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153 LA COSCIENZA DELLA CATASTROFE, L’ “EMERGENZA” DEL PROGETTO, l’IMPORTANZA DEL TEMPO Attilio Nesi Secondo alcuni scienziati, in seguito al terremoto del 1908, il DNA degli abitanti dello Stretto è stato modificato dal radon: un gas radioattivo che, comunemente presente in natura, fuoriesce dalle faglie causate dal sisma aumentando la sua concentrazione nell’aria. Una tesi non si sa quanto credibile e, se vera, non si sa quanto sufficiente a giustificare la mutazione genetica di una popolazione; un’idea che, comunque, al pari del numero dei morti, rafforza la coscienza del sisma. La terribile e, come dirò fra poco, necessaria coscienza del sisma! È uno dei due punti ai quali dedicherò le mie riflessioni. L’altro riguarda il rapporto tra il senso dell’emergenza e l’“emergenza” (nel senso di centralità) del progetto. Nei nostri paesi che ricorrenti zampate della natura hanno azzerato e possono azzerare in ogni momento, è su questi due temi che occorre lavorare per sostenere in modo corretto ed efficace la volontà e i criteri delle ricostruzioni, soprattutto per prevenire e ridurre i danni delle catastrofi. È difficile, attraversando lo Stretto – specie quando questo capiti di notte – guardare Messina e Reggio e credere che solo cent’anni fa queste città siano state vittime di un’improvviso azzeramento. Soprattutto, è pressoché inutile affidarsi alla sola ragione per capire perché, in casi come questo, gli uomini si ostinino a ricostruire la loro abitazione negli stessi luoghi del disastro: c’è un profondo mistero in questa pervicacia! Si tratta, normalmente, del secondo obiettivo dei sopravvissuti: dopo aver sepolto i propri morti, ricostruire una casa che accolga il proprio futuro, presumendo di poter far meglio che in passato, progettandola più resistente e sicura. Riprogettare il futuro è la naturale risposta al disastro. È la volontà, a volte inconsapevole, di recuperare e dare continuità ad un palinsesto riconoscibile più nella memoria dei sopravvissuti che nelle macerie. E così, si alimenta la certezza che la storia può continuare, rinnovando lo spirito dei luoghi, sostenendo che la vita non è necessariamente altrove, che può essere ancora lì, dove la natura ha provato a cancellarla. A questo proposito, Leonardo Sciascia, in un bell’articolo, scritto sul Belice ai tempi di quel disastro, sostenne che l’”uomo è più nobile di tutto ciò che può ucciderlo” e che questa nobiltà è espressa proprio dalla volontà ostinata di riprogettare il suo futuro ricostruendo i propri luoghi. Un concetto che sembra parafrasato dalla dichiarazione di Joseph Beuys, che, scrutando il terreno di Gibellina, cerca di comprendere tattilmente la sua natura ed esalta il senso rivoluzionario che è negli uomini, coi loro “idoli che vengono e restano a passeggiare nella storia e albergano nella memoria dell’aspirazione di una salvezza esistenziale”. Un senso rivoluzionario che nasce dalla convinzione che qualcosa, in ogni caso, permane e che su di essa si può ripristinare una continuità. È il potere di chi alla disperazione fa seguire il bisogno e la capacità di tornare a vivere. C’è anche da sottolineare che questa progettualità “naturale” delle popolazioni, nel nostro Paese, si è storicamente scontrata con una incapacità, altrettanto naturale, delle istituzioni di promuovere ricostruzioni che non fossero ricostruzioni di miseria. È stato quasi sempre così, ed è strano quanto triste constatare, che è stato così specie da quando godiamo di una democrazia piena. Da quando il potere è stato distribuito in particole, lo Stato ha democraticamente relegato i superstiti in baracche, con ipocrite promesse di transitorietà, ha D A S T E C OCCASIONI E MOVIMENTI DI PROGETTO

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LA COSCIENZA DELLA CATASTROFE, L’ “EMERGENZA” DEL PROGETTO, l’IMPORTANZA DEL TEMPO

Attilio Nesi

Secondo alcuni scienziati, in seguito al terremoto del 1908, il DNA degli abitanti dello Stretto è stato modificato dal radon: un gas radioattivo che, comunemente presente in natura, fuoriesce dalle faglie causate dal sisma aumentando la sua concentrazione nell’aria. Una tesi non si sa quanto credibile e, se vera, non si sa quanto sufficiente a giustificare la mutazione genetica di una popolazione; un’idea che, comunque, al pari del numero dei morti, rafforza la coscienza del sisma. La terribile e, come dirò fra poco, necessaria coscienza del sisma! È uno dei due punti ai quali dedicherò le mie riflessioni. L’altro riguarda il rapporto tra il senso dell’emergenza e l’“emergenza” (nel senso di centralità) del progetto. Nei nostri paesi che ricorrenti zampate della natura hanno azzerato e possono azzerare in ogni momento, è su questi due temi che occorre lavorare per sostenere in modo corretto ed efficace la volontà e i criteri delle ricostruzioni, soprattutto per prevenire e ridurre i danni delle catastrofi. È difficile, attraversando lo Stretto – specie quando questo capiti di notte – guardare Messina e Reggio e credere che solo cent’anni fa queste città siano state vittime di un’improvviso azzeramento. Soprattutto, è pressoché inutile affidarsi alla sola ragione per capire perché, in casi come questo, gli uomini si ostinino a ricostruire la loro abitazione negli stessi luoghi del disastro: c’è un profondo mistero in questa pervicacia! Si tratta, normalmente, del secondo obiettivo dei sopravvissuti: dopo aver sepolto i propri morti, ricostruire una casa che accolga il proprio futuro, presumendo di poter far meglio che in passato, progettandola più resistente e sicura. Riprogettare il futuro è la naturale risposta al disastro. È la volontà, a volte inconsapevole, di recuperare e dare continuità ad un palinsesto riconoscibile più nella memoria dei sopravvissuti che nelle macerie. E così, si alimenta la certezza che la storia può continuare, rinnovando lo spirito dei luoghi, sostenendo che la vita non è necessariamente altrove, che può essere ancora lì, dove la natura ha provato a cancellarla. A questo proposito, Leonardo Sciascia, in un bell’articolo, scritto sul Belice ai tempi di quel disastro, sostenne che l’”uomo è più nobile di tutto ciò che può ucciderlo” e che questa nobiltà è espressa proprio dalla volontà ostinata di riprogettare il suo futuro ricostruendo i propri luoghi. Un concetto che sembra parafrasato dalla dichiarazione di Joseph Beuys, che, scrutando il terreno di Gibellina, cerca di comprendere tattilmente la sua natura ed esalta il senso rivoluzionario che è negli uomini, coi loro “idoli che vengono e restano a passeggiare nella storia e albergano nella memoria dell’aspirazione di una salvezza esistenziale”. Un senso rivoluzionario che nasce dalla convinzione che qualcosa, in ogni caso, permane e che su di essa si può ripristinare una continuità. È il potere di chi alla disperazione fa seguire il bisogno e la capacità di tornare a vivere. C’è anche da sottolineare che questa progettualità “naturale” delle popolazioni, nel nostro Paese, si è storicamente scontrata con una incapacità, altrettanto naturale, delle istituzioni di promuovere ricostruzioni che non fossero ricostruzioni di miseria. È stato quasi sempre così, ed è strano quanto triste constatare, che è stato così specie da quando godiamo di una democrazia piena. Da quando il potere è stato distribuito in particole, lo Stato ha democraticamente relegato i superstiti in baracche, con ipocrite promesse di transitorietà, ha

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alimentato, democraticamente, il potere cinico del sottogoverno e del malaffare, ha risposto all’emergenza con progetti tardivi e inadeguati. A volte, i poteri forti hanno fatto meglio, come, ci ricorda l’operato del duca di Camastra che, dopo il terremoto del 1693, ricostruì i paesi della Val di Noto e della Val Demone con risultati e tempi ben diversi, con il semplice aiuto di pochi gesuiti “architetti”. Nell’esercizio delle funzioni pubbliche, all’indifferenza e ai ritardi si è unito, poi, lo spregio sistematico della razionalità e delle competenze tecnico-scientifiche, l’incapacità di programmare e organizzare una struttura adeguata di protezione civile, pur disponendo di criteri e tecnologie che, da tempo, avrebbero consentito terapie sensate e utili prevenzioni. Nulla, inoltre, è stato fatto per promuovere quella che Maldonado, in un articolo del 1981 dedicato all’Irpinia, definisce l’indispensabile coscienza sismica di massa, senza la quale ogni protezione civile è difficile da praticare. Agli italiani, nonostante le molte commemorazioni, non si è mai fatto sapere che vivono in un territorio in gran parte altamente sismico; portandoli a ignorare i rischi che comporta l’impreparazione, di fronte ad eventuali e molto probabili terremoti. Una mancanza imperdonabile se confrontata con il numero dei morti da terremoto! Una questione di mal governo e insensatezza da parte di un potere che in tutti questi decenni ha avuto la sola ambizione di soddisfare, ad ogni costo, la sua stessa voracità di potere; che ha ricostruito le città con soluzioni inadeguate e tardive, senza proporre veri processi di sviluppo. Un potere che avrebbe dovuto aiutare le popolazioni a convivere con il terremoto, evitando che si rimuovesse il senso della minaccia. Credo che la scarsa coscienza sismica di massa abbia, fino ad oggi, condizionato anche il modo in cui la cultura del progetto ha accompagnato e sostienuto le azioni delle istituzioni. Guardando a quanto è avvenuto nell’ultimo secolo (da Messina e Reggio, a Sora e Avezzano del 1915, al Belice del 1968, al Friuli del ‘76, ai terremoti delle Marche e dell’Umbria del ‘97, al Molise del 2002), si può affermare che, per questa mancanza di coscienza, le azioni del progetto si siano succedute con forti contraddizioni. Da una parte, non si può dire che l’architettura non abbia avuto dal terremoto importanti sollecitazioni, considerandolo non solo come emergenza a cui dare risposte, ma come un’importante opportunità per il progetto. E, come è noto, molte di queste risposte non sono prive d’interesse disciplinare: dalle città anti-sismiche di Giuseppe Torres, agli studi di Giovannoni per la ricostruzione di Reggio Calabria, ai molti concorsi internazionali per case anti-sismiche, alle tante proposte innovative, avanzate negli ultimi decenni, dalla scala urbana a quella costruttiva. Proposte e verifiche incentrate, alternativamente, sulla ricostruzione e sulla nuova fondazione, a volte, sul “tipo”, altre sulle “opportunità di sito”, altre, infine, ispirate a questioni “tecnico-normative e costruttive”. In molti casi si è trattato di vere sfide culturali che hanno arricchito il dibattito architettonico quanto quello tecnico-ingegneristico. Lascio ad altri il compito di ricordare queste sfide; a me preme sottolineare che molti di quei percorsi, con la scusa degli avanzamenti disciplinari hanno proposto esercitazioni narcisistiche e prodotto gravi distorsioni sociali. Azioni che, unite agli errori dello Stato, danno il senso di una politica e di una cultura dell’emergenza piuttosto arretrate. Spesso, gli architetti, al pari delle istituzioni, hanno considerato separati gli stati di “normalità e stabilità” da quelli dell’”emergenza”; senza considerare che queste due condizioni spesso si intrecciano o si invertono nei tempi di durata e che, in molti casi, l’emergenza finisce col diventare una condizione di vita normale. L’idea che le catastrofi siano semplici punti di discontinuità di un processo morfogenetico non aiuta ad affrontare quelle situazioni correttamente. Non si può soprattutto ignorare che questi fenomeni, oltre a produrre emergenze, alimentano drasticamente l’entropia dei sistemi territoriali, con ulteriori emergenze ambientali, sociali ed economiche. Al tempo stesso, non si può trascurare che alcuni effetti devastanti dei terremoti e delle catastrofi in genere sono il

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risultato di una sempre più forte pressione antropica che trasforma il territorio in un bene da consumare, sempre più limitato e fragile. Certo, non sappiamo quando può verificarsi una catastrofe (sisma o altro); sappiamo, però, che vi sono condizioni esogene ed endogene che producono emergenze più o meno gravi, e riusciamo ad immaginare gli effetti che possono produrre nel territorio, nelle città e sugli edifici. Questa consapevolezza obbligherebbe a considerare l’emergenza non solo nel momento in cui accade, ma nella sua evoluzione complessiva, che è costituita da un prima, da un durante e da un dopo. Una considerazione che induce a spostare l’attenzione dalla sfera dell’emergenza e del soccorso, pure indispensabile, a quella della programmazione e del progetto in progress, che sia sensibile a quel complesso di situazioni e fenomeni che rappresentano la struttura del territorio antropico: dal quadro dei bisogni, all’identità degli scenari, alle risorse e agli strumenti disponibili; definendo i modi e le forme degli interventi, rispetto – come dicevo – al prima, al durante e al dopo. Credo sia questa la nostra vera “emergenza”, visto che negli ultimi decenni la cultura del progetto di architettura si è dimostrata insensibile a questo approccio e ha esercitato le sue metodiche su azioni parziali, concentrate su singole fasi e in termini separati: o di prevenzione o di azione. Occorre un’inversione di tendenza, costruita su una visione complessiva dei fenomeni: una cultura non tradizionale né accademica; una nuova disciplina, capace di coordinare competenze e conoscenze diverse, perché i fenomeni che ruotano attorno al tema dell’emergenza sono molteplici e complessi. L’inversione di tendenza riguardi anche la rivisione dell’idea illusoria di stabilità e continuità; illusoria, perché i processi evolutivi, al di là delle apparenze, di fatto, esprimono instabilità permanenti. Si tratta di una necessità che sposta l’attenzione su una questione non nuova per la cultura architettonica: quella del rapporto controverso tra permanenza (o identità) e transitorietà (intesa spesso come precarietà). Sono concetti che, al pari dei citati “normalità ed “emergenza”, specie in relazione alla complessità dei sistemi contemporanei e delle loro trasformazioni, non esprimono più differenze e obiettivi assoluti. Le mutazioni sono difficilmente controllabili, esprimono processi continui; la forma degli insediamenti appare sufficientemente stabile, ma non è mai così. In passato e per molto tempo, non è stato necessario che il progetto intervenisse su queste trasformazioni. Avveniva solo quando particolari ragioni suggerivano di dar forma alle mutazioni; non si trattava di una vera necessità. È stato così fino a quando è esistita una coscienza collettiva capace di produrre un controllo culturale sulle trasformazioni spontanee. Le attuali dinamiche sociali e la perdita del controllo culturale collettivo non consentono più di abbandonare a se stessa una realtà che si trasforma comunque; occorre dare al progetto la responsabilità di accompagnare e indirizzare le trasformazione. Il progetto è diventato strumento irrinunciabile e centrale per poter controllare tutte le pressioni spontanee e devastanti sul territorio. Rispetto a questo tema, è il concetto di temporaneità che, oggi, assume un significato nuovo e strategico: di risposta possibile, in un luogo e in un tempo dati, ai processi di entropia. Si tratta di un nuovo modo con cui ripensare le trasformazioni e lo sviluppo del territorio, rispondendo rapidamente ai bisogni di trasformazione, privilegiando i requisiti di adattabilità, flessibilità e versatilità. Il progetto d’architettura dovrà scoprire l’importanza del tempo: una categoria ingiustamente trascurata sia come valore che come problema. Ciò, non solo perché progettare significa proiettare in avanti un processo; ma anche perché l’architettura vive nel tempo e, come tutte le cose, ha un inizio, uno sviluppo e una fine. Quanto più il progetto saprà riferirsi a questa dimensione, tanto più l’architettura costruita aderirà ai bisogni reali dei cittadini e, implicitamente, saprà adeguarsi alle vere ragioni dell’emergenza.

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DEL TERREMOTO QUALE EVIDENZIATORE SOCIO-CULTURALE

Luigi Lombardi Satriani Il 28 dicembre 1908 il territorio di Reggio Calabria e di Messina fu, com’ è noto, investito da un terremoto di notevole intensità, che rappresentò la maggiore catastrofe nel Mediterraneo del Novecento. La sua carica di devastazione e morte distrusse città e paesi (le due città sullo Stretto quasi completamente rase al suolo), decine di migliaia di vite umane (il numero esatto non fu mai calcolato con esattezza, ma si parlò di 120.000 vittime), nuclei familiari ed esistenze individuali furono sconvolti in maniera radicale e la storia della società meridionale fu segnata in maniera irreversibile. È perfettamente comprensibile, dunque, che il centenario di tale evento sia stato occasione di numerose iniziative intellettuali e politico-culturale, alcune delle quali di ottimo livello e di cui questo Convegno rappresenta l’ultima, in ordine di tempo, manifestazione. Gli Enti locali, dalle Regione alle Province sono state destinatarie di numerosissimi progetti di ricerca, ma alla maggior parte di essi non è stata data alcuna risposta, segno di una notevole sordità istituzionale. L’evento sismico nel suo inatteso verificarsi precipitò le popolazioni del reggino, del suo interland e di Messina in una condizione di morte e di paralizzato stupore che cronisti dell’epoca notarono con precisione; significativamente si parlò di anestesia psichica, quale loro condizione prevalente (Barzini). Su tale condizione mi sono soffermato in uno scritto Speranza di futuro, nel volume 28 dicembre 1908 – La grande ricostruzione dopo il terremoto del 1909 nell’area dello Stretto, curato da Simonetta Valtieri per le edizioni Clear, apparso in queste settimane e a esso mi sia consentito rinviare. In questa sede intendo sviluppare, nel rispetto dei limiti di ampiezza concordati, un altro ordine di considerazioni. Il terremoto del 1908, anche per le tragiche dimensioni dell’evento, provocò una gara internazionale di solidarietà. Dai russi agli inglesi, primi soccorritori anche perché impegnati in manovre militari nel mediterraneo, agli svizzeri, agli abitanti di altre nazioni europee, come quelli delle diverse regioni italiane, si svolse, sin dai primi giorni, una serie di azioni di soccorso, di tentativi generosi, sino al sacrificio di salvare quante più vite fosse possibile, evitando anche che le azioni di sciacallaggio, pur poste in essere, avessero libero corso. In tutto questo i militari furono sostenuti anche dall’impegno di tanti volontari colpiti dalla desolazione abbattutasi sugli abitanti di queste contrade. Anche le offerte che giunsero copiose da ogni parte contribuirono a rendere concreta la dimensione della solidarietà. Il terremoto, dunque, quale evidenziatore, oltre che di una tragica emergenza, di una situazione economico sociale, culturale, esistenziale di intensa drammaticità. Realtà emarginate, prevalentemente sconosciute balzarono così alla ribalta; conquistata, con un tributo di sangue così elevato, la prima pagina dei giornali, non si poteva più ignorarle, fare come se non esistessero attuando una strategia dell’indifferenza e della dimenticanza sino ad allora, del resto, attivamente operante. Lo stesso vale per il Governo che, non brillava certo per attenzione meridionalista, non differenziandosi in questo, dagli altri governi che, pur con modalità estremamente differenziate, si sono succeduti nel nostro paese. La sordità di Giolitti alle richieste di soccorso e alle proteste degli amministratori locali (Il presidente del consiglio, giunse a chiedere al prefetto di Reggio Calabria di mettere a posto, redarguendoli, sindaci di centri calabresi che in telegrammi inviatigli a Roma avevano denunciato la mancata reazione alle loro drammatiche e veritiere denunce). Anche i provvedimenti giolittiani e le operazioni ufficiali di soccorso erano sostanzialmente rivolti più a tutelare i beni (quali il tesoro della Banca d’Italia) che a tentare di salvare quante più vittime possibili; a un certo punto si ordinò di sospendere tali tentativi e su ogni cosa calò il cemento, mai come in questo caso definitiva lastra tombale.

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Le proteste dei sindaci sono emblematiche anche di un’altra realtà, loro intensi evidenziatori: del disagio degli amministratori periferici, costretti in una difficile e sgradita posizione mediana tra le comunità locali, di cui comunque erano organica parte oltre che rappresentanti istituzionali, e il potere centrale, così spesso ottuso e sordo alle legittime richieste e aspettative delle popolazioni. È un disagio che attraversa la storia del Mezzogiorno e che si insinua nelle sue pieghe, restando quasi sempre latente. Tale disagio, in occasione di eventi traumatici – e quale trauma socio-culturale maggiore del terremoto – emerge nettamente, costituendosi di fatto come fattore di contrasto nei confronti degli organi dello Stato centralisticamente orientati. Tutto ciò è particolarmente evidente nel sisma del dicembre 1908, ma può essere riferito anche agli altri terremoti che hanno funestato con tragica frequenza la nostra regione. A mero titolo esemplificativo, quello del 5 settembre 1905, che si abbatté particolarmente nel vibonese, è emersa nei sopravvissuti una condizione assimilabile a quella ebetudine stuporosa individuata da Ernesto de Martino, nei familiari colpiti da un evento luttuoso, dalla quale emergono mercé la strategia del cordoglio, in particolare attraverso il lamento funebre che consente loro di attuare l’ethos del trascendimento. La funzione di evidenziatore e di tale ebetudine stuporosa e della relativa indifferenza di molti sopravvissuti nei confronti delle vittime rimaste sotto le macerie è stata così rilevata da Raffaele Lombardi Satriani, nella sua notevolissima opera La bontà d’un re e la sventura d’un popolo181, nella quale ci vengono restituiti dall’interno quella tragica vicenda e il clima culturale e politico vissuto dai protagonisti di essi. Costituisce un tratto costante delle catastrofi naturali la funzione del terremoto quale cartina di tornasole di una condizione umana, segnata irreversibilmente dall’insicurezza, dalla precarietà, dalla possibilità continuamente incombente dello scacco. Contro tale minaccia gli uomini elaborano strategie culturali di difesa, griglie di sopravvivenza a difesa dal pericolo della nullificazione. Il terremoto, come qualsiasi altra catastrofe, può travolgere tali dighe culturali, annientare tali griglie. Si è detto della condizione di anestesia psichica dei terremotati del 1908, lo stesso è stato rilevato nel sisma del settembre del 1905 di cui si sta qui discorrendo. “Si narra, ahimè, che gemiti, voci strazianti, chiedendo soccorso ed accenti umili, pietosi, che suonavan pianto e preghiera, partivan da sotto le macerie e nessuno prestava l’opera sua benefica per salvare quegl’infelici. Chi aveva un padre, un fratello, un congiunto, un amico vero veniva soccorso; quelli che avean persone care venivano aiutate, laddove gli altri perivan miseramente in modo di incutere orrore. E si ricorda con orrore che due disgraziati, orribile a dirsi, sino al finir del giorno, chiedevano aiuto con voce spenta e da sotto le macerie mandavano i loro gemiti, le loro preghiere. E nessuno ha avuto pietà di loro, non vi è stato alcuno da prestare l’opera sua di soccorso e quegli infelici son periti in modo purtroppo disavventurato. Tal fatto è pur troppo ignominiosamente obbrobrioso e dà ribrezzo anco il pensiero che alcuni disgraziati moriron per la indifferenza di uomini malvagi, iniqui e infami” (pp. 88-89). Tutto ciò non viene detto, però, da un’angolazione angustamente moralistica ché lo studioso aggiunge subito: “Ma forse quei paesani rimasero inoperosi, inerti, perocchè il terrore, cagionato dal terremoto, produsse generale apatia e riprovevole ignavia” (p.89). E già aveva avuto modo di affermare. “ Le rovine della città, dei villaggi, insieme con le memorie del passato, profondevano lo spirito nel pensiero della più alta e solenne mestizia e pur troppo ad dimostravano che il terremoto, più che ogni altro fenomeno, più che in ogni altro flagello, incute terrore ed infiacchisce, abbatte in modo spietato lo spirito più gagliardo e lo rende inerte e fiacco” (p.76).

181 R. LOMBARDI SATRIANI, La bontà d’un re la sventura d’un popolo, a cura e con intr di L.M. Lombardi Satriani, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006.

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Dove viene colto un tratto estremamente importante riscontrabile negli eventi sismici di altre catastrofi che comportano anche un radicale sconvolgimento antropologico. Le categorie culturali, elaborate dalle società attraverso un’incessante opera di plasmazione culturale, costituiscono, come si è appena detto, gli essenziali strumenti per assumere la realtà, padroneggiandola e trascenderla evitando, così, di restare schiacciati dalla sua datità. Lo scorrere quotidiano dell’esistenza consente questo continuo scambio tra il fluire dell’esperienza, il suo continuum spazio-temporale e il piano delle categorie interpretative e degli scenari simbolici conferitori di senso. Dovrebbe essere superfluo ribadire, al riguardo, che tale conferimento di senso alle azioni è meccanismo indispensabile perché l’operatività umana si dispieghi nella concretezza dei giorni. Il terremoto, con la sua gigantesca potenza devastatrice, si abbatte anche su questa costruzione culturale, sospendendone, almeno temporaneamente la vigenza. Occorrerà allora mettere in opera meccanismi che agevolino la reintegrazione culturale, consentendo il pieno reinserimento dei protagonisti nel piano del padroneggiamento della realtà. Tale processo, che ho avuto modo di constatare direttamente nel terremoto del 1968 in Sicilia e in quello del 1981 in Basilicata, è stato analizzato approfonditamente dalla letteratura antropologica e a essa ci si può rivolgere per eventuali approfondimenti problematici. Anche altri sismi agirono quali evidenziatori di realtà emarginate e semisconosciute. Sempre a titolo esemplificativo, il giovane etnografo, Raffaele Corso, il 9 luglio 1908, scrive a Lamberto Loria, per incarico del quale raccoglieva in Calabria manufatti per la mostra per il Cinquantenario dell’Unità d’Italia, che si sarebbe inaugurata in Italia nel 1911: “ Non le nascondo […] che una Sua visita in queste contrade sarebbe molto opportuna. Dal Prof. Mario Mandalari ho avuto notizie di una tribù di bruzzi, annidata sulle montagne di Cosenza, nel territorio di Serra Pedace. Essa vive di erbe e di caccia, in capanne; è violenta, superstiziosa, lontana e segregata dai centri civili. Nel territorio di Amendolea, fin dal 1973, uno storico del terremoto, Giov. Vivanzio notava che in Condofuri, in Gavicianò, in Rogudi, in Palizzi, non si conosceva moneta ed i contratti si facevano per cambio. Chissà che non resti ancora ricordo dell’antico regime?“182. Gli esempi potrebbero continuare a lungo e potrebbero essere attinti dalle catastrofi più lontane nel tempo e da quelle più recenti abbattutesi dalla nostra terra “ballerina” sistematicamente oggetto di incuria e di devastazione. Né certo può essere in alcun modo auspicabile che avvengano in alcun modo catastrofi perché in tal modo venga segnalato al “ mondo” una condizione per lo più ignorata. Tragico paradosso di una storia che si auspica possa al più presto concludersi. La realtà – sociale, culturale, umana -, segnalata dal terremoto del 1908 spinse intellettuali e riformatori sociali a un concreto impegno per il suo concreto riscatto su ogni piano. Per limitarci a un solo esempio anche se particolarmente significativo, Umberto Zanotti Bianco, uscito non ancora ventenne dal Collegio di Moncalieri, prese parte all’opera di soccorso del Comitato vicentino e l’incontro con tale realtà fu talmente coinvolgente che egli vi ritornò nell’estate del 1909 con Giovanni Malvezzi per svolgere un’inchiesta su 38 Comuni dell’Aspromonte occidentale. Inizia così una lunga stagione caratterizzata da un impegno riformatore: nel 1910 viene fondata a Roma l’Associazione nazionale per gli Interessi per il Mezzogiorno d’Italia ANI, la cui presidenza onoraria è affidata a Pasquale Villari e la Presidenza effettiva a Leopoldo Franchetti, con la partecipazione di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Antonio Fogazzaro, Giovanni Cena, Giuseppina Le Maire, Bodio, Cavazza, Giuseppe Donati, Giuseppe Lombardo Radice, Gallarati Scotti, Malvezzi; vengono istituiti l’Università Popolare di Reggio, centinaia di biblioteche popolari e scolastiche,

182 L. LOMBARDI SATRIANI - A. ROSSI, Calabria 1908-10 – La ricerca etnografica di Raffaele Corso, De Luca, Roma 1973.

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organizzati circoli culturali e Corsi di cultura popolari e si dà vita a diverse iniziative economiche attraverso la costituzione di Cooperative di pescatori (ne vennero realizzate a Bagnara, Scilla, Bianco, Siderno e Cetraro). Vennero istituiti numerosissimi asili (quarantotto nella sola provincia di Reggio Calabria), fu applicato per la prima volta in Italia il metodo Montessori e vennero utilizzate per la prima volta nel Sud maestre laiche (i primi asili vennero organizzati a Melicuccà, Bruzzano, Villa S. Giovanni, Ferruzzano), né si trascurarono scuole – laboratori di taglio cucito e ricamo (come quella di Reggio) e laboratori di lavorazione naturale dei tessuti (come quello di Cosenza). Non può essere taciuto, inoltre, l’impegno di Zanotti Bianco sul campo sanitario (l’istituzione dell’Istituto diagnostico di Reggio; gli ambulatori di Palmi, di Gerace, Catanzaro Marina, Ferruzzano e Bruzzano; l’istituzione a Santo Stefano d’Aspromonte, nel 1922, della prima colonia sanitaria montana, preventiva in Italia, alla quale fecero seguito quella di Santa Caterina Jonio, Guardia Piemontese e, nel 1944 di Camigliatello Silano). Zanotti Bianco affiancò Paolo Orsi nelle sue ricerche archeologiche e nella istituzione a Reggio Calabria del Museo progettato da Marcello Piacentini e unì a tale intensa azione un rilevante impegno scientifico realizzando inchieste sulla malaria, su Africo, sul martirio della scuola in Calabria183. Sull’opera di Umberto Zanotti Bianco occorrerà continuare a riflettere per metterne in luce i molteplici aspetti e le numerose acquisizioni critiche; sia sufficiente qui averlo ricordato tra quanti accorsero in Calabria per il terremoto del 28 dicembre 1908 e come da questo tragico evento egli abbia preso le mosse per la sua lunga e multiforme attività, densa di realizzazioni concrete e di risultati scientifici che lo resero di fatto un eroe del meridionalismo. Anche se occorre ricordare, brechtianamente: “Beata quella terra che non ha bisogno di eroi”.

