OLTRE... - Anno 1, N°1 Dicembre 2014

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Pg 4 - Il lavoro “Cera” una volta Pg 10 - Musica Percezioni Alternative Pg 16 - Museo La leggenda della bella Lionora Pg 23 - L’inserto L’accademia dei sogni Pg 37 - Tecnica Fotografia ad alta velocità ( I° parte) Pg 41 - La Fotografia Elisa Biasutto Pg 44 - Lo scatto The Migrant Mother Pg 46 - Il Libro L’uomo che raccoglieva le alghe Pg 50 - L’ evento Camponogara Fotografia Francesco Cito oltre OLTRE - Rivista di Storie e Fotografia - Anno 1 N°1 - Dicembre 2014 - Università Popolare di Camponogara Organo di Informazione dell’Università Popolare di Camponogara Direttore Responsabile: Michele Gregolin

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Rivista di Storie e Fotografia, Università Popolare di Camponogara (VE)

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Pg 4 - Il lavoro

“Cera” una volta

Pg 10 - MusicaPercezioni Alternative

Pg 16 - Museo

La leggenda della bellaLionora

Pg 23 - L’insertoL’accademia dei sogni

Pg 37 - TecnicaFotografia ad alta velocità ( I° parte)

Pg 41 - La Fotografia

Elisa Biasutto

Pg 44 - Lo scattoThe Migrant Mother

Pg 46 - Il Libro

L’uomo che raccoglievale alghe

Pg 50 - L’ evento Camponogara Fotografia

Francesco Cito

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Organo di Informazione dell’Università Popolare di Camponogara

Direttore Responsabile: Michele Gregolin

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oltre

“Il vero viaggio di scoperta non consiste nel cercare nuove terre ma nell’avere nuovi occhi”Marcel Proust

Non è facile trovare “parole scritte”, per ac-compagnare l’uscita del primo numero della nostra rivista online.L’istinto primario rimane quello dello scatto, la scrittura, che abbiamo faticosamente im-parato e che dura quel tempo infinitesimale, necessario perché la vista dell’occhio si pos-sa allineare alle intenzioni della mente e del cuore.Nei corsi precedenti abbiamo lavorato tan-to nella ricerca del “momento decisivo”, che cristallizza istanti irripetibili, per raccontare personaggi, eventi (straordinari, ma anche e soprattutto infra-ordinari), mondi lontani e spazi quotidiani.

editoriale

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oltreAbbiamo deciso adesso di andare “oltre”, per uscire dalle nostre consuetudini, dai no-stri percorsi e per accettare la sfida che ci è stata lanciata.“L ’oltre” del titolo della nostra rivista, ci ri-chiama quindi ad un qualcosa di nuovo, ad un salto di qualità, ad un impegno diverso.

Raccontare storie è l’elemento cardine at-torno al quale abbiamo impostato il nostro laboratorio, e intendiamo assolvere a questo ruolo “a modo nostro”, fedeli al solo princi-pio di raccontarle “incapaci di nascondere il nostro pensiero ed i nostri sentimenti”.Lo scopo che ci siamo posti è quello di rac-contare, con la fotografia, ma non solo, sto-rie che appartengono al nostro territorio, alla maggioranza silenziosa che vi ci abita, alle grandi passioni che si nascondono nella quotidianità, convinti che «quando raccon-tiamo delle storie …creiamo la condizione e la possibilità di generare dei cambiamenti, in noi stessi e negli altri»

Analogamente ai “viaggi randagi” nella cam-pagna modenese di Franco Guerzoni con Lu-igi Ghirri, sarà la pianura veneta il territorio del nostro confronto, del nostro girovagare, della nostra fotografia, dei nostri racconti e …della nostra amicizia.

Non dobbiamo dimenticare il contesto in cui

operiamo: un laboratorio, all’interno di una Università Popolare, uno spazio in divenire, un luogo di verifica, di fatica e di confronto.

La rivista diviene lo spazio fisico e virtuale dove l’esperienza del laboratorio prende for-ma, e ci auguriamo che tutto ciò che riuscire-mo a consegnare, possa essere riconosciuto come proprio, da chi vorrà, coraggiosamen-te farsi raccontare delle storie.

Abbiamo voluto il laboratorio come uno spa-zio aperto, alle proposte, alle idee, alle pro-vocazioni e alle critiche.

Michele Gregolindocente di fotografiadirettore responsabile

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Cera una volta… e Cera ancora oggi: è lo slogan sul sito della Cereria Ermas ed è davvero rappresentativo della realtà di questa piccola azienda a conduzione fami-liare.I fratelli Giovanni e Valerio Alessi, titolari dell’azienda, ci accolgono con timidezza e disponibilità, un po’ stupiti dal nostro inte-resse, e ci aprono le porte di quello che è per loro il luogo di lavoro ma anche il luo-go di vita. Soprattutto per la madre che, nonostante l’età, dà ancora una mano ai figli e vive nella casa proprio a fianco del-laboratorio. Prodotti Ermas, nel cuore di Scorzè in provincia di Venezia, nasce nell’immediato dopoguerra, producendo e commercializ-zando una vasta gamma di prodotti (cere in polvere, brillantina, borotalco, shampoo in polvere, insetticida liquido). Il loro pun-to di forza sono soprattutto le creme e le patine per calzature. Nel corso degli anni alcuni prodotti, diven-tati obsoleti, sono stati sostituiti ed ora la produzione principale riguarda prodot-ti protettivi per superfici dure (cere, oli, vernici), detergenti ed igienizzanti per la casa, solventi e smacchiatori. Anche se l’azienda è rimasta negli anni fe-

Cera una volta... Testi e Foto di Massimo Bonutto, Enrico Gubbati, Mirka Rallo, Marta Toso.

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dele ai tradizionali metodi di produzione e alle materie prime classiche (cera d’api, oli vegetali, cere microcristalline, essenza di tre-mentina), i tempi sono cambiati da quando da bambini ci svegliavamo la mattina con il rumore della lucidatrice a tre spazzole che la mamma passava sui pavimenti. Nonostante certe cose non si usino più come un tempo, la cereria non ha mai smesso di lavorare, anzi i vecchi prodotti hanno trovato nuovi utilizzi, quali ad esempio la cura dei parquet pregiati

o addirittura l’impiego come isolanti e luci-danti per le barche e le attrezzature nautiche.Di fronte all’incalzare dei prodotti industriali su larga scala, la piccola azienda ha trovato la sua nicchia anche nella crescente richiesta di cere e oli naturali.E per il futuro? I titolari hanno rilevato l’at-tività dal loro zio, anni fa, salvandola da una chiusura certa, rivenderla oggi sarebbe molto difficile. E’ un lavoro duro quello alla cereria, che i giovani non vogliono più fare.

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Ci si sporca le mani, il profumo di cera e l’odore dei solventi permeano i vestiti, fa caldo d’estate e freddo d’inverno, ma la temperatura a cui bisogna prestare atten-zione qui è solo quella della cera. I fratelli Alessi sono tuttavia giovani e il loro futuro è ancora aperto…

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Corre l’anno 2010. Davide, Daniele e Nicola si conoscono già da tempo. Hanno percorso itinerari musicali dif-ferenti con voce, chitarra e basso, ma ora hanno deciso di dare un senso alla propria passione. Vogliono dare una svolta al proprio percorso arti-stico, realizzando un progetto, per cercare di raggiungere un obiettivo concreto. Contattano Silvan, batteri-sta conosciuto e a lungo corteggiato e subito si crea un’intesa, una affini-tà personale ancor prima che musi-cale. Nascono gli Alternativa Marte a dare una direzione, un senso a stili e personalità diverse, verso un’idea di musica condivisa. Nasce un suo-no passionale e raffinato che gioca con interessanti cambi di ritmo. Una musica che valorizza testi ispirati e in-trospettivi che fotografano istanti di vita. E’ rock italiano indipendente.

la musica

Percezioni alternativeTesti e Foto di Omar Argentin, Martina Pandrin.

