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1 NUOVI ELEMENTI DI CAPACITÀ CONTRIBUTIVA E RICCHEZZE NASCOSTE: INTRODUZIONE * di Alessandro Giovannini Ordinario di diritto tributario nellUniversità di Siena Presidente dellAssociazione Italiana dei Professori di Diritto Tributario Sommario: 1. Introduzione. - I - 2. Dove e come viviamo: ricchezza e povertà. - 3. Prodotto interno lordo e pressione fiscale. - 4. Le spese e le entrate della "famiglia" Italia. - 5. L'osteoporosi e le metastasi del sistema. L'evasione e la c.d. economia non osservata. - 6. Il controllo e la riscossione: la credibilità dello Stato. - 7. Il contrasto allevasione e alla mancata riscossione: i punti essenziali. - II - 8. Ripensare la capacità contributiva guardando ad Einstein. - 9. I nodi concettuali da affrontare. - 10. - Il "rapporto di utilità economica «positiva» e «negativa»". - 11. Segue: l'utilità «negativa» e la «compartecipazione di responsabilità sociale». - 12. Capacità contributiva e personalità dell'imposizione nei nuovi schemi dell'economia. - 13. La goccia d'acqua che erode la roccia: il tributo e il saldo attivo patrimoniale. - 14. Capacità contributiva e territorio ai tempi di internet. Lo Stato "solido". 1. Introduzione. - L'Associazione italiana dei professori di diritto tributario, nel 2014 mise in cantiere un progetto molto ambizioso: la costituzione di tavoli di ricerca per analizzare la situazione del fisco italiano e proporre, in maniera organica e sistematicamente coerente, un progetto complessivo di riforma normativa. Quel cantiere prese avvio a novembre dello scorso anno in occasione delle celebrazioni del centenario dalla nascita di Bruno Visentini. Vennero istituiti 10 tavoli ed individuate varie tappe di discussione collegiale. La prima: il convegno associativo 2015, nel quale discutere i risultati delle ricerche dei primi cinque tavoli. Di quello sulla struttura del sistema, del tavolo sull'economia "non osservata" e sui rapporti internazionali, di quello sulla tassazione dei capitali, del tavolo sulla tassazione ambientale e di quello sull'economica digitale. La seconda: il convegno associativo del 2106, nel quale dibattere gli esiti delle ricerche degli ulteriori cinque tavoli. Di quello sui redditi delle attività economiche, di quello sui redditi di lavoro, del tavolo su famiglia, sociale e terzo settore, di quello sull'IVA ed infine del tavolo sulla finanza locale. La terza: il convegno annuale del 2017, nel quale affrontare le problematiche su agevolazioni, accertamento, riscossione, sanzioni, processo e semplificazioni. Di fronte ad un sistema pieno di buchi come un gruviera, il nostro desiderio era, ed è ancor oggi, di dare voce ad esigenze diffuse e ad un malessere percepito come non più sopportabile dai molti attori del diritto tributario. E di indirizzare queste pulsioni verso proposte ragionate di cambiamento. Insomma, evitare un atteggiamento attendista, d'inerzia, come fossimo i personaggi dell'opera di Beckett Aspettando Godot. E assumere un atteggiamento propositivo: dare a Godot elementi utili per scelte sistematicamente orientate, certi anche del fatto che Godot, prima o poi, si Introduzione al IV Convegno annuale dellAssociazione Italiana dei Professori di Diritto Tributario, Napoli, 14 e 15 ottobre 2015.

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NUOVI ELEMENTI DI CAPACITÀ  CONTRIBUTIVA E RICCHEZZE NASCOSTE: INTRODUZIONE*  di  

Alessandro Giovannini  Ordinario di diritto tributario nell’Università  di Siena  

Presidente dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Tributario  

Sommario: 1. Introduzione. - I - 2. Dove e come viviamo: ricchezza e povertà. - 3. Prodotto interno lordo e pressione fiscale. - 4. Le spese e le entrate della "famiglia" Italia. - 5. L'osteoporosi e le metastasi del sistema. L'evasione e la c.d. economia non osservata. - 6. Il controllo e la riscossione: la credibilità  dello Stato. - 7. Il contrasto all’evasione e alla mancata riscossione: i punti essenziali. - II - 8. Ripensare la capacità  contributiva guardando ad Einstein. - 9. I nodi concettuali da affrontare. - 10. - Il "rapporto di utilità  economica «positiva»   e «negativa»". - 11. Segue: l'utilità   «negativa» e la «compartecipazione di responsabilità   sociale». - 12. Capacità   contributiva e personalità   dell'imposizione nei nuovi schemi dell'economia. - 13. La goccia d'acqua che erode la roccia: il tributo e il saldo attivo patrimoniale. - 14. Capacità  contributiva e territorio ai tempi di internet. Lo Stato "solido". 1. Introduzione. - L'Associazione italiana dei professori di diritto tributario, nel 2014 mise in cantiere un progetto molto ambizioso: la costituzione di tavoli di ricerca per analizzare la situazione del fisco italiano e proporre, in maniera organica e sistematicamente coerente, un progetto complessivo di riforma normativa. Quel cantiere prese avvio a novembre dello scorso anno in occasione delle celebrazioni del centenario dalla nascita di Bruno Visentini. Vennero istituiti 10 tavoli ed individuate varie tappe di discussione collegiale. La prima: il convegno associativo 2015, nel quale discutere i risultati delle ricerche dei primi cinque tavoli. Di quello sulla struttura del sistema, del tavolo sull'economia "non osservata" e sui rapporti internazionali, di quello sulla tassazione dei capitali, del tavolo sulla tassazione ambientale e di quello sull'economica digitale. La seconda: il convegno associativo del 2106, nel quale dibattere gli esiti delle ricerche degli ulteriori cinque tavoli. Di quello sui redditi delle attività  economiche, di quello sui redditi di lavoro, del tavolo su famiglia, sociale e terzo settore, di quello sull'IVA ed infine del tavolo sulla finanza locale. La terza: il convegno annuale del 2017, nel quale affrontare le problematiche su agevolazioni, accertamento, riscossione, sanzioni, processo e semplificazioni. Di fronte ad un sistema pieno di buchi come un gruviera, il nostro desiderio era, ed è  ancor oggi, di dare voce ad esigenze diffuse e ad un malessere percepito come non più  sopportabile dai molti attori del diritto tributario. E di indirizzare queste pulsioni verso proposte ragionate di cambiamento. Insomma, evitare un atteggiamento attendista, d'inerzia, come fossimo i personaggi dell'opera di Beckett Aspettando Godot. E assumere un atteggiamento propositivo: dare a Godot elementi utili per scelte sistematicamente orientate, certi anche del fatto che Godot, prima o poi, si

                                                                                                               ∗ Introduzione al IV Convegno annuale dell’Associazione Italiana dei Professori di Diritto Tributario, Napoli, 14 e 15 ottobre 2015.  

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dovrà  muovere, non foss'altro perché  a ciò  costretto dall'irreversibile sgretolamento di un sistema vecchio e malandato. In questi due giorni presentiamo i risultati delle prime ricerche, dopo che su di essi si è  aperto un iniziale confronto in occasione del convegno torinese di midterm dello scorso giugno. In particolare, ci soffermeremo su capacità  contributiva e progressività. E poi su argomenti specifici: la tassazione dei capitali, la tassazione ambientale e i redditi dell'economia digitale. Per gettare le basi di un nuovo ordinamento, però   e come già   detto, è   indispensabile conoscere la situazione attuale. Misurare la temperatura al paziente è  indispensabile se si vogliono capire le disfunzioni e proporre cure efficaci o almeno razionali. Di qui la scelta di dedicare ampio spazio all'esame delle patologie che infettano il sistema, che attentano alle fondamenta e alla credibilità   dello stato di diritto, ormai vere metastasi della coscienza individuale e collettiva, della convivenza sociale, dell'economia legale, del fisco. L'economia così  detta non osservata ha ormai raggiunto, nelle stime, livelli sconcertanti e sconfortanti: 500 miliardi di euro nel 2014, su 1620 miliardi di PIL ufficiale, ossia il suo 30 per cento: 250-280 miliardi corrispondono ad imponibile da attività   legale non dichiarato, 160-170 miliardi coincidono con il frutto economico delle attività  criminali, delle mafie in primo luogo. A queste cifre si deve aggiungere l'ammontare della corruzione: circa 65 miliardi l'anno (dati del Dipartimento delle finanze, della Corte dei Conti e dell'Agenzia delle entrate). Sono fenomeni diversi, che non possono essere mischiati tra di loro, e davanti ai quali la reazione dello stato deve anzitutto imboccare la strada penale o comunque quella sanzionatoria, e senz'altro la strada della confisca diretta o per equivalente. Al di là  dei tecnicismi, di fronte a queste forme di criminalità, però, non si può  negare che il fisco ne esca sempre come persona offesa. Vittima unica nelle ipotesi di evasione ed elusione; vittima congiunta, nelle ipotesi di economia criminale. Ma pur sempre vittima. Si è  così  pensato di chiamare a raccolta, qui, a Napoli, oltre ad illustri studiosi e colleghi che hanno ricoperto importanti incarichi di governo, anche rappresentanti delle istituzioni nazionali ed europee: il Presidente dell'Autorità  Nazionale Anticorruzione, il direttore generale del Dipartimento delle finanze del Ministero dell'economia, il comandante generale dalla Guardia di finanza, il presidente della V sezione tributaria della Suprema Corte di Cassazione, per giungere al Direttore della Sezione giustizia degli Affari legali della Commissione europea e al Capo del progetto BEPS dell’Organisation for Economic Cooperation and Development (OECD). Ecco perché   il convegno s'intitola: "Nuovi elementi di capacità   contributiva e ricchezze nascoste"; ed ecco perché   gli argomenti di cui parleremo hanno la sequenza che il programma illustra. Come "vigile urbano" del progetto, mi limito ad esporre alcune riflessioni sui temi accennati, nella speranza di contribuire ad illustrare problemi ancora aperti e di sollecitare il dibattito su aspetti essenziali per l'evoluzione dell'ordinamento.

