Andreas Eschbach - Miliardi Di Tappeti Di Capelli

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Miliardi di tappeti di capelli Andreas Eschbach

Traduzione dal tedesco di Robin Benatti Postfazione di Andreas Eschbach

Titolo originale: Die Haarteppichknüpfer © 1995 by Verlagsgruppe Droemer Weltbild

© 2000 by Fanucci Editore Prima edizione: Solaria 2001

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Una luminosa stella del nord

Non credo che i lettori italiani di fantascienza abbiano mai sentito parlare di An-dreas Eschbach. Forse brucerete di grande curiosità, quando scoprirete che l'annata 2001 della collana Solaria si apre con un titolo firmato da uno scrittore del Nord Eu-ropa. Un titolo pure misterioso: Miliardi di tappeti di capelli. Sono certo che ci sa-ranno molte reazioni analoghe, visto che quasi in ogni dove sta prendendo piede una tendenza, talmente inarrestabile quanto intrigante. Penso al tentativo realizzato dagli autori di fiction non anglofona di prendere la loro fetta di torta e proporre vie inedite agli editori. Naturalmente non si tratta di evocare i presunti nazionalismi letterari, né l'europeismo spicciolo. Si tratta piuttosto di entrare nelle profondità dell'immaginario. O meglio, nella grana dell'immaginario fantastico.

Questa tendenza, di cui il romanzo di Eschbach fa parte, merita qualche parola sul contesto in cui si sta svolgendo il cambiamento. Prima auspicabile, oggi, realtà. Ab-bandonate le tiritere propedeutiche dell'ottimismo tecnologico, smontato il teatro del realismo scientifico a colpi di critica postmoderna, siamo in presenza di un linguag-gio fantascientifico che ha invaso il presente della comunicazione popolare. Potrem-mo vedere il fenomeno come una sorta di secolarizzazione della fantascienza. Ha in-vaso il quotidiano dei mezzi di comunicazione di massa (o sono i media che l'hanno divorata) con luccicanti esortazioni a vivere il futuro-merce che sarebbe - a dire degli imbonitori - già arrivato. Alcuni scrittori, quasi per contraccolpo, guardano alle pro-prie radici culturali dove il futuro era diverso o non c'era affatto. Infatti, è possibile delineare due orientamenti narrativi salienti. Il primo, è quello degli scrittori che pra-ticano la fantascienza per speculare sugli effetti sociali della globalizzazione e delle nuove tecnologie. Il secondo, è quello di chi ripensa la fantascienza facendole ritrova-re i legami lontani: in breve, la letteratura fantastica. Quando, per esempio, in Ger-mania c'era un autore come Kurd Laföwitz (1810-1910) i cui romanzi utopici furono vietati dal nazismo perché considerati sovversivi. Si pensi che, nel 1930, l'edizione di Aufzwei Planeten (Su due pianeti, scritto nel 1897) ha venduto addirittura 70.000 co-pie.

Dunque, scrivere letteratura popolare è una questione di linguaggio, ma anche di Storia. Bisogna vederla. Le parole sono il tempo della lettura e della narrazione. Il tempo è lavoro dell'interpretazione. E l'interpretazione è la memoria eccitata dalla grana dell'immaginario di cui scrivevo prima. Un giudizio quanto mai attuale, soprat-tutto nel caso di Eschbach. Un autore che tenta di far parlare la fantascienza con in-venzioni narrative estremamente complesse, perché radicate lontano. Singolarmente, questo è uno dei motivi del suo grande successo tra i lettori tedeschi. Chissà se rac-contare Märchen (favole) conta ancora qualcosa: quando da noi è un parlare (fabu-lam) e da loro un sentito dire (Maere).

Allora, si arriva lontano fino a Jorge Luis Borges, forse. Sarebbe intrigante sapere

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se il racconto «Tlon, Uqbar, Orbis Tertius» sia stato letto da Eschbach. Sebbene non sia davvero importante cercare un pretesto o un'influenza, non c'è miglior sintesi di Miliardi di tappeti di capelli che questa frase di Borges: «Le cose, su Tlon, si dupli-cano; ma tendono anche a cancellarsi e a perdere i dettagli quando la gente le dimen-tichi. E classico l'esempio di un'antica soglia, che perdurò finché un mendicante ven-ne a visitarla, e che alla morte di colui fu perduta di vista.» Bene, prendete l'oblio del-le antiche soglie, versate le atmosfere perturbanti di E.T.A. Hoffmann e shakerate con il controllo magistrale delle trame derivato dalle ottime conoscenze delle topiche del thriller. Infine, metteteci un pizzico di space opera ed ecco Eschbach. Miliardi di tap-peti di capelli possiede di Borges l'idea della narrazione come labirinto e architettura infinita. Di Hoffmann ha l'andatura del fantastico ottocentesco, quella che riconduce all' unheimlich (il perturbante, di cui teorizzava Sigmund Freud, in un celebre saggio del 1919). Si aggiunge l'effetto favolistico costruito con mille elisioni e meraviglie per poi alzare il sipario con un colpo di scena da lasciare a bocca aperta. Naturalmen-te, non si tratta di etichette dal tono filologico. Gli autori citati vanno intesi come, ap-punto, l'illustrazione di una grana. Quella della fiction che parte da lontano. Insomma, non c'è innocenza della letteratura. Raccontare storie è sempre un artificio, come scrivere un'introduzione. Ed Eschbach è un maestro di favole.

Chi. è Andreas Eschbach? Per chi ama il destino delle parole, l'etimologia del suo nome rimanda a ruscelli e frassini. È nato a Ulm, una città del Baden-Württemberg a Sud della Foresta Nera, nel 1959. Oggi vive nei pressi di Stoccarda. Si è laureato in tecnica aerospaziale e in seguito ha diretto una società per lo sviluppo di software. Ha scritto i primi racconti a dodici anni, pubblicati in diverse riviste letterarie. Nel 1994, ha ricevuto la borsa di. studio della Fondazione Amo Schmidt assegnata ai nuovi scrittori tedeschi di grande talento. Oltre a Miliardi di tappeti di capelli, ha pubblicato altri quattro romanzi: Solarstation (Stazione solare, 1996), Jesus Video, (1998), Kel-witts Stem (La stella di Kelwitt, 1999). Va ricordato anche un romanzo breve di cin-quantasei pagine uscito nella serie di Perry Rodhan con il titolo: Der Gesang der Stil-le (Il canto del silenzio, Perry Rodhan - 1935, 1998). Vediamo qualche storia da vici-no. È con Solarstation che Eschbach consolida la sua notorietà. 2015: Il Giappone è una potenza di primo piano nelle tecnologie spaziali. Così non stupisce che abbia in-viato in orbita la stazione spaziale Gippone. La stazione dispone di un gigantesco si-stema a vele che dovrebbe catturare l'energia solare e trasferirla sulla Terra. Ma i primi tentativi sono fallimentari ed entra in campo Leonard Carr. Si occupa di main-tenance & security. Quindi, è una sorta di 'tuttofare dello spazio'. Ma nasce il sospetto che dietro i tentativi andati a vuoto ci sia un vero e proprio sabotaggio. A quel punto, Leonard si deve interessare davvero della sicurezza, e scopre molto rapidamente che il compito assegnatogli non è del tutto esente da pericoli… Nell'agosto 1998, segue il massiccio Jesus Video. Anche in questo romanzo torna lo schema del thriller tecnolo-gico, tanto che è stato paragonato al migliore Michael Crichton: un gruppo di archeo-logi, nel corso di scavi in Palestina, scopre all'interno di una tomba antica di duemila anni le istruzioni d'uso di una videocamera non ancora entrata in produzione. Dopo alcune ricerche, si conferma che il curioso ritrovamento è antico quanto l'anonimo scheletro lì sepolto. Va da sé che sorgono delle inquietanti domande sulla possibilità dì viaggi nel tempo, ma soprattutto sull'esistenza di un video con le immagini di Gesù

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Cristo, memorizzate su un innovativo supporto di silicio. Viaggi nel tempo, si diceva, e lo scrittore di fantascienza Peter Eisenhart viene incaricato di trovare delle risposte plausibili proprio nella fiction, ma l'archeologo Stephen Foxs, il mogul dei media John Kaun e nientemeno che il Vaticano sono in agguato per sfruttare a loro vantag-gio, e in modo diverso, la scoperta. Comincia una corsa forsennata al ritrovamento del video, raccontata da Eschbach con geniali colpi d'azione e svolte improvvise. Il plot presenta sempre nuove sorprese tanto da sbalordire il lettore a ritmi di alta suspense e un'alternanza tra tempi lenti e accelerazioni improvvise. Basti dire che è stato uno dei libri più letti in Germania. Scaffali svuotati in poche settimane. In asso-luto, il romanzo più venduto su Amazon.de, ancora alla fine del 2000. Invece, di alieni tratta Kelwitts Stern: sul pianeta Jombuur, nelle profondità della Via Lattea, è costu-me regalare a ogni nuovo nato una stella. Divenuti adulti, i jombuurani visitano il lo-ro astro, creduto un vero oracolo, allo scopo di apprendere quello che la vita gli riser-va. Lo spensierato Kelwitt arriva sulla Terra e, quando nota che è abitata, plana nella Schwäbischen Alb, un'amena regione nei pressi di Dim… Una storia dall'idea sem-plice, ma per nulla noiosa, in cui Eschbach si misura con i servizi segreti e con toni di acuta ironia.

Il romanzo che la Fanucci presenta oggi in traduzione italiana è uscito in lingua o-riginale come Die Haarteppichknüpfer (letteralmente: i tessitori di tappeti di capelli): racconta infatti dì tessitori che annodano tappeti con i capelli delle loro donne e figlie, per ornare il palazzo di un immortale Imperatore. I tessitori dedicano a questa attività tutta la vita, producendo i dispendiosi tappeti. A poco a poco, il lettore attraversa i singoli capitoli costruiti come tanti quadri narrativi, o meglio come novelle, che con-ducono a un labirinto di rimandi interni: stelle, pianeti, città arcaiche e personaggi coinvolti in un destino universale. La narrazione assume i toni della riflessione sul potere e sulla manipolazione religiosa, sulla contaminazione tra fede e finzione, sulla solitudine, sul disegno esistenziale che non arriviamo a percepire. E tutto si rivela come un enigma controllato dal meccanismo dell'oblio. Quest'ultimo è inconsape-volmente incarnato da personaggi mossi dalla forza di una Storia che non riescono ad afferrare perché frutto di un segreto che la domina. Per riflettere, dobbiamo trovare, è proprio il caso di dirlo, il filo delle storie, che ci attira in mondi alla Mad Max. Da un lato ci sono le tecnologie spaziali avanzate e dall'altro le popolazioni post-atomiche, tornate ai riti di civiltà dimenticate, alle scenografie medioevali, alle rovine di abban-donati splendori barocchi. Il romanzo è una miscela tra thriller, fantascienza e atmo-sfere perturbanti, e avrà nel maggio 2001 un attesissimo sequel con il nuovo Quest, ambientato 80.000 anni prima, nello stesso scenario di Miliardi di tappeti di capelli.

