Oltre il Muro N.2/3 - 2014

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1 A poca distanza dall’entrata in funzione del nuovo carcere di Trento (dicembre 2010), già si discute sul suo “stato di salute”, considerata l’onerosa gestione - basti pensare all’auale impossibilità di riparare alcuni ascensori per mancanza di risorse e alla concreta preoccu- pazione per le spese di riscaldamento - ma soprauo ciò che preoccupa riguarda quanto accaduto nell’arco di pochi mesi: 3 persone detenute sono morte. Chi pensava che bastas- se la costruzione di un nuovo penitenziario per dare concreta risposta ai cronici bisogni che caraerizzavano il vecchio istituto di via Pilati, si è sbagliato. All’interno dell’Apas si era dell’idea la nuova ”scatola”, pur dotata di spazi, infrastruure ed importanti automazioni, non avrebbe da sola risolto il problema “carcere” ma che anzi avrebbe richiesto nuove responsabilità e un impegno maggiore a tua la comunità per dare opportuno supporto alle aività interne, in primis il lavoro, e per favorire araverso i contai con l’ambiente esterno il reinserimento sociale dei detenuti (art. 1 O.P.). Un convincimento testimoniato anche nei seminari di riflessione proposti dall’associazione, in occasione dei quali si era messo ben a fuoco i termini del problema; citiamo ad esempio il convegno “Nuovo car- cere, carcere nuovo” (2006), “Nuovo carcere: un impegno per la cià” (2009), “Dal de- tenuto all’uomo. Riflessioni sul carcere di oggi” (2013). Sono state occasioni di incontro e di approfondimento su di un problema aperto e in continua evoluzione. Ciò che però oggi acuisce le criticità già emerse è l’assenza di alcuni elementi organizzativi e struurali ai quali andrebbe data immediata risposta: da circa 2 anni è assente una direzione stabile, il turn over per l’area lavoro non copre il faivo fabbisogno della popolazione detenuta che nel recente passato ha toccato pure le 300 unità circa; ancora, registriamo la cronica difficoltà del nostro territorio a sostenere il reinserimento sociale e lavorativo di tue quel- le persone che hanno un problema con la giustizia, sia che siano dentro o fuori il carcere. Tui questi faori rappresentano nell’insieme un vero campanello di allarme. Giunge più che mai opportuna la proposta, avanzata dal coordinatore nazionale dei Garanti dei dete- nuti, Franco Corleone, dopo la sua recente visita al carcere di Trento, di convocare tui i soggei interessati a sedersi intorno a un tavolo per con- dividere nuove idee, riflessio- ni e azioni che possano inver- tire la roa. Il carcere è parte aività della nostra comunità, richiede un investimento duraturo per la sua correa gestione e deve essere al centro di proget- tualità aperte al contributo anche di chi è esterno al car- cere, che tanto può offrire in termini di sicurezza e di pro- mozione sociale. DEVE INTERESSARCI don Viorio Cristelli È il caso di ripetere l’ “I care” (mi sta a cuore) di don Milani. Sto parlando del carcere, una realtà purtroppo neces- saria nella nostra società, ma che molti percepiscono come luogo da ignorare e faa di proposito per essere ignorata. Chiudere a due mandate e buar via le chiavi è l’auspico purtroppo corren- te. E invece il carcere deve interessarci perché possa adempiere pienamente la sua funzione, come è descria nella Co- stituzione italiana. Dice la Costituzione all’art.27: “le pene (è il carcere è una pena) non possono consistere in traamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una ri- educazione che sfocia nel ritorno nella società civile quindi interessa e deve in- teressare il mondo delle carceri. E invece > continua a pag. 2 1 Deve interessarci 2 Ispezione nel carcere di Spini 3 La verità e la riconciliazione 4 Il colloquio motivazionale 4 Viaggio ad “Angola” 5 Dal detenuto all’uomo. Riflessioni sul carcere di oggi (Terza parte) 8 APAS al Trentino Book Festival 2014 10 Aività del volontariato APAS 11 Una storia vera 12 News IN QUESTO NUMERO Poste italiane s.p.a. Sped. in abb. post. - D.L. 353/03 (conv. in L. 27/02/04 n. 46) art. 1, comma 2, DCB Trento - contiene I.R. REINSERIMENTO E ALTERNATIVE AL CARCERE ASSOCIAZIONE PROVINCIALE AIUTO SOCIALE N. 2/3 - 2014 L’Apas al Trentino Book Festival (c. pag. 8)

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A poca distanza dall’entrata in funzione del nuovo carcere di Trento (dicembre 2010), già si discute sul suo “stato di salute”, considerata l’onerosa gestione - basti pensare all’attuale impossibilità di riparare alcuni ascensori per mancanza di risorse e alla concreta preoccu-pazione per le spese di riscaldamento - ma soprattutto ciò che preoccupa riguarda quanto accaduto nell’arco di pochi mesi: 3 persone detenute sono morte. Chi pensava che bastas-se la costruzione di un nuovo penitenziario per dare concreta risposta ai cronici bisogni che caratterizzavano il vecchio istituto di via Pilati, si è sbagliato. All’interno dell’Apas si era dell’idea  la nuova ”scatola”, pur dotata di spazi, infrastrutture ed importanti automazioni, non avrebbe da sola risolto  il problema “carcere” ma che anzi avrebbe richiesto nuove responsabilità e un impegno maggiore a tutta la comunità per dare opportuno supporto alle attività interne, in primis il lavoro, e per favorire attraverso i contatti con l’ambiente esterno il reinserimento sociale dei detenuti (art. 1 O.P.). Un convincimento testimoniato anche nei seminari di riflessione proposti dall’associazione, in occasione dei quali si era messo ben a fuoco i termini del problema; citiamo ad esempio il convegno “Nuovo car-cere, carcere nuovo” (2006), “Nuovo carcere: un impegno per la città” (2009), “Dal de-tenuto all’uomo. Riflessioni sul carcere di oggi” (2013). Sono state occasioni di incontro e di approfondimento su di un problema aperto e in continua evoluzione. Ciò che però oggi acuisce le criticità già emerse è l’assenza di alcuni elementi organizzativi e strutturali ai quali andrebbe data immediata risposta: da circa 2 anni è assente una direzione stabile, il turn over per l’area lavoro non copre il fattivo fabbisogno della popolazione detenuta che nel recente passato ha toccato pure le 300 unità circa; ancora, registriamo la cronica difficoltà del nostro territorio a sostenere il reinserimento sociale e lavorativo di tutte quel-le persone che hanno un problema con la giustizia, sia che siano dentro o fuori il carcere. Tutti questi fattori rappresentano nell’insieme un vero campanello di allarme. Giunge più che mai opportuna la proposta, avanzata dal coordinatore nazionale dei Garanti dei dete-

nuti, Franco Corleone, dopo la sua recente visita al carcere di Trento, di convocare tutti i soggetti interessati a sedersi intorno a un tavolo per con-dividere nuove idee, riflessio-ni e azioni che possano inver-tire la rotta. Il carcere è parte attività della nostra comunità, richiede un investimento duraturo per la sua corretta gestione e deve essere al centro di proget-tualità aperte al contributo anche di chi è esterno al car-cere, che tanto può offrire in termini di sicurezza e di pro-mozione sociale.

