - 204
Cremaschi Giorgio 108 - 164 - 165 - 221
Crippa Chicco 221
Crippa Giuseppe junior 40
Crippa Giuseppe senior 19 - 40
Crispi Francesco 191
Cristo Gesù 33 - 185
Crotti Marco 86
Cuffaro Antonino 221
Cuperlo Gianni 185
Curcio Renato 28
Cusani Sergio 165 - 210
D’Alema Massimo 108 - 157 - 175 - 176 - 178
-179 - 180 - 182 - 183 - 184 - 187 - 198 – 209 -
221
Dalla Chiesa Nando 80 - 100 - 221
Dameri Silvana 221
D’Annunzio Gabriele 192
Daverio Philippe 195
Davigo Piercamillo 199
De Angelis Massimo 157
Deaton Angus 137
De Benedetti Carlo 118 - 158
De Bortoli Ferruccio 210
De Gaspari Mario 121
De Gregorio Sergio 195
Del Bo Boffino Anna 100
Del Carria Renzo 212
Dell’Utri Marcello 198
Del Nero Patrizio 197
Del Pennino Antonio 71
De Luca Vincenzo 176 - 200
De Paoli Elidio 211
Depretris Agostino 191 - 212
De Rita Giuseppe 104
De Sanctis Francesco 200
Diliberto Oliviero 164
Di Pietro Antonio 50 - 77 - 91 - 176 - 208
Di Vico Dario 210
Dobb Maurice 129
Donat Cattin Carlo 71
Dossetti Giuseppe 160
Draghi Stefano 221
Dubcek Alexander 43
Duilio Lino 221
D’Urso Mario 182
Eaton John 129
Emiliano Michele 203
Engels Friedrich 28 - 32 - 43 - 130 - 131 -153 -
168 - 170 - 183 - 191
Escrivà de Belanguer 184
Faranda Adriana 210
Farina Renato 120 - 221
Fasola Claudio 86
Fassina Stefano 159
Fassino Piero 108 - 157 - 158 - 161 - 178 - 179
- 183 - 184
Fattuzzo Carlo 194
Fedeli Valeria 209
Feltri Vittorio 198
Ferlini Massimo 197
Ferrando Marco 221
Ferrara Giuliano 207 - 208
Ferrari Pierangelo 221
Ferraris Pino 57
Filosa Carla 221
Fini Gianfranco 207
Fischer Joschka 193
226
Flores d’Arcais Paolo 211
Fo Dario 29 - 49 - 50 - 87
Foa Renzo 106 - 184 - 197 - 221
Foa Vittorio 45 - 64 - 209
Fois Luca 86
Ford Martin 140
Formentini Marco 176 - 194
Formigoni Roberto 197
Fortini Franco 57
Fourier Charles 186
Francesco, Jorge M. Bergoglio 148 -160 - 200
Franco Francisco 184
Franzinelli Mimmo 221
Freud Sigmund 185
Gagliardi Rina 166
Galan Giancarlo 200
Galante Garrone Alessandro 175 - 206
Galli Pio 69 - 100
Galliffet, Gaston de 190
Galloni Giovanni 100
Gambirasio Antonio 20 - 21
Gandhi Mahatma 160
Garavini Sergio 48 - 108 -110 - 112 - 113 - 166
- 179 - 221
Gardini Raul 165 - 203
Garibaldi Giuseppe 199
Garzia Aldo 221
Gasparri Maurizio 197
Gavazzeni Franco 47
Gelpi Luciano 221
Gensini Gastone 18
Gentiloni Filippo 221
Gentiloni Paolo 210
Germinario Francesco 221
Geymonat Ludovico 154
Ghelfi Luciano 221
Ghezzi Carlo 122 - 221
Ghilardotti Fiorella 108
Ghisleni Daniele 123
Gianni Alfonso 113 - 166 - 209 - 213
Giolitti Giovanni 192