Con le sue opere, Eschbach ha vinto innumerevoli rìconoscimenti. Il Kurd LaBwitz Preis, assegnatogli nel 1997, nel 1998 e nel 1999, è certamente il premio più presti-gioso. Bisogna menzionare anche il premio letterario del Science Fiction Club Deu-tschland, espressione del fandom, vinto a più riprese tanto che Eschbach è stato e-scluso dall'edizione 2000, per manifesta capacità di sedurre i lettori e la critica, ormai concordi nel considerare Eschbach la più luminosa stella della fantascienza tedesca e l'apripista di un gruppo di autori di cui, probabilmente, vedremo presto gli esiti anche in Italia. Commentando Miliardi di tappeti di capelli, l'autorevole Jacques Badou ha scritto su Le Monde (1 ottobre 2000): «l'apparizione di un'opera tanto compiuta e no-

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tevole come questo romanzo di Andreas Eschbach ha l'effetto di un'esplosione, del tutto paragonabile all'arrivo di Valerio Evangelisti.» Se vi pare poco…

Robin Benatti

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Il tessitore

Nodo dopo nodo, giorno dopo giorno, per tutta la vita, faceva incessantemente sempre gli stessi movimenti della mano, annodava sempre gli stessi sottili capelli. Nel corso del tempo, erano talmente fini ed esigui da far diventare le dita sempre più tremolanti e gli occhi sempre più deboli per la fatica. I progressi del lavoro erano a malapena visibili. In una giornata, quando procedeva di buona lena, nasceva un nuo-vo lembo di tappeto. Forse, grande quanto l'unghia di un dito. Così, egli si rannicchiò dì fronte allo scricchiolante telaio a cui era già stato seduto il padre, e prima il padre del padre, nella medesima posa curva, con la vecchia lente d'ingrandimento mezza sporca davanti agli occhi, le braccia sostenute dalla tavola consumata e premuta sul petto utile per dirigere gli aghi con la punta delle dita. Stringeva nodo dopo nodo, nel-la maniera tradizionale tramandatagli da generazioni e generazioni, fino a quando non entrò nella piacevole condizione della trance; la schiena smise di fargli male e non sentiva più la vecchiaia che nel frattempo gli si era infiltrata nelle ossa. Mentre il ven-to lambiva senza fine il tetto e s'infilava nelle finestre aperte, ascoltava i diversi ru-mori della casa costruita dal nonno del bisavolo: gli giungevano i suoni del battere delle stoviglie, delle conversazioni tra donne e figlie nella cucina dabbasso. Ogni ru-more gli era familiare. Ascoltava la voce della levatrice, ospite da alcuni giorni in ca-sa, perché Garliad, la concubina, stava per partorire. Sentì chiocciare la campanella della porta principale. Poi, il cigolio e il sopraggiungere dell'eccitazione nelle conver-sazioni mormorate. Era probabilmente la venditrice ambulante. Oggi, sarebbe dovuta venire con le vivande, i tessuti e gli altri oggetti. Dopo, seguirono i passi pesanti che fecero scricchiolare le scale fino al laboratorio di tessitura. Probabilmente una delle donne gli portava la colazione. In quel momento, di sotto, avrebbero invitato l'ambu-lante a sedersi al tavolo, per conoscere i più recenti pettegolezzi e farsi rifilare qual-che inutile cianfrusaglia. Egli sospirò, strinse il nodo a cui era giunto, ripose la lente d'ingrandimento e si voltò.

Garliad stava sulla porta con il ventre enorme, un piatto fumante in mano, e aspet-tava che lui le permettesse con un gesto impaziente di avvicinarsi.

«Cosa hanno in mente le altre donne per farti lavorare nella tua condizione?» bron-tolò.

«Vuoi partorire mia figlia sulle scale?» «Oggi mi sento molto bene, Ostvan» ribatté Garliad. «Dov'è mio figlio?» Lei esitò. «Non lo so.» «Allora, me lo posso immaginare!» sbuffò Ostvan. «In città! In quella scuola! A

leggere libri, finché gli occhi gli fanno male e gli frullano idee bizzarre in testa!» «Ha detto che ha provato a riparare la stufa. Poi è partito per cercare qualche pezzo

di ricambio.»

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Ostvan si alzò con forza dallo sgabello e le prese il piatto dalle mani. «Maledico il giorno in cui gli ho permesso di andare in quella scuola di città. Dio non mi aveva prediletto fino a quel momento? Non mi aveva donato cinque femmine e un solo ma-schio, affinché non dovessi uccidere un figlio di troppo? Le mie donne e figlie non hanno i capelli di tutti i colori, affinché non li debba colorare e possa tessere un tap-peto degno dell'Imperatore? Perché non mi riesce di fare del mio ragazzo un buon tessitore, tanto che io possa sedere accanto a Dio per aiutarlo ad annodare il grande tappeto della vita?»

«Ti lamenti della tua sorte, Ostvan.» «Non ci si deve lamentare di un figlio simile? Immagino la ragione per cui la ma-

dre evita di portarmi il cibo.» «Dovrei chiederti il denaro per l'ambulante» disse Garliad. «Soldi! Sempre solo soldi!» Ostvan appoggiò il piatto sul davanzale della finestra e

strascicò i piedi fino a una cassapanca di ferro battuto, decorata con la fotografia del tappeto tessuto dal padre. Il denaro che rimaneva dalla vendita del tappeto era impac-chettato dentro degli scrigni sui quali erano riportati i numeri degli anni a venire. Tirò fuori una moneta. «Prendi. Ma pensa che il denaro ci deve bastare per resto della no-stra vita.»

«Sì, Ostvan.» «Quando Abron ritornerà, mandalo subito da me.» «Sì, Ostvan.» E se ne andò. «Che vita, solo preoccupazioni e grane!» Ostvan spostò una sedia verso la finestra e si chinò per mangiare. Lo sguardo si

perse nella distanza del luogo deserto, roccioso e sterile. In passato usciva ancora, cercando certi minerali necessari per comporre misture segrete. Era anche stato alcu-ne volte in città, per acquistare dei prodotti chimici o degli attrezzi. Ma nel frattempo aveva accumulato tutto quello che gli sarebbe servito per il tappeto. Chissà se sarebbe più uscito di casa. Non era neppure giovane; avrebbe presto finito il tappeto, e allora sarebbe venuto il momento di pensare alla morte.

Più tardi, nel pomeriggio, dei passi veloci sulle scale interruppero il lavoro del tes-sitore. Era Abron.

«Mi volevi parlare, padre?» «Eri in città?» «Ho acquistato della carbonella per il riscaldamento.» «Abbiamo ancora della carbonella in cantina, ce n'è a iosa per generazioni.» «Non lo sapevo.» «Me l'avresti dovuto chiedere. Ogni pretesto per andare in città è buono.» Abron si avvicinò, senza essere esortato a farlo. «Lo so, non ti piace che io vada

spesso in città e neppure che legga dei libri. Ma non posso fare altrimenti, padre, è così interessante… Ci sono tanti altri mondi… C'è tanto da studiare, molti altri modi in cui la gente vive…»

«Non voglio sentirne parlare. Per te, c'è solo una maniera di vivere. Ti ho insegna-to tutto quello che un tessitore di capelli deve sapere, è abbastanza. Puoi creare tutti i tipi di nodi conosciuti, ti ho iniziato alle tecniche della colorazione, a quelle dell'im-pregnare, e hai appreso i motivi tradizionali. Quando avrai progettato il tuo tappeto, ti

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prenderai una moglie che ti darà molte figlie dai capelli variamente colorati. Al ma-trimonio, libererò il mio tappeto dal telaio, gli farò i bordi, te lo donerò e tu lo vende-rai in città ai mercanti imperiali. È ciò che ho fatto col tappeto di mio padre e, in pas-sato, è quello che mio padre ha fatto con il tappeto del padre e lui, prima ancora, con il tappeto del padre, il mio bisavolo; accade di generazione in generazione, da mi-gliaia di anni. Nello stesso modo in cui estinguerò il mio debito con te, tu lo estingue-rai con tuo figlio e così via. Avviene da sempre e accadrà ancora e per sempre.»

Abron gemette preoccupato. «Sì, certo, padre, ma l'idea non mi rende affatto felice. Preferirei non essere un tessitore.»

«Sono un tessitore di tappeti di capelli e perciò sarai un tessitore anche tu!» Ostvan indicò con un gesto agitato il tappeto ancora incompiuto sul telaio. «Per tutta la vita ho fatto nodi a questo tappeto, la mia intera vita, e il ricavato te lo ricorderai nel corso della tua. Hai un debito con me, Abron, ed esigo che tu lo estingua per tuo figlio. Prego Dio che non ti dia tanti dispiaceri come tu stai facendo con tuo padre!»

Quando replicò, Abron non osò guardarlo negli occhi: «Girano voci in città, si dice che ci sia una ribellione e che l'Imperatore debba abdicare… Chi pagherà ancora i tappeti di capelli, se non c'è più l'Imperatore?»

«Che possano cadere le stelle anziché la gloria dell'Imperatore!» minacciò Ostvan. «Non ti ho insegnato questa frase quando potevi appena sederti accanto al telaio? Credi che qualcuno possa riuscire facilmente a rovesciare l'ordine creato da Dio?»

«No padre, mormorò Abron. Naturalmente no.» Ostvan lo squadrò con lo sguardo. «Va' adesso e lavora all'abbozzo del tuo tappe-

to.» «Sì, padre.» La sera tardi, Garliad ebbe le doglie. Le donne l'accompagnarono nella stanza che

avevano adibita al parto; Ostvan e Abron restarono in cucina. Ostvan prese due bicchieri, una bottiglia di vino e bevvero in silenzio. Udirono

Garliad gridare e gemere nella stanza del parto. Poi, per un lungo periodo, non accad-de nulla. Sarebbe stata una lunga notte.

Quando il padre andò a prendere la seconda bottiglia di vino, Abron gli chiese: «Se fosse un maschio?»

«Lo sai bene quanto me» rispose Ostvan incupito. «Che cosa farai, allora?» «Da tempi eterni vale la legge secondo cui un tessitore di capelli può avere un solo

figlio, perché un tappeto può dare nutrimento a una sola famiglia.» Ostvan indicò la vecchia spada macchiata appesa alla parete. «Con questa tuo nonno ha ucciso i miei due fratelli, il giorno della loro nascita.»

Abron tacque. «Hai detto che Dio ha voluto quest'ordine delle cose» gli uscì final-mente fuori. «Dev'essere un Dio crudele, non trovi?»

«Abron!» tuonò Ostvan. «Non voglio avere nulla a che fare con il tuo Dio!» gridò Abron, uscendo in fretta

e furia dalla cucina. «Abron! resta qui!» Ma Abron infilò le scale per correre verso i dormitori e non tornò più. Così Ostvan attese da solo, senza bere.

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Trascorsero le ore e i pensieri gli oscurarono il volto. Finalmente, le prime grida di un bambino si confusero a quelle della partoriente e Ostvan udì le donne lamentarsi e piangere a dirotto. Si alzò pesantemente, come se ogni movimento gli procurasse sof-ferenza, prese la spada dal muro e l'appoggiò sul tavolo.

Dopo attese in piedi con rassegnata pazienza, finché la levatrice uscì dalla stanza del parto, con il neonato in braccio.