DEVEINTERESSARCI

don Vittorio Cristelli

È il caso di ripetere l’ “I care” (mi sta a cuore) di don Milani. Sto parlando del carcere, una realtà purtroppo neces-saria nella nostra società, ma che molti percepiscono come luogo da ignorare e fatta di proposito per essere ignorata.

Chiudere a due mandate e buttar via le chiavi è l’auspico purtroppo corren-te. E invece il carcere deve interessarci perché possa adempiere pienamente la sua funzione, come è descritta nella Co-stituzione italiana.

Dice la Costituzione all’art.27: “le pene (è il carcere è una pena) non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Una ri-educazione che sfocia nel ritorno nella società civile quindi interessa e deve in-teressare il mondo delle carceri. E invece

> continua a pag. 2

1 Deve interessarci 2 Ispezione nel carcere di Spini 3 La verità e la riconciliazione 4 Il colloquio motivazionale 4 Viaggio ad “Angola” 5 Dal detenuto all’uomo. Riflessioni sul carcere di oggi (Terza parte) 8 APAS al Trentino Book Festival 2014 10 Attività del volontariato APAS 11 Una storia vera 12 News

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ASSOCIAZIONE PROVINCIALE AIUTO SOCIALE

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L’Apas al Trentino Book Festival (cfr. pag. 8)

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Ispezione nelcarcere di Spinia cura di Aaron Giazzon

Sabato 6 settembre 2014 si è svolta un’ispezione nel carcere di Spini di Gardolo dopo quella avvenuta lo scorso anno ad opera del senatore Francesco Paler-mo. Ad entrare nella Casa circondariale sono stati gli avvocati della Camera penale di Trento unitamente all’On. Florian Kronbichler (SEL).La visita è durata quattro ore durante la quale è stato possibile ispezionare le sezioni detentive, incontrare i detenuti e somministrare loro un questionario ano-nimo per raccogliere alcune informazioni rispetto al funzionamento della struttura.

Ciò che ne è emerso è una situazione allarmante e distante dalle parole ironiche e forse un po’ polemiche uscite sui giornali ai tempi dell’apertura del nuovo istituto che lo pa-ragonavano ad un “hotel a cinque stelle”. Nel comunicato stampa prodotto dalla Camera penale si legge che le segnalazioni negative riguardano soprattutto la rigidità della ma-gistratura di sorveglianza di Trento e la mancanza di opportunità di progettazione in-dividuale con gli educatori penitenziari senza contare le poche proposte lavorative e/o formative che costringono gran parte dei detenuti all’ozio. È evidente dunque come le tre morti avvenute nel corso dell’anno siano solo la punta dell’iceberg di una situazione già al limite a soli tre anni e mezzo dall’entrata in funzione della nuova Casa circondariale, una situazione che è aggravata anche dal verificarsi di ventidue “eventi critici”, ovvero tentati suicidi o atti di autolesionismo.

Alla luce delle osservazione prodotte dalla Camera penale è ancora una volta necessario tornare a ragionare al fine di dare adeguato aiuto non solo alle persone ristrette in carcere ma anche a tutti coloro che hanno problemi di giustizia o che sono in attesa di scontare una pena.

L’APAS si impegna a rispondere ai bisogni di queste persone e sopperire almeno in parte, alla domanda di sostegno e accoglienza di chi ha deciso di cambiare vita, un impegno che però necessità dell’impegno di tutta la comunità.

morti esuicidi incarcere:un temaricorrente che non bisogna ignorareÈ notizia di poco tempo fa che il carce-re di Trento ha fatto registrare la terza morte all’interno delle proprie mura, di cui due suicidi. Il primo settembre scorso un detenuto di 38 anni si è tolto la vita impiccandosi alle sbarre della propria cella, mentre a luglio un altro giovane di 32 anni aveva deciso di farla finita. La terza morte in un anno, ma la prima in ordine di tempo, risale all’ottobre 2013 quando un ragazzo di origine straniera di 28 anni aveva ina-lato una dose letale di gas proveniente dalla bomboletta in dotazione per la preparazione dei pasti in ogni cella. Ovviamente non solo il carcere di Trento è colpito da questo triste trend, ma tutte le carceri italiane registrano numeri impressionanti: al 15 settem-bre 2014 i suicidi sono stati ben 31 su 104 decessi avvenuti tra le mura delle prigioni italiane. La situazione rispetto al 2013 non pare dunque migliorare. Al 31 dicembre dello scorso anno i suicidi furono 49 e i decessi 153.

succede purtroppo che per molti il carcere sia sinonimo di mondo da dimenticare.

Dalle carceri arrivano troppo spesso notizie di suicidi. E il suicidio è un comporta-mento talmente assurdo che non può passare inosservato e deve interessare tutta la società. Il suicidio va contro quell’irresistibile istinto di conservazione che caratterizza ogni persona e quando succede è segno che qualcosa di grosso è venuto a mancare non solo nel carcere ma nella vita di un uomo e nella società. Ci va di mezzo non solo il malcapitato ma anche la famiglia, l’ambiente in cui ha vissuto e ci vanno di mezzo le istituzioni.

Questa rivista ha lo scopo specifico di far diventare opinione pubblica il mondo delle carceri con i suoi programmi e le sue finalità. Perché al carcere dobbiamo interessarci tutti. Come uomini e come cittadini.

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> continua da pag. 1

DEVE INTERESSARCI

Disegno di un detenuto del carcere di Trento

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NOTIZIARIO APAS N. 2/3 - 2014

Il 23 maggio scorso, il direttore dell’Apas, Fabio Tognotti, l’operatore Aaron Giazzon e il volontario Giulio Thiella si sono recati presso la Casa di Reclusione di Padova per partecipare alla Giornata nazionale di studi sul carcere organizzata ormai da numerosi anni dalla redazione di “Ri-stretti Orizzonti”, dal titolo “La verità e la riconciliazione”. Il convegno ha affrontato i temi della verità dei fatti che portano a definire giuridicamen-te un reato e la conseguente condanna. Ad aiutare in questo percorso gli interventi molto forti di Marcello Flores, docente universitario, e di Carlo Arnoldi, presidente dell’Associazione Familiari Vittime di Piazza Fontana. Flores ha portato l’esempio concreto delle Commissioni per la verità e la riconciliazione volute da Nelson Mandela in Sudafrica alla fine dell’apartheid per costruire una realtà collettiva e storica inequivocabile e rispettosa di tutte le persone che vissero quegli anni di forte sofferenza. Arnoldi ha portato la sua personale testimonianza e ha condiviso le sue emozioni e la sua esperienza nel lungo percorso di ricostruzione dei fatti che portarono il 12 dicembre 1969 alla strage di Piazza Fontana a Mila-no, causando 17 morti, tra cui il padre di Carlo.Un altro contributo utile a comprendere la difficoltà nel raggiungere e leggere la verità dei fatti è stato portato dalla giornalista Bianca Stanca-nelli, autrice del libro “La vergogna e la fortuna”. Il libro racconta le sto-rie di ventuno Rom per aiutare a comprendere i pregiudizi e il trattamen-to differente che alcune persone subiscono anche da parte delle istituzioni. Una volta costruita e con-divisa la verità è il tempo dell’accettazione o quan-tomeno della presa d’atto che qualcosa è accaduto ed ha fatto soffrire chi ha subito un reato e chi lo ha commesso. In quest’ottica l’intervento del docente

