Nuovi (ma non troppo) modelli di titolo esecutivo per le ... · Il processo verbale di...

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1 ROBERTA TISCINI Nuovi (ma non troppo) modelli di titolo esecutivo per le prestazioni derivanti dal contratto di lavoro: il verbale di conciliazione stragiudiziale dopo il restyling della l. n. 183/2010 (cd. collegato lavoro). Sommario: 1. Il processo verbale di conciliazione stragiudiziale per le controversie di lavoro nella nuova disciplina del cd. collegato lavoro. – 2. Il verbale di raggiunta conciliazione. - 3. L’efficacia esecutiva. L’omologazione ad opera del tribunale e l’istanza di parte. - 4. Il controllo di regolarità formale reso in sede di omologazione. Analogie e differenze con l’exequatur del lodo. - 5. Necessità-opportunità- inopportunità del procedimento di omologa. - 6. L’impugnabilità del decreto di omologa. - 7. Verbale di conciliazione e validità delle rinunce e transazioni ai sensi dell’art. 2113 c.c. - 8. Verbale di mancata conciliazione. - 9. Gli effetti sul giudizio della mancata conciliazione stragiudiziale. - 10. Proposte di soluzione parziale nel verbale di mancata conciliazione. - 11. L’esecutività del verbale di accordo conciliativo in ipotesi di intervento ispettivo avanti alla Direzione provinciale del lavoro. 1. Il processo verbale di conciliazione stragiudiziale per le controversie di lavoro nella nuova disciplina del cd. collegato lavoro. L’intervento innovativo della legge n. 183/2010 (cd. collegato lavoro) sul sistema processuale laburistico è ponderoso ed apprezzabile da diversi punti di vista: in primis, per le modifiche su conciliazione ed arbitrato (art. 31 l. cit.), ma poi anche per le altre - non propriamente di dettaglio - quali i criteri di interpretazione delle clausole generali e le novità in tema di certificazione del contratto di lavoro (art. 30 l. cit.), quelle sull’impugnazione del licenziamento (art. 32 l. cit.) e sulle procedure cautelari ed esecutive (artt. 37 e 44 l. cit.) 1 . Lungi dall’ambizione di esaminare tutta la riforma, né l’intera disciplina della conciliazione stragiudiziale 2 , si indagherà qui il profilo specifico del verbale di conciliazione stragiudiziale, sia quando titolo esecutivo (in caso di esito positivo del tentativo), sia nei suoi riflessi sul processo (qualora il tentativo fallisca). Una premessa di carattere generale si impone. La principale novità sulla fase conciliativa stragiudiziale sta nella trasformazione del relativo tentativo da obbligatorio (rectius, condizione di procedibilità della domanda giudiziale) in facoltativo 3 . Scelta, 1 Per tutte queste modifiche sia consentito rinviare al volume … a cura di Sassani e Tiscini, Roma, 2010, passim. 2 Vd. i novellati artt. 410 ss. c.p.c., come riformati dall’art. 31 l. n. 183/2010. 3 Salvo che per l’ipotesi di cui al comma 2 art. 31 l. cit., secondo cui “il tentativo di conciliazione di cui all’art. 80 comma 4 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 è obbligatorio”.

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ROBERTA TISCINI

Nuovi (ma non troppo) modelli di titolo esecutivo per le prestazioni

derivanti dal contratto di lavoro: il verbale di conciliazione stragiudiziale dopo il

restyling della l. n. 183/2010 (cd. collegato lavoro).

Sommario: 1. Il processo verbale di conciliazione stragiudiziale per le controversie di lavoro

nella nuova disciplina del cd. collegato lavoro. – 2. Il verbale di raggiunta conciliazione. - 3. L’efficacia

esecutiva. L’omologazione ad opera del tribunale e l’istanza di parte. - 4. Il controllo di regolarità formale

reso in sede di omologazione. Analogie e differenze con l’exequatur del lodo. - 5. Necessità-opportunità-

inopportunità del procedimento di omologa. - 6. L’impugnabilità del decreto di omologa. - 7. Verbale di

conciliazione e validità delle rinunce e transazioni ai sensi dell’art. 2113 c.c. - 8. Verbale di mancata

conciliazione. - 9. Gli effetti sul giudizio della mancata conciliazione stragiudiziale. - 10. Proposte di

soluzione parziale nel verbale di mancata conciliazione. - 11. L’esecutività del verbale di accordo

conciliativo in ipotesi di intervento ispettivo avanti alla Direzione provinciale del lavoro.

1. Il processo verbale di conciliazione stragiudiziale per le controversie di

lavoro nella nuova disciplina del cd. collegato lavoro.

L’intervento innovativo della legge n. 183/2010 (cd. collegato lavoro) sul

sistema processuale laburistico è ponderoso ed apprezzabile da diversi punti di vista: in

primis, per le modifiche su conciliazione ed arbitrato (art. 31 l. cit.), ma poi anche per le

altre - non propriamente di dettaglio - quali i criteri di interpretazione delle clausole

generali e le novità in tema di certificazione del contratto di lavoro (art. 30 l. cit.), quelle

sull’impugnazione del licenziamento (art. 32 l. cit.) e sulle procedure cautelari ed

esecutive (artt. 37 e 44 l. cit.)1.

Lungi dall’ambizione di esaminare tutta la riforma, né l’intera disciplina della

conciliazione stragiudiziale2, si indagherà qui il profilo specifico del verbale di

conciliazione stragiudiziale, sia quando titolo esecutivo (in caso di esito positivo del

tentativo), sia nei suoi riflessi sul processo (qualora il tentativo fallisca).

Una premessa di carattere generale si impone. La principale novità sulla fase

conciliativa stragiudiziale sta nella trasformazione del relativo tentativo da obbligatorio

(rectius, condizione di procedibilità della domanda giudiziale) in facoltativo3. Scelta,

1 Per tutte queste modifiche sia consentito rinviare al volume … a cura di Sassani e Tiscini, Roma, 2010,

passim. 2 Vd. i novellati artt. 410 ss. c.p.c., come riformati dall’art. 31 l. n. 183/2010.

3 Salvo che per l’ipotesi di cui al comma 2 art. 31 l. cit., secondo cui “il tentativo di conciliazione di cui

all’art. 80 comma 4 del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276 è obbligatorio”.

2

questa, senz’altro da salutare con favore4, tenuto conto degli esiti fallimentari che aveva

prodotto l’obbligatorietà sin dalla sua prima apparizione (l. n. 80/1998). Vi è tuttavia

incoerenza in un legislatore che solo pochi mesi prima aveva imposto l’obbligatorietà

della mediazione stragiudiziale in una vasta serie di materie5 (art. 5 d.lgs. n. 28/2010)

6.

Delle due l’una: o rendere la fase stragiudiziale come “obbligatoria” agevola il

raggiungimento dell’accordo – ed allora, se è opportuno farne regola generale, è

altrettanto opportuno conservarla nel settore, quello laburistico, che tra i primi l’ha visto

affermarsi – ovvero nessun valore aggiunto l’obbligatorietà assicura al formarsi di una

volontà transattiva che esiste a prescindere da qualsiasi imposizione di legge – ed allora

bene ha fatto la l. 183/2010 ad eliminare la condizione di procedibilità della domanda,

ma al contempo va criticato il d.lgs. n. 28/2010 che la ha imposta in molteplici altri

settori. Va pur detto che si tratta di scelte legislative discrezionali ed insindacabili (così

la stessa Corte costituzionale) 7

delle quali non resta che prendere atto.

Scendendo in medias res, l’attenzione va concentrata sul (verbale di

conciliazione e quindi sul) novellato art. 411 c.p.c.8, norma che - uscita incolume dagli

interventi ponderosi della l. n. 80/1998 – è stata piuttosto innovata dalla riforma qui in

esame.

Nella sua attuale versione, essa ingloba (con modifiche), sia il vecchio testo

dell’art. 411 c.p.c. (sul verbale di conciliazione in caso di esito positivo del tentativo),

sia il vecchio testo dell’art. 412 c.p.c. (quanto al verbale di mancata conciliazione). Di

quest’ultima disposizione – nella sua vecchia versione – una parte è rimasta nell’attuale

art. 412 c.p.c. circa la possibilità per le parti di indicare la soluzione anche parziale sulla

quale concordano9.

Inoltre, mentre nella previgente disciplina la norma codicistica operava solo per

le controversie di lavoro privato, mentre quelle di lavoro alle dipendenze delle

pubbliche amministrazioni erano regolate dagli artt. 65 e 66 d.lgs. n. 165/200110

(in

particolare, quanto al verbale di conciliazione, l’art. 66 commi 5, 6 e 7 d. lgs. cit.), oggi

4 In questo senso, R. PESSI, La protezione giurisdizionale del lavoro nella dimensione nazionale e

transnazionale: riforme, ipotesi, effettività, in RIDL, 2010, 195 ss., spec. § 7. 5 Tra l’altro, introducendo la mediazione obbligatoria, è stato assunta a modello di riferimento proprio la

fase conciliativa nelle controversie di lavoro degli artt. 410 ss. c.p.c. (così la Relazione illustrativa al

d.lgs. n. 28/2010). 6 Peraltro, che il nuovo modello conciliativo in materia laburistica si discosta (non solo da questo punto di

vista ma anche) per molti altri da quello immaginato dal d.lgs. n. 28/2010, sia quanto alla compiuta

rappresentazione della figura del mediatore (ben descritta nel d.lgs. n. 28/2010 e del tutto trascurata nella

l. n. 183/2010), sia per la mancata riproduzione di tante soluzioni normative esposte in quel decreto che

ben avrebbero potuto calarsi nella disciplina laburistica. Sul tema, vd. Valerini, Il tentativo di

conciliazione, ... 7 E’ ormai costante la Corte costituzionale nel ritenere che non è incompatibile con i precetti

costituzionali l’imposizione di condizioni di procedibilità alla domanda giudiziale (in primis, il tentativo

di conciliazione) quando l’accesso alla giustizia non sia eccessivamente ostacolato o reso difficile (vd. ex

pluribus, Corte cost. 13 luglio 2000 n. 276, in MGL, 2000, 1098, con nota di TISCINI, proprio con

riferimento al tentativo di conciliazione stragiudiziale delle controversie di lavoro). 8 La relativa disciplina è collocata nell’art. 31 comma 3 l. n. 183/2010.