UNA CONTRADDIZIONE CREATIVA Laura Thermes

Quando si pensa al terremoto, scorrendo con gli occhi della mente le devastazioni che esso provoca, i lutti che infligge alle comunità colpite, le difficoltà che impone alla ricostruzione, ci si rende conto di una contraddizione di un certo interesse. I territori soggetti al rischio sismico sono noti da sempre e gli eventi catastrofici che li hanno interessati sono continuamente ricordati e hanno dato luogo nel corso del tempo ad una vera e propria mitologia fatta di narrazioni scritte, di storie orali, di rappresentazioni pittoriche e filmiche, in una parola a un epos, nel quale la dimensione individuale viene trascesa in quella collettiva.. Tuttavia, nonostante si sappia che prima o poi l’evento sismico scatenerà la sua forza, nel momento in cui il terremoto scuote montagne e colline, sradica alberi, devia il corso di torrenti e danneggia, quando non rade al suolo, case sparse e centri urbani, esso genera prima di tutto sorpresa, rivelandosi come un avvenimento del tutto inaspettato. In sintesi, il terremoto è atteso e nello stesso tempo rimosso. Tale rimozione deriva dal fatto che gli essere umani tendono a considerare la terra su cui si muovono, e le città e le case che essa sostiene, come emblemi stessi della stabilità, entità che per la loro natura assicurano la continuità della vita in un determinato luogo. Lo scatenarsi delle forze telluriche sovverte radicalmente questa

183 V. U. ZANOTTI BIANCO, Il martirio della scuola in Calabria, Firenze, 1925; nuova ed. con intr di N. Siciliani de Cumis, Roma, Associazione Nazionale per gli interessi del Mezzogiorno (ANIMI), 1981; Id. Tra la perduta gente, (scritto nel 1928), nuova ed. Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; P. AMATO (a cura), Umberto Zanotti Bianco, meridionalista militante, Marsilio, Venezia 1981; Id. Umberto Zanotti Bianco grande figlio adottivo di Reggio Calabria e della sua provincia, in D. LARUFFA (a cura), Terra Morgana- Itinerari culturali in provincia di Reggio Calabria, Laruffa, Reggio Calabria 2008, pp 147-149.

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convinzione ancestrale, che ha radici nel passato e per il futuro, una convinzione profonda anche se ciò in cui si crede non trova, per quanto si è detto, una corrispondenza nella realtà. La consapevolezza tra ciò che dovrà prima o poi verificarsi - ad esempio il Big One a Los Angeles - e la rimozione effettiva di questa eventualità fa sì che spesso, nonostante l’attività di organismi pubblici istituiti con finalità preventive, i territori particolarmente esposti non predispongono le necessarie misure per fronteggiare l’evento sismico una volta che esso si manifesti. Questa contraddizione attraversa l’intera storia dei terremoti conferendo ad essa il segno di una sostanziale indecifrabilità. Il terremoto si pone così come una crisi, molte volta tragica, nella vicenda della comunità nel momento stesso in cui tale crisi è stata scongiurata dalla sua stessa rimozione. Un terremoto non si esaurisce, però, nelle scosse, nelle distruzioni e nelle morti che esso causa, scosse che si possono protrarre nel tempo esasperando il problema con uno stillicidio – lo sciame sismico - che rende difficile pensare al futuro in quanto il terremoto stesso sembra non finire mai. Come dimostra la teoria delle catastrofi di René Thom, l’evento sismico genera una ben più lunga scia, di un’altra natura, attivando un processo che può durare anni, se non decenni, e richiedendo una serie di decisioni concatenate che vengono prese in pochi giorni ma i cui effetti dureranno a lungo. Tali decisioni riguardano, nell’ordine, fatte salve quelle logistiche relative all’emergenza, dove ricostruire, come ricostruire, quali impostazioni dare ai processi economico-produttivi che dovranno sostenere la comunità, quale tonalità occorre conferire al racconto della ricostruzione. A seguito della ineludibilità di una risposta a queste problematiche, la principale conseguenza che, come è noto, un terremoto produce, dopo l’evento catastrofico, è quella di un salto di scala, ovvero una spesso impetuosa accelerazione dei processi vitali di un insediamento. Un salto di scala che innesta una serrata dialettica tra la memoria di ciò che aveva preceduto l’evento e il nuovo che sostituisce gli insediamenti, i comportamenti, i sistemi produttivi distrutti. Per questo motivo il terremoto è sempre la premessa di un mutamento genetico. È proprio nel momento in cui esso si compie che la memoria viene istituita. Essa non è il semplice ricordo di qualcosa di scomparso definitivamente, un ricordo da vivere nel rimpianto individuale o nel dolore collettivo, ma la costruzione di un sistema di valori sostanzialmente nuovo che reinventa il passato mettendolo in condizione di contribuire a costruire il presente e il futuro. In questo senso la memoria è il luogo nel quale l’evento del terremoto inverte il suo contenuto traumatico facendosi ambito di una rigenerazione complessiva delle comunità coinvolte. Queste comunità sono sottratte alla necessità di procedere per gradi nel loro rinnovamento trovandosi improvvisamente costrette a collocarsi sulle frontiere sociali, economiche, urbane, culturali più avanzate sulle quali, secondo le proprie possibilità, possono situarsi. Via via che la ricostruzione procede, succede però che anch’essa diventi gradualmente passato, entrando in un circolo con i ricordi di come fossero le comunità e le loro città prima della catastrofe. Nel Novecento l’Italia è stata interessata, oltre che dal terremoto del 1908 di Reggio Calabria e di Messina, da quelli del Belice del 1968, del Friuli del 1976, dell’Irpinia e di Napoli del 1980, terremoti questi ultimi che chi scrive ricorda con una certa completezza, avendo avuto tra l’altro nel terzo e nell’ultimo alcune occasioni di intervento: tutti, rispetto alle questioni da affrontare, presentano prospettive diverse. Nel Belice si scelse in più casi di ricostruire su siti nuovi, dando vita ad una vera e propria rifondazione di quell’area della Sicilia Occidentale. Se Poggioreale veniva riedificata poco distante dalla città distrutta, Salemi fu ricostruita su se stessa, mentre Gibellina, il centro più noto del Belice, fu oggetto di uno spostamento di quindici chilometri. Essa rinacque non più nella Valle del Belice, ma nei pressi di Salemi in corrispondenza dello svincolo dell’Autostrada Palermo-Mazara del Vallo in modo da essere inserita in uno dei più intensi flussi di traffico dell’isola e sottratta all’isolamento in cui la vecchia Gibellina era vissuta per secoli. La ricostruzione del Belice fu oggetto di una discussione accesa e prolungata, in cui il grande tema della partecipazione si univa ad una

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rilettura delle utopie urbane emerse a livello internazionale negli anni sessanta, proposte a grande scala che si cercava di ambientare nell’impervio e per molti versi arretrato territorio del Belice. Danilo Dolci, Carlo Doglio, Bruno Zevi tra molti altri, impegnarono le loro energie nel ripensare l’intera Valle del Belice, misurandosi con la difficoltà di trovare punti di incontro tra la volontà di un grande disegno comune e l’aspirazione dei singoli centri a preservare la loro identità. Adottata nella quasi totalità dei centri la linea rifondativa, si trattava di scegliere a quale modello insediativo riferirsi. Fu preferita la città-giardino di matrice anglosassone, ibridata con elementi desunti dalla tradizione siciliana. Gibellina, Santa Ninfa, Partanna, Poggioreale crebbero per questo in modo morfologicamente ambivalente. Collegate da infrastrutture importanti come l’asse del Belice, le quali introducevano valenze metropolitane in un paesaggio ancora integralmente agrario, dotate di spazi aperti superdimensionati, che creavano un effetto di spaesamento, divise tra un tessuto abitativo esteso e pochi edifici pubblici isolati, le città ricostruite si popolavano di case nelle quali venivano riproposti stilemi architettonici consolidati, e questi, immessi in un nuovo contesto scalare e in un ordine problematico altrettanto nuovo, apparivano come citazioni ermetiche e straniate. Alla ricostruzione seguì un cambiamento radicale delle attività agricole. Dal grano si passò al vino. Ciò comportò una consistente mutazione del paesaggio, una volta, prima del raccolto, ricoperto da un tappeto continuo di spighe e, subito dopo, in attesa della semina, brullo e calcinato dal sole, un paesaggio oggi fittamente disegnato dai filari dei vigneti. L’economia vitivinicola ha dato vita a un sistema di cantine sociali distribuite nel territorio che rende visibile le nuove capacità produttive che esso esprime. Per quanto riguarda la rappresentazione della ricostruzione, il Belice ha contato molto sulla notorietà subito conquistata da Gibellina. Ludovico Corrao, il sindaco che ha dato la sua impronta alla nuova città mettendo al centro della ricostruzione l’arte nel suo rapporto con lo spazio pubblico e con l’architettura – a Gibellina ci sono opere di Pietro Consagra, Fausto Melotti, Arnaldo Pomodoro, Carla Accardi, Mauro Staccioli, solo per citare alcuni artisti, e edifici di noti architetti tra i quali Giuseppe e Alberto Samonà, Francesco Venezia, Oswald Mathias Ungers - ha saputo intercettare l’interesse di un pubblico vasto e motivato, che ha identificato nella sua città il simbolo della rinascita di un territorio. Un simbolo, occorre ricordarlo, non sempre però ritenuto positivo. L’essere Gibellina l’unica città d’arte costruita in Italia negli ultimi decenni del Novecento non l’ha sottratta alla critica di essere il risultato di un esperimento astratto, calato dall’alto su una popolazione che non l’ha compreso, interrotto senza che esso potesse raggiungere pienamente i suoi obbiettivi. Se nel Belice la strategia ricostruttiva aveva separato le città distrutte da quelle nuove, consegnando le prime a una nostalgia insuperabile, nel Friuli, regione con una economia più florida e consolidata, prevalse la linea opposta. I centri colpiti vennero riedificati nel loro sedime, mentre le scelte architettoniche, come testimoniano le opere di Luciano Semerani e di Augusto Romano Burelli, tendevano a riformulare criticamente modulazioni spaziali e temi figurativi tratti dall’architettura delle città colpite dal sisma.

La contraddizione di cui si è parlato all’inizio di queste note, una contraddizione creativa, domina ancora il discorso sul terremoto. Esso continua a essere di fatto rimosso nell’immaginario delle popolazioni delle aree a rischio sismico, anche se è previsto nei piani della Protezione Civile. Più che consistere nella progettazione di un presente che una catastrofe potenziale sta cambiando giorno per giorno, pur se non avvenuta, esso continua ad apparire in realtà come una previsione statistica e come una generica prevenzione rispetto ai suoi effetti. Occorrerebbe per questo un consistente cambiamento di mentalità, per il quale ciò che il terremoto provoca non dovrebbe avere bisogno di esso per divenire realtà. In un certo senso la rimozione dell’evento sismico dovrebbe corrispondere a una consapevolezza superiore dei fenomeni evolutivi di un territorio. Una consapevolezza capace di tradursi in progetto dopo essere stato analisi, intenzione e desiderio.

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FATA MORGANA Giuseppe Arcidiacono

Non esistono foto di quel fenomeno che, a detta di molti, accade sullo Stretto; e chiamiamo Fata Morgana. C’è chi – come il domenicano Antonio Minasi184 – ne ha classificato le forme, con nomi che svelano, e ri-velano, i differenti tipi d’apparizione: Morgana Marina, Morgana Marina Aerea, Morgana d’Iride Fregiata: rapsodico rosario che ferma ogni sfuggente visione sopra il telo ordinato della scienza, che trasmuta ogni apparente suggestione in oggettiva rappresentazione. A questo fine, il Minasi si rivolge all’Arte: a quella, “scientifica”, del vedutista Guglielmo Fortuyn che, tra le incisioni dello Stretto, commissionategli nel 1774 dal padre domenicano, inserisce, come una merce preziosa, ma di contrabbando, Il Prospetto della Città di Reggio nel Canale di Messina con la Vaga Veduta della Fata Morgana; dove il fenomeno non è stato ritratto in presa diretta, ma rielabora, appunto, la dissertazione letteraria del Minasi medesimo, e viene infine offerto in pegno all’ammirazione della principessa Caramanico – a segno che qui non si fanno bidoni a nessuno, tantomeno a una eccellentissima principessa – . E sarà; anche quando, in quella “veduta”, Reggio si rispecchia nell’acqua frantumata e moltiplicata in mirabili architetture, mai viste in terra ferma, e si mischia con Messina, che compare con la sua Cittadella e la Lanterna, in un polverone di castelli per aria. Ma – si dirà – la fotografia non c’era. Tuttavia, prima del maremoto del 1908 che sembra essersi portato via ogni cosa – anche la Fata Morgana – Vittorio Boccara avvista il repentino fenomeno un paio di volte, tra il 27 giugno del 1900 e il 20 marzo del 1902, e, non potendo far di meglio, fotografa …disegni della Fata Morgana che ha rilevato con dei gessetti su una lavagnetta: ma questo – Marcello Séstito lo ha detto benissimo – è «come capire l’ignoto con l’ausilio della torcia elettrica»; oppure – diciamo noi – si tratta di accettare che la Fata Morgana può essere solo un ennesimo racconto – di paesaggio ideale – dello Stretto: dove Messina e Reggio possano scangiarsi, e mescolarsi, o riflettersi; riflettendo sulle proprie diverse nature, nel fronteggiare un comune destino d’instabilità di terra e d’acque e d’aria – come è instabile il tempo sullo Stretto – che può trasformarsi in rinascita continua, e continuata, delle forme antiche in quelle della nostra contemporaneità.

184 Su Minasi e la sua Dissertazione sopra il fenomeno volgarmente detto Fata Morgana, Roma 1773, si rimanda all’ampia documentazione pubblicata da M. SÉSTITO, Il Gorgo e la Rocca, Giuditta, Catanzaro 1995, pp. 33-42 e 97-121.

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Che per questa rinascita sia necessario un ponte – anzi, “il Ponte” sullo Stretto – molti lo ritengono l’ennesimo effetto di Fata Morgana: non perché appare e scompare, nei programmi di governo; ma perché è meglio che resti all’orizzonte, sospeso anche esso nel mito, in compagnia di ScillaeCariddi, finché rimane “questo” ponte: cioè la brutta copia di un ponte già fatto, già visto, che trasformerebbe lo Stretto da luogo del mito a un luogo comune. Se un Ponte ha da esserci, che sia almeno confrontabile con le straordinarie invenzioni architettoniche del ponte “ad ali di farfalla” di Musmeci e Quaroni, coi titanici enigmatici telamoni di Giuseppe Samonà185, con gli iperbolici sperimentalismi messi in atto da Nervi; e invece, a quarant’anni dalle proposte emerse nel Concorso del 1969, non si riscontra alcun avanzamento “progressivo”, né in senso culturale, né tecnico. In altre parole, ci si aspettava in tutti questi anni un superamento del limite tipologico, che facesse approdare il progetto del ponte ad una sintesi infrastrutturale: in cui le qualità architettoniche e le ragioni dell’evoluzione tecnica sapessero produrre una forma al servizio della regione dello Stretto, delle sue qualità ambientali e paesaggistiche. Al contrario, il progetto definitivo del Ponte che la Società Stretto di Messina ha presentato nel 2002 sembra regredire, sul piano formale, verso un ingegneristico ed ottimistico “ottocentismo”, che rispolvera l’immagine, standardizzata, consolatoria, di un ponte già consumato in qualche pubblicità per gomme americane. Questa immagine, che appare priva di paternità progettuale in quanto opera dell’utile anziché dell’arte, mentre sollecita un facile consenso dovrebbe almeno riscattare il suo carattere di déjà vu attraverso il conseguimento di un primato tecnico-scientifico: col superare in un sol balzo i tremilatrecento metri che separano Scilla e Cariddi; invece, apprendiamo186 che ragioni di prudenza e di economia suggeriscono di avanzare i piloni in acqua, per ottenere una campata – più sicura, in quanto… già sperimentata – di soli 2 km. Ma, in questo caso, giungere a “più miti consigli” produce un allontanamento dal “luogo” del mito. Insomma, sarebbe ora di prendere atto che l’eccellenza tecnica diventa sullo Stretto una questione simbolica; e che il Ponte non può esimersi di esprimere un progetto culturale, anziché limitarsi a produrre una semplice soluzione costruttiva. D’altra parte, bisogna anche dirsi che il mantenimento dello statu quo non significa automaticamente “salvare il paesaggio” – quale paesaggio, se il paesaggio primigenio non c’è più, se il territorio è in continua trasformazione? – . Bisogna dirsi che il paesaggio dello Stretto può essere alterato da un brutto Ponte come dal proliferare delle casette abusive sulle due sponde (e valga per tutte la “profanazione” del Mito, della Natura, della Bellezza, che ha mortificato la grotta di Scilla in una grottesca Lourdes, per un malinteso fervore da sagrestano che non s’accorge di mettere in atto una imbarazzante parodia). Come quel navigante che incidit in Scyllam cupiens evitare Carybdim, esporre lo striscione “No Ponte” sul balconcino di casa non può legittimare la «espansione di una lebbra / che si bea ebbra di morte sugli strati / dell’epoche umane, cristiane o greche // e allinea tempeste di caseggiati, / gore di lotti color bile o vomito, / senza senso, né di affanno né di pace»187. Occorre trovare un senso delle cose, occorre dare senso alle nostre azioni; e se questo vale per i «pii possessori di lotti»188, vale a maggior ragione per le istituzioni che sostengono la necessità del Ponte. Ora, come ho scritto nel 2004, «il Ponte supera ogni questione locale, e nazionale – altrimenti perché dovrebbe rientrare tra le opere prioritarie della Comunità Europea? – e vola sopra le nostre teste, come si addice ai ponti»; e dunque non si costruisce per

185 I «suggestivi motivi antropomorfici» del Ponte di G. Samonà sono stati evidenziati da P. LOVERO, Progetti dello Studio Giuseppe e Alberto Samonà 1968-1972, in “Controspazio”, luglio-agosto 1973, p. 53. 186 La tesi di riduzione della campata unica del Ponte è stata avanzata dal prof. ing. R. Calzona, nel corso di un ciclo di conferenze su L’attraversamento dello Stretto, svoltosi il 23.09.08 presso la facoltà di Architettura di Reggio C. in occasione del 7° Laboratorio Internazionale Lid’A, organizzato da L. Thermes. 187 P. P. PASOLINI, La religione del mio tempo, Garzanti, Milano, 1976, p. 96. 188 P. P. PASOLINI, ivi, p. 97.

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la Calabria o la Sicilia, né per l’Italia, ma per l’Unione Europea: tuttavia «il suo disegno transnazionale, il suo approdo economico culturale politico non ci è stato ancora presentato con chiarezza dalle competenti Autorità, regionali nazionali o internazionali che siano»189. Risuona ancora tra i “detti memorabili” quello di Loyola De Palacio, commissario UE ai trasporti, che impavidamente affermò che il Ponte si sarebbe fatto «perché la Sicilia ha bisogno di sentirsi legata all’Europa»190: boutade tutta da ridere per un’isola che da Archimede a Pirandello ha fatto la storia del vecchio continente; se questo salvifico intendimento non facesse paventare l’ennesimo atteggiamento neo-colonialista col quale dal Mare del Nord si guarda il Mediterraneo. In ogni modo, è certo che questo gigantesco segno sullo Stretto ripropone l’intera Sicilia come un ponte tra l’Europa e l’Africa; ma la questione non può risolversi come risposta tecnica a un invasivo progetto commerciale, utile a dragare più velocemente Oltralpe le ricchezze del Continente Nero, o a scaricare la spazzatura dei paesi industrializzati verso Sud. Se è così, l’asse Berlino-Palermo non ci piace. Vogliamo, al posto suo, un asse Palermo-Berlino: un ponte costruito attraverso un progetto condiviso ed inscritto dentro i luoghi che è chiamato a modificare. Per questo è necessaria una conversione del progetto culturale, che a tutt’oggi, nel migliore dei casi, è ancora quello del sogno carolingio di affacciare il Grande Nord sul Mediterraneo. Noi chiediamo che questo progetto diventi quello del grande Federico II, del “nostro” Federico: un progetto per la rinascenza del Sud; un progetto nel quale l’antica civiltà mediterranea possa espandersi e rinnovarsi a contatto con i paesi d’Europa; il progetto di un ritrovato stupor mundi, dove il progresso sappia mettersi in relazione col passato, e stratificarsi su di esso senza annullarlo. Forse allora del ponte non ci sarà più bisogno; e Reggio “città dei frammenti”191, con Messina la città sulla falce di Saturno signore del Tempo, sapranno presentarsi in un disegno sospeso tra ordine e disordine: dove i frammenti scomposti del nostro attuale paesaggio possano mettersi in circolo, in un ritmo rinnovato di frammenti che ricompongono il paesaggio, in un disegno di Fata Morgana.

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Giuseppe Arena Gli effetti dei terremoti Nel quadro dei grandi rischi cui il Paese è soggetto quello sismico è certamente il più preoccupante: per l’insorgenza improvvisa del fenomeno, per gli effetti psicologici connessi con l’impreparazione delle popolazioni, per la organica carenza di una razionale politica di prevenzione sismica. Da uno studio pubblicato dall’Unesco, si rileva che l’evento sismico è, tra le calamità naturali, quello che chiama in causa il maggior numero dei fattori di vulnerabilità, quali l’errata localizzazione degli insediamenti e degli edifici, la diffusa mancanza del rispetto delle norme tecniche, l’inadeguatezza delle tecniche di costruzione,l’uso improprio degli edifici e quant’altro. È evidente che gli effetti di una calamità naturale sono tanto più gravi quanto maggiore è la concomitanza di tali fattori, ed è a causa di ciò che per effetto dei maggiori disastri naturali avvenuti nel mondo dal 1900, circa il 58% dei morti è conseguente a terremoti. Va osservato inoltre che in Italia, dall’anno 1000 ad oggi, si sono verificati circa 300.000 terremoti, dei quali almeno 200 disastrosi, che hanno causato più di 120.000 vittime soltanto nello scorso secolo. Tra gli eventi più distruttivi della storia dell’Italia meridionale vanno annoverati il terremoto di

189 G. ARCIDIACONO, Dal Ponte sullo Stretto di Messina agli Archi della Marina di Catania, in “Il progetto dell’abitare”, 2, novembre 2004, p. 61. 190 Da una conferenza stampa di L. De Palacio, riportata sul giornale “La Sicilia” del 06.05.04, p. 10. 191 La radice greca di Reggio è il verbo ρήγνυµι, rompo, spezzo.