universitario e psichiatra, Diego De Leo, ha aiutato la platea a comprendere che la lettura della verità è un’azione non solo razionale, ma soprattutto emo-zionale e strettamente personale. Nel caso del relatore, la scomparsa im-provvisa e prematura dei due figli è stata lo stimolo per aiutare altre per-sone a rielaborare lutti traumatici ed improvvisi, non soltanto grazie all’esperienza professionale, ma condividendo una realtà particolarmente traumatica e dolorosa. La riconciliazione passa, quindi, dal riconoscimento e dalla condivisione della verità: ma come è possibile concretizzare questo concetto? Attraverso quali azioni l’autore di un reato può riconciliar-si con la società e con le persone che ha ferito con le proprie azioni? Alcuni esempi in proposito li ha portati il criminologo Duccio Sca-tolero, che ha sperimentato la riconciliazione dei detenuti del carcere minorile di Torino con la città, offrendo una testimonianza concreta del potere del confronto e della presa in carico da parte della società dei propri appartenenti che sbagliano, ma che voglio uscire dall’illega-lità. La giornata si è conclusa con le intense testimonianze di Giovanni Bachelet, di Claudia Francardi e Irene Sisi. Queste ultime sono legate dalla tragedia che le ha colpite entrambe: il marito di Claudia fu ucciso dal figlio diciannovenne di Irene. La loro storia di riconciliazione vera e profonda ha colpito tutti in platea ed ha fornito moltissimi spunti di riflessione sul senso della pena e sulla necessità per ogni autore di reato di riflettere davvero sul proprio operato e per ogni operatore di formar-si per permettere che vittime e detenuti abbiano la possibilità di con-frontarsi e riconciliarsi (leggi l’art. pag. 11). La giornata è stata lunga e impegnativa, ma carica di stimoli metodologici e di carattere emotivo e personale. L’evento ha inoltre costituito un’occasione unica per poter accedere alla Casa di reclusione di Padova ed entrare in contatto con la redazione di “Ristretti Orizzonti”, esperienza di prim’ordine in Italia nelle attività rieducative e risocializzanti per i detenuti.

La verità e la riconciliazioneGiornata Nazionale di Studi sul carcereA cura di Aaron Giazzon

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Ornella Favero

Il carcere Due Palazzi di Padova

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Un assistente sociale durante la sua attività la-vorativa può usare diversi strumenti di lavoro fra cui il “colloquio motivazionale”. Nello scor-so mese di giugno, insieme al mio collega Aa-ron ho partecipato ad un corso di formazione proposto dall’edizioni “Centro Studi Erickson” di Gardolo che riguardava proprio questo. Ma cos’è in realtà il colloquio motivazionale?Si tratta di una tecnica molto sviluppata nel corso degli ultimi anni soprattutto nell’ambi-to sociale o comunque nelle professioni che si occupano di relazioni sociali e che ha come obiettivo principale quello di affrontare e ri-solvere un conflitto di ambivalenza che può essere presente all’interno di un uomo o di una donna e sostenere la motivazione ai fini dell’adozione di un cambiamento nel proprio comportamento.Le caratteristiche di questo strumento sono principalmente tre, tutte volte a sostenere una persona durante una fase di cambiamento:

1. il colloquio motivazionale è collaborativo: lo scopo è di esplorare il mondo interiore della persona;

2. durante il colloquio è possibile far emer-gere i valori e le aspirazioni della persona evitando di infondere motivazioni dall’e-sterno;

3. il cambiamento è autonomo, la persona è sempre libera di accettare o meno i consigli.

L’assistente sociale deve tenere presente che la motivazione è l’espressione dei motivi che inducono un individuo a compiere una de-terminata azione e dunque, che il colloquio può aiutare a far emergere e quindi esplicitare la motivazione presente nella persona e non attraverso l’esortazione o una discussione, ma cercando di sostenere, esplorare e mantenere attenzione nei confronti delle sue aspirazioni. Come detto, la persona è al centro di questa tecnica operativa e deve sentirsi libera di ac-

cettare o rifiutare le indicazioni che le vengono suggerite. L’operatore che la usa è convinto che ogni persona ha le capacità di cambiare la sua vita in modo positivo e non deve dirgli quello che deve fare. Deve aiutarla a scoprire quegli elementi di positività in nome del proprio be-nessere e a sostegno dei suoi punti di forza.

Ogni persona ha un proprio “valore” ed è dotata di particolari capacità, un motivo per il quale gli operatori sociali che in-tervengono nella relazione di aiuto sono chiamati ad operare sulla motivazione nelle diverse fasi del processo di cambia-mento che la riguardano, dall’insorgere della consapevolezza di un problema fino alla possibilità di risolverlo tramite un cambia-mento, conducendo la persona alla volontà di impegnarsi seriamente nella costruzione di «piani» semplici (e poi via via più com-plessi) per maturare nuovi stili di vita.

Gli uomini, tutti neri, sono chini e muti. In-dossano pantaloni blu, casacche bianche o celesti, usano guanti gialli. Se non fossero te-nuti sotto tiro dalle guardie a cavallo sembre-rebbero immigrati arruolati nella raccolta dei pomodori in Puglia. A fare attenzione il ven-to caldo porta a folate le note d’un soffocato canto lontano, laggiù nel campo – ma forse sono solo i fantasmi di questa ex piantagione, una delle più infami del Sud e della Louisia-na, coltivata da schiavi provenienti soprat-tutto dall’Angola, un nome che divenne una garanzia di maledizione sia per i neri condotti in catene a raccogliere il cotone sia per i de-tenuti tradotti in catene quando Angola, ai primi del Novecento, divenne il più grande carcere di massima sicurezza degli Stati Uniti, 7.300 ettari, 73 chilometri quadrati, più este-so di Manhattan. “Benvenuti nell’Alcatraz del Sud” dice con or-goglio Gary Young, ex agente, la nostra guida in questa visita esclusiva nel carcere più rac-contato del cinema americano. Dei 6.300 de-tenuti 5120 non usciranno mai da qui: mo-riranno con un ago in vena nella stanza delle

esecuzioni, oppure – condannati al carcere a vita – se ne andranno quando sarà la loro ora; ma non varcheranno lo stesso il cancello, ver-rà deposta nella terra rossa di Angola. “I primi ad abbandonare il prigioniero sono i compa-gni della banda, poi la moglie, poi gli amici, poi i figli. Quando muore la madre non viene più nessuno. Dietro il feretro solo i compagni di cella e il pastore. È sempre molto commo-vente e intenso” dice YoungQuesta Alcatraz, dove ci sono detenuti in isolamento, “solitary confinement” (= iso-lamento), da 30 anni, occupa una penisola che s’allunga nel Mississippi in uno dei pun-ti dove esso è più largo e veloce. Il lato non bagnato dal Grande Fiume non ha nemme-no la rete: è invece una giungla paludosa e implacabile, infestata da serpi e alligatori. Forse la cosa più feroce di questo luogo, la vera condanna, è la sua immensità, che offre l’illusione d’appartenere ancora al mondo e alla vita, di condividere l’orizzonte e le nu-vole e i temporali con tutti gli altri uomini liberi, invece chi sta qui viene contato 23 volte al giorno e viene pagato 4 centesimi

l’ora per il lavoro forzato nei campi – in rap-porto molto meno degli schiavi dell’antica piantagione. L’80 % dei reclusi sono qui per delitti violenti. Eppure a vederli tutti insie-me non si pensa all’eccezionale concentra-zione di male disseminata in qualche etta-ro, ma colpisce invece che nessuno di loro osa guardarci; impossibile incrociare i loro sguardi, forse non sanno più guardare: con-tinuano a cogliere rape con un ritmo stanco e meccanico.