9 Sul punto vd. infra § 10.

10 Procedure – quella relativa alla fase conciliativa nelle controversie di lavoro privato e quella operante

nel cd. pubblico impiego privatizzato – tra loro senz’altro alternative (F. CUOMO ULLOA, La

conciliazione. Modelli di composizione dei conflitti, Padova, 2008, 317; A. NASCOSI, Il tentativo

obbligatorio di conciliazione stragiudiziale nelle controversie di lavoro, Milano, 2007, 218).

3

il tentativo di conciliazione stragiudiziale degli artt. 410 ss. c.p.c. è normativa generale

valida pure per le cd. controversie di lavoro pubblico: il comma 9 art. 31 l. n. 183/2010

abroga infatti gli artt. 65 e 66 d.lgs. n. 165/2001, stabilendo che alle controversie di

pubblico impiego – quelle dell’art. 63 comma 1 d.lgs. n. 165/2001 – si applicano gli

artt. 410, 411, 412, 412 ter, e 412 quater c.p.c. così come novellati11

.

Nel disciplinare efficacia e regime del verbale di conciliazione, la riforma

assume quale modello di massima quello del pubblico impiego12

(il che in qualche

modo inverte il rapporto tra regola ed eccezione nel previgente regime13

), utilizzando

soluzioni normative che riproducono, spesso fedelmente, la disciplina dell’art. 66 d.lgs.

n. 165/2001 piuttosto che quella degli originari artt. 411 e 412 c.p.c.

2. Il verbale di raggiunta conciliazione.

L’ipotesi della raggiunta conciliazione trova collocazione nel comma 1

dell’attuale art. 411 c.p.c. ed in parte nel comma 3 (quanto al deposito del verbale

presso la Direzione provinciale del lavoro e la sua omologazione).

Se il tentativo di conciliazione esperito ai sensi dell’art. 410 c.p.c. (come si è

detto, facoltativo ed operante per le controversie di impiego pubblico e privato14

) riesce

“anche limitatamente ad una parte della domanda, viene redatto separato processo

verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione di conciliazione”

(art. 411 comma 1 c.p.c.). La disposizione riproduce con poche ed irrilevanti15

11

Abrogando gli artt. 65 e 66 d.lgs. n. 165/2001, viene meno anche l’art. 66 ultimo comma cit., secondo

cui la conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione – in adesione alla

proposta formulata dal collegio – non può dare luogo a responsabilità amministrativa. La disposizione -

già considerata “essenziale, perché altrimenti ben difficilmente il rappresentante della p.a. è disposto a

conciliare, sapendo di poter essere chiamato a rispondere della propria decisione” (F.P. LUISO, La

conciliazione giudiziale. La conciliazione stragiudiziale delle controversie agrarie e di lavoro, in I

contratti di composizione delle liti, a cura di E. Gabrielli e F.P. Luiso, Milano, 1995, 329 ss., spec. 375;

R. TISCINI, Il tentativo obbligatorio di conciliazione, in Processo del lavoro e rapporto alle dipendenze

delle pubbliche amministrazioni. Il decreto legislativo n. 80 del 1998, a cura di G. Perone e B. Sassani,

Padova 1999, 23 ss., spec. 29) – è riprodotta nell’ultimo comma del nuovo art. 410 c.p.c. secondo cui “la

conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, anche in sede giudiziale ai

sensi dell’art. 420, commi primo, secondo e terzo, non può dare luogo a responsabilità, salvi i casi di dolo

o colpa grave”. Si introduce così il limite del dolo o la colpa grave – su cui taceva la previgente

disposizione – che riconosce una seppur lieve responsabilità, ove si dimostri la presenza di tali elementi

soggettivi. 12

Sul punto, vd. amplius infra § 2. ss. 13

Vigente l’abrogata normativa, si riteneva che fosse disciplina generale quella contenuta negli artt. 410

ss. c.p.c., mentre quella dettata negli artt. 65 e 66 d.lgs. n. 165/2001 ne rappresentasse solo una variante

(R. VACCARELLA, Appunti sul contenzioso del lavoro dopo la privatizzazione del pubblico impiego e

sull’arbitrato in materia di lavoro, in ADL, 1998, 715 ss., spec. 749; M. GRANDI, La composizione

stragiudiziale delle controversie di lavoro nel pubblico impiego (d.lgs. n. 80/1998), in LPA, 1998, 791 ss.;

F.P. LUISO, Commento sub. art. 412, in Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo, a cura di M.

Dell’Olio e B. Sassani, Milano, 2000, 377; F. SANTAGADA, La conciliazione nelle controversie civili,

Bari, 2008, 136). 14

Vd. supra § precedente. 15

Invece della “pretesa avanzata dal lavoratore”, il nuovo art. 411 c.p.c. evoca la “domanda”, in entrambi

i casi ipotizzando il raggiungimento parziale dell’accordo. Quest’ultima espressione ha una portata più

ampia, in quanto contempla la possibilità che la domanda provenga dal datore di lavoro piuttosto che dal

lavoratore. Seppure rara, è questa una ipotesi da contemplare, soprattutto se si considera che la fase

conciliativa è sottratta ai rigidi schemi del processo giurisdizionale e che l’accordo potrebbe offrire una

4

modifiche il testo dell’art. 66 comma 5 d.lgs. n. 165/2001, quanto al verbale di

conciliazione nelle controversie di impiego pubblico. E’ da condividere la scelta di

privilegiare il modello applicato alle controversie “pubblicistiche”. Già sotto la vigenza

dell’art. 66 comma 5 cit. si era notato come quest’ultima disciplina avesse il pregio – a

differenza di quella più generale dell’art. 411 c.p.c. – di evocare la possibilità di una

conciliazione parziale della controversia16

, ipotesi fatta propria dal novellato art. 411

c.p.c.

Diverse novità interessano il problema della sottoscrizione del verbale. Mentre

nel vecchio art. 411 c.p.c. la sottoscrizione spettava (oltre che alle parti, anche) al solo

presidente del collegio il quale certificava “l’autografia della sottoscrizione delle parti o

la loro impossibilità di sottoscrivere”, l’attuale testo (ancora una volta privilegiando il

modello delle controversie di pubblico impiego) contempla una sottoscrizione ad opera

di tutti i componenti della commissione senza che questi debbano autenticare la firma

apposta dalle parti. Pure sotto questo profilo la nuova versione è apprezzabile. Vigente

il vecchio testo dell’art. 411 c.p.c.17

, si era notato come l’autenticazione della firma ad

opera del presidente del collegio fosse un inutile residuato storico. Con essa il verbale di

conciliazione – pure non omologato – acquistava l’efficacia di una scrittura privata

autenticata (in virtù del combinato disposto degli artt. 411 comma 1 c.p.c. e 2703 c.c.)18

,

ma si trattava di un requisito dal modesto rilievo pratico. L’autenticazione della firma

era sicuramente necessaria nel sistema anteriore alla soppressione dell’ordinamento

corporativo che prevedeva un termine perentorio di dieci giorni per il deposito19

,

termine decorso il quale era definitivamente preclusa la possibilità che il verbale

acquistasse efficacia di titolo esecutivo (l’autenticazione della scrittura consentiva per

altra via di ottenere la medesima efficacia); non ugualmente dopo la riforma del

processo del lavoro della l. n. 533/1973, che ha garantito il deposito in ogni momento

seppure entro il termine di prescrizione del diritto; il che rende praticamente illimitata

nel tempo la possibilità di avere il titolo esecutivo20

.

L’eliminazione dell’autentica ad opera del presidente del collegio attualizza

perciò la disposizione rispetto ad una situazione normativa da tempo vigente21

.

soluzione transattiva che si discosta dalla formulazione della “domanda” originaria (non trova qui

applicazione fedele come nel giudizio il principio della domanda). L’altra differenza testuale riguarda il

fatto che la sottoscrizione dell’accordo è compiuta dai componenti della “commissione di conciliazione”

(art. 411 c.p.c.) e non già dai componenti del “collegio di conciliazione” (art. 65 comma 5 cit.): il che

dipende dalla differenza tra i rispettivi organi conciliativi. 16

Vd. L. MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale di diritto processuale del lavoro, Napoli, 1996, 59. 17

Il quale, come si è detto, è rimasto immutato pure dopo le modifiche apportate dalla l. n. 80/1998,

mentre ha subito innovazioni nel passaggio dalla vecchia versione dell’art. 431 comma 3 c.p.c. (nella

disciplina ante l. 533/1973) a quella successiva dell’art. 411 c.p.c. 18

C.M. BARONE, La conciliazione stragiudiziale, in V. ANDRIOLI, C.M. BARONE, G. PEZZANO, A. PROTO

PISANI, Le controversie in materia di lavoro, Bologna – Roma 1987, 127. 19

Sul tema, vd. G. TARZIA, Manuale del processo del lavoro, Milano, 2008, 49. 20

L. MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale di diritto processuale, cit., 59. 21

A dire il vero, conservare il potere di autenticazione della firma in capo al presidente del collegio

avrebbe avuto il vantaggio di riconoscere al verbale di conciliazione – ancora prima del suo deposito

presso la Direzione provinciale del lavoro, nonché presso la cancelleria del tribunale – efficacia di titolo

esecutivo ai sensi dell’art. 474 n. 2 c.p.c. (come novellato dalla l. n. 80/2005) che attribuisce tale efficacia

alle scritture private autenticate, seppure limitatamente al pagamento di somme di denaro. Ove fosse stata

concessa l’autenticazione della firma, il verbale di conciliazione non omologato – ma con firma delle

parti autenticata – avrebbe pur sempre potuto valere come titolo esecutivo stragiudiziale. Tuttavia,

5

Di autenticazione della firma si torna a parlare nell’art. 411 comma 3 c.p.c. con

riferimento al deposito del processo verbale di avvenuta conciliazione presso la

Direzione provinciale del lavoro: in questo caso, “il direttore, o un suo delegato,

accertatane l’autenticità, provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale nella cui

circoscrizione è stato redatto” (art. 411 comma 3 c.p.c.). Si tratta però di una

autenticazione dalla ratio profondamente diversa da quella riconosciuta al presidente del

collegio ai sensi dell’art. 411 comma 1 abr. c.p.c. e da ricollegare tanto ad esigenze di

certezza e ponderazione per la scelta conciliativa, quanto al successivo passaggio

all’omologa22

.