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2. Dove e come viviamo: ricchezza e povertà . - Il sistema fiscale è rimasto sostanzialmente fermo ai modelli dell'economia della produzione e dell'economia agraria di un secolo fa. La staticità dei modelli impositivi, oggi, è un male, perché contribuisce ad accentuare le iniquità, quando, invece, è proprio l'equità il collante del moderno pactum societatis, fondato sul

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neocontrattualismo (John Rawls, Liberalismo politico, 2012, riedizione, e Id., Una teoria della giustizia, 1971). Dove sbattere la testa, allora? Come orientarsi, dove cercare vie d'uscita e risposte soddisfacenti? Da giuristi, la risposta è facile da trovare: nella Costituzione. La Costituzione non è una filastrocca di norme unite da una sequenza numerica di articoli. Essa - lo dico senza retorica e con convinzione profonda - è il lenzuolo sindonico dei valori fondanti lo Stato e ancor prima la comunità. Comunità che in tanto si può considerare tale in quanto si riconosca in una tavola valoriale condivisa (Costantino Mortati, Costituzione dello Stato, 1962). Seppure da leggere con nuovi occhiali o almeno con nuove lenti, graduate ai tempi. Prima di ricercare le radici, però, soffermiamoci su alcuni numeri, i quali, lo sappiamo, hanno la testa dura e sono notoriamente antipatici. Per questi motivi, mi limito all’essenziale e li arrotondo. Ma leviamoci subito il dente, risulterà utile per cogliere meglio il senso dell'intero discorso. Se non abbiamo chiaro dove e come viviamo, le parole rischiano di scivolare come acqua sul marmo.   Ebbene, fingiamo di scattare una panoramica, come da un satellite, per cogliere i profili generalissimi del paese. Rimanderebbe, più o meno, questa immagine e consentirebbe di rispondere a queste domande. Dove viviamo? In un paese mediamente ricco. Come viviamo, sempre in termini economici? Abbastanza bene, per ora, almeno se si osserva l'entità della spesa pubblica destinata a specifici comparti sociali (previdenziale e sanitario, specialmente), l'ammontare della ricchezza prodotta dall'economia c.d osservata e da quella c.d. non osservata, l'ammontare dei consumi, la propensione al risparmio, la speranza di vita alla nascita. Va tutto bene, quindi? No. Se dalla panoramica si passa allo zoom, le cose appaiono molto più complesse, con coni d'ombra estesi. Il settore pubblico vive al di sopra delle sue normali possibilità, spende troppo, cioè, e spende male, perché la spesa è quasi interamente improduttiva; la spesa statale corrente è in costante crescita; il debito pubblico ha una curva ascendente da molti anni; i divari sociali si acuiscono, al pari delle iniquità distributive dei carichi impositivi; il numero delle famiglie in povertà assoluta e in quella relativa stenta a diminuire; la pressione fiscale legale, per alcune categorie di contribuenti, è troppo elevata, mentre il sistema "permette" a fiumi traboccanti di ricchezza di scorrere tranquillamente, immune da ogni prelievo. Accanto a spicchi di luce, dunque, vi sono zone buie. Muovo da uno dei fondamentali, da una luce importante. Alla fine del 2013, la ricchezza privata netta delle famiglie italiane, cioe la somma di attivita reali (abitazioni, terreni, ecc.) e di attivita finanziarie (depositi, titoli, azioni, ecc.), al netto delle passivita finanziarie (mutui, prestiti, ecc.), era di 8.700 miliardi di euro. Le attivita reali rappresentavano il 60 per cento della ricchezza. La ricchezza netta complessiva, valutata a prezzi correnti, e diminuita di 123 miliardi di euro (-1,4 per cento) tra la fine del 2012 e la fine del 20131. Nonostante questa diminuzione, si può dire che una parte consistente della popolazione continua a stare bene, seppure relativamente peggio rispetto ad una decina di anni fa.

                                                                                                               1 Dati tutti ripresi da Banca d'Italia, Supplemento al bollettino statistico, dicembre 2014.

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L’Italia ha lo 0,85 per cento della popolazione mondiale, ma, ciò nonostante, detiene il 3 per cento del reddito totale e quasi il 3,5 per cento della ricchezza del pianeta. È una torta cresciuta sensibilmente nel corso dei primi anni duemila, con un picco nel 2007. Dopo, la discesa per la crisi finanziaria. La distribuzione della torta, però, è squilibrata. I patrimoni risultano molto più concentrati dei redditi, così come le attività finanziarie rispetto a quelle reali. Il 10 per cento delle famiglie italiane (circa 3 milioni) possiede il 47 per cento della ricchezza complessiva e il 27 per cento del reddito totale. Il 50 per cento delle famiglie, invece, detiene meno del 10 per cento della ricchezza totale. Guardiamo la faccia opposta della ricchezza, quella buia: la povertà. Per l'ISTAT2, le persone in povertà relativa3 sono il 13 per cento della popolazione (8 milioni) corrispondenti al 10,3 per cento delle famiglie; quelle in povertà assoluta4 il 7 per cento (circa 4 milioni), corrispondenti al 5,7 per cento delle famiglie (Enrica Morlicchio, Sociologia della povertà, 2012). Secondo l'Istituto nazionale di statistica, rimane allarmante la povertà in Calabria, Basilicata e Sicilia. Nelle tre regioni del Mezzogiorno, oltre una famiglia su quattro vive in condizioni di indigenza. In Calabria l'incidenza della povertà relativa è del 26,9 per cento, in Basilicata del 25,5 e in Sicilia del 25,2. Per il concorrere, in queste regioni, di economie sommerse e criminali molto diffuse e capillari, è possibile che questi dati riproducano il divario tra redditi dichiarati e ricchezza effettiva non dichiarata. E può darsi, quindi, che la povertà sostanziale, reale, sia minore di quella formale. In ogni caso, questo tema non può essere considerato acqua fresca. Da qualunque punto di vista si analizzi, esso denuncia una situazione non più sostenibile per queste regioni e per l'intero paese. Al di là della situazioni emergenziali, per le quali sono indispensabili - in queste, come in tutte le altre zone - interventi sussidiari, per il resto si pone un'alternativa secca: o si riduce la distanza tra forma e sostanza, e lo stato si riappropria del territorio, della coscienza collettiva ed individuale, del tessuto economico, del lavoro ed anche del fisco; oppure si dà per acquisito che una parte dell'economia sta fuori, vive al di sopra e indipendentemente dallo stato. Non appartiene alla comunità organizzata, non appartiene al suo circuito. È lampante come questa situazione sia inconciliabile con uno stato di diritto, che ambisce a rimanere al tavolo delle società economicamente avanzate. 3. Prodotto interno lordo e pressione fiscale. - Accanto alla ricchezza e alla povertà, l'altro fondamentale è il PIL. Luci ed ombre si accavallano.

Lo stato viene spesso paragonato ad una famiglia (e anche ad un'azienda). Non lo è, ma qui fa comodo, per semplicità, guardarlo in questa veste.                                                                                                                2 ISTAT, Rapporto sulla ricchezza, 2014. 3 La povertà relativa è un parametro che esprime la difficoltà economiche nella fruizione di beni e servizi in rapporto al livello economico medio di vita calcolato sulla spesa media per consumi in singole zone geografiche (circa 1000 euro mensili). 4 La soglia di povertà assoluta rappresenta il valore monetario, a prezzi correnti, del paniere di beni e servizi considerati essenziali per ciascuna famiglia, definita in base all’età dei componenti, alla ripartizione geografica e alla tipologia del comune di residenza (circa 800 euro mensili).

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Il PIL non esprime la felicità di un paese, ma rappresenta unicamente la ricchezza prodotta dalla famiglia Italia e più precisamente il valore monetario totale dei beni e servizi da essa prodotti e destinati al consumo finale, agli investimenti privati e pubblici, alle esportazioni nette (esportazioni totali meno importazioni totali). Non viene conteggiata nella determinazione del PIL la produzione destinata ai c.d. consumi intermedi di beni e servizi consumati e trasformati nel processo produttivo per ottenere nuovi beni e servizi.

Per il Dipartimento del tesoro, il PIL, nel 2014, è stato di 1.620 miliardi. L'economia non osservata è stata di 500 miliardi: redditi legali non dichiarati (circa 250 miliardi) e frutti economici della criminalità organizzata, delle mafie in particolare (altri 250 miliardi)5.

Sul PIL vengono calcolati molti indicatori. Tra questi la pressione fiscale, ossia la percentuale o quota di ricchezza acquisita dallo stato e dagli altri enti territoriali6 con le imposte sui redditi e le altre imposte dirette, l'IVA e le alte imposte indirette, le addizionali, l'IRAP, i tributi locali e i contributi previdenziali obbligatori (assimilati, a questo fine, alle imposte).

Per il dipartimento delle finanze, nel 2014, la pressione fiscale apparente, quella calcolata sul PIL "gonfiato", comprensivo, cioè, dell'economia sommersa e di una porzione di quella criminale (traffico di droga, contrabbando e prostituzione, la quale, però, di per sé è attività lecita, mentre ciò che è illecito è lo sfruttamento), è stata del 43,1 per cento.

La nostra pressione è qualche punto in più rispetto alla Germania, Spagna, Grecia, Irlanda e Regno Unito, e qualche punto in meno rispetto alla Francia, Danimarca, Svezia e Finlandia.

Più complesso ed incerto è stabilire la pressione fiscale legale, quella che si determina non inserendo nel PIL l’economia illegale e sommersa. Qui i dati sono molto ballerini: variano dal 49,9 per cento al 53,2 per cento7.