«È un piccolo» disse con calma. «Lo ucciderete, signore?» Ostvan guardò il viso rosa e grinzoso dell'infante. «No» disse. «Che viva. Voglio

chiamarlo Ostvan, esattamente come me. Gli insegnerò il mestiere di tessitore di tap-peti di capelli e, se non dovessi vivere a lungo, un altro ne terminerà l'istruzione. Por-talo di nuovo dalla madre e informala su quello che ti ho detto.»

«Sì, signore» disse la levatrice e riportò il bambino fuori dalla cucina. Ostvan prese la spada dal tavolo, salì nei dormitori e uccise Abron, il figlio.

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Il mercante

Yahannochia si stava preparando per l'arrivo annuale del mercante di tappeti di ca-pelli. Per la città fu un risveglio. Altrimenti sarebbe rimasta immobile sotto il sole co-cente, come il resto dell'anno. Si cominciò con le ghirlande, apparse sotto i bassi tetti, e con i magri fasci di fiori, fatti per nascondere le pareti maculate delle case. Di gior-no in giorno le piccole bandiere multicolori svolazzavano nel vento che spazzava le cime dei tetti e gli odori uscivano dalle pentole delle buie cucine per raccogliersi pe-santemente negli stretti vicoli. Tutto doveva essere pronto per la grande festa. Le donne spazzolavano per ore i loro capelli e quelli delle figlie più mature. Finalmente, gli uomini si riparavano le scarpe. I suoni stridenti e tintinnanti delle fanfare si eserci-tavano mischiandosi al mormorio onnipresente delle voci eccitate. I bambini non gio-cavano silenziosi e tristi nei vicoli come d'abitudine, ma portavano gli abiti più raffi-nati e correvano in giro gridando. Era un'attività multicolore, una festa dei sensi, l'at-tesa febbricitante del grande giorno.

E il momento arrivò. Inviati in esplorazione fuori dalla città, i cavalieri tornarono suonando la tromba tra i vicoli e annunciarono: «Sta per arrivare il mercante!»

«Chi è?» gridarono mille e mille gole. «Le carrozze portano i colori del mercante Moarkan» dissero le vedette dando di sprone ai loro animali per galoppare ancora più lontano. Le mille e mille gole portarono con loro il nome del mercante, fecero il giro di case e capanne, e ciascuno seppe commentare a suo modo la notizia. «Moarkan!» Si ricordarono quando Moarkan era stato l'ultima volta a Yahannochia e quali merci dì città lontane aveva messo in vendita. «Moarkan!» Si fecero delle supposizioni sulla provenienza del mercante, da quali città avrebbe portato le notizie o addirittura le let-tere. «Moarkan arriva…!»

Ma ci vollero ancora due pieni giorni prima che l'immenso seguito del mercante entrasse in città.

Innanzi a tutti arrivarono i fanti, marciavano in testa al seguito della carrozza. Di lontano, sembravano un unico gigantesco bruco richiuso su se stesso, un bruco dalle luccicanti spine dorsali che giungeva verso Yahannochia seguendo la strada mercan-tile. Più da vicino si riconoscevano gli uomini negli armamenti di cuoio che innalza-vano le lance verso il cielo, in modo tale che la luce del sole brillasse proprio sulle lame.

Stanchi, avanzavano faticosamente, i visi erano incrostati di polvere e sudore, gli occhi erano apatici e persi nel vuoto. Tutti portavano sulla schiena le insegne colorate del mercante, come fossero marchiati a fuoco.

Li seguivano i soldati a cavallo. Percorrevano la strada sugli ansimanti animali da sella imbrigliati a fatica, erano armati con spade, elmi di ferro, fruste pesanti e coltel-li. Qualcuno portava fieramente un'antica pistola a raggi piena di graffi appesa alla cintura, e tutti guardavano dall'alto in basso, in modo arrogante, la popolazione della

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città che fiancheggiava la strada. Ahimè, qualcuno si avvicinò troppo alla carovana! Subito si fece sentire la frusta; schioccando a destra e a manca, i cavalieri aprirono un ampio varco tra i curiosi per fare posto alle carrozze e ai carri che seguivano.

Le carrozze erano trainate da grandi, pelosi bufali baraq, bufali la cui pelliccia puz-zava come solo i bufali baraq possono puzzare. Con le ruote dall'imperfetta rotondità rinforzate in ferro battuto, cigolando, sferragliando e traballando, le carrozze arriva-rono schiacciando a stento i solchi inariditi delle vie cittadine. Ognuno sapeva che le carrozze erano cariche di cose preziose provenienti da regioni lontane, piene di sacchi di spezie rare, balle di finì tessuti, barili di costose ghiottonerie. Colme di legni nobili e piccoli scrigni zeppi fino all'orlo di inestimabili gemme. I cocchieri guardavano lo spettacolo con inaudita ferocia, seduti ai loro posti di guida, mentre spingevano gli impassibili bufali in marcia, affinché non si arrestassero di fronte all'insolita eccita-zione che li circondava.

Decorata magnificamente e trainata da sedici bufali, arrivò la grande carrozza nella quale il mercante abitava con la famiglia. Tutti allungarono il collo nella speranza di poter gettare un sguardo direttamente su Moarkan, ma il mercante non si fece vedere. Le finestre erano dissimulate da tende e sulla cassetta di guida sedevano solo due cocchieri di cattivo umore.

Poi, finalmente, arrivò il carro con i tappeti di capelli. Un mormorio si alzò tra la folla ai bordi della strada. Non si contarono meno di ottantadue bufali con il compito di trainare il colosso di acciaio. Il contenitore blindato non evidenziava alcuna fine-stra o botola, solo una stretta porta di cui unicamente il mercante possedeva la chiave. Scricchiolando con violenza, le otto larghe ruote del gigante che pesava tonnellate scavavano solchi nelle profondità della strada e il cocchiere doveva costantemente prendere a colpì di frusta la pelliccia dei bufali per procedere. Il carro era accompa-gnato da soldati a cavallo. Essi scrutavano sospettosamente i paraggi, come se temes-sero, a ogni istante, di essere derubati o attaccati da una forza superiore. Tutti sapeva-no che il carro trasportava i tappeti di capelli acquistati dal mercante nel corso del viaggio e, inoltre, il denaro per i tappeti di capelli che avrebbe dovuto acquistare, de-naro a palate.

Seguirono altre carrozze: le carrozze in cui vivevano gli alti servitori del mercante, quelle per il vettovagliamento dei soldati e l'assistenza dei mezzi di trasporto, per il trasporto delle tende da campo e ogni tipo di attrezzi di cui la carovana avrebbe avuto bisogno. In coda al seguito correvano i bambini della città, che urlavano e fischiavano e gridavano pieni di entusiasmo per l'emozionante spettacolo.

Guidato da suoni di fanfara, la carovana rollò pesantemente sulla piazza del merca-to. Le bandiere gli stendardi sventolavano sugli alti pennoni e gli artigiani della città misero mano agli ultimi preparativi delle loro bancarelle approntate in un angolo del grande mercato per mettere in vendita le loro merci, nella speranza di fare un buon affare con i clienti del mercante. Quando le carrozze della carovana si fermarono, an-che i servitori del mercante cominciarono subito a montare banchi e tende per la ven-dita. Il luogo risuonava di voci confuse, di grida e risate, del battere di attrezzi e aste. Gli abitanti di Yahannochia si raccolsero timidamente ai margini dello spettacolo, perché i soldati a cavallo attraversavano con i loro fieri animali l'animato andirivieni e mettevano minacciosamente mano alle fruste assicurate nelle cinture, nel caso che

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qualche popolano facesse mostra di troppa indiscrezione. I dignitari della città appar-vero nelle vesti più sfarzose, scortati dai soldati dell'urbe. Le persone della carovana fecero loro spazio e liberarono un passaggio lungo il quale si avviarono verso la car-rozza di Moarkan. Là, aspettarono pazientemente, finché dall'interno non fu aperta una finestrella. Il mercante diede un'occhiata fuori. Poi scambiò alcune parole coi di-gnitari e fece un segno al servitore.

Il banditore del mercante percorse agilmente il tetto della carrozza. Come un sauro rampicatore, si mise a gambe aperte e, a braccia distese, gridò: «Yahannochia! Il mercato è aperto!»

«Da qualche tempo sentiamo delle strane voci sull'Imperatore» disse uno dei digni-tari della città a Moarkan, mentre attorno cresceva l'agitazione per l'apertura del mer-cato. «Forse, ne sapete qualcosa di più?»

I piccoli occhi astuti di Moarkan diventarono ancora più acuti. «Di quali voci par-late, signore?»

«Si tratta della voce secondo cui l'Imperatore avrebbe abdicato.» «L'Imperatore? L'Imperatore può abdicare? Il sole può brillare in sua assenza? Le

stelle del cielo notturno non dovrebbero altresì spegnersi?» Il mercante scosse l'adi-posa testa. «E perché i navigatori delle astronavi imperiali mi comprano ancora i tap-peti di capelli? Anch'io ho sentito tali voci, ma non ne so davvero nulla.»

Nel frattempo, su un grande palco decorato, gli ultimi preparativi per il rituale ven-nero terminati. La vera ragione per l'arrivo del mercante era: la consegna dei tappeti di capelli.

«Cittadini di Yahannochia, avvicinatevi e osservate!» gridò il maestro delle ceri-monie, un gigante dalla barba bianca vestito di marrone, nero, rosso e oro, i colori della corporazione dei tessitori di capelli. La gente si contenne per volgere lo sguardo verso il palcoscenico e avvicinarsi.

Nel corso dell'anno erano stati tredici i tessitori di capelli che avevano finito i tap-peti e adesso erano pronti a offrirli ai loro figli. I tappeti erano fissati su grandi telai e coperti con panni grigi. Dodici dei tessitori di capelli erano presenti, curvi vecchi che si tenevano faticosamente sulle gambe e ammiccavano in giro con gli occhi mezzi ciechi. Un tessitore di tappeti di capelli era già morto e fu rappresentato da un mem-bro più giovane della corporazione. Sull'altro lato del palco, si trovavano tredici ra-gazzi, i figli degli anziani tessitori di tappeti.

«Cittadini di Yahannochia, gettate uno sguardo ai tappeti che decoreranno il palaz-zo dell'Imperatore!» Come ogni anno, quando i tessitori scoprirono le opere della loro vita, un mormorio rispettoso attraversò la folla.

Ma questa volta una nota di dubbio si confuse nello spartito delle voci. «Non avete sentito che l'Imperatore ha abdicato?» chiese qualcuno.

Il fotografo che viaggiava con la carovana del mercante salì sul palco e offrì i suoi servigi. Per tradizione, ogni tappeto venne fotografato e, con le dita tremolanti, ogni tessitore ricevette l'immagine che il fotografo aveva realizzato con l'apparecchio vec-chio e rovinato.

Dopo, il maestro delle cerimonie tese le braccia in un gesto tanto ampio da invitare

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alla calma, chiuse gli occhi e attese fino a quando il silenzio non sopraggiunse nella grande piazza in cui tutti, ora, si trattenevano per seguire ammaliati gli avvenimenti sul palco.

Le conversazioni cessarono, gli artigiani che lavoravano ai loro banchi abbandona-rono gli attrezzi; ciascuno restò in piedi al suo posto. Poco alla volta si affermò il si-lenzio, un silenzio perturbato solo dal fruscio dei vestiti e dai gemiti del vento tra le travi delle alte case.