3. L’efficacia esecutiva. L’omologazione ad opera del tribunale e l’istanza di

parte.

Il verbale di raggiunta conciliazione non è immediatamente esecutivo, bensì lo

diventa seguendo due meccanismi posti in successione tra loro23

. Tra i due primeggia il

procedimento di omologa ad opera del tribunale su istanza di parte genericamente

descritto nell’art. 411 comma 1 c.p.c. ed ulteriormente specificato nel successivo

comma 3 dello stesso art. 411 c.p.c. Nell’imporre l’omologa – ai fini dell’esecutività del

verbale - la riforma si discosta dal modello della conciliazione stragiudiziale nelle

controversie di pubblico impiego24

: mentre in quest’ultimo il verbale di conciliazione

costituiva immediatamente titolo esecutivo (art. 66 comma 5 d.lgs. n. 165/2001 abr.)

prima e a prescindere dall’omologa25

– che non era perciò prevista26

- l’attuale versione

dell’art. 411 c.p.c. conferma la necessità dell’exequatur.

La riproduzione in parte qua della vecchia disciplina del tentativo di

conciliazione nelle controversie di lavoro privato che colloca(va) in posizione centrale

l’omologazione va tuttavia calata in un contesto ben diverso; il che, seppure tale

modello aveva un giustificabile fondamento nel previgente sistema, induce a sospettarne

l’inopportunità in quello attuale27

.

l’eliminazione della autenticazione ad opera del presidente del collegio è comprensibile pure da questo

punto di vista: una volta imposto il deposito presso la Direzione provinciale del lavoro, è già con questo

atto (prima dell’omologazione giudiziale) che il verbale di conciliazione diventa titolo esecutivo ai sensi

dell’art. 474 n. 2 c.p.c., essendo previsto il potere del Direttore, o di un suo delegato, di accertarne

l’autenticità (si dubita addirittura per questo motivo dell’opportunità di conservare l’omologa). Sul punto,

vd. amplius infra §§ 3-5. 22

Questo aspetto sarà approfondito infra §§ 3 ss. 23

Più approfonditamente sulla successione di tali meccanismi, vd. infra § 5. 24

Il che deroga alla scelta uguale e contraria fatta per altre disposizioni. Vd. supra §§ 1 e 2. 25

Sul tema vd. F.P. LUISO, La conciliazione giudiziale, cit., 375; R. VACCARELLA, Appunti sul

contenzioso, cit., 750; R. VIANELLO, Controversie di lavoro con la p.a.: il nuovo tentativo di

conciliazione, in LG, 1999, 216; M. GRANDI, La composizione stragiudiziale, cit., 801; R. TISCINI, Il

tentativo obbligatorio di conciliazione nelle controversie di lavoro, in RTDPC, 1999, 1102; ID, Il

tentativo, cit., 41. 26

Non altrettanto però per le controversie di lavoro pubblico, quanto alla conciliazione in sede sindacale

alla quale si applicavano le previsioni dell’art. 411 c.p.c. (R. VIANELLO, op. cit., 216; M. GRANDI, op. cit.,

801). 27

Vd. amplius infra § 5.

6

Il procedimento di omologa non trova descrizione nell’attuale comma 1 art. 411

c.p.c. – il quale si limita a stabilire che “il giudice, su istanza della parte interessata, lo

dichiara esecutivo con decreto” – bensì è collocato nel comma 3 art. 411 c.p.c. In un

primo momento il verbale di conciliazione “è depositato presso la Direzione provinciale

del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale” (art.

411 comma 3 c.p.c.); successivamente, “il direttore, o un suo delegato, accertatane

l’autenticità, provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale nella cui

circoscrizione è stato redatto” (art 411 comma 3 c.p.c.), ai fini dell’omologa.

Occorre interrogarsi sul valore dell’istanza di parte nel doppio passaggio dal

deposito presso la Direzione provinciale del lavoro, al deposito presso la cancelleria del

tribunale competente per l’exequatur.

Nella vecchia versione della norma, si distingueva la conciliazione raggiunta in

sede amministrativa da quella sindacale28

. Nel primo caso, l’istanza di parte era

necessaria solo per il rilascio dell’omologazione, dal momento che il verbale di

conciliazione poteva essere depositato nella cancelleria del tribunale (oltre che su

istanza di parte, anche) d’ufficio (a cura dell’UPLMO). La specifica domanda di parte

era invece imposta ai fini della concessione dell’exequatur. In altri termini, il deposito

del verbale a cura dell’ufficio non era sufficiente per attribuire allo stesso l’efficacia

esecutiva, essendo a tal fine necessaria anche un’iniziativa della parte interessata (art.

411 comma 2 c.p.c. vecchio testo)29

. In caso di conciliazione in sede sindacale, invece,

vi era un doppio passaggio: il verbale era depositato presso l’UPLMO a cura di una

delle parti, ovvero per il tramite di una associazione sindacale. Il direttore, o un suo

delegato, accertatane l’autenticità, provvedeva a depositarlo nella cancelleria del

tribunale, il quale, su istanza di parte, lo dichiarava esecutivo30

(art. 411 comma 3

c.p.c.).

Questo secondo meccanismo è stato privilegiato e generalizzato a qualunque

forma conciliativa, sia sindacale che amministrativa.

L’attuale sistema prevede un doppio deposito: il primo, presso la Direzione

provinciale del lavoro, compiuto, sia su istanza di parte, sia tramite un’associazione

sindacale. Il secondo, presso il tribunale competente per l’omologa (quello nella cui

circoscrizione il verbale è stato redatto), al fine dell’exequatur (anch’esso subordinato

all’istanza di parte). Probabilmente la scelta di imporre in ogni caso il deposito del

verbale presso la Direzione provinciale punta a dare maggiore certezza e genuinità al

verbale stesso, assicurando garanzie di trasparenza e fedeltà nella ricostruzione della

volontà delle parti31

.

28

Sul tema, vd. F.P. LUISO, La conciliazione giudiziale, cit., 361. 29

In questo senso vd. F.P. LUISO, La conciliazione giudiziale, cit., 361; G. FABBRINI, Diritto processuale

del lavoro, Milano, 1974, 20; L. MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale, cit., 61. 30

L. MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale, cit., 61, secondo cui questa soluzione era condivisibile

perché, riconoscendo effetti autonomi e distinti al deposito rispettivamente presso l’UPLMO e presso il

tribunale, consentiva un soddisfacente coordinamento con l’ultimo comma art. 2113 c.c. 31

Inoltre, quando la conciliazione è avvenuta in sede sindacale, il deposito presso l’Ufficio ha lo scopo di

valutare la rappresentatività dell’organizzazione sindacale che ha operato la conciliazione (L.

MONTESANO-R. VACCARELLA, Manuale, cit., 61). Sull’esigenza di accertare l’effettiva funzione di

supporto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa, vd. Cass., 22-05-2008, n. 13217,

MGL, 2009, 77, con nota di BATTISTA; Cass. 03-09-2003, n. 12858; Cass. 11-12-1999, n. 13910.

7

Quanto all’istanza di parte, vigente il precedente testo, la richiesta doveva essere

esplicita qualora il processo verbale fosse stato depositato nella cancelleria del tribunale

a cura dell’ufficio (ai sensi del comma 2 art. 411 c.p.c. vecchio testo), mentre poteva

ritenersi implicita quando il deposito fosse avvenuto a cura di una delle parti (lettura

questa estesa pure alla conciliazione in sede sindacale)32

.

Nel più articolato sistema dell’attuale versione dell’art. 411 comma 3 c.p.c.

occorre nuovamente interrogarsi sul ruolo dell’istanza di parte. La norma contempla un

primo deposito presso la Direzione provinciale del lavoro su istanza di parte ovvero per

il tramite di un’associazione sindacale. Non si richiede invece l’istanza di parte per il

successivo deposito nella cancelleria del tribunale (compiuto dal direttore dell’ufficio o

da un suo delegato dopo la verifica di “autenticità” del verbale). L’iniziativa di parte

torna ad imporsi per il rilascio dell’esecutività, dal momento che il giudice dichiara

esecutivo il verbale con decreto “su istanza della parte interessata” (art. 411 comma 3

c.p.c.).

Deve allora distinguersi l’ipotesi in cui il deposito presso la Direzione

provinciale del lavoro sia avvenuto su istanza di una delle parti, da quello in cui sia

avvenuto tramite l’associazione sindacale. Nel primo caso - una volta che il direttore

dell’Ufficio o un suo delegato abbiano depositato il verbale nella cancelleria del

tribunale - l’istanza di parte per la concessione dell’exequatur potrebbe anche

immaginarsi come implicita, in quanto presentata una tantum al momento del deposito

presso la Direzione provinciale anche ai fini dell’exequatur. Sarebbe necessaria invece

una manifestazione esplicita di volontà a quest’ultimo fine, qualora il deposito presso

l’Ufficio fosse avvenuto a mezzo dell’associazione sindacale.

In alternativa potrebbe invece ritenersi che – seppure la forte rappresentatività

dell’associazione sindacale è in grado di sostituire la sua volontà a quella della parte,

identificandosi in essa – l’interessato debba partecipare in ogni caso al procedimento di

omologa, non tanto attraverso il deposito presso la cancelleria del tribunale, quanto

manifestando una specifica volontà nel conseguimento dell’exequatur; sicché la volontà

dell’interessato nel chiedere l’omologa dovrebbe essere esplicitata e rinnovata sempre e

comunque, sia che il deposito presso la Direzione provinciale sia avvenuto su istanza

della stessa parte, sia che sia avvenuto per il tramite dell’associazione sindacale.

La domanda di omologa può provenire da qualsiasi parte “interessata”: non

rileva il fatto che il deposito presso l’ufficio sia stato effettuato da una parte e che poi la

richiesta di omologa sia provenuta da altra. Né può imporsi una richiesta congiunta di

entrambe le parti33

.

La scelta per una unica forma di deposito e di exequatur induce a ritenerla

operante tanto per la conciliazione in sede amministrativa, quanto per quella sindacale.