Prendendo il Paying Taxes 2014 della Banca Mondiale, che sembra meglio fotografare la situazione, la percentuale, per alcune categorie, sale di molto. Il carico fiscale sulle imprese è del 65,8 per cento dei profitti, contro una media U.E. del 41,1 per cento e una media mondiale del 43,1.

La pressione viene misurata sulla base di tre indicatori: il total tax rate (carico fiscale complessivo), il tempo necessario per gli adempimenti burocratici e il numero di versamenti. In relazione al primo indicatore l'Italia occupa la 172esima posizione e segna, appunto, il record negativo del vecchio continente. Quanto al tempo, i calcoli parlano di 269 ore annue dedicate agli adempimenti fiscali contro una media europea di 179. Sul terzo indicatore, l'Italia è nella media, con 15 versamenti annuali.

Per quanto riguarda l'Europa, il nostro paese precede la Francia (64,7 per cento dei profitti) e la Spagna (58,6 per cento). A vincere la sfida del fisco "leggero" sono Croazia, (19,8 per cento), Lussemburgo (20,7 per cento) e Cipro (22,5 per cento).

4. Le spese e le entrate della "famiglia" Italia. - Quanto ha speso la "famiglia" Italia nel 2014? 826 miliardi di euro (il 50 per cento del PIL). Una cifra gigantesca. Anche qui, luci ed ombre si accavallano. Guardiamo come sono stati impiegati quei soldi. La maggior parte nella spesa pensionistica, per 270 miliardi (con oltre 16 milioni di pensionati, la spesa più alta, secondo l'OCSE, dei 30 paesi                                                                                                                5 Questi dati saranno ripresi nel capitolo sulle metastasi del sistema. 6 Regioni, province, comuni e città metropolitane. 7 Mi riferisco ai dati forniti da Corte dei Conti, CGIA Mestre, Confindustria, Confcommercio.

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maggiormente industrializzati al mondo); 130 nei consumi intermedi, in beni e servizi utilizzati per far funzionare l’enorme macchina delle amministrazioni centrali e locali; nella sanità, all'incirca 110 miliardi; 75 miliardi sono andati a finanziare gli interessi sul debito pubblico; nell'istruzione sono finiti 40 miliardi; nella difesa 30 miliardi; negli interventi in campo sociale 25 miliardi; nei trasporti, 16; nella sicurezza pubblica, 10; nella giustizia, 7; nella cultura, 6; nella ricerca e sviluppo, 4, così come nell'ambiente (0,25 per cento del PIL), e poi, via via, un pulviscolo di spese minori.

Le cinque principali macro-voci della spesa pubblica, classificate con altri criteri, quindi, sono: le prestazioni sociali in denaro (330 miliardi, di cui quasi il 90 per cento per pensioni); i redditi da lavoro dei dipendenti pubblici e gli oneri accessori (160 miliardi, con oltre 3 milioni e trecento mila dipendenti); i consumi intermedi e gli acquisti, compresi quelli in conto capitale, e le prestazioni sociali acquistate sul mercato (170 miliardi); la spesa regionale, circa 140 miliardi (di cui 110 per la sanità, il 79 per cento); la spesa degli altri enti periferici, 90 miliardi.

Il 96,5 per cento della spesa complessiva è corrente, viene utilizzata per pagare stipendi, pensioni, elettricità, affitti, consumi intermedi, e solo il 3,5 per cento (una cinquantina di miliardi) è impiegata in costruzioni di ponti, strade, ospedali, opere di risanamento del territorio, dei corsi d'acqua, scuole o manutenzioni straordinarie. Briciole, quindi.

La nostra famiglia, per spendere così tanto, deve avere entrate di pari importo. Già, ma da dove vengono questi soldi?

Circa 780 miliardi sono entrate proprie8. Per entrate proprie si intendono tributi, per 480 miliardi, contributi previdenziali e assistenziali, per 215 miliardi, altri introiti provenienti da beni o servizi pubblici, entrate in conto capitale e altre entrate, per 32 miliardi. La parte rimanente sono soldi presi in prestito: circa 50 miliardi.

Guardiamo più da vicino le entrate tributarie (480 miliardi). Nel 2014 il gettito delle imposte indirette hanno superato quello delle dirette, il che significa un innalzamento tendenziale della regressività del sistema. In particolare, il totale delle indirette è di 247 miliardi, di cui 110 di IVA.

Quello delle imposte dirette è di 238 miliardi. La principale è l'imposta sul reddito delle persone fisiche: 164 miliardi, dei quali 130 provenienti dai redditi di lavoro dipendente pubblico e privato e da pensioni9; poi l'imposta sui redditi delle società (IRES), con 30 miliardi10.

L’imposta regionale sulle attività produttive ha un gettito di 31 miliardi, destinati quasi interamente a finanziare la sanità11. Gettito costretto a calare di molto dal 2015, dato che la base imponibile è stata largamente erosa da una recente legge.

Si è detto che le entrate proprie non sono sufficienti a coprire le spese. Siamo arrivati ad una altra faccia buia: il debito totale, accumulato di anno in anno, è di 2.136 miliardi, ossia il 132,1 per cento del prodotto interno lordo12, con una crescita esponenziale negli ultimi quindici anni. Siamo il secondo paese in Europa, dopo la Grecia, e il terzo tra i paesi più sviluppati del mondo, dopo Giappone e Grecia (Leonida Tedoldi, Il conto degli errori, 2015).

                                                                                                               8 Dati, sempre, riferiti al 2014. 9 L'80 per cento dell'IRPEF e il 28 di tutte le entrate tributarie. 10 Il 6 per cento delle entrate tributarie. 11 L'Irap finanzia poco meno del 30 per cento della spesa sanitaria complessiva. 12 Al 31 dicembre 2014.

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Nella nostra famiglia, quindi, si spende (e si è speso) di più, molto di più di quanto si riesce a "guadagnare" senza ricorrere all'indebitamento.

Il bilancio italiano prevede annualmente, lo ricordo di nuovo, circa 75 miliardi di interessi sul debito sovrano. L’incidenza della spesa per interessi sul PIL è superiore di 2,58 punti percentuali alla media dell’area euro, ossia 40 miliardi ogni anno13.

5. L'osteoporosi e le metastasi del sistema. L'evasione e la c.d. economia non osservata. - Tra le cose che non vanno ci sono i fiumi di ricchezza che - legalmente o illegalmente - scorrono lontani dal fisco. Procediamo con ordine per mettere a fuoco i motivi che concorrono a questo fenomeno. Per prima cosa dobbiamo avere il coraggio di riconoscere che il nostro sistema è concettualmente, culturalmente vecchio, palesemente inadeguato alle moderne dinamiche economiche e sociali. Come accade ai vertebrati che avanzato con l'età, anche il nostro sistema ha l’osteoporosi.  

È un fisco vecchio e malandato per un Paese vecchio (e non so dire con precisione se anch’esso malandato, ma di certo che stenta a muoversi).

Dopo cinquant’anni dalla grande riforma tributaria14, non è più questione di correttivi da introdurre qua e là o di sforbiciate alle aliquote. Da soli, questi interventi, non sono sufficienti, mentre sono indispensabili modifiche strutturali.

Nei pilastri portanti, dal '70 ad oggi tutto è rimasto fermo. Vi sono poi difetti giovanili, che con l'età, come accade a molti difetti, si sono acuiti.

Erosione, esclusioni ed esenzioni, unite alla proporzionalità delle aliquote dei regimi sostitutivi, hanno finora reso l'IRPEF e il sistema, nei fatti, complessivamente regressivi, con buona pace della Corte costituzionale (che la pensa diversamente, con un ragionamento francamente traballante e lontano dalla realtà).

Questo è un punto essenziale. L'erosione è un fenomeno che provoca una riduzione quantitativa di qualcosa: una spiaggia,

gli argini di un fiume, il crinale di una montagna. Anche in economia accade una cosa simile. L'erosione fiscale è la riduzione quantitativa della ricchezza sottoposta all'imposta ordinaria. Pezzi di ricchezza vengono ricondotti a regimi sostitutivi dell'IRPEF, con aliquote non elevate e proporzionali: si pensi ai rendimenti dei BOT o alle molte forme di speculazione borsistica. Oppure vengono esclusi, esentati o diversamente agevolati.

Quelle accennate sono distinzioni tecniche importanti, ma piuttosto noiose. Qui interessa il concetto di fondo. L'erosione, nelle sue varie manifestazioni, indica la sottrazione alla progressività di parte della materia imponibile. Sottrazione prevista dalla legge.

Questa bruciante realtà era già stata denunciata nei primi anni ottanta da Vincenzo Visco nel suo Disfunzioni ed iniquità dell’Irpef e possibili alternative (1984). Ecco perché si tratta di una malattia giovanile. Già conosciuta, ma mai curata con la penicillina (e forse neppure con l'acido acetilsalicilico, ossia con una nota pastiglia effervescente)15.                                                                                                                13 Secondo la nota di “Confronto tra la spesa primaria italiana e quella europea”, redatta dal Commissario per la revisione della spesa pubblica Cottarelli. 14 Stato dei lavori della Commissione per la riforma tributaria, 1964. 15 "Gli ultimi sette anni sono attraversati da una serie di iniziative caratterizzate da una singolare asimmetria: da un lato, il ripetersi di progetti in cui l’intervento sull’erosione fiscale assume un rilievo crescente nel ridisegno del sistema del prelievo; dall’altro, il varo di puntuali interventi di riduzione di agevolazioni, destinati di volta in volta a essere  

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Oltre a queste malattie, il sistema ne ha altre, più gravi: si tratta di tumori ad organi vitali che attentano non soltanto all'equità, ma anche al pactum societatis, intorno al quale si regge la civile convivenza e si costruisce la crescita.