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E’ rock italiano indipendente.

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“Percezioni” è la realizzazione del loro progetto musicale. Punto di arrivo e di partenza di un percorso personale umano e creativo. Poi arriva Cristian a suonare il basso, ma l’energia non viene meno. Ascoltandoli dal vivo, anche se nella realtà protetta, intima e privi-legiata della loro sala prove, si percepisce chiaramente la loro pas-sione. Capacità e ispirazione, ironia e divertimento, energia e me-lodia scolpiscono il suono della loro musica. Quattro individualità che, abbracciati gli strumenti e preso il microfono in mano, creano un unico suono compatto e vibrante capace di emozionare. Musica dal cuore rock.

“sempre più puntuale è quello che non ti aspetti ma coincide non a caso con quello che non vorresti”

l’essere normale

Alternativa Marte: davide pavan - voce daniele longhin - chitarra

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“la pace che ora stai cercando arriverà soltanto quando ammetterai la tua instabilità”

Verso Marte

[ Guarda il Video ]cristian secco - bassosilvan martellato - batteria

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“torna indietro adesso

per scoprire

che quel che è fatto è fatto

assapora quel che vivrai

tutti quanti

vinti è l’unica realtà

contro questa corsa

mai nessuno

primo arriverà”

Ira

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oltre...La leggenda della bella Lionora

i l museo

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Testi e Foto di Lucia Finotello, Luisella Golfetto, Riccardo Vincenzi.

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Marostica, 1454. Due giovani no-bili, Rinaldo d’Angarano e Vieri da Vallonara, si innamorano della bella Lionora, figlia del Castella-no Taddeo Parisio, e per lei deci-dono di sfidarsi a duello. A quel tempo Marostica apparteneva alla Serenissima Repubblica di Venezia, le cui leggi proibivano i duelli. Il Castellano, per evitare che la contesa tra i due si risolva con spargimento di sangue, sta-bilisce quindi che la cavalleresca sfida avvenga non con le armi ma al nobil ziogo de li scachi. Lionora sarebbe andata in sposa al vinci-tore della partita, mentre la sorel-la minore Oldrada allo sconfitto. Tale decisione avrebbe consenti-to di evitare inimicizie tra le no-bili famiglie. La partita avrebbe dovuto svolgersi “in un giorno di festa nella piazza del Castello da Basso, a pezzi grandi e vivi, armati e segnati delle nobili insegne dei bianchi e neri in presenza del Ca-stellano, della sua nobile figlia, dei Signori di Angarano e di Vallona-ra, dei nobili e del popolo tutto”. La disfida avrebbe dovuto essere “onorata anche da una mostra in campo di uomini d’arme, fanti e cavalieri e fuochi e luminarie e danze e suoni”.

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Una rappresentazione della partita a scac-chi con personaggi viventi fu organizzata per la prima volta, da un gruppo di stu-denti universitari, nel 1923. L’edizione moderna della manifestazione, sulla base del racconto sopra citato, fu ideata e rea-lizzata nel 1954 da Mario Mirko Vucetich, un artista italiano che operò come regista, scenografo, scultore, architetto e illustra-tore, il quale depositò alla SIAE il libret-to della rappresentazione, riconosciuta come opera teatrale. Il libretto contiene tutti i particolari dello spettacolo: l’alle-stimento della piazza, i costumi e le armi. I costumi, realizzati per l’occasione, sono stati disegnati dallo stesso Vucetich, sulla base di studi effettuati su costumi originali del quattrocento. La vicenda è raccontata in dialetto vicentino, i comandi alle milizie sono impartiti nella lingua della Serenis-sima Repubblica di Venezia. In occasione della prima rappresentazione la pavimen-tazione della piazza è stata modificata ap-positamente, riportando il disegno della scacchiera sul lastricato. La manifestazio-ne si ripete con cadenza biennale, negli anni pari, e quest’anno è stato festeggiato il 60° anniversario. La manifestazione ha riscosso molto suc-cesso sin dalle prime rappresentazioni ed è conosciuta sia in Italia, sia all’estero. Lo spettacolo è stato rappresentato più volte al di fuori delle mura della città, anche in paesi stranieri.

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La città, pur possedendo costruzioni di interes-se storico, è nota ormai, anche all’estero, come città della partita a scacchi. Le partite da gio-care vengono scelte tra quelle più famose di-sputate nell’ottocento e nel primo novecento. Queste devono avere inoltre particolari requi-siti: un numero massimo di mosse, avere poche mosse di cavallo ed essere altamente spetta-colari. Nel 2011 la partita a scacchi ha ottenuto dal Ministero del Turismo il riconoscimento di “Patrimonio d’Italia per la tradizione”. Allo spettacolo prendono parte circa seicento persone in qualità di figuranti ed altre duecento persone impegnate nell’organizzazione. I par-tecipanti sono quasi tutti marosticensi, fatta ec-cezione per pochi professionisti esterni ai quali sono affidati incarichi particolari, quali ad esem-pio quello del regista. I cittadini che partecipa-no alla partita sono tutti volontari, collaborano con grande entusiasmo e ambiscono a ricoprire i ruoli più importanti dello spettacolo. Per questo i personaggi della scacchiera vengo-no nominati per meriti: viene scelto chi lavora maggiormente per la realizzazione della mani-

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festazione, compatibilmente con la taglia fisi-ca per poter indossare i costumi. Per scegliere l’oggetto del contendere della partita a scacchi, la bella Lionora, viene fatta una selezione tra le giovani marosticensi. Dagli anni ’80 il Castello Inferiore, fino a quel tempo sede degli uffici dell’amministrazione comunale, è stato aperto al pubblico e in alcune sale è stato allestito il Museo dei Costumi della Partita a Scacchi. I co-stumi di tutti i figuranti, inizialmente noleggiati, ora divengono di proprietà dell’Associazione Pro Marostica e sono conservati nel museo. Sono esposti i costumi dei personaggi della scacchiera, dei contendenti, del Castellano con la sua corte, dei falconieri e di alcuni armati e taluni non più utilizzati. La manifestazione inte-ra, il Castello ed il museo sono gestiti dall’Asso-ciazione Pro Marostica, attualmente presieduta dalla sig.ra Cinzia Battistello, persona dotata di grande entusiasmo per il lavoro che svolge e che riesce a trasmettere questo anche alle per-sone che entrano in contatto con lei.

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L’AccademiaIl termine “grande vecchio” viene spesso associato a qual-che albero secolare. Attorno alla struttura, quasi sempre imponente, si sono create leggende e metafore, con cui raccontarci delle sto-rie.L’albero si compone allo stesso tempo di radici, che affondano saldamente nel terreno e di rami e foglie che si protendo-no in libertà verso l’alto. Ogni ramo, alimentato dalle radi-ci, rappresenta una direzione, una possibilità, un desiderio, un ambizione.Il Grande Vecchio del Circo Italiano (cosi lo definisce Wiki-pedia) è un uomo di 91 anni, che di imponente non ha nulla, ma che mantiene intatta in se la dicotomia caratteristica dei grandi alberi.Sta seduto su una sedia di pla-stica ai margini e osserva, stu-dia, suggerisce e, indiscutibil-mente, si diverte. Non prima di aver fatto di corsa un paio di giri di pista, aver accarezzato gli allievi più piccoli e aver lanciato sguardi complici agli insegnanti.Siamo all’interno di un tendo-ne bianco, in un pomeriggio di novembre, alle porte di Vero-na. E’ questa, nella sua semplicità, l’Accademia di Arte Circense. Sono bastate un paio di telefo-nate, molto cordiali, per fissa-re l’appuntamento.