Resta infatti ferma la possibilità per la parte di optare tra una conciliazione o un

arbitrato da svolgersi (oltre che in sede amministrativa) “altresì presso le sedi e con le

modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali

maggiormente rappresentative” (art. 412 ter c.p.c. novellato). Ai sensi dell’art. 410

comma 1 c.p.c., inoltre, il tentativo di conciliazione può essere promosso anche “tramite

32

G. TARZIA, Manuale, cit., 49. 33

L. MONTESANO-R. VACCARELLA, op. cit., 57.

8

l’associazione sindacale alla quale [il lavoratore] aderisce o conferisce mandato”34

. In

questo caso, chiarisce l’art. 411 comma 3 c.p.c. che “se il tentativo di conciliazione si è

svolto in sede sindacale ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’art. 410”.

Quanto però agli effetti, sia in caso di raggiunto accordo, sia in caso di esito negativo,

nessuna differenza di rilievo distingue le due ipotesi.

4. Il controllo di regolarità formale reso in sede di omologazione. Analogie e

differenze con l’exequatur del lodo.

Ai sensi dell’art. 411 comma 3 c.p.c. “il giudice, su istanza della parte

interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara

esecutivo con decreto”. Il controllo operato dal tribunale in sede di omologa del verbale

di conciliazione è perciò di mera “regolarità formale” (art. 411 comma 3 c.p.c.), per

molti aspetti simile a quello compiuto in sede di exequatur del lodo rituale ex art. 825

c.p.c.35

L’esame verte sulla sola regolarità formale del documento (sull’estrinseco) e

non si estende alla verifica di regolarità nella formazione del collegio di conciliazione

(ivi compresa la censura circa la legittimità nella nomina dei membri della

commissione), né può giungere alla disapplicazione di un provvedimento

amministrativo (soprattutto in relazione alla formazione del collegio)36

. Il tribunale

esamina invece l’osservanza dei termini di composizione della controversia, nonché

accerta che si tratti di una controversia di lavoro ai sensi dell’art. 409 c.p.c.37

L’equiparazione dell’omologa del verbale di conciliazione ai sensi dell’art. 411

c.p.c. all’exequatur del lodo arbitrale dell’art. 825 c.p.c. ha indotto in passato ad

applicare la disciplina dell’arbitrato a quella conciliativa per tutto quanto quest’ultima

non prevedeva espressamente, non senza sottolinearne le dovute differenze. Quanto a

queste ultime, si è evidenziato il discrimen tra il lodo omologato, equiparabile alla

sentenza (anche con riferimento al suo valore giurisdizionale), rispetto al verbale di

conciliazione, per il quale l’omologa non fa che estendere l’efficacia esecutiva, senza

riflessi su valore e stabilità del titolo. In altre parole, il verbale di conciliazione

34

Una volta tramutato il tentativo da obbligatorio in facoltativo, pare sia venuta meno anche l’esigenza

che la procedura conciliativa di fonte sindacale sia preordinata da fonte collettiva, al fine del suo

esperimento. Nel vecchio regime, mentre, con riferimento al contenzioso di pubblico impiego, pochi

dubbi ruotavano intorno alla necessità che la conciliazione di estrazione sindacale fosse disciplinata nella

fonte collettiva (art. 66 comma 1 d.lgs. n. 165/2001), con riferimento al lavoro privato la disciplina

normativa si mostrava più incerta, anche se dominava la tesi della necessaria preordinazione, alla luce del

regime di obbligatorietà (F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 317 nt. 17; A. NASCOSI, Il tentativo,

cit., 218; D. BORGHESI, in Il lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, Commentario

diretto da F. Carinci, Milano, 1995, II, 1143). 35

In questo senso già G. TARZIA, Manuale, cit., 50; L. MONTESANO-R. VACCARELLA, op. cit., 59. 36

G. TARZIA, Manuale, cit., 50. Secondo G. VERDE, Norme inderogabili, tecniche processuali e

controversie di lavoro, RDPr, 1977, 220 ss., spec. 255 il visto di esecutività dovrebbe essere apposto

anche qualora la conciliazione riguardi diritti indisponibili, salva poi la facoltà di impugnazione di tale

conciliazione; ma su quest’ultimo punto vd. la giurisprudenza, secondo cui una volta raggiunta la

conciliazione, si sottrae al sindacato giurisdizionale l’eventuale violazione di disposizioni inderogabili

(Cass. 10 maggio 1988, n. 3425). 37

L. MONTESANO-R. VACCARELLA, op. cit., 58. Il provvedimento che concede l’esecutività è da ritenersi

di giurisdizione volontaria con funzione amministrativa (Trib. Firenze, 13-11-1996, in ToscG, 1997, 189).

Vd. su quest’ultimo aspetto anche infra § 6, quanto ai possibili rimedi impugnatori.

9

omologato – a differenza del lodo, che contiene pur sempre un “accertamento” – non

era ritenuto idoneo ad acquistare una stabilità equivalente a quella della sentenza (né

idoneo ad avere la medesima “efficacia”, come è invece per il lodo ai sensi dell’art. 824

bis c.p.c.); unico effetto che l’exequatur era idoneo a realizzare stante nella possibilità di

attribuire l’efficacia di “titolo esecutivo” ad un provvedimento che altrimenti ne sarebbe

stato sprovvisto38

(o almeno che ne sarebbe stato provvisto ma per diverse ragioni39

).

Si impone a questo proposito una precisazione.

Seppure sono innegabili i distinguo di sostanza e forma tra verbale di

conciliazione e lodo, nonché (maiori causa) tra verbale di conciliazione e sentenza, la

stabilità di ciascuno di essi è da valutare sul piano dei relativi contenuti. Si può dubitare

che sussistano differenze incolmabili tra lodo, sentenza e verbale di conciliazione (da

assimilare a qualsiasi atto transattivo), trattandosi di tutti strumenti volti al

componimento di una lite e perciò proiettati sull’attitudine a trasformare la fattispecie

astratta in regola concreta ed a resistere allo ius superveniens40

. Il che si riflette sulla

stabilità dei relativi titoli in sede esecutiva, quanto alla denuncia della loro “ingiustizia”.

In ciascuna di queste ipotesi – quale che sia la natura del titolo, giudiziale o

stragiudiziale – la contestabilità in sede esecutiva della relativa ingiustizia è limitata alle

sole sopravvenienze (salva l’ipotesi di inesistenza del titolo). Sicché, la stabilità del

titolo (“stragiudiziale”) avente fonte nell’autonomia privata (in cui sono impedite le

contestazioni derivate dai fatti costitutivi originari su cui si è raggiunto l’accordo) non si

discosta di molto da quella del titolo giudiziale (assoggettato al regime dell’onere

dell’impugnazione), ovvero del lodo (anche esso vincolato ai rimedi impugnatori).

Divergenze tra l’uno e l’altro titolo sono evidenti invece circa la denuncia delle relative

invalidità. Mentre per la sentenza (ma non diversamente per il lodo), in quanto resi in un

sistema caratterizzato dall’efficacia preclusiva dell’art. 161 c.p.c, le relative invalidità

sono denunciabili esclusivamente in sede di impugnazione (il che restringe l’ambito di

opponibilità ex art. 615 c.p.c.), per l’accordo conciliativo omologato operano le regole

di diritto sostanziale relative all’impugnazione dei contratti (annullabilità o nullità), le

cui dinamiche anche sul piano temporale sono assai più dilatate (addirittura

imprescrittibile l’azione di nullità) ed i cui vizi sono denunciabili pure in sede di

opposizione all’esecuzione41

.

Per tornare allora a quanto qui interessa, il parallelo con l’exequatur del lodo ha

un senso non solo in quanto consente di applicare la relativa disciplina, per ciò che non

è espressamente previsto42

, ma anche perchè non molto diversi sono gli effetti in punto

38

G. TARZIA, Manuale, cit., 51. 39

Su quest’ultimo punto, vd. infra § successivo. 40

Approfondite riflessioni sul tema offrono gli scritti di F.P. Luiso. Per tutti vd. F.P. LUISO, Istituzioni di

diritto processuale civile, Torino, 2009, 194; ID, L’art. 824 bis, in www.judicium.it.; ID, La conciliazione

nel quadro della tutela dei diritti, RTDPC, 2004, 1201; ID, Il futuro della conciliazione: la conciliazione

nel diritto societario e nella riforma del codice di procedura civile, in La via della conciliazione, a cura di

S. Giacomelli, Milano, 2003, 225; ID, Diritto processuale civile, IV, Milano, 2009, 363 ss. Sul tema vd.

ampiamente anche F. SANTAGADA, La conciliazione, cit., 355. 41

Vd. sul punto F. SANTAGADA, La conciliazione, cit., 374. 42

La riconduzione del regime dell’omologa del verbale di conciliazione all’exequatur del lodo è utile ai

fini dell’individuazione dei rimedi impugnatori, ma sul punto si tornerà (infra, § successivo).

10

di stabilità del titolo esecutivo relativamente alla denuncia della sua “ingiustizia”;

differenze evidenti permangono invece per il sindacato sulla “invalidità”43

.

5. Necessità-opportunità-inopportunità del procedimento di omologa.

Occorre riflettere sulla reale necessità dell’omologa ai fini del conseguimento di

un titolo esecutivo. Se in passato l’omologa costituiva l’unica via per attribuire al

verbale efficacia di titolo esecutivo, lo stesso non può dirsi oggi che – ai sensi dell’art.

474 comma 2 n. 2 c.p.c. - costituiscono titolo esecutivo anche le scritture private

autenticate, seppure limitatamente al pagamento di somme di denaro. Ai sensi dell’art.

411 comma 3 c.p.c., infatti, una volta depositato il verbale di conciliazione presso la

Direzione provinciale del lavoro, il direttore o un suo delegato provvedono ad

accertarne “l’autenticità”; il che basta per attribuire al documento efficacia di titolo

esecutivo, quale scrittura privata autenticata. In altri termini, il verbale non omologato

(ma depositato presso la Direzione proncinciale) non è sprovvisto di efficacia esecutiva,

in quanto scrittura privata autenticata e perciò ex se titolo esecutivo (quanto alla natura

di scrittura privata, nessun dubbio può nutrirsi intorno al fatto che si tratti di una

manifestazione di autonomia negoziale, seppure ottenuta attraverso l’intervento

facilitativo di un terzo; quanto al potere di autenticazione compiuto dal direttore

dell’ufficio o da un suo delegato, non sembra difficile ricondurre tale potere a quello di

un qualsiasi pubblico ufficiale abilitato all’autenticazione della sottoscrizione).

