Oltre i confini del mondo

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di Ornella Nalon, mainstream Assireni è una donna poco più che quarantenne appartenente al popolo dei Masai che vive in un piccolo villaggio sugli altopiani della Rift Valley, esteso territorio situato tra il lago Vittoria e il monte Kilimanjaro, in Tanzania. A qualche chilometro di distanza è stata costruita una struttura ospedaliera con lo specifico compito di dare assistenza sanitaria alle popolazioni dei paesi circostanti, sprovvisti anche delle infrastrutture di base e in cui imperversa la povertà più assoluta. Fa parte del personale sanitario Eleonora, medico chirurgo sessantenne di nazionalità italiana, alla quale Assireni racconterà la sua vita. Al racconto delle esperienze della donna masai si intrecceranno i ricordi della dottoressa italiana che, in un crescendo di emozioni, metteranno a confronto due vissuti derivanti da origini e culture diametralmente opposte ma che, tuttavia, ne determineranno alcune similitudini riconducibili al loro iniziale smarrimento e al loro succe

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ORNELLA NALON     

OLTRE I CONFINI DEL MONDO 

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Serie BIG‐C  Grandi Caratteri, lettura facilitata 

OLTRE I CONFINI DEL MONDO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni 

ISBN: 978‐88‐6307‐654‐7 

Copertina: immagine Shutterstock.com 

Prima edizione Gennaio 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco - Padova

 

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OLTRE I CONFINI DEL MONDO 

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«Scrivi mama,  ti  prego,  scrivi  di  quanto  sono  felice!  Tu 

che sei una mzungu1 e sei sempre in viaggio, puoi farlo sa‐pere al mondo della felicità che oggi porto nel cuore.» «Va bene Assireni, lo faccio volentieri. Ma che ne diresti di 

cominciare dall’inizio e di parlarmi un po’ di te?» 

«Io non so parlare di me. Non ho mai pensato a me stessa 

come a una persona. Nessuno mi ha insegnato a farlo.» 

«Ma  tu sei una persona, e da come  ti conosco sei anche 

molto speciale! Ti aiuterò a farlo  io, se vuoi. Cominciamo 

dall’inizio; dimmi quando sei nata.» 

«Non conosco la data esatta in cui sono nata. So solo che 

era  il mese  in cui nascono gli agnelli di circa quarant’anni 

fa. Ero la prima femmina dopo tre maschi. Mio padre non 

dimostrò particolare gioia all’evento e lasciò totale libertà 

                                                            1 mzungu: donna bianca 

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della scelta del mio nome a mia madre, che invece fu mol‐

to felice di avere un componente del suo stesso sesso  in 

famiglia. Decise di chiamarmi Assireni che significa “lei è 

bella”.  Come  puoi  vedere,  non  sempre  i  significati  dei 

nomi corrispondono alle persone che li portano.»  

La donna fece una breve pausa nella quale smise di guar‐

dare la sua interlocutrice e abbassò lo sguardo per osser‐

vare le sue mani ossute e callose. 

«Perché dici così? Sei una donna ancora giovane,  forte e 

bella!» 

«Oh  no,  non  lo  sono.  Quando  mi  guardo,  vedo  solo 

l’ombra della piacevole ragazza che sono stata. I miei oc‐

chi hanno perso  la  luce di chi si aspetta qualcosa di bello 

dalla vita. Tu sei bella, mama Nora!» 

«Oh Assireni! Non puoi dire questo! Io sono vecchia e cre‐

do che anche i miei occhi non posseggano più quella luce 

di cui parli. Ma continua il tuo racconto.» 

«Mi dissero che ci  fu una grande  festa quando mi venne 

dato  il nome, a cui partecipò tutto  il villaggio. Furono uc‐

cise due pecore che furono cotte alla brace e poi c’erano 

frutta,  verdura e dolci  in grande quantità.  I miei parenti 

lavorarono tre giorni per preparare tutto  il cibo necessa‐

rio. Le danze e i canti durarono un giorno intero. Peccato 

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che fossi troppo piccola per ricordarmi tutto questo, per‐

ché non ebbi altre occasioni da festeggiare.» 