Il colloquio motivazionaleA cura di Anezka Saliova

Viaggio dentro “Angola”,l’Alcatraz del sud degli Statesdi Marzio G. Mian - estratto da Corriere.it

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NOTIZIARIO APAS N. 2/3 - 2014

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Introduzione delprof. Giovanni Torrente (Università di Torino)

Il problema con il quale oggi stiamo ini-ziando a confrontarci è forse un passaggio culturale che ha coinvolto anche l’esterno del carcere laddove la cultura del control-lo ha pervaso tutti gli ambienti del nostro vivere sociale, del nostro relazionarci coin-volgendo operatori che operano anche al di fuori del carcere e quindi, laddove preva-le un certo approccio di natura più attenta al controllo, quest’ultimo diventa esclusi-vamente di carattere disciplinante finaliz-zato a far si che in qualche modo la misura finisca bene, non ci siano violazioni, come si diceva prima, ma questo ha poco a che vedere con la responsabilizzazione di cui parlava Salvatore Piromalli; un tema dav-vero importante. Qui, a mio parere, c’è un problema legato all’organizzazione della pubblica amministrazione italiana nel sen-so che, ad esempio, in Inghilterra i “Proba-tion Office” hanno forti collegamenti con l’Università e con la Magistratura, ossia promuovono una continua riflessione sul tema. In Italia, la P.A. è molto autorefe-renziale. È una delle prime volte che sento riflessioni come quelle che avete fatto voi questa mattina ma raramente poi le perso-ne che operano sul campo hanno il tempo e la possibilità di riflettere su questi aspetti; sarebbe davvero opportuno far si che que-ste problematiche, queste riflessioni diven-tino terreno comune di dibattito. Lascio ora la parola a Fabio Tognotti, direttore dell’Associazione Apas che ha organizzato il seminario.

Fabio Tognotti direttore dell’Associazione Apas

Con il mio intervento desidero dare un rimando concreto su quello che sono le “misure in alternativa alla detenzione” poi-ché l’Apas interviene per dare adeguato ascolto e sostegno a persone emarginate all’interno di un carcere o nei confronti di quelle che comunque nella società non

hanno riferimenti stabili e funzionali per affrontare problematiche di giustizia. L’As-sociazione è sorta nel 1985 sviluppandosi gradualmente per dare servizi concreti al fine di favorire la concessione delle misure in alternativa alla detenzione. Per fare capi-re il nostro volume d’impegno, ricordo che nel 2012 abbiamo dato ascolto e sostegno a 235 persone, a 238 nel 2011; di queste, molte residenti e/o domiciliate presso le strutture socio – assistenziali della Provin-cia di Trento oppure temporaneamente ri-strette presso il carcere di Trento. Circa la metà erano italiane, a differenza dal carcere, dove sono la minoranza, circa il 25 – 30%; si tratta di un dato in linea con altre regioni dove gli istituti di pena attestano una mar-cata presenza di persone di origine stranie-ra. Il nostro intervento è finalizzato a creare percorsi di inclusione sociale e dunque a far sì che la pena venga espiata e conclusa positivamente ma soprattutto, che possa essere un’occasione per vivere un’esperien-za di recupero sociale, un’opportunità che possa trasmettere il valore della legalità e contrastare la recidiva. Apas nel suo lavoro può fare affidamento sulle proprie risorse e anche sulla collaborazione in primis con l’Uepe e con la Casa Circondariale di Tren-to, come dimostrano anche i dati statistici inerenti alle collaborazioni, dove vi è parità fra Uepe e Ufficio Educatori penitenziari, circa 50 casi. Una prima importante riflessione già an-

ticipata da chi mi ha preceduto riguarda il fatto che l’intervento in ambito penale pone l’Apas in rapporto con persone che hanno tratti di grande fragilità personale e quindi presentano una povertà di compe-tenze culturali e relazionali, provengono da famiglie disaggregate, soffrono di problemi psicologici; sono persone che sono in uno stato di bisogno e nel medesimo tempo ne-cessitano di una formazione preparatoria per poter affrontare la vita in autonomia. Da qui la necessità ad esempio del “corso dei pre-requisiti lavorativi” dove noi inse-gniamo ad assumere impegni, ad essere puntuali, ad osservare le regole, ad essere collaborativi, sapendosi mettere a dispo-sizione di quello che definiamo “progetto di reinserimento sociale”. In tutto questo lavoro si riscontrano alcune criticità che provo a riassumere:

1. La prima criticità la riscontriamo nel dare alla persona che chiede un aiuto gli strumenti con cui emanciparsi dai servi-zi di riferimento ben sapendo che ogni processo riabilitativo è oneroso e neces-sita di un accompagnamento protratto nel tempo; un impegno che prevede il coinvolgimento del volontariato quale presenza di sostegno.

2. Una seconda criticità è data dalla pre-senza di persone straniere che vengono nel nostro territorio con molte aspet-

“Dal Detenuto all’uomo. Riflessioni sul carcere di oggi”Le misure alternative come strumento di inclusione sociale. A che punto siamo?

TERZA PARTE

Pubblico in sala

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tative, con la speranza di fermarsi e trovare un lavoro e/o una casa, ma che frequentemente finiscono nel cedere a “guadagni facili” e poi in carcere. In que-ste situazioni può anche accadere che se un progetto in alternativa alla deten-zione giunge alla sua conclusione con esito positivo può ugualmente scattare un provvedimento di espulsione in base a una determinata tipologia di reati, che impediscono il rinnovo del permesso di soggiorno. Una conseguenza che va ad invalidare quell’investimento che in-vece è stato fatto a favore di una deter-minata persona ma che ora dobbiamo accettare; su questo occorre interrogarsi maggiormente. Comprendiamo il fatto che questa problematica necessiti di un ragionamento in ambito legislativo ben più ampio, che coinvolge non solo la Provincia di Trento ma la legislazione in vigore in Italia. Di certo rappresenta un problema importante.

3. Un terzo elemento di criticità è dato dalla questione “lavoro”. In associazio-ne abbiamo rilevato questo aspetto: se in un ambiente protetto e a maggior ragione in esecuzione penale possiamo organizzare al meglio dei percorsi di formazione per i pre-requisiti lavorativi, dunque una prima formazione profes-sionale, al termine di questo iter riscon-triamo il gap dato dalla disattesa di un effettivo inserimento lavorativo perché il comparto produttivo locale non è dotato di risorse “infinite” o particolar-mente flessibili. Inoltre, le competenze spendibili da queste persone nei con-fronti del mercato del lavoro sono poco appetibili rispetto alla competizione a

cui invece assistiamo. Dunque un’altra difficoltà su cui occorre riflettere e su cui non smettiamo di porre la nostra attenzione anche con la collaborazione delle cooperative sociali è dato dal di-sporre di opportunità lavorative al fine di creare percorsi strutturati sul fronte della formazione professionale in modo che la ricaduta del progetto avviato in esecuzione penale esterna possa prose-guire una volta che la persona torna in libertà. Questo è un preciso impegno di Apas. Ho trovato molto suggestiva l’idea di trovare delle “pene alternative alle pene” anche se questo argomento necessiterebbe di un approfondimento più ampio. L’Apas si impegna a creare un’alternativa ad una società che non ha sempre le attenzioni e/o le capacità di accogliere le persone più svantaggia-te, ma si tratta di un’alternativa che non deve rimanere su di un binario a sé, ma che deve puntare a ricollocare la perso-na svantaggiata nella societtà. Questo processo di interazione e collegamento, è bene ribadirlo, richiede ingenti risorse.