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Reggio e Messina del 28 dicembre 1908, responsabile di quasi 80.000 vittime, il sisma verificatosi in Sicilia orientale l’11 gennaio 1693, che interessò particolarmente la città di Catania, ed il terremoto che colpì la piana di Gioia Tauro il 5 febbraio 1783. Quest’ultimo causò grandi stravolgimenti geomorfologici, a cui seguirono una grave epidemia di malaria ed uno sciame sismico di durata triennale. Schematicamente può dirsi che il terremoto separa nettamente due zone temporali: una rappresentata dalla fase antecedente al sisma, ed una, successiva, nella quale un primo lungo momento è quello dell’emergenza, caratterizzato dalle operazioni di salvataggio e di soccorso, seguito da un periodo di riabilitazione e di ripristino delle condizioni di minima sussistenza e di relativa autonomia. Elementi che caratterizzano il periodo immediatamente successivo al disastro sono la dipendenza dall’esterno, derivante dalla necessità di aiuti e di mezzi di ogni genere e la presenza di una struttura decisionale diversa da quella esistente in condizioni di normalità. La protezione dai terremoti In tema di “protezione” va osservato che pur se è indubbio che si sia ormai presa coscienza che tale esigenza coinvolga svariati ed articolati aspetti (previsione, prevenzione, gestione dell’emergenza, ricostruzione) e vada ben al di là di un processo di riclassificazione sismica e di decreti ministeriali sulle costruzioni, è altrettanto vero che il dibattito sviluppatosi nel Paese, soprattutto dopo il terremoto che nel 1980 ha colpito la Campania e la Basilicata, non è stato sufficiente a far decollare un’organica politica nazionale di difesa dai terremoti; una strategia in grado di definire gli interventi da mettere in atto per la prevenzione, la protezione civile, lo sviluppo della ricerca ed il loro raccordo con i livelli istituzionali di formazione, aggiornamento professionale, e di garantire nel contempo il coordinamento e l’organizzazione degli interventi dello Stato, delle Regioni e degli Enti Locali. Una tale politica consentirebbe di raggiungere anche un obiettivo di carattere più spiccatamente culturale: riguardare l’evento sismico alla stregua di uno dei tanti vincoli che la natura impone e quindi l’abitudine a convivere con esso. Purtroppo invece, in una fase in cui i grandi orizzonti sembrano offuscati e le risorse disponibili ridotte, si accentua la contraddizione fra i tempi della politica, sempre più brevi ed instabili, e quelli della ricerca tecnica e scientifica, che invece abbisognano di margini più ampi per risultare produttivi. L’esperienza di altri Paesi, primo tra tutti il Giappone, insegna che è certamente possibile ridurre notevolmente le vittime ed i danni causati dai terremoti attraverso azioni opportunamente articolate, sia in tempi precedenti (prevenzione), che successivi al sisma (gestione dell’emergenza); ma ciò ha richiesto impegno degli Enti Pubblici, ad ogni livello, consapevolezza e sensibilità rispetto al tema della prevenzione nella società, ed adeguate competenze tecnico-scientifiche. Nei paesi più avanzati, sotto l’aspetto della prevenzione dai terremoti, gli Enti Locali svolgono un ruolo insostituibile in alcune fasi importanti, quali il rilevamento del patrimonio edilizio, la gestione del processo di educazione di massa, il controllo delle trasformazioni territoriali. Sempre in ordine al ruolo degli Enti Locali, le esperienze acquisite con il sisma del 1980 indicano che la crisi ed il caos si manifestano nelle ore immediatamente successive alla catastrofe, laddove il caposaldo di base, il Comune, non è in grado di operare adeguatamente e le forze esterne incontrano notevoli difficoltà ad operare in un territorio che non conoscono e senza punti di riferimento certi. Il rinnovo della memoria A cento anni dall’ultimo terremoto distruttivo che ha colpito l’Area dello Stretto è importante una riflessione sul “Rischio sismico” incombente, per richiamare l’attenzione sulla centralità che riveste la sua mitigazione. Nel nostro territorio i terremoti distruttivi di cui si ha più recente memoria storica risalgono, come già detto, al 1783 ed al 1908. Del sisma del 1783, il “grande

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terremoto”, se ne è praticamente persa traccia nella coscienza popolare, ancorché se ne tramanda la memoria in letteratura. Significativo a tal proposito è il testo dello storico Augusto Placanica (“Il filosofo e la catastrofe”) che fa rivivere l’enorme impressione e l’eco larghissima che suscitò nella coscienza dei contemporanei il terremoto del 1783: la fittissima trama di indagini, discussioni, polemiche sulle cause del sisma, sui suoi significati filosofici e simbolici, sulla sua stessa natura fisica e portata cosmologica. Afferma Placanica, che un grande terremoto “rappresenta” la fine del mondo: esso non solo uccide l’esistenza biologica, ma rompe i cardini della natura, spezza l’asse della terra, risospinge la società e la storia all’indietro. E anche la successiva ripresa, in cui la vita riassume i ritmi abituali, si carica di significati, diventa “rinascita”, e spinge gli uomini a pensare entro una dimensione virginale insospettata: l’economia e la giustizia, l’ordine sociale e l’immaginazione, la memoria e il presagio, Dio e il Male, tutto risorge, ma tutto viene messo in discussione. Valutazione del rischio e mitigazione Negli ultimi decenni nel Paese si è fatta strada a livello scientifico una cultura della difesa dai terremoti fondata sulla consapevolezza del rischio, sulla difesa attiva e sulla prevenzione. Significativa sotto questo aspetto è l’attività svolta dal Gruppo Nazionale Difesa dai Terremoti e dal Servizio Sismico Nazionale, finalizzata all’acquisizione dei dati conoscitivi alla promozione della ricerca, al servizio ed al supporto alle istituzioni dello Stato ed agli Enti Pubblici territoriali. Nella comunità scientifica si è sviluppata pertanto una notevole attività di ricerca nel campo del rischio sismico, inteso come misura delle conseguenze di un terremoto, in termini di vittime e danni attesi. Il rischio sismico è stato cioè codificato come la probabilità che si verifichi, o che venga superato, un certo livello di danno o di perdita, in un prefissato intervallo di tempo ed in una data area, a seguito di un evento sismico. Tale concetto è stato correlato a tre fattori principali: pericolosità, esposizione e vulnerabilità. Pertanto la stima del rischio è il risultato della combinazione di questi tre fattori. La pericolosità è un parametro associato agli eventi sismici attesi nell’area territoriale in oggetto ed esprime la probabilità che si verifichi, durante un intervallo di tempo assegnato, un terremoto capace di causare danni (terremoto di scenario). La vulnerabilità sismica è una grandezza che interessa i sistemi esposti al sisma che hanno un’attitudine al danneggiamento. Tali danni possono in generale indurre una momentanea o riparabile riduzione di efficienza o, anche, la totale perdita del bene in oggetto. L’esposizione è un parametro che rappresenta la presenza ed il valore degli oggetti esposti. È evidente quindi che il rischio sismico è fortemente influenzato dalla dislocazione, consistenza, qualità e valore dei beni e delle attività presenti sul territorio, (insediamenti, edifici, attività economico-produttive, infrastrutture, beni di valore storico-culturale, densità di popolazione) e che per la sua mitigazione è necessario operare sui parametri esposizione e vulnerabilità, in quanto la pericolosità è un valore non modificabile dall’uomo, bensì una caratteristica intrinseca del territorio. L’esposizione è un parametro modificabile con opportune politiche di gestione del territorio; la vulnerabilità è il parametro sul quale si può intervenire con incisività soprattutto attraverso le normative ed adeguati livelli di cultura tecnica. La nuova normativa sismica italiana In Italia sono state recentemente emanate nuove norme sismiche i cui contenuti risultano fortemente innovativi rispetto alle norme precedenti. L’obiettivo fondamentale del nuovo quadro normativo è di assicurare che in caso di evento sismico sia protetta la vita umana, siano limitati i danni e rimangano funzionanti le strutture essenziali alle attività della Protezione Civile. I principi e i metodi delle nuove norme sono in armonia con quelli vigenti nei Paesi a più alta attività sismica (USA, Cina, Giappone, Sud-Est Asiatico), nonché con quelli del sistema di

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norme integrato della Comunità Europea (Eurocodice 8), già votato favorevolmente da tutti i Paesi membri, Italia compresa. Rispetto alla normativa nazionale precedente, (Decreto Ministeriale 16 gennaio 1996), basata su concetti di carattere convenzionale e puramente prescrittivi, la nuova norma (D.M. 18.1.2008) punta su una impostazione di tipo prestazionale (Performance Base Design), in cui vengono cioè dichiarati esplicitamente gli obiettivi che la norma si prefigge ed i criteri di progettazione e di dimensionamento degli elementi strutturali. È previsto inoltre che i metodi di calcolo utilizzati nonché le procedure di analisi strutturale vengano singolarmente giustificati. Ne consegue quindi che il metodo di calcolo e verifica strutturale da adottare è quello “agli stati limite”, con il conseguente definitivo abbandono del metodo delle “tensioni ammissibili”. È evidente che questa impostazione fornisce al progettista la consapevolezza delle finalità e del rilievo di ogni singola operazione e consente alla committenza di calibrare le prestazioni richieste all’opera in relazione ad esigenze specifiche che essa deve soddisfare. In particolare la nuova normativa prevede per gli edifici il conseguimento di una protezione “adeguata” nei confronti di due stati limiti d’esercizio:

- Stato Limite di Operatività (SLO): a seguito del terremoto la costruzione nel suo complesso, incluse le apparecchiature rilevanti alla sua funzione, non deve subire danni ed interruzioni d'uso significativi;

- Stato Limite di Danno (SLD): a seguito del terremoto la costruzione nel suo complesso, incluse le apparecchiature rilevanti alla sua funzione, subisce danni tali da non mettere a rischio gli utenti e da non compromettere significativamente la capacità di resistenza e di rigidezza nei confronti delle azioni verticali ed orizzontali, mantenendosi immediatamente utilizzabile pur nell’interruzione d’uso di parte delle apparecchiature.

e di due stati limite ultimi: - Stato Limite di salvaguardia della Vita (SLV): a seguito del terremoto la costruzione

subisce rotture e crolli dei componenti non strutturali ed impiantistici e significativi danni dei componenti strutturali conservando ancora una parte della resistenza e rigidezza per azioni verticali e un buon margine di sicurezza nei confronti del collasso per azioni sismiche orizzontali;

- Stato Limite di prevenzione del Collasso (SLC): a seguito del terremoto la costruzione subisce gravi rotture e crolli dei componenti non strutturali ed impiantistici e danni molto gravi dei componenti strutturali; la costruzione conserva ancora un margine di sicurezza per azioni verticali ed un esiguo margine di sicurezza nei confronti del collasso per azioni orizzontali. Le strutture progettate seguendo la nuova normativa saranno pertanto in grado di sopportare, senza collassare, azioni sismiche di livello elevato per effetto dell’adozione di particolari criteri di progettazione, finalizzati ad ottenere un preciso meccanismo di plasticizzazione della struttura (Capacity Design). Tali criteri sono basati sui concetti di gerarchia delle resistenze e richiesta di duttilità. Il primo concetto consiste nell’assegnare, in fase di progetto, una resistenza flessionale differenziata ai diversi elementi strutturali, in modo che i “cedimenti” di alcuni precedano, e quindi prevengano, quello di altri, che determinerebbero il collasso globale della struttura. In particolare dovranno essere evitati i meccanismi di collasso fragile o altri meccanismi indesiderati (come ad esempio la rottura per taglio, il collasso di collegamenti trave-colonna, la plasticizzazione delle fondazioni o di un qualsiasi altro elemento che dovrebbe restare in campo elastico). Ciò sarà evitato favorendo, attraverso un’accorta progettazione, la formazione di cerniere plastiche distribuite opportunamente lungo tutta la struttura e localizzate solo sulle travi. Ciò eviterà la loro concentrazione in corrispondenza di un unico piano (piano debole), privilegiando i meccanismi di travi deboli e pilastri forti. Inoltre la progettazione dovrà garantire che in un elemento strutturale della fase di comportamento elastico sia seguito da deformazioni plastiche cicliche di grande ampiezza. Tale capacità identifica la duttilità dell’elemento strutturale. Pertanto per garantire elevati livelli di duttilità globale della struttura, le zone dove potenzialmente possono formarsi cerniere plastiche devono possedere grandi

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capacità di compiere rotazioni plastiche senza che la struttura, pur danneggiandosi diffusamente, perda la sua funzione statica. Una siffatta impostazione implica di un approccio professionale più “consapevole” rispetto al passato e, quindi, un salto di qualità a livello delle conoscenze in materia di costruzioni asismiche. Inoltre la progettazione delle opere dovrà essere caratterizzata da un rapporto molto stretto tra “forma” e “struttura” e quindi da una forte integrazione tra soggetti (architetto ed ingegnere) che, pur nelle rispettive specificità, dovranno ricercare un linguaggio comune, superando i limiti che contraddistinguono l’attuale modo di operare.

COSTRUIRE LA RICOSTRUZIONE Maurizio Aversa192

(…) Oggi non si fondano più le città, possiamo solo aggiungere delle cose, delle costruzioni,

degli edifici, dei quartieri, però sicuramente la responsabilità rimane ancora ai singoli edifici che vengono costruiti. (…) Poiché in realtà sono gli edifici i luoghi

in cui le persone vivono la vita reale, invece i film possono solo riprenderlo; ma i film, esattamente come gli edifici, costituiscono la nuova base, il nuovo terreno

su cui le nuove generazioni costruiranno la loro conoscenza. Forse la cosa più importante che gli architetti e i registi hanno in comune è questo:

il fatto che ogni storia parla di luoghi, di vita di morte così come l’architettura. W. Wenders, 1994

Ore 5,21 del 28 dicembre 1908. La linea è interrotta. La situazione era talmente drammatica che non si sapeva realmente cosa fare di quello che restava di Messina. La ricostruzione sembrava impossibile. Tra le ipotesi c’era chi sosteneva che la cosa giusta sarebbe stata quella di sgombrare la città e demolirla, assicurando ai pochi cittadini rimasti una vita altrove. Bombardare, incendiare, coprire con la calce…Messina solo come testa di linea ferroviaria per le comunicazioni con il continente. A Reggio Calabria, la condizione era ugualmente drammatica, tra le rovine di villa Genovese-Zerbi e le macerie dei palazzi Mantica, Ramirez e Rettano e il lungomare distrutto. Città divise da quel lembo di mare che gli si rivoltò contro, ma unite ancora oggi dall’attesa di una concretizazzione di quell’”area metropolitana dello stretto”, la cui realizzazione è stata per troppi anni invocata e puntualmente disattesa. Le Città dello Stretto, oggi, fatalmente, ricostituiscono se stesse, prendendo le mosse dall’analisi degli episodi che le compongono (e le scompongono). Costrette in sistemi di relazioni urbane frutto della ricostruzione prima, e della speculazione edilizia poi, connotate da uno scenario di in larga parte composto di edifici residenziali nei quali la domanda abitativa era scaturita in maniera sostanzialmente diversa, lontana dalle attuali richieste di qualità insediativa, ambientale ed urbana.

9 Bibliografia di riferimento: P. SIMON, Additions d’architecture, Editions du Papillon de l’Arsenal, Paris, 1996; P.F. COLUSSO, “Wim Wenders. Paesaggi luoghi città” Universale di Architettura n. 41, Testo & Immagine, Torino 1998, estratti da: W. Wenders, L’atto di vedere, Ubulibri, Milano 1992 e W. Wenders, Conferenza alla Triennale di Milano 1994; M. IMPERADORI, Costruire sul costruito – Tecnologie leggere nel recupero edilizio, Carocci editore, Roma 2001; E. ZAMBELLI, Ristrutturazione e Trasformazione del Costruito, Il sole 24 Ore, Milano, 2004; M. AVERSA–T. GIGLIO, “Nuovi modelli per l’abitare” Dossier di Costruire, dicembre 2007, Abitare Segesta, Milano.

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Città che esprimono tutte le loro carenze anche nella rapida obsolescenza tecnica e funzionale dei loro edifici o, ad una scala diversa, nelle sacche di degrado sociale e ambientale delle zone a margine. Le nuove istanze dell’abitare nelle città, e questo vale ancora di più nelle città del post terremoto, si declinano, oggi, all’interno di un mutato quadro dei comportamenti sociali e in virtù di sostanziali modifiche nelle aspettative ricorrenti. Aspettative che provengono da un’utenza alla ricerca di soluzioni progettuali personalizzate e flessibili, dai costi contenuti e con rinnovato interesse verso la mobilità e la transitorietà. Si aggiunga a questo la ineluttabile necessità di concepire, oggi e per il futuro, gli edifici con un’attenzione sempre più marcata alla riduzione degli impatti e ai consumi di materia e di risorse. In tal senso costruire la ricostruzione o meglio nella ricostruzione può essere una occasione di riflessione sulla possibile evoluzione nei meccanismi di trasformazione urbana, tanto nelle logiche di aggregazione e stratificazione quanto nelle modifiche dei modelli abitativi attuali. La stessa immagine delle città dello Stretto dimostra che, morfologicamente e funzionalmente, gli edifici (residenziali in particolare) vengono quasi spontaneamente e continuamente riadattati attraverso procedure di riplasmazione, risistemazione e superfetazione, che si manifestano come tipiche ed endemiche, talvolta patologiche, dell’organismo-città. Tale livello di ‘manipolabilità’ è ampio anche nella direzione in cui si aprono possibilità di intervento orientate a ristabilire livelli di qualità tipo-morfologica (la cui assenza spesso li ha caratterizzati sin dall’origine), funzionale e fruitiva (in relazione a mutate esigenze dell’utenza) e ambientale (nel senso di livelli adeguati di comfort e di riduzione degli impatti e dei consumi). In questo quadro, è utile richiamare il contributo che proviene sia da ambiti di ricerca sia da prassi di sperimentazione progettuale. E. Zambelli, per il primo di questi aspetti, offre un contributo fondamentale nell’individuare, per le strategie di intervento sugli edifici esistenti, due categorie: gli interventi di sostituzione e/o modificazione e quelli di addizione. Considerando la prospettiva risultante dalle categorie di intervento suddette, però, almeno due elementi diventano irrinunciabili: - la “questione architettonica”, nel momento in cui il progetto dell’esistente si propone come alternativa critica alla presenza del costruito ( nella diade mimetismo o riplasmazione, conservazione o trasformazione) - la “ingegnerizzazione del progetto” intesa come risposta dell’edificio alle mutate esigenze espresse o comunque insite negli obiettivi (riqualificazione, riuso ecc..) In questo scenario l’addizione progettuale-prestazionale, in particolare, si manifesta come capacità dell’intervento di relazionarsi con l’edificio esistente, modificandone gli aspetti tipo-morfologici e funzionali, e come elemento tecnologico che integra l’edificio preesistente instaurando con esso processi di riqualificazione formale e funzionale. Nel novero di questi aspetti fenomenologici della trasformazione urbana si inquadrano, al limite della sperimentazione progettuale, le ipotesi di aggiunta di interi moduli abitativi al tessuto esistente. L’addizione così intesa risulta, essere un vero e proprio paradigma progettuale, realmente innovativo, che ha la particolarità di esprimersi in un rapporto simbiotico con l’edificio preesistente, altre volte in modo quasi volutamente in contrasto con esso. Ciò che risulta certamente interessante è comprendere in che misura, dalla ricerca e dalla sperimentazione attuali, possano provenire reali esempi di architettura contemporanea, in grado di indurre alla diffusione di modelli abitativi, soluzioni costruttive e materiali innovativi. E quanto questi possano essere riportati nel novero delle possibilità di intervento nelle due Città dello Stretto.

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Si segnalano alcune proposte progettuali dalla forte connotazione sperimentale che, recentemente, hanno avuto il merito di aver interpretato le questioni sin qui enunciate, divenendo casi paradigmatici sebbene ancora isolati. In questo quadro, come non ricordare il clamore suscitato dalle prime esperienze (1989) di Coop Himmelblau nel suo Office Extension in Vienna, o più recentemente nel LP2 il “Parassita di Las Palmas”di Korteknie & Stuhlmacher, che prende il nome dell'edificio commerciale degli anni 50, nei pressi di Rotterdam, sul quale sembra essersi letteralmente “arroccato”. Altrettanto rilevante è l’intervento su un piccolo edificio esistente costruito nei primi anni '60, localizzato nel cuore di Merzig, in Germania, realizzato dallo Studio FloSundK attraverso l’aggiunta sul tetto di una nuova estensione denominata Symbiont friedrich. Come in una simbiosi, l'edificio esistente e la sua estensione sono reciprocamente associate in una relazione compositiva mutualmente benefica. Tra istallazione artistica ed architettura, forma e funzione, la Rucksack House (letteralmente " Casa zaino"), progettata da Stefan Eberstadt a Monaco, si connota come una operazione certamente estrema di addizione. Uno spazio abitativo, reale, mobile come uno zaino, una mini-casa, di soli 9 mq pensata per essere sospesa dalla facciata di qualsiasi edificio residenziale. È forte la tentazione di accostare le più recenti tendenze innovative con la “storia” delle visioni futuristiche della città, cosi fortemente riportate alla ribalta dalle Dynamic Architecture di David Fischer, ma che in passato hanno attirato l’interesse di una intera generazione e che ha trovato la massima espressione nelle neoavanguardie tra gli anni ‘60-‘70 (dagli Archigram al Superstudio, da Kisho Kurokawa a Moshè Safdie). Studi e progetti che esprimevano la visione di una città futura quanto mai organica e in “movimento”, con una forte propensione alla flessibilità nei sistemi di relazione tra gli edifici e le strutture della mobilità, e negli insiemi di aggregazione degli edifici stessi. Esperienze celebri, talvolta estremamente utopiche, ma non del tutto distanti da una attuale e possibile evoluzione nei meccanismi di trasformazione urbana, tanto nelle logiche di aggregazione e stratificazione quanto nelle modifiche dei modelli abitativi attuali. RICOSTRUZIONE, MONITORAGGIO, RIQUALIFICAZIONE. UN

CONTRIBUTO OPERATIVO PER IL RECUPERO DELL’ESISTENTE POST TERREMOTO

Francesco Bagnato, Luciana Milazzo, Cherubina Modaffari Il terremoto del 1908 ha profondamente segnato la città di Reggio Calabria, annullando in gran parte il patrimonio edilizio esistente, determinando una nuova urbanistica della città, che ha cancellato quasi totalmente l'aspetto della città greca, romana e medievale. Il nuovo piano, redatto dall'ingegnere De Nava, riprende l'impianto a scacchiera esistente, ampliandone i confini verso Sud e verso Nord con gli stessi criteri della maglia regolare, ignorando una soluzione organica alla crescita della città, in aderenza all’identità morfologica dei luoghi, favorendo la nascita di molti insediamenti "spontanei", tra gli anni '20 e '40, anticipando un’espansione articolata, tuttora irrisolta, della periferia ai bordi della città, senza alcun tipo di regola spaziale. Anche l’intervento pubblico contribuisce ad aumentare il divario tra centro urbano, realizzando edifici signorili di rappresentanza, e periferia, destinata ad accogliere quartieri popolari. Nello specifico, per paura del maremoto, la Real Palazzina è stata sostituita con un sistema alberato, rappresentato dall’attuale assetto della via Marina; la parte collinare è stata rimodellata, spostando il sito della Cattedrale e ridimensionando l'antico Castello; l’ambito urbano a Nord, si è esteso fino agli spazi occupati dalla città baraccata, a ridosso del bacino

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portuale; a Sud della fiumara del Calopinace, l'area soprastante la stazione ferroviaria centrale è stata riqualificata. Le scelte urbanistiche della ricostruzione sono condizionate da alcune "precauzioni antisismiche", quali l'uso della la tecnologia del cemento armato e il rispetto dei limiti di altezza a due o tre piani per gli edifici, consentendo agli architetti provenienti da altre parti d’Italia di proporre apporti culturali e stilistici esterni, come l’Eclettismo e il Liberty. Memoria dell’epoca della ricostruzione è la scuola elementare Giosuè Carducci193, progettata tra il 1912 e il 1914 da Camillo Autore194, architetto e ingegnere, che, a Reggio Calabria, intraprende la sua attività (1912/1919) presso la sezione dell'Ufficio Tecnico del Piano Regolatore della Città e l'Ufficio Tecnico Provinciale. La Scuola è ubicata nel vecchio Quartiere Americano, sorto a nord del centro storico195 della città di Reggio Calabria, in un terreno tra i torrenti Annunziata e Caserta. Lungo l’odierna via Mattia Preti è collocato l’ingresso principale dell’edificio, che è caratterizzato da una tipologia architettonica “a corte” e si sviluppa in altezza su tre livelli, di cui uno parzialmente interrato. La struttura portante di fondazione è in muratura di pietrame, su cui poggia un sistema misto composto da un telaio di elevazione in cemento armato e pareti perimetrali in muratura di mattoni pieni e forati. La costruzione dell’edificio iniziò nel 1921 e proseguì per tappe fino al 1927. Durante la seconda guerra mondiale il piano seminterrato della scuola fu utilizzato come rifugio anti-bombe, pertanto, alla fine del conflitto, la scuola stessa fu sottoposta ad alcune verifiche tecniche, a causa dei danneggiamenti subiti dai bombardamenti e dalle occupazioni abusive di cittadini rimasti senza dimora.

193 P.A. GAETANO, “Ipotesi di riqualificazione ed adeguamento normativo di un edificio scolastico: caso studio scuola elementare “Giosuè Carducci”, Reggio Calabria”, tesi di laurea, a. a. 2006/07, relatore prof. arch. Francesco Bagnato; correlatori prof. M. T. Lucarelli, arch. Deborah Pennestrì, arch. Luciana Milazzo, arch. Cherubina Modaffari, Facoltà di Architettura, Università degli studi Mediterranea di Reggio Calabria 194 (Palermo, 1882 – Merano, 1936), allievo di Ernesto Basile, progettista, tra l’altro, del Palazzo dell’Amministrazione Provinciale, del Tempio della Vittoria e del Monumento Commemorativo a Vittorio Emanuele III. 195 Il centro storico della città di Reggio Calabria è compreso tra la fiumara dell’Annunziata (nord) e la fiumara del Calopinace (sud).

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A distanza di un secolo dal terremoto, l’emergenza continua ed è rappresentata dalla necessità di recuperare un patrimonio edilizio scolastico pubblico, che tende a non essere più corrispondente, in termini di sicurezza e benessere, all’utenza cui era destinato in origine. L’esistenza di strutture vecchie o fatiscenti, di impianti elettrici, idrici e di riscaldamento non funzionanti o non a norma, insieme alle rapide modificazioni dei modelli d’uso, all’evoluzione dell’apparato normativo sulla qualità edilizia e all’introduzione delle normative volontarie sulla qualità ambientale, sono fattori che determinano la necessità di adeguare gli edifici esistenti, indipendentemente dalle diverse destinazioni d’uso, a livelli prestazionali totalmente diversi da quelli inizialmente previsti. Gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente e l'affidabilità della progettazione esecutiva, richiedono appropriatezza tecnica, conformità e sostenibilità delle soluzioni costruttive. E’ necessario definire i “mezzi” attraverso cui produrre le prestazioni capaci di

assecondare, correggere e soddisfare i quadri esigenziali derivanti dal progetto di adeguamento di riqualificazione e di riuso. Nel campo della riqualificazione edilizia, il progettista è normalmente supportato da nuovi manuali contenenti Soluzioni Tecniche Conformi che esprimono sostanzialmente funzionamenti orientati ad ottenere determinati livelli prestazionali; ma è la soluzione tecnologica specificata nella sua costituzione materiale l'elemento su cui si gioca l’effettivo ottenimento delle prestazioni, con riferimento all’intero ciclo di vita del manufatto. A fronte di ciò, ancora oggi si procede con l'aiuto di guide informative costruite essenzialmente su logiche esemplificative, i cui limiti sono nella grande generalizzazione delle indicazioni. Un ulteriore limite delle Soluzioni Tecniche Conformi è che esse, per definizione, non

considerano il contesto d'intervento. Anche questo, un problema centrale e non semplice; forse tra i più attuali e dibattuti, in quanto fortemente attinente all'applicazione del concetto di sostenibilità al settore dell'edilizia. Un argomento che, guardando al principio della compatibilità ambientale, in ambito tecnologico, riconduce al concetto di appropriatezza della soluzione conforme rispetto al contesto d'utilizzo e rispetto alla preesistenza. Assume, pertanto, maggiore importanza che in passato, orientare la ricerca verso l’elaborazione di procedure efficaci che sappiano rilevare i limiti oggettuali e le carenze della preesistenza e indicare correttivi necessari per una "nuova qualità urbana ed edilizia".

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In tale ambito si inserisce la ricerca PRIT dal titolo “Sistemi e metodologie per il monitoraggio ambientale e tecnologico negli interventi di riqualificazione del costruito196”, che ha avuto come obiettivo l’organizzazione delle attività di un organismo accreditato per il monitoraggio ambientale e tecnologico negli interventi di riqualificazione del patrimonio edilizio esistente. Secondo la norma UNI 10147-2003, Manutenzione – Termini aggiuntivi alla UNI EN 13306 e definizioni, le attività di monitoraggio consistono nella “misurazione continua o periodica di dati per indicare la condizione di un bene e determinarne le necessità di manutenzione”. Strettamente legato al concetto di monitoraggio è la definizione di diagnostica197 intesa come “l’insieme delle attività, delle procedure e degli strumenti finalizzati alla conoscenza dello stato e delle condizioni di funzionamento dei componenti”. In particolare, gli obiettivi specifici perseguiti sono rappresentati da protocolli, legati alle attività del laboratorio, relativi allo sviluppo del progetto di diagnosi delle prestazioni globali degli edifici esistenti e allo sviluppo e al controllo del successivo progetto di riqualificazione. Difatti, il carattere più significativo della ricerca, è rappresentato dal fatto di aver fornito un quadro procedurale integrato, che pone a base della sua operatività il principio della conoscenza della qualità residua degli edifici esistenti, all’interno di un preciso contesto urbano. Uno strumento posto a supporto del progettista in grado di guidarlo nella risoluzione di problematiche complesse, connesse all’adeguamento dell’esistente. La Scuola elementare Giosuè Carducci, attualmente facente parte del patrimonio edilizio scolastico gestito dall’amministrazione comunale di Reggio Calabria, rappresenta il caso studio, sul quale sono stati sperimentati i protocolli per lo sviluppo del progetto di diagnosi e per lo sviluppo e il controllo del progetto di riqualificazione del costruito. Dall’applicazione dei protocolli è emerso che le metodologie e gli strumenti proposti offrono le seguenti opportunità: con riferimento alle prestazioni energetiche, il processo diagnostico fornisce una raccolta

dei dati relativi alle caratteristiche termofisiche dell’edificio, attraverso l’esame della documentazione e di rilievi diretti dello stato di fatto;

in relazione all’aspetto della diagnosi, i dati ottenuti dall’applicazione del protocollo sono utilizzabili per la costruzione di Sistemi informativi per la manutenzione, e procedure di certificazione e diagnosi energetico-ambientale dell’esistente;

per quel che riguarda il progetto di riqualificazione i dati ottenuti dall’applicazione del protocollo sono utilizzabili all’interno di strumenti di valutazione prestazionale e strumenti di supporto decisionale per la redazione di Documenti Preliminari alla Progettazione e di pianificazione delle fasi progettuali (preliminare, definitivo, esecutivo), come supporto alle successive fasi di gestione (piani di manutenzione) e di monitoraggio dell’edificio riqualificato.