La donna si interruppe, sembrava non avesse altro da rac‐

contare. Nell’attesa che l’altra finisse di prendere appunti 

e  le facesse un’ulteriore domanda, cominciò a stropiccia‐

re, con le dita della mano destra, un lembo della sua gon‐

na colorata e lunga fino ai piedi.  

“Chissà qual è il significato del mio nome” pensò Eleonora 

in quel breve momento di silenzio, ripromettendosi di ef‐

fettuare  in  futuro  qualche  ricerca  per  scoprirlo.  Subito 

dopo continuò a intervistare Assireni. 

«Ora parlami  un po’ della tua infanzia.» 

«Credo sia stata normale, come quella di tanti altri bambi‐

ni. Il mattino dovevo fare molta strada a piedi per andare 

a scuola, ma era divertente perché andavo  in compagnia 

di  altre  bambine  e  ci  raccontavamo  un  sacco  di  cose  o 

cantavamo. Non ricordo di avere giocato con i miei fratel‐

li.  In  quanto maschi,  avevano  dei  passatempi  completa‐

mente diversi dai miei e dalle mie amiche. Loro passavano 

intere ore a fare a gara per costruire l’auto più bella; sco‐

vavano delle scatolette di metallo, vi attaccavano dei tap‐

pi di bottiglia per  ruote  e non  so  che  altro per  volante. 

Oppure  improvvisavano  delle  lunghe  partite  di  pallone 

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dopo aver costruito  la palla con degli stracci arrotolati e 

legati con dello spago. Non ci invitavano mai ai loro diver‐

timenti, e comunque noi non vi avremmo nemmeno par‐

tecipato  perché  ci  piaceva  fare  dell’altro.  Per  esempio 

cercavamo dei pezzi di  cocci da  usare  come piatti,  e  le‐

gando con del filo alcuni piccoli fasci di paglia cercavamo 

di  dar  loro  la  forma  di  una  bambola.  Intrecciavamo  dei 

gambi di fiori a dei fili d’erba e realizzavamo dei gioielli da 

metterci in capo o al collo, e così diventavamo delle picco‐

le donnine eleganti che preparavano da mangiare e accu‐

divano  la propria  famiglia. Faceva parte del gioco anche 

andare a prendere  l’acqua dal pozzo, fino a dieci volte al 

giorno, e comunque ogni volta che  la mamma ce  lo chie‐

deva. Non so ancora come facevamo a portare  il peso di 

quel vaso sulla testa; era grande quasi quanto noi! Molte 

volte aiutavo mia madre a sistemare la nostra casa oppu‐

re  nei  lavori  in  cucina:  sbucciavo  le  patate  o  impastavo 

l’ugali2 che avrebbero costituito  la nostra cena. E quando 

c’era da battere  le spighe del riso o da grattugiare  la ma‐

nioca3 per ricavarne la tapioca io non mancavo mai. La se‐

ra  ero  talmente  stanca  che mi  addormentavo  improvvi‐

                                                            2 ugali: una specie di polenta fatta con farina di mais o di tapioca. 3 manioca: bulbo simile alla patata molto utilizzata nella cucina africana, da cui si può ricavare una specie di fecola chiamata tapioca.

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samente ovunque mi trovassi, ma il mattino dopo mi sve‐

gliavo  presto  ed  ero  contenta  di  cominciare  una  nuova 

giornata perché, anche se  faticosa, non avrei conosciuto 

la noia e ogni compito avrebbe finito con il divertirmi.» 

«Com’erano i tuoi genitori?» 

«Papà lo vedevo molto poco. Per me era quasi uno scono‐

sciuto. Lui portava gli animali al pascolo e tornava a casa 

di  rado, oppure  rientrava  la  sera, quando già ero addor‐

mentata. Quelle volte che avevo la possibilità di incontrar‐

lo lo salutavo appena, senza guardarlo in volto, perché mi 

metteva soggezione. Anche  lui, d’altra parte, non ha mai 

fatto  il minimo sforzo per  farci avvicinare. Ma è così che 

doveva andare. Quando i miei fratelli sono stati abbastan‐

za grandi,  lo hanno seguito per  imparare  il suo mestiere, 

mentre  io  sono  sempre  rimasta  a  casa  con mia madre. 

Mama Malaika è stata una brava maestra, per me. Mi ha 

insegnato  tutto quello  che dovevo  sapere per diventare 

una buona moglie e mamma.  