A ben vedere, allora, il verbale di conciliazione non omologato, ma depositato

presso la Direzione provinciale, una volta sottoposto al controllo di autenticità ad opera

del direttore dell’ufficio è già di per sé un titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 n. 2

c.p.c. Il che induce a riflettere sull’utilità di un procedimento di omologa che alla fine

dei conti si rivela un inutile doppione nella prospettiva di effetti che il verbale è già di

per sé in grado di produrre.

Resta da chiedersi se l’omologa compiuta dal presidente del tribunale ai sensi

dell’art. 411 comma 3 c.p.c. assicuri qualche valore aggiunto. Un quid pluris potrebbe

individuarsi nella maggiore ampiezza delle forme esecutive a cui il titolo può dare

luogo, qualora sia omologato. Si può pensare che, mentre il verbale omologato

costituisce titolo per qualsiasi forma di esecuzione forzata, quello solo depositato presso

la Direzione provinciale ma non ancora omologato possa aprire la strada alla sola

espropriazione forzata. Il che vale non già perché l’omologa del tribunale trasforma un

titolo stragiudiziale (il verbale di conciliazione) in titolo giudiziale (il controllo

giudiziale in sede di exequatur non contiene nessun “accertamento” e non basta perciò

per equiparare il titolo stragiudiziale al titolo giudiziale), ma perché - nulla disponendo

in contrario – ad esso può attribuirsi il valore di “atto” ai sensi dell’art. 474 n. 1 c.p.c.44

idoneo perciò a costituire titolo per qualsiasi forma di esecuzione forzata45

.

43

Sul punto vd. anche infra § 9. 44

Era questa d’altra parte la ratio dell’innovazione normativa apportata con la l. n. 80/2005 all’art. 474

comma 2 n. 1 c.p.c.: introducendo la specificazione per cui sono titoli giudiziali anche gli altri “atti” a cui

la legge attribuisce efficacia esecutiva, si è voluto estendere la categoria ai verbali di conciliazione, tanto

“giudiziale” (S. ZIINO, Commento all’art. 474, in La riforma del processo civile, a cura di F. Cipriani e G.

11

D’altra parte, da tempo si ritiene che il verbale di conciliazione stragiudiziale

omologato nelle controversie di lavoro sia titolo per qualsiasi forma esecutiva, seppure

non si esita a sottolinearne i limiti quanto alla sua capacità di vincere l’inerzia del datore

di lavoro assoggettato ad un obbligo di fare. E’ evidente come il titolo produca

proficuamente i suoi effetti per il pagamento di somme di denaro, mentre, quale che sia

la fonte (omologa del tribunale, scrittura privata autenticata ecc.), difficilmente si possa

ottenere in sede esecutiva l’adempimento ad obblighi di fare (si pensi alla reintegra sul

posto di lavoro). L’esecutività del verbale di conciliazione trova cioè un limite generale

nella coercibilità dell’obbligazione in esso sancita46

, nel senso che quando ha per

oggetto, ad esempio, un ordine di reintegra sul posto di lavoro del lavoratore licenziato

ovvero il mutamento di mansioni o altri comportamenti del datore di lavoro, non è facile

dare ad esso esecuzione, trattandosi di comportamenti non surrogabili47

.

Seppure sino ad oggi non si sono nutriti più di tanti dubbi circa la capacità del

verbale omologato di dare luogo ad una esecuzione in forma specifica, qualche dubbio è

lecito esprimere se si guarda alla parallela esperienza del verbale di conciliazione nella

recente disciplina della mediazione finalizzata alla conciliazione del d.lgs. n. 28/2010.

Ai sensi dell’art. 12 comma 2 d.lgs. n. 28/2010, il verbale di conciliazione – omologato

dal presidente del tribunale nel cui circondario ha sede l’organismo - “costituisce titolo

esecutivo per l’espropriazione forzata, per l’esecuzione in forma specifica e per

l’iscrizione di ipoteca giudiziale”. Si potrebbe pensare che ubi lex voluil dixit, ubi noluit

tacuit. Sicché, non prevedendo nulla di esplicito nel caso che qui interessa, il verbale di

conciliazione omologato nelle controversie di lavoro sia idoneo a costituire titolo

esecutivo per la sola espropriazione forzata48

.

E’ quest’ultima però una soluzione che, non solo contrasta con il dato esplicito

dell’art. 474 n. 1 c.p.c., nonché con la posizione prevalsa in passato nel senso di

estendere l’efficacia di titolo a qualsiasi forma esecutiva (seppure con i limiti in punto di

concreta attuabilità), ma anche impone un limite all’efficacia del verbale probabilmente

inopportuno. Per non dire che – se così fosse – il procedimento di omologa veramente

nulla aggiungerebbe rispetto all’efficacia del verbale prima dell’omologa stessa, ma

dopo il deposito presso la Direzione provinciale, già di per sé idoneo a costituire titolo

per l’espropriazione forzata alla stregua di qualsiasi scrittura privata autenticata49

.

Monteleone, Padova, 2007, 192 ss., spec. 195; R. ORIANI, Titolo esecutivo, opposizioni, sospensione

dell’esecuzione, FI, 2005, IV; 105; S. IZZO, Commento all’art. 474, in Commentario alle riforme del

codice di procedura civile. Il processo esecutivo, a cura di A. Briguglio e B. Capponi, Padova, 2007, 1

ss., spec. 11), quanto “stragiudiziale” (D. DALFINO, Il titolo esecutivo e il precetto, a cura di G. Miccolis e

C. Perago, Torino, 2009, 7 ss., spec. 21; F. SANTAGADA, La conciliazione, cit., 356). Vd. sul tema, B.

CAPPONI, Manuale di diritto dell’esecuzione civile, Torino, 2010, 100. 45

Infra nel testo. 46

G. TARZIA, Manuale, cit., 52. Su questi temi, vd. approfonditamente, B. SASSANI, Dal controllo del

potere all’attuazione del rapporto, Milano, 1997, 203 ss. 47

Così specificamente G. TARZIA, Manuale, cit., 52. 48

A commento dell’art. 12 cit. si è infatti notato che la precisazione legislativa ha il precipuo scopo di

estendere l’efficacia di titolo per qualsiasi forma esecutiva – così assimilando tale titolo alla sentenza – il

che non potrebbe essere qualora non fosse espressamente previsto. 49

Resta da chiedersi perché il legislatore non abbia privilegiato la scelta fatta propria dall’abrogato art. 66

comma 5 d.lgs. 165/2001, per le controversie di pubblico impiego, di riconoscere immediata efficacia di

titolo esecutivo al verbale di conciliazione a prescindere dall’omologa, soprattutto tenuto conto del fatto

che quest’ultima non attribuisce alcuna certezza al titolo.

12

6. L’impugnabilità del decreto di omologa.

Le analogie tra l’omologa del verbale di conciliazione e l’exequatur del lodo50

non devono spingere a ritenere il primo (quando omologato) impugnabile con

l’impugnazione per nullità (non operano gli artt. 827 e 829 c.p.c.)51

, mentre consentono

di ritenere applicabile al procedimento dell’art. 411 c.p.c. la disciplina dell’art. 825

comma 3 c.p.c. quanto alla reclamabilità del provvedimento (positivo o negativo) del

tribunale.

Non è questa tuttavia l’unica opzione possibile, né allo stato possono offrirsi

risposte certe. Basti qui prospettare le diverse opzioni richiamando (anche) quelle

invocate con riferimento all’omologa del verbale di conciliazione dell’art. 12 d.lgs. n.

28/201052

. In caso di rigetto dell’omologa, a fronte di chi ritiene senz’altro applicabile il

reclamo dell’art 825 c.p.c. (alla corte d’appello nel termine di trenta giorni) in piena

equiparazione con l’omologa del lodo53

, altri propongono lo schema dei procedimenti

camerali unilaterali54

, con conseguente reclamabilità del relativo provvedimento ai sensi

dell’art. 739 c.p.c.55

, su iniziativa di colui che abbia chiesto l’omologa56

. In ipotesi di

accoglimento, il destinatario della misura contenuta nel verbale – non essendo parte

della procedura camerale – se ne può dolere proponendo opposizione all’esecuzione

ovvero il reclamo contro i provvedimenti camerali57

.

Quale che sia la soluzione da prediligere, il rimedio impugnatorio avente ad

oggetto direttamente il provvedimento di omologa lascia in ogni caso impregiudicata

50

Su cui vd. supra § 4. 51

G. TARZIA, op. loco cit.; L. MONTESANO-R. VACCARELLA, op loco cit. 52

D’altra parte, il problema della reclamabilità del provvedimento di omologa è anteriore alle recenti

riforme e interessa da sempre qualsiasi procedimento che in materia conciliativa punta ad attribuire

efficacia esecutiva ad un verbale di conciliazione reso in sede stragiudiziale attraverso l’intervento –

seppure limitato ad un controllo di regolarità formale – dell’autorità giudiziaria. Vd. approfonditamente

sul tema, F. SANTAGADA, La conciliazione, cit., 380. 53

D. DALFINO, Dalla conciliazione societaria alla “mediazione finalizzata alla conciliazione delle

controversie civili”¸in www.judicium.it, § 7; E. FABIANI.-M. LEO, Prime riflessioni sulla “mediazione

finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali” di cui a.lgs. n. 28/2010, in

www.judicium.it, § 10.3 54

Nella corrispondente conciliazione societaria, taluno – rimanendo sempre nell’ambito dei procedimenti

camerali - ha ritenuto applicabile la disciplina dei camerali plurilaterali (A. NASCOSI, La conciliazione

stragiudiziale societaria a quattro anni dalla sua introduzione, RTDPC, 2008, 559). 55

In questo senso N. PICARDI, Manuale di diritto processuale civile, Milano, 2010, 672, quale criterio

generale per tutti i provvedimenti di omologa di un verbale di conciliazione. Con riferimento alla

conciliazione del d.lgs. n. 28/2010, M. FABIANI, Profili critici del rapporto tra mediazione e processo, in

www.judicium.it, § 2; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova mediazione nella prospettiva europea: note

a prima lettura, RTDPC, 2010, 665. 56

Dovrebbe poi escludersi l’ammissibilità del ricorso in cassazione ex art. 111 comma 7 cost. avverso il

decreto reso in sede di reclamo, data la mancanza tanto di decisorietà, quanto di definitività (così M.