IL MEMORIALE DEL TERREMOTO DI MESSINA E REGGIO Francesco Cardullo

Da una decina di anni ho avuto varie occasioni di lavorare attorno al tema dell’architettura come ricordo. Tema affascinante che ha valenze simboliche, morali, civili, etiche: ma che pur sempre è anche un tema architettonico, storicamente architettonico e non solamente appartenente alla sfera dell’arte.

196 Ricerca “Sistemi e metodologie per il monitoraggio ambientale e tecnologico negli interventi di riqualificazione”, finanziata con Programmi di ricerca scientifica di rilevante interesse territoriale – PRIT - (Fondi ricerche d’ateneo), 2004, Unità Operativa STOA, Resp. Scientifico Prof. Attilio Nesi. Gruppo di lavoro: Attilio Nesi, responsabile scientifico; Francesco Bagnato, coordinatore operativo; Luciana Milazzo, dottore di ricerca; Cherubina Modaffari, dottore di ricerca; Pietro Antonio Gaetano, dottorando di ricerca. 197 Norma UNI 10604, estratto dall’art. 3 “Terminologia”.

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È trascorso un secolo dai trenta secondi che alle 05,20 dell’alba del 1908 hanno cambiato la storia di due città, della mie città: della città dove sono nato e vivo, e di quella dove insegno da trentadue anni. Solo melanconiche e struggenti note possono dare l’idea di un mondo che non c’è più, una infanzia andata via, più della parola o dell’immagine. Una profonda nostalgia, commovente, perduta, che potrebbe avere nelle note della musica (penso a Satie, o a Dvorak, o Part) efficace ricostruzione. Altre discipline, come l’architettura, possono solo provare, attraverso le suggestioni visive dello spazio, ad avvicinarsi a quanto la musica riesce a suscitare. Non ci sono, credo, a Messina e Reggio Calabria, sculture o architetture, steli o memoriali, che ricordano la furia della natura, l’azzeramento ed il ricominciamento, il fuoco e la cenere, la distruzione e la ricostruzione, che hanno caratterizzato ripetutamente nei secoli, più forse di qualunque città italiana, la storia delle due città. Penso sia necessario ricordare in modo permanente il principale evento che ha mutato il volto, ma anche l’identità di tutti gli abitanti delle due città principali dello Stretto, (che sono socialmente ed antropologicamente terremotati, nel senso di incapaci di diventare protagonisti di una rinascita e di un riscatto definitivo dalla condizione di precarietà), con un Memoriale, una architettura simbolica, che ricordi tutti i terremoti delle città, le vittime colpite, gli stravolgimenti della facies urbana, il vuoto del dolore, della volontà, dello spazio. Mi sembra che non esista nelle due città una memoria tangibile di quei catastrofici eventi; fisica, che si possa toccare e vedere, percorrere e attraversare, guardare da vicino o da lontano; memoria tangibile che aiuti a proiettare la riflessione dell’oggi nel passato, che permetta ai cittadini messinesi e reggini, di ogni generazione, di sapere da dove partono, come eravamo. La cultura è anche storia, che diventa insegnamento, ammonimento, ammaestramento per l’azione nel presente. Non mi sembra che la politica o la cultura espressa dalle città, a quasi cento anni dall’ultimo cataclisma (ma altri, altrettanto terribili, si sono succeduti nella storia, causando più volte la modificazione, anche radicale, del volto urbano: le città dello Stretto di fatto sono l’incarnazione del mito dell’araba fenice), abbia pensato ad un Memoriale che ponga l’evento principale della sua stessa storia al centro di una rifondazione. L’idea è quella che un architetto elabori, attraverso lo sforzo creativo più alto del suo mestiere, un progetto. Un progetto che per un architetto è una speranza: di cambiamento, di modificazione, di miglioramento. Progettare è il nesso più solido che unisce l’uomo alla realtà ed alla storia. Nel 28 dicembre del 2008 ricorreranno cento anni dall’ultimo catastrofico terremoto. L’idea è quella di progettare un Memoriale che ricordi i terremoti che hanno annientato la nostra storia più di una volta, e che ricordi anche tutte le vittime di questi eventi naturali tragici. L’idea è che alcuni architetti di Messina e Reggio Calabria, donino alla terra natale, o in cui comunque si opera professionalmente, un proprio progetto, un frutto del proprio talento. Uso il verbo donare perché di questo si tratta. Penso che sia possibile donare alle nostre città un progetto di “Memoriale delle vittime dei terremoti di Messina e Reggio Calabria” senza ricevere alcun compenso, anzi pagandosi anche le spese. Quello che penso è che ci accomuna l’essere nati, o vissuti, o residenti, o comunque iscritti all’Albo degli Architetti di Messina e Reggio Calabria, e quindi per primi coinvolti in una idea che vuole coniugare progetto, luoghi e persone d’origine, ed infine, interesse per l’aspetto civile del mestiere di architetto. Gli edifici della memoria e della celebrazione ricreano uno stretto legame tra la società e la cultura, e fra queste e l’architettura. Il Memoriale in ricordo delle vittime dei terremoti documenta e traduce in termini tridimensionali e diretti un avvenimento ed un periodo. Il concetto che caratterizza il Memoriale consiste nella sua funzione di tramite tra il passato, il presente, e il futuro.

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La narrazione storica, il passato ed il lutto, non è l’intera storia. Il Memoriale racconta una storia ulteriore, una storia propria del luogo. I Memoriali documentano la storia, la morte ed il dolore, tuttavia nello stesso tempo creano un ulteriore prospettiva, in avanti, verso il futuro. Il Memoriale deve rinforzare, in termini di spazio e di progettazione architettonica, i miti esistenti e le condizioni sociali, caratteri forti della particolare area dello Stretto: luogo della nostra esistenza. Mi sono assunto la responsabilità di scegliere degli architetti-progettisti che avessero tre caratteristiche: a) il capogruppo, o il responsabile del progetto, doveva essere iscritto all’Ordine degli architetti di Messina o di Reggio Calabria (ci doveva essere un’identità tangibile, una appartenenza sentimentale, un coinvolgimento emotivo non astratto, ma personale, di famiglia, privato); b) l’età del capogruppo-responsabile doveva non discostarsi di molto dai quarant’anni (per rendere omogenee e confrontabili le esperienze, e per dare visibilità e fiducia ad una generazione locale relativamente giovane); c) il capogruppo-responsabile doveva aver mostrato interesse verso il progetto di architettura come ricerca, come forma di un’arte, particolarmente simbolica in questo caso, piuttosto che professionale (dovevano essere persone di cui conoscevo, ed apprezzavo, il modo di progettare, l’interesse culturale, l’impegno verso l’architettura). Come tutti i criteri, sicuramente opinabili; come tutte le selezioni e le scelte, sicuramente parziali ed incomplete. Conosco tutti i capigruppo personalmente, e le scelte sono di mia unica responsabilità. Su quarantotto architetti che ho, inizialmente, invitato hanno aderito in ventiquattro, che in qualche caso, si sono aggregati, sino ad arrivare a dieci gruppi per Messina e dieci gruppi per Reggio Calabria, con un’alchimia dei numeri non voluta, ma felice. Complessivamente le persone coinvolte sono ottanta, considerando non solo gli architetti, o gli studenti, ma anche gli artisti o i fotografi o i sacerdoti. Un buon numero di persone di buona volontà cui ho chiesto di donare un “Memoriale dedicato alle vittime dei terremoti”. Donare è qualcosa di più di regalare. Donare implica gratuità del gesto, ma anche dedizione, attendere con amore e con impegno, con disinteresse e liberalità, dedicare il proprio tempo, avere cura, entusiasmo. Un architetto che dona un progetto, dona il proprio talento, una nuova idea di un luogo, una nuova idea di uno spazio, una nuova idea di modificazione in “meglio” di una parte di città, un nuovo significato ai territori dell’area dello Stretto. Un architetto che dona un progetto ha fiducia che il paesaggio dove vive possa cambiare. Tra febbraio e marzo del 2007 ho mandato gli inviti, tra febbraio e maggio del 2008 ho ricevuto i progetti. Poi il mio dono, il tempo da dedicare alla preparazione di un libro che contenesse i risultati di questa iniziativa. Gli architetti in quanto intellettuali devono produrre idee, possibilmente belle. Una volta espresse le idee appartengono a tutta la comunità civile. Questo è l’elenco di tutte le persone di buona volontà che hanno dedicato del tempo e dell’ingegno a questa iniziativa, li ringrazio tutti profondamente, senza questa loro fatica il valore di testimonianza del ruolo civile dell’architetto, in occasione di questa ricorrenza, non ci sarebbe stata: Rocco Addesi, Ottavio Amaro, Marinella Arena, Maurizio Aversa, Maria Azzalin, Rosario Badessa, Marianna Battaglia, Fabrizia Berlingeri, Salvatore Bettino, Salvo Bonaventura, Calogero Brancatelli, Serena Calcopietro, Desirée Campolo, Giorgio Cannizzaro, Annabella Cappellani, Daria Caruso, Emanuele Cassibba, Luisa Chiaromonte, Valerio Chiovaro, Giovanna Cogliandro, Daniele Colistra, Enrico Costa, Elisa Crimi, Andrea Cristelli, Ketty D’Atena, Alberto De Capua, Bartolo Doria, Gabriella Falcomatà, Francesca Faro, Francesco Fragale, Alessandra Foca, Adriana Galbo, Gaetano Ginex, Carmine Gioffrè, Vincenzo Gioffrè, Alba Guerrera, Antonino Guerrera, Andrea Ieropoli, Giovanni Laganà, Massimo Lauria, Andrea Lonetti, Tindara Maimone, Tommaso Maimone, Giorgio Marchese, Laura Marino, Giuseppe Mazzacuva, Tommaso Melchini, Francesco Messina, Giuseppe Messina, Velia Messina, Luana Messineo, Valerio Morabito, Loredana Musolino, Consuelo Nava, Attilio Nesi, Annunziata Oteri, Alessia Rita Palermiti, Francesca Passalacqua,

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Beniamino Polimeni, Michelangelo Pugliese, Paola Raffa, Stefania Raschi, Patrizia Raso, Antonella Riotto, Simona Rizzo, Trieste Russitto, Chiara Scali, Giuseppe Scarcella, Gabriella Sgrò, Daniela Sidari, Giuseppe Smeriglio, Giovanni Tebala, Daniele Tirotta, Fabio Todesco, Marina Tornatora, Domenico Tosto, Corrado Trombetta, Angela Velletri, ClaraStella Vicari-Aversa, Carmela Zuco.

NUOVE TRASFORMAZIONI URBANE Valeria Ciulla, Alberto De Capua

Ad un secolo dal terremoto che ha colpito l’area dello stretto di Messina ci si domanda cosa è rimasto di quei luoghi in cui la cultura visiva e storica aveva legato gli uomini alla tipicità di questa porzione di territorio ed in quale misura questo evento distruttivo è divenuto memoria nelle successive ricostruzioni e trasformazioni urbane. Di fronte alle patologie delle città dello stretto, manifeste nel fitto e denso tessuto costruito esteso fino ai margini del mare, sembra che tale evento naturale non abbia in alcun modo condizionato le scelte progettuali fatte durante l’immediata fase ricostruttiva o in quelle successive. Nell’attuale organizzazione morfologica ed urbana della città di Reggio Calabria, ad esempio, la geomorfologia del suolo e la presenza dei corsi d’acqua che segnano questo territorio configurandosi come un punto di equilibrio del sistema naturale non costituiscono degli elementi strutturanti dell’ambiente antropizzato, piuttosto le componenti ambientali sono presenti solo nella percezione istantanea della realtà visibile in punti di vista panoramici verso lo stretto. Questo approccio progettuale estraneo alle condizioni locali ed al sistema naturale abiotico e biotico ha permesso di produrre un edilizia caratterizzata da logiche ispirate da ragioni economiche e speculative volte alla quantità piuttosto che alla qualità dello spazio urbano. La ricostruzione post terremoto, infatti, ha avviato un “rinnovamento” radicale dello scenario urbano e storico che ha intaccato anche l’ambiente naturale. La città è cresciuta dimenticando la memoria storica e culturale del territorio dello Stretto e degli abitanti di questo luogo, non proponendo però un modello qualificato dell’abitare ma determinando invece l’alterazione dei caratteri ecologici, geologici, idrologici, idrogeologici e biologici tracciando, così, una barriera culturale tra tessuto sociale e sistemi naturali. Anche le recenti strategie di trasformazione urbana sembrano muoversi in questa direzione inseguendo i processi di modificazione attuati in altre e lontane realtà urbane fortemente condizionate da relazioni economiche politiche e sociali propongono interventi architettonici in cui l’insieme complesso degli elementi e dei fenomeni naturali sono trascurati a favore di stili architettonici che configurano soluzioni progettuali al di là del luogo d’intervento e che piegano, soffocano e schiacciano lo spazio urbano ricorrendo anche a spettacolari, quanto inutili, performance tecnologiche. Si pensi ad esempio alla decisione della pubblica amministrazione del comune di Reggio Calabria di bandire un concorso di progettazione

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internazionale per la riqualificazione di una parte del waterfront della città in cui i criteri selettivi facevano riferimento principalmente alla qualità estetica delle proposte trascurando totalmente la compatibilità ambientale dell’intervento, tanto da rimanere vittima del “fascino della creatività aliena” del progetto dell’architetto libanese Zaha Hadid, col quale, forse, si ambisce di ripercorrere l’esperienza di Bilbao dove il noto intervento per la nuova sede del Museo Guggenheim di un’altra grande firma dell’architettura, Frank Gehry, ha fatto diventare la città spagnola una meta del turismo internazionale. In considerazione delle attuali condizioni fisiche e articolazioni del territorio dello stretto e poiché la qualità dello spazio urbano è divenuta una esigenza imprescindibile alla quale tutti gli interventi devono fare riferimento il tema del progetto urbano non può più essere percepito come un mero problema architettonico o urbanistico, ma deve essere inquadrato nella sua complessità tenendo in considerazione questioni attinenti la qualità ambientale e l’ecoefficienza delle trasformazioni urbane. Le città sono luogo di continui e ripetuti processi, naturali o indotti, di trasformazione e di modificazione fisica sociale ed economica, e il tessuto urbano deve essere pensato come organismo vivente sistemico ed integrato che ha bisogno di interventi trasformativi concepiti come vere e proprie strategie sociali di gestione della produzione, dell’energia e delle risorse in grado di rendere il sistema urbano un ecosistema efficiente attraverso relazioni efficaci tra gli elementi componenti la città, le densità edilizie, i sistemi antropici e i sistemi biofisici e bioclimatici. Tale concezione che supera il modello di pianificazione e progettazione rivolto a definiti ambiti settoriali coinvolge la sfera complessiva e complessa del sistema urbano, e considera le trasformazioni urbane come grandi opportunità per rifunzionalizzare le attività e valorizzare l’esistente. Gli assetti insediativi di nuova costruzione come quelli di adeguamento degli insediamenti presenti devono confrontarsi con i caratteri ambientali e morfologici del territorio, proponendo delle soluzioni progettuali compatibili tanto con l’ambiente costruito tanto con quello naturale. In questa logica le attuali considerazioni aperte in ambito europeo riguardo le problematiche ambientali e le relative strategie sviluppate a livello internazionale e nazionale spingono verso una progettazione urbana sostenibile intesa come “le modalità di assetto e di utilizzazione del territorio urbano” per “tutelare l’identità, il patrimonio culturale, l’architettura storica, gli spazi verdi e la biodiversità delle città”198 considerando la progettazione urbana come il primo passo per attuare i principi di sostenibilità a scala di ambiente costruito e di edificio. Nell’ambito dei programmi e dei processi di nuova edificazione come in quelli di progettazione dell’esistente, di recupero e di riqualificazione a livello edilizio ed urbano la nozione del progetto deve essere estesa all’integrazione controllata tra elementi di natura ed artificio, in modo da rispondere in termini qualitativi anche alle esigenze di adeguamento al dettato comunitario in materia di protezione dai rischi ambientali, di uso controllato delle risorse, di riduzione delle emissioni inquinanti, di elevazione delle qualità prestazionali delle forme costruite e degli spazi aperti, di migliori condizioni di vita per i cittadini, temi che in termini progettuali significano porre rinnovata attenzione riguardo:

• al contesto • al problema della qualità architettonica ed ambientale degli spazi abitativi interni ed

esterni • al miglioramento delle dotazioni di servizi ed attrezzature • al miglioramento dell’arredo urbano • al miglioramento della mobilità veicolare, pedonale ciclabile

ed in termini di soluzioni tecniche si riferiscono: • alla gestione razionale delle risorse, anche attraverso l’uso di sistemi passivi

198 Definizione formulata nell’ambito del documento Verso una Strategia Tematica sull’Ambiente Urbano (Com 2004/60).

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• ad un maggior utilizzo delle fonti rinnovabili, anche attraverso l’uso di dispositivi tecnici e sistemi impiantistici a bassa emissività e consumi

• ad una organizzazione integrata delle reti tecnologiche, anche attraverso l’utilizzazione di materiali e componenti edilizi certificati, di tecnologie pulite e di sistemi costruttivi non impattanti.

In realtà geografiche e culturali differenti molte esperienze hanno considerato efficacemente questi argomenti nell’ambito di comparti urbani di piccola e grande dimensione attraverso un sistema di azioni appropriate ai contesti specifici di appartenenza che hanno migliorato la qualità complessiva, architettonica ed ambientale delle città. Tali sperimentazione, con le dovute interpretazioni e considerazioni critiche relative alle differenze climatiche e culturali dell’area dello stretto, possono costituire interessanti riferimenti per gli interventi di miglioramento urbano ed ambientale necessarie in questa area. Oggi, purtroppo, le emergenze ambientali e territoriali hanno raggiunto livelli di gravità altissimi, i cui effetti spesso assumono proporzioni devastanti per le persone e per il patrimonio culturale e ambientale. I danni provocati sono aumentati negli ultimi decenni in larga parte a causa dell'attività umana e il fenomeno non accenna ad attenuarsi. L’area dello Stretto rappresenta sicuramente una delle zone italiane a più alto rischio naturale, per la presenza di forti fattori di pericolosità sia sismica che idrogeologica, in un territorio fortemente antropizzato ed urbanizzato. Occorre cambiare direzione rispetto a quanto e a come si è sempre fatto. Occorre una strategia sistemica di approccio al problema della trasformazione del territorio che consideri tutti i fattori di rischio e che non tralasci alcun parametro di conoscenza e valutazione, capace di gestire la complessità delle interrelazioni possibili. Occorre trovare e individuare soggetti adatti, per posizione e ruolo istituzionale, a cui affidare una gestione diretta e decentrata delle responsabilità, all’interno di un sistema controllato di relazioni, unitario e organico. Occorre individuare e attivare organi istituzionali di informazione, coordinamento e controllo. Occorre tutto questo e tanto altro ancora per evitare che quel terribile boato possa di nuovo svegliarci tragicamente come successe quel lunedì 28 dicembre di appena un secolo fa.

MUTAZIONI Giuseppina Foti, Dario Iacono

Non esiste illuminato e puro avvenire così come non esiste niente che vada definitivamente perduto.

Nell'avvenire c'è il passato. L'antichità può sparire dai nostri occhi, ma non dal nostro sangue J. Roth

San Francisco Tokyo Il contributo traccia l’ipotesi legata al parallelismo tra il sistema urbano e il sistema umano, essendoci oggi, nelle città di Reggio e Messina, una forte compromissione degli intenti-eventi, dovuta al trauma subito, alle difficoltà di ripresa economica e progressista, e al timore del ripetersi dell’evento che ha, non poco, condizionato le scelte e persino la formazione (intesa come visione del contesto futuribile) di alcune generazioni di architetti, imprese e comuni cittadini. La catastrofe di un secolo fa, che ha interrotto il normale progresso dell’area dello Stretto, già in uno stato di difficile evoluzione per la sua posizione sudista rispetto al resto del paese, è paragonata ad una malattia che ha debilitato le due entità urbane; come un paziente che ha dovuto subire l’evento non voluto e riscattarsi per una rinascita; come un degente che ha affrontato la terapia dopo l’operazione, la città - alla stregua di un sopravvissuto - genera una

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evoluzione, una mutazione, che si spinge nell’innovazione laddove tenta di controllare e presagire la causa del fallimento sistemico accusato, mediante nuove proposte progettuali proprie di un organismo che nei suoi tratti vuole ricordare la tragicità storica del suo passato, anche dopo averne cancellato le tracce fisiche evidenti.

1. Anatomia dell’architettura: diagnosi di un evento sistematico Il referto non lasciò dubbi: tutto perduto in pochi secondi di tremore. Quei trentuno istanti di timore videro sgretolarsi la memoria, non più indelebile. Se il corpo fosse stato reattivo alle sollecitazioni, se avesse avuto l’animo di prepararsi prevedendo, prevenendo, non sarebbe crollato in uno stato degenerativo. L’intero apparato risentì dell’incapacità di rendersi flessibile, dando dimostrazione della sregolatezza delle scelte effettuate col solo intento di svilupparsi crescendo in modo apparente. Edonistico. Armonicamente esatto. Il solo appagamento dei modi spontanei finì per ricondursi nuovamente dinnanzi ad un interrogativo primario. Rinnovarsi o riproporsi?

2. La catastrofe come malattia: analogia con il territorio La compromissione istantanea dei luoghi, dello stato di salute acquisito negli anni, ha comportato delle opportunità di sviluppo da esitare; l’organismo debilitato diffusamente a tutti i livelli prestazionali, offrì l’occasione, nostro malgrado, di riabilitare il sistema, partendo dalle fondamenta delle scienze applicate. Fortificando la struttura ossea si scongiurarono le angosce più infime ed immediate di una ricaduta rovinosa, ma non si risolse l’instabilità salutare costruttiva finora perseguita. Divenne, poi, l’individuazione di una terapia adattata alle esigenze sostanziali l’obiettivo per definire come sarebbe stato idoneo agire per ricostruire consapevolmente. Eredità perduta o trasformazione necessaria?

3. Contaminazioni dell’apparato edilizio: meccanismi di un cambiamento ricostruttivo Ai primi istanti di frenetica e disperata ripresa transitoria, fece seguito una definita analisi dei resti affioranti sul panorama apertosi, sulla scorta della qualità dei soggetti analizzati storicamente, che per gradi di salvaguardia, enunciò cosa andava asportato definitivamente e con quali strumenti bisognava recuperare lo stato iniziale. Il procedimento restaurativo prescelto enucleò, seppur allo stato embrionale, le caratteristiche esperibili per una completa rigenerazione dei tessuti intaccati, puntando sulla stabilità delle tecniche acquisite quale certezza ricostitutiva per non incorrere in contaminazioni indesiderate e rischiose. Ampie parti non interessate da questo andamento, riformularono la base sperimentale generando un cambiamento adattivo teso alla comprensione dei sintomi generativi per ribaltarne, sine trauma, il percorso corruttivo in previsione progressiva ante intenti.

4. Il percorso della degenza urbana: potenziali andamenti tecnologici La spinta evolutiva venne, pertanto, determinata e cadenzata lentamente attraverso la rilettura dei fenomeni comportamentali rilevati, attraverso quanto emerso dalle esperienze condotte, in modo da prefigurare un prospetto sistemico, una complessità di dati in grado di controllare qualsiasi configurazione ambientale endogena, preventivabile o preesistente proprio per la sua adattabilità alle svariate combinazioni articolabili. La cura derivata, impiegata costruttivamente, minuziosamente impiantata, fa delle componenti tecnologiche usate, un discorso di metodo più che di utilizzo, conducendo alla programmazione puntuale, alla pianificazione analitica su base emozionale ma ragionata, in grado di preconizzare, grazie ad un coordinamento ampio e condiviso, le presumibili necessità che costituiscono le radici per la fabbricazione di risultati clinici controllati, sostenibili e certificati.

5. Evoluzione o involuzione: le scelte in atto alle varie scale d’intervento La genesi dello scenario così costituito ebbe l’inizio nella necessità di riconoscere la debolezza del sistema adottato: come degente, incoscientemente o divagando sulle teorie evolutive del mondo costruito, produce uno scatto riformista rispetto al normale corso degli eventi immaginati, protendendo nell’innovazione della materia plasmata, della forma proiettata a

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conservarne l’immagine più a se stesso rispondente, e per se stesso confacente; provando a controllare quei prodotti che lo hanno portato a trasformarsi intorno, nella ricerca, tentando di proseguire sul cammino intravisto e intuitivamente tracciato, inconsapevolmente spostandosi su altre sequenze genetiche. Il rischio di regresso è rappresentato solo dall’inconsapevolezza dei mezzi a disposizione, nel celarsi dietro statiche certezze riconosciute e nel sottrarsi all’incognita della sperimentazione. L’evento catastrofico sicuramente stimolò l'innovazione e la nuova tecnologia, creando la volontà e l'interesse verso un approccio funzionale che influenzò il pensiero architettonico, Le rovine di Ghibellina– Il Cretto di Burri – Messina – Reggio Calabria. determinando un clima incerto nello sviluppo delle tecniche, dove fu necessario un periodo di tempo considerevole per essere assorbite dalla cultura progettuale. Le faticose fasi del processo innovativo, hanno visto molti tentativi sperimentali che hanno condotto al riconoscimento di una nuova pratica costruttiva ed agli aspetti tecnici, sociali, economici - rendendo evidente le connessioni con l’architettura - e ai legami che si sono instaurati tra questi fattori per comprendere le mutazioni nel repertorio formale, linguistico e costruttivo comportanti una sintesi del fare architettonico: un’esperienza che ha interrotto e trasformato l’eredità culturale del passato. L'atto del costruire, oggi, è visto in una duplice lettura, come verifica dello stato del processo evolutivo e come un indicatore per il futuro. Si riconosce, però, che non tutte le innovazioni tecnologiche sono portatrici di un cambiamento nella progettazione, e che le radici innovative vanno viste nell’ambito di un più vasto raggio di questioni, con la possibilità di adottare forme costruttive riscontrate e persistenti, con materialità anche non identiche, rapportate con la genesi e con la realtà dei luoghi di appartenenza. Vuol dire poter tracciare – in altri termini - un quadro esauriente e verificato delle metodologie esplicabili e delle esigenze esprimibili. L’innovazione non risulterà, quindi, la scelta pregiudiziale di un metodo tecnico o di un componente materiale assolutamente originale, piuttosto si configurerà come la ricerca di un procedimento specifico dell’oggetto da realizzare accordandolo con gli elementi complessi del contesto in cui inserirsi, a garanzia della disponibilità futura a soddisfare esigenze sopraggiungibili.

IL TERREMOTO, DISASTRO NATURALE, E ALTERAZIONE DELLE CONOSCENZE CON RIDUZIONE DELLA

RICONOSCIBILITÀ DEI LUOGHI E DELLE TRADIZIONI Rosario Giuffrè

…like a circle in a spiral, like a wheel within a wheel. Never ending or beginning,

on an ever spinning wheel… As the images unwind

like the circles that you find in the windmills of your mind.