Un’unica cosa non ha saputo trasmettermi:  la sua sereni‐

tà.  

Sembrava  sempre  felice.  Anche  sotto  il  sole  cocente, 

mentre zappava o raccoglieva la mchicha4 che avrebbe in‐

                                                            4 mchicha: verdura da consumare cotta, simile ai nostri spinaci.

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zuppato  con  il  sudore della  fronte,  la  sentivo  cantare. E 

cantava anche quando portava  i panni a  lavare sulla  riva 

del fiume e vi rimaneva china per ore, li sbatteva sulla pie‐

tra,  li  ritorceva,  li  strofinava  e  continuava  così,  finché  la 

schiena  le si  sarebbe quasi  spezzata. Non era mai  triste. 

Non l’ho vista piangere neanche quando Mosi e Akil ripor‐

tarono a casa, sulle spalle,  il corpo martoriato di mio pa‐

dre. Le spiegarono che aveva cercato di salvare una muc‐

ca dall’attacco di un  leone, ma che  la  lancia aveva  ferito 

l’animale solo di striscio e questi gli si era avventato con‐

tro  e  l’aveva  ucciso.  Poggiarono mio padre  a  terra,  din‐

nanzi all’ingresso di casa e  il sangue che colava dalle sue 

ferite si confondeva con  il rosso della terra. Vidi mia ma‐

dre prendere un catino con dell’acqua, inginocchiarsi vici‐

no a lui e la sentii pronunciare la frase: 

“È stata  la volontà di Enkai Nanyokie5 ora sarai nel  luogo 

dai grandi pascoli.”  

Poi cominciò a lavargli con tocchi leggeri, come se temes‐

se di fargli male, prima il viso e poi tutto il resto. Rimase lì, 

chinata  sopra  di  lui,  per molto  tempo,  anche  dopo  che 

ebbe  finito. Si alzò  solo quando arrivarono  i miei  fratelli 

                                                            5 Enkai Nanyokie: Enkay e il Dio della religione dei Masai, che è monoteista. Si rivela con colori diversi a seconda dell’umore: è nero quando è bonario (na-rok) e rosso quando è irritato (nanyokie).

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che erano andati a chiamare l’Oloibon6 per portare le spo‐

glie di suo marito nel luogo destinato ad accoglierle.»  

«Tu come hai vissuto  la morte di  tuo padre? Quanti anni 

avevi?» 

«Ero piccola, avevo appena iniziato la scuola. Era la prima 

volta che avevo a che fare con la morte e non sapevo an‐

cora bene di cosa si trattasse. Solo più tardi ho capito che 

non avrei più  rivisto mio padre, ma  la cosa non mi scon‐

volse.  Il suo  lavoro venne portato avanti dai miei fratelli. 

Come ti ho già detto, non avendo un grande  legame con 

lui,  la mia vita continuò quasi senza accorgermi della sua 

assenza  e  senza  che  per me  ci  fossero  radicali  cambia‐

menti.» 

Eleonora aveva appena terminato di scrivere l’ultima frase 

e stava per porre un’altra domanda, quando nella stanza, 

irruppe Akil che gridò trafelato: 

«Mama Nora, vieni presto. C’è bisogno di te. È arrivato un 

uomo con una brutta  ferita al braccio. Forse c’è bisogno 

di amputare!» 

Lei fece un balzo dalla sedia. Prima di seguire l’uomo che 

stava uscendo in tutta fretta, invitò Assireni a presentarsi 

                                                            6 Oloibon: essere spirituale in grado di funzionare da medium verso Dio Enkai per portare il suo messaggio alla gente.  

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l’indomani alla stessa ora per continuare ciò che aveva  i‐

niziato.  

 

Quando ebbe  finito di  intervenire  sul braccio martoriato 

del  nuovo  paziente  che,  grazie  al  cielo  e  all’abilità 

dell’equipe medica di cui faceva parte, riuscirono a salva‐

re,  faceva già buio.  Il  caldo  torrido  aveva  finalmente  la‐

sciato spazio a una lieve brezza, pur sempre calda e umida 

ma meno  soffocante. Eleonora non vedeva  l’ora di  rien‐

trare  nella  sua  stanza  e  di  lavare  dal  suo  corpo  quella 

sgradevole patina di sudore e polvere che vi si formava a 

ogni fine giornata. Prima però volle passare nella stanzet‐

ta adiacente al refettorio per recuperare il block‐notes su 

cui aveva preso gli appunti del racconto di Assireni. Spe‐

rava, una  volta  fatto  il bagno, di non essere  sopraffatta 

dalla stanchezza e dal sonno e di avere ancora un po’ di 

energia  per  riscrivere  meglio  quanto  aveva  frettolosa‐

mente buttato giù, sotto dettatura, qualche ora prima. 