Per prima cosa, scorrono fiumi di ricchezza immune da qualunque prelievo. La testa dura dei numeri lo testimonia senza possibilità di infingimenti. Partiamo

dall'evasione: la stima è di 250-280 miliardi di euro l'anno di imponibile, corrispondente a 16-18 punti di PIL, tre volte superiore la media europea16. In questa cifra non sono conteggiate alcune importanti fette di evasione (oltre a tutta l'elusione), che esistono senz'altro, ma che sfuggono ai sistemi tecnici di determinazione. Tra queste l'evasione internazionale, quella che avviene "estero su estero", quella dei paradisi fiscali o paesi offshore, quella di alcune imposte indirette minori, quella collegata alle frodi.

Il 50 per cento degli imprenditori dichiara un reddito d’impresa inferiore a 15.000 euro e solo lo 0,6 per cento un reddito superiore a 150.000 euro. Il reddito medio complessivo degli imprenditori è di 19.000 euro. Alcune categorie dichiarano redditi modestissimi: noleggio di autovetture 5.300 euro l'anno; negozi di abbigliamento e scarpe, 6.500: istituti di bellezza, 7.200; tintorie e lavanderie, 9.100. I gioiellieri dichiarano 17.000 euro. Ovviamente lordi, prima di pagare le imposte.

L’evasione è fenomeno trasversale, riguarda tutte le categorie di contribuenti, seppure in misura anche sensibilmente differente tra di esse. Non c’è, insomma, una fascia che si possa dire totalmente monda.

L’evasione si annida nell'industria, nell'agricoltura, nell'artigianato e nel commercio, nelle professioni, ma anche nel settore del lavoro “dipendente” (lavoro in nero, straordinari fuori busta o secondo lavoro), con valori non del tutto insignificanti. Si consideri che il lavoro irregolare è l'11 per cento di quello regolare, con picchi di oltre il 30 per cento in Campania e Calabria17.

La trasversalità dell’evasione attiene anche alla tipologia dei tributi: non solo IRPEF e IRES, ma anche accise sugli oli combustibili e sulle sigarette, imposte doganali, imposte sui fabbricati, IVA.

Per quest’ultima è bene essere coscienti che l’Italia si colloca al primo posto in Europa per tax gap (imposte evase rispetto a quelle effettivamente dovute): 36 miliardi di euro. Seguono Francia (32 miliardi), Germania (26) e Regno Unito (19). In rapporto al PIL, per l’Italia si stima un’incidenza del 2,3 per cento superiore a quella degli altri grandi Paesi dell’Unione, quali

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                               fortemente ridimensionati nella fase applicativa. Le incertezze che dominano il quadro progettuale e operativo si riflettono nelle misure che, in materia di tax expenditures, hanno trovato spazio nei provvedimenti di finanza pubblica varati fra il 2008 e il 2014. Nell’insieme, si rinvengono 202 interventi sui regimi agevolativi, i quattro quinti dei quali si concretizzano nell’estensione di agevolazioni esistenti o nell’introduzione di nuove, mentre la parte residua e  rappresentata da misure di cancellazione o ridimensionamento di agevolazioni esistenti. Con un risultato opposto agli obiettivi dichiarati della politica fiscale: nell’insieme del periodo 2008-2015, l’erosione di entrate prodotta dal fenomeno delle spese fiscali e   quantificabile in poco meno di 40 miliardi, per effetto di 51 miliardi di aumenti cui si contrappongono, poco più   di 11 miliardi di riduzioni delle agevolazioni". Sono valutazioni della Corte dei conti espresse sul bilancio del 2014. Inchiodano, in maniera indiscutibile, la propaganda e la schizofrenia legislativa. Spiegazioni e commenti ulteriori sono superflui.  16 Rapporto del Ministero dell'economia e delle finanze sulla realizzazione delle strategie di contrasto all’evasione fiscale e sui risultati conseguiti nel 2013. 17 Audizione Presidente ISTAT, Commissione parlamentare di vigilanza sull’Anagrafe tributaria, 2010.

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Germania (1 per cento), Regno Unito (1,1) e Francia (1,6). Stanno peggio di noi Romania, Lettonia, Slovacchia, Lituania, Grecia e Ungheria18.

Una parola va spesa sulla distribuzione geografica dell'evasione o, per essere più precisi, del differenziale tra versato e dichiarato o dichiarabile presuntivamente. Il database DbGEO dell'Agenzia delle entrate fotografa un'Italia tagliata in due. Osservando il 2014, si scopre che si va da un tasso di evasione minima, pari all'11 per cento su ogni cento euro di imposta versata per le province dei grandi centri produttivi (Milano, Torino, Genova, Roma, Lecco, Cremona, Brescia), ad uno massimo del 66 per cento per le province di Caserta e Salerno in Campania, di Cosenza e Reggio in Calabria e di Messina in Sicilia.

In quest'ultimo gruppo, ogni 100 euro d'imposta versata, non se ne versano 66. Sotto, troviamo, con un tasso del 64 per cento, quasi tutte le altre province del Sud e delle isole maggiori. Tra i «virtuosi», con un tasso d'evasione tra l'11 e il 20 per cento, ci sono le altre province del Nord, dell'Emilia Romagna e della Toscana.

Diciamo le cose come stanno: l'evasione è il modo col quale una parte consistente dei contribuenti si riduce motu proprio la tassazione. Però, la "fascia sud" se la riduce sei volte di più rispetto all'altra, generando un effetto perverso sulla pressione fiscale effettiva, che risulta tanto maggiore quanto maggiore è il reddito dichiarato. A parità di reddito prodotto (in "chiaro" e in "scuro"), nelle zone dove la "lealtà" contributiva è più diffusa e dove il reddito prodotto viene dichiarato quasi per intero, la pressione fiscale è giocoforza superiore rispetto alla media nazionale.

Il "pollo di Trilussa" stigmatizza la questione. Lo stupore e forse l'indignazione crescono se si riflette sui dati che ora espongo. L'economia criminale, ossia le mafie, sottraggono al paese 160 - 170 miliardi di imponibile

l'anno19. Complessivamente, l'economia “non osservata” è pari al 30 per cento del PIL (18 per cento

relativo all’economia sommersa e 10 - 12 per cento legato alle attività criminali): 500 miliardi annui.

La corruzione pesa annualmente 65 miliardi20 (Nadia Fiorino e Emma Galli, La corruzione in Italia, 2013).

6. Il controllo e la riscossione: la credibilità dello Stato. - Per contrastare l'evasione e più in generale l'economia "non osservata", i controlli dovrebbero essere la priorità: ne va dell'entità del gettito e, ancor prima, della serietà e credibilità dello Stato. E poi ne va dell'equità sostanziale, della giustizia della legge, della giustizia redistributiva. Guardiamo come stanno le cose e come reagisce lo stato.

Gli accertamenti dell'agenzia delle entrate, secondo la Corte dei Conti21, sono stati nel 2014 appena 650 mila, dei quali oltre la metà nei confronti delle piccole e piccolissime imprese e dei

                                                                                                               18 Dati elaborati sulla base del Rapporto sulla realizzazione delle strategie di contrasto all’evasione fiscale, 2014, del Ministero dell’Economia e delle finanze. 19 Supplemento Banca Italia, 2012. 20 Corte dei Conti, Rendiconto generale dello stato, 2012. 21 Rendiconto generale dello Stato, 2014.

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liberi professionisti, pesci piccoli, insomma; e soltanto il 5,3 per cento nei confronti di medi e grandi imprenditori22.

Il numero di dichiarazioni presentate nel 2014 è di oltre 41 milioni (comprese quelle dei sostituti d'imposta). I controlli, diversi da quelli eseguiti automaticamente dal computer, quindi, sono pari all'1,6 per cento di tutte le dichiarazioni.

La Corte dei conti23 denuncia un fenomeno "occulto" alla stragrande maggioranza dei cittadini, assai preoccupante: "l’attivita di contrasto all’evasione fiscale si caratterizza per una flessione dell’attivita di controllo": mostra, dice la Corte, "nel 2014 una flessione di quasi il 9 per cento rispetto al 2013 e del 14 per cento rispetto al 2011 [ ... ] pur in costanza delle risorse umane impiegate".

La Corte denuncia anche un altro fenomeno, che deve essere conosciuto: "la forte flessione nel 2014 nell’impiego dell’accertamento sintetico dei redditi delle persone fisiche ai fini dell’IRPEF (il c.d. redditometro), sia in termini di numero di soggetti controllati (-48,5 per cento rispetto al 2013), sia in termini di gettito complessivo (gli 8.678 accertamenti effettuati nel 2011, alla data del 31 dicembre 2014 hanno reso solo 188 milioni)". Nel 2014 il ricorso alle indagini finanziarie è in caduta libera, sia di numero (meno di oltre il 40 per cento) sia in termini di maggiore imposta accertata (meno 10 per cento)".

Anche per quanto riguarda l’attività di controllo della Guardia di Finanza - sempre per la Corte dei conti - il 2014 segna una flessione del numero degli interventi (meno 3,9 per cento). I controlli c.d strumentali, diretti a verificare scontrini e ricevute fiscali, merce trasportata sottoposta alle imposte di fabbricazione, doganali e all'IVA, e i controlli per l'acquisizione di dati per il "redditometro", sono passati da 946.000 a 525.000 (meno 44,4 per cento).

Che dire davanti a questi arretramenti? Le imposte accertate, annunciate e qualificate come evase dal Ministero dell'Economia, nel

2013, sono state 25 miliardi. In realtà, una parte consistente di queste somme sono recuperi derivanti da errori di imputazione o qualificazione di fatti già spontaneamente dichiarati dai contribuenti; o conseguenti a interpretazioni normative controverse su elementi ugualmente già inseriti in dichiarazione.

Per tutte queste rettifiche, non stimate e non stimabili con precisione, non si può parlare di recupero dell'evasione in senso proprio. Esse non comportano l'emersione di materia imponibile occultata e quindi nuova. Determinano, piuttosto, una diversa qualificazione di elementi già esposti in dichiarazione. Insomma, di materia imponibile forse malamente dichiarata, ma pur sempre portata allo scoperto direttamente dal contribuente. Accertamenti "interpretativi", tutti questi, che finiranno nelle aule di giustizia, con costi, tempi ed esiti non prevedibili.