«Manifestiamo la nostra riconoscenza all'Imperatore per tutto ciò che possediamo e tutto ciò che siamo» disse solennemente pronunciando la formula rituale. «Facciamo offerta dell'opera della nostra vita per ringraziare colui per cui viviamo e senza di cui non saremmo nulla. Come gli altri mondi dell'Impero, anche il nostro porta un contri-buto all'ornamento del palazzo imperiale; così siamo fortunati e felici dell'onore di rallegrare con la nostra arte lo sguardo dell'Imperatore. Egli, il creatore delle stelle più brillanti e dell'oscurità più profonda del cielo che le separa, ci fa l'insigne grazia di porre il passo sull'opera delle nostre mani. Gli sia resa gloria, adesso e per l'eterni-tà.»

«Gli sia resa gloria» mormorarono gli uomini e le donne accalcate sulla grande piazza, mentre reclinavano il capo. Al segnale del maestro delle cerimonie, venne battuto il gong. «L'ora è venuta, che sia rinnovato il patto eterno dei tessitori. Ogni generazione avrà un debito verso la generazione che la precede e dovrà estinguerlo verso i propri figli. Siete disposti a rispettare il patto?» disse all'indirizzo dei ragazzi.

«Lo siamo» risposero in coro. «Allora ricevete l'opera dei vostri padri e accettate di essere loro debitori» disse il

maestro delle cerimonie concludendo la formula e ordinando con un gesto il secondo colpo di gong.

I vecchi tessitori estrassero i coltelli e troncarono con precauzione i legamenti che sorreggevano i tappeti sui telai. Liberare il tappeto dal telaio era l'atto simbolico con cui ciascuno di loro metteva termine all'opera di una vita. Uno dopo l'altro, i figli si avvicinarono ai padri che arrotolavano con cura i tappeti e glieli depositavano su le braccia, non pochi con le lacrime agli occhi.

Quando l'ultimo tappeto fu consegnato, uno scroscio di applausi si abbatté sulla piazza, la musica cominciò a risuonare e la rumorosa agitazione del mercato si tramu-tò in festa, riprendendo come una diga che avesse appena ceduto.

Dirilja, la bella figlia del mercante, aveva seguito il rituale della consegna dei tap-peti dalla finestra della carrozza e, quando la musica risuonò, dagli occhi le sgorgaro-no le lacrime. Ma erano lacrime di dolore. Piangendo, appoggiò il capo contro il vetro e immerse le dita tra i biondi capelli dalle sfumature di rosso veneziano.

Moarkan si trovava davanti allo specchio, occupato a curare il drappeggio del son-tuoso e scintillante mantello; sbuffò rumorosamente di rabbia. «Sono trascorsi più di tre anni, Dirilja! Avrà trovato un'altra e tutte le lacrime del mondo non potranno cam-biare nulla.»

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«Però, ha promesso di aspettarmi!» singhiozzò la ragazza. «Bah! Si dice qualsiasi cosa quando si è innamorati» replicò il mercante. «Ed è fa-

cile dimenticare velocemente tutto. Un ragazzo dal sangue caldo lo promette a una donna almeno ogni tre giorni.»

«Non è vero. Non lo crederò mai. Ci siamo giurati amore eterno, fino alla morte, ed era un giuramento tanto sacro quanto quello del cerchio dei giovani tessitori.» Moarkan osservò la figlia in silenzio, per un istante. Poi, scosse la testa sospirando. «Lo conoscevi appena, Dirilja. E credimi, un giorno ti rallegrerai che le cose abbiano preso questa piega. Ti immagini la vita della moglie di un tessitore? Non puoi petti-narti senza che non ti fiati alle spalle, per raccogliere ogni capello trattenuto dalla spazzola. Devi condividerlo con una, due o più donne. E quando gli partorirai un bambino, dovrai attenderti che ti venga strappato dal seno. Con Buarati, al contra-rio…»

«Non voglio diventare la donna di un grasso e obeso mercante, neanche per tutti i tappeti del mondo!» gridò Dirilja, lasciando esplodere la collera.

«Come vuoi» replicò Moarkan. Si rigirò verso lo specchio e si passò al collo la pe-sante catena d'argento, il simbolo della casta alla quale apparteneva. «Ora devo la-sciarti.» Aprì la porta e il baccano del mercato si riversò subito all'interno. «Per il re-sto, invece, sembrerebbe che il destino mi sia propizio, grazie all'Imperatore!» disse uscendo.

Accompagnato dal maestro della Gilda dei tessitori, il mercante salì sul palco per stimare i tappeti e acquistarli. Moarkan si avvicinò maestosamente verso il primo e-rede e si fece mostrare il tappeto che aveva ricevuto; con le dita grassocce, palpò la consistenza dei nodi e considerò minuziosamente i motivi prima di proferire il prez-zo.

La musica continuò imperturbabile; gli eventuali curiosi che assistevano alla scena potevano afferrare solo i gesti del mercante e le reazioni del tessitore, quando gli pro-poneva il prezzo. La discussione veniva invece inghiottita dal tumulto del mercato.

Solitamente i ragazzi si accontentavano di fare un cenno con la testa in segno di consenso, con il viso pallido, ma senza fare trasparire alcuna emozione. Poi il mer-cante ingiungeva a uno dei servitori, tenutosi ad alcuni passi, di avvicinarsi e gli dava un paio di concisi ordini. Allora, aiutato da un piccolo numero di soldati, si incaricava delle formalità: portare e consegnare il denaro, trasportare il tappeto nel carro blinda-to, mentre Moarkan trattava già l'acquisizione del tappeto successivo.

Il maestro della Gilda interveniva quando il prezzo proposto dal mercante gli sem-brava ingiustamente basso. Talvolta le discussioni salivano di tono e gli animi si scaldavano, ma alla fine dei conti Moarkan era nella posizione del più forte. I tessitori avevano solo una scelta: trattare l'affare con lui o aspettare l'anno successivo, speran-do che il prossimo mercante avrebbe fatto loro una migliore offerta.

All'improvviso uno dei vecchi tessitori, all'annuncio del prezzo proposto da Moar-kan, crollò per terra; morì, alcuni istanti più tardi. Il mercante aspettò che venisse por-tato via il corpo inerme dal palco. Poi riprese la transazione, come se nulla fosse ac-caduto. La folla ammassata di sotto se ne accorse appena. Ciò accadeva pressappoco ogni anno e, tra i tessitori, si considerava questo modo di morire come un grande ono-

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re. La musica non venne interrotta, neppure per un attimo.

Sul fianco che non dava sul palco, Dirilja aprì una finestra della carrozza e si chinò fuori. I lunghi e magnifici capelli fecero colpo sugli occasionali osservatori e, ogni volta che incontrava lo sguardo di qualcuno, gli faceva segno di avvicinarsi per chie-dergli: «Conoscete un ragazzo chiamato Abron?» Alla maggior parte di loro il nome non diceva proprio nulla, ma alcuni lo conoscevano. «Abron? Il figlio di un tessitore, no?»

«Sì, lo conoscete?» «Per un certo periodo si è recato spesso alla scuola, ma il padre era contrario, come

si è sentito dire.» «E adesso? Cosa fa adesso?» «L'ignoro. Da molto tempo non lo si è visto, da parecchio tempo…» Dirilja provò una fitta al cuore, ma quando trovò un'anziana donna che conosceva

Abron si fece forza e le domandò: «Sapete se si è sposato?» «Sposato? Abron? No…» disse la vecchia. «Nel caso che fosse avvenuto, avrebbe

dovuto partecipare alla festa dell'anno scorso o dell'anno prima; e l'avrei saputo per-ché, vedete, la mia abitazione dà dirèttamente sulla piazza del mercato: vivo in un piccolo sottotetto, dall'altra parte…»

Intanto, i preparativi per il rituale nuziale iniziarono. Mentre si vendevano gli ulti-mi tappeti, i padri condussero ai margini del palco le ragazze in età da matrimonio e, quando il mercante e il maestro della Gilda lasciarono la scena, l'orchestra si lanciò in una danza dal pressante ritmo. Ondulando all'incedere della musica, con movimenti seducenti, le ragazze si avvicinarono lentamente verso i giovani tessitori; si tenevano nel mezzo del palco con le cassapanche piene di denaro e osservavano imbarazzati lo spettacolo che si offriva ai loro occhi.

In quel momento i popolani si avvicinarono in massa stringendosi attorno al palco mentre incoraggiavano i giovani applaudendo. Le ragazze muovevano vorticosamen-te le sottane e il movimento delle teste faceva volare i lunghi capelli nella luce del so-le calante, tanto da farli sembrare fuochi fatui. Così, trasportate dalla danza, si avvici-narono verso il ragazzo che più piaceva loro, lo toccavano per un istante sul petto o sulla guancia e arretravano con un salto; lo attiravano, lo affascinavano, gli sorride-vano, ammiccando con gli occhi. Con gesti veloci alzavano la sottana al di sopra del ginocchio e sottolineavano le forme del corpo.

La folla esultò quando uno dei ragazzi si decise ad abbandonare il cerchio ed entrò nella danza per raggiungere una delle ragazze. Lei gli lanciò degli sguardi prometten-ti, arretrando poi con l'aria impaurita, mentre passava lentamente l'estremità della lin-gua sulle labbra socchiuse del tessitore. In tale maniera, sperava di escludere dal gio-co colei che avrebbe tentato la fortuna con lo stesso prescelto. Cercò di attirarlo fino al padre, affinché ne chiedesse la mano pronunciando la formula tradizionale. Poi, come esigeva il costume, il padre manifestò il desiderio di gettare un'occhiata nella cassapanca del tessitore ed entrambi si aprirono un passaggio in mezzo alla danza scalmanata, per raggiungere al centro del palco il cerchio da cui, poco alla volta, altri giovani si allontanavano scegliendo la propria moglie. Là il giovane tessitore doveva

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sollevare il coperchio della cassapanca e, se il padre era soddisfatto del contenuto, dava il consenso. Allora il maestro della Gilda entrava in scena per esaminare i capel-li della donna e, se non c'era nessuna obiezione, decretava l'unione trascrivendola nel registro della corporazione.

Dirilja fissò lo spettacolo, ma non afferrava veramente ciò che stava accadendo da-vanti ai suoi occhi. Il rituale nuziale le sembrava più stupido e futile di un gioco per bambini. Ancora una volta, rivisse le ore che aveva passato con Abron. Tre anni pri-ma, l'ultima volta che la carovana del padre aveva fatto stazione a Yahannochia. Ne rivide il viso, ne sentì di nuovo le labbra, il sapore dei baci che si erano scambiati e le dolci carezze delle sue mani sul corpo; si ricordò il timore che avevano provato all'i-dea di essere sorpresi nella loro intimità, un'intimità che, per due giovani non sposati, aveva ampiamente superato il limite permesso. Ne sentì la voce, e provò la certezza del vero amore.

In un lampo capì che le sarebbe stato impossibile continuare a vivere senza avere lumi sulla sorte di Abron. Certo, poteva provare a dimenticarlo, ma il prezzo che a-vrebbe dovuto pagare sarebbe stato troppo alto: avrebbe sacrificato la coscienza. Non si sarebbe mai fidata di se stessa. Non era una questione di onore ferito, né di ossessi-va gelosia. Se il mondo era fatto in modo tale che una certezza come quella da lei provata potesse essere solo un'illusione, allora non valeva la pena di viverci.