Non sapeva ancora cosa ne avrebbe fatto di quella testi‐

monianza, ma  si  sentiva  in dovere di  raccoglierla e di e‐

splicarla nel migliore dei modi che fosse stato in suo pote‐

re. Aveva come  la sensazione di doverglielo, a quella gio‐

vane ma già vecchia donna, e si ripromise che  in una ma‐

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niera o nell’altra avrebbe fatto  in modo di esaudire  il suo 

semplice desiderio. 

 

Ogni  spugnatura  fresca  sulla  sua pelle era  come  se por‐

tasse via un po’ della spossatezza che provava quando fe‐

ce ingresso nella sua austera camera da letto. Dopo avere 

indossato un  leggerissima camicia da notte  in  lino, sboc‐

concellato qualche biscotto e bevuto un bicchiere di latte, 

era pronta a effettuare il lavoro che si era ripromessa po‐

co prima. Si sedette al tavolino affiancato alla parete, sot‐

to alla finestra aperta da cui penzolava la zanzariera nuo‐

va che si era appena fatta installare, e in breve tempo bat‐

té a macchina tutto ciò che aveva scritto a penna, correg‐

gendo alcuni errori e rendendo il testo più discorsivo, ma 

cercando di non modificare  i contenuti della conversazio‐

ne. Rilesse  le due paginette appena composte,  le  ripose 

all’interno di una cartellina e finalmente si stese a letto. 

Il sonno, che solitamente sarebbe arrivato nel giro di un 

paio di minuti, quella notte sembrava tardare; non poteva 

fare a meno di paragonare l’infanzia di Assireni alla sua, e 

tutta una serie di ricordi che da tempo non riaffioravano 

nella sua mente apparvero di colpo,  impedendole di dor‐

mire.  

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Pensò a sua madre, sempre  impeccabilmente elegante e 

mai con un capello fuori posto, che aveva riposto nel cas‐

setto  la sua  laurea  in  legge per dedicarsi alla famiglia, ed 

era così finita col diventare l’ombra del famoso e afferma‐

to chirurgo che aveva sposato. Forse fu proprio l’esigenza 

di crearsi un proprio ruolo, la causa per la quale delegò ad 

altre persone  la mansione di accudire quella stessa  fami‐

glia che  le aveva  fatto  rinunciare a  tanto e  il motivo per 

cui dedicò tutta se stessa a opere di carità. Ecco dunque 

che  doveva  organizzare  un  ricevimento  di  beneficenza 

proprio  in occasione del primo  concerto di musica della 

figlia o  che  risultava  impegnata,  anche nelle più  astruse 

delle attività filantropiche, tutte le volte che ne richiedeva 

la presenza. Avrebbe potuto essere ironico, se non avesse 

tanto pesato sulla sua carenza affettiva,  il fatto che qual‐

siasi  bisogno  umano  avrebbe  potuto  ottenere 

l’attenzione di sua madre, tranne quello che aveva lei, che 

era semplicemente  la necessità di sentirsi amata! L’unico 

stratagemma, che ormai aveva imparato ad adottare, per 

intrattenere sua madre con sé, era quello di farsi accom‐

pagnare  a  fare  acquisti. Accampava  la  scusa  di  avere  la 

necessità di qualche oggetto e magicamente  la donna si 

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liberava da ogni impegno ed era pronta ad accompagnar‐

la. Chissà se lo faceva per amore smodato dello shopping 

o  perché  era  l’unico modo  che  conosceva  per  ripagarla 

del  suo  scarso  interesse. Comunque  fosse, erano  le uni‐

che occasioni  in cui si  informava dei suoi progressi scola‐

stici, di come procedevano  le sua attività artistiche, o co‐

munque  in cui dimostrava di  interessarsi un po’ della sua 

vita.  