In ogni caso, quale che sia la reale somma dell'evasione sostanziale recuperata, le cifre su quella "scoperta" annunciate allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre di ogni anno, come quella sopra indicata, non coincidono affatto con i denari che entreranno nelle casse erariali. Questi saranno sicuramente inferiori, molto inferiori, ma di quanto non si sa.

                                                                                                               22 Dati ripresi dal già richiamato Rapporto sulla realizzazione delle strategie di contrasto all’evasione fiscale del Ministero dell'economia e delle finanze. 23 Relazione sul rendiconto generale dello stato per il 2014.

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Si sa, invece, che le imposte definite in via amministrativa, d’intesa col contribuente e senza necessità dell'intervento del giudice, nel 2013 sono state 6 miliardi, ossia l'l,25 per cento delle entrate tributarie24.

Le imposte in carico ad Equitalia e riscosse, nel 2014, sono state 12 miliardi, ossia il 2,5 per cento delle entrate tributarie. Di questi, però, oltre 5 miliardi provengono dai controlli automatizzati delle dichiarazioni: correzioni di errori materiali, di calcolo, omessi versamenti spontanei. Le imposte corrispondenti, in questi casi, sono iscritte direttamente a ruolo e finiscono nella cartella di pagamento formata da Equitalia. Controlli facili, che fa il computer da solo.

Dai controlli non formali, quindi, sono derivati, tutt'al più, 7 miliardi, un'inezia (1,4 per cento delle entrate tributarie). Anche di questi, peraltro, è verosimile che solo una parte discenda dall'emersione di materia imponibile occultata e che il resto si colleghi ad elementi comunque dichiarati, sebbene malamente.

I costi di gestione dell'intero apparato militare, amministrativo e giudiziale per controllo, riscossione e contenzioso non sono conosciuti. Ed anche girando tra le pieghe del bilancio statale, non è possibile una ricostruzione precisa.

Nondimeno, prendendo anche solo il costo del personale e i costi generali di gestione che Guardia di finanza, Agenzia delle entrate, Equitalia e Giustizia tributaria espongono nei loro bilanci particolari, si raggiungono cifre miliardarie. Facendo un conto a spanna, il costo del personale “dedicato” a verifiche, accertamento, riscossione e processo, si può quantificare in circa 3 miliardi di euro l’anno, con oltre 40 mila addetti.

Il contrasto all'evasione sostanziale, quindi, ha un risultato "netto" molto modesto: 6 - 7 miliardi l'anno, ad essere ottimisti? Un granello di sabbia.

Non appaiano fuori luogo i raffronti che ora propongo, vogliono essere soltanto un modo per mettere in risalto i paradossi del sistema. Lotto, bingo, lotterie nazionali, lotterie istantanee e scommesse ippiche raccolgono oltre 80 miliardi di euro l'anno e danno un gettito erariale netto di 8 miliardi (è la cifra che rimane allo Stato dopo la corresponsione delle vincite). Con costi di gestione bassissimi. Il gettito erariale da tabacco è di 13 miliardi.

Sono consapevole che il paragone tra queste entrare e quelle collegate all’accertamento è scientificamente improprio: il buon senso, però, indica che qualcosa di profondo non va.

Un ultimo dato - disarmante - sui crediti tributari non riscossi perché ritenuti "incagliati", cioè non riscossi e non riscuotibili. Neppure si sa con esattezza quanti e quali siano. In una risposta parlamentare del Ministro dell'economia sono stati azzardati dei numeri: 475 miliardi di euro, tra imposte, sanzioni e interessi, di cui 334 originati da accertamenti e 132 dalla liquidazione formale delle dichiarazioni (quelle fatte dal computer automaticamente).

Dico: si "sono azzardati dei numeri" perché fino al 31 dicembre 2013 la stima di Equitalia era di 620 miliardi (stando alla relazione annuale del suo presidente), sebbene nessun dato comparisse (e compaia) nel bilancio di gruppo di Equitalia. In ogni caso, per il Ministro, 120 miliardi sono ufficiosamente dichiarati inesigibili, gli altri di difficile riscossione perché riferiti a società estere o trasferitesi all'estero, a società estinte, a soggetti dichiarati falliti o a persone decedute.

                                                                                                               24 Gli accertamenti chiusi in accordo tra amministrazione e contribuente sono stati circa il 60 per cento.

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7. Il contrasto all’evasione e alla mancata riscossione: i punti essenziali. - Non bisogna essere Ippocrate per capire la gravità e pervasività delle malattie. E neppure Archimede per capire che i conti, in questo modo, non possono quadrare e che l’evasione e la non riscossione generano squilibri letali nella distribuzione dei carichi impositivi, nella distribuzione e nell'accumulo della ricchezza, sul piano della concorrenza, della produzione, dell'esportazione, del commercio interno ed internazionale (Alessandro Santoro, L’evasione fiscale. Quanto, come e perché, 2010). Cianuro per l’equità.

A fronte di un sistema malato come questo, si è assistito, a mo’ di contrappeso, ad una crescita della pressione fiscale sulle ricchezze sottoposte pienamente all'imposta progressiva, senza godere di regimi sostitutivi o di esclusioni, e senza poter contare sulla "copertura" dell'illegalità.

Anziché aggredire gli untori, si è dato addosso ai sani. Una strategia diabolica, perniciosa. Continuare a rivolgere auspici alla politica non serve: ci troviamo davanti ad un muro di

gomma. Dobbiamo prenderne atto con sano pragmatismo. Non auspico nulla, quindi. Denuncio. Anche se neppure questo servirà perché rimbalzerà

su quello stesso muro di gomma, come sono rimbalzate, prima delle mie, le parole assai più autorevoli di presidenti della Repubblica, premi nobel, giudici costituzionali, magistrati, giuristi ed economisti di chiara fama e perfino Sommi pontefici. E da qualche politico di rara caratura. Su queste patologie si sa tutto, si è scritto tutto e sono stati studiati molti sistemi per contrastarle. Le commissioni parlamentari competenti sono edotte, il ministero dell'economia e delle finanze, come il ministero dell'interno, pure. La presidenza del consiglio non può non sapere.   Evasione, elusione, economia criminale sono, anzitutto, problemi politici. In questo specifico senso: i metodi tecnici per contenerli o ridurli a livelli "fisiologici" esistono e, come detto, sono noti. Sono indispensabili la determinazione politica e quella amministrativa.   In termini generali, il contrasto all’evasione esige, oltre ad interventi di politica interna (non tributaria) di presidio del territorio e di contrasto “fisico”, il contenimento della pressione tributaria; la riforma strutturale dei tributi; la modifica, anch’essa strutturale, degli accertamenti; la riforma delle sanzioni; la riforma del processo; la semplificazione radicale della legislazione e degli adempimenti.   Sono sei punti. Essenziali. Ed essenziale è che vadano a braccetto.   In termini specifici, poi, gli strumenti possono andare da un uso oculato del reverse-charge nell'IVA all’estensione del c.d. regime del margine per il commercio al minuto e all’ingrosso; dalla limitazione dei pagamenti in contanti ad un uso mirato dello strumento del “conflitto di interessi” per la deduzione di costi specifici; dall’estensione della fatturazione (fatture, scontrini, ricevute) elettronica, alla “cooperative compliance” e al “tutoraggio” delle imprese; dalla messa in comunicazione delle decine di banche dati già a disposizione dell'amministrazione e della Guardia di Finanza, all'incremento dell'organico destinato ai controlli "sul campo", specie quelli bancari; dall'ampliamento degli strumenti di controllo antiriciclaggio alla "mappatura" dei contribuenti con la verifica della spesa, alla determinazione ex ante del reddito in accordo col contribuente.   Vi sono altri due profili, non meno importanti, riguardanti specificamente la riscossione: la creazione di una vera e propria task force per identificare i beni furbescamente e fraudolentemente nascosti alla vista del fisco, così da riportarli a soddisfare i crediti erariali, di ognuno di noi. Il superamento, con una rinnovata normativa, dello schermo della personalità giuridica degli enti e delle molte finzioni, ad iniziare dalla “morte” delle società, che accompagnano la soggettività, in modo da far pagare il tributo a chi davvero si è messo scaltramente in tasca i soldi, ossia ai soci o

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agli amministratori.   Gli strumenti tecnici ci sono. Possono essere imperfetti, se ne possono ideare di più raffinati. Può darsi. Quel che fa difetto, in ogni caso, è la precisa ed univoca volontà politica, ed anche la determinazione di avvalersene della classe dirigente preposta a gestire in concreto i gangli del sistema.   Constatazione amara, che lascia l'agro in bocca. Ma le cose stanno così.      