Concludo ricordando quanto ha richiama-to ieri il dott. Luca Comper, dirigente del Servizio Politiche Sociali della Provincia autonoma di Trento. L’associazione rap-presenta gli organismi di volontariato in seno alla Commissione Tecnica definita nel protocollo d’Intesa fra Ministero di Giustizia e Regione Trentino Alto Adige. Siamo dunque molto soddisfatti di questo riconoscimento che ci pone al tavolo di la-voro rappresentato da tutti gli attori locali, dalle Istituzioni e dal privato sociale e dove vogliamo far si che la voce del terzo settore possa avere un peso operativo per produr-

re ed alimentare quei processi di inclusione sociale che tanto aiutano la società ad avere maggiore benessere e sicurezza. Ringrazio per la vostra attenzione e lascio ora la parola a Sandro Nardelli, presidente della cooperativa sociale “il Gabbiano” di Ravina.

Sandro Nardelli Presidente della cooperativa sociale “Il Gabbiano”

Le cooperative cercano di offrire lavoro, ma oggi fanno fatica loro stesse a “sopravvi-vere”, a trovare lavoro. Questa è la realtà in cui siamo e con cui ci dobbiamo scontrare tutti i giorni, è il contesto economico in cui ci troviamo. Il lavoro è e sarà fondamenta-le, penso che sia la cosa più importante che possiamo fare come cooperative. Il lavoro non è una condanna, è il senso della vita. Osserviamo in questi tempi che chi per-de il lavoro arriva pure a togliersi la vita, imprenditori e/o operai: ciò significa che senza lavoro si perde il senso della vita ed anche che senza lavoro è difficile aiutare quelle persone che hanno commesso degli sbagli, che sono state in carcere oppure che sono in carcere nel bisogno di recuperare quello che è il senso della vita. Ecco, que-sta è la difficoltà in cui ci imbattiamo come cooperative sociali in questo momento, tanto che spesso questo può diventare un problema perché quando il lavoro diven-ta poco si rischia anche di “farsi la guerra” per conquistare quel poco lavoro che c’è. Ciò detto, ritengo che le cooperative so-ciali si stiano sforzando di continuare ad offrire opportunità di lavoro alle persone in difficoltà. Lo facciamo con tutti i nostri limiti, con i limiti del contesto economico

TERZA PARTE

Sandro Nardelli

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TERZA PARTEperò senza perdere di vista questo impegno perché se non riusciamo a trovare risorse credo che sia più difficile favorire le mi-sure alternative che per mezzo del lavoro possono offrire un’esperienza che ti aiuta a guadagnare qualcosa, che ti aiuta a sentirti utile, ad avere delle relazioni con delle per-sone. Se tutto questo non si concretizzasse, se una misura alternativa non si concretiz-zasse nel lavoro, sarebbe difficile poi che la misura alternativa o la pena alternativa po-tesse avere piena efficacia.Una seconda considerazione verte sul fatto che un ulteriore problema su cui cerchiamo di trovare soluzioni è quello di riuscire an-che a costruire dei percorsi che permettano alle persone di poter non solo trovare un lavoro, ma anche acquisire quell’autono-mia che le rende capaci in qualche modo di tornare sul mercato del lavoro. Nelle cooperative si parla di inclusione socia-le e di transitività. Cosa vuol dire questo? Chiaramente ci sono delle persone per le quali difficilmente è pensabile costruire dei percorsi che poi abbiano come conclusio-ne l’inserimento nel mercato del lavoro. Ci sono delle cooperative, alcune in particola-re, in cui sicuramente si compie un grande sforzo per dare la possibilità di percorsi che possono avere una continuità, una durata nel tempo anche molto lunga perché ef-fettivamente alcune persone sono segnate nella vita da esperienze di difficoltà, di disa-gio, e al di fuori di percorsi “protetti” fanno molta fatica a trovare un sostegno conti-nuativo nel lavoro. Però le cooperative cer-cano anche di costruire percorsi che siano propedeutici al mercato del lavoro, per lo

meno per le persone che sono in grado di affrontarli. In questi ultimi anni - e in parti-colare quest’anno - grazie alla collaborazio-ne del Consorzio delle cooperative sociali e dell’Uepe è stato attivato un percorso formativo anche per persone ammesse alle misure alternative che prevede proprio una formazione ai pre-requisiti e poi un succes-sivo tirocinio all’interno di un’azienda. Nel caso specifico il corso è centrato sulla pro-fessione di carpentiere del ferro: le persone qui inserite hanno fatto prima un percorso d’aula e adesso stanno frequentando un tirocinio in alcune aziende, tra cui anche cooperative sociali come la cooperativa “Il Gabbiano”. Se riescono a superare il percor-so formativo, avranno delle possibilità di inserimento presso l’azienda o presso le co-operative sociali. È un piccolo esempio, un piccolo tentativo per testimoniare lo sforzo che c’è da parte delle cooperative di creare

dei percorsi che siano anche professiona-lizzanti per le persone e che quindi diano maggiori opportunità per andare a costru-irsi un percorso autonomo sul mercato del lavoro.

Pur con tutte le difficoltà che oggi viviamo, credo che le cooperative rappresentino un’opportunità molto importante per le persone che escono dal carcere, seppure questo comporti delle difficoltà e non pos-sa evitare che alcune persone rientrino in carcere. Alle volte viene anche da doman-darsi: “Ma è giusto o no offrire opportuni-tà a fronte di queste esperienze alle volte anche negative?”. Mi verrebbe da dire che il problema non è tanto essere più cattivi o più buoni - per dirla in maniera sempli-ce. Probabilmente nell’immaginario di un detenuto che esce dal carcere può essere più facile pensare che il “cattivo” è il magi-strato e magari il “buono” la persona della cooperativa perché mi dà un’opportunità di libertà. Io non mi trovo bene in questa contrapposizione. Il problema non è essere buoni o cattivi, credo che il problema sia quello di dare delle opportunità alle perso-ne distinguendo ciò che è il rispetto della legge - quindi un problema del magistrato - e ciò che è il rispetto di un’organizzazione perché chi viene in cooperativa non può fare quello che vuole, anzi: c’è un sistema di regole molto preciso e alle volte anche molto esigente quanto può essere conside-rato quello del carcere. È d’altronde vero che si può sbagliare sia nel dare molte opportunità sia nel darne poche. Io preferisco sbagliare nel darne molte perché penso che se non si danno opportunità alle persone si rischia poi di aver perso delle possibilità per recuperarne la dignità e il rispetto della vita.