Pensò a suo padre, bello, distinto, ricco e famoso ma, per 

lei,  figura quasi  sconosciuta.  Solitamente  usciva da  casa 

prima del suo risveglio e rientrava quando già era a letto. 

Poteva vederlo soltanto per qualche ora nel suo giorno di 

riposo, a meno che dalla clinica non arrivasse una telefo‐

nata che annunciava un’urgenza, nel quel caso il suo rien‐

tro al  lavoro era  immediato. Poteva contare sulle dita di 

una mano  le volte che aveva condiviso con  lui qualche e‐

sperienza o che  fosse a conoscenza di un suo diretto  in‐

tervento su qualsiasi iniziativa che la riguardasse. Da parte 

sua non  aveva  ricevuto mai  un diniego o  una punizione 

ma, per contro, nemmeno un’approvazione o un consen‐

so. Si trattava di disinteresse nei suoi confronti o di totale 

abnegazione alla sua professione? Se l’era chiesto tutte le 

volte  che  lo  avrebbe  voluto  presente  ai  compleanni,  ai 

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saggi di danza oppure, almeno ogni tanto, seduto sul suo 

letto,  intento a dargli  il bacio della buonanotte. Nei mo‐

menti più tristi  la risposta era chiara: non  l’amava, molto 

semplicemente! In quelli più sereni comparava la conside‐

razione che aveva suo padre nei suoi confronti con quella 

che aveva per sua moglie e, sebbene  i ruoli fossero com‐

pletamente diversi, molto simile era  il  trattamento da o‐

gnuna ricevuto. Allora, come faceva sua madre, si convin‐

ceva  che probabilmente quello  fosse necessariamente  il 

prezzo da pagare per godere dell’agiatezza  in cui viveva, 

e barattava  la necessità di un abbraccio o di un conforto 

con la futilità di un regalo o di un capriccio. 

Pensò a  lei da  ragazzina, nel  suo ovattato mondo di be‐

nessere, in cui il valore delle cose, elargite in quantità, do‐

veva sopperire a quello degli affetti, concessi con minore 

generosità. Era  il  tempo  in  cui  tutto  le  veniva doverosa‐

mente consentito e ogni ora della sua giornata era scandi‐

ta dalle molteplici attività che l’avrebbero preparata a es‐

sere un degno componente del suo ceto borghese. 

Così, dopo le lezioni mattutine tenute in un rinomato isti‐

tuto privato, a pomeriggi alterni veniva accompagnata al 

corso di pianoforte, a quello di danza classica e di perfe‐

zionamento alla  lingua  inglese, costringendola a  ritmi  in‐

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calzanti  che  le  toglievano  ogni  energia  per  compiere  e‐

ventuali  altre  attività  ricreative  che  lei  avrebbe  di  gran 

lunga preferito, come trovarsi a chiacchierare con  le ami‐

che  o  starsene  comodamente  sprofondata  in  divano  a 

leggere qualche fumetto.  

Al  tempo si  riteneva una  ragazzina molto  fortunata. Riu‐

scire  a  ottenere  tutto  ciò  che  desiderava  le  dava 

un’appagante sensazione di onnipotenza che andava  ine‐

sorabilmente  a  incidere  sul  suo  atteggiamento  verso  gli 

altri.  Esigente  e  capricciosa,  finiva  con  il  tiranneggiare  i 

genitori, le compagne di scuola e le varie tate che si erano 

alternate nel corso degli anni, rendendo difficoltoso qual‐

siasi  legame affettivo e aggravando ulteriormente  il  suo 

latente senso di solitudine. Solo con  il passare di qualche 

anno e con  il mutare naturale delle proprie esigenze, co‐

minciò a realizzare che ciò di cui aveva bisogno non si po‐

teva né acquistare né pretendere da altri, e che  il vuoto 

dell’animo non si poteva riempire con il danaro o il potere 

che da esso ne derivava.  

 

Immaginava  che  la  maggior  parte  della  gente  potesse 

provare  nostalgia  pensando  alla  propria  fanciullezza, 

mentre a lei provocava un leggero senso di tristezza.  