II

8. Ripensare la capacità  contributiva guardando ad Einstein. - Le osservazioni fin qui compiute testimoniano, mi pare in termini inequivoci, la necessità  di apportare radicali cambiamenti.       La questione preliminare da porsi è questa: i nostri modelli concettuali sono adeguati ad accogliere le realtà economiche che ogni giorno, con un dinamismo impensabile fino a pochi anni fa, si sottopongono alla nostra osservazione? Oppure deve essere la realtà ad adattarsi ai nostri schemi mentali? O deve rimanere, essa realtà, fuori e priva di disciplina o di sistematizzazione?   La risposta, per me, non è difficile da trovare: sono il diritto e i suoi modelli ad essere funzionali alla realtà, non viceversa. I modelli giuridici non sono e non devono trasformarsi in lettini di Procuste: il diritto è per l'uomo in carne ed ossa e per la realtà di fatto, non viceversa.   Certo, il diritto ha le sue regole, i suoi principi e il suo attore, compreso il legislatore, non può fare ciò che vuole, neppure sul piano interpretativo, specie quando quei principi sono di rango costituzionale.   Una cosa, però, la può e deve fare: leggerlo in funzione della realtà che gli compare alla vista e verificare se, con nuovi occhiali o nuove lenti, diritto e realtà possono coesistere. Se il risultato di questo esperimento è negativo, il giurista, come tutti coloro che usano strumenti scientifici, deve abbandonare il campo e tentare altre strade, magari rimettendo tutto alla Corte costituzionale quale supremo organo di garanzia. Ma se l'esperimento riesce, il giurista ha realizzato il suo compito, vorrei dire la sua missione: vestire la realtà coi panni del diritto.   Albert Einstein, quando elaborò la teoria della relatività, fece proprio questo: abbandonò i vecchi schemi di osservazione dello spazio e del tempo, ne sperimentò di nuovi e nel suo peregrinare tra funzioni ed equazioni si accorse che i nuovi modelli calzavano alla realtà che gli si apriva all'osservazione.   Non pretese di infilare la realtà nei vecchi modelli, e men che meno pretese che fosse la realtà a modificarsi. E neppure ritenne di doverla lasciare fuori dalla "disciplina".  

Einstein sprona a "guardare oltre". Lui fece così, guardò "oltre" quando intuì che spazio e tempo sono curvi e che la gravità altro non è che la manifestazione della curvatura spazio-temporale. È per questo che la sua è la scoperta più straordinaria di tutti i tempi.  

Il diritto non è la fisica e il giurista non è un fisico. Eppure entrambi osservano la realtà. Gli uni, i fisici, osservano la realtà naturale, il tempo, lo spazio, i campi magnetici; i giuristi la realtà che l'uomo stesso elabora: lo stato, un contratto, la ricchezza, il reddito. Una realtà che possiamo definire convenzionale, ma che affonda le radici in un dato sensibile della realtà materiale, pregiuridica. Per questo il diritto non può essere ridotto a un lettino di Procuste, ma deve essere visto come strumento funzionale a quella realtà, al centro della quale sta l'individuo.  

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Il punto di partenza, per noi, non può  che essere il concetto di capacità  contributiva, la "base delle basi". Di questo soltanto, qui, intendo occuparmi25.   9. I nodi concettuali da affrontare. - La capacità contributiva è un criterio oggettivo di riparto dei carichi pubblici, storicamente reputato il più idoneo a questo fine.   Fin qui nessun problema. Vi è convergenza di opinioni.   I dubbi nascono da ora in poi.   Li introduco con alcuni interrogativi, che a loro volta sono tutti nodi da sciogliere. Il primo: è necessario che vi sia un legame tra tributo, proprietà o altri diritti sui beni oggetto di tassazione o sulla fonte (capitale, terreno, fabbricato, patrimonio, impresa) della ricchezza?   Il secondo: è necessario che vi sia un collegamento predeterminato o preindividuabile tra tributo e persona titolare della ricchezza medesima?   Il terzo: è necessario che al fatto tassato corrisponda una riserva di liquidità o un saldo attivo patrimoniale?   L'ultimo: qual è il legame tra tributo e territorio dello Stato al tempo dell'economia digitale?   Proviamo ad allentare questi nodi.      10. - Il "rapporto di utilità economica «positiva» e «negativa»". - Muovo dal rapporto tra tributo e diritti soggettivi.   L'ipotesi di lavoro che metto subito sul tavolo della discussione la riassumo così: se provassimo a leggere il primo comma dell'art. 53 della Costituzione per com'è scritto e per come lo hanno probabilmente inteso i costituenti, cosa vedremmo?.   Questo: che la norma non impone il collegamento "tributo-proprietà" o altro diritto reale (usufrutto, uso eccetera), e neppure il collegamento tra tributo e diritto di obbligazione o tributo e diritto personale di godimento (Franco Gallo, Le ragioni del Fisco, 2012).   Insomma, vedremmo che nella capacità contributiva possono essere ricompresi elementi oggettivi slegati da una situazione giuridica di stampo reale (la proprietà et similia), da un diritto personale di godimento (locazione, affitto), o da un diritto soggettivo relativo o di obbligazione (diritto di credito).   L'art. 53 richiede altre cose, queste sì indefettibili. Due, in particolare: che quegli elementi abbiano rilievo economico e che siano valutabili economicamente.   Se è questo ciò che richiede, è sufficiente, allora, che tra contribuente e presupposto oggettivo del tributo interceda un "rapporto di utilità" riconosciuto dal diritto, vale a dire un rapporto per questi vantaggioso e misurabile, appunto, in termini economici; oppure un rapporto per altri svantaggioso, di utilità negativa, ma ugualmente riportabile economicamente al contribuente, ossia a colui che realizza quel particolare tipo di utilità.   Agganciare la capacità contributiva ad un'utilità positiva, oppure ad un'utilità negativa (una disutilità o una esternalità negativa), non deve ingenerare in noi lo spasmo di trovare nei vecchi modelli il calco nel quale colare la nuova cera. Non è questo che è profittevole alla ricerca.     È  profittevole un'altra cosa: allargare il concetto di capacità contributiva, così da attrarre a tassazione forme di manifestazione di capacità contributiva non colpite (e forse, per ora, neppure individuate con precisione) e da fare spazio a concetti diversi da quelli tradizionalmente utilizzati.                                                                                                                  25 Considerazioni ulteriori, se si vuole, le ho svolte nel libro Il «re fisco»  è  nudo, in corso di pubblicazione.  

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Se si condivide questo approccio, la capacità contributiva può essere intesa in un duplice modo. In positivo: come attitudine o forza espressa da un'attività, un fatto o atto economici, o come utilità che il contribuente ritrae direttamente dal presupposto del tributo. Quest'ultimo può essere il caso, ad esempio, della raccolta in rete dei dati commercialmente rilevanti per le imprese digitali. Un vero e proprio sfruttamento a fini commerciali delle "tracce" della navigazione, che potrebbe divenire autonomo presupposto di un'imposta di utilità (c.d. bit tax).   Oppure si può intendere in negativo: come attitudine di un'attività, di un fatto o "non fatto" di incidere negativamente sulla finanza pubblica. È il caso dell'inquinamento prodotto da particolari industrie rispetto alla spesa sanitaria e alla spesa per la conservazione dell'ambiente; o della produzione dei c.d. "cibi spazzatura", sempre rispetto alla spesa sanitaria pubblica.  

Non siamo molto distanti dalla teoria economica sulla "esternalità negativa", concetto basilare, tra l'altro, della teoria piguviana sulla carbon tax, ma estendibile, come concetto, ad altre fattispecie e ormai entrato in molti rami del sapere (Emanuela Giusi Gaeta, Fondamenti economici dei comportamenti criminali, 2013).  

Sebbene robustamente fondata sul terreno economico, nella prospettiva giuridica occorre domandarsi se l'utilità "negativa" trovi nella Costituzione specifica radice, così che l'art. 53 la possa accogliere come declinazione della capacità contributiva.  

La risposta è affermativa: la trova nel secondo comma dell’art. 4, che impone di svolgere attività rivolte “al progresso materiale o spirituale della società”. Non al suo danneggiamento ed impoverimento.  

E poi, di volta in volta, può trovarla in altre norme: dall'art. 32, sulla tutela della salute, all'art. 9, sulla tutela del paesaggio e dell'ambiente.  

   11. Segue: l'utilità   «negativa» e la «compartecipazione di responsabilità   sociale» . - Parlare di utilità negativa rispetto alla finanza pubblica può significare mettere in discussione gli elementi strutturali della fattispecie d'imposta, punto nodale della teoria impositiva.   In effetti è così. Non eludo il problema.   Si è detto più volte che la capacità contributiva ha un doppio "nucleo duro", fuori discussione: la rilevanza economica e la misurabilità economica del presupposto. Se il fatto non ha rilievo economico e non è quantificabile in questi stessi termini, non si può considerare espressivo di capacità contributiva.  

Finora, per tradizione, abbiamo pensato che, affinché questa espressione di capacità contributiva potesse prendere corpo, il rilievo economico dovesse essere intrinseco alla fattispecie e che la tassazione dovesse colpire la sua manifestazione quantitativa, per come convenzionalmente stabilita (reddito misurato per competenza, reddito misurato per cassa, rendita catastale, prezzo di vendita, valore normale e via via).  

La fattispecie, cioè, doveva sprigionare dal didentro una simile forza. Così gli immobili, la produzione, il consumo, il trasferimento, l'attività d'impresa, l'attività professionale. Domandiamoci: è possibile che fatti, diversi da quelli più tradizionali, privi di forza economica intrinseca, la ritraggano da elementi esterni e che, per questa via, siano elevabili a presupposto di un tributo? Oppure che fatti, pur espressivi di capacità economica intrinseca, siano tassati non per questa, ma per quella, di ammontare diverso, che ritraggono dall'esterno?  

La risposta, per me, seguendo le osservazioni svolte fin qui, è relativamente semplice. La capacità contributiva non coincide necessariamente e soltanto con la forza economica che un fatto

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porta dentro di sé o, meglio, che convenzionalmente gli viene attribuita come suo elemento intrinseco. Il fatto può derivare la sua forza anche da elementi estrinseci, che lo qualificano e quantificano dal di fuori.  

Questo accade, come detto poco fa, quando un fatto (privato) produce conseguenze esterne, si ribalta, cioè, sulla collettività in termini di costi pubblici: sono questi, allora, a diventare il suo abito economico.  

È quello che in precedenza si è definita "utilità negativa".   Un esempio. Se un’industria petrolifera o un’acciaieria non installa i filtri per disinquinare i fumi, realizza un fatto che partecipa alla distruzione dell'ambiente, all'aumento delle patologie cancerogene o delle affezioni polmonari. Si riflette negativamente, in prospettiva, sulla finanza pubblica (oltre che sulla vita di uomini e donne) perché determina un aumento esponenziale dei costi della sanità e di quelli per ridurre l'inquinamento.  