L’ accademia dei sogniTesti e Foto di Francesco Dori, Alessandro Pagnin, Paola Poletto, Marta Toso.

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Ci ha accolti Andrea Togni, discendente di una delle famiglie storiche del Circo nostrano, che dell’Accademia è il Direttore.Cordiale e sorridente ci ha confermato che non servivano particolari formalità. Ha avvisato i ragazzi e gli insegnanti della no-stra presenza, ci ha acceso le luci e ci ha invitato ad entrare in pista.Scopriremo presto che il suo sorriso, come la sua cortesia, non sono di circostanza; è l’atteg-giamento che ci hanno riservato tutte le donne e gli uomini del circo, adulti e bambini, che ab-biamo avuto la fortuna di incontrare.Il Grande VecchioIl commendatore Egidio Palmiri, cittadino d’Eu-ropa (come lui stesso si definisce) che parla tre lingue senza averne studiata nessuna. Siamo in piedi di fronte alle vecchie foto della

sua famiglia circense. Il padre, la madre, i fratel-li, moto che volano e vecchi tendoni.Nel corso della sua vita è stato allo stesso tem-po “bolide umano” e Presidente per oltre 50 anni dell’associazione di categoria dei Circhi ita-liani; è stato artista, organizzatore, commenda-tore della Repubblica e fondatore dell’Accade-mia. E’ un uomo abituato a raccontare, Palmiri. Raccontare del circo e della vita degli artisti del Circo. Non serve fare troppe domande, Palmiri non si sottrae. Ci racconta dell’impossibilità che il Circo pos-sa sopravvivere senza gli animali, e di come il concetto di domatore di animali sia ormai da decine d’anni sorpassato. La doma non esiste più, gli animali del circo da generazioni nascono in cattività ed il domatore si è trasformato in addomesticatore.

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Ci racconta dei suoi viaggi per il mondo per ve-dere le altre Accademie Circensi. Da quelle russe a quelle cinesi, e ci spiega, sen-za alcun rammarico, le ragioni per cui i nostri ragazzi non potranno, e non dovranno mai, di-ventare come i ragazzi del circo cinesi, soggetti a modalità didattiche “militari” e per fortuna non praticabili qui da noi. Non è questo il suo modello di Accademia.Gli chiediamo se, i giovani delle famiglie circen-si, vogliano scappare da questa vita cosi parti-colare e già tracciata dal filo della tradizione.Con un sorriso ci dice che, per noi abituati a ri-sparmiare tutto l’anno per racimolare il denaro per 15 giorni di ferie, è difficile capire il mondo del circo “che è come stare in ferie tutto l’an-no”. Ci racconta dell’arte della clownerie (l’u-nica disciplina non insegnata all’Accademia), la

più difficile, perché bisogna conoscere tutte le discipline per poter fare il clown, devi essere acrobata, giocoliere, musicista e attore, e devi avere un talento naturale.Gli chiediamo del Cirque du Soleil – E’ un mu-sical, non è circo … e poi il Canada li finanzia tantissimo. Ci racconta del Maestro di giocole-ria, che è andato a prendersi in Russia e che, malgrado non parli una parola di italiano, sta fa-cendo fare incredibili progressi ai suoi ragazzi.Palmiri è orgoglioso di poter scherzare con Alexander che proprio davanti a lui fa roteare in aria decine di clave. E’ uno della famiglia Bou-glione (come dire i Togni o gli Orfei di Francia), ci racconta, ma ha preferito la nostra Accade-mia di Verona alla scuola di circo dei suoi zii, a pochi chilometri da casa, perché lui, per la sua carriera vuole il meglio.

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Il voloAndrea Togni, durante la pausa tra una sessione e l’altra di allena-mento, ci fa sedere accanto a lui e racconta la sua visione dell’Acca-demia.Il circo deve avere la capacità di rinnovarsi e gli artisti circensi non possono più permettersi di essere ignoranti. Nella nostra conversa-zione, la scolarizzazione dei ragaz-zi del Circo è l’argomento a lui più caro. La mattina frequentano le scuole di Verona, nel primo pome-riggio fanno i compiti per casa e poi possono iniziare ad affinare la loro arte, con le dure lezioni in pa-lestra. Quando escono dall’acca-demia trovano facilmente lavoro e noi li aiutiamo in questo percorso.Non c’è solo il mondo del circo, ma ci sono possibilità di impiego nei parchi divertimento, nelle navi da crociera, nell’arte di strada.Nei circhi familiari (quelli piccoli in particolare) prevale invece la ver-satilità e quindi la capacità di fare tante attività e numeri artistici contemporaneamente.Andrea, forte della sua persona-le esperienza di artista del circo, ci ricorda che, per primeggiare nell’arte circense, bisogna punta-re a fare un numero individuale, e nel farlo, bisogna essere l’unico o il migliore in assoluto.Ci parla dei suoi colleghi istrutto-ri, provenienti da tutto il mondo e tutti ex artisti di livello del circo.

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L’istruttore aspetta l’allievo, non c’è insana competizione, ognuno ha il suo tempo all’in-terno dell’Accademia. Con l’affinamento della disci-plina studiata, il rapporto per-centuale tra Maestro/allievi diminuisce, per consentire agli allievi in crescita, di ottenere i livelli più alti di capacità. Andrea sembra un uomo con i piedi per terra anche se è fa-moso in tutto il mondo per la sua abilità nel volo, sorretto solo da tessuti. Un uomo che allo stesso tempo è riuscito ad incarnare il desi-derio di Icaro (uno dei desideri più profondi che anima l’uomo fin dalla nascita) con la concre-tezza e determinazione mana-geriale di dare un nuovo futuro al circo.All’interno del mondo del cir-co, queste filosofie in apparen-za antitetiche (avere i piedi per terra in contrapposizione alla metafora del sogno di poter volare), combaciano e si ren-dono reciprocamente neces-sarie, in quanto, l’avere i piedi per terra è l’unico modo per dare concretezza alle proprie aspettative, muovendosi con la necessaria attenzione di chi ha vissuto quel mondo e di quel mondo conosce aspirazioni e inganni.Per vedere la sua arte circense

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è sufficiente cliccare il suo nome su YouTube o cercare la sua prossima esibizione in uno dei circhi interna-zionali che frequenta da anni.Per vedere la sua arte manageriale è invece sufficiente fare un breve viaggio fino a Verona.I “buoni maestri”Nel nostro girovagare in pista ciò che ci è parso evidente è il legame profondo tra i Maestri e i ragazzi.Il rapporto tra l’istruttore e l’allie-vo è diretto, forte, emotivo. Non mancano gli applausi di inco-raggiamento e sono costanti gli esempi sul campo. Il mondo del circo è sempre sta-to trasnazionale e quindi non sor-prendono i cognomi bulgari, italia-ni, russi, marocchini o inglesi.Quel distacco emotivo, tra inse-gnante e allievo (entità talvolta sconosciute l’una all’altra) e che rappresenta forse uno dei maggio-ri limiti dell’istituzione scolastica attuale, dentro il tendone viene bypassato dall’aver fatto, pur nelle diversità, le medesime esperienze, dall’aver affrontato le medesime sfide, e perché no, dall’indossare in palestra, gli stessi abiti.Forse è per questa serie di ragio-ni che l’Accademia di di Verona è considerata la miglior scuola cir-cense dell’Europa occidentale. I ragazziL’Accademia conta una trentina di allievi a convitto. Dormono, man-giano e vivono nelle strutture della scuola, e sono sempre accompa-

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gnati da un tutor che li assiste.Stare dentro l’Accademia gli permette di frequen-tare le scuole (...puntiamo a garantirgli almeno le scuole superiori) e di allenarsi nel contempo. Un ambiente sicuro dove affinare la propria disciplina.Nell’accedere all’Accademia viene data preceden-za ai ragazzi provenienti dalle famiglie circensi, ma c’è spazio per ragazzi che provengono dalle aree limitrofe anche se c’è una lunga lista d’attesa.Dei ragazzi che frequentano la scuola non possia-mo e non sappiamo scrivere nulla di più.Per raccontare le loro storie, i loro sogni e le loro aspirazioni, ci affidiamo alla forza e alla capacità delle immagini. Assolvendo alla nostra funzione di “scrittori con la luce”, siamo certi che nessuna nostra parola “scritta” potrà raccontarli in modo migliore.