Guardò da tutte le finestre della carrozza, ma non scoprì il padre da alcuna parte. Probabilmente, era con i dignitari della città, per scambiare informazioni e condurre le transazioni segrete.

Nel mercato si accesero le prime fiaccole, mentre Dirilja cominciò a infilare dei vestiti e alcuni oggetti in una piccola bisaccia.

* * *

La musica cessò. Qualche bancarella era già stata smontata, le merci ricaricate nel-le carrozze e il denaro contato. La maggior parte dei popolani era tornata a casa.

Sul palco, la cerimonia del matrimonio tra i giovani tessitori e le loro prime mogli aveva ceduto il passo al mercato delle concubine. Le torce illuminavano la scena con fiamme irrequiete. Un gruppo di uomini aspettava in piedi con le figlie al fianco, del-le ragazze non più tanto giovani. Alcuni anziani tessitori, la maggior parte accompa-gnata dalle mogli, facevano scorrere lo sguardo inquisitore da una all'altra ragazza; palparono le opulente capigliature con le dita esperte e iniziarono a condurre appro-fondite discussioni. La scelta di una concubina non richiedeva alcuna particolare ce-rimonia; era sufficiente che il padre desse l'accordo e la ragazza seguiva il tessitore.

L'indomani mattina, la carovana ritardò la ripresa del viaggio. Le carrozze erano tutte pronte per la partenza, i bufali agitati scalpitavano sul terreno con gli zoccoli, soffiando rumorosamente, e i fanti aspettavano formando un grande cerchio intorno alla carovana. Il sole si alzò sempre più nel cielo, senza che le trombe dessero l'atteso segnale. Si raccontava che Dirilja, la figlia del mercante, fosse sparita. Ma natural-

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mente nessuno osava porre domande. Infine, si sentirono dei cavalli lanciati a vivace andatura galoppare tra i vicoli della

città. Un uomo di fiducia del mercante si diresse in fretta verso la carrozza e bussò a una

delle finestre. Moarkan aprì la porta e uscì, vestito dei più sontuosi abiti, indossando tutti i segni distintivi del titolo che portava. Con il viso pietrificato, aspettò che gli e-sploratori facessero il rapporto.

«Abbiamo cercato ovunque, in città e sulle strade che conducono alle fortezze,» spiegò il capo dei cavalieri «ma non abbiamo trovato da nessuna parte traccia di vo-stra figlia.»

«Non è più mia figlia» disse Moarkan con l'aria cupa. Poi ordinò: «Date il segnale della partenza! Annotate nelle nostre carte che non torneremo mai più a Yahanno-chia.»

Lentamente, ma inesorabilmente, la carovana del mercante si mise in movimento, come una frana di rocce. Questa volta, alla partenza della carovana, solo alcuni bam-bini si tenevano ai bordi della strada. Il mostruoso seguito di carrozze, di animali e di uomini si mise in marcia alzando una nuvola di polvere, lasciandosi alle spalle tracce di ruote e di zoccoli così profondamente impresse nel suolo che ci sarebbero volute parecchie settimane perché scomparissero. Dal nascondiglio situato nei sobborghi della città, Dirilja aspettò che la carovana fosse sparita dietro l'orizzonte. Poi, pazien-tò ancora una giornata prima di arrischiarsi a uscire. La maggior parte delle persone non la riconobbe affatto e altre si accontentarono di abbassare lo sguardo.

Senza attirare l'attenzione, giunse a farsi indicare la via che conduceva alla casa di Ostvan, il tessitore. Provvista di viveri, di una bottiglia d'acqua, di una mantella gri-gia per proteggersi dal sole e dalla polvere, si mise in cammino.

A piedi, il tragitto era lungo e faticoso. Osservò con molta invidia una piccola e decrepita venditrice ambulante che gli veniva incontro su un asino, tirandosi dietro due altre bestie cariche di una moltitudine di fagotti, di stoffe, di cesti e di borse di cuoio. Sebbene Dirilja possedesse sufficiente denaro per comprarsi qualsiasi animale della città, nessuno avrebbe venduto nulla, neppure un vecchio ronzino a una ragazza che, come lei, viaggiasse sola.

Quando il sentiero sassoso diventò ripido, dovette fare delle pause sempre più fre-quenti e, quando il sole fu alto nel cielo, si rifugiò nell'ombra di una roccia che cade-va a strapiombo sulla strada. Si riposò fino al momento in cui sentì ritornare le forze.

Con questo ritmo, le occorse quasi tutta la giornata per arrivare alla meta. La casa era una costruzione dal tetto a falde, pallida e rovinata dalle intemperie,

come il teschio di un animale morto. Le cavità nere delle finestre sembravano scrutar-la. Dirilja, esausta, si teneva sulla soglia pulita e spazzata dal vento. Si guardò attor-no, tergiversando. Bruscamente una porta si aprì e ne uscì un piccolo bambino dal passo vacillante e insicuro, seguito da una donna snella dai lunghi capelli riccioluti.

Quando Dirilja vide che il bambino era un maschio, il cuore le si appesantì di col-po.

«Scusate, questa è la casa di Ostvan?» chiese a fatica.

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«S'» rispose la donna fissandola dalla testa ai piedi con curiosità. «E voi, chi sie-te?»

«Mi chiamo Dirilja. Cerco Abron.» Un'ombra oscurò il viso della donna. «Perché lo cerchi?» «È che… Credo che fossimo… Sono la figlia di Moarkan, il mercante. Abron e io

ci eravamo promessi… Ma non è venuto e…» Le parole le restarono in gola quando la donna si avvicinò e l'abbracciò.

«Mi chiamo Garliad» disse. «Dirilja, Abron è morto.»

Garliad e Mera, la prima moglie di Ostvan, la condussero all'interno. La fecero se-dere e le porsero un bicchiere di acqua. Dirilja raccontò la sua storia e Mera, la madre di Abron, la propria. Quando tutto fu detto, rimasero in silenzio.

«Che cosa dovrei fare, adesso?» chiese Dirilja sottovoce. «Ho lasciato mio padre senza alcun permesso; mi deve ripudiare e, se lo incontrassi di nuovo, sarebbe obbli-gato a uccidermi. Non posso tornare.»

Garliad le prese la mano. Puoi restare qui. Quando gli avremo parlato e spiegato tutto, Ostvan ti prenderà come concubina. Qui sei al sicuro, almeno hai questo» disse Mera, prima di aggiungere: «Ostvan è vecchio. Troppo vecchio per poterti toccare, Dirilja.»

Dirilja scosse lentamente il capo. Lo sguardo le cadde sul bambino seduto per terra che giocava con un piccolo telaio di legno; poi s'incamminò verso la porta spalancata, gli occhi si persero in lontananza, oltre le numerose valli, oltre le creste rocciose, il deserto arido e polveroso, dominato da un sole spietato, da un vento incessante. Allo-ra aprì la bisaccia e cominciò tirare fuori le proprie cose.

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Il predicatore

L'improvvisa folata di vento lo spettinò, portandogli ciocche di capelli sul viso. Li rimise a posto con un gesto rabbioso, per fissare poi con malcontento i capelli bianchi rimasti tra le dita. Ogni testimonianza del corso inesorabile degli anni lo contrariava. Scosse le mani, come per sbarazzarsi nello stesso momento di tali pensieri.

Si era attardato già troppo tra le case in cui si trovava; aveva tentato troppo spesso di far ricredere i padri ricalcitranti. L'esperienza di una lunga vita l'avrebbe dovuto convincere che perdeva solo tempo. Ora, il vento della sera si era alzato e gli frustava il grigio mantello; iniziò a fare freddo. I lunghi sentieri solitari che serpeggiavano tra le abitazioni sperdute dei tessitori gli pesavano ogni anno sempre di più. Decise di fa-re una sola visita, prima di prendere la strada del ritorno. La casa di Ostvan era pro-prio sul tragitto.

Tuttavia, la vecchiaia aveva dei vantaggi che lo consolavano: gli conferiva un'auto-rità e una rispettabilità che l'ufficio poco considerato di maestro di scuola non gli a-veva mai attribuito.

Gli accadeva sempre più raramente di dover discutere con i padri sulla frequenza scolastica dei bambini o sul pagamento della retta per l'anno successivo. E, più spes-so, bastava un semplice e severo sguardo a soffocare simili obiezioni.

Ma se avessi possibilità di scelta, tutto ciò non sarebbe una ragione sufficiente per convincermi a invecchiare, pensò, arrampicandosi faticosamente sulla strada in salita. Aveva preso l'abitudine di essere in anticipo sul calendario e di raccogliere i fondi prima del previsto, per poter effettuare i giri durante la stagione del freddo. Difatti, le giornate trascorse sulla strada erano sempre spossanti. In particolare quando doveva rendere visita ai tessitori che abitavano tutti fuori della città; ma se voleva ottenere qualche cosa da loro, occorreva visitarli anche per riguardo alla loro casta. Ed egli non voleva più arrischiarsi a compiere tali visite nella fornace dei primi mesi dell'an-no.

Finalmente, raggiunse lo spiazzo davanti alla casa. Si concesse alcuni minuti per riprendere il fiato, mentre osservava la casa di Ostvan. Era piuttosto vecchia, come la maggior parte delle case dei tessitori. L'occhio acuto del maestro riconobbe nella di-sposizione delle pietre una tecnica di giunzione in uso nei secoli precedenti. Certe co-struzioni erano più recenti, anche se sembravano tutte della stessa epoca.

Chi si interessava a queste cose, oggigiorno? pensò con malumore. Era una forma di sapere che sarebbe scomparsa con lui. Bussò alla porta gettando pure una breve occhiata al proprio aspetto, assicurandosi che l'abito di insegnante fosse in ordine. Avere l'aria corretta era importante, soprattutto qui.

Gli aprì una donna anziana. La riconobbe. Era la madre di Ostvan. «Garliad, ti sa-

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luto» disse Parnag. «Vengo a incassare la retta per Taroa, tua nipote» continuò schiet-to. «Entrate.»

Posò il bastone contro il muro esterno ed entrò alzando i lembi dell'abito. Lei lo in-vitò a sedersi, gli offrì un bicchiere d'acqua poi si ritirò per andare ad avvertire il fi-glio.

Attraverso la porta socchiusa, Parnag poté sentire il passo strascicato con cui saliva le scale che conducevano al laboratorio di tessitura.

Bevve un sorso. Gli faceva bene stare seduto. Fissò la stanza che conosceva per es-sersi già riposato qui all'epoca delle precedenti visite, i muri bianchi e spogli, la spada macchiata appesa alla parete, le bottiglie di vino allineate su un'alta mensola. Attra-verso la porta socchiusa, vide furtivamente nella stanza attigua una delle altre donne del tessitore, occupata a piegare il bucato. Poi sentì camminare di nuovo, era un passo fresco e agile, questa volta. Giunse un ragazzo dal viso emaciato e ostinato. Ostvan il giovane. Aveva la reputazione di comportarsi in modo molto brusco e offensivo con i suoi simili. In sua presenza, si aveva costantemente la sensazione che volesse dimo-strare qualcosa agli altri. Parnag lo trovava antipatico, ma sapeva che Ostvan nutriva per lui un profondo rispetto. Forse intuisce che mi deve la vita, pensò con amarezza Parnag.