Alan Bergman, dalla colonna sonora del film” Il caso Thomas Crown”

La caduta di un sopravvenire: il vuoto del pregresso e del futuro La conoscenza e la riconoscibilità sono come lo svolgersi di una spirale, un avvolgersi su se stessi senza fine costruendo immagini che si svolgono nella mente come parole che si

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rincorrono, come la volontà di immaginare una certezza, una circolarità, da parte di chi è coinvolto un una situazione di disastro. E più la ruota della modificazione si svolge, più il soggetto cerca e si inventa riferimenti, oggetti fermi nella memoria, costruzioni sicure nella loro firmitas urbana, possibilità di evocare e mantenere certezze fatte di cose. Cosi il problema non è più soltanto di disporre delle soluzioni tecniche compatibili con le condizioni locali, temporali e spaziali, ma anche di potere con sicurezza fare ricorso a progettualità che confermino le eredità culturali dei luoghi, dei processi ordinari di vita, delle tradizioni di relazioni fra persone ed oggetti, fra costruzioni e modi di costruire, fra materie e sensazioni tattili. Il disastro non è quindi l’evento naturale improvviso o improvvidamente non previsto, la perdita di beni e di persone, ma più ancora lo smarrimento locale, la non più garantita riconoscibilità di cose familiari, la impossibilità di evocare ed utilizzare ancora i processi abituali del vivere e del trasformare. Il disastro non è la semplice calamità naturale, ma anche il susseguirsi di eventi imprevisti che ci privino di certezze di riferimenti, di scenari su cui proiettare le attese, o per cui credere che le immagini della mente siano hard phoenomena. Non sono le crisi emergenti che fanno evidente un fenomeno, né le catastrofi sono il punto topologico di discontinuità fra l’andamento corrente di un processo e la svolta incontrollabile: basti pensare all’assurdità della condizione di New Orleans riportata tutta su Kathryn, mentre il disastro era ed è da rileggersi nella genesi stessa dell’insediamento e nella sistematica incuria del rapporto di convivenza fra l’orgoglio degli uomini e la capacità attiva della natura. Il rapporto fra l’uomo, il suo insediamento, e la natura è una progettazione continua di cui fanno parte anche gli eventi catastrofici, non la cultura del soccorso, per quanto umanitariamente spontanea: il terremoto di cento anni fa nell’area dello Stretto ha assunto rilievo oltre lo stesso accadimento terrificante. La permanenza e la stabilità non sono caratteri fermi di un luogo: la riconoscibilità è la chiarezza concettuale della necessità di fasi di passaggio, di instabilità del sistema che tuttavia continua ad essere riconducibile ad un quadro di appartenenze. La difficoltà di agire in condizioni di disastro è proprio nella estrema delicatezza di comprendere il punto di discontinuità e di ricondurlo a nuove forme correnti, potremmo dirle abitudinarie. Altre volte ho avuto occasione di dire che le strutture storiche non esistono da sole, ma soltanto perché riconosciute: the historical presence does non exist on their own but it exists if understood” (da: Cultures and shapes of the built civilitation, 2005, Rubbettino). La firmitas non è soltanto la capacità di resistere intatta nel tempo di una struttura materiale, di una architettura, di un assetto territoriale: Essa, in verità, come si rende evidente in queste condizioni di catastrofe, è invece anche la capacità di offrire significati conformi ai requisiti per il tempo programmato. Essa allora è una qualità relativa, che l’evento inatteso distrugge come stabilità di oggetti, ma anche come perdita di. emergenti e riconoscibili la morfologie connotanti una consistenza complessa, che viene dispersa materialmente e moralmente, un’architettura del territorio come immagine di materialità ed immaterialità. Si instaura di conseguenza una sovrapposizione al fatto emergente di uno scenario di diversificate criticità Emergenza e criticità Sostanzialmente bisogna ripensare esattamente al significato di questa fascia di intervento che deve contenere la possibilità dell’azione in tempi fissati, la certezza della risposta in riferimento alle diverse categorie di domande e quindi di comportamenti tecnici in condizioni estreme, la conoscibilità del tempo di fruizione accoppiata alla localizzazione culturale. Tutto ciò comporta un progettare con metodologie diversificate, considerato anche che il disaster oltre che essere una calamità naturale, rende manifesta una posteriore disomogeneità di luoghi e di comportamenti

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.L’impatto dell’evento, dunque, non può avere programmate risposte da una tradizionale logica di produzione a deposito o a catalogo, come hanno sperimentato- purtroppo per tempi biblici le popolazioni dello Stretto- né può far ricorso a risorse materiche fissate o uniformemente disponibili. Il fatto produce una improvvisa variata, e non prevedibile categorie di domanda, di bisogni non prime immaginati nella complessiva pressione. Lo scenario temporale e spaziale istantaneo costituisce un’interruzione della memoria e rende labile ogni altra ragione di progettualità della convivenza di un comunità, sempre interazione fra esigenze e requisiti organizzativi. I tempi della tecnica e quelli della natura, come li chiama Le Goff, non convergono e non possono convergere, anche perché, spesso, sono non coerenti già i tempi della tecnica disponibile, sia perché causa essi stessi dell’evento, sia perché non finalizzati allo spettro di domande improvvisamente emergenti Più che di emergenza, infatti, si dovrebbe parlare di criticità. L’emergenza richiama una circostanza imprevista, improvvisa, che, appunto, emerge dalla linearità dello stato consueto e dalla forma corrente di un assetto, a motivo di sovrapporsi di azioni rispetto al quadro esistente. In fondo anche un concerto particolare, un evento sportivo, una sommossa particolare sono emergenti fenomeni disastrosi. La criticità prospetta in più una situazione non lineare, che si manifesta localizzata e riconoscibile, che richiede tuttavia cure e specificità proprie di intervento, ossia non generalizzabili né in ragioni né in modalità conformi, vuoi per classificazioni diverse dell’evento vuoi per territorialità del suo essere. Ne sono esemplare classificazione gli sconvolgimenti dovuti allo tsunami, che in forme e dimensioni diverse si manifestò anche a Messina e Reggio. In questi casi si deve parlare di criticità, pensando proprio alla definizione di punto critico dei fisici: un luogo in cui un fenomeno manifesta una variazione di stato e di configurazione, non perdendo tuttavia la sua connotazione. Se così è, dunque, è necessario pensare a categorie d’intervento che non siano standardizzate per serialità di prodotti, ma siano assemblabili per finalità morfologiche, sia locali che culturali. Ritorna qui alla mente il tema del cerchio che si avvolge a spirale, una ruota dentro una ruota, un assetto entro una configurazione di assetti già esistenti e alterati, ma non perduti: metodologicamente bisogna ripensare a sistemi e processi la cui forma d’uso finale non sia prederminata, ferma come ipostasi estranea alle qualità fisiche, materiche, culturali locali, ma in grado di “accordarsi”con esse. Si è anche parlato di proprietà transitive dei componenti disponibili, nel senso di possibile trasferimento fra gli enti tecnologici delle qualità all’interno e fra diverse categorie di unità tecnologiche. Resta tuttavia e sempre il problema di chi riceve ed è destinato ad usare spazio ed oggetti, organismi ed arredi, forme e tecniche altre rispetto alla sua tradizione. Spesso accade che l’emergenza diviene luogo di emergenze inaccettabili dai destinatari estranee al comportamento di luogo. Basti pensare e verificare quanto risalta dalla Gibellina nuova, tanto nuova da non essere accettata dagli antichi abitanti, il cui modello è sovrastrutturante rispetto alla struttura consolidata preesistente. La criticità viene ad essere infrastrutturale, nel senso largo di invasività, di pervasività tecnologica e linguistica rispetto all’assetto organico precedente, quand’anche non eccezionale. Non emergente. Sorge quasi il bisogno di costituire una nuova storia entro cui, come paragrafo sia raccolta ogni significante heritage. Transitorio e temporaneo In altre occasioni, ormai risalenti a qualche decennio, ho parlato di opportunità di introdurre una categoria di valutazione degli organismi e degli habitat dell’uomo, che definivo del degrado programmato, prospettando una previsione tecnologica di decadimento – technological forecasting- che disegnasse in anticipo situazioni di crisi, possibili tecnicamente

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allo stato e compatibili con il quadro culturale dei luoghi. Una manifesta antinomia fra la necessità del persistere e l’ineluttabilità del variare, entrambi coesistenti. Tutto ciò si riferisce alle abusate definizioni che si richiamano ogni volta che si parli, o ci si scontri, con un evento disastroso: è un evento a cui si fa riparo con fenomeni e azioni concrete temporanee o transitorie? Un evento temporaneo ha dentro di se il concetto di provvisorio, di precario, di non stabile. Si tratta cioè di un evento, e delle relative azioni, che si dovrebbero segnalare per una durata limitata nel tempo, per una curva fortemente ascendente ed altrettanto velocemente ricadente. Indubbiamente con questa immagine possiamo descrivere l’impatto che un sisma produce, che un maremoto determina, che un mega evento sportivo segnala, non tuttavia il seguito di evidenze che ne conseguono. I segni che restano purtroppo, spesso, non sono limitati nel tempo e la loro incidenza si scarica sulle configurazioni dei territori, siano essi di città o di paesaggi, ma ancora di più sugli usi e costumi, sulle forme relazionali, sulle mediazioni antropiche. E allora, proprio al fine di calibrare le modalità di riequilibrio, dobbiamo pensare ad una definizione di transitorietà. L’evento, e le sue azioni, sono destinate a disciplinare la fase di passaggio da una di regime ad un’altra per variazioni di condizioni. Un sisma, per quanto catastrofico, è pur sempre transitorio, un’immagine di una evoluzione dinamica verso una fase di nuovi equilibri. Si è innescato, cioè, con il terremoto una pressante fase di disequilibrio omeostatico del sistema a cui bisogna far corrispondere una forma strutturalmente nuova di ricomposto equilibrio. Potremmo far riferimento al noto fenomeno di biologia molecolare di traspostasi, di quel processo, cioè, di trasposizione di tratti di DNA da un punto all’altro del genoma: bene l’azione di intervento in caso di calamità deve configurarsi come trasposasi, essendo un trasferimento senza perdita di qualità gnomiche, ossia utilizzando modelli operativi che trasferiscono assetti senza perdere qualità specifiche. Ed è proprio quel che chiedono le popolazioni colpite da disastri, siano essi calamità naturali- spesso prevedibili- o accidenti civili- sempre prevedibili! Resta il dilemma se le operazioni di riequilibrio, istantanee o perduranti, possano o debbano essere riconducibili alle forme e ragioni iniziali di un luogo, e, se sì, come. Reversibilità di prodotto e di processo Il concetto di transitorio porta con se quello di trasformazione: ambedue non sono un giudizio di valore, rappresentano piuttosto il riconoscimento dell’ineluttabilità di uno stato. Nessun organismo è vitale se non soggetto ad evoluzione,a trasformazione: gli stessi sismi sono l’evidenza di una vitalità del nostro pianeta. Il problema è come prevederli e come governarne le fasi, come ricondurre gli equilibri interrotti alle condizioni iniziali. Se si accettano indifferentemente i concetti di adattabilità e di ad attività è semplice ricondurre tutte le operazioni istantanee e diffuse a cognizioni di decostruttivismo costruttivo. Una volta che sia compiuta l’operazione di pronto intervento sull’emergenza, o sul punto di criticità, è sempre possibile ne tempo successivo di ritorno alla fase corrente, ripristinare gli assetti e morfologie iniziali. Sappiamo, invece, che non è così, sia per ragioni fisiche (si cita l’entropia di un sistema, non sempre a ragion veduta), sia per ragioni etnicoantropologiche: la reintegrazione di un sistema ambientale alterato dalle azioni del disastro, in tutte le sue estese accezioni, non ammette la reintroduzione di un nuovo ciclo, sia formale che produttivo. Il fall out di questo processo è dannoso al regime culturale dei luoghi come al governo dei processi manifatturieri. E’ assolutamente inconcepibile che si possa far ricorso a stoccaggio di forme organiche a reimpiego continuo senza considerare fenomeni collegati all’uso, alle regole di vita, ai trasporti, all’invecchiamento, alla discontinuità di risposte delle materie in condizioni di disomogeneità di contesti. La reversibilità, quindi, non deve essere di prodotto ma di processo, non di impiego strutturale ma di riutilizzazione riconnotata, ossia ogni volta riformulata in adesione alle caratteristiche

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locali. Il ciclo di vita di una comunità colpita da un disastro viene improvvisamente troncato, programmato: bisogna allora riprogettarlo non solo fisicamente recuperando ogni qualità tuttavia sopraggiunta, ricuicircuitando le innovazioni come qualità sopraggiunte, che sono sfortunatamente un sopraggiungere aleatorio, ma anche reimmissibili con intelligente attenzione nel preesistente background locale. Se la legge antecedente l’evento è finita, è opportuno costituire un’innovante legge di formazione di organismi capaci di recuperare, anche in situazioni estreme, le qualità che rendono un contesto riconoscibile agli abitanti e da loro riappropriabile, un sistema di oggetti a risignificazione continua.

RICOSTRUIRE LA RICOSTRUZIONE: STRATEGIE PER UNA NUOVA QUALITA’ URBANA Maria Teresa Lucarelli, Antonia Maria Rao, Francesca Villari

1. Riflessioni per una “nuova qualità”dell’edilizia post terremoto199 Ricordare il terremoto che colpì un secolo fa le due sponde dello Stretto è una interessante occasione per alcune, se pur brevi, riflessioni sul tema della ricostruzione seguendo da un lato il tema della riqualificazione soprattutto edilizia; dall’altro quello del risanamento che, in particolare nella realtà messinese, ha interessato ed ancor oggi interessa parti di città con agglomerati a suo tempo nati per l’emergenza e consolidatisi “nell’emergenza”. Il modello urbano a suo tempo proposto puntava legittimamente a garantire la sicurezza della popolazione: sia il Piano De Nava, a Reggio Calabria che, successivamente, il Piano Borzì, a Messina, prevedevano costruzioni antisismiche, strade rettilinee e piazze ampie che, lentamente ed in alcuni casi non del tutto, andarono a sostituire le baracche di legno costruite all’indomani del cataclisma grazie all’aiuto internazionale. Il tempo, l’incuria dell’utenza e, per molti anni, il disinteresse delle Amministrazioni hanno portato ad un progressivo decadimento di quel patrimonio edilizio, talvolta di pregio; patrimonio che oggi richiederebbe interventi in grado di garantire un livello qualitativo più alto e prestazioni adeguate al nuovo concetto dell’abitare; nello stesso tempo andrebbe innalzato il livello di comfort ed, in alcuni casi, anche di igiene, come per altro richiesto dalle aumentate esigenze dell’utenza. E questo vale per l’edilizia sia pubblica che privata. Intervenire tuttavia per migliorare la qualità di edifici su cui gravano cento anni di storia ma anche cambiate condizioni economico-sociali, oltre che culturali, è senz’altro complesso per la non sempre facile adattabilità degli stessi all’innovazione tecnologica e per gli elevati costi richiesti per un eventuale recupero. Un’opportunità di riqualificazione indirizzata ad una edilizia di qualità passa più agevolmente attraverso il risanamento urbano di quartieri, nemmeno tanto periferici, ancora in un “provvisorio infinito” nonostante leggi speciali indirizzate ad una loro riqualificazione. Come in seguito descritto, opportuni interventi basati tra l’altro sulle istanze dell’edilizia sostenibile e attenta in particolare al risparmio energetico, potrebbero rappresentare il passaggio verso una edilizia innovata e rispondente quindi a quei concetti di qualità da tempo richiesti dalle Direttive europee e ampiamente recepite dalla recente normativa sui Lavori Pubblici che fa della qualità uno dei cardini del processo edilizio. 2. Il Recupero energetico-prestazionale del patrimonio edilizio della ricostruzione200 Il patrimonio edilizio post terremoto rappresenta la memoria di quella che fu la necessità abitativa di quegli anni, anni in cui l’edificio era valutato solo in relazione alla sua capacità di

199 Maria Teresa Lucarelli, Professore Straordinario di Tecnologia dell’Architettura. 200 Antonia Maria Rao, Architetto, Dottore di Ricerca in Tecnologia dell’Architettura.

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rispondere a quella che rappresentava la primaria esigenza dell’utenza: il riparo dagli agenti atmosferici, ovvero la” necessità dell’abitare”. Questa visione dell’edificio, o per meglio dire dell’edilizia degli anni della ricostruzione201 “rifugio-riparo-casa”202 ha portato a slegare dalla prassi costruttiva quelli che erano i concetti, già insiti nell’architettura tradizionale, di qualità e prestazione. La lettura in chiave prestazionale del patrimonio edilizio esistente consente oggi di comprendere, a circa cento anni di distanza, quelle che sono le attuali esigenze di una nuova “ricostruzione”, attenta anche alla qualità ambientale. Questo al fine di poter indirizzare, attraverso strategie e metodologie appropriate quella che sarà la prassi operativa della seconda ricostruzione. Da un lato, infatti il recupero del patrimonio edilizio di quegli anni si configura quale atto dovuto, in termini tipologico - formali, per la trasmissione di una memoria storica della cultura materiale e no; dall’altro, l’esigenza di adeguare un vasto stock edilizio a quelle che sono le esigenze derivanti dalle nuove norme di settore. Negli ultimi anni, infatti, alla caduta prestazionale di questa tipologia di edifici si è affiancata la continua emanazione di nuove norme tecniche di settore che impongono il loro adeguamento in termini sismici, antincendio nonché ambientali. Va ricordato, infatti, che se per alcune norme spesso l’intervento del privato è guidato da una esigenza di sicurezza, in relazione alle problematiche connesse al comfort ambientale il recupero può avvenire solo attraverso nuove forme di incentivazione pubblica. Ne è esempio la necessità di intervenire con azioni di retrofit energetico203, così come previsto dalla normativa vigente, su strutture spesso ancora oggi incomplete. Ricordiamo, infatti, che le nuove norme sulle prestazioni energetiche degli edifici quali il D.lgs. 192/05 e il D.lgs 311/06 prevedono livelli prestazionali limite da rispettare in caso di interventi di ristrutturazione espressi in termini di corrette scelte tecnologiche e di contesto. I paradigmi dell’attuale ricostruzione sono, quindi, legati a quella che possiamo definire il recupero energetico-ambientale del costruito, ovvero alla necessità di intervenire attraverso un’azione che consentirà, dopo cento anni, non solo all’utenza di abitare, alle diverse scale, ma anche di conseguire nuovi livelli di qualità, sia edilizia che urbana. 3. Opportunità di riqualificazione urbana/edilizia innovata o ennesima occasione mancata? Il caso del Risanamento a Messina204 Accanto alle problematiche connesse al recupero e alla riqualificazione di quanto costruito con grande fretta dopo il terremoto del 1908, appare utile fare un accenno a quanto ancora deve essere ricostruito a seguito di quel tragico evento. Nonostante sia trascorso un secolo, infatti, a Messina persistono brandelli, anche consistenti, di agglomerati “provvisori” e nati per far fronte all’emergenza di quel periodo. Giostra, Ritiro, Fondo Fucile, Rione Taormina, Gelone, Mangialupi sono solo alcune delle aree della città (alcune ormai divenute centrali a seguito dell’espansione urbana) occupate da vere e proprie favelas, caratterizzate dalla presenza di amianto e condizioni igieniche pessime, inammissibili in periodi in cui i concetti di sostenibilità sociale ed ambientale sono ormai divenuti patrimonio

201 Il tema della ricostruzione delle città dello stretto è stato oggetto di studi e ricerche da parte di enti territoriali ed universitari. Nello specifico la Regione Calabria nel 2006 ha promosso una mostra nel 2006 per presentare un progetto di ricerca che si poneva l’obiettivo di indagare in modo sistematico ed interdisciplinare le modalità e gli esiti della “grande ricostruzione”. 202A. M. OTERI Memorie e trasformazioni nel processo di ricostruzione di Messina dopo il terremoto del 1908, in “Storia Urbana” n° 106-107 del 2005, Franco Angeli editore. 203 Per maggiori approfondimenti si rimanda al testo M. MILARDI, Recupero e Requisito Energetico, in A. NESI, Normativa tecnica locale per il progetto dell'esistente premoderno. Strategie per il controllo tecnico delle azioni di recupero nei centri storici minori, Gangemi, Roma 2002. 204 Francesca Villari, Architetto, Dottore di Ricerca in Tecnologia dell’Architettura.

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comune, slogans ampiamente utilizzati sia da tecnici che da committenti ed amministrazioni, ma, in determinati ambiti, di difficile concretizzazione. Nonostante le premesse della ricostruzione fossero basare sui principi allora innovativi offerti dal Piano Borzì, le cui logiche erano improntate sulla sicurezza sismica e l’igiene, i numerosi interventi succedutesi nel tempo non hanno ancora dato soluzione a un problema delle baraccopoli. Dodicimila persone vivono ancora oggi in 3336205 “alloggi di sfortuna”206, retaggio di eventi catastrofici (oltre al terremoto, i bombardamenti del 1943), e di una scarsa o errata attenzione prestata dalle politiche pianificatorie e programmatorie delle amministrazioni che si sono susseguite nel tempo. Nel 1990, una legge speciale della Regione Siciliana individua nei Piani particolareggiati di ambito per il Risanamento (Ppa) i possibili strumenti per gli interventi di riqualificazione delle aree interessate dalle baraccopoli. Obiettivo dei piani di risanamento oltre alla riqualificazione, è l’inserimento di polarità strategiche, servizi e attrezzature collettive. Le difficoltà di varia natura incontrate, dagli anni ’90 ad oggi, hanno fatto sì che gli interventi realizzati siano ancora estremamente ridotti. Allo stato attuale sono in discussione possibili modalità per dare concretezza a quanto previsto nei Ppa, tra le novità la possibilità di attivare procedure di project financing per far fronte al prioritario ostacolo che è quello della mancanza di risorse economico-finanziarie per l’attuazione delle previsioni207. La possibilità di inserire all’interno delle pieghe del risanamento di Messina principi, procedure, tecniche e tecnologie proprie dell’edilizia sostenibile e dell’efficienza energetica potrebbe incrementare il significato e l’utilità degli interventi proposti all’interno dei sette ambiti di risanamento, innovando quanto previsto ormai quasi vent’anni fa e costituendo un esempio forte delle possibilità offerte da un modo di progettare che in una città come Messina è del tutto nuovo. Il risanamento potrebbe, quindi, costituire una reale occasione per trasformare zone estremamente degradate in casi pilota e ed esempi di buone pratiche, nella speranza che questo non costituisca un’ennesima occasione mancata per la città di Messina.

MEMORIA INNOVATA - MEMORIA ROVINATA Mariateresa Mandaglio, Martino Miliardi, Deborah Pennestrì

..ogni pietra rappresentava il singolare conglomerato d'una volontà,

d'una memoria, a volte d'una sfida. Ogni edificio sorgeva sulla pianta d'un sogno....

Yourcenar, 1963

È largamente condiviso l’assunto che senza una presenza parlante della propria memoria la città non può vivere e mantenere un’identità. Pur se praticati più volte, i tentativi di resezione mnemonica attuati sul tessuto costruito non hanno mai avuto successo proprio per l’insopprimibile qualità della città d’essere insostituibile serbatoio della memoria. E’, infatti, grazie alla sua memoria che la città riesce a rappresentare il futuro e i progetti che intendono anticiparlo, quindi innovarne l’essenza. Le logiche dell’innovazione, talvolta, seguono velocità differenti in funzione di processi, congiunture, politiche, volontà specifiche, oppure di eventi stocastici che comunque, anche se

205 Censimento effettuato da Legambiente. 206 Cfr. C. FIUMI, Messina Cent’anni nelle baracche, Corriere della sera Magazine, 15 Aprile 2008. 207 Nonostante la Legge 10/90 avesse stanziato 500 miliardi di vecchie lire per il periodo 1990-1994 e di questi il 70% non sono stati utilizzati a causa della mancata presentazione di progetti concreti di realizzazione delle opere.

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drammatici, diventano occasione per accelerare e migliorare i normali trend e tempi dell’innovazione stessa. La città di Reggio Calabria è il frutto di tale dinamica in quanto i disastrosi eventi tellurici che si susseguirono nei secoli, dettarono dei salti nei normali processi di sviluppo che regolano le “velocità” evolutive dell’ambiente costruito. Più volte distrutta dalla furia della natura (o da quella ben più prevedibile degli uomini) risorse sempre sullo stesso luogo, fedele al suo antico tracciato, benché le devastazioni ne avessero cancellato le vestigia e modificato l’assetto urbanistico. Riferendoci ad epoche vicine, l’antico assetto urbano della città fu irrimediabilmente alterato dalla catastrofica serie di sisma che il 5 Febbraio del 1783, colpirono Reggio. L’ufficiale del genio militare Giovambattista Mori fu incaricato di coordinare la redazione del piano di ricostruzione secondo le prime direttive governative. Queste, stabilivano precisi vincoli di edificazione: altezza a non più di due, in alcuni casi tre, piani; contenimento degli aggetti; catene e “fasce” in ferro nelle pareti; nuove distanze tra i corpi di fabbrica; allineamenti giustificati a prescindere dagli andamenti altimetrici, ecc. Il progetto di Mori, che sovvertì quasi del tutto il precedente impianto ancora d’impronta bizantina, si rapportò in modo inequivocabile ai canoni del disegno urbano di matrice illuminista che si manifesta nella maglia ortogonale. Il 28 Dicembre del 1908, tessuto urbano e patrimonio edilizio sono compromessi quasi del tutto in modo irrimediabile. Le cause di questa distruzione sono state imputate ad aspetti che, oltre alla natura tettonica e alla magnitudo, chiamano in causa i sistemi e le tecniche costruttive, quindi, i materiali utilizzati. Le tecniche impiegate contravvenivano alle, allora “poche ma certe”, regole di sicurezza sismica: le malte erano confezionate facendo uso di sabbia spesso terrosa e non lavata, le murature portanti erano, in genere, realizzate in pietrame non sempre sbozzato. Era, inoltre, abitudine ricorrente di far aderire, senza alcun legame, i muri di prospetto a quelli perimetrali, facilitandone così il ribaltamento. I solai d’interpiano, realizzati in legno, avevano sovente l’orditura secondaria molto esile e poco ammorsata, fatto questo che ne favorì la spinta orizzontale sui muri perimetrali. Diversi edifici d’inizio secolo pur avendo solai orditi a voltine di putrelle e mattoni, si rivelarono poco stabili per l’inefficienza degli incastri. A tutto ciò si aggiungevano le spinte esercitate dall’ordito dei tetti, i cui puntoni, sottodimensionati e privi di catene, erano semplicemente “fermati” dai muri perimetrali. La redazione del piano di ricostruzione fu affidata all’Ing. Pietro De Nava, le cui intenzioni furono subito chiare: ricostruire la città “...dov’era e com’era...”. I contributi di rilevanti personalità quali Zani, Basile, Autore, Piacentini e dei loro collaboratori fecero diventare la città un luogo di vera sperimentazione realizzata delle diverse correnti architettoniche. Il risultato fu una mirabile molteplicità di linguaggi, tecniche e d’uso materico tale da costituire un riferimento per le scuole del tempo. A questa varietà ed articolazione, si contrappose il disegno di un piano che ripercorreva le linee del progetto ideato dal Mori dopo il sisma del 1783. In questa luce, le ricostruzioni delle due età moderne della città (1783-1908), divennero una straordinaria opportunità d’applicazione dei percorsi innovativi del tempo, questi, infatti poterono trovare esplicitazione alle varie scale dell’intervento ricostruttivo. La volontà di perpetuare la memoria, divenne il campo dove la potenza delle spinte innovative trovò forse il giusto equilibrio nelle forme generatrici della ricostruzione. Innovazione del vocabolario architettonico che in quegli anni viveva delle risultanze delle contemporanee grammatiche neoclassica, eclettica e l’embrione razionalista. Fu infatti in questo pavulum, che la rinascita edilizia della città costituì il “sicuro” riferimento per una comunità che si dibatteva tra il vincolo mnemonico con quanto si era perso in modo cruento, ma che per ognuno costituiva la radice, e la spontanea “voglia di pensare al futuro”, processo scritto nel DNA e che si palesa quando si sopravvive ad un disastro. Insomma si stava entrando nel nuovo secolo con un patrimonio genetico che il sisma aveva “atterrato” ma che i superstiti avevano ben presente.