Giordano Franco 166
Giovanni Paolo II, Wojtyla Karol 184
Giovanni XXIII, Roncalli Angelo 160 - 185
Giovannini Enrico 201
Giuliani Carlo 165
Giussani Luigi G. 209
Gobetti Piero 192
Gold Thomas 221
Goldoni Carlo 190
Golfari Cesare 96
Gonzalez Felipe 181
Gramsci Antonio 28 - 36 - 102 - 109 - 127 -
131 - 132 - 155 - 156 - 157 - 158 - 160 - 169 -
170 - 177 - 180 - 192 - 198 - 208 - 211 - 212
Grasso Pietro 204
Gregis Pierluigi 7 - 123
Grillo Beppe 116
Grossman Henryk 158
Gruppi Luciano 18 - 100
Guzzanti Paolo 211
Habermas Jurgen 34 - 172
Hag Margherita 221
Haider Jorg 194
Harris Robert 181
Hegel Friedrich 200
Hitler Adolf 184
Hobbes Thomas 176 - 186
Hobsbawm Eric 34
Ho Chi Minh 47
Horkheimer Max 34
Hutter Paolo 221
Ichino Pietro 195
Iglesias Gerardo 171
Ingrao Pietro 29 - 40 - 103 -105 - 108 - 155 -
187
Intiglietta Antonio 210
Kamenev Lev 124
Kant Immanuel 160
Karjakin Jurij 193
Kautsky Karl 168
Kemberg Otto 186
Kennedy John 160
Kennedy Onassis Jacqueline 181
Kinkel Gottfried 191
Kirkpatrick Jane 194
Koestler Arthur 192
Kosik Karel 174
Kuznetzov Serghei 100
Labor Livio 43
Lafontaine Oskar 181
Lama Luciano 183
La Malfa Giorgio 194
Landini Maurizio 165
Langer Alexander 160
227
Lante della Rovere Marina 65
Lanzilotta Linda 212
La Pira Giorgio 26 - 160
La Russa Ignazio 197
Lassalle Ferdinand 170
Latorre Nicola 210
Lavitola Valter 197
Lazzarini Luigino 7 - 86
Legler Enrico 12
Legler Matteo junior 12
Leidi Carlo 32 - 39 - 40 - 47 - 52
Lenin Nicolaj 21 - 28 - 32 - 43 - 44 - 127 - 128
- 131 - 132 - 168 - 177 - 196
Leonardi Silvio 99
Leont’ev Aleksej 129
Lerner Gad 106 - 210 - 220
Letta Enrico 203
Levy-Leblond Jean Marc 141
Libertini Lucio 69
Liguori Paolo 210
Lollobrigida Gina 181
Lombardi Mirko 221
Lombardo Claudia 205
Longo Luigi 34 - 157 - 179 - 181 - 211
Loren Sofia 181
Lorenz Konrad 103
Luigi XVI 190
Lukacs Giorgy 34
Lula, Luis Inacio da Silva 181
Lunghini Giorgio 221
Luporini Cesare 187
Lusi Luigi 200
Lutero Martin 190
Luxemburg Rosa 28 - 131 - 168 - 170
Luxuria Wladimir 197
Macaluso Emanuele 108 - 156 - 162 - 178 -
221
Maccacaro Giulio 53 - 72
Macchi Angelo 221
Macciocchi Maria Antonietta 195
Maconi Loris 221
Mafai Miriam 106 - 157
Magaldi Gioele 159
Magni Antonio 54 - 55 - 56
Magni Gianni 86 - 87
Magri Lucio 38 - 39 - 45 - 56 - 57 - 59 - 60 - 61
- 67 - 71 - 72 - 79 - 80 - 96 - 100 - 103 - 186 -
221
Maiolo Tiziana 207
Malatesta Enrico 191
Malinverno Marco 196
Mamoli Angelo 47
Mancina Claudia 187
Mandela Nelson 160
Manisco Lucio 221
Mannheimer Renato 105 - 159 - 210 - 220 -221