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Al giorno d’oggi è difficile trovare un sog-getto che non sia stato fotografato alme-no una volta.Con l’avvento dei telefonini dotati di vi-deocamera e delle macchine fotografiche digitali tascabili, tutti, in qualsiasi momen-to, sono in grado di immortalare l’attimo e così ecco milioni di immagini che ci som-mergono tutti i giorni attraverso gli innu-merevoli social network.Alcuni “fotografi” sono così fortunati da essere nel posto giusto al momento giu-sto da riuscire a scattare delle belle foto, ma come detto, è solo questione di fortu-na e quasi certamente la maggior parte di loro non sarebbe in grado di ripetersi.Questa inflazione di scatti ha portato poi inevitabilmente l’osservatore ad assuefar-si ad ogni tipo di immagine proposta ad-dormentando il senso estetico.Esistono però e per fortuna degli universi che possono ancora dare delle belle e for-ti sensazioni di stupore pur appartenendo al mondo del quotidiano.Questi tipi di fotografia richiedono però una certa dose di esperienza, molta pa-zienza e un pizzico di creatività.Uno di questi universi è il mondo delle gocce.In ogni momento della nostra giornata

molti liquidi cadono, si espandono, colli-dono e si asciugano.Pensiamo banalmente alla nostra prima colazione: il bicchiere con il succo gocciola sul tavolo schizzando in ogni direzione.Un pezzetto di biscotto zuppo di latte si stacca e cade nella scodella creando onde e schizzi che si innalzano verso il bordo della tazza finendo sulla nostra camicia bianca e pulita. Noi però riusciamo a vedere solo l’effetto finale di questi piccoli movimenti: il tavolo bagnato, la camicia macchiata, ecc...Questi movimenti però sono talmente ve-loci da non essere colti dall’occhio umano.Ma nell’attimo in cui due gocce cadono e toccano la superficie accadono cose incre-dibili. Eccovene due esempi ripresi con un video e con una foto: [ Guarda il video ]

T 1/200 – f/16 – ISO 200 – cavalletto – flash 1/64 di potenza – foto Roberto Tacchetto © 2013

Fotografia ad alta velocità(Prima Parte)Testi e Foto di Roberto Tacchetto.

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la tecnica

La tecnica usata per realizzare queste foto-grafie si chiama High Speed Photography (fotografia ad alta velocità) perché riesce a congelare anche i movimenti più veloci che l’occhio umano non riesce a cogliere.Vediamo di spiegare più in dettaglio que-sta tecnica.Otturatore contro Flash.E’ proprio il caso di dire “cogli l’attimo” ma quanto breve è questo attimo?Molti sono convinti che per ottenere una foto ad alta velocità servano tempi velo-cissimi dell’otturatore. Questo non è vero per due motivi:- Le migliori macchine arrivano ad 1/8000 di secondo ma molti eventi di high speed photography non possono essere fermati a questa velocità.- Per poter scattare ad un 1/2000 e oltre serve una quantità di luce che può essere fornita solamente da attrezzature profes-sionali.L’otturatore, composto da due tendine che si inseguono per il tempo impostato, espone la superficie del sensore in 1/8000 di secondo ma, per quanto velocemente, non nello stesso identico momento. Questo fatto nella fotografia ad alta velo-cità potrebbe dare vita a fastidiose scie o a perdita di nitidezza.Fortunatamente esiste il flash, accessorio dalla straordinaria capacità di emettere lampi intensi e di durata molto breve, che riesce ad emettere lampi di 1/30000 di se-condo, cioè 30 microsecondi o se preferi-te 0,03 millisecondi (ms).

Facendo le dovute proporzioni un ottu-ratore può impressionare a 1/8000 di se-condo (0,000125 secondi / 0,12 ms): una velocità notevole. Se consideriamo la velocità del lampo di 30 microsecondi (0,00003 secondi / 0,03 ms), ci accorgiamo del perché il flash sia un accessorio indispensabile per questo tipo di fotografia. Consideriamo inoltre, come se non ba-stasse, che la maggior parte delle macchi-ne arriva a massimo 1/4000 cioè 0,25 mil-lisecondi o, peggio ancora, a 1/2000 cioè 0,50 millisecondi.

Tempo MillesecondiOtturatore 1/8000 0,12

1/4000 0,251/2000 0,50

Flash 1/30000 0,03

Attrezzatura necessaria.Fatta questa premessa passiamo ad elen-care l’occorrente per realizzare immagini come quelle appena viste:- Macchina fotografica che permetta la regolazione completamente manuale dell’esposizione.- Obiettivo di focale lunga o medio lunga (personalmente uso un 100mm macro).Obiettivi di qualità superiore produrran-no risultati decisamente migliori. La focale lunga è necessaria per poter sfocare lo sfondo e far risaltare il feno-meno.

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- Treppiedi- Flash- Gelatine colorate per flash- Lastre di plexiglass opaco- Recipiente in cui far cadere le gocce d’acqua- Generatore di gocce (Contagocce, Deflussore per flebo)Preparazione del set.L’istallazione del set è una fase molto de-licata che richiede un minimo di prepara-zione. Andiamo a vedere come realizzarlo. Per cominciare posizioniamo il recipiente dove cadranno le gocce, cercando di pre-servare il più possibile l’attrezzatura da schizzi di liquido come lenti e flash.Personalmente uso un sottovaso da fiori lungo e stretto a cui ho applicato una ver-niciatura bianca al fondo in modo da sfrut-tare la luce che rimbalza.Decidiamo poi lo sfondo che darà colo-re alle nostre foto; ciò che si trova infatti dietro il recipiente viene riflesso dalla su-perficie e parzialmente dalle gocce, ren-dendo necessario approntare uno sfondo verticale alle spalle del recipiente dove si svolgerà l’azione.A questo punto serve una fonte di goc-ce che può essere una qualsiasi sorgente; la cosa fondamentale è che non si possa muovere obbligandole a cadere sempre nello stesso punto.Questo è un dettaglio essenziale per la buona riuscita delle foto dato che usando delle focali lunghe, la profondità di cam-

po diminuirà drasticamente e una goccia fuori asse di qualche millimetro dal punto di messa a fuoco renderà la foto sfocata e quindi da cestinare. Per poter trovare la corretta messa a fuo-co si procede nel seguente modo: si fa ca-dere una goccia di acqua e dove questa tocca la superficie si posiziona un segnali-no (tappo di una penna a sfera, cilindret-to metallico, ecc) e si procede alla messa a fuoco di quel punto; una volta fatto si deve disabilitare l’autofocus in modo che, al momento dello scatto, la macchina non provi a focheggiare facendo svanire tutti i nostri preparativi.Dopo aver bloccato la messa a fuoco, né la macchina, né il treppiedi, né il genera-tore di gocce dovranno essere mossi, ruo-tati, spostati o toccati, in caso contrario si dovrà ripetere la messa a fuoco appena descritta.La macchina deve essere impostata in modalità completamente manuale, con il flash attivo e in gestione manuale (non ETTL), selezionate la massima velocità permessa per l’uso col flash (velocità di sincro flash, dipende dalla macchina e può arrivare sino a 1/500) e il diaframma impo-stato da f/11 a f/16 per avere una discreta profondità di campo.A questo punto si possono effettuare de-gli scatti di prova per verificare che effet-tivamente il fuoco sia corretto.La massima velocità di sincro flash è una caratteristica importante dato che nor-malmente queste foto vengono scattate