Il "non fare", allora, acquista un rilievo economico pubblico: il "non fatto" dal contribuente (non installare i filtri) impoverisce la collettività, contribuisce a distrugge un suo bene vitale, anziché proteggerlo. Il fatto, da privato diviene pubblico.  

A questo impoverimento, nel nostro esempio, è correlato, in misura non coincidente, l'arricchimento dell’industria petrolifera o dell’acciaieria per il risparmio di spesa del "non fare" (non avere installato i filtri), che ha già in sé rilievo economico.  

Esso, fatto, però, può anche essere ripreso a tassazione in una dimensione diversa da quella individuale del risparmio di spesa, ossia nella dimensione collettiva: per gli effetti economici che determina sulla finanza pubblica in termini di maggiore spesa per lo stato, in quanto il costo sociale marginale, qui, supera il costo risparmiato dal privato.  

Per questo ritengo che il prelievo, nelle ipotesi accennate, non possa essere inquadrato come “speciale” sanzione o forma di risarcimento forfetizzato dei danni verso la collettività.  

La conclusione, nella sostanza, non si differenzia di molto da quella sposata dalla Corte suprema degli Stati Uniti d'America con la sentenza del 28 giugno 2012 (c.d. Obamacare). La Corte, con questa decisione, ha dichiarato legittima la tax che, meccanicamente, colpisce chi non stipula l'assicurazione sanitaria obbligatoria, misura che il Collegio ha categoricamente escluso da quelle sanzionatorie e riportato, invece, ai tributi: è la "compartecipazione di responsabilità sociale" a divenire elemento oggettivamente rilevante e, per questo, economicamente valutabile sul piano fiscale (Tulio Raul Rosembuj, La capacità contributiva del “non fare”. Il concetto di imposta, 2012).  

La "compartecipazione alla responsabilità sociale" è l'utilità negativa della quale si è detto e che già la nostra Carta consente di qualificare come elemento oggettivo dei tributi.  

 12. Capacità   contributiva e personalità   dell'imposizione nei nuovi schemi dell'economia. - Il secondo nodo da sciogliere attiene al rapporto tra prelievo e soggetto titolare della capacità contributiva, tra tributo e persona.   Per cogliere l'importanza del tema, è sufficiente pensare al fenomeno della "spersonalizzazione" delle transazioni finanziarie (milioni di miliardi di dollari, non briciole, in giro per il mondo). Per queste ricchezze il soggetto conosciuto, il più delle volte, è l'operatore della transazione (banca, intermediario, operatore di borsa, piattaforma informatica), mentre l'effettivo proprietario è nascosto, magari in qualche paradiso fiscale o in qualche trust found.   In queste ipotesi, se si pretende di riportare la capacità contributiva al suo titolare e su di lui

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operare il prelievo, si deve rinunciare in partenza alla tassazione, perché non si sa chi è, oppure si conosce soltanto l'entità parvente, interposta, dietro la quale si nasconde una "scatoletta" ulteriore e poi un'altra e un'altra ancora, fino al loro titolare effettivo.   Propongo un altro esempio. Lo riprendo dalla legislazione in vigore e riguarda il trust. Sui redditi dei beni trasferiti al trustee chi deve pagare le imposte? La risposta normativa, dopo un lungo silenzio, è arrivata: per il testo unico delle imposte sui redditi le devono pagare, se nominati, i beneficiari; altrimenti il trust, elevato a questo scopo a soggetto giuridico.   Già: ma i beneficiari non hanno la proprietà del beni fino a quando il disponente è in vita e fino a quando il trustee non esegue la volontà di questi. Sono titolari di un'aspettativa. Il padre potrebbe ricredersi e in punto di morte destinare tutto alla tribù Noit-cif-tribe, che vive nelle isole Noisulli, nel Pacifico del Sud, considerata una delle piu primitive popolazioni esistenti sulla terra.   Qui qualcosa sembra non tornare: i beneficiari sono chiamati al pagamento prima di poter godere di una utilità, di un vantaggio economicamente apprezzabile coincidente coi beni in trust, e per di più senza avere la certezza di poterne godere in futuro, trovandosi in una situazione di semplice aspettativa.   Seguendo quest'ordine di idee, la norma sarebbe senz'altro illegittima e quindi dovremmo abdicare alla tassazione, almeno secondo la modalità prevista dalla norma stessa.   Sono solo degli esempi, senz'altro non esaustivi della complessità e vastità delle implicazioni che la moderna economia porta con sé. Ma sono sufficienti perché consentono di capire fino in fondo la questione da risolvere.   Questa: tra soggetto che paga e presupposto del tributo, che tipo di relazione deve intercedere?   Per trovare la risposta non dobbiamo lasciarci più di tanto confondere la mente dalla novità dei fenomeni richiamati e dall'allargamento del concetto di capacità contributiva descritto nelle pagine precedenti.   Un punto è e rimane fermo. Ognuno deve sopportare il tributo sul vantaggio o sullo svantaggio che produce o del quale gode, non sul vantaggio da altri prodotto o goduto, e neppure sullo svantaggio da altri determinato.     È  il principio personalistico ad imporlo, seppure "aggiornato" alla luce della teoria dell'utilità.   L'obbligazione d'imposta, quindi, non può che nascere e rimanere in capo a chi realizza il presupposto espressivo di capacità contributiva.   Può accadere, nondimeno, che, realizzato il presupposto, l'obbligazione d'imposta diventi un fantasma senza corpo. E non perché sia inesistente il soggetto passivo: in fondo alla catena esiste senz'altro, com'è nelle transazioni finanziarie; oppure, com'è nel trust, prima o poi sarà individuato con certezza. Ma perché non è conoscibile agli occhi del fisco o non è certo nel momento in cui l'obbligazione nasce (la legge decide che nasca).   La presenza di un fantasma inquieta, ma non può giustificare la rinuncia dello stato alla tassazione. Questa, infatti, sarebbe l'alternativa.   Che fare, allora? Qui è sufficiente rinfrescare il corredo, potendo soccorrere, al fine, le categorie già note all'ordinamento. In particolare, quella dell'obbligazione di pagamento.   Il pagamento, infatti, può essere eseguito anche da un soggetto terzo. Questo è pacifico e già avviene: si pensi al datore di lavoro per le ritenute sui redditi di lavoro dipendente o al notaio per l'imposta di registro. Affinché il meccanismo regga sul piano costituzionale, però, è necessario che chi versa il tributo possa rivalersi sul soggetto passivo, ossia sul titolare dell'obbligazione d'imposta

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(su chi realizza il presupposto).   I più recenti schemi economici ai quali mi sono riferito, introducono, a questo punto, una variabile non presente in quelli della tradizione (sostituto o responsabile d'imposta, per esempio). Qui sta la novità: immettono nel circuito un fantasma, perché, come si è detto, il soggetto passivo non è conosciuto o non è certo.   Cos'è necessario, quindi, affinché la tassazione possa operare? È necessario (ed anche sufficiente) che la legge individui nel presupposto oggettivo il centro di riferimento dell'obbligazione, centro sul quale chi esegue il pagamento possa rivalersi.   Anche questa, in verità, non è una novità assoluta. Gia troviamo una struttura del genere nell'ipotesi, seppure marginale, di redditi dei beni in eredità giacente e pure nel caso di delazione dell'eredità in favore di un nascituro non ancora concepito. L'IRPEF, in queste circostanze, viene pagata dal curatore o dall'amministratore dell'eredità, ma egli ha diritto di rivalersi sui beni in giacenza o destinati al nascituro (i chiamati all'eredità, non avendola accettata, non si possono considerare titolari dell'obbligazione d'imposta; il nascituro non concepito, poi, non è ancora venuto al mondo).   Questo meccanismo può senz'altro essere riferito anche agli schemi del nuovo millennio: nelle transazioni finanziarie, come nel trust, chi versa l'imposta non può che avere diritto e possibilità concreta di rivalersi sul guadagno frutto della transazione o sui beni in trust. E così per fattispecie ulteriori che l'ecletticità della moderna economia dovesse tirare fuori dal cilindro.      13. La goccia d'acqua che erode la roccia: il tributo e il saldo attivo patrimoniale. - Siamo giunti al terzo interrogativo: è necessario che al fatto tassato corrisponda una riserva di liquidità o un saldo attivo patrimoniale? Un tributo può erodere, come fosse una goccia battente sulla roccia, il patrimonio del contribuente o la fonte del suo reddito (l'impresa, l'immobile)? Oppure è necessario che il prelievo non li "consumi" e non determini un saldo passivo patrimoniale in capo al contribuente stesso?   Questi, per la verità, sono temi antichi, ma sempre risorgenti, specialmente ora, in relazione alla new economy e all'imposizione patrimoniale. Temi che riportano all'idea redditocentrica dell'imposizione, al denaro, e all'idea della persona da considerare nella sua totalità anche ai fini tributari.   Guardare ad Einstein può aiutare.   Un sacco di iuta pieno di diamanti può anche dimostrare che essi non hanno generato un reddito, ma senz'altro dimostra che gli stessi, come beni, esprimono forza economica. Anzi, chi possiede quei diamanti ha sicuramente una capacità economica, seppure potenziale in termini di liquidità, incomparabilmente superiore a chi è nullatenente. È ovvio, direi.   Non è necessario, quindi, che chi realizza un fatto economicamente valutabile, ripreso dalla legge a presupposto di un tributo, abbia già ritratto da quello stesso fatto la pecunia per il pagamento, oppure che i suoi averi non risultino erosi dall'obbligazione d'imposta o che venga mantenuto inalterato il suo saldo attivo patrimoniale.   La vendita di qualche carato di diamante per assolvere al dovere contributivo può sollecitare la parte limbica del nostro cervello alla repulsione, ma, al di là di questo fastidio (dimostrato scientificamente, come detto), non sarebbe corretto gridare alla violazione dei principi costituzionali. Non predico la giustezza di quella vendita, dico che, se si dovesse realizzare, non si porrebbe in contrasto, di per sé, con la nostra Carta.  