FABIANI, Profili critici, cit., § 2). 57

M. FABIANI, Profili critici, cit. § 2; E. ZUCCONI GALLI FONSECA, La nuova cit., 665. In senso

sostanzialmente corrispondente M. BOVE, La riforma in materia di conciliazione tra delega e decreto

legislativo, RDPr, 2010, 344 ss., spec. 351, secondo cui, se il presidente del tribunale concede

l’exequatur, il contro-interessato può sempre fare opposizione all’esecuzione, se invece l’exequatur è

negato, colui che lo aveva chiesto probabilmente può fare reclamo.

13

ogni questione relativa alla validità/invalidità dell’accordo (privato) di composizione

della controversia58

.

7. Verbale di conciliazione e validità delle rinunce e transazioni ai sensi

dell’art. 2113 c.c.

Tenuto conto del rinvio generale che l’art. 2113 c.p.c. continua a fare all’art. 411

c.p.c., e tenuto conto del fatto che tale norma opera per il tentativo di conciliazione, nei

rapporti di lavoro, tanto alle dipendenze di privati, quanto di pubbliche amministrazioni

(una volta abrogato l’art. 66 d.lgs n. 165/200159

), anche il tentativo di conciliazione del

novellato art. 411 c.p.c. è sottratto all’invalidità di rinunce e transazioni dello stesso art.

2113 comma 1 c.c.60

Resta fermo il principio diffuso (pacificamente condiviso non solo

dal legislatore ma anche dalla giurisprudenza), secondo cui l’accordo conciliativo

effettuato per l’intervento facilitativo di un terzo investito di pubblica funzione (giudice,

autorità amministrativa, associazione di categoria) è ritenuto idoneo a superare la

presunzione di non libertà del consenso del lavoratore; il che abilita a sottrarre il

negozio transattivo stipulato in sede conciliativa – giudiziale o stragiudiziale – alla

disciplina generale dell’impugnabilità nel termine decadenziale di sei mesi61

.

8. Verbale di mancata conciliazione.

Il comma 2 art. 411 c.p.c. riproduce il vecchio testo dell’art. 412 c.p.c. e si

occupa del verbale di mancata conciliazione. Anche sul punto, la riforma si ispira –

riproducendone a tratti in maniera fedele i contenuti – alla conciliazione stragiudiziale

nei rapporti di pubblico impiego62

.

Se l’accordo non si raggiunge, “la commissione di conciliazione deve formulare

una proposta per la bonaria definizione della controversia. Se la proposta non è

accettata, i termini di essa sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni

espresse dalle parti” (art. 411 comma 2 c.p.c.).

58

Così specificamente, F. SANTAGADA, La conciliazione¸cit., 380. Il che vale quale che sia la disciplina

applicabile al reclamo, sia quella dell’art. 825 c.p.c., sia quella dell’art. 739 c.p.c., in entrambi i casi

identiche essendo le censure sollevabili in sede di reclamo. 59

Art. 31 comma 9 (vd. supra § 1). 60

L’art. 2113 comma 4 c.c. è stato modificato dall’art. 31 comma 7 l. n. 183/2010, ma con interventi di

mero coordinamento rispetto alla nuova disciplina; nessuna innovazione sostanziale contiene la

disposizione. 61

Cass., 19-08-2004, n. 16283, in NGL, 2005, 143; Cass., 18-08-2004, n. 16168; Cass., 26-07-2002, n.

11107, RGL, 2003, II, 419; Cass., 12-12-2002, n. 17785, ivi, 2003, II, 607; Cass. 3 aprile 2002, n. 4730,

RCDL, 2002, 785. 62

Analogamente vd. supra § 1.

14

La disposizione, dopo aver attribuito alla commissione di conciliazione il

dovere63

di formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia, non

contempla l’ipotesi in cui la proposta sia accettata. E’ pacifico tuttavia64

che ove ciò

accada il verbale di conciliazione possa acquistare l’efficacia di titolo esecutivo. Mentre

però nella vigenza dell’abrogato art. 66 d.lgs. n 165/2001 la questione era facilmente

risolvibile nel senso che il verbale di conciliazione acquistasse l’efficacia di titolo

esecutivo al pari di quello avente ad oggetto un accordo raggiunto direttamente tra le

parti65

, la nuova disciplina impone un passaggio ulteriore, dal momento che, affinché il

processo verbale diventi titolo esecutivo, è richiesta l’omologa (art. 411 comma 1

c.p.c.); sicché la sua esecutività non è elemento intrinseco al documento (fermo restando

quanto detto circa l’attitudine del verbale a costituire titolo una volta autenticato dal

direttore della Direzione provinciale66

) ma esterno e dipendente dall’avvenuto deposito.

Anche in caso di conciliazione raggiunta su proposta della commissione opera il

comma 3 art. 411 c.p.c., laddove contempla il deposito del processo verbale

inizialmente presso la Direzione provinciale, e poi presso la cancelleria del tribunale

competente per l’omologazione. E’ quest’ultima infatti una disciplina generale – il che è

confermato dalla sua collocazione sistematica al termine dell’art. 411 c.p.c. – che vale,

sia qualora la conciliazione sia raggiunta sulla base delle richieste e delle indicazioni

formulate dalle parti, sia nel caso in cui l’accordo conciliativo sia raggiunto su

sollecitazione della commissione, attraverso la formulazione di una apposita “proposta”.

In altri termini, e per concludere sul punto, il verbale di conciliazione che rechi un

raggiunto accordo (quale che sia la fonte ed il contributo in proposito della

commissione) deve sempre potersi omologare ai sensi dell’art. 411 comma 3 c.p.c.67

Se la proposta formulata dalla commissione non è accettata, “i termini di essa

sono riassunti nel verbale con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti”. In

misura non molto diversa dal previgente regime, deve ritenersi che l’indicazione nel

verbale negativo delle valutazioni espresse dalle parti circa la proposta conciliativa

formulata dalla commissione non hanno il senso di ammissioni rilevanti nella

successiva fase giurisdizionale, potendo piuttosto valere quali offerte contrattuali e non

dichiarazioni di scienza68

. Esse possono tuttavia incidere sul successivo processo, sia

quanto ai poteri valutativi del giudice, sia quanto alla ripartizione delle spese69

.

9. Gli effetti sul giudizio della mancata conciliazione stragiudiziale.

63

Critico su tale “dovere” R. PESSI, La protezione giurisdizionale, cit., § 7, tenuto conto del fatto che

“manca l’autorevolezza dell’organo che prospetta l’ipotesi conciliativa; e conseguentemente la proposta

non può pesare sul mediatore del conflitto”. 64

Il che valeva anche con riferimento all’abrogato art. 66 comma 6 d.lgs. n. 165/2001. Cfr. LUISO, La

conciliazione giudiziale, cit., 375. 65

Così specificamente F.P. LUISO, op. loco cit. 66

Vd. supra § 5. 67

Valgono anche con riferimento alla proposta formulata dalla commissione e consacrata nell’accordo,

quindi, le considerazioni svolte circa la necessità (o meno) dell’omologa ai fini del conseguimento del

titolo esecutivo (supra § 5). 68

In questo senso, vd. F.P. LUISO, La conciliazione giudiziale, cit., 362; R. TISCINI, Il tentativo, cit., 23;

R. VIANELLO, Controversie, cit., 224. 69

Vd. infra § successivo.

15

Il fallimento del tentativo di conciliazione ha ripercussioni nel successivo

giudizio, in quanto “delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non

accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio” (art. 411

comma 2 c.p.c.). Nella sostanza, la norma ripropone il senso del vecchio art. 66

comma 7 cit., secondo cui “il giudice valuta il comportamento tenuto dalle parti in fase

conciliativa ai fini del regolamento delle spese”, nonché quello dell’originario art. 412

comma 4 c.p.c., secondo cui “delle risultanze del verbale di cui al primo comma il

giudice tiene conto in sede di decisione sulle spese del successivo giudizio”.

Seppure la riforma elimina l’espresso riferimento alla liquidazione delle spese di

lite, è ipotizzabile che sia questo l’effetto tipico del comportamento delle parti durante

la fase conciliativa rispetto al successivo giudizio70

. Riversare sul processo le

conseguenze del comportamento delle parti nella fase stragiudiziale non è certo una

novità71

. In linea generale – soprattutto di recente - tali conseguenze sono state

immaginate sotto il profilo della condanna alle spese, sino al punto di sostituire al

criterio della soccombenza quello di causalità. Qualora infatti le parti abbiano rifiutato

una proposta conciliativa senza adeguata motivazione e poi la sentenza abbia deciso in

conformità a tale proposta, la parte che l’ha rifiutata può essere considerata colei che ha

dato causa al processo; del che il giudice deve tenere conto ai fini della condanna alle

spese72

. Si tratta di una regola che il d.lgs. n. 28/2010 - nel generalizzare il modello

conciliativo stragiudiziale – ha estremizzato. Ai sensi dell’art. 13 d.lgs. cit., infatti

“quando il provvedimento che definisce il giudizio corrisponde interamente al contenuto

della proposta, il giudice esclude la ripetizione delle spese sostenute dalla parte

vincitrice che ha rifiutato la proposta, riferibili al periodo successivo alla formulazione

della stessa, e la condanna al rimborso delle spese sostenute dalla parte soccombente

relative allo stesso periodo, nonché al versamento all’entrata del bilancio dello Stato di

un’ulteriore somma di importo corrispondente al contributo unificato dovuto. Resta

ferma l’applicabilità degli articoli 92 e 96 del codice di procedura civile”. Così descritte,

le conseguenze sul processo del comportamento delle parti nella fase stragiudiziale sono

esageratamente pesanti, rischiando di produrre effetti eccessivi ed indesiderati sulla

distribuzione delle spese di lite. Non molto diverso è il senso – seppure riferibile alla

conciliazione giudiziale – dell’art. 91 comma 1 c.p.c. come modificato dalla l. n.