Si salutarono cerimoniosamente e Parnag informò l'ospite dei progressi che la fi-glia Taroa aveva fatto durante l'anno. Ostvan approvava ogni frase con un cenno del capo, ma ciò non sembrava interessarlo oltremodo.

«Lo educate all'obbedienza e all'amore per l'Imperatore, non è vero?» s'informò. «Beninteso» rispose Parnag. «Bene» acconsentì Ostvan. Estrasse della tasca alcune monete e pagò la retta. Parnag lasciò la casa, assorto nei pensieri. Venire in questo luogo muoveva i ricor-

di di un tempo lontano, quando giovane e pieno di energie aveva creduto di potere affrontare l'universo intero, e si sentiva sufficientemente forte da carpire i segreti e le verità del mondo.

Parnag sbuffò irritato. Tutto ciò era lontano. Oggi non era che un vecchio uomo bizzarro, torturato dall'eccesso dei ricordi, null'altro. Inoltre, il sole all'orizzonte, nel cielo rosseggiante e nuvoloso, creava sulla pianura delle lunghe zone di ombra con raggi che non erano sufficientemente forti per riscaldare il paesaggio. Parnag avrebbe fatto meglio a sbrigarsi, se voleva ritornare prima dell'arrivo della notte.

Un'ombra in movimento catturò la sua attenzione. Seguendola con lo sguardo, sco-prì all'orizzonte il profilo di un cavaliere. Vide una grande figura, raccolta come se stesse dormendo. Stava su una debole cavalcatura di piccola taglia che con fatica metteva una zampa davanti all'altra.

Senza saperne la ragione, alla vista della scena, ebbe la confusa sensazione che si stesse avverando una disgrazia. Parnag si fermò e strinse gli occhi, senza riuscire, tut-tavia, a vedere meglio. Un cavaliere addormentato che viaggia sul far della notte non era un fatto insolito.

Quando fu ritornato a casa, constatò con disappunto che aveva dimenticato di chiudere la finestra dell'aula scolastica. Per tutto il giorno, l'infaticabile vento del Nord aveva avuto il tempo di gettare e disseminare nel locale la fine sabbia che por-tava con sé dal deserto. Contrariato, Parnag andò a cercare la sfilacciata scopa di pa-

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glia nell'armadio in cui ammucchiava anche i pochi attrezzi didattici in suo possesso. Dovette spazzare la sabbia anche dal telaio della finestra, perché ne disturbava la chiusura. Accese la lampada di terracotta a olio e alla calda luce tremolante si mise al lavoro per pulire i tavoli e le sedie, spolverare le mensole e i libri sciupati dalle lettu-re; infine, spazzò la sabbia caduta per terra.

Dopo, esausto, si sedette su una sedia e si guardò attorno. La luce inquieta, la stan-za nella notte. Anche questo faceva emergere in lui i ricordi che la visita della casa di Ostvan aveva risvegliato. Una volta, era qui che sedevano spesso, leggendo ad alta voce e discutendo quello che avevano sentito, frase dopo frase e mossi dalla passione. È accaduto più di una volta che arrivasse l'alba senza che se ne fossero accorti. In se-guito, da un giorno all'altro, Parnag aveva sciolto bruscamente il piccolo gruppo. La sera, aveva sempre accuratamente evitato di tornare nella stanza.

In quanto ai libri, li possedeva ancora. Li aveva relegati in un angolo buio del so-laio, legati stretti in un vecchio sacco bucato e nascosti sotto un mucchio di combu-stibile. Finché sarebbe vissuto, era fermamente deciso a non tirarli più fuori e lasciarli al successore, se li avesse scoperti.

La disgrazia s'impossessa di colui che inizia a dubitare dell'Imperatore. Strano. Improvvisamente si ricordò che già da bambino la frase l'aveva incuriosito

più di tutte le altre che gli insegnavano. Probabilmente, il dubbio era per lui una ma-lattia congenita e la missione della sua vita era di resistergli. Apprendere la fiducia. Fiducia!

Era molto distante dall'avere fiducia. In verità, pensò amaramente, mi accontento di eludere il tema, ecco tutto.

Ma la disgrazia s'impossessa di colui che inizia a dubitare dell'Imperatore e si ab-batte anche su coloro che ne seguono l'esempio.

All'epoca, era stata una vittoria entrare in possesso dei libri. Uno degli amici aveva intrapreso un viaggio per raggiungere la Città Portuale ed egli era riuscito a persua-derlo di procurarglieli; l'anno seguente, li aveva ricevuti con la sensazione di un trion-fo senza pari. Gli erano costati una somma astronomica, ma ai suoi occhi non aveva-no prezzo. Avrebbe dato anche il braccio destro per leggere i libri venuti da altri pia-neti dell'Impero.

Ma agendo così aveva seminato i germi del dubbio in un terreno già fertile. Con illimitata meraviglia, constatò che i libri, provenienti da tre mondi differenti,

menzionavano l'esistenza di tessitori di tappeti di capelli. A volte incontrava delle pa-role o delle espressioni di cui gli sfuggiva il senso, ma la descrizione della casta supe-riore a tutte le altre fu perfettamente chiara: erano uomini che scambiavano la loro vita con la realizzazione di un unico tappeto, tessuto interamente con i capelli delle loro donne e delle loro figlie, destinato a ornare il palazzo imperiale.

Si ricordava ancora dell'attimo in cui interruppe la lettura e con la fronte segnata dalla preoccupazione, aveva sollevato gli occhi e fissato la fiamma fuligginosa della lampada a olio, mentre gli nascevano nella mente delle domande che non lo avrebbe-ro abbandonato mai più.

Iniziò a riflettere. La maggior parte degli allievi non rivelò mai un'abilità particola-re nel manipolare cifre di una tale grandezza, ma lui stesso che aveva fatto del calcolo uno dei maggiori talenti, non tardò a sentirsi in difficoltà. Solo a Yahannochia e nei

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dintorni vivevano circa trecento tessitori. Quante altre città potevano esistere? L'igno-rava, ma le stime più timorose lasciavano presagire una cifra assolutamente fenome-nale di tappeti che ogni anno venivano portati dai mercanti fino alla Città Portuale, per essere consegnati alle astronavi imperiali. E i tappeti non erano proprio piccoli, le opere dovevano aspirare, in altezza come in larghezza, a raggiungere la taglia di un uomo.

Che cosa diceva la formula dei tessitori? Tutte le province del regno portano il lo-ro contributo all'ornamento del palazzo imperiale e abbiamo l'onore di tessere i tap-peti più preziosi dell'universo. Quali dimensioni poteva avere il palazzo, quando la produzione di un intero pianeta non bastava a coprirlo di tappeti?

Aveva avuto l'impressione di sognare. Da lungo tempo avrebbe potuto fare simili calcoli, ma l'idea non gli era mai venuta in mente; fino ad allora, giocare così con le cifre gli sarebbe parsa una pura bestemmia. Tuttavia, da quando possedeva i libri che menzionavano la presenza di tessitori su tre altri pianeti… Chi sapeva quanti altri pianeti potevano esistere ancora?»

Nel frattempo, gli era diventato più difficile spiegare il comportamento di quel pe-riodo: aveva fondato un piccolo circolo che si riuniva regolarmente la sera; si era cir-condato di alcuni uomini della stessa età che desideravano aumentare le loro cono-scenze. Tra cui il guaritore, alcuni artigiani e uno dei più ricchi allevatori dei dintorni.

Fu un impegno lungo e faticoso. In un primo tempo, non ebbe altra ambizione che educarli come gli interlocutori di cui aveva bisogno. C'erano tante cose che essi do-vevano imparare prima di trascinarli seriamente in una discussione sulle questioni che l'agitavano.

Così, come la maggioranza delle persone, avevano solo delle vaghe idee sulla natu-ra del mondo in cui vivevano. L'Imperatore abitava «in un palazzo tra le stelle» ecco ciò che sapevano. Ma ignoravano il significato della frase. Perciò, dovette insegnare loro quello che aveva appreso dei pianeti e delle stelle: le stelle nel cielo non sono null'altro che soli lontani. Diversi tra loro possiedono dei pianeti su cui vivono altri esseri umani. Certamente, tutti questi pianeti fanno parte dell'Impero e su uno di essi, molto, molto distante, nel cuore dell'Impero, si erge l'imponente Palazzo delle Stelle.

Dovette insegnare loro a calcolare le superfici geometriche e il modo di trattare ci-fre molto alte. Solo al termine della lunga iniziazione poté cominciare, con prudenza, ad avvicinarli alle sue eretiche riflessioni.

Ma la disgrazia s'impossessa di colui che inizia a dubitare dell'Imperatore e si ab-batte anche su coloro che ne seguono l'esempio. Essa comincia in un punto e si pro-paga, poi, come un fuoco devastatore…

Anche l'indomani, nel corso delle lezioni, i ricordi continuarono ad assalirlo. Come al solito, la piccola stanza era piena, dalla prima sedia all'ultimo posto sul pavimento. Riuscì con fatica a dominare l'orda dei turbolenti bambini.

La classe lesse in coro e Parnag seguiva il testo nel proprio libro con la mente as-sente, provando a percepire le voci che leggevano male o lentamente rispetto alle al-

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tre. Di solito, ci riusciva. Ma quel giorno percepiva le voci di persone che non erano presenti.

«Un predicatore deve prendere la parola sulla piazza del mercato» esclamò uno dei ragazzi più adulti, il figlio del mercante di stoffe. «Mio padre ha detto di andarci dopo la scuola.»

«Potremo andarci tutti insième» replicò Parnag. In materia religiosa, stava sempre attento a mostrarsi particolarmente zelante.

Non sempre era stato così. Negli anni giovanili, si era mostrato più aperto e aveva confidato con noncuranza ciò che pensava. Quando non era in forma, se ne scusava con gli allievi. Se un problema lo preoccupava, nel bel mezzo della lezione, faceva casuali osservazioni sull'argomento. Anche all'epoca, i misteriosi libri l'avevano fatto precipitare nella confusione e nel dubbio più totale, tentò di rendere partecipi gli al-lievi.

Aveva osservato gli infantili occhi rotondi che manifestavano incomprensione su ciò che raccontava e aveva cambiato argomento. Solo uno di essi, un ragazzo molto sveglio e intelligente, chiamato Abron, aveva reagito in modo differente.

Con grande sorpresa, Parnag trovò nel giovane e magro ragazzo l'interlocutore che aveva invano cercato tra gli adulti. Abron non sapeva granché, ma, sulla base di ciò che sapeva, era capace di sviluppare riflessioni straordinariamente indipendenti. Fa-ceva osservazioni, accompagnandole con gli impenetrabili occhi scuri. Con l'intelli-genza semplice e diretta dell'infanzia, poteva capire la fragilità di un ragionamento e porre domande che coglievano con esattezza il nucleo del problema. Parnag ne fu af-fascinato e, senza riflettere, invitò il ragazzo a unirsi alle serate del circolo.

Abron ci andò e, con gli occhi sbarrati dalla curiosità, assisté alle discussioni. Sta-va seduto in un angolo, senza pronunciare una parola. Da quel giorno, il padre, O-stvan il vecchio, un tessitore, gli vietò di rimettere piede nella scuola.