Mangili Giovanni 86
Mangili Sperandio 86
Mantecca Diego 55
Mantovani Ramon 106 - 221
Mao Tse Tung 32 - 44 - 57 – 207 - 209
Marasci Beppe 86 - 98
Marcenaro Andrea 210
Marcenaro Pietro 209
Marchi Gaetano 20
Marchi Luigi 39 - 40 - 41 - 42 - 97 - 98
Marconi Pio 207
Marino Leonardo 52
Maritain Jacques 160
Maroni Roberto 211
Martelli Claudio 183 - 190
Martina Maurizio 122 - 158 - 221
Martinazzoli Mino 115
Marx Carlo 28 - 32- 34 - 43 - 44 - 127 - 128 -
130 - 131 - 146 - 154 - 156 - 157 - 162 - 164 -
168 - 170 - 174 - 180 - 183 - 185 - 191 - 196 -
211 - 212 - 213
Mascia Graziella 221
Masi Diego 195
Mastella Clemente 195
Mattei Enrico 23
Matteoli Altero 158
Mazzatorta Sandro 206
Mazzoleni Susanna 208
Mehering Franz 170 - 191
Melandri Giovanna 205
Menapace Lidia 45 - 221
Menotti Serrati Giacinto 175
Meriggi Luigi 221
Merkel Angela 194
Merli Stefano 43
Michels Robert 167
Mieli Paolo 192 - 210
Miglio Gianfranco 105 - 158 - 179 - 221
Migliore Gennaro 166
Migone Gian Giacomo 57 - 209
Milani Eliseo 11 - 15 -19 - 27 - 29 - 32 - 37 -
38 - 39 - 40 - 41 - 56 - 60 - 61 - 79 - 80 - 96 - 97
- 186
Milani Giovanni 11 - 12 - 20 - 21
Milani Lorenzo 33
228
Milani Silvestro 38
Millerand Alexandre 190
Milosevic Slobodan 181
Minardi Roberto 19
Mineo Corradino 208
Minghetti Marco 191
Miniati Silvano 45 - 57
Mittiga Antonino 89
Moioli Elso 15
Moioli Ernesto 12
Moioli Nadia 7 - 25 - 51 - 122
Moioli Riccardo junior 51
Moioli Riccardo senior 11
Moioli Rossana 51
Monroe Marylin 161
Montand Yves 66
Montanelli Indro 198
Montani Gianni 66
Monti Mario 201 - 202 - 203
Moretti Arrigo 47
Moretti Luigi 221
Morlino Tommaso 96
Moro Aldo 70 - 96 - 106
Moro Maria Fida 195 - 197
Moroni Primo 221
Moroni Sergio 65
Morucci Valerio 210
Mughini Giampiero 210
Mulas Tonino 79
Mussi Fabio 177 - 196
Mussolini Benito 192 - 199
Napolitano Giorgio 38 - 155 -158
Nardella Dario 160
Natali Gianmario 87
Natoli Aldo 39 - 57
Natta Alessandro 98 - 157
Negri Luigi 221
Negri Tony 32
Nesi Nerio 179 - 197
Nicotera Giovanni 191
Noce Teresa 181
Nordau Max 167 - 185
Notarianni Michelangelo 202
Oberti Marcello 86
Occhetto Achille 103 - 109 - 155 - 156 - 157 -
162 - 174 - 175 - 176
Oggioni Giulio 77
Olivati Riccardo 76 - 91
Ongaro Franca 71
Ongaro Luciano 38 - 173
Orlando Andrea 159 - 200
Orlando Leoluca 106
Ottaviano Franco 157
Pace Lanfranco 210
Padre Pio di Pietrelcina 183 - 196
Pagani Zaverio 221
Pajetta Giancarlo 18 - 153 - 187
Pajetta Giuliano 65
Palac Jan 177
Pannella Marco 30 - 60 194 - 195
Panzeri Antonio 179 - 183 - 203 - 221
Paolini Carlo 221