Il tavolo dei relatori

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L’APAS AL TRENTINoBook FESTIVAL 2014A cura di Giulio Thiella

Dal 13 al 15 giugno 2014 si è tenuta a Caldonazzo (Trento) la 4a edizione del Trentino Book Festival, un appuntamento culturale e letterario ideato e diretto da Pino Loperfido, giornalista e uomo di cultura, che in pochi anni è riuscito a portare in regione alcuni dei più importanti autori e giornalisti italiani. All’evento di quest’anno era presente anche uno stand dell’ Apas per sensibilizzare sul tema “carcere” le numerose persone che hanno affollato Caldonazzo durante i tre giorni del Festival.

All’interno dello spazio dedicato all’Apas i volontari distribuivano in cambio di un’offerta magliette disegnate a mano da un detenuto accolto in progetto e il ricavato ha permesso di sostenerne il percorso di reinserimento sociale e lavorativo. Inoltre, è stato possibile distribuire opuscoli informativi sul tema della detenzione e del reinserimento sociale con lo scopo di trasmettere una diversa consapevolezza sulla validità e sull’efficacia delle mi-sure in alternativa alla detenzione che non solo producono inclusione sociale ma anche maggiore sicurezza sociale.

Tra gli eventi proposti durante il Festival vi è stata una sezione dedicata al sociale fra cui due importanti iniziative che hanno affrontato direttamente il tema della privazione della libertà. La prima iniziativa è la presentazione del libro “Mi cercarono l’anima. Storia di Stefano Cucchi”, scritto da Duccio Facchini unitamente a Rita e Giovanni Cucchi, con il contributo di altri autori fra cui Patrizio Gonnella (dell’associazione Antigone) e Mauro Palma (giurista). Molto interessante è stato l’incontro con la criminologa Roberta Bruz-zone che ha scritto il libro “Lo Stato della Florida contro Enrico Forti”.

Il libro-inchiesta di Facchini ha permesso ai genitori di Stefano Cucchi di raccon-tare i fatti che hanno portato il giovane dall’arresto per possesso di una lieve quantità di stupefacente fino al trasferimento in un istituto di pena, dove le sue precarie condizioni di salute si sono aggravate nell’indifferenza di chi invece era preposto alla sua tute-la. “Presunta morte naturale” reciterà il referto medico, considerato dai familiari come una valutazione inaccet-tabile e su cui occorre fare ancora chiarezza.Roberta Bruzzone insieme a Red Ronnie ha invece dibattuto sulla questione giudiziaria che vede Chico Forti, cittadino di origine trentina, in un carcere sta-tunitense da ben 14 anni poiché giudicato colpevole di omicidio. La sua storia è segnata da un intreccio di eventi, errori processuali e pregiudizi che lo han-no portato in una cieca spirale di “ingiustizia”. Pagi-na dopo pagina viene fatta luce sugli aspetti meno chiari del processo che lo ha sommariamente condannato al carcere a vita. La sua più grande colpa, una bugia, ha indebolito a tal punto la sua posizione da renderlo il più sospettabile. Bugia detta per timore durante le indagini, ma che si trasformerà in un’arma a doppio taglio, perno dell’accusa di un omicidio senza pro-ve. La lotta contro l’indifferenza ha animato entrambi gli appuntamenti, concedendo al pubblico profonde riflessioni sul bisogno di giustizia e di solidarietà.

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Gita al bosco della città a cura di Ornella

Vista la perfetta riuscita della grigliata dello scorso agosto che si è rivelata un momento di incontro e di scambio fra ragazzi, volontari e operatori, l’Apas ha pensato di organizzare un’uscita nel verde del bosco della città in locali-tà Casteller, a due passi da Trento, una località che rappresenta una piccola oasi di verde dove trascorrere momenti sereni in mezzo alla natura. A que-sta iniziativa hanno partecipato alcuni volontari - Giorgio, Giusi, Ulli e Or-nella -, tre operatori e un gruppo di ragazzi che già avevano aderito ad altre iniziative proposte nel corso dell’ultimo anno come, ad esempio, la visita al Muse, il pranzo di Natale, ecc.. e che hanno familiarizzato tra di loro anche al di fuori di questo ritrovo con incontri in sede e visite negli appartamenti; occasioni che hanno contribuito a creare un rapporto di fiducia reciproca. Perché tutto potesse andare per il meglio, è stato organizzato il trasporto in macchina mentre una volontaria è andata in carcere per accompagnare un ragazzo autorizzato in permesso premio. I momenti clou della giornata sono stati il pranzo al sacco, il relax sul prato ma soprattutto il percorso a piedi che ha portato i partecipanti fino all’orto botanico dove una guida ha mostrato le diverse specie, omaggiando anche ciascuno con una piantina. All’interno del percorso una breve sosta in un maso gestito dalla Forestale ha dato modo di gustare un gradito spuntino e di riposarsi dopo la camminata. È stato un pomeriggio all’insegna della natura, della convivialità e della condivisione di pensieri seri e profondi, ma anche ricco di momenti di allegria e di leggerez-za. Una buona occasione per stare insieme e stabilire legami di fiducia e per dare l’occasione ai nostri ragazzi di vivere momenti di apertura ad una realtà serena, equilibrata e ricca di stimoli che può aiutarli senz’altro ad affrontare con maggior fiducia il proprio percorso di vita futuro.

“Pizzata”dei volontaridell’APAS a cura di Aaron Giazzon

Lo scorso 3 luglio i volontari dell’APAS si sono ri-trovati in pizzeria così come era stato fatto lo scorso anno. La “pizzata” è stata un’occasione di ritrovo e svago per i volontari che hanno svolto la loro atti-vità in associazione durante l’anno e un buon mo-mento per programmare alcune iniziative future: una su tutte, l’ormai tradizionale grigliata con l’u-tenza accolta in progetto, che quest’anno si svolge-rà nel mese di settembre. Grazie alla collaborazione dei volontari l’APAS ha intensificato il proprio ap-porto umano e relazionale nei progetti delle perso-ne aiutate; è stato fondamentale poter contare su alcuni giovani che si sono più volte resi disponibili anche nei week-end per attività ricreative e socializ-zanti rivolte agli utenti in progetto o in permesso dal carcere.tre operatori e un gruppo di ragazzi che già avevano aderito ad altre iniziative proposte nel corso dell’ultimo anno come, ad esempio, la visita al Muse, il pranzo di Natale, ecc.. e che hanno fami-liarizzato tra di loro anche al di fuori di questo ritro-

vo con incontri in sede e visite negli appartamenti; occasioni che hanno contribuito a creare un rapporto di fiducia reciproca. Perché tutto potesse andare per il meglio, è stato organizzato il trasporto in macchina mentre una volontaria è andata in carcere per accompagnare un ragazzo autorizza-to in permesso premio. I momenti clou della giornata sono stati il pranzo al sacco, il relax sul prato ma soprattutto il percorso a piedi che ha portato i partecipanti fino all’orto botanico dove una guida ha mostrato le diverse specie, omaggiando anche ciascuno con una piantina. All’interno del per-corso una breve sosta in un maso gestito dalla Forestale ha dato modo di gustare un gradito spuntino e di riposarsi dopo la camminata. È stato un pomeriggio all’insegna della natura, della convivialità e della condivisione di pensieri seri e profondi, ma anche ricco di momenti di allegria e di leg-gerezza. Una buona occasione per stare insieme e stabilire legami di fidu-cia e per dare l’occasione ai nostri ragazzi di vivere momenti di apertura ad una realtà serena, equilibrata e ricca di stimoli che può aiutarli senz’altro ad affrontare con maggior fiducia il proprio percorso di vita futuro.