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A un certo punto le palpebre cominciarono a farsi pesanti 

e  i  ricordi  diventarono meno  vividi,  finché  finalmente  il 

sonno  sopravvenne.  Il  mattino  successivo  si  svegliò 

all’alba, ancora con un leggero sentore di malinconia. Ap‐

pena uscita dalla porta,  si  soffermò qualche  secondo ad 

ammirare  il  paesaggio  che  le  si  prospettava. Dopo  anni 

che  lo  vedeva, non  se ne  era  ancora  abituata  e  riusciva 

sempre  a  sorprenderla.  Quella  mattina  c’era 

un’abbondante  foschia  che  si alzava  fino a un metro da 

terra  ad  annunciare  la  temperatura  opprimente  che  a‐

vrebbe  caratterizzato  la giornata.  Il  sorgere del  sole e  il 

rosso della  terra  le  trasmettevano  un’intensa  sfumatura 

rosea che,  in  lontananza, si mescolava al blu cobalto del 

cielo  in  cui  si  stagliava  la  sagoma  di  un’enorme  acacia. 

Sforzando  un  po’  la  vista,  le  sembrava  di  distinguere  le 

sagome delle capanne del villaggio masai da cui Assireni 

proveniva.  

 

La  giornata  nell’infermeria  fu  talmente  convulsa  da  non 

riuscire  a  concederle  nemmeno  il  tempo  per  valutare  il 

suo  stato  d’animo,  e  quando  si  trovò  all’appuntamento 

con  la  sua  amica  le  sembrava di  averla  lasciata  soltanto 

qualche minuto prima. 

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19 

 

«Mama Nora, ti ho portato dei dolcetti allo zenzero e coc‐

co per ringraziarti di quello che stai facendo per me.» 

«Grazie, sei molto gentile, ma non dovevi! In fondo, cosa 

sto facendo?» 

«Tu mi ascolti e mi dai voce, mama. Nessuno lo ha mai fat‐

to prima d’ora.» 

«Ora continuiamo con  la  tua  storia. Eravamo  rimasti alla 

tragica scomparsa di tuo padre. Tua madre come reagì?» 

«I miei  fratelli ereditarono  la mandria e se  la divisero  tra 

loro. Poi si sposarono e si fecero una loro famiglia. L’unico 

sostentamento di mia madre derivava dal  latte di una ca‐

pra e da quello che  trovava  in natura. All’inizio avevamo 

ben poco da mangiare; se non ci avessero dato un po’ di 

aiutato  gli  abitanti  del  villaggio  avremmo  conosciuto 

momenti  davvero  difficili! Dopo  qualche mese  il  fratello 

maggiore di mio padre chiese a mia madre di sposarlo e 

lei accettò di buon grado. Era un gran  lavoratore, posse‐

deva  parecchio  di  bestiame,  e  aveva  una  prima moglie, 

due figli maschi e due femmine. La convivenza con tutte 

queste persone non era un problema perché ognuno pos‐

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sedeva  la  propria  nyumba7,  semmai  rappresentava  un 

vantaggio, perché tutti avrebbero dato  il  loro contributo 

per mantenere la famiglia. 

“Più braccia lavorano e più si mangia” disse convinta ma‐

ma Malaika. 

I miei nuovi fratelli maschi non  li vedevo quasi mai, come 

è naturale che sia. Il più grande era già sposato, quello più 

giovane era un moran8 e viveva con il gruppo degli iniziati 

per seguire  la preparazione all’età successiva.  Io abitavo 

con  le mie  nuove  sorelle.  La  più  grande  era  promessa 

sposa e presto sarebbe andata via da casa. La più piccola 

aveva circa  la mia età, e  finalmente avevo qualcuno con 

cui parlare. Con  lei andavo d’accordo anche  se non ave‐

vamo  lo  stesso carattere. Assomigliava più  lei a mia ma‐

dre  che  io  stessa.  La  differenza  diventò  più  evidente 

quando  crescemmo  un  po’  ed  entrammo  nella pubertà. 