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Questo discorso non deve essere confuso con la questione della tassazione espropriativa. Il limite quantitativo "superiore" è problema diverso da quello ora affrontato.   Mischiare tutto in una grande caldera, come talvolta si fa, serve solo ad alzare la cenere del vulcano, ma è sbagliato. Metodologicamente, prima di tutto.   14. Capacità  contributiva e territorio ai tempi di internet. Lo Stato "solido". - Ultimo nodo: che rapporto c'è tra tributo e territorio dello Stato?   Il problema si pone, in particolare, per la digital economy, l'economia su internet, per intenderci. Com'è possibile agganciare il reddito delle attività della nuova economia al nostro territorio, quando le piattaforme informatiche dalle quali operano i nuovi commercianti sono collocate in stati esteri, magari in qualche stato non collaborativo, nascoste dietro schermi giuridici artificiosi? E quando nel nostro paese non hanno neppure un ufficio o una pur minimale organizzazione materiale?   La difficoltà è planetaria e una soluzione condivisa, oggi, non sembra a portata di mano. Alcuni Paesi vogliono garantire le proprie economie con la tassazione nel paese di origine, ossia nel paese dove ha sede la "vetrina virtuale", il "negozio virtuale", il "casinò virtuale": Amazon, piuttosto che eBay, Playtech o Arcaton. Tra questi paesi gli Stati Uniti. Altri, invece, la garanzia la intendono al contrario: tassare dove si consuma, nel paese dal quale partono gli ordini. Tra questi paesi l'Italia e la Gran Bretagna (ma come disse Winston Churchill, davanti al bisonte, noi siamo degli asinelli).   La posta in gioco, in termini impositivi, è molto, molto appetitosa: l'economia digitale sposta 1 trilione di miliardi di dollari le mondo e nel nostro paese, nel 2013, ha raggiunto 13 miliardi di euro.   I problemi, - è intuibile - sono anzitutto politici. Quelli tecnici, che qui interessano, sono in qualche modo risolvibili.   Per quanto riguarda il nostro paese, esistono due gruppi di questioni: la giustificazione costituzionale dell'imposizione; i criteri di identificazione e quantificazione dei redditi prodotti dalla digital economy.     Sappiamo che la giustificazione costituzionale della tassazione, in generale, risiede nella partecipazione del singolo ad una comunità organizzata nella forma di stato e nel fatto che questa partecipazione comporta un dovere di solidarietà relazionato e parametrato alla capacità  contributiva. La contribuzione, inoltre, va a finanziare le attività che lo Stato svolge come persona, come soggetto giuridico.   Queste motivazioni sono sufficienti per poter attrarre ad imposizione i proventi dei nuovi soggetti economici?   Per trovare la risposta bisogna allungare la strada e passare da una verifica intermedia: guardare come si individuano, oggi, i soggetti passivi, i contribuenti.   Verificando questi criteri ci accorgeremo che le tradizionali giustificazioni scricchiolano un po'. Non sono sbagliate, sono probabilmente incomplete.   Ogni tributo ha le sue regole. Senza scendere in defatiganti tecnicismi, si può dire che il tributo deve essere pagato da chi, residente nello stato, possiede o produce ricchezza verificabile sulla base degli elementi costitutivi dello stato stesso, primo tra tutti il territorio. E poi da chi, pur sempre residente sul nostro territorio, produce ricchezza in altri Stati, salvo il riconoscimento delle imposte pagate all'estero su quelle stesse ricchezze. Ed infine chi, pur non residente, realizza un reddito sul nostro territorio o svolge sul nostro territorio un'attività tramite una stabile

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organizzazione.   Il territorio è elemento fondativo della nozione giuridica (non fisica) di stato. È quindi elemento convenzionale che designa l'ambito di signoria dello stato stesso. La residenza è criterio anch'esso convenzionale per riferire un soggetto a quel territorio ed a quella signoria.     La ricchezza della digital economy non si lascia afferrare, nella maggioranza dei casi, né guardando al territorio, né valorizzando la residenza o nozioni derivate, come la stabile organizzazione. La "vetrina virtuale", il "negozio virtuale", il "casinò virtuale" possono non avere ed anzi normalmente non hanno nessun collegamento col territorio italiano. Il solo filo che li unisce è il click sul computer del cliente. In termini giuridici, è il contratto di acquisto e vendita, anche se neppure esso, come elemento materiale, ha un addentellato fisico col territorio: "parole e suoni e figure", come dice Natalino Irti, "che non sono né qui né lì, ma nel puro spazio telematico" (Norma e luoghi, 2006). Nient'altro.   Perché, allora, un soggetto estraneo all'organizzazione dello stato, che ha sede, in ipotesi, alle British Virgin Islands, che non ha nessun collegamento col nostro territorio, che non è membro della collettività - con la quale, quindi, non deve solidarizzare - dovrebbe pagare in Italia l'imposta sul reddito prodotto dalle vendite elettroniche?   Il motivo formale si rintraccia facilmente. Nell'art. 53 della Costituzione si dice: "tutti sono tenuti [ ... ]". E in quel "tutti" vi sta tutto o vi può  stare tutto.   Il motivo sostanziale, invece, dove risiede, dato che il diritto, qui, ha perduto le tradizionali radici territoriali e si dovrebbe affidare ancor di più alla pura artificialità?       Il motivo può essere trovato in una scelta di governo della polis, ossia nella scelta di proteggere il reddito nazionale. Nel fatto che chi vende su internet, operando da uno stato non appartenente all'Unione europea, sposta in altro stato parte del reddito nazionale, coincidente con quello destinato agli acquisti. Reddito che, se internet e la sua "vetrina" non ci fossero, rimarrebbero nello stato destinatario degli acquisti medesimi, "trasformandosi", con ogni probabilità, in reddito del commercio tradizionale sottoposto a sua volta sottoposto tassazione in Italia, oppure in risparmio, a sua volta generatore di ricchezza e quindi di ulteriori imposte.   Portandolo via, la comunità dove avviene l'acquisto s’impoverisce per la porzione coincidente col guadagno del "negozio virtuale" ed è questo impoverimento il fondamento dell'obbligo alla contribuzione pure per chi non ha collegamenti fisici con il nostro territorio, non beneficia dei suoi servizi, non appartiene alla collettività alla quale deve esprimere solidarietà (a meno che non si voglia teorizzare un principio di solidarietà universale, ma la cosa mi pare francamente utopistica).   La giustificazione del tributo qui s’identifica con la sua finalità (extratributaria): proteggere la ricchezza di uno stato sovrano, il nostro.   Scegliere la "protezione" e legare l'imposta alla "protezione" non deve stupire. La storia è disseminata di scelte di questo genere. E anche oggi questa opzione è possibile. Non è fuori dal tempo perché è la volontà di scopo della decisione politica a legittimarla in uno stato (ancora) sovrano.   Estremizzando il ragionamento, delle due, l'una: o si abbandona definitivamente la sovranità dei singoli stati a livello globale, ipotesi assolutamente irreale; oppure alla sovranità si continuano ad attribuire alcune connotazioni che le conferiscono "solidità".   La società solida e lo stato solido - per usare una terminologia opposta a quella di Bauman, che individua nella liquidità la caratteristica della modernità - sono "realtà" alle quali riportare la mente. Smettere di considerarle tramontate, appartenenti ad economie arcaiche o politicamente

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incorrect. Nè mi sembra che, sul piano dell'imposizione diretta, i Trattati europei possano intralciare scelte politiche di questo genere.   Siamo tornati al punto: cos'è la volontà di scopo della decisione politica? In democrazia essa si traduce (tra l'altro) nella regolamentazione dei rapporti di convivenza o nella modificazione e correzione dell'assetto di quei rapporti (Natalino Irti, Norma e luoghi, 2006). E questo vale anche quando i rapporti in discussione intercedono tra un singolo stato e la forza planetaria dell'economia. La volontà politica è la sola deputata ad intervenire, così da tradurre la decisione in norma giuridica. La potenza artificiale del diritto fa il resto.   Ecco che lo spazio torna ad essere ripartito tra istituzioni sovrane: da brodo gelatinoso e informe ad elemento della sovranità, anche fiscale (Giuseppe Guarino, L'uomo istituzione, 2005).   Rimane un punto da chiarire: i criteri d'identificazione e quantificazione dei redditi della digital economy. La soluzione, per la verità, è   ormai a portata di mano. Infatti, se la sua giustificazione (e finalità   principale) è   la "protezione" della ricchezza nazionale, il criterio per individuare gli operatori e misurare l'imponibile loro riferibile viene di conseguenza: non può  che essere quello dei pagamenti on line, da prevedere come "tutti tracciabili". All'ammontare di questi, poi, si dovrebbero applicare percentuali di abbattimento per costi forfetizzati, così  da ottenere il reddito imponibile da ricondurre all'IRES. Questa soluzione può  apparire semplicistica perché  supera le lunghe, tortuose disquisizioni su sovranità   nazionale, territorialità, stabile organizzazione, organizzazione d'impresa, misurazione dei byte, mondi virtuali e forme di capacità  contributiva costruite sull'etere o sul nulla. Non condivido. La proposta non è  semplicistica: è  semplice (relativamente). Un colpo di reni per rinnovare i nostri arnesi da lavoro, un po' arrugginiti dal passare del tempo, è   forse opportuno: tentare di adattarli non porta lontano. Come una gomma gelatinosa sfugge dalle mani, così  le nuove realtà  economiche non si lasciano contenere nei vecchi recipienti.   Orbene, è   su queste basi, forse, che si può iniziare a progettare un nuovo albero della fiscalità. Questo è lo sforzo al quale si indirizza il IV convegno dell'Associazione Italiana dei Professori di Diritto Tributario. Buon lavoro!