Il maestro propose ad Abron di andare da lui a suo piacimento per leggere i libri e porgli qualsiasi domanda sugli argomenti che l'interessavano. Così, Abron diventò ospite regolare della casa di Parnag. Le scappatelle in città, sotto qualsivoglia prete-sto, furono sempre più frequenti; restava per delle ore e interi pomeriggi sui libri del maestro, mente lui gli preparava degli infusi con le migliori erbe e rispondeva alle domande che gli poneva il ragazzo.

Sconvolto, Parnag si ricordò delle ore passate con Abron, e si accorse che erano state le più belle della sua vita. Si era affezionato ad Abron come se fosse stato un fi-glio; mosso da una tenerezza tutta paterna, aveva tentato di pacificare la sete inestin-guibile di conoscenze di cui egli faceva mostra.

Accadde che Abron fosse presente quando Parnag ricevette la visita inattesa del-l'amico che ritornava per la seconda volta dalla Città Portuale, provvisto di un secon-do pacco di libri e di un'incredibile notizia.

«Ne sei veramente sicuro?» aveva insistito Parnag. «L'ho sentito dalla voce di pa-recchi mercanti stranieri. Mi sembra poco probabile che si siano messi d'accordo.»

«Una ribellione?» «Sì. Una ribellione contro l'Imperatore.» «È possibile?» «Pretendono che l'Imperatore abdichi.»

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I giorni seguenti, Abron non ritornò più. Qualche tempo dopo, ci fu chi confidò se-gretamente a Parnag che Abron era morto. Evidentemente, aveva fatto discorsi eretici e blasfemi in casa e il padre aveva approfittato della nascita di un bambino maschio per ucciderlo.

In un lampo, Parnag afferrò la portata del sacrilegio. Aveva permesso che i dubbi distruggessero una giovane e promettente vita. Aveva seminato la disgrazia.

Allora, senza una parola di spiegazione, sciolse il circolo, rifiutandosi di discutere ancora delle questioni che aveva sollevato.

Mentre, circondato dagli allievi, si recava con passo veloce versò la piazza del mercato, si sentì di colpo molto depresso. La giornata era fresca e soleggiata, ma ave-va l'impressione di attraversare una valle tenebrosa. Sprofondava nei ricordi come nelle sabbie mobili. Per quanto la sua debole coscienza del mondo esterno glielo permettesse, si guardò fare senza grande convinzione alcuni sforzi per mantenere i bambini raggruppati; ma in fondo ciò gli era indifferente ed egli li abbandonò a loro stessi.

Il predicatore si era seduto su uno dei piloni di pietra tra i quali era costume monta-re il palco nel corso delle feste. Una folla di persone di ogni età e di ogni condizione si era radunata per ascoltarne le parole.

«Nelle mie peregrinazioni, in tutte le città, incontro delle persone che mi racconta-no i loro disagi e soffrono, per fame, povertà o a causa dei loro simili» disse con il tono salmodiante caratteristico dei predicatori erranti, tanto che la voce arrivò lonta-no. «Mi raccontano queste cose perché sperano che li possa aiutare, forse con un buon suggerimento, forse con un miracolo. Ma non posso fare dei miracoli. I consigli che potrei darvi non sarebbero migliori di quelli che potreste trovare da soli. Ciò che posso fare per voi è ricordarvi quello che, forse, avete dimenticato: appartenete al-l'Imperatore, il nostro Signore, e il solo modo di vivere è di accettare di esistere per suo tramite!»

Qualcuno gli presentò un frutto in guisa di offerta; sorrise con le sottili labbra e in-terruppe la predica per ricevere il dono unendolo agli altri ammucchiati di fianco a lui.

Riprese, come se volesse scongiurare il male. «Se soffrite, è unicamente perché lo avete dimenticato. Se provate a pensare solo per voi stessi, inizierà il tempo della di-sgrazia.» La mano destra si alzò in segno di esortazione: «Oh! È così facile dimenti-care che appartenete all'Imperatore! Ed è così difficile ricordarvelo giorno dopo gior-no.»

Sporgendo dalla lacera tonaca, il braccio di una magrezza inusitata si alzò teso ver-so il cielo. Parnag osservò la scena con lo sguardo incupito. La sensazione di avere sprecato la vita sembrava non abbandonarlo.

«Cosa credete, per quale ragione in tutto il mondo dedichiamo i nostri sforzi e tutta la nostra vita a tessere i tappeti di capelli? Pensate realmente che lo facciamo per evi-tare al nostro Imperatore di calcare con i passi la nuda pietra? Ci sarebbero certo altri rimedi. No, tutto ciò, tutti i rituali, non sono null'altro che il mezzo con cui il nostro Imperatore impedisce il nostro smarrimento e la nostra rovina. Ecco, ciò che bisogna

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vedere. Ogni capello che un tessitore sceglie e annoda, pensa: appartengo all'Impera-tore. E voialtri, pastori, agricoltori, artigiani, siete coloro che rendono possibile il la-voro dei tessitori. Avete il medesimo diritto di ripetere il pensiero a ogni gesto: appar-tengo all'Imperatore. Ciò che faccio, lo faccio per l'Imperatore.» Continuò unendo le mani sul petto in segno di umiltà: «Io medesimo, non sono nulla di più di uno stru-mento della sua volontà. Vagabondo qua e là per ricordare la verità a tutti gli uomini che incrocio sulla mia strada: ricordate!»

Parnag si sentì a disagio. Pensava al lungo elenco delle abitazioni che aveva ancora da visitare per raccogliere le rette scolastiche. Prestare piantato là gli sembrava una considerevole perdita di tempo. Ma non se ne poteva andare.

Il predicatore gettava attorno a sé sguardi che brillavano del fuoco della passione. «Perciò, vi devo anche parlare dei miscredenti, degli scettici e degli eretici; devo met-tere in guardia contro di loro chi crede nel giusto. L'ateo è come un malato contagio-so. Non è come voi, quando vi capita talvolta di dimenticare la verità. È umano. È sufficiente ricordarvi di rinnovare la fede. Il miscredente, invece, non è vittima di un semplice oblio, conosce molto bene la strada della verità, ma sceglie intenzionalmen-te di disprezzarla.»

Parnag si adirò. Fece uno sforzo considerevole per rendere il viso il più indifferen-te possibile. Aveva l'impressione che l'uomo barbuto, dai tratti esausti, si rivolgesse improvvisamente solo a lui.

«Agisce così perché spera di trarne vantaggio ed egli inventa ogni tipo di obiezioni e di argomenti astuti per giustificarsi. I dubbi sono veleno per i cuori delle persone semplici. Il dubbio s'insinua fino a far perdere loro la ragione, perché il seme dell'in-credulità e della rovina possa trapiantarsi. Vi dico che se tollerate la presenza di uno di questi miscredenti nella vostra comunità, agite come colui la cui magione prende fuoco e resta con le braccia conserte a contemplare le fiamme.»

Parnag ebbe l'impressione che alcuni popolani guardassero nella sua direzione e lo squadrassero con aria diffidente. Vent'anni non erano bastati a far dimenticare le do-mande da agitatore. In quel momento, certi se ne sarebbero ricordati e si sarebbero fatti delle domande…

Ed essi avevano completamente ragione. Il dubbio non aveva cessato di roderlo, era un germe devastante che non riusciva a estirpare. Aveva potuto constatare come le incertezze avevano gettato altri nella disgrazia; per parte propria, si ostinava a con-durre una vita che non era nulla di più della successione di giornate grigie e senza ca-rattere. Una volta sorto, era impossibile fare scomparire il dubbio. Parnag non era più in grado di pensare: lo faccio per l'Imperatore. La sola cosa che gli veniva in mente era: l'Imperatore esiste veramente?

Dunque, chi aveva mai visto l'Imperatore? Non si sapeva neppure dove viveva; si sapeva solo che doveva trovarsi su un pianeta molto, molto lontano. Naturalmente c'erano le fotografie, e il viso dell'Imperatore era più familiare a ciascuno di quello dei genitori; ma per quanto Parnag lo sapesse, non aveva mai messo mai piede su quel pianeta. Si raccontava che l'Imperatore fosse immortale, viveva e regnava sul-l'intera umanità dalla notte dei tempi… Si dicevano tante cose. Ma non si era certi di nulla. Dopo l'abbandono al primo dubbio, l'ossessione interiore diventa inarrestabile.

«State in guardia dalle voci che insinuano il dubbio e la miscredenza. State in

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guardia dall'ascolto di discorsi eretici. State in guardia da tutti coloro che cercano di convincervi di trovare da soli la verità. Commettereste un errore, un errore incom-mensurabile! La verità è troppo grande affinché un debole mortale possa afferrarla! No, solo l'amore e l'obbedienza all'Imperatore possono farci partecipare alla verità e condurci con mano sicura…»

Il predicatore tacque e osservò Parnag per metterlo alla prova. Parnag sostenne lo sguardo e, improvvisamente, come colpito da un fulmine, comprese di aver già visto quel viso! Conosceva quell'uomo. Lì per lì non giunse a rammentarsi dove, né quan-do, l'avesse incontrato, ma lo conosceva. L'impressione era reciproca; Parnag intuì che anche l'altro l'aveva notato. Il maestro vide accendersi negli occhi scuri del predi-catore un guizzo simile al panico, ma fu molto fuggevole, e l'istante successivo il suo sguardo s'infiammò, nutrito dall'odio fanatico e avido di vendetta.

Una sensazione di malessere invase Parnag. Di che cosa si era ricordato il cencioso predicatore? Sentì il cuore che gli batteva forte e il sangue premere sulle tempie. Per-cepì solo confusamente che il predicatore aveva ripreso a parlare. Adesso, chiedeva alla folla di lapidarlo? Non riusciva a comprendere.

Aveva dubitato dell'Imperatore e aveva gettato gli altri nella disgrazia. La sua ora era venuta? Il destino stava finalmente per riprenderlo, a dispetto di ogni pentimento e di ogni penitenza?

Parnag fuggì. Si udì dire qualcosa all'allievo preferito. Probabilmente, l'incaricava di badare che i bambini andassero a casa. Poi, se ne andò. Sentiva le pietre scricchio-lare sotto i piedi, i muri delle case rinviare l'eco dei passi,' passi sempre più rapidi. Il primo angolo fu la salvezza. Scomparire, fuori dagli sguardi!

Intanto, si ricordò improvvisamente le circostanze in cui aveva già incontrato quel-l'uomo. Si fermò bruscamente, facendosi sfuggire dalla bocca un suono inarticolato, sotto l'influenza della sorpresa. Era possibile? L'uomo che aveva conosciuto… Un predicatore? Sebbene avesse l'intima convinzione di avere ragione, non poté tratte-nersi da fare mezzo giro e ritornare sui suoi passi per assicurarsi che non si sbagliava. Si fermò all'angolo della via che, appena un istante prima, gli era servito da rifugio e dal nascondiglio osservò ciò che accadeva sulla piazza del mercato.

Non c'era alcun dubbio. L'uomo seduto in mezzo alla folla raccolta attorno a lui, l'uomo vestito del cilicio dei santi erranti, negli anni giovanili, aveva diretto assieme a lui la scuola di Kerkeema. Lo riconobbe dal modo di muoversi e anche i tratti del viso gli ridivennero familiari. Brakart, era il suo nome.