uscita in località “Campel” a cura di Angela

Sono una volontaria APAS di Trento e ho iniziato la mia esperienza nel giugno 2014. Dopo pochi mesi, nei primi giorni di settembre, mi è stata proposta la possibilità di partecipare ad una giornata alternativa: un’u-scita con grigliata in località Campel di Trento. Ho accettato con gioia ed entusiasmo. Mi sono sorti molteplici domande nei giorni avvenire, la così detta “ansia da prestazione”, poiché era la prima che partecipavo ad un’iniziativa del genere. Il ritrovo era fissato per le dieci di Sabato 13 Settembre 2014 alla sede dell’APAS. Ci siamo diretti con le automobili

fino alla zona dove è possibile utilizzare la griglia. All’evento hanno partecipato gli operatori, quat-tro volontari e sei persone accolte in progetto dall’APAS. Dopo aver sistemato tutto il necessario per iniziare a cucinare, un ragazzo si è impegnato nell’accensione di un fuoco per la produzione di brace all’interno di un caminetto. Tale brace ci sarebbe servita in seguito per cucinare la carne e le verdure. Altri si sono organizzati nel lavare e tagliare le verdure, per cuocerle successivamente.Nell’attesa del pranzo alcuni di noi hanno giocato a pallone. Ho notato come la ricerca al dialogo e la voglia di stare assieme fosse molto presente. Inoltre ho potuto sperimentare l’assenza di stress o tensione, così che la giornata è potuta procede-re al meglio. Mi sono sentita a mio agio: anche se timida e riservata sono riuscita grazie a tutti a stare bene a confrontarmi serenamente con ogni com-ponente. È stata la mia primissima uscita, quindi erano tutte persone nuove, ma chi più e chi meno hanno dimostrato la voglia di conoscermi. Arri-vato il momento del pranzo, abbiamo preparato le tavole e abbiamo pranzato, con un sottofondo musicale. Inoltre, siamo stati deliziati con una spe-cialità tipica maghrebina a base di carne preparata da alcuni ragazzi a domicilio e poi cotta sul luogo alla brace. La giornata è trascorsa in traquillità, con sorrisi e gioia e spensieratezza da parte di tutti i partecipanti.

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La vedova di Santarelli e la madre di Gorelli a Santa Lucia presentano la loro associazione “AmiCainoAbele”. Non c’è giustizia senza perdono”. Le parole usate da Giovanni Paolo II vengono ripetute più volte nella “Tenda dell’incontro”, allestita alla festa di Santa Lucia. Il pri-mo a pronunciarle è don Enzo Capitani. In un certo senso, è sua l’idea del confronto visto ieri. Poi le riprende Irene Sisi, madre di un ragazzo condannato a 20 anni per omicidio. E poco dopo Claudia Francardi, vedova di un carabiniere. Irene e Claudia: due donne, due storie intrecciate da un dramma. Quello di Antonio e Matteo: il primo, Santarelli, appuntato 44enne della compagnia di Pitigliano, morto dopo un anno di agonia per le bastonate date dal secondo, Gorelli, che di anni oggi ne ha 24, mentre andava a un rave party con altri tre amici. Antonio lo fermò al posto di blocco per un controllo il 25 aprile 2011, Matteo lo aggredì per fuggire. Una storia ripercorsa ieri dalle due donne, durante la presentazione dell’associazione che hanno fondato insieme, “AmiCainoAbele”, perché questo dramma possa essere in qualche modo d’aiuto agli altri. “Andiamo nelle scuole e nelle carceri per raccontare la nostra esperienza” spiega la madre. Ma l’incontro è soprattutto un viaggio dentro l’animo di Claudia e Irene, che ha portato dal dolore al perdono. Allora vengono fuori tappe an-cora sconosciute, come che Matteo, nei primi momenti in carcere, ab-bia anche pensato al suicidio. E c’è anche una domanda che si rincorre, rivolta alla vedova: “come si fa a incontrare la madre di chi ha ucciso il tuo amore?”. Serve ripercorre il viaggio per capirlo. Il primo passo lo fa Irene.“Tornavamo insieme da Milano dove avevamo incontrato Matteo, che sconta la pena nella comunità di don Mazzi, quando ci siamo chieste: come possiamo fare per dare conforto a persone che sono nella nostra situazione?”. Così è nata AmiCainoAbele. Irene però è mamma e difende suo figlio, per quel che può. “Matteo si è assunto tutte le responsabilità di quel che ha fatto e ha cercato Claudia per fargli sapere che aveva capito la gravità del suo gesto”. Poi parla Claudia, che si alza per stemperare l’e-mozione. “In molti mi chiedono se sono pazza” esordisce. Parla del suo dolore, dei giorni dopo l’aggressione, di suo marito ridotto a un vegetale, dei medici che le spiegano che non si sveglierà mai più, della depressione. Irene ascolta questa storia già sentita, si morde le labbra, abbassa lo sguar-do. “Un giorno poi ricevetti la lettera di una donna, di una madre che chie-deva il mio perdono. Che voleva incontrarmi. Io desideravo che Matteo

vedesse Antonio, per capire il male che aveva fatto. Ma era in carcere e non poteva. Allora invitai Irene, che accettò”. Arrivò l’incontro, l’abbraccio, la preghiera comune perché “Antonio venga liberato e possa salire nell’alto dei cieli”. Preghiere che verranno esaudite una mattina di maggio. “A quel punto ho sentito una grande pace” confessa Claudia. Poco dopo, arriva la condanna in primo grado: ergastolo. “Provai un dolore infinito” racconta Claudia. E arrivò anche a quel punto il momento di incontrare Matteo. “Non volevo vivere nella rabbia, non volevo avvizzirmi con gli occhi spen-ti di chi vive nell’odio. Non volevo che quella fosse la mia vita”. E sotto la neve milanese, due anni dopo quel 25 aprile, abbracciò Matteo. E con lui il perdono.

una storia vera.“AmiCainoAbele”. Giustizia e perdono, l’incontro tra Claudia e Irene (Grosseto)di Alfredo Faetti - Il Tirreno, 28 settembre 2014

Cella troppo piccola, detenuto risarcito di Luigi Ferrarella - Corriere della Sera, 25 settembre 2014 Prima applicazione del decreto voluto dall’Europa contro la “detenzione inumana”. Ad un carcerato albanese condannato a 6 anni, liqui-dati 4.808 euro: era stato detenuto 701 giorni in meno di 3 metri. Risarcimento di 4.808 euro per 601 giorni di detenzione in condizioni inumane di sovraffollamento carcerario, e 10 giorni di detrazione della pena sui residui 100 giorni che ancora gli restavano da scontare: è la prima applicazione a Padova del “rimedio compensativo” introdotto dal decreto legge 92 del 26 giugno per placare Strasburgo ed evitare una raffica di condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei Diritti dell’uomo, che con le sentenze Sulejmanovic il 16 luglio 2009 e Torreggiani l’8 gennaio 2013 aveva indicato in 3 metri quadrati per detenuto lo spazio minimo in cella sotto il quale la detenzione diventa automaticamente “trattamento disumano e degradante”, cioè tortura.