Nasieku non vedeva  l’ora di entrare nella comunità delle 

donne adulte, di sposarsi e di avere figli, io invece temevo 

                                                            7 nyumba: casa fatta di rami e paglia intonacati con sterco di vacca. Solitamen-te il capo famiglia, la prima moglie, la seconda moglie, i figli maschi e le figlie femmine vivono in case separate. L’insieme delle nyumba di tutte le famiglie del villaggio formano l’Enkang (villaggio) circondato da un recinto spinoso, per proteggersi dagli animali selvatici. 8 moran: è uno dei quattro passaggi d’età dei maschi: iniziato - moran - giovane anziano - anziano  

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quel momento. Se pensavo di diventare come mia madre 

e  le  altre  donne  sposate, mi  prendeva  un  crampo  allo 

stomaco, più forte di quando avevo fame e non c’era cibo 

che me  lo facesse andare via. A volte mi sentivo davvero 

diversa dalle  altre  e pensavo di  avere qualcosa  che non 

andasse. In verità, ancora adesso lo penso.» 

La donna si  interruppe, spostando  il suo sguardo dal viso 

dell’altra a un punto fisso nel vuoto. Probabilmente stava 

riflettendo  su  ciò  che  aveva  appena  detto,  cercando  le 

parole  adatte  per  spiegare  al meglio  il  suo  disagio. Ma 

non era facile far comprendere agli altri ciò che provava, 

quando  lei per prima non sapeva  interpretare  i suoi sen‐

timenti.  

«Sai invece io cosa credo?» intervenne Eleonora, attirando 

nuovamente l’attenzione di Assireni. Poi si alzò per versa‐

re dell’acqua  in due bicchieri, uno dei quali  lo porse alla 

donna che aveva seguito in silenzio ogni suo movimento, 

e continuò: 

«Credo che tu non abbia niente che non vada, anzi, che tu 

sia  in diritto di non  condividere per  forza  le  scelte delle 

donne della  tua  tribù. Sei una persona  intelligente  la cui 

naturale  indole  è  stata  imprigionata  da  una  cultura  che 

non consente  il  libero arbitrio ma  impone  il prosieguo di 

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tradizioni che indubbiamente ti stanno strette. Vedi, nella 

società da cui provengo io la donna non è costretta al ma‐

trimonio per sentirsi tale. Il più delle volte si sposa ed ha 

figli, ma generalmente succede per sua scelta e solo dopo 

che si è realizzata con la sua professione.» 

Assireni si grattò la nuca completamente rasata e chiese: 

«Ma allora voi mzungo, siete sempre felici?» 

Eleonora la guardò e le rivolse un sorriso, con il suo modo 

particolare  che  le  faceva  piegare  leggermente  le  labbra 

verso destra solo quando esso non derivava da una gioia, 

ma, piuttosto, dalla circostanza. 

«Magari fosse così! No, Assireni. Nemmeno  la nostra è  la 

ricetta  per  la  felicità.  Abbiamo  più  possibilità  di  scelta, 

senza  dubbio, ma  nessuno  ha  la  certezza  di  fare  quella 

giusta.  Inoltre, sono convinta che più complessa diventa 

una  struttura  sociale, più  si  complica  anche  la  vita delle 

persone che ne fanno parte, aumentandone le esigenze e 

le aspettative. Se poi teniamo conto che la natura umana 

è  naturalmente  orientata  verso  l’insoddisfazione,  anche 

se questa è una mia considerazione del  tutto personale, 

va da sé che  il raggiungimento, non della felicità, ma an‐

che solo della serenità, sia un obbiettivo davvero difficile 

da raggiungere.» 

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«Da mesi  era  annunciata  la mia  infibulazione  e quella di 

mia  sorella  Nasieku»  riprese  a  narrare  Assireni  «è 

un’occasione molto  importante  per  le  donne  della mia 

tribù. È  il passaggio dall’infanzia all’età adulta e ogni  ra‐

gazza  lo aspetta con  impazienza. Ma  io  lo temevo  forte‐

mente.  Quando  arrivò  quel momento,  io  ebbi  voglia  di 

scappare e di gridare a tutte  le donne che mi circondava‐

no che  io non mi sentivo pronta per essere adulta e che 

volevo ancora avere  il tempo per giocare. Tutte ridevano 

intorno a me e c’era aria di festa, ma quando due donne 

anziane mi aprirono  le gambe tenendole con forza e una 

terza mi tagliò, io gridai a squarciagola e continuai a pian‐

gere per tanto tempo. Non era solo per il dolore che sen‐

tivo, mama Nora. No, quello era intenso ma sopportabile. 

Era  la  testa  che piangeva e  con essa  tutto  il mio  corpo. 

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