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la tecnica

in luce ambiente: come detto nell’introdu-zione il flash rappresenta un importante accessorio per bloccare l’istante, ma se il tempo dell’otturatore fosse troppo len-to, il sensore catturerebbe anche la luce ambiente, producendo una fastidiosa scia sulle parti in movimento durante lo scattoLa parte più difficile ora è riuscire a scat-tare nel momento giusto in cui la goccia tocca la superficie dell’acqua.Una volta rilasciata la goccia, lo scatto per cogliere il momento dell’impatto è lascia-to al vostro occhio e alla vostra percezio-ne.

Gli scatti “buoni” saranno circa 1 su 20 e riuscirete a congelare solo alcuni dei nu-merosi fenomeni che si genereranno nel corso della caduta (rimbalzo e ricaduta della goccia) per ottenere foto simili a queste:

Lo scopo è quello di immortalare imma-gini sempre più accattivanti, pertanto, per migliorare la nostra tecnica, dovremo mu-nirci di una attrezzatura un po’ più sofisti-cata.Sarà mia cura nel prossimo numero approfondire questo argomento. (Parte seconda).Per ora, sperando di avervi incuriosito, vi lascio con questa immagine e vi aspetto alla prossima puntata.

T 1/250 – f/8 - 200 ISO – Cavalletto - Flash a 1/64 di potenza Foto Roberto Tacchetto © 2014

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oltre... la fotografia

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Questa rubrica è dedicata a fotografi emergenti del nostro territorio.Ci sono numerose persone che affasci-nate da questa arte le si sono avvicina-te non proprio da giovanissimi colti da una grandissima curiosità e passione.E’ il caso di Elisa Biasutto nata a metà de-gli anni 60 a Padova, ha frequentato gli studi classici e lì è vissuta fino all’età di 26 anni.Laureata in Lettere e Filosofia con indi-rizzo Estetica a Padova, si è occupata di Storia dell’ Arte Contemporanea.Attualmente vive e lavora a Venezia dove si è trasferita.Appassionata di cinema e quindi av-vezza al mondo dell’immagine ha però iniziato a fotografare solo da qualche anno con buoni risultati come potrete giudicare da alcune sue foto che pub-blichiamo.

Quando hai cominciato a fotografare?Ho iniziato poco meno di quattro anni fa, è stata come una folgorazione, avevo già di-mestichezza con le arti visive ma le uniche foto che avevo fatto fino ad allora erano le solite fotografie delle vacanze che fanno tut-ti. Da quel momento spinta dalla curiosità e dalla passione ho deciso di approfondire la conoscenza della materia frequentando alcu-ni corsi.Ho iniziato con un “base” presso l’Univer-sità Popolare di Mestre, ho proseguito con un altro corso, più approfondito, con Miche-

le Gregolin, fotografo professionista che ha fatto dell’insegnamento la sua missione.Ho poi continuato nel mio percorso fotogra-fico con un “avanzato”, presso l’Università Popolare di Camponogara tenuto sempre da Michele Gregolin.Ho infine preso parte ad alcuni work shop sulla fotografia di ritratto.

Quali sono i tuoi interessi come fotografa?Mi piace molto la fotografia di ritratto in stu-dio anche se non ho ancora acquisito le co-noscenze necessarie per ottenere i risultati

Elisa BiasuttoIntervista di Roberto Tacchetto.

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la fotografia

che vorrei. Ho anche acquistato un set di luci per l’illuminazione in studio ma è difficile usarle bene senza una adeguata preparazione e tem-po per la sperimentazione.

Oltre a questo che altro tipo di fotografia ti pia-ce?Mi piace molto la Street photography, i paesag-gi lagunari e la spontaneità dei bambini.

Hai in mente qualche progetto fotografico per il futuro?Mi piacerebbe, come ho detto, imparare a co-struire e gestire un set per il ritratto in studio e ho la ferma intenzione di farlo a breve.

Qual è la foto che vorresti fare?Ho in mente in particolare un ritratto e spero di poterlo realizzare al più presto.

Che attrezzatura usi?Possiedo una normalissima reflex e fotografo, volutamente, solo con un 50mm f/1,4.Ho scelto questa impostazione perché pur es-sendo più “scomoda” sono costretta a ragio-nare e a avvicinarmi ai soggetti per ottenere l’immagine che desidero.Con un obiettivo zoom perderei questa prero-gativa.

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oltre... la fotografia

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oltre...lo scatto

Che cosa può trasmettere una foto? Quali emozioni può suscitare? E ancora, mostra la realtà o libera la fantasia? In questa rubrica cercheremo risposte a queste domande attraverso lo sguardo di persone comuni. Puoi lasciarci anche tu la tua opinione inviando una mail a: [email protected]

La Foto di questo numero – “Migrant Mother” di Dorothea Lange - 1936

Alessia, 33 anni, ImpiegataDisperazione, tristezza, angoscia, preoccupazione.

Stefano, 45 anni, Infermiere Una donna consumata dopo aver cresciuto tanti figli.Vania, 38 anni, OperaiaBellissima foto, sicuramente parla di un periodo diguerra, credo si tratti della II Guerra Mondiale.

Mara, 38 anni, ManagerUna donna che guarda verso qualcosa che i bambininon hanno il coraggio di guardare.

Elisa, 26 anni, InfermieraNello sguardo della donna si vede qualcosa di scon-volgente.

Stefano, 52 anni, ManagerUna donna che cerca con lo sguardo qualcosa che le serve per i suoi figli.

Testi di Stefano Berto, Marta Toso.

Migrant mother fu probabilmente quella che tutt’oggi viene considerata un’icona della storia della fotografia: il soggetto è Florence Owens Thompson, una donna di 32 anni, madre di sette figli, immortalata nei pressi di un campo di piselli in California (il titolo originale, infatti, è Destitute Pea Picker), secondo molti, Florence Owens Thompson è l’icona della Grande Depres-

sione. La Lange scattò l’immagine durante una visita ad un campo di raccolta di ortaggi in California nel Febbraio 1936 e rese al meglio la resistenza di un’or-gogliosa nazione che si trovava nel bel mezzo di una crisi mai vista prima.Esiste un curioso aneddoto circa questa fotografia: nello scatto originale (conservato alla Library of Con-gress di Washington), appare una mano in basso a destra, che nella foto andata in diffusione di stampa è stata ritoccata.

Francesca 18 anni, Studentessa La povertà, e la ricerca d’aiuto.

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oltre... il libro

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L’uomo che raccoglievale alghe

Testo di Francesco Dori.Foto di Massimo Bonutto, Roberto Tacchetto.