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Diritti e garanzie nel sistema penale. la situazione e i numeri Delle carceridi Claudio Figini (Presidente Cnca Lombardia) 

Il Fatto Quotidiano, 12 ottobre 2014 

Al 31 dicembre 2013 i detenuti in Italia ammontavano a 62.536, a fronte di una capienza regolamentare, secondo il ministero della Giustizia, di 47.709 posti. Una ricettività smentita da associazioni come “Antigone” e “A buon diritto”, che parlano di una capienza non superiore a 40.000 posti. Il sovraffollamento è determinato dal numero elevato di ingressi in carcere, dalla difficoltà per molti a fruire delle misure alternative e dagli insufficienti luoghi di accoglienza una volta terminata la pena. Troppe persone entrano in prigione per la presenza di leggi “carcerogene”. In particolare, la Bossi-Fini, che condanna al carcere gli immigrati che non rispondono al decreto di espulsione; la Fini-Giovanardi, che unisce tutte le sostanze in un’unica tabella e mette chi le detiene nella condizione di dover dimostrare che si tratta di uso personale; la ex Cirielli, che, negando le attenuanti generiche per i recidivi, in particolare per reati di piccolo conto, contribuisce in maniera drammatica a riempire le prigioni senza dare alcuna possibilità di inserimento sociale a chi ne ha più bisogno. Ora, la Corte Costituzionale ha sancito l’incostituzionalità della Fini-Giovanardi e il Parlamento ha abolito il reato di clandestinità: gli effetti si sono visti subito con il passaggio da 60.197 detenuti a marzo 2014 a 54.414 al 31 luglio 2014.

si Da molto, ma si riceVe molto Di piu’a cura di Paola Tiscornia 

estratto dalla rivista “Intimità” 

Luisa Prodi è presidente del Seac, il coordinamento di circa 80 gruppi di volontariato penitenziario che operano in tutta Italia. Da una vita è abituata a occuparsi di chi non ha voce né diritti: “Anche solo il comune buon senso dice che i detenuti devono uscire dal carcere migliori di come sono entrati, altrimenti continueranno a ritornarci. E che, se stanno bene loro, stiamo meglio tutti. Ma oltre al buon senso c’è anche un supporto legislativo: la prima norma che ha riconosciuto ufficialmente il volontariato penitenziario

dando dignità giuridica a quelli che sino ad allora erano solo buoni gesti di associazioni cattoliche e del 1975. Da lì, siamo andati tutti avanti. Con fatica e tra ostacoli e difficoltà. Però anche con un entusiasmo incredibile e la certezza che chi fa un’attività di questo tipo dà molto ma riceve molto di più”. La riforma carceraria ha 40 anni: com’è cambiato il ruolo del volontario? “Una volta era chiamato quello delle mutande”, - raccontano al Seac, - portava dentro la biancheria, le cinquemila lire e i francobolli, per lo più a titolo personale. Oggi siamo tutti organizzati in squadra e sempre in rete con altre associazioni. Impegnati in mille incombenze e nelle attività più diverse, sempre con la testa già proiettata “fuori”, quando a fine pena i nostri assistiti avranno ancora più bisogno: di una casa, di un lavoro, di riprendere contatti con familiari non sempre entusiasti, di scontrarsi con la burocrazia. Per ogni persona ci vuole una rete di solidarietà, di competenze, di conoscenze”.

chiusura ospeDali psichiatrici giuDiziari, superare ritarDi e incongruenzeda Comitato Stop Opg 

Ristretti Orizzonti, 16 settembre 2014

Con oltre due mesi di ritardo la Conferenza delle Regioni ha finalmente nominato i propri rappresentanti nell’Organismo di coordinamento per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari (previsto dalla nuova Legge n. 81/2014 all’articolo 1 comma 2 bis). Sono gli Assessori regionali alla Salute di: Emilia Romagna, Liguria, Puglia, Sardegna e Toscana che rappresenteranno tutte le regioni italiane.L’Organismo ha il compito delicatissimo di esercitare funzioni di monitoraggio e di coordinamento delle iniziative assunte per garantire il completamento del processo di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari e di relazionare al Parlamento.Sollecitiamo il Ministero della Salute a convocarlo immediatamente. Il nuovo Organismo deve agire subito, perché vi sono ritardi e incongruenze nell’attuazione della nuova legge: dopo una flessione iniziale risultano in aumento i “nuovi ingressi” in Opg, mentre molte regioni invece di ridurre al minimo indispensabile i posti nelle Rems (i “mini Opg”) insistono per costruire queste neo strutture manicomiali, trascurando i progetti terapeutico riabilitativi individuali alternativi all’internamento. Si profila così il rischio non solo di un’ulteriore inaccettabile proroga, ma di uno stravolgimento della nuova legge: i vecchi Opg sarebbero sostituiti

da nuove strutture regionali di tipo manicomiale. Ancora una volta la custodia e la segregazione delle persone al posto della cura e del reinserimento sociale. Per questo stop opg riprende la sua mobilitazione: l’obbiettivo resta abolire le parti del codice penale che tengono in vita l’Opg e quindi la logica manicomiale. E nel frattempo attuare questa buona legge, che ha finalmente considerato l’Opg, come era il manicomio, luogo “inadatto” alla cura e ha fornito concrete opportunità per chiuderli.

30 suiciDi in 3 anni tra gli agenti Di polizia penitenziaria, 8 Da inizio annoRedattore Sociale, 16 settembre 2014 

I suicidi sono otto solo da inizio anno. Il Sappe denuncia il “male di vivere” e lo stato di abbandono. Per lo psichiatra De Leo il burnout è frequente ma si può fare prevenzione. Favero (Ristretti Orizzonti): “Senza capo del Dap non c’è nessuno che si senta responsabile”.Otto agenti di polizia penitenziaria si sono tolti la vita in otto mesi, 30 negli ultimi tre anni: “Il male di vivere sembra non avere fine”, denuncia il Sappe (sindacato autonomo polizia penitenziaria).A pochi giorni dall’ultimo caso di suicidio, avvenuto giovedì a Saluzzo, si rinfiamma la polemica sulle condizioni lavorative degli agenti e sullo stress lavoro correlato. A denunciare la situazione è Donato Capece, segretario del Sappe, che parla di “stato di abbandono in cui è lasciato il corpo di polizia penitenziaria”. E aggiunge: “Siamo sotto organico di circa ottomila agenti e se uno sbaglia non glielo perdonano. Eppure riusciamo ancora a salvare la vita a tanti detenuti disperati”. Intanto l’amministrazione “sta a guardare”: nessun punto di ascolto è stato attivato, nessuna azione concreta per aiutare gli agenti.Che la prevenzione sia possibile lo sostiene Diego De Leo, psichiatra: “Il burnout è un fenomeno frequente, che sfocia spesso in esaurimento emozionale, perdita di significato del proprio lavoro, disinvestimento. Ma molti interventi preventivi sono possibili: una valutazione attenta degli accadimenti più recenti dovrebbe poter permettere la messa a punto di contromisure per arginare il fenomeno”.Per Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, i problemi principali sono il degrado delle carceri e la mancata nomina del nuovo capo del Dap: “Non c’è nessuno che si senta responsabile”. Per migliorare la qualità del lavoro è fondamentale “introdurre attività che non siano di pura custodia”.

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