Papi Fulvio 221
Parenzan Lucio 73 - 74 - 75 - 76 - 77
Parlato Valentino 66 - 104 - 161 - 166 - 221
Parola Pierluigi 76 - 77
Parri Ferruccio 181
Pascale Francesca 197
Pasini Piero 47
Pasquino Gianfranco 106 - 108 - 221
Pecoraro Scanio Alfonso 183
Pecorella Gaetano 210
Pedò Gianni 221
Pedrazzi Anna 221
Pegolo Gianlugi 221
Penati Filippo 195 - 200
Peraboni Corrado 221
Peretti Piero 19
Perico Fabio 86
Pesenti Antonio 18 - 129
Petenzi Franco 78 - 79 - 171 - 182
Petruccioli Claudio 62 - 100 - 108 - 159 – 176 -
179
Pezzoni Marco 221
Piatti Gianni 221
Piccoli Flaminio 28
Pinelli Giuseppe 52
Pintor Luigi 39 - 45 - 57- 150 - 156 - 159 - 166
- 176 - 187
Pisacane Carlo 188 - 191
Pivetti Irene 183
Pizzinato Antonio 119 - 221
Platinì Michel 183
Plechanov Georgij V. 168
Poggio Pier Paolo 106 - 221
Polini Angelo 38 - 49
Polito Antonio 210
229
Polo Gabriele 165
Polverini Renata 205
Poma Pasquale 38 - 40
Pomicino Cirino 190 - 200
Pomodoro Livia 201
Pons Silvio 157 - 178
Popper Karl 190
Porcari Carlo 209
Preda Dario 86
Prodi Romano 175 - 195 - 209
Prosperini Pier Gianni 195 - 200
Pugliese Enrico 221
Putin Wladimir 26 - 181 - 185
Quadrio Curzio Alberto 179
Quartiani Erminio 209
Quattrucci Mario 18
Quercioli Elio 180
Rame Franca 29 - 49 - 87
Rampinelli Enrico 20
Ranieri Umberto 156
Rattazzi Urbano 191
Ravaioli Carla 221
Ravasi Gianfranco 185
Ravasio Bruno 7 - 87 - 89 - 221
Ravasio Marco 86
Reagan Ronald 194
Reichlin Alfredo 153 - 157
Renzi Matteo 151 - 160 - 161 - 162 - 187 - 197
Reolon Orazio 121
Revelli Marco 220 - 221
Riccamboni Gianni 221
Ricci Antonio 211
Riotta Gianni 208
Ripa di Meana Carlo 65
Riva Liliana 19 - 39 - 41 - 42 - 52 - 101
Rizzo Basilio 221
Rizzo Marco 164 - 165 - 166
Rizzo Sergio 201
Rocard Michel 193
Rocchi Augusto 221
Rocchi Silvio 173 - 208
Roda Luca 187
Rognoni Carlo 221
Romano Sergio 145 - 190
Romiti Cesare 158 - 171
Ronchi Edo 210
Rondolino Fabrizio 198
Rossanda Marina 100
Rossanda Rossana 29 - 39 - 46 - 47- 57 - 64 -
66 - 67 - 72 - 108 - 154 - 166 - 198 - 221
Rossella Carlo 210
Rossi Giovanni 47
Rossi Guido 137 - 187
Rossi Matteo 160
Rota Aldo 86
Rota Donato 86
Rota Mariarosa 13 - 14 - 15
Roversi Patrizio 156
Ruggeri Edo 86
Ruotolo Sandro 208
Rusconi Gian Enrico 221
Russel Lowell James 189
Russo Spena Giovanni 221
Rutelli Francesco 195
Sacconi Maurizio 196
Sai Mario 221
Saint-Germain Claude-Louis 176
Saint-Simon Claude-Henry 190
Sala Beppe 197
Sales Isaia 221
Salvadori Massimo 157 - 190 - 221
Salvati Michele 157
Salvemini Gaetano 192
Salvi Cesare 196 - 221