Il libro “L’uomo che raccoglieva le alghe”, è sta-to presentato in anteprima, in occasione di una “caldissima” serata di fine novembre, nella sala gremita del Teatro Dario Fo di Camponogara.Il lavoro, ha rappresentato per l’autore Michele Gregolin, il compimento di un percorso che si è snodato, nella sua vita umana e professionale, per oltre 30 anni.Dai primi scatti del Mulino Stucky nel 1976, fino al percorso più recente, in balia di holding fi-nanziarie per ottenere, ovviamente con la con-sueta determinazione, i permessi necessari per poter immortalare, con la sua Leica, i “segni del tempo”.Una sfida per l’autore, che in una sorta di con-tagio emotivo, ha toccato direttamente molte

delle persone presenti alla serata, che con Gre-golin “insegnante di fotografia”, ogni settima-na condividono la passione per la materia (dai corsi di approfondimento alle serate di Campo-nogara Fotografia).Il materializzarsi del libro, consegna la storia personale che l’autore vuole raccontare, alla sua più compiuta funzione, quella di “testimo-nianza” di un mondo che forse non c’è più, ma che ancora, per chi ha voglia di ascoltare, parla. Ed il suo parlare, attraverso le foto dei luoghi abbandonati, colorate dai forti contrasti del Bianco e Nero di Gregolin, ha la “voce del si-lenzio” dei tanti uomini e donne che ci hanno vissuto, lavorato, sofferto.E’ un lavoro autobiografico “L’uomo che racco-glieva le alghe” perché l’investitura personale è evidente, talvolta trasbordante, come dice bene il “suo maestro” Roberto Salbitani nella sua illuminata prefazione al libro. Oltre 70 foto, intervallate da commenti letterari che ne cadenzano lo scorrere del tempo e del-la storia e che vanno rigorosamente guardate dall’inizio alla fine, rispettando il flusso di vita dell’autore.Un progetto “L’uomo che raccoglieva le alghe”, che apparentemente può sembrare pessimista, ma che nella realtà, come si mostra nello scor-rere delle pagine, non lo è. Il filo di speranza che attraversa il suo lavoro viene bene evidenziato nell’altra prefazione, quella dell’amico e collega Gianluca Amadori.I testi di Salbitani e Amadori anticipano le pa-role dello stesso autore che, identificandosi nell’uomo che raccoglieva le alghe, si mette a nudo e racconta la fragilità, le incertezze, le paure, ma anche la forza del “lavoro inutile”, quello del fotografo testimone.

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oltre...il libro

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E’ vero, i luoghi che raccontavano una storia, i luoghi vissuti e ora abbandonati, sono stati sostituiti dai nonluoghi, quegli spazi dell’anoni-mato (infrastrutture di trasporto, catene alber-ghiere, centri commerciali) ai quali, parados-salmente si accede fornendo una prova della propria identità. In una sorta di riscatto però, la natura e la sua estensione spirituale, alla fine si riappropriano dei luoghi, gli restituiscono la vita biologica, in precedenza sottratta dalle leg-gi inesorabili del consumo e della funzionalità.Allora l’inutilità del lavoro dell’uomo che racco-glie le alghe assume finalmente un ruolo rile-vante. Rimettere a posto le cose, rinascere.

[ Guarda il video ]

Michele Gregolin durante la presentazione del libro

Il prossimo incontro di presentazione del Libro:27 Febbraio 2015 ore 18.00 presso Centro Cul-turale Candiani a Mestre (VE).

E’ possibile acquistare il libro scrivendo a [email protected] al prezzo di € 30,00 + spese di spedizione.

Michele GregolinIntervista di Lucia Finotello

Michele Gregolin, veneziano di origine, si è avvicinato alla fotografia da ragazzo, frequen-tando un corso di Roberto Salbitani. Diventato fotografo per amore più che per mestiere, ha collaborato con numerose testate giornalistiche nazionali ed estere. Oggi, che l’editoria è cam-biata radicalmente, si dedica anche all’insegna-mento cercando di trasmettere agli altri la sua visione della fotografia oltre, ovviamente, alla tecnica.

Come si è sviluppato questo progetto: è sta-to pensato dopo aver scattato le fotografie sul tema specifico oppure nasce da un’idea prece-dente? L’idea nasce nel 1976: è un progetto ben pre-ciso che presenta un percorso articolato, per il quale ho ricercato, a lungo, le immagini che lo rappresentassero.

Il pubblico presente alla presentazione del libro

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oltre...il libro

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Qual è il significato del titolo del libro: “L’uomo che raccoglieva le alghe”? La storia racconta la vita di un uomo. Non ho voluto fare un riferimento autobiografico diret-to. Inizialmente il libro doveva chiamarsi “Silen-zio”, perché è la sensazione che provi quando entri in questi spazi abbandonati. Mi sono riferi-to invece ad una persona esistente. Ho trovato così un parallelismo tra quest’uomo e gli edifici lasciati a morire che diventano spazi inutili.Dato che il racconto descrive la storia di un uomo, come mai nei suoi scatti non compare alcuna persona? In realtà intendo la storia dell’uomo come la sto-ria della vita. L’uomo è una parte fondamentale, cioè il soggetto del racconto, però può anche non essere rappresentato. Ho inteso l’uomo come soggetto invisibile della storia. Lo stes-so è comunque presente all’interno del libro in tante situazioni, dove compaiono oggetti ap-partenuti all’uomo quali ad esempio le scarpe abbandonate, l’orologio, i libri, il giocattolo del bambino. L’assenza dell’uomo nelle foto inoltre si adatta maggiormente a rappresentare alcuni concetti astratti, legati comunque alla persona, quali la morte, la fede. Nelle foto sono presenti molti simboli. Nell’ultima parte del libro vi è la natura che si impossessa degli spazi e che, per me, rappresenta la rinascita. Questo libro percorre la vita in senso cronolo-gico?Ho rivoluzionato tutto. Contrariamente questo libro nasce dalla morte, che dovrebbe essere alla fine, morte dei luoghi, di quest’uomo. Non una morte fisica ma interiore. Piano piano, at-traverso un percorso di conoscenza, dove i ri-flessi rappresentano il doppio io, con l’avvici-narsi alla fede, l’uomo torna a vivere, in senso

lato, perché lui non è mai morto. Quindi c’è la rinascita, cioè l’entrare in un aspetto nuovo del-la vita. Non è la rinascita di un uomo ma di un modo di essere, di un liberarsi. Nelle foto sono presenti neri molto cupi preva-lenti sui bianchi: ciò è legato ad una visione pes-simistica della vita? Fondamentalmente nella vita di ogni uomo sono più le ferite delle gioie. Spesso, quando fai un resoconto della tua vita, ti ricordi più i momenti brutti di quelli belli. Il nero, dal punto di vista fotografico, rappresenta il lato pessimi-stico delle cose, il bianco invece rappresenta quello ottimistico. Allora è questa la misura con la quale un uomo deve fare la sua valutazione; spesso e volentieri in questa ipotetica vita è la parte brutta che prevale su quella bella. Io co-munque non vedo la vita in modo pessimistico, tutt’altro. Questo libro è difficile da compren-dere. Le alghe poi ritornano. Se questa sofferenza se ne va con le alghe potrebbe anche essere che ritorni? Credo che quando capisci nella vita la motiva-zione delle problematiche che hai avuto e ti li-beri di queste, poni poi una barriera. Nella pre-sentazione dico che il lavoro di quest’uomo è per molti un lavoro inutile. Invece questo, oltre a fare il suo lavoro e dare senso alla spiaggia, alla sua vita, allo stesso tempo fa anche un la-voro che lo aiuta a liberarsi delle “cose”. Nel pulire la spiaggia, idealmente pulisce se stesso.Perché la scelta di scattare in bianco e nero?Perché nasco come fotografo in bianco e nero e continuo a farlo. Continuo a scattare con la pel-licola. È una fotografia molto interessante per-ché riesce, attraverso le gradazioni di grigio, a

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raccontare i mille colori che non ci sono. Una visione ancora una volta che ti fa immaginare… La scelta risulta obbligata, in quanto se raccon-to la vita di un uomo che non c’è, simboli che vanno visti in tutt’altra maniera, diventa ovvio raccontare i colori visti in modo diverso, ovvero in gradazioni di grigio per poterli immaginare.