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Questo patrimonio voleva essere espresso con il volto del “nuovo”, il bisogno speranzoso concretizzato dall’atto costruttivo, a sua volta metafora della concreta nuova realtà-creata. La qualità architettonica della nascente città, orgogliosa espressione di quell’innovazione di respiro “internazionale” (che iniziava a rivolgersi sempre più verso la logica del controllo dei processi progettuali) era quindi il nuovo valore su cui fondare l’eredità da tramandare, la memoria innovata sulla quale basare gli indirizzi dei futuri atti realizzativi. Questo fu lo scenario in cui un “laboratorio” lasciò spazio ad una realtà costruita di effettivo spessore e livello, una città compiuta dove i superstiti e le loro generazioni continuarono a perpetuarne i caratteri e ad avvantaggiarsi delle tangibili ricadute sulla qualità della vita fino a quando nuovi eventi, questa volta non di natura tellurica, ne ridefinirono tratti e qualità. Ad iniziare dai bombardamenti del Settembre 1943, di per sé non catastrofici, alle alluvioni del 1951 nei paesi limitrofi che diedero origine a massicce e caotiche inurbazioni, fino alla febbrile attività edilizia degli anni ’70 non supportata da adeguati e “farmacologici” strumenti di controllo. La memoria costruttiva che si tramandava attraverso paradigmi riconoscibili fu offuscata da interventi edilizi che ne rovinarono i codici originanti. La primitiva forza propulsiva si mescolò con altre che avrebbero definito una città, nuova anch’essa, ma sicuramente non “figlia” di quella prodotta dal terremoto. Anche gli interventi sul patrimonio esistente non hanno quasi mai tenuto conto delle caratteristiche “stratigrafiche” e volumetriche, del supporto dove questi si sono localizzati, aumentando l’a-contestualità delle azioni. L’atto realizzativo, nuovo o sull’esistente, non era guidato da un contesto di riferimento, ma da contesti diversi (da quello economico a quello speculativo) che ne hanno determinato il diffuso effetto d’alienazione. Quindi una rovina diversa, meno cruenta ma forse più destabilizzante, con effetti silenti ma dannosi nel tempo, che ha prodotto una Città nella quale nessuno si riconosce, degli spazi pubblici che nessuno sente come propri, che spinge i “cittadini” a qualificare il proprio spazio privato diventando così “residenti, abitanti, proprietari...”. Sembra quindi rendersi necessario individuare delle strategie complessive che ripercorrendo e attualizzando, i risultati dell’antica memoria innovata potrebbero dare alla città attuale una scossa tellurica continua, ma culturale, utile a guidare i percorsi innovativi che auspicabilmente istruiranno i percorsi costruttivi della futura Reggio.

LO SGUARDO DI ANTONELLO ARCHITETTURA E PAESAGGIO NELLA CITTÀ DI MESSINA208

Marco Mannino Il paesaggio dello Stretto di Messina, ha da sempre manifestato un carattere di centralità, in termini di valori simbolici e di concrete opportunità per lo sviluppo della città. Nello Stretto il mito è di scena. Questo luogo, dove il “mare è mare”, come sostiene Stefano D’Arrigo, autore di Horcynus Orca, dove gli eventi naturali sono straordinari, ha alimentato una lunga sequenza di miti e leggende e ha conferito allo Stretto un alone di mistero. Un’immagine mitica che accompagna la condizione singolare della città dello Stretto: il bacino d’acqua dove confluiscono i mari Ionio e Tirreno, connota così fortemente il sistema insediativo dei centri urbani, da configurarsi come una grande piazza d’acqua, cuore della forma urbis di Messina e Reggio Calabria. Una condizione singolare colta anche attraverso lo sguardo di due illustri abitanti di questa terra: Antonello da Messina e Filippo Juvarra.

208 Lo scritto è una parziale rielaborazione del saggio -Messina e Reggio Calabria. La città dello Stretto e il mare. Architettura e paesaggio- già pubblicato in «d’Architettura», n.25/2004, La costa italiana.

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Come ha osservato Marcello Vittorini, Antonello raffigura la città di Messina guardandola dall’interno. Sullo sfondo delle sue Crocifissioni, infatti, scandisce la sequenza terra-acqua-terra che determina la centralità dello specchio d’acqua nel complesso sistema di relazioni tra le due sponde, quella siciliana e quella calabrese. Come ha notato anche Francesco Venezia, Antonello “cattura e porta dentro Messina il paesaggio e il mondo della costa che si affaccia di fronte”. Filippo Juvarra, ponendosi al centro dello Stretto, ha invece una visione della città di Messina affacciata sul mare, ne ipotizza, in un celebre disegno, la continuità architettonica del fronte attraverso la prosecuzione della storica Palazzata. Una continuità architettonica proiettata oltre i confini fisici della città, tesa a perimetrare lo spazio d’acqua esteso tra Messina e Reggio Calabria. Una singolarità paesaggistica e territoriale che ha da sempre

alimentato uno stretto rapporto tra l’architettura e il luogo della natura. Il concorso per il Progetto della Nuova Palazzata di Messina, bandito nel 1928, interessato alla riedificazione dell’antico Teatro Marittimo –il grande edificio che costruiva la Palazzata a mare di Messina- attraverso i progetti presentati in quell'occasione, ribadisce la vocazione a questo rapporto. Nei progetti dei partecipanti al concorso, tra cui Giuseppe Samonà, Camillo Autore, Bruno La Padula, Adalberto Libera e Mario Ridolfi, la forma monumentale, legata alla funzione rappresentativa dell’Urbis, si afferma anche per la consapevolezza dei progettisti, di costruire il margine architettonico di un grande spazio “interno”: una estesa piazza popolata dai continui flussi dei naviganti, delimitata, sul versante siciliano, dal sistema collinare dei Peloritani. Una consapevolezza che porterà Giuseppe Samonà, insieme al figlio Alberto, a impegnarsi, trent’anni più tardi, tra il 1960 fino agli anni ’80, nella elaborazione del grande progetto della città-regione dello Stretto, una idea di metropoli sviluppata intorno al mare condivisa anche da Ludovico Quaroni nell’elaborazione di piani e progetti per l’area dello Stretto. Lo stesso Samonà si era occupato del completamento della costruzione del fronte a mare di Messina, la cui edificazione, a seguito del concorso prima ricordato, era già cominciata nel 1936 con la costruzione dell’edificio INA progettato da Autore e Viola e del Banco di Sicilia firmato soltanto da Autore. Dal ’38 al ’40 Samonà è infatti impegnato nella realizzazione dell’edificio INPS e, dopo un concorso bandito nel ’33 in cui risultò vincitore (insieme a Viola), del Palazzo Littorio; due opere classiche e moderne, connotate da un carattere urbano e monumentale insieme, impresso anche negli altri edifici della cortina che ancora Samonà continuerà a costruire tra il 1952 e il 1958.

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Della fine degli anni ’30 sono anche le Stazioni ferroviarie di Messina e Reggio Calabria progettate da Angiolo Mazzoni. In particolare la Stazione marittima di Messina, realizzata per l’attracco delle navi traghetto per il trasporto passeggeri e ferroviario sulla sponda siciliana, costruita in continuità alla Palazzata, contribuisce alla formazione dell’immagine classico-moderna del fronte della città sul mare. La grande convessità absidale rivolta verso il porto della città, sulla quale si innestano gli elementi di collegamento ai pontili delle navi, conclude il complesso della Stazione connotando formalmente il sistema di testata dello scalo ferroviario in modo da fargli assumere il carattere di porta alla Sicilia dal mare. L’altro caposaldo architettonico che chiude il fronte urbano del porto di Messina, è costituito dalla Cittadella Fieristica realizzata nell’area dell’ex giardino a mare nel 1938 su progetto di Adalberto Libera e Mario De Renzi. Come una moderna Agorà, il quartiere fieristico costituisce un modello ideale di spazio urbano interprete anche delle suggestioni visive offerte dallo straordinario paesaggio dello Stretto. Una struttura insediativa ribadita nella ricostruzione a opera dei progettisti messinesi Filippo Rovigo e Vincenzo Pantano. Lo stesso Rovigo, insieme a Napoleone Cutrufelli, sono autori dei Lidi realizzati sulla costa tirrenica messinese. Negli stabilimenti balneari di Mortelle, gli evidenti riferimenti lecorbusieriani si associano alla ricerca indirizzata verso un’articolazione della costruzione caratterizzata da una plastica architettonica esuberante, ma sempre rigorosa. L’immagine che trasmette la copertura voltata costruita all’ingresso al lido, rimanda alla figura della coda di una grande aragosta e conferma il rapporto che lega questa architettura al paesaggio di mare. Un progetto studiato e sviluppato fin nei più minuti dettagli, sulla scia probabilmente, del lavoro di Mario Ridolfi, amico di Rovigo e a lui legato, in quegli anni, da comuni impegni professionali in città. E lo scenario metafisico dello Stretto è lo sfondo immutabile di tanti progetti per l’impresa che, più di ogni altra, possa essere celebrativa del mito: la costruzione del Ponte. Un’impresa epocale che oggi è, più che mai, al centro di dibattiti e polemiche, ma che forse ha perso quella forza propulsiva alimentata dalla passione utopica che aveva caratterizzato i suoi esordi. Come suggerisce Portoghesi, “Dopo anni di ricerche, di verifiche, di controlli, è rimasta la crisalide di quell’organismo vivente che bene o male uomini come Pier Luigi Nervi, Sergio Musmeci, Nino Dardi, Giuseppe Samonà avevano costruito con una ricchezza di idee che forse non meritava una tale omologazione”. Suggestivo è il progetto per il Ponte sullo Stretto elaborato da Armando Brasini: il “ponte Omerico” presentato nella prima versione nel 1957. Per suddividere la luce da coprire per il collegamento tra le due sponde, Brasini prevede la costruzione di un’isola centrale nel cuore dello Stretto sulla quale collocare un pilone alto oltre 100 metri. In successive varianti lo stesso architetto proverà altre soluzioni in cui si moltiplicano le “isole” , associando alla funzione di transito, una o più soste intermedie nel centro dello Stretto. Come Ponte Vecchio a Firenze o il Ponte di Rialto a Venezia, il ponte è pensato come una struttura abitata che si confronta con la scala del paesaggio. Il progetto elaborato da Sergio Musmeci, Ludovico Quadroni insieme a altri noti progettisti, vince il concorso internazionale bandito nel 1969. La struttura prevede un ponte sospeso a

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campata unica di 3.000 metri di luce sostenuto da una fitta rete di cavi metallici ancorati a due snelli piloni, in acciaio speciale, alti circa 750 metri: L’esilità della costruzione testimonia la ricerca della ‘perfezione’ tecnica e conferisce al progetto una grande eleganza coniugando insieme l’eloquenza strutturale dell’opera ingegneristica e l’arditezza architettonica alla scala geografica. Significativa la proposta presentata, nello stesso concorso, da Pierluigi Nervi insieme con i figli Antonio, Mario e Vittorio. Come il ponte progettato dal gruppo Musmeci-Quaroni, anche Nervi opta per la soluzione a campata unica. Per assicurare la stabilità laterale dell’impalcato strutturale, Nervi colloca sulle due sponde quattro piloni di sostegno, due per lato e distanziati tra loro per consentire il collegamento dei cavi di acciaio fuori dal piano parallelo verticale. Gli enormi piloni murari, di forma conica, progettati per il sostegno delle antenne di acciaio superiori, e coronati da una ghiera con gli stralli per la stabilizzazione dei cavi, evocano, con la loro presenza, le immagini fantastiche dei mostri omerici che aleggiano nel paesaggio dello Stretto. Medesime figurazioni sembrano guidare i disegni che Giuseppe Samonà propone per la costruzione dei piloni del suo ponte: come due grandi totem, i piloni del progetto del gruppo Samonà, assumono fattezze antropomorfe, enormi guardiani che sorvegliano il transito nel canale tra le due sponde. Le suggestioni del paesaggio dello Stretto hanno alimentato, nel corso degli anni, il desiderio di un confronto progettuale con la natura del luogo. I recenti concorsi banditi per Capo Peloro, estremo lembo della costa siciliana, il lavoro di Alessandro Anselmi, per la sezione paesaggio dello studio d’impatto ambientale del Ponte, arricchiscono la lunga sequenza di progetti accumulati nel corso degli anni, tra cui mi piace ricordare l’omaggio che Franco Pierluisi ci ha regalato per il Capo: Finis Terrae. Esperienze di un lungo lavoro progettuale attraverso il quale è possibile intravedere le possibilità e le ragioni di un territorio che aspetta di trovare una adeguata risposta alle aspettative di continuità che la sua stessa storia leggendaria gli impone. Un lungo lavoro in cui convergono insieme le soluzioni disegnate e le tracce permanenti che affollano il paesaggio dello Stretto: i piloni Enel, ormai da anni dimessi, l’acquario nel mare progettato da un gruppo coordinato da Jean- Pierre Buffi, le torri di Morandi realizzate per l’ancoraggio dei cavi elettrici sospesi tra le due sponde; gli spazi per la contemplazione e la visione progettati da un gruppo coordinato da Franco Cardullo e interpretati dallo scultore Luigi Ghersi; l’ex-tiro a volo ora sede del Parco Letterario di Capo Peloro; il Gorgoneion che inghiotte e fagocita tutto e i piedi di Colapesce il tuffatore immaginati da Marcello Sestito. Un lungo lavoro documentato anche dal Simposio su L’isolato di Messina del 1985, organizzato da Pasquale Culotta insieme a Vincenzo Melluso. Simposio che vide, tra gli altri, la partecipazione di Emilio Battisti, Juan Busquets, Giuseppe Leone, Carlo Magnani,Giuseppe Rebecchini (insieme a lui, nel gruppo, con altri, anche Franco Cardullo), Francesco Venezia. Rebecchini e Venezia in particolare riflettono sul rapporto che lega le città intorno al mare che fisicamente le separa, ma, allo stesso tempo, le fonde insieme. Rebecchini propone alte torri cilindriche emergenti dall’acqua a poca distanza dalla riva. Come suggerisce lo stesso architetto: “allusive colonne di un ipotetico tempio ciclopico della mitica Trinacria”, duplicate sulla sponda calabrese, quasi a voler ristabilire un equilibrio alla scala geografica, un “rispecchiamento dovuto al fenomeno della Fata Morgana”. Venezia propone un “Palazzo a mare” in cui il grande spazio porticato dalle alte colonne è dimensionato per catturare lo spazio esteso della costa calabrese, come dice Venezia: “dall’interno della piazza che verso il mare scende offrendo la visione di Reggio Calabria al fondo del via vai delle navi”. Uno strumento ottico che unisce visivamente le due sponde, un ponte che collega virtualmente le due città e l’architetto simbolicamente proietta nell’immaginario collettivo del popolo dello Stretto con il verso di Montale tratto dalla poesia Vento sulla mezza luna: “Il grande ponte non portava a te, ti avrei raggiunta anche navigando sulle chiaviche”.

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IL MUSEO E IL TEATRO: DUE EDIFICI DELLA RICOSTRUZIONE LENTA DI MESSINA

Antonino Marino La ricostruzione di Messina, dopo il terremoto del 1908, è caratterizzata dalla rapida redazione e approvazione del nuovo Piano Regolatore e dalla quasi contemporanea costruzione dei principali edifici pubblici della città. Accanto ai pochi monumenti storici rimasti nel sito originario (il Duomo, la chiesa dei Catalani, S. Francesco) sono sorti, nell’arco di un decennio, il Municipio, il Palazzo del Governo, il Palazzo di Giustizia, la sede dell’Università, il Palazzo delle Poste, la Stazione ferroviaria, la Curia, oltre ai principali uffici pubblici e privati, alle scuole e alle chiese. La rapida realizzazione di tali edifici e la qualità della loro architettura furono dovute alla disponibilità delle aree individuate sul Piano Regolatore approvato nel 1911, alle ingenti risorse finanziarie messe in campo dallo Stato, alla corretta impostazione tipologico-funzionale degli edifici e alla qualità e preparazione dei progettisti incaricati della loro realizzazione. Tra gli edifici pubblici che non seguirono i tempi rapidi della ricostruzione sono da annoverare il nuovo Museo Civico della città rimasto per più di ottanta anni relegato nella sede provvisoria dell’ex filanda Mellinghoff sulla spianata di San Salvatore di Greci e il Teatro Vittorio Emanuele che, danneggiato dal terremoto del 1908 e successivamente dai bombardamenti dell’ultima guerra, fu sottoposto a parziali restauri che ne compromisero irrimediabilmente la funzionalità. Difficoltà legate alle disponibilità finanziarie e una serie di decisioni contrastanti hanno dilatato enormemente i tempi di realizzazione dei due edifici con risultati ancora incompleti. Il semplice acconto della cronaca delle varie fasi della loro ricostruzione e le questioni emerse in questo arco di tempo sono particolarmente interessanti per riflettere sulla evoluzione dei diversi atteggiamenti relativi alla conservazione del patrimonio storico sia per quanto riguarda i nuovi interventi urbani che per i nuovi inserimenti all’interno di edifici storici. La storia dei due edifici ripropone all’attenzione degli addetti ai lavori tutta una serie di questioni che non cessano di essere al centro del dibattito tra architetti, di discussioni tra amministratori e i responsabili preposti alla conservazione del patrimonio storico. Si tratta del problema centrale concernente le modalità e i metri di giudizio da seguire per l’inserimento di nuove costruzioni in un contesto urbano di particolare interesse e quelle concernenti le modalità di restauro e di ripristino funzionale di un edificio storico. Nel caso del Museo di Messina la storia comprende le varie soluzioni proposte dai progettisti che si sono occupati della costruzione del nuovo museo e rappresenta uno spaccato dell’evoluzione del concetto di museo dal 1913 ai nostri giorni. Nel caso del Teatro Vittorio Emanuele la storia riguarda soprattutto l’evoluzione delle tecniche del restauro sino alla radicale ricostruzione interna dell’edifico quale soluzione capace di garantire la fusione tra il mantenimento dei caratteri storici e le esigenze di sicurezza e funzionalità della struttura. Entrambi i casi sono comunque sintomatici di un problema più generale che investe sempre più gli interventi sul patrimonio storico delle nostre città e permette di verificare l’evoluzione dei criteri scientifici e delle soluzioni architettoniche nell’arco di tempo intercorso tra la prima idea e quella finale coincidente con la ricostruzione fisica dell’opera.

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Fig. 1. La galleria Nazionale d’Arte di Messina. Fig. 2. Foto del plastico del Museo di Carlo Scarpa Progetto di Francesco Valenti (1913). per Messina. Il Museo di Messina Limitandosi ai progetti più significativi redatti dal 1908 ai nostri giorni è possibile mettere a fuoco alcune delle idee che hanno accompagnato la lunga e lenta fase di definizione del progetto di ricostruzione del Museo di Messina. Il problema della costruzione del nuovo Museo si pose nei primi anni dopo il terremoto. Infatti dopo le operazioni seguite per la conservazione della collezione del Museo Civico nella ex filanda Mellinghoff e la raccolta di tutti i reperti architettonici dei vecchi edifici di Messina nella antistante spianata di San Salvatore dei Greci (vicina al torrente Annunziata) la costruzione del Museo fu subito messa tra le priorità della ricostruzione. Nell’elenco dei principali edifici pubblici da finanziare a carico dello Stato il museo era al quinto posto. -Primo tassello della storia del Museo è il progetto redatto dall’ingegnere Francesco Valenti nel 1913. Progetto protrattosi nel tempo (carenza di finanziamento da parte dello Stato, adeguamenti richiesti dagli organi di controllo del Consiglio Superiore dei LL.PP.) sino al 1940 quando lo si ritenne non più adeguato e superato dalle nuove concezioni museografiche. Il progetto del Valenti rispondeva ai criteri adottati da quasi tutti i musei dell’Ottocento. Da un lato seguiva le indicazioni degli schemi durandiani che prevedevano un edificio ad una sola elevazione articolato attorno a tre cortili e illuminato da ampie finestre sulle pareti perimetrali, dall’altro seguiva i criteri di ricostruzione dell’opera d’arte in architettura, attraverso il montaggio dei principali reperti degli antichi edifici di Messina sulle pareti del nuovo museo. “I due grandi corpi di cui si doveva comporre l’edificio – dice la dottoressa Francesca Cicala Campagna – erano costituiti da una parte anteriore rettangolare scandita all’interno da tre grandi cortili porticati realizzati con marmi provenienti dai chiostri di S. Domenico e di S. Francesco. All’esterno nella facciata principale erano collocate le finestre del primo ordine di Palazzo Grano, e nelle facciate laterali quelle del secondo ordine dello stesso palazzo, unite ad altre provenienti dall’Università, cui per rendere più grandioso il motivo architettonico, il Valenti disegnava delle finestre semicircolari in sintonia con lo stesso stile. Allo stesso criterio rispondeva la composizione del corpo centrale avanzato sulla facciata principale , da realizzarsi nel fronte con il grande portale di S. Giovanni presso l’Università, affiancato convenientemente dalle due grandi finestre provenienti da S. Placido Calonerò e nelle due testate laterali dal passaggio carrozzabile, con la ricostruzione di due portali monumentali dell’Università e di Palazzo Grano.” Il progetto del Valenti rispondeva quindi alla concezione diffusa anche nell’ opinione pubblica che sentiva prioritario il bisogno di restituire e conservare alla città il ricordo tangibile degli antichi reperti architettonici che rappresentano il punto di contatto con il passato. Ad altri principi rispondeva il progetto redatto dall’architetto Franco Minissi negli anni sessanta in cui la soluzione architettonica si configura come una sequenza di padiglioni autonomi collegati da percorsi vetrati disposti sulla spianata per lasciare sul posto il maggior numero dei reperti lì conservati. Una soluzione modernista in cui un sistema articolato di

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corpi dalle forme diverse si relaziona con l’atipica spianata archeologica di San Salvatore dei Greci e la ex filanda Menllinghof che nel frattempo era stata restaurata per ospitare il primo nucleo del Museo Civico. Il progetto Minissi rispondeva ai criteri prevalenti negli anni sessanta tendendo a mantenere i reperti archeologici lì dove erano stati trovati e ipotizzando soluzioni formali in cui il visitatore si muoveva tra di essi. Il progetto del Museo di Messina degli architetti Carlo Scarpa e Roberto Calandra del 1974 per le nuove soluzioni museografiche, per i sistemi espositivi previsti, per la qualità e varietà di invenzioni architettoniche, costituisce senza dubbio il tassello più interessante di questa storia. Scarpa coglie a pieno i caratteri del luogo. La spianata di San Salvatore dei Greci riunisce in sé le due anime di Messina: quella delle bellezze naturali, dei colori, del mare e quella dei ricordi, della memoria della tragedia. La spianata dove i superstiti del terremoto hanno raccolto e riunito insieme i reperti architettonici e decorativi dei palazzi più belli e signorili è anche una bellissima terrazza sullo Stretto. È alle due anime della città che Scarpa pensa nel modellare l’architettura del museo dando soluzioni e forme che prefigurano un sotto e un sopra: un sotto tutto rivolto alla storia e un sopra tutto rivolto al paesaggio.”L’idea - dice Roberto Calandra – era di un edificio in cui il piano rialzato è posto a sei metri sopra il piano seminterrato in gran parte coperto, ma aperto da tutti i lati e destinato ai reperti architettonici di minore rilevanza. I resti più significativi dei reperti salvati da Salinas dopo il terremoto, come i portali e le facciate di chiese e palazzi sarebbe stati ricomposti su piani inclinati posti al limite del fossato e al di fuori della parte coperta. Attraverso le vetrate perimetrali e squarci nel pavimento si creavano dei coni ottici, da cui sarebbe stato possibile vedere contemporaneamente la pittura e la scultura dentro e l’architettura fuori in modo da percepire unitariamente le tre forme d’arte coeve” Attraverso lo svuotamento del piano seminterrato si ottiene la continuità visiva tra le due parti del giardino permettendo di potere osservare i frammenti esposti anche da fuori. Il museo è articolato attraverso una precisa strategia espositiva con l’individuazione di spazi adatti ai diversi tipi di opere che vanno dalle grandi absidi del fronte nord destinate ad Antonello e agli antonelliani, alla grande sala vetrata destinata alle due statue del Montorsoli il Nettuno e Scilla, alla grande teca sospesa su un lato della grande sala centrale destinata alle collezioni di ori e monete antiche. Purtroppo la morte improvvisa di Carlo Scarpa nel 1978, il passaggio delle competenze dallo Stato alla Regione Siciliana, una miope visione dei politici locali che ritenevano si potesse recuperare il tempo trascorso per la realizzazione del Museo adottando il sistema dell’appalto concorso, hanno determinato di fatto l’accantonamento del progetto Scarpa la cui realizzazione avrebbe reso possibile un sistema espositivo moderno all’interno di una architettura innovativa che sarebbe stata di per sé una ulteriore ricchezza per la città. Infine il Museo realizzato (ma ancora non aperto) è frutto dell’appalto concorso bandito dal Comune di Messina, vinto con un progetto degli architetti Gaspare De Fiore, Fabio Basile e Mario Manganaro e la cui sistemazione interna e allestimento museografico è stato curato dall’architetto Antonio Virgilio della Soprintendenza di Messina. È questo un progetto che recupera alcune delle idee del progetto precedente, come le tre sale absidali e lo spazio a doppia altezza per le sculture del Montorsoli, ingloba nella parte seminterrata la cripta della piccola chiesa di San Salvatore dei Greci e riprende la soluzione del percorso archeologico nel giardino anteriore affacciato sul mare. Il Teatro Vittorio Emanuele Il teatro Vittorio Emanuele fu uno dei pochi edifici che non andarono distrutti nel terremoto del 1908, ma soltanto danneggiato nella parte posteriore con il crollo di parte della torre scenica. A differenza del Museo il problema del Teatro era tutto interno all’edificio e riguardava le modalità del restauro necessario per ripristinare l’antica funzionalità e per migliorare alcune carenze come la poca profondità del palcoscenico.

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Fig. 3. Il Teatro Vittorio Emanuele subito dopo il terremoto. La storia della ricostruzione del teatro segue in parte lo stesso iter di quella del Museo ed è possibile dividerla in tre fasi. La prima in cui vengono eseguiti una serie di lavori interni parziali che non risolvono il problema dell’apertura del teatro, una seconda fase in cui viene realizzato un progetto che affronta in modo radicale la ricostruzione del teatro con la totale ricostruzione dell’edificio inglobato nelle antiche murature esterne, infine una terza fase con la realizzazione della ricostruzione,a seguito di un appalto concorso, che permette di aprire il teatro ma che lascia molto perplessi sia per la soluzione della nuova sala che per alcune carenze estetico funzionali.