69/2009, secondo cui se il giudice “accoglie la domanda in misura non superiore

70

Già sotto la vigenza del precedente testo, peraltro, si era notato come imporre l’incidenza delle

posizioni assunte dalle parti in fase conciliativa sul riparto delle spese nel futuro giudizio, rischia di

rivelarsi meccanismo dai modesti risultati se non si incide sul principio della soccombenza dell’art. 91

c.p.c. (R. VACCARELLA, Appunti, cit., 746). Anche da questo punto di vista, tuttavia, il sistema normativo

sembra essere considerevolmente cambiato. 71

Già in commento al vecchio testo dell’art. 412 c.p.c., si era notato come la possibilità per il giudice di

tenere conto del verbale di mancata conciliazione in sede di decisione sul successivo giudizio riproduce il

modello nordamericano in tema di court annexed arbitration, il cui lodo può venire disconosciuto, ma

con conseguenze negative sulle spese, se davanti al giudice non si riesce a migliorare sostanzialmente il

risultato ottenuto davanti all’arbitro (S. CHIARLONI, Prime riflessioni su riforma del pubblico impiego e

processo, CG, 1998, 625 ss., spec. 628). 72

Così con riferimento al vecchio testo dell’art. 412 c.p.c., vd. F.P. LUISO, La conciliazione, cit., 362; ID,

Commento sub. art. 412, in Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo, a cura di M. Dell’Olio e B.

Sassani, cit., 471.

16

all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato

motivo la proposta di pagamento delle spese del processo maturate dopo la

formulazione della proposta”.

E’ evidente la funzione di tali regole di incentivare il raggiungimento

dell’accordo conciliativo, nella prospettiva di deflazionare il contenzioso civile73

. Si

tratta di soluzioni normative comprensibili ed anche parzialmente condivisibili, ma alla

condizione che le conseguenze del mancato accordo in sede conciliativa non siano sul

processo devastanti, come pare invece contemplare l’art. 13 d.lgs. n. 28/2010. Sostituire

il principio di causalità a quello di soccombenza non viola principi fondamentali del

sistema processuale ed anzi ha un senso, ma alla condizione che la diversa ripartizione

delle spese non si risolva in una seria minaccia che, coartando la volontà privata,

imponga di abdicare al diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24 cost.).

Ma vi è di più. La maggiore genericità della formula utilizzata dall’attuale art.

411 comma 3 c.p.c. (rispetto all’anteriore testo dell’art. 412 c.p.c.) – evocativa del

potere del giudice di “tenere conto del comportamento delle parti in sede conciliativa” –

induce a pensare che gli effetti del comportamento delle parti in sede stragiudiziale sul

processo siano ulteriori e diversi dalla sola condanna alle spese. Il giudice può ad

esempio trarre dai verbali di mancata conciliazione degli “argomenti di prova”. Siffatta

lettura è in linea con l’attuale art. 8 d.lgs. n. 28/2010, secondo cui “dalla mancata

partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può

desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell'articolo 116, secondo

comma, c.p.c.”.

In altri termini, il comportamento delle parti in fase conciliativa è destinato a

riflettersi sul processo, sia quanto al regime delle spese di lite, sia quanto alla

formazione del convincimento del giudice per la decisione di merito. Il che, seppure

comprensibile e condivisibile, non va portato ad estreme conseguenze74

. Non può

negarsi alla parte che lo voglia esercitare un “diritto alla sentenza”, dal momento che

basta anche un solo elemento migliorativo che la sentenza è in grado di produrre rispetto

all’atto negoziale per giustificare la volontà di rifiutare la proposta e puntare alla

decisione giurisdizionale. Vi sono in effetti alcune differenze tra il verbale di

conciliazione e il provvedimento giurisdizionale tali da giustificare l’interesse per

quest’ultimo a scapito del primo. Non è questa la sede per entrare nello specifico del

problema; basti tuttavia accennare al fatto che la questione ruota (in primis75

) intorno

alla stabilità dei rispettivi titoli in sede esecutiva, id est alla loro capacità di resistere alle

iniziative oppositorie ex art. 615 c.p.c. L’individuazione sotto questo profilo di almeno

un elemento differenziale tra sentenza ed accordo conciliativo costituisce ragione

necessaria e sufficiente per giustificare l’interesse della parte a chiedere la sentenza

senza arrestarsi all’accordo conciliativo.

73

Sempreché vi siano spazi per il raggiungimento di un accordo in sede conciliativa. 74

Sembra invece esagerare l’esigenza di disincentivare l’accesso al giudizio in favore dell’accordo

conciliativo la disciplina della mediazione finalizzata alla conciliazione del d.lgs. n. 28/2010 (in

particolare, artt. 8 e 13 d.lgs. cit.). Sul punto vd. R. TISCINI, Vantaggi e svantaggi della nuova mediazione

finalizzata alla conciliazione: accordo e sentenza a confronto, in Giust. civ., in corso di pubblicazione. 75

Ma vd. anche infra nel testo quanto all’actio iudicati.

17

Si è già accennato in precedenza76

ad analogie e differenze tra sentenza, lodo ed

atto negoziale (in primis, la transazione, ma non diversamente l’accordo conciliativo77

)

aventi finalità di componimento della lite. Si è già accennato alla corrispondenza di

ciascuno di questi titoli quanto alla “forza di resistenza” in sede esecutiva rispetto ad

opposizioni di merito volte a denunciare l’ingiustizia dell’esecuzione ed alle differenze,

invece, tra gli uni e gli altri, quanto alla denuncia delle relative invalidità. E’ da

quest’ultimo punto di vista che si può apprezzare l’interesse delle parti a rinunciare

all’accordo stragiudiziale per puntare alla sentenza.

In estrema sintesi. La maggiore capacità di resistenza in sede esecutiva di cui

gode la sentenza rispetto all’accordo negoziale con funzione transattiva (tutti titoli

corrispondenti nel contenuto, in quanto volti al componimento della lite), lungi dal

dipendere dalla distinzione tra titoli giudiziali e stragiudiziali, va valutata sul piano del

regime delle relative invalidità. Il che però è quanto basta per giustificare la scelta della

parte (che perciò deve poter esprimere liberamente) in favore di una sentenza,

rinunciando all’accordo conciliativo.

Per non dire poi che tra verbale di conciliazione e titolo giudiziale vi sono

ulteriori divergenze che nuovamente rendono più appetibile il secondo in danno del

primo. A differenza che per il lodo omologato78

o per la sentenza, non opera per il

verbale di accordo omologato la c.d. actio iudicati dell’art. 2953 c.c. (le prescrizioni

brevi sono trasformate in prescrizioni decennali solo a seguito della pronuncia di

sentenza passata in giudicato). Si tratta anche qui di una deminutio in punto di effetti del

verbale di accordo rispetto al titolo esecutivo giudiziale (sentenza in primis), che tuttora

rende più appetibile il secondo (quando idoneo al giudicato79

) rispetto a quello

(stragiudiziale) che al giudicato non conduce (categoria — quest’ultima — alla quale

appartiene senz’altro il verbale di conciliazione omologato).

Tenuto conto della continuità tra fase conciliativa e processo, qualora a

quest’ultimo si giunga a seguito del fallimento della prima, l’art. 411 comma 3 c.p.c.

stabilisce che “ove il tentativo di conciliazione sia stato richiesto dalle parti, al ricorso

depositato ai sensi dell’art. 415 devono essere allegati i verbali e le memorie

concernenti il tentativo di conciliazione non riuscito”. La disposizione ha lo scopo di

fornire al giudice la documentazione necessaria per avere conoscenza di modalità e

termini nello svolgimento della conciliazione, nonché per indurre lo stesso giudice a

76

Vd. supra § 4. 77

Sull’assimilazione tra transazione ed accordo conciliativo, vd. Cass., 13-09-2004, n. 18343, secondo

cui è riconducibile entro la nozione di transazione della lite ogni più ampia accezione di accordo che

abbia l’effetto di estinguere la controversia senza l’intervento del giudice, anche se privo dei requisiti di

sostanza e di forma del contratto disciplinato dagli artt. 1965 c.c., ivi compresa la conciliazione ai sensi

dell’art. 411 c.p.c. 78

Sull’applicazione dell’art. 2953 c.c. al lodo omologato non più impugnabile, cfr. F. AULETTA,

Commento all’art. 824 bis, in La nuova disciplina dell’arbitrato, a cura di S. Meschini, Padova, 2010,

420 ss., spec., 427; F. CARPI, in Arbitrato. Commentario diretto da F. Carpi, Bologna 2007, Sub art. 824-

bis c.p.c., 584 ss., spec. 595; E. D’ALESSANDRO, Commento all’art. 824 bis, in Commentario alle riforme

del processo civile, a cura di A. Briguglio e B. Capponi, Padova, 2007, 972. 79

L’applicazione dell’art. 2953 c.c. ai titoli giudiziali dipende dalla loro attitudine alla formazione del

giudicato. Con la conseguenza che, ove il titolo, seppure giudiziale, non è idoneo al giudicato, esso non

ha la capacità di trasformare le prescrizioni brevi in prescrizioni decennali. Il che accade ad esempio nei

provvedimenti (pur sempre decisori) ma incapaci di stabilizzarsi. Sul tema si rinvia a R. TISCINI, I

provvedimenti decisori senza accertamento, Torino, 2009, 280.

18

decidere – sia quanto alla condanna alle spese, sia quanto alla formazione del proprio

convincimento sulla questione di merito – alla luce del comportamento delle parti in

sede conciliativa.

10. Proposte di soluzione parziale nel verbale di mancata conciliazione.

Dell’art. 412 c.p.c. vecchio testo, il nuovo art. 411 c.p.c. non contiene più la

regola secondo cui nel verbale di mancata conciliazione “le parti possono indicare la

soluzione anche parziale sulla quale concordano, precisando, quando è possibile

l’ammontare del credito che spetta al lavoratore”. La disposizione è inserita nel

successivo art. 412 c.p.c. nel quale si stabilisce che in qualsiasi fase del tentativo di

conciliazione o al suo termine, in caso di mancata riuscita “le parti possono indicare la

soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile il

credito che spetta al lavoratore”; in alternativa a tale possibilità, le parti possono

accordarsi per la risoluzione della lite in via arbitrale affidando il mandato alla stessa

commissione di conciliazione80

.

11. L’esecutività del verbale di accordo conciliativo in ipotesi di intervento

ispettivo avanti alla Direzione provinciale del lavoro.

Dell’esecutività del verbale di accordo conciliativo stragiudiziale la l. n.

183/2010 si occupa anche in altro e più limitato contesto, intervenendo con l’art. 38 l.

cit. sulla cd. conciliazione monocratica dell’art. 11 d.lgs. n. 124/2004 in tema di

“razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di previdenza sociale e di lavoro”

(cd. Legge Biagi).