Salvini Matteo 165 - 179 - 211
Samir Amin 164
Sanders Bernie 213
San Paolo di Tarso 185 - 190
Sansonetti Piero 166
Santanchè Daniela 198
Santoro Michele 106 - 208 - 209 - 212
Saragat Giuseppe 18
Sarkozy Nicolas 193 - 197
Sartre Jane Paul 212
Savelli Giulio 211
Scalfari Eugenio 211
Scalpelli Sergio 179 - 180 - 210
Scarpellini Francesco 19
Scarpellini Giorgio 47
Schiavone Aldo 153 - 156
Schifani Renato 1986
Schivardi Emilio 86
Schroder Gerhard 181 - 193
Schwarzenbach James 64
Scilipoti Domenico 195
Segni Mario 195 - 198
Senesi Gianna 221
230
Serra Michele 156
Serri Rino 110 - 221
Servetti Franco 63
Severino Emanuele 141
Sgarbi Vittorio 194
Shiller Robert 147
Signoret Simone 66
Singer Daniel 106 - 221
Smith Adam 196
Soave Sergio 99 - 197
Socrates José Cavalho Pinto de Sousa 199
Sofri Adriano 57 - 207
Solzenitzyn Aleksandr 64
Sorbi Paolo 160 - 211
Soriero Pino 222
Spazzali Sergio 171
Speziale Antonino 89
Spinella Mario 106
Spriano Paolo 18
Stajano Corrado 106 - 222
Stalin Josif 32 - 44 - 132 - 157 - 163 - 166 -
207 - 209
Stella Gianantonio 201
Strada Gino 211
Straniero Michele 222
Struve Peter B. 192
Sturz Jems 222
Tadioli Giuseppe 210
Taino Giuseppe 47
Talleyrand-Pedigord Charles 117 - 190 - 212
Tamborini Enrico 20
Tanzi Callisto 197
Tasca Angelo 192
Taylor Liz 181
Terracini Umberto 30
Testa Chicco 179 - 180 - 182 - 196
Testa Giovanni 86
Terzi Riccardo 15 - 97 - 99 - 221
Tidei Pietro 185
Tito, Broz Josip 181
Tocqueville Alexis 174
Tode 221
Togliatti Palmiro 15 - 16 - 28 - 30 - 34 - 60 -
155 - 156 - 157 - 164 - 178 - 183 - 207
Tonna Fausto 197
Tortorella Aldo 26 - 29 - 41 - 221
Totti Francesco 183
Touraine Alain 150
Tremaglia Mirko 65 - 193
Trentin Bruno 35
Trevisani Giulio 191
Tronti Mario 160 - 184
Trotzkij Lev 28
Turci Lanfranco 196
Turco Livia 184
Turoldo Davide Maria 100
Turone Giuliano 199
Ugolotti Angelo 197
Vacca Giuseppe 100 - 160
Valsecchi Tarcisio 20
Velardi Claudio 187 - 198
Veltri Elio 221
Veltroni Walter 106 - 108 - 159 - 175 - 176 -
177 - 178 - 179 - 180 - 181 - 182 - 183 - 196
Vendola Niki 165 - 166 - 185 - 200 - 222
Vernizzi Giovanbattista 20
Vertone Saverio 198
Vespa Bruno 106 - 220
Villa Ernesto 48
Vimercati Daniele 220 - 222
Violante Luciano 158 - 178 - 222
Visco Ignazio 137 - 147
Vita Vincenzo 209
Vitali Roberto 98 - 103 - 104 - 108 - 109 - 222
Vitali Walter 176 - 222
Vitello Vincenzo 129
Vittorio Emanuele III 180
Weber Max 155 - 167 - 186
Wells H. Georg 149
Wolf Wilhelm 170
Xu He 129
Zambelli Virgilio 87
Zenoni Giorgio 47
Zevi Tobia 159
Zorzoli Giovan Battista 207
231
232