Michele Gregolin intervistato da Franco Tanel

Come sono state selezionate le foto?Per la difficoltà del percorso, ho fatto io una prima selezione per trovare il racconto. Poi mi sono confrontato con Marta Balello, che mi ha aiutato molto nella scelta, in quanto la storia era già definita. Ci sono solo quattro scatti a cui non avrei rinunciato: quella in apertura del li-bro, la curva con bianchi e neri fortemente con-trastati, quella dello squarcio sul tetto, quella della scala con la scritta “ti amo” e quella, alla fine del libro, con i tre rami. Quella della scala rappresenta il momento in cui l’uomo capisce che la sua vita ha una svolta. Da questa imma-gine il libro cambia completamente. La prima parte del libro è il racconto di una vita di sof-ferenza, la seconda parte è il racconto di una vita vista con occhi diversi, con la voglia di ar-

rivare ad essere libero anche mentalmente. In questo caso la scala è il salire verso la fede, che potrebbe anche non essere quella in Dio, ma verso qualcosa a cui aggrapparsi.Le citazioni?E’ stata una scelta molto difficile, perché biso-gnava trovare delle citazioni che seguissero il percorso di luce. La luce è la parte chiave del libro. In questo racconto, devo rapportarla all’uomo che raccoglieva le alghe. Non la vedo come luce che illumina, ma come acqua, cioè materia. Identifico la luce come l’alta marea che si porta via le alghe e, con queste, porta via al-cune sofferenze di questo ipotetico uomo.Questo percorso porterà ad altri progetti? Fare un libro è molto impegnativo, porta vie molte energie. La mia idea è che la fotografia non sia un unico scatto ma un susseguirsi di scatti. Ogni singolo scatto deve costituire un racconto, legato comunque ad altre immagini che continuano a raccontare. Sto raccogliendo alcuni scatti perché mi piacerebbe raccontare il prima e il dopo dell’uomo delle alghe.

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oltre...il libro

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oltre... l'evento

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Francesco Cito nasce a Napoli nel 1949. Free-lance e fotoreporter di fama internazionale, vin-citore di numerosi premi per i suoi reportage di indagine sociale (tra cui due World Press Photo per i suoi lavori sul palio di Siena e sui matrimo-ni napoletani) e sui conflitti in Medio oriente. Per Ferdinando Scianna “è forse oggi il miglior fotogiornalista italiano. Ha l’istinto del fatto, la passione del racconto, la capacità di far passa-re attraverso le immagini, con forza di sintesi e rigore visivo, l’essenziale delle cose”. Il diret-tore di Epoca dopo aver visionato il suo lavoro su Lorenteggio disse “Cito è uno che riesce a trovare la merda anche là dove non c’è” e per Francesco è un complimento perché per lui “un buon giornalista è colui che riesce a scavare; e lo stesso vale per il reporter”. E’ una persona che staresti ad ascoltare per ore, disponibile e loquace nel rispondere ad ogni domanda con dovizia di particolari, estrema analisi e … qual-che simpatico aneddoto.Autodidatta per cause di forza maggiore: a dirla tutta Francesco da piccolo voleva fare il prete! Ma il primo giorno di scuola le suore francesi lo presero a bacchettate facendogli cosi cambiare idea sulla sua vocazione. La passione per la fo-tografia nasce da ragazzo sfogliando il settima-nale Epoca e aspira a pubblicare un giorno pro-

Francesco CitoIntervista di Paola Poletto.

Michele Gregolin con Francesco Cito durante Camponogara Fotografia

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l'evento

prio su questa rivista. Vede le fotografie realizzate da Walter Bonatti dei posti più di-sparati del mondo, sogna l’avventura e con-fida di emulare il suo idolo. Immagina che per poter fare l’avventura sia necessaria una macchina fotografica. Sorridendo ci confida che quando, anni dopo, incontrerà di perso-na il sig. Bonatti, si presenterà a lui dicendo-gli “Caro Walter sono Francesco e tu…mi hai rovinato la vita!”. Crescendo si rende però conto che l’esplorazione è qualcosa di diver-so, ma che comunque la fotografia sarebbe stata il mezzo utile per conoscere le diverse realtà quotidiane della Vita; decide così di fare il fotografo in maniera seria e nel 1972 parte per Londra con lo scopo di studiare fo-tografia frequentando i corsi al Royal Art College. Qui si accorge che non è cosi facile come crede: i corsi sono accessibili solo a li-vello universitario, tutti in inglese e molto di-spendiosi. Non torna indietro, ma decide di fermarsi comunque nella capitale inglese e per mantenersi si cimenta in diversi lavoretti, come il lavapiatti, l’aiuto cuoco, in night club privati, il facchino da Harrods a Knightsbrid-ge (dove si licenzia di sua spontanea iniziati-va alla prospettiva di diventare dopo molti anni, e solo con grande impegno, come il collega anziano prossimo alla pensione che seduto sulla sedia sfogliava un giornale di “dubbio gusto”); si lascia sfuggire pure qual-cosa sulla vita di coppia con la sua ragazza irlandese, di come fosse difficile vedersi poi-ché lei lavorava di giorno e lui la sera. All’età di 23-24 anni riallaccia i rapporti con un suo vecchio amico frequentatore delle case da gioco tramite il quale inizia a frequentare i casinò. E’ proprio con il gioco d’azzardo (e a quanto ci ha detto era pure bravo) che riesce a racimolare le 250 sterline necessarie per

acquistare la sua prima reflex, una Nikon F2 con il 24mm, e dedicarsi finalmente e seria-mente alla fotografia da perfetto autodidat-ta e come fotografo di musica. “Se so foto-grafare non lo so. Mi son cimentato a fare fotografie durante l’assedio della Spaghetti House a Knightsbridge. Sto cercando di fare fotografia e voglio fare il fotorepoter” è cosi che Francesco risponde ad uno dei clienti del night club dove lavorava e con il quale aveva stretto amicizia che gli chiese “ma sai foto-grafare?”. Non è un cliente qualunque. E’ il direttore di Radio Guide, il supplemento del magazine inglese Tv Times, che dopo aver visionato alcune fotografie di Francesco de-cide di assumerlo. Così per un anno e mezzo, e senza nessuna esperienza in materia, inizia a lavorare per il giornale e a seguire musicisti jazz, concerti rock, pop,... presso la redazio-ne ha modo anche di imparare nozioni im-portanti di editing come l’impaginazione, la costruzione di una foto, il taglio che deve avere in base al posto che andrà ad occupare nella pagina. È questa la sua “scuola” dove Francesco capisce di aver le doti necessarie per poter perseguire il suo sogno, che nel frattempo sta prendendo una direzione leg-germente diversa. Non si accontenta più del mondo della musica, vuole conoscere più da vicino tutti gli aspetti del Mondo, nel suo complesso. Anche il settimanale Epoca, che tanto aveva sfogliato fin da bambino, ora ap-pare superato e il suo nuovo obiettivo è pub-blicare sul Sunday Time Magazine, conside-rata in quel momento una delle migliori riviste in Europa. Ci riesce nel 1978 pubbli-cando un reportage sul contrabbando di si-garette realizzato a Napoli, documentando il traffico delle bionde direttamente dall’inter-no dell’organizzazione (arrivando a imbarcar-