Nel contemplare una procedura conciliativa stragiudiziale a carattere facoltativo

da svolgersi avanti ad un funzionario – anche con qualifica ispettiva – della Direzione

provinciale del lavoro, l’art. 11 cit. individua due diverse procedure, l’una “preventiva”

e l’altra “contestuale”81

. La prima si svolge “nelle ipotesi di richieste di intervento

ispettivo alla direzione provinciale del lavoro dalle quali emergano elementi per una

soluzione conciliativa della controversia”82

(art. 11 comma 1 cit.); la seconda può avere

80

La creazione di una continuità tra conciliazione ed arbitrato – fenomeno peraltro non nuovo nel sistema

processuale – è da salutare con favore in quanto la volontà delle parti espressa in sede conciliativa

(volontà che opera non solo per giungere ad un accordo, ma anche per scegliere la strada della ADR), è la

stessa che dovrebbe condurre verso l’arbitrato irrituale. Sui pregi e difetti di questo modello di arbitrato,

vd. TISCINI, Nuovi disegni di legge sulle controversie di lavoro tra conciliazione e arbitrato, in MGL,

2010, 372; LICCI, L’arbitrato, … 81

Sulla differenza tra le due forme conciliative, vd. F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 328. 82

Diverse sono le novità della forma conciliativa qui in esame (sul tema vd. Approfonditamente D.

MESSINEO, La nuova conciliazione monocratica nella riorganizzazione dei servizi ispettivi, LG, 2005,

718; F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 319; F. FOGLIA, I servizi ispettivi nel sistema riformato e

deflazione del contenzioso, LG, 2006, 426; ZACCARDELLI, La conciliazione monocratica, RGL, 2005, I,

839). A parte la facoltatività del tentativo (il che derogava, allora, all’obbligatorietà contemplata nella

fase stragiudiziale per tutte le controversie di lavoro ex art. 410 ss. c.p.c.), risalta la monocraticità

dell’organo competente a tentare la conciliazione (il che va in controtendenza rispetto alla collegialità

tipica della figura del conciliatore nelle controversie di lavoro), nonché il fatto che la funzione

19

luogo quando è già in corso l’attività di vigilanza “qualora l’ispettore ritenga che

ricorrano i presupposti per una soluzione conciliativa” (art. 11 comma 6 cit.). In

entrambi i casi, una volta raggiunto, l’accordo è inserito in un verbale sottoscritto dalle

parti al quale non si applicano le disposizioni dell’art. 2113, commi 1, 2 e 3 c.c. (art. 11

comma 3 d.lgs. cit.).

Di tale disciplina si è da subito riconosciuta la lacunosità quanto all’attitudine

del verbale a costituire titolo esecutivo83

; il che ne avrebbe impedito di fatto la pratica

utilizzabilità84

. La lacuna avrebbe potuto colmarsi includendo tale verbale tra i titoli

esecutivi dell’art. 474 n. 2 c.p.c. quale scrittura privata autenticata85

, ma era questa una

soluzione, seppure mossa dal comprensibile sforzo di sopperire al vuoto normativo,

contraddetta dal fatto che nessuna disposizione consentiva di attribuire al funzionario,

chiamato a svolgere il ruolo di conciliatore, il potere di autenticare la firma delle parti.

Non vi era cioè una disposizione – analoga a quella prevista nell’art. 411 c.p.c. vecchio

e nuovo testo - capace di attribuire il potere di certificare l’autenticità della

sottoscrizione né al funzionario, né al Direttore della Direzione provinciale, né ad altro

soggetto da quest’ultimo delegato86

. La riconduzione entro la categoria dell’art. 474 n.

2 c.p.c. era perciò soluzione piuttosto forzata.

Alla lacuna normativa ha posto riparo l’art. 38 l. n. 183/2010, il quale aggiunge

un comma 3 bis all’art. 11 d.lgs. n. 124/2004, secondo cui il verbale (positivo) di

conciliazione (di cui al comma 3 art. 11 cit.) “è dichiarato esecutivo con decreto del

giudice competente, su istanza della parte interessata”.

Pure apprezzando l’intento di aver colmato il vuoto normativo in un contesto

processuale che tuttora attribuisce carattere tassativo al catalogo dei titolo esecutivi (ivi

compresi quelli aventi finalità di composizione della lite), qualche riserva può nutrirsi

intorno alla scelta di ricostruirne i presupposti per le vie dell’omologazione. Non

diversamente da come avrebbe potuto essere per l’art. 411 c.p.c. (ma che non è stato,

dato che anche in quel caso la riforma ha imposto l’omologa87

), analogo risultato

avrebbe potuto conseguirsi attraverso altra strada, attribuendo direttamente efficacia di

titolo esecutivo al verbale di conciliazione88

, senza necessità di passare per l’omologa.

Peraltro, nell’imporre l’omologazione ad opera del “giudice competente”, il

nuovo comma 3 bis art. 11 cit. si mostra fin troppo generico. La corrispondente

disciplina della conciliazione stragiudiziale nelle controversie di lavoro trova una

puntuale descrizione nell’art. 411 comma 3 c.p.c. novellato che individua quale giudice

competente quello nella cui circoscrizione il verbale è stato redatto. Non ugualmente nel

conciliativa viene affidata a funzionari con qualifica ispettiva, il che “realizza una sostanziale

trasformazione della figura dell’ispettore che non è più (solo) investito di compiti repressivi, ma,

nell’ottica della prevenzione e dell’efficienza, viene investito anche di una anomala funzione di

prevenzione e composizione della controversia” (F. CUOMO ULLOA, op. cit., 319). 83

Per queste osservazioni, vd. F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 320 nt., 26. 84

Non potendo il lavoratore recuperare coattivamente le somme concordate, nessuno mai sarebbe stato

incentivato a promuovere la conciliazione – peraltro facoltativa – in quanto esposto al rischio del mancato

adempimento spontaneo. 85

F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 320 nt., 26. 86

Così invece nell’art. 411 c.p.c. vecchio e nuovo testo, per il quale vd. supra §§ precedenti. 87

Vd. supra § 5. 88

Come d’altra parte era ai sensi dell’art. 66 d.lgs. n. 165/2001 per le controversie di pubblico impiego,

disposizione oggi abrogata (vd. supra §§ 3 ss.).

20

nuovo art. 11 comma 3 bis, cit. il quale evoca solo il “giudice competente” senza

ulteriori criteri per la sua individuazione. Né vi sono indici rivelatori della natura del

sindacato giudiziale (formale o sostanziale, intrinseco o estrinseco) da compiere in sede

di exequatur. Applicando analogicamente l’art. 411 c.p.c. (se di analogia,

nell’applicazione di norma processuale si può parlare) le lacune sembrano potersi

colmare nel senso che giudice competente è il tribunale nella cui circoscrizione il

verbale è stato redatto, il quale è chiamato a svolgere un controllo di mera “regolarità

formale”89

.

Anche qui si impone l’istanza di parte e la decisione sull’omologa nelle forme

del “decreto”.

Nessuna modifica è invece apportata ad una ulteriore via conciliativa

contemplata per l’ipotesi di “diffida accertativa per crediti patrimoniali” del successivo

art. 12 d.lgs. n. 124/2004. In quest’ultimo caso “qualora nell’ambito dell’attività di

vigilanza emergano inosservanze alla disciplina contrattuale da cui scaturiscono crediti

patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro, il personale ispettivo delle Direzioni del

lavoro diffida il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli

accertamenti” (art. 12 comma 1 cit.). Entro trenta giorni dalla notifica della diffida

accertativa, il datore di lavoro può promuovere tentativo di conciliazione presso la

Direzione provinciale del lavoro. Ove si raggiunga l’accordo (con verbale sottoscritto

dalle parti), il provvedimento di diffida perde efficacia ed al verbale stesso non si

applica l’art. 2113, commi 1, 2 e 3 c.c. Qualora invece il datore di lavoro non promuova

il tentativo, ovvero non si raggiunga l’accordo (attestato da apposito verbale) il

provvedimento di diffida acquista, con provvedimento del direttore della Direzione

provinciale del lavoro, valore di accertamento tecnico, ed ha efficacia di titolo esecutivo

(art. 12 commi 2 e 3 d.lgs. cit.).

Di nuovo, non è prevista espressamente l’efficacia di titolo esecutivo del verbale

di conciliazione, contemplata per il solo provvedimento di diffida, nell’ipotesi in cui il

tentativo di conciliazione non sia presentato ovvero fallisca. Non è cioè stabilito che

acquisti efficacia di titolo il verbale (positivo) conciliazione, bensì il solo

provvedimento di diffida, qualora la conciliazione non riesca (o non sia esperita)90

. Né

può pensarsi che tale verbale non possa contenere mai disposizioni idonee a costituire

titolo esecutivo (aventi ad oggetto pagamento di somme di denaro); è piuttosto

probabile che il raggiungimento dell’accordo (dotato di finalità transattive e perciò

proiettato verso le “reciproche concessioni”), seppure contenente l’obbligo di

pagamento di somme inferiori rispetto a quelle indicate nel provvedimento ispettivo,

abbia pur sempre un contenuto condannatorio.

Si può allora invocare anche a questo proposito l’art. 11 comma 3 bis cit.

innovativamente introdotto dall’art. 38 l. n. 183/2010, e perciò ritenere che il verbale di

conciliazione redatto a seguito di diffida compiuta dal personale ispettivo nei confronti

89

Sui limiti al sindacato sulla “regolarità formale” si rinvia al commento supra § 4. 90

Vigente la precedente disciplina, F. CUOMO ULLOA, La conciliazione, cit., 320 nt., 26 notava che in

caso di diffida accertativa la legge espressamente riconosce efficacia di titolo esecutivo, ma ometteva di

considerare che tale efficacia era (ed è) attribuita al solo provvedimento di diffida, non anche al verbale di

conciliazione. Sicché, dal punto di vista dell’efficacia di tale verbale, tra la disciplina dell’art. 11 e quella

dell’art. 12 tanta differenza non vi era.

21

del datore di lavoro acquisti efficacia di titolo esecutivo attraverso l’omologazione

presso il tribunale competente (quello nella cui circoscrizione il verbale è stato redatto,

il quale compie un controllo di mera regolarità formale).