Fig. 4. Progetto di ricostruzione del Teatro Vittorio Emanuele a cura di prof. Roberto Calandra (1968). I primi lavori di restauro (1926-36) si devono all’ingegnere Vincenzo Vinci che curò la ricostruzione delle parti crollate. A lui si deve pure l’allungamento del palcoscenico e il suo completamento retrostante con la costruzione di una sala per concerti, la sala Laudamo, il cui prospetto esterno si intona allo stile neoclassico dell’edificio ottocentesco. I lavori di risarcimento dei prospetti esterni furono eseguiti con muratura di mattoni pieni mentre l’addizione posteriore della Sala Laudamo e parte dell’ampliamento del palcoscenico con struttura intelaiata in cemento armato e muratura compartecipante. La mancanza di finanziamenti necessari per opere di completamento impediscono l’apertura del teatro. I bombardamenti della seconda guerra mondiale provocano nuovi danni alla sala e a tutta la copertura. I lavori di restauro (1949-52) realizzati su progetto del Genio Civile di Messina apportano le prime sostanziali modifiche all’impianto ottocentesco della sala. “Vennero infatti costruite- come dice Gioacchino Lanza Tommasi- due gallerie in cemento armato sovrastanti

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il secondo ordine di palchi così come in cemento armato furono ricostruiti tutti i palchi della sala.” Anche questi interventi non si dimostrano risolutivi anzi alterano profondamente il sistema strutturale originario a tal punto che, dopo una serie di approfonditi accertamenti strutturali affidati al professore Antonio Benini che poneva in dubbio la possibilità di conservare il vecchio edificio, l’amministrazione comunale decide di avviare un progetto organico di ricostruzione del teatro dandone incarico all’architetto Roberto Calandra e agli ingegneri Antonino Barone e Santi Ruberto. Il progetto Calandra del 1974, prevedeva la totale ricostruzione del teatro mantenendo soltanto le murature perimetrali, il restauro del foyer anteriore e l’innalzamento della copertura per realizzare nuovi ambienti tecnici e per ampliare la torre scenica secondo le moderne esigenze teatrali. La sala era prevista con platea inclinata e tre ordini di gallerie senza palchi ed era in linea con le soluzioni prevalenti del momento di cui la ricostruzione del teatro Regio di Torino di Carlo Mollino era sicuramente l’esempio più importante. Il progetto rispondeva a precise richieste dell’amministrazione quale quello di prevedere un teatro di almeno 900 posti idoneo ad accogliere vari tipi di spettacoli, dalla prosa alla musica sinfonica, dalla lirica alla musica da camera. Con questo intento il progetto nella sua prima stesura prevedeva la demolizione della sala Laudamo e del retropalcosenico e la ricostruzione di una nuova sala sul fronte posteriore più larga e aggettante rispetto al corpo ottocentesco, dalle linee decisamente moderne destinata ad auditorium. Anche in questo caso l’amministrazione comunale per accelerare i tempi per la ricostruzione del teatro bandisce un appalto concorso (vinto dall’impresa Russotti di Messina) sulla base del progetto Calandra. Progetto che viene però in parte modificato in fase di realizzazione con la reintroduzione di due ordini di palchi nella sala, il mantenimento della sala Laudamo, la modifica del tetto con l’eliminazione della grande copertura in rame.

Fig. 5. Foto di cantiere nella fase di ricostruzione Fig. 6. Il nuovo “velario” del Teatro Vittorio (1970). Emanuele di Renato Guttuso. A soli venticinque anni dalla riapertura del teatro è stato bandito un concorso di idee finalizzato alla riprogettazione di una nuova copertura che inglobi l’attuale torre scenica e alla risoluzione di problemi interni legati all’acustica e alla visibilità. Il concorso è stato aggiudicato ma il suo avvio rimane sospeso in attesa di reperire i fondi necessari per la realizzazione. Il lungo iter seguito per la ricostruzione dei due edifici dimostra quanto sia complesso e difficile intervenire sul patrimonio esistente quando i tempi della realizzazione si dilatano enormemente. A difficoltà oggettive legate ai finanziamento e alle modalità esecutive si

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sovrappone l’evoluzione di idee, di principi, di tecniche esecutive ma anche nuove necessità indicate dagli specialisti del settore e nuovi modi di sentire espressi dalla collettività. Sono trascorsi più di trenta anni e non si è ancora compreso l’enorme errore commesso nel non avere realizzato il progetto Scarpa per il museo; a venticinque anni dalla apertura del teatro non si è placata ancora la querelle relativa alla soluzione adottata di non ricostruire la sala con i cinque ordini di palchi preferendo la soluzione a gallerie sovrapposte. Anche se i due edifici comportano problematiche diverse, più legata all’evoluzione tipologica e all’architettura il museo, più legata alle modalità del restauro il teatro, è necessario avere presente che di fronte all’assenza di teoria e di certezze qualsiasi decisione è derivata da scale di valori instabili legati al mutare della mentalità collettiva. Mentalità che, soprattutto in questi ultimi anni, tende sempre più ad affidare una valore preminente al portato storico del passato prediligendo la conservazione di modelli e di soluzioni antiche più facili ad essere accettate dalla collettività. Ora se l’attenzione verso il passato costituisce di per sé un fattore positivo, perché spinge verso una maggiore attenzione verso la storia, la stessa preoccupazione per il passato diventa elemento negativo quando viene assunta in contrapposizione all’innovazione, alla contemporaneità. È per questo che ritengo che le occasioni di ricostruzioni lente non debbano divenire motivo di rimpianto o di occasioni perdute ma spunto per interventi importanti frutto della scienza del presente.

TEMPIO CHE RISORGE. LA RICOSTRUZIONE DELLA CHIESA DELLO SPIRITO SANTO

Laura Marino

“Siamo ingombri di statue, rimpinzati di capolavori della pittura e della scultura; ma questa abbondanza è illusoria: non facciamo che riprodurre all’infinito

poche decine di capolavori che non saremmo più in grado d’inventare. Io stesso, ho fatto copiare per la mia Villa l’Ermafrodito e il Centauro, la Niobide

e la Venere, ansioso di vivere il più possibile tra queste melodie della forma...” Marguerite Yourcenar, “Memorie di Adriano”

1908-2008. Cento anni sono passati da quella “furia tellurica” che distrusse le città di Reggio Calabria e Messina e oggi a raccontare un pezzo di storia della ricostruzione della città di Messina e in particolare di un suo monumento è un piccolo libretto che da tanti anni è conservato nella libreria di mio padre. È un libretto del 1938 che scritto da mio nonno, passato a mio padre e oggi tra le mie mani, racconta una storia il cui autore e co-protagonisti sono addirittura il mio bisnonno, l’ing. Antonino Marino e mio nonno, l’ing. Pasquale Marino. È la storia della “monumentale” chiesa dello Spirito Santo: chiesa originaria del 1292 che verso la metà del 1600 abbandonò «la sua veste di francescana semplicità e fu abbellita riccamente con artistici stucchi…Ne risultò un insieme architettonico di archi, lesene, pannelli dove gli artisti ebbero campo di realizzare con mano esperta e sicura le loro originali concezioni. Gli altari furono sostituiti con altri marmi policromi riccamente inquadrati in ordini architettonici tutti diversi per disegno e materiali. Fra questi primeggiava (e per fortuna è uscito quasi intatto dalle rovine) l’altare dedicato al Crocifisso autentico capolavoro di architettura, di scultura e di intarsio». Il terremoto del 1908 colpì anche la chiesa dello Spirito Santo, gioiello del barocco: nel terremoto crollò completamente la cupola ma buona parte delle mura perimetrali e degli stucchi rimasero in piedi. Il canonico Annibale Maria di Francia fece di tutto per comprare il terreno su cui sorgeva la chiesa e quando nel 1917 finalmente ci riuscì diede l’incarico all’ingegnere Antonino Marino, allora ingegnere dell’Orfanotrofio che sorgeva vicino, di redigere il progetto per la

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Fig. 1. Avanzi dell’abside prima dei Fig. 2. L’altare del Crocifisso dopo i di lavori consolidamento. lavori di consolidamento dei muri. ricostruzione della chiesa «utilizzando gli antichi muri. Seguendo questo concetto fu redatto un progetto e furono eseguiti in conformità i lavori di consolidamento con telai in cemento armato incastrate nelle vecchie murature, di ricostruzione dei tratti di muri crollati, della volta e del tetto». Era il 1917. Erano gli anni in cui si iniziava a costruire in cemento amato e ancora più ardita risultava l’operazione di “restauro-ricostruzione”. Procedere al rinsaldo statico della struttura comportava una demolizione di quello che il terremoto aveva risparmiato. Alle lesene in stucco vengono sostiutiti pilastri in cemento armato, alle cornici e agli architravi, correnti e cordoli anch’essi in cemento amato. Ma l’obiettivo restava quello di “restituire alle nuove generazioni e alla risorta Città l’antica gloriosa Chiesa” e per raggiungere lo scopo bisognava seguire lo stesso metodo di lavorazione usato in quell’epoca e cioè la modellazione degli stucchi sul posto.

Fig. 3.Transenna con portale di marmi i Fig. 4.Veduta dell’abside dalla porta policrom dopo i lavori di consolidamento. centrale. Così la Direzione Lavori si avvalse dell’opera del giovane “stuccatore ornatista” Giuseppe Fiorino che fece prima uno studio preparatorio per risalire alle decorazioni originarie attraverso

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i frammenti recuperati e alle fotografie fatte prima del consolidamento. Per questo lavoro non furono usate riproduzioni fatte con forme e con getti, ma tutta la modellazione fu eseguita sul posto. Il lavoro di ricostruzione si interruppe per la morte del canonico A.M. Di Francia per riprendere poi con l’ing. Pasquale Marino a cui si deve l’ultimazione di lavori. Sua è la relazione riportata nel libretto scritto in occasione della “solenne inaugurazione” della chiesa avvenuta il 29 giugno 1938 e che raccoglie le “memorie intorno alla monumentale chiesa dello Spirito Santo in Messina”. Gli antichi saperi si trovavano a lavorare di concerto per riportare la chiesa “all’antico splendore”: gli altari furono ricomposti dal marmista messinese Salvatore Manganaro e per gli affreschi venne da Torino il prof. Ovidio Fonti. Di mio nonno, dell’ing. Pasquale Marino, così si scrive nel libretto: «...Si è già distinto nella progettazione e costruzione di numerosi edifici di carattere civile, sanitario e religioso. Associando ad una vasta cultura artistica una perfetta conoscenza della tecnica moderna, ha disimpegnato con onore la direzione dei lavori del monumentale Tempio». ”Cultura artistica e perfetta conoscenza della tecnica moderna: si, perché quella che si applicava era la “tecnica moderna”, la tecnica del cemento armato, il materiale di Perret, di Le Corbusier, che a Messina venne applicato per la ricostruzione di tutta la città e che è presente anche là dove non si vede perchè “nascosto sotto un puttino o un fregio”.

COMPORRE FRATTURE Antonello Monaco

La primitiva condizione naturale è solcata da fratture. Tagli drastici, incisioni profonde, fessurazioni continue disegnano un paesaggio di forze cristallizzate, di concrezioni rotte in equilibrio instabile, prodotto di eruzioni violente, di sommovimenti tellurici, di accumulazioni magmatiche. L’originaria organizzazione della superficie è lacerata dagli effetti devastanti dell’emergere continuo e dell’esplodere ripetuto di forze profonde dalla natura insondabile. Il fragile equilibrio di trame superficiali che si realizza nella temporanea stasi di tanto sconvolgimento, la tessitura minuta dalle fitte relazioni, l’ispessimento discreto derivato dal progressivo accumularsi di attività in alcuni punti strategici sono stravolti, nuovamente, ripetutamente, dalla violenta eruzione che lacera il sottile strato di incrostazione terrestre, per fare riemergere la materia profonda. Si frantumano legami, si rimuovono vincoli, si sconvolgono forme, si deformano relazioni. La lenta, paziente composizione promossa dall’incessante opera della ragione si decompone in miriadi di frammenti, scagliati ovunque, senza logica. Non più vincoli di prossimità, non più analogie di forma, non più studiate contrapposizioni dialettiche: la superficie bidimensionale finemente modellata appare ora una concrezione tridimensionale squarciata, segnata da lacerti dissonanti e sovrapposti, impossibili da ricondurre a una logica di conformazione. Su questo terreno devastato, l’opera di ricomposizione procede nuovamente, faticosamente, attraverso la progressiva colonizzazione del suolo, riconoscendo nei segni disarticolati una logica di sommovimenti di materia che è possibile ancorare in un disegno razionale. Le forme rotte e taglienti si smussano per ritrovare perdute continuità; le incisioni profonde si collegano in segmenti per costituire fluidità inedite; il groviglio dei segni di superficie si snoda in trame che individuano rapporti tra opposte polarità, su cui stabilire nuovi possibili impianti. I segni della nuova colonizzazione si attestano lungo la linea della frattura principale; consolidano bordi, ispessiscono argini, marcano limiti di nuove divisioni, nette, forti, definitive. Su questo sviluppo longitudinale si stabiliscono le polarità di maggiore concentrazione energetica: elementi-cardine degli sviluppi successivi. Lungo la direzionalità

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longitudinale si innerva la nuova strutturazione del territorio, impiantando le regole di ulteriori processi estensivi. Lo spazio viene irrorato da una nuova rete di relazioni, sempre più fitta, sempre più articolata. Tra le sue maglie si distribuiscono gerarchie, si irrobustiscono collegamenti, si infittiscono trame. L’attraversamento della frattura segna un atto iniziatico, e una sfida: segnala il definitivo superamento della soggezione alle forze di natura. Il suo ottimistico proiettarsi tra le due sponde vuole risarcire una segregazione e una ferita, ritenendo dominata la congerie di forze del profondo insondabile. L’atto dell’attraversamento, con la sua trasversalità unificante, è un atto di presunzione contro-natura. Un involontario segnale di debolezza della razionalità, proprio nel suo proporsi come opera di ribellione. Su di esso si avventerà, per prima, la futura forza distruttrice; lungo la sua tenue traccia metallica essa individuerà la linea di maggiore debilità attraverso cui forzare, nuovamente, prepotentemente, l’assetto temporaneamente ricomposto. L’asse di resistenza maggiore, questa volta, è individuato dalla frattura antica, solidificata e reiterata dal parallelo disporsi delle incrostazioni artificiali. La nuova fessurazione si produrrà, allora, sulla direzione trasversale, aggredendo nel centro le composizioni artificiali. Attraversate queste, e sconquassata l’alternanza parallela di pieni/vuoti, la fessurazione corre veloce per ricongiungersi alla frattura originaria, ristabilendo una continuità di segni lacerati. Un paesaggio di frantumi, un cimitero di idee, di tentativi, di aspirazioni. Ciò che rimane dopo il sisma ha l’aspetto di una ricerca impossibile, di una temerarietà castigata. Non si possono dominare le forze della natura. La costruzione dell’uomo è un fragile tassello di una realtà in continuo divenire, governata da movimenti imprevedibili e insondabili. Eppure si torna a costruire. Eppure si riannodano i brandelli residui. Eppure di consolidano sponde, sempre più forti, sempre più massicce; per meglio resistere, per meglio sfidare la furia degli eventi e del tempo. La logica è sempre la stessa: appostarsi lungo le incisioni prodotte sulla superficie e da lì ripartire per modellare, scavando ed erigendo, nuovi spazi dell’abitare. Se prima la disposizione era longitudinale, parallela alla primitiva frattura, ora le fessurazioni producono un attestamento trasversale. L’acqua da elemento limite diviene elemento interno; la costruzione da argine si fa canale; la città costiera diviene città d’acqua. E’ l’acqua, infatti, l’elemento che emerge per saldare le fratture e ristabilire l’orizzontalità. La sua superficie uniforme e liquida ricopre precipizi, smussa asperità materiali e mentali. La città d’acqua è lo spazio del tempo fluido: un luogo in divenire che ha inciso nelle sue viscere quella condizione aleatoria che costituisce la ragione d’essere profonda di ogni costruzione umana. Un luogo che sa accogliere l’imprevisto, per farne il punto di partenza di nuove avventure. In essa, la presunzione dell’atto creativo si stempera nell’osservazione di ciò che già esiste, e che già include in sé, latenti, tutte le possibili manifestazioni costruttive.

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Fig.1. Antonello Monaco, FRATTURA. 1. Colonizzazione, 2. Strutturazione, 3. Consolidamento, 4. Attraversamento, 5. Estensione, 6. Consolidamento, 7. Fessurazione, 8. Ricomposizione, 9. Consolidamento

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CITTÀ PRECARIE E PROGETTI DEBOLI Consuelo Nava e Raffaele Astorino209

Postulato tematico Si propone una riflessione illustrabile in un percorso che qui s’introduce e che interpreta il rapporto tra configurazioni di città precarie e definizioni di progetti deboli, inseriti in scenari di ri-costruzione e/o costruzione di un abitare post-calamità. Anche per aderire all’intitolazione data alla sessione si prova a ricostruire tali percorsi illustrando le occasioni ed i movimenti di un progetto immateriale, capace di risolvere il tema dell’emergenza dell’abitare in tali condizioni, con scenari di processo efficaci nel superare le necessità del momento, del tempo del soccorso, della condizione materiale dell’intervenire. In tale scenario ritroviamo nel carattere della precarietà il senso della riqualificazione urbana, in cui la precarietà del suolo - tipico di un’area a carattere eruttivo, definisce la precarietà dell’abitato - capace di insediarsi tra infrastrutture ed aree urbane organizzate in territori fortemente conflittuali, per risorse disponibili, storia e morfologia dei segni naturali ed antropici. È ciò che in stato di calamità provoca la precarietà delle popolazioni. Tali condizioni possono rivelarsi nuove capacità d’interpretare il progetto sul territorio, fornendo un approccio significativo allo stesso, in quanto “risorsa” e non “zona ad alto rischio”. La precarietà aumenta la condizione di trasformabilità dell’ambiente costruito, cambia le immagini del paesaggio, definisce un’attitudine del progetto a considerare piani, costruzioni, organizzazioni spaziali ed usi “non definitivi.” In tal senso il progetto si smaterializza e diviene programma, regola per il futuro, modello organizzativo per l’immediato; il progetto si fa debole ed individua in altre azioni del processo di riqualificazione, le modalità e le tecnologie dell’intervento, coinvolgendo popolazioni, operatori e risorse in una ricostruzione post-evento. Quest’ultimo processo si riappropria dei luoghi, delle modalità di urbanizzare il territorio sul suolo, delle tecniche costruttive appropriate, delle condizioni di misurarsi con le risorse prendendo in considerazione naturalità, manifestazioni e cicli temporali quali requisiti del progetto di riqualificazione. Lo scenario delle città precarie e dei progetti deboli si realizza in alcune mutate condizioni di relazione, in una lettura complessa di connessi rapporti da definire caso per caso (evento per evento, territorio per territorio), si tratta di un progetto che necessita dell’interpretazione del significato: • tra piano – progetto, quale condizione strategica • tra risorse – progetto, quale condizione sistemica • tra costruzione – progetto, quale condizione contestuale • tra modelli di comportamento dell’abitare – progetto, quale condizione sociale • tra costruzione e ricostruzione, quale condizione progettuale Si rintracciano, quindi a scopo esemplificativo, due percorsi emblematici di tale postulato, quali esperienze del progetto carico dei significati individuati, capaci di raccontare esperienze successe in ambito urbano ed in luoghi difficili, in cui il progetto ha dovuto misurarsi con il territorio e l’evento, proiettandosi oltre la “ricostruzione”, oltre “la calamità”, recuperando l’idea del suolo, delle risorse, degli abitanti, dei luoghi. Il progetto è divenuto ri - comprendere ed istruire, fare ed invenzione, tecnica e materiale, regola e comportamento.

209 Il contributo è una sintesi della riflessione prodotta dagli autori e descritta nel testo per il paragrafo ”Postulato tematico” da C.Nava e per il paragrafo “Esperienze per i percorsi” da R.Astorino.

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Esperienze per i percorsi Caso 1. Progetto di ricostruzione post-terremoto in Irpinia: il caso di Teora

Fig. 1. Progetto di massima per la ricostruzione di Teora (AV) (ridisegno R.Astorino). Dopo il terremoto dell’Irpinia le operazioni di demolizione e sgombero delle macerie hanno reso evidente quanto fosse stretta la relazione tra il costruito e l’andamento orografico del terreno (percorsi stradali tortuosi che seguono le linee di minor pendenza, scalinate, impronta degli edifici riconoscibile nelle orme dei piani interrati costruiti parzialmente nella roccia, le ripide salite trasversali aperte sul paesaggio, ecc.) in una perfetta linearità tra problema posto e soluzione dello stesso. La stretta relazione tra modelli costruttivi, tecniche, ed impianto urbano è il riflesso del senso di appartenenza al luogo nella sua conformazione tettonica e storica. La ricostruzione post-terremoto è, dunque, la riappropriazione di un luogo e del legame dell’uomo con il luogo stesso. Il progetto di ricostruzione (progetto di massima di G. Grassi, A. Renna, L. Frattiani, E. Guazzoni, C. Manzo, V. Pezza) si basa su una “zonizzazione” che descrive la pericolosità sismica delle zone e che, quindi, indirizza la progettazione verso le zone a minore pericolosità e su una normativa specifica che regola distanze, altezze, tecniche costruttive, ecc. I punti che descrivono il processo di ricostruzione possono essere sintetizzati in: • studio dei dati oggettivi dello stato di fatto post-terremoto e ante-terremoto; • predisposizione di una carta descrittiva del grado di pericolosità sismica delle varie zone; • predisposizione di una normativa specifica regolamentare sull’edilizia; • progetto di massima per la ricostruzione del centro di Teora. È evidente che il disegno urbano sarà modificato e sarà riconoscibile una contrapposizione tra la parte storica densa ed omogenea (della quale un terzo del non potrà essere riedificato) e la nuova architettura che si astrae incurante ma in relazione alle aree edificabili rispetto a quelle a maggiore pericolosità sismica.

Caso 2. Progetto “Tutti a scuola” dell’UNICEF per la ricostruzione di Banda Aceh dopo lo tsunami in Indonesia

Figg. 2-3. Il cantiere e la realizzazione della scuola (fonte: foto UNICEF – caso studio estratto dalla tesi di Dottorato di R. Astorino).

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La costruzione di scuole permanenti segue il programma dell’UNICEF per la ricostruzione di Banda Aceh dopo il maremoto del 2004. Le scuole sono state realizzate secondo il principio del "ricostruire meglio" (building back better), utilizzando cioè standard qualitativi migliori rispetto al passato e adottando i più moderni criteri antisismici e anticiclone ed una previsione di vita minima stimata in 30 anni. Il progetto prevede, oltre alla costruzione di infrastrutture e strutture scolastiche, il coinvolgimento delle comunità locali per la scelta dei siti idonei alla costruzione delle strutture, per la formazione di manodopera specializzata sulle tecniche costruttive e l’utilizzo di materiali locali. Sinteticamente i punti fondamentali per la ricostruzione delle strutture pubbliche come le scuole sono stati: • utilizzo di strutture antisismiche e anticiclone; • integrazione di sistemi di raccolta e depurazione dell'acqua piovana; • utilizzo quando possibile di materiali locali; • rispetto delle tradizioni locali, inserendo le indicazioni delle comunità locali negli stessi

piani di ricostruzione, per promuoverne la partecipazione e la gestione. • incarico dato alle comunità locali per la realizzazione di parte delle opere accessorie, al

fine di accrescere il loro coinvolgimento nel progetto e creare nuove opportunità di lavoro.

CATASTROFE PROGETTO ARCHITETTURA Gianfranco Neri

Roma. Particolare della Fontana di Trevi.

Restando al tema del disastro di Lisbona, converrete che per esempio, la natura non

aveva affatto riunito in quel luogo ventimila case di sei o sette piani, e che se gli abitanti di quella grande città fossero stati distribuiti più equamente sul territorio e alloggiati in edifici di minor imponenza, il disastro sarebbe stato

meno violento o, forse, non ci sarebbe stato affatto

Jean-Jacques Rousseau

A flagello terraemotus libera nos Domine Antica litania

Quando (l’Agnello) ruppe il sesto sigillo, ci fu

un gran terremoto; il sole si fece nero come un carbone, la luna tutta quanta si fece color

sangue Apocalisse

Ciò che per la crisalide è la fine del mondo, per

il resto del mondo è farfalla Lao Tze

“Gli eventi di grande portata, che toccano il destino di tutti gli uomini, suscitano a buon diritto quel genere apprezzabile di curiosità che è destata da tutto ciò che è straordinario e che si volge a indagare le cause che lo hanno prodotto. Allora, l’impegno a cui il ricercatore che studia la natura è tenuto di fronte al pubblico deve portarlo a render conto delle conoscenze che l’osservazione e la ricerca possono offrirgli. Io rinuncio all’onore di assolvere a questo dovere in tutta la sua estensione e lascio tale onore a colui, qualora dovesse farsi avanti, che potrà vantarsi di avere accuratamente esaminato l’interno della terra. Le mie considerazioni saranno solo un abbozzo. Esso conterrà, per dirla con parole schiette, quasi tutto ciò che

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sinora si può dire su tale argomento con verosimiglianza, e tuttavia, ovviamente, non abbastanza per soddisfare quel giudizio severo che sottopone tutto al vaglio della certezza matematica”210. La considerazione di Immanuel Kant posta in apertura alle note che seguono, è innanzitutto una necessaria indicazione di metodo per circoscrivere un ambito tematico la cui vastità altrimenti risulterebbe soverchiante. Catastrofi è il titolo di un libro pubblicato in Italia nel 1984, curato da Isaac Asimov e da due suoi collaboratori. Il volume raccoglieva una serie di racconti scritti da vari autori di scienze fiction che – a differenti scale: dalla micro catastrofe individuale, al collasso del sistema solare e, infine, alla distruzione dell’umanità –, descrivevano in progressione esponenziale una serie di eventi catastrofici differenti per dimensione e peso specifico, accumunati però dalle medesime, semplici, caratteristiche: gli eventi che accadevano erano indipendenti dalla volontà di chi li subiva, erano imprevedibili (inattesi e tali da produrre una marcata discontinuità con le vicende che lo precedevano), devastante doveva essere infine l’esito in cui si scioglieva la loro trama –. In ogni caso, queste caratteristiche della catastrofe in versione letteraria di cui si accennava – e soprattutto la distruttività che ne conseguiva –, fanno riferimento ad accezioni recenti del termine, facendo invece il suo significato originario a un qualche rovesciamento, rivoluzione o, meglio – come sostiene Umberto Curi – a una trasformazione, “dove l’accento è posto sulla nuova forma cui si perviene attraverso il processo indicato nella catastrofe”211. Nel ‘500, transitando questa accezione nel linguaggio teatrale, oltre a segnare “la descrizione di una vera e propria morfologia del mutamento” drammaturgico, farà aderire alla catastrofe un rilevante valore rappresentativo (e spettacolare, certo ancora attivo nell’uso attuale) di cui si tenterà di dire più avanti. Quindi, è piuttosto una trans-formazione, un mutamento di forma a riguardare la Catastrofe, il passaggio da uno stato all’altro, la forma del cambiamento. Se questo è vero, non è azzardato sostenere che possa esistere uno stato della forma che sia strettamente legato alla catastrofe e ciò sarebbe già molto evidente solo se ci limitassimo banalmente a considerare ad esempio la forma della città, laddove mutamento e discontinuità risultano essere parte integrante dei processi incessanti (macroscopici o infinitesimali che siano) della sua ininterrotta trasformazione. Secondo il parere di vari autori, la Modernità stessa vede la propria nascita segnata da un evento catastrofico e alla distruzione di una grande città (che produrrà un paesaggio in qualche modo anticipato dalla fantasia rovinista delle Vedute e delle Carceri d’invenzione di Giovanni Battista Piranesi). Il primo novembre del 1755 Lisbona è colpita da un violentissimo e particolarmente devastante terremoto. Ma non sarà tanto nella “distruzione di una città ricca e splendida, né (per) la morte di dieci-quindicimila persone sotto le macerie, bensì (nella) reazione intellettuale innescatasi in tutta Europa” a suscitare una vastissima eco che vedrà particolarmente impegnati in un acceso e contrastato scambio di vedute, tra gli altri, Voltaire, Immanuel Kant e Jean-Jacques Rousseau212. Come sostiene Andrea Tagliapietra: “Il tipo di modernità che si inaugura con il terremoto di Lisbona nasce dall’immane sconcerto provocato dal disastro naturale e dall’implicito processo riguardo alle responsabilità divine che questo sembrava comportare, ma sotterraneamente tale modernità instaura un rapporto diretto e ambiguo, di segreto inebriamento e di inconfessabile dipendenza, con la categoria stessa della catastrofe. Forse i due secoli e mezzo che ci separano dalle rovine della capitale portoghese

210 I. KANT, Sulle cause dei terremoti in occasione della sciagura che ha colpito le terre occidentali d’Europa verso la fine dell’anno trascorso (1756), in Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe. L’illuminismo e la filosofia del disastro, a cura di A. TAGLIAPIETRA, Bruno Mondadori, Milano 2004, p. 49. 211 U. CURI, Sul termine catastrofe, dattil. inviato in occasione del 7° LId’A-Laboratorio Internazionale d’Architettura, Reggio Calabria/Messina 19 settembre – 4 ottobre 2008.