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si nei motoscafi dei contrabbandieri trovan-dosi anche a scaricare le casse con la merce). Successivamente, tra la fine del 1982 e il 1983, realizza, sempre a Napoli, un reporta-ge sulla camorra che verrà pubblicato non solo sul Sunday Times e Epoca, ma anche su molte altre riviste internazionali, tra cui Stern, Life, Die Zeit Magazine. Tornato in In-ghilterra dal Libano legge sui giornali di un considerevole numero di morti a Napoli cau-sati dallo scontro tra bande camorristiche e decide di proporre il lavoro al Sunday Time. Il giornale gli nega l’assignment (la mafia non era mai stata fotografata da nessuno) ma lo agevola concedendogli gli accrediti necessa-ri per presentarsi al Ministero degli Interni Italiano e alla Questura di Napoli. Arrivato a Napoli però gli viene ordinato di rimanere in sala stampa in attesa del fatto e una volta avvisato si sarebbe dovuto recare sul posto con un mezzo proprio. In questo modo però Francesco capisce che può realizzare solo scatti dell’azione conclusa, come le classi-che immagini usate dai mezzi di informazio-ne dove dietro la porta spalancata dal calcio dell’agente non ci sta già più nulla di interes-sante da raccontare. E questa non è esatta-mente la concezione di reportage come Francesco la intende. Alla base dell’afferma-zione dei suoi lavori si trova il suo modo di fotografare. Per Francesco è fondamentale introdursi nella realtà che si deve documen-tare e viverla dall’interno, per quanto possa essere difficile farsi accettare e conquistare la fiducia e il rispetto dei soggetti, ci si deve calare nella loro mentalità per arrivare a co-struire e raccontare la storia. Lui vuole stare dentro la storia, vuole entrare dalla porta prima ancora che ci entri la polizia, con l’a-

zione ancora in pieno svolgimento (dice infatti di usare il 18mm fisso per essere a contatto con il soggetto, creare un rapporto diretto con lui e per far avere allo stesso la consapevolezza di esser fotografato in quel preciso momento, mentre il 300mm lo usa solo per colmare quan-to non riesce a realizzare con il 18 “io il 300 manco lo so usare” aggiunge sorridendo). Ac-cetta comunque la proposta del capo del Gabi-netto, ma non si chiude in sala stampa ad aspet-tare la notizia, no. Lui gira per gli uffici e fa amicizia con i vari funzionari fino a quando, un giorno, un capitano gli chiede se gli va di fare le foto al compleanno della figlia la sera successi-va. Cito acconsente…e da quel momento in poi partecipa alle azioni della polizia in diretta, se-duto sulla volante e riesce ad entrare per primo sulla scena. Sul rapporto tra editoria e fotore-porter: Francesco ha sempre lavorato quasi esclusivamente per dei settimanali ed è grazie allo stretto contatto con le diverse redazioni di ciascuno di essi che si rende conto di quanto diversamente funzioni l’editoria inglese da quella italiana, del profondo abisso che separa le due. Assieme al photo editor Michael Rent del Sunday Times, impara se una storia funzio-na o no. “Come realizzerai il lavoro? Quale sarà la foto di apertura?” sono le due domande ba-silari fatte dall’editore ogni volta che Francesco gli propone un’idea. Apprende che prima di tutto, per fare un reportage, si deve avere il progetto ben chiaro e definito nella propria te-sta e, soprattutto, si deve essere in grado di farlo visualizzare a chi ti sta davanti. Si deve de-scrivere quella che sarà la foto d’impatto di apertura “Quando si ha chiara la foto di apertu-ra, il 50% del servizio è fatto”, quale sarà la foto che porterà il lettore dentro la storia, quale la foto che farà capire il soggetto e il tema tratta-

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l'evento

ti. Nelle redazioni italiane non funziona così; ”io a Epoca ci son arrivato come quello che aveva pubblicato sul Sunday Times!” ci dice con tono quasi sarcastico. Mentre ci illustra la panoramica editoriale italiana ci rendiamo subito conto che l’editoria stessa è cambiata nel corso degli anni. Le tematiche forti e sco-mode non interessano più, o meglio dire sono considerate scottanti e fastidiose. Ci dice che i giornali italiani non sono più inte-ressati ai temi come la camorra, la fame nel mondo, la povertà; il reportage stesso è un settore oramai accantonato dalle redazioni. I giornali oggi sopravvivono grazie alle inser-zioni pubblicitarie “ma chi vorrebbe veder la pubblicità del proprio champagne accanto a un bambino che muore di fame?”. Di conse-guenza gli editori non investono sugli inviati e viene cosi a mancare la figura del commit-tente. A malincuore ci confida che avrebbe voluto partire per Gaza quest’anno, ma si è “inventato di fare l’imbianchino pur di non partire. Anni fa partivi anche autonomamen-te e facevi il tuo reportage, tanto avevi la certezza che una volta rientrato ci sarebbero state sicuramente delle redazioni che avreb-bero pubblicato il tuo lavoro se fosse stato un buon lavoro. Oggi chi ti pubblica qualco-sa? Nessuno. Eppure sono convinto che qualcosa avrei portato a casa” aggiunge par-lando di come sia cambiato il modo di perce-pire il giornalismo, scuotendo la testa ama-reggiato. Come spronare un giovane di oggi a perseguire il suo desiderio di fare reporta-ge: la curiosità è il motore essenziale di un fotoreporter. È la curiosità che deve spinger-lo a studiare la storia, ad apprendere più in-formazioni possibili per arrivare sul luogo preparati. E una volta arrivati, guardare con

propri occhi quello che succede e parlare con la gente. Oggi i giovani sono interessati maggiormente all’attrezzatura o ai pixel del-la loro reflex e non al soggetto che si trovano davanti, alla sua storia, al fatto in sé. Un bra-vo fotoreporter deve avere la coscienza di guardare e percepire cosa gli succede attor-no; purtroppo oggi sono tutti presi a scattar-si i selfie! “Dietro la fotografia deve esserci un’idea… e al giorno d’oggi sempre più spesso questa idea è assente. E’ questo il problema!” Scattare la foto, aiutare una per-sona o mettere in salvo la vita: per France-sco, il mestiere di fotoreporter non ha nulla di eroico. Lui stesso in più di un’occasione si è chiesto cosa stesse facendo li, in quel mo-mento. E di getto afferma che “la fotografia non racconta sempre il vero”. La fotografia serve a raccontare storie e a testimoniare un determinato momento, ma “dipende dai punti di vista”. Per spiegarsi meglio, ci rac-conta di quando si recò in Iraq per seguire la prima guerra del golfo e una volta arrivato li assieme a molti altri fotoreporter si trovaro-no davanti a due soldati dell’esercito ameri-cano vestiti di tutto punto con le attrezzatu-re nuove e scintillanti, pronti in posa per essere fotografati con il deserto alle spalle, piazzati li appositamente per semplice pro-paganda politica. E mentre tutti i presenti fotografavano i due soldati, Francesco foto-grafa i fotografi che fotografavano i soldati. La fotografia racconta il vero…ma dipende dai punti di vista!

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Michele GregolinDocente di fotografia Direttore Responsabile

Redazione: Omar Argentin, Stefano Berto, Massimo Bonutto, Andrea Collodel, Francesco Dori, Lucia Finotello, Patrizio Glisoni, Luisella Golfetto, Enrico Gubbati, Stefano Lunardi, Marika Napetti, Alessandro Pagnin, Martina Pandrin, Paola Poletto, Mirka Rallo, Roberto Tacchetto, Marta Toso, Riccardo Vincenzi.

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Foto di copertina © Marta Toso

Impaginazione e grafica : Marika Napetti, Michele Gregolin.

“Oltre” nasce come progetto editoriale da un Corso di Fotografia dell’Università Popolare di Camponogara. Laboratorio Fotografia & Co-municazione .

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