212 Judith Shkalar, cit. in A. TAGLIAPIETRA (a cura), Introduzione a Voltaire, Rousseau, Kant, Sulla catastrofe., cit., p. XIX.

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sono stati necessari per fare emergere, in una sorta di crescendo della storia, proprio quel desiderio di catastrofe che costituisce l’autentico cuore di tenebra della contemporanea società del rischio”213. Una nascita sotto il segno della devastazione immane che per molti versi ha espanso pervasivamente i suoi effetti fino a configurare la catastrofe come un vero e proprio modello epistemologico ed estetico. Non si fa qui riferimento soltanto al successo della letteratura o al cinema di genere – catastrofista, appunto e che tuttavia ne segnala l’inquietante prossimità alla sensibilità e all’immaginario di massa –, ma in qualcosa che si è insinuato in un modo più silenzioso e profondo nella coscienza e nella vita degli uomini i quali, se spesso ne disconoscono la natura, nondimeno ne riconoscono accanto a sé la terribile presenza: “il male di vivere. Il male per cui tutte le cose, buone o cattive, si deteriorano, si disfano e si degradano andando verso la loro fine. Il principio del male, al suo fondo, non è un principio morale” sostiene ancora Tagliapietra, “È un principio di squilibrio e di vertigine che ci precipita verso il caos dell’informe. È questo il male della natura, l’entropia, l’irreversibile che tocca il suo culmine nell’assolutamente irrimediabile, nello scandaloso spettacolo della catastrofe”214. Caos dell’informe è una locuzione che esprime con efficacissima sintesi la angosciosa e pullulante atmosfera che contrassegna la nascita della metropoli moderna – dalla Londra infinita di Friedrich Engels, la Londra illustrata da Gustav Doré e descritta mirabilmente da Charles Dickens, alla Parigi di Victor Hugo e Balzac, se volessimo limitarci a due straordinari esempi, senza ovviamente dimenticare la Pietroburgo e Dostoevskij (“E voi sapete, signori, che cosa sia un sognatore? È l’incubo pietroburghese, è il peccato personificato, è una tragedia, silenziosa, segreta, cupa, selvaggia, con tutti i suoi violenti orrori, le sue catastrofi, peripezie, intrecci e svolgimenti…”.), New York, Berlino, la Milano del Manzoni –, vale a dire quel nuovo paesaggio poetico che sarà descritto come “il nuovo mostro o sirena della civiltà”215. È quel nuovo mondo che cresce in quelle che verranno chiamate le “capitali del romanzo”, le grandi città di cui Baudelaire, solo pochissimi anni dopo la loro nascita, coi Fiori del male, “racconterà il tedio (fornendo la nuova poetica per un secolo)”. Un paesaggio, quello della moderna metropoli, che molto presto virerà i toni trionfalistici che ne avevano accolto la nascita, nelle tonalità cupe e spaventose degli slums – luoghi di povertà, bisogno, malattia e degradazione – che divengono l’immagine visibile e metafora della coscienza dell’uomo moderno. Quindi, se sul principio “lo spettacolo (delle metropoli) è esaltante” costituendo “una nuova traduzione dell’avventura che gli antichi narratori (…) cercavano nella natura”216, nel volgere d’un batter d’occhio si trasformano in spaventosi luoghi di catastrofe umana e sociale, spingendosi fino verso la deriva ancor più tremenda che le consegna all’incomprensibilità. Vale a dire a quell’impotente sbigottimento che si accompagna oggi più che mai alla incomprensibile e inesplicabile presenza in varie parti del pianeta di conurbazioni composte ormai da decine e decine di milioni di esseri umani (in Cina Chongqing è un’informe agglomerato di 31 milioni di abitanti esteso su 80 mila kmq). Entità che sfuggono a qualsiasi classificazione e che neanche il termine megalopoli riesce ad avvicinarsi al vero significato e a sfiorare il senso della loro natura. Esse richiedono, come le vecchie metropoli moderne (si passi l’ossimoro), uno sforzo d’immaginazione speciale nel tentativo di approssimarne la comprensione, uno sforzo inedito e forse superiore a quanto avvenne per la metropoli che ci lasciamo alle spalle. Come raccontano Carlo Fruttero e Franco Lucentini: “Le metropoli

213 A. TAGLIAPIETRA, cit., ibidem.

214 Ivi, p. XXX. 215 Si veda la bella introduzione di Corrado Alvaro Il mondo di Hugo a L’uomo che ride, Edizione Casini, Firenze 1964, dove lo scrittore calabrese traccia con ineccepibile sintesi e maestria il rapporto tra letteratura e la città moderna.

216 Ivi, p. VII.

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moderne sono, da quando esistono, dei personaggi letterari. Hanno avuto l’onore di ricevere le liriche maledizioni e le acerrime invettive dei massimi poeti e romanzieri degli ultimi centocinquant’anni, trovatisi a vivere, nel loro ventre, o cancro, o fogna, o bubbone. Oggi, tuttavia, la situazione è cambiata, le metropoli sembrano (andate) al di là di una sia pur orripilata ammirazione come dell'aperto vituperio. Non sono più comprensibili, né raccontabili. Soltanto la loro distruzione può ancora offrire materia alla fantasia e, paradossalmente, restituire alla giungla urbana la perduta dimensione umana. Poiché perfino l'alternativa vagheggiata da architetti, urbanisti, filantropi, sociologi, psichiatri e altre simili benintenzionate persone, perfino la città modello che da Fourier in avanti viene fatta balenare dai manovratori di utopici specchietti, altro non è che una forma altrettanto intollerabile di asservimento e regressione. Si esce dalla giungla – dice Sheckley – soltanto per entrare nel giardino d'infanzia”217. Catastrofe e Distruzione come strumenti di conoscenza. Se il terremoto di Lisbona è uno degli episodi che, come abbiamo visto, segna l’avvio della modernità, analogamente una singolare coincidenza nella catastrofe sembrerebbe legare il Terremoto di Messina e Reggio Calabria del 1908 alla nascita del linguaggio contemporaneo. Intorno a quel fatidico anno – con uno sfasamento di pochi mesi, che non può non conferire all’evento un valore profetico – Pablo Picasso inizia a dipingere le Demoiselles d’Avignon, un’opera destinata a incidere irreversibilmente, insieme a quella di poco successiva di Vasilij Kandinskij Primo acquerello astratto (1910), sulla storia dello sguardo e della sensibilità dell’Occidente. Né va dimenticato che sempre del 1908 è il Quartetto per archi op. 10 di Arnold Schoenberg – che apre il mondo sonoro all’atonalità – seguito, solo a distanza di un anno, dal Manifesto Futurista di Filippo Tommaso Marinetti (20 febbraio 1909) e alla realizzazione del primo corpo delle Officine Fagus di Gropius e Adolf Meyer (1910-11). Se catastrofe è uguale a mutamento – o, meglio, “mutazione di forma” che “ha carattere di irreversibilità” – nelle Demoiselles si potrebbe dire che avvenga “un mutamento a vista (il quadro di Picasso) è il gesto di rivolta con cui si apre il processo rivoluzionario del Cubismo”218 e la fine della concezione spaziale prospettica di matrice brunelleschiano-albertiana. Nel mostruoso dipinto del pittore spagnolo sono gli stessi codici tradizionali di lettura e interpretazione del mondo a subire una scossa di inaudita violenza, e il crollo conseguente che accompagna l’universo dell’arte troverà in quell’immagine – in quella catastrofe rappresentata – uno degli specchi (se si vuole, in frantumi) più fedeli che siano stati realizzati: mutamento, transizione discontinua, disgregazione, entropia; “squilibrio”, è ancora: “lo scandaloso spettacolo della catastrofe”219. L’architettura non tollera la catastrofe – l’abbandono al caos dell’informe, come si diceva all’inizio di queste note – poiché la catastrofe è organicamente estranea all’architettura, realmente incomprensibile per la mente umana, per la quale il senso di stabilità e di radicamento alla terra suscitano – nell’uomo che vi poggia i piedi – un’istintiva e amplissima fiducia (gli uomini ancora non accettano il tradimento della terra). Una fiducia che delimita chiaramente gli obiettivi di quegli architetti che vogliono “terremotare” i loro edifici, che assegnano i loro sforzi, per quanto straordinari, soltanto a un piano letterario e metaforico, e dunque alla costruzione di un’immagine. Nella potenza dell’immagine “l’architettura fratturata crede di rappresentare un mondo incerto con le sue forme inattese, e assicura di alimentarsi di nuovi paradigmi scientifici ed epistemologici. Tuttavia… questa architettura, quando non ricerca la pura e semplice differenziazione formale per risultare competitiva sul mercato delle immagini, svolg(e) piuttosto la funzione di esorcismo che quella di ritratto”220.

217 C. FRUTTERO - F. LUCENTINI (a cura), Introduzione, in AA.VV., Quando crollano le metropoli, Mondadori, Milano 1977.

218 G. C. ARGAN, L’arte moderna 1770/1970, Sansoni, Firenze 1970, p. 512.

219 A. TAGLIAPIETRA, cit., p. XXX.

220 L. Fernandez GALIANO, Terremoto e terapia, in “Lotus” n. 104/2000, p. 44.

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Per l’architettura, allo stesso modo che per la letteratura d’impronta catastrofista, sembra banalmente valere, al fondo, l’adagio asimoviano secondo il quale “se anticipiamo i guai che ci aspettano, c’è il caso che riusciamo a salvare il collo (= che la nostra angoscia cali un pochino)”221. Comporre è stabilire un limite, parziale e transitorio, al trionfo della catastrofe dell’immaginazione e, per questo, del mondo reale: si potrebbe affermare che non si può fare a meno del Comporre perché “l’essere umano, è questa la sua natura, non sopporta la decomposizione della forma, la nascita dell’informe”222, poiché nella decomposizione della forma egli sente il decomporsi del corpo dove, fuggita via l’anima, “l’odore cadaverico, è quasi insopportabile”. Il decomporsi è l’immondo e “l’immondo è ciò che non è pulito – mundus – secondo la legge religiosa. Mundus mundus est. Il mondo, il puro, è ciò che è pulito. Lo spirito immondo è il demonio”223. Osteggiare per quanto possibile la decomposizione equivale a contrastare “il terrore di fronte a ciò che non può lasciarsi né circoscrivere con le parole né rinchiudere in una forma” vale a dire abbandonarsi a “ciò che sfugge ala comprensione e alla misura”. Tirando le fila: Comporre è contro la disgregazione dei corpi e della coscienza, è quindi un atto anticatastrofico. Ma è proprio qui che si apre una profonda aporia, poiché non vi è invenzione, né arte, né pensiero critico, forse, senza demolizione di codici, disintegrazione di certezze, ribaltamenti di convenzioni, abbattimento di forme prestabilite. Potrebbe profilarsi a questo punto un’idea di catastrofe necessaria cui lo stesso carattere evolutivo della città potrebbe proporsi come paradigma teoretico.

221 G. LIPPI (a cura), Introduzione a AA.VV., Catastrofi, Mondadori, Milano 1981, p. 6. continua ancora Lippi con cinica ironia a svelare il meccanismo letterario che si cela dietro il fascino magnetico della catastrofe: “Ostili verso il genere umano e pronti a scommettere barbe e papiro sul fatto che nessuno sarebbe scampato all’Olocausto Finale, i profeti biblici descrissero minuziosamente il triste destino a cui correva incontro il mondo. Le visioni catastrofiche da loro evocate incontrarono subito il favore del pubblico; non per nulla si dice che Mal comune è mezzo gaudio, e La Rochefoucauld ha fatto osservare che Vi è, nelle disgrazie degli amici, una componente non del tutto spiacevole. Sadica e masochista, l’umanità trae piacere dall’idea del collasso, della fine, della rovina: purché avvenga agli altri o al massimo sulla carta. La letteratura si è quindi riempita di spaventosi resoconti, veri o immaginari, come la fine di Atlantide, il Diluvio Universale, la tragedia di Sodoma e Gomorra, la distruzione di Pompei, l’incendio di Roma, il crollo della casa Usher, l’incendio di San Francisco e via discorrendo. Né mancano i degustatori, i decantatori di catastrofi, uomini così spericolati, così ansiosi di anticipare il peggio, che non esitano a cacciarsi nelle situazioni meno raccomandabili: Plinio il Vecchio è il più insigne di questi affascinati dall’abisso” (p. 6). Una prefigurazione consolatoria o scaramantica, quella della catastrofe, che non sembra estranea anche a altri ambiti creativi. Luis Fernandez Galiano sostiene ad esempio che ciò possa accadere anche in architettura nel caso di “opere e (…) autori autentici (che) esplorano con impegno la costruzione di oggetti fisicamente e visualmente instabili per scongiurare la vertigine di fine secolo; anche se fingono di dirci Così sono oggi le cose, complesse e contorte, in realtà il loro messaggio è: Se riusciamo a fare in modo che queste forme impossibili stiano in piedi, riusciremo anche a mantenere la stabilità di un mondo fragile”, in L. F. GALIANO, cit. p. 44.

222 G. LIPPI, Ibidem.

223 Vedi J. CLAIR, De Immundo, Abscondita, Milano 2005, p. 41. (Éditions Galilée, Paris 2004). Affrontando alcune manifestazioni estreme dell’arte contemporanea Jean Clair si interroga ancora sulla composizione: “L’artista un tempo, componeva. Composizione era una parola prediletta nel vocabolario degli atelier. Ma come comporre con la merda? Il pittore disponeva i diversi elementi del suo quadro secondo un ordine che faceva in modo che tutto si accomodasse. La composizione, in fondo, era il cristallo nascosto, la sezione aurea, la simmetria, la ricorrenza, tutto ciò che esiste di regolare, le cui faccette e il cui splendore reggono la materia cangiante e friabile delle carni, dei frutti, dei fiori, degli insetti che si vuole perpetuare (…) Era l’inorganico scintillante, il bagliore dell’intelligibile. Una durezza di cristallo assicurava alla pelle delle cose una sopravvivenza provvisoria. Tutto il resto è decomposizione, defecazione. Il cristallo è duro e non sente nulla. È la luce e la forma. È tutto contenuto in sé. Niente esce fuori da lui” (p. 16).

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Franco Purini sostiene che: “Se in particolare ci riferiamo alla città dobbiamo riconoscere che gli organismi urbani sono sistemi governati da un equilibrio instabile e provvisorio nel quale si accumulano progressivamente elementi di crisi. Questo meccanismo procede fino a un cedimento dei processi funzionali e rappresentativi della città, un collasso che è la premessa dell’instaurarsi di un nuovo equilibrio, anch’esso labile ed effimero. Nella loro storia, a volte plurimillenaria, le città vivono quindi una continua e fisiologica alternanza di cadute e di rinascite, di catastrofi e di ricostruzioni. Quando un progetto (…) nasce da un’istruttoria esauriente e complessa relativa a questi fenomeni, esso ha qualche possibilità di prefigurare i caratteri di ciò che accadrà nel futuro prossimo e in quello più lontano. In altre parole, la crisi non solo può essere prevista ma può essere inclusa tra i materiali stessi del progetto. (In sostanza,) occorrerebbe distinguere tra le varie forme di catastrofe, individuando le tipologie di collasso funzionali all’evoluzione urbana rispetto a quelle che si presentano come eventi improvvisi e totali”224. In un equilibrio instabile, forma e catastrofe, progetto e caos, composizione e decomposizione, s’incontrano là dove l’una diventa strumento per ispezionare e descrivere i limiti dell’altra e individuare le debolezze dove reciprocamente rischiano di invertirsi, in una tensione estrema e in un conflitto nel quale si scontrano – e tentano di affermarsi – i molteplici pensieri sull’abitare il mondo.

IL SENSO DEL TEMPO E LA COSCIENZA DELLA STORIA.

A FURORE RUSTICORUM LIBERA NOS, DOMINE! "LA NOSTRA EREDITÀ CI É STATA TRAMANDATA SENZA TESTAMENTO"

Francesco Suraci

Nel novembre 2005 a cura di Vittorio Emiliani è uscito per Rizzoli, il libro: L'Italia rovinata dagli Italiani di Leonardo Borgese, giornalista scomparso nel 1986. Il testo raccoglie i suoi articoli sull’'ambiente, la città e il paesaggio che vennero pubblicati sul Corriere della Sera fra il 1946 e il 1970. “A furore rusticorum libera nos, Domine!”, con questa esclamazione prese il via il primo articolo. Ancora oggi osservando il “paesaggio dello Stretto di Messina” mi accorgo che l'attualità di questi scritti è piu’ che evidente. In un'epoca caratterizzata da incessanti trasformazioni, conflitti, contraddizioni la città si deve reinventare mettendo in campo strategie, politiche e strumenti innovativi. In questo senso, il paesaggio dello Stretto è innanzitutto identità. «Questo mare è pieno di voci e questo cielo è pieno di visioni. Ululano ancora le Nereidi obliate in questo mare, e in questo cielo spesso ondeggiano pensili le città morte. Questo è un luogo sacro, dove le onde greche vengono a cercare le latine; e qui si fondono formando nella serenità del mattino un immenso bagno di purissimi metalli scintillanti nel liquefarsi, e qui si adagiano rendendo, tra i vapori della sera, imagine di grandi porpore cangianti di tutte le sfumature delle conchiglie. È un luogo sacro questo. Tra Scilla e Messina, in fondo al mare, sotto il cobalto azzurrissimo, sotto i metalli scintillanti dell'aurora, sotto le porpore iridescenti dell’occaso, è appiattata, dicono, la morte; non quella, per dir così, che coglie dalle piante

224 Intervista a Franco Purini, in F. MORGIA, Catastrofe: istruzioni per l’uso, Meltemi, Roma 2007, pp. 156-157.

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umane ora il fiore ora il frutto, lasciando i rami liberi di fiorire ancora e di fruttare; ma quella che secca le piante stesse; non quella che pota, ma quella che sradica; non quella che lascia dietro sè lacrime, ma quella cui segue l’oblio. Tale potenza nascosta donde s’irradia la rovina e lo stritolio, ha annullato qui tanta storia, tanta bellezza, tanta grandezza. Ma ne è rimasta come l’orma nel cielo, come l’eco nel mare. Qui dove è quasi distrutta la storia, resta la poesia.» (Cosi’ descriveva Giovanni Pascoli questo paesaggio, accorso subito dopo il sisma). A distanza di un secolo esatto dal catastrofico terremoto del 1908, l’area dello Stretto si conferma area ad altissimo rischio sismico. “Colpa anche dell’intenso sviluppo urbano che si concentra, soprattutto, nelle aree costiere”. Nella regione dello Stretto le periferie dei centri in espansione, saldandosi ed articolandosi nella nuova struttura urbana, indicano il consolidarsi d'una strategia discutibile, dove la qualità totalizzante del territorio non si e’ mai misurata con la sostenibilità di questo ambiente sensibile e gli scempi e gli attacchi speculativi sono sotto gli occhi di tutti: “A furore rusticorum libera nos, Domine!” Dopo trent'anni di revisione degli strumenti di pianificazione e di ricerca sulla trasformazione della città occorre spostare lo sguardo su nuove esperienze di progetto urbano e nuovi soggetti sociali portatori di un'idea originale di città. Franco Rella nell'introduzione al testo di P.Eisenman La fine del classico, parla della filosofia come cura al “male del reale”, per noi essa è il riferimento per spiegare caratteristiche fenomenologiche architettoniche non comprensibili in altro modo. La città del futuro nella quale già viviamo, ma della quale non riusciamo a trovare il "bandolo della matassa" per progettarla è una città del tempo. Che il tempo rappresenti, assieme allo spazio, una dimensione costitutiva e perciò innegabile della realtà nonostante il fatto che le nostre percezioni e valutazioni della realtà sono connesse con il tempo, quasi a tutti sfugge quanto sia sostanziale questa connessione. Di solito non ci rappresentiamo il tempo sull'esempio delle altre tre coordinate spaziali della realtà. Esso, al contrario, viene considerato come una sorta di malinteso, il tentativo di liberarsene come l'avvicinarsi a una conoscenza più esatta della realtà. Una tale idea, però, non è che il frutto di una consapevolezza che consiste nel voler reinterpretare i processi della nostra conoscenza come conoscenza divina. Newton sistematizzò tale assunzione aprioristica delle relazioni tra spazio e tempo nel quadro cognitivo della fisica classica. Il tempo è protagonista della vita urbana di ogni epoca. Nella storia delle città invece, un rinnovamento costante è un dato di fatto naturale: in alcuni momenti, più lento o quasi assente, in altri, più veloce e potente, capace di lasciare segni e tracce così visibili da connotare la città stessa. Nel luogo l'uomo si confronta, può vedere dove è arrivato e, progettando un'opera, può immaginarne la continuità o la trasformazione radicale con l’esistente, può esaltare alcuni aspetti e smorzarne altri: ogni nuova architettura contribuisce a ridefinire il luogo inserendosi nel processo di continua trasformazione del paesaggio e del territorio, manifestando le specificità locali o connettendosi a esse. La trasformazione, il mutamento sono condizioni fondamentali che riguardano ogni aspetto dell'esistenza. Nemmeno l'architettura e la tecnologia si sottrae a questo fenomeno. Come ripensare la materia tradizionalmente inerte del costruito attribuendole la capacità di interagire tanto con l’uomo quanto con l’ambiente?

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Il paesaggio, leggibile nelle forme e gerarchicamente ordinato, non esiste più. Eppure, proprio quando la densità e la dispersione delle metropoli contemporanee sembra costituire l'inevitabile punto di riferimento per i nuovi paesaggi dell'uomo leggibili nelle sue logiche formative e nei suoi significati. Imparare a leggere queste tracce, "sempre uguali e sempre differenti", significa intraprendere una ricerca ove il paesaggio è "immagine semantica del territorio", è il riferimento consapevole di una nuova globalità: è un paesaggio delle differenze. Il Paesaggio delle differenze costituisce un prezioso tentativo di leggere unitariamente e dinamicamente il territorio, la sua storia, le sue identità, il suo futuro. L’alto livello di «criticità» della nostra epoca ha portato al progressivo distacco tra cultura architettonica e società, tra luogo ed progetto, destrutturando la dimensione locale del territorio e rinunciando ai suoi fondamentali presupposti civili. A partire da queste domande, gli architetti dovrebbero esplorare le potenzialità generate dall’incontro tra architettura e nuove tecnologie proponendo un approccio integrato alla questione energetico ambientale e a quella dell’intelligenza distribuita, relazionarsi con l’ambiente, e con l’agire nell’ambiente. Il rapporto tra architettura, urbanistica, design e tecnologie è uno dei grandi temi. Perché l'innovazione si traduca in un autentico miglioramento della qualità della vita occorre una mediazione culturale, la capacità cioè di conoscere a fondo le potenzialità della tecnologia e di reinterpretarle alla luce dei bisogni e delle aspirazioni dell'uomo. Oggi, come nel passato, l’architettura viene considerata come occasione straordinaria che trasforma e ridefinisce il disegno del territorio, leggendone però soprattutto i caratteri di spettacolarizzazione e di occasione di marketing. Viene colta l’eccellenza delle ”grandi“ architetture, perdendo di vista la città nella sua complessità e le relazioni che legano il progetto di architettura alla committenza pubblica, ai cittadini, ad un percorso e ad un progetto “collettivi“. (Su questa visione si inserisce l’ipotesi del ponte sullo Stretto). Nuovi materiali e tecnologie sollecitano la domanda di una figura di progettista in grado di dare nuova forma all’interazione tra paesaggio costruito e ambiente naturale globale, in grado cioè di progettare spazi, edifici e città ecologicamente e socialmente sostenibili. L’obiettivo è la costruzione di un paesaggio urbano che accetti la frammentarietà come aspetto primario della contemporaneità, ma la veda come ricchezza di una dimensione complessiva. “Fusione dei problemi estetici con quelli d’indole etica”, lo descrisse Ernesto Rogers. La città è rivelazione continua che si attua con semplici azioni minimali di chiara e ravvisabile intimità individuale, un flusso trasparente chiaro nei suoi significati che imponderabilmente coinvolge l'attenzione sollecita la percezione, ha il grande potere di assemblare connettendo visioni oppure di “'scollare” divincolando funzioni che sembravano prima sotto controllo. Ciò che è avvenuto nei territori più vitali ha portato la città a una nuova dimensione culturale -cosa assai diversa dalla tradizionale crescita attorno a una cultura e a un luogo- e ciò porta allo stesso livello la necessità di lavorare sulla città. Bernardo Secchi nel suo "Diario di un urbanista" ricorda che parlare di forma della città e del territorio sembra oggi proibito. Se ne può parlare per il passato, ma non come un problema attuale. Si è subito guardati con sospetto come di chi si occupi di cose irrilevanti ..." Ed allora è possibile superare questa visione e mettere mano a un progetto urbano dell’area

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dello Stretto che sappia cogliere il genius loci paradossale di questi luoghi temporaneamente abitati e di questa città forse senza confini? Accessibilità spazio-temporale, mobilità multimodale, potenziamento delle infrastrutture e diffusione omogenea delle nuove tecnologie per contribuire significativamente alla crescita economica e sociale di questo territorio, nuove interazioni nell’ambito della concorrenza e della complementarietà: queste le sfide per realizzare la metropoli dello Stretto come luogo in cui si realizza la competitività e l’innovazione, porta di accesso alla globalizzazione nei territori e città creativa complessa. Una metropoli strategica, comunicante, attrezzata, innovativa e sostenibile. Tutto ciò sarà possibile coinvolgimento l’adesione della società civile e degli attori metropolitani in senso lato. Lo stretto come cuore economico pulsante di una nuova “citta’- paesaggio”. Oggi l’area dello Stretto vive un continua mutazione, un misto tra “consumo” e “rinnovo”, quindi procede ad un'autorigenerazione organica. Essa, attraversa i corpi, creando quegli eventi che la percezione coglie, ma dei quali prendiamo lo stretto necessario alle condizioni di vita che conduciamo ed eliminiamo tristemente le altre possibilità conoscitive. L'architettura, l'urbanistica e la tecnologia intesa come governance dei processi sono necessariamente guidati da un desiderio di costruire. I loro progetti e visioni propongono dei cambiamenti materiali e morali nell’ambiente costruito delle società umane. La complessità urbana non dovrebbe spaventare, perché è anche segno di stabilità, di reversibilità delle funzioni, favorisce le fluttuazioni in un’isotropia densa di valori: ed è proprio negli spazi interstiziali della città-area dello Stretto- che risiedono i punti chiave per il suo rilancio futuro. Il progetto di armatura urbana a grande scala si fa pertanto un progetto frammentato, in cui non importa tanto la sua dimensione ma i suoi elementi di relazione, le giunture e le connessioni tra le parti. Nel film Blade Runner viene immaginata una città di un miliardo di abitanti al cui interno, indistintamente, si vede una moltitudine di edifici, luci, pubblicità, folle stipate nel vapore e nella pioggia come uomini e donne replicanti di se stessi. Ebbene: l’immagine della città del futuro prende sempre spunto -oggi come domani- dalla periferia del territorio e non dal centro, città della memoria, serenità della certezza storica. Considerato come un’unica città, il territorio dello Stretto è una città precaria. La costruzione quotidiana di questo territorio assume la precarietà come condizione. Precarietà del suolo, precarietà del costruito, precarietà degli usi, precarietà delle popolazioni, precarietà delle leggi e della pianificazione. Scelta come chiave di lettura, la precarietà può avere diverse declinazioni: oltre che un’emergenza è un’attitudine radicata e una condizione all’interno della quale si liberano talvolta spazi inediti di invenzione.

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