Parnag emise un sospiro dì sollievo; prese coscienza che un'angoscia mortale gli aveva oppresso il petto come una morsa di ferro. Aveva temuto che l'altro avesse ri-conosciuto in lui il miscredente, l'ateo. Era scappato dalla paura di essere lapidato per eresia. Ma non aveva nulla da temere. L'altro l'aveva riconosciuto ed egli sapeva che era una cosa reciproca; sapeva che aveva incontrato qualcuno che conosceva il suo segreto. Uno sporco segreto.

Erano passati quasi quarant'anni: Kerkeema, la città situata ai bordi del vulcano spento. Là pianura si distendeva a perdita d'occhio; il sole, coricandosi, gettava ombre bizzarre. Insieme, avevano diretto la scuola della città. Due giovani maestri. Però, mentre Parnag era considerato affabile e gentile, Brakart non tardò a essere rinomato per l'implacabile severità. Quasi tutte le sere tratteneva un allievo per le ripetizioni e

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la maggioranza delle volte erano ragazze, perché riteneva fossero meno attente dei ragazzi.

Gli anni passarono, fino al giorno in cui ci fu il caso di una malattia. Fiotti di la-crime e una confessione rivelarono che Brakart si era servito lascivamente delle allie-ve ed era la vera ragione dell'inflessibile disciplina che imponeva. Scappò a rotta di collo nel bel mezzo della notte, precedendo la collera dei popolani; in seguito alla sto-ria, Parnag era stato sottoposto a così tanti sgradevoli interrogatori che aveva finito per abbandonare Kerkeema. Ed era arrivato a Yahannochia.

Oggi le loro strade s'incrociavano di nuovo. Parnag si sentì un infame. Una parte di sé esultava all'idea di essere al sicuro e di avere l'altro in pugno, ma lo trovava depri-mente: ne uscirò così a buon conto? Aveva dubitato, e un ragazzo era stato ucciso. Era caduto irrimediabilmente nel dubbio e colui che avrebbe potuto rivendicare la ve-rità era interamente in suo potere: si trattava di una vittoria da quattro soldi, un trion-fo senza gloria. No, non era una vittoria, era una scappatoia. Certo, aveva salvato la pelle, ma aveva perso la dignità.

Al pomeriggio, restò a casa. Gli avari tessitori non si sarebbero davvero rattristati nel conservare il loro denaro una giornata di più. Errò da una stanza all'altra, spolve-rando a caso gli oggetti che si trovava di fronte, abbandonandosi al flusso dei pensie-ri. Grigio. Tutto era grigio e desolato.

Rimase a lungo in piedi nell'ingresso della casa, assorto nella contemplazione di una borsa di cuoio appesa al muro. Una volta, la borsa era appartenuta ad Abron.

All'epoca dell'ultima visita, il ragazzo l'aveva appesa e dimenticata; lui non l'aveva rimossa.

Più tardi, fu preso dall'imprevedibile impulso di cantare. Con voce tremula e poco esercitata intonò la canzone che, da bambino, l'aveva impressionato molto. Comin-ciava con queste parole: «Mi rimetto interamente a te, mio Imperatore…» Ma non riuscì a ricordarsi il seguito del testo e, alla fine, ci rinunciò.

A un certo punto, qualcuno bussò in modo irruento alla porta. Andò ad aprire. Era Garubad, l'allevatore di bestiame, un uomo tarchiato dai capelli grigi, vestito di cuoio consumato dal tempo e dalle intemperie. All'epoca, vent'anni prima, Garubad aveva partecipato al circolo di discussione.

«Garubad…» «Salve, Parnag!» L'uomo massiccio sembrava di ottimo umore, al limite della so-

vreccitazione. «So che è passata un'eternità da quando ci siamo parlati l'ultima volta, ma ti devo assolutamente raccontare una cosa. Posso entrare?»

«Certamente.» Parnag si scostò per lasciarlo passare. Fu insolito che il vecchio compagno avesse scelto proprio quel giorno per riapparire. Avevano perso da anni ogni contatto. In effetti, da quando la figlia dell'allevatore aveva terminato gli studi.

«Non indovinerai mai ciò che mi è accaduto» esclamò Garubad senza troppi cavil-li. «Dovevo assolutamente venire a raccontartelo. Ti ricordi delle discussioni serali che facevamo, quando eravamo ancora giovani, eh? Ti ricordi quelle cose di cui si parlava, no? Me ne ricordo molto bene; ci hai insegnato tutto sui pianeti e le lune, sulle stelle che sono dei soli lontani…»

Ma cosa accade oggi? si chiese Parnag. Perché, di colpo, circola tutta la gente che

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appartiene a quel periodo? «Prima di tutto, devi sapere che, come puoi vedere, ritorno ora dall'aver pascolato

le mie bestie e il viaggio è stato piuttosto lungo. Qualcuno, credo fosse una delle ven-ditrici ambulanti, mi ha raccontato che nel vecchio letto del fiume da circa un paio di settimane scorre un poco d'acqua. Poiché al momento la situazione nei dintorni della città non è particolarmente buona, ho preso delle contromisure e sono sceso con le pecore keppo nella valle; là ho trovato un buon pascolo e tutto ciò che occorre loro, sai cosa intendo. Tre giorni per il viaggio di andata con le pecore e un giorno di ritor-no da solo.»

Parnag si armò di pazienza. Garubad si ascoltava parlare volentieri e veniva rara-mente al fatto senza lunghe circonlocuzioni.

«Ecco, il nocciolo della questione: sulla strada del ritorno, dal momento che ero nelle vicinanze, ho fatto una deviazione attraverso le rocce di Schabrat, per vedere di poter mettere le mani su alcuni dei cristalli che ogni tanto si trovano nella zona. Non appena ho iniziato a cercare, quello esce da una delle grotte!»

«Chi?» chiese Parnag, irritato. «Non lo so. Uno straniero. Portava dei vestiti davvero bizzarri e che linguaggio a-

veva! Non so da dove, ma deve arrivare da molto lontano. In ogni caso, mi raggiunge e mi chiede chi sono, quello che faccio, dove si trova la città più vicina e cose del ge-nere. Poi, si mette a raccontare una montagna di storie curiosissime che ti puoi im-maginare; infine, mi spiega che è un ribelle.»

Parnag sentì nettamente il cuore smettere di battere per un istante. «Un ribelle?!» «Non mi chiedere cosa voleva dire, non ho compreso tutto ciò che raccontava. Di-

ceva, più o meno, che era un ribelle e che avevano destituito l'Imperatore.» Garubad ridacchiò. «Ti rendi conto, era serio mentre lo diceva! Allora, ho inevitabilmente pen-sato a te, sai, al tuo amico che venne quel pomeriggio e parlò delle voci che correva-no nella Città Portuale…»

«A chi altri hai raccontato questa storia?» chiese Parnag con un tono che gli sem-brò quello di un altra persona.

«A nessuno, fino a ora. Pensavo che ti avrebbe interessato. Sono arrivato in città proprio ora…»

Era diventato impaziente; aveva finito il racconto e voleva andarsene. «Tra l'altro, che cos'è successo, esattamente? In città c'è agitazione e tutti sono ancora svegli…»

«Probabilmente è a causa del predicatore arrivato ieri sera» rispose Parnag. Si sen-tiva stanco, disorientato, sopraffatto dal corso degli eventi. Mosso da un impulso im-provviso, confidò a Garubad che conosceva il predicatore e gli raccontò come ne a-veva fatto conoscenza. «Può essere che abbia scelto di diventare un santo errante per espiare i peccati.»

Quando osservò il viso dell'allevatore comprese che avrebbe fatto meglio a tenersi tutto dentro. Evidentemente aveva toccato un punto sensibile dell'allevatore. Poiché, in un lampo, la giovialità del vecchio compagno si tramutò nel formalismo più glacia-le.

«Non dubito delle tue capacità mnemoniche, Parnag» disse seccamente. «Ma credo che dovresti ripensarci due volte. Sono quasi sicuro che ti sbagli.»

«Oh, è possibile» si corresse prudentemente il maestro.

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Dopo che Garubad se ne fu andato, Parnag restò un lungo momento sull'ingresso, perso nei pensieri. Su di lui s'infranse un'ondata di immagini. Era come se gli si fosse piantato un grande uncino di ferro nelle viscere per rimestare lo spesso deposito di ricordi e sentimenti che aveva creduto di aver per sempre nascosto. Le parole dell'al-levatore risuonavano come rumori di passi in una grande grotta.

Un ribelle? Che cosa significa? Era dunque possibile rovesciare l'Imperatore? Il senso delle parole gli era chiaro, ma l'idea gli sembrava assurda, paradossale.

Tuttavia, i libri erano ancora nascosti sotto un mucchio di arida legna e di concime seccato di bufalo baraq dung. Con gli altri pianeti su cui si tessevano i tappeti di ca-pelli. La voce, arrivatagli vent'anni prima dalla Città Portuale… Doveva fare ciò che era giusto. E richiedeva del coraggio. Ciò lo impauriva, poiché l'ignoto era in aggua-to.

Di colpo, sentì le mani contrarsi e le unghie affondare dolorosamente nei palmi. Non rimaneva molto tempo per riflettere. Nessuno sapeva fino a quando lo straniero sarebbe restato sulle rocce di Schabrat. Se lo avesse perduto, avrebbe vissuto fino alla morte senza risposte.

Sulla strada che conduceva fuori dalla città non incontrò persona, eccetto alcune vecchie donne che non si degnarono di onorarlo neppure con lo sguardo. Superata la porta della città, sentì che l'agitazione delle ultime ore era scomparsa. La mente era lucida e calma. L'orizzonte si era tramutato in una striscia di fuoco rosseggiante e, quando arrivò a destinazione, le prime stelle apparvero nell'oscurità bluastra del cielo. Simili a cupe cattedrali, le nere rocce delle grotte svettavano nel crepuscolo. Non c'e-ra nessuno in vista.

«C'è qualcuno?» esclamò Parnag. Prima con la voce debole ed esitante, poi, sic-come non gli giungeva alcuna risposta, con tono più insistente. «C'è qualcuno?!» Al-l'improvviso, risuonò una voce acuta e tagliente. «Non c'è più, lo straniero.» Parnag si girò di scatto. Era il predicatore, apparso quasi per incanto. Brakart, il predicatore. Brakart, il santo errante. Brakart che aveva abusato di bambine. E altri uomini spun-tarono da dietro le rocce in cui si erano nascosti.

Parnag vide che tutti tenevano nelle loro mani delle pietre. Un'onda di calore sgor-gò dalle viscere e gli infiammò la testa. Sapeva che stavano per ucciderlo.

«Che cosa vuoi da me, Brakart?» chiese con finta indignazione. Gli occhi del predicatore scintillarono di luce maligna. «Non chiamarmi con il mio

nome! Sono un santo errante e non ho più nome.» Parnag tacque. «Parnag, mi è stato raccontato che molti anni fa hai fatto dei discorsi eretici e hai

persino tentato di attirare i tuoi simili sulla strada del dubbio» cominciò lentamente il predicatore.

In quell'istante, Parnag riconobbe Garubad tra coloro che formavano il cerchio stretto attorno a lui. «Anche tu?»

L'allevatore sollevò le mani in gesto di difesa. Era il solo che non avesse alcuna pietra. «Non gli ho detto nulla di più di quanto ho detto a te, Parnag.»

«Quando, nel pomeriggio, Garubad mi ha raccontato dello strano incontro e quan-do, poi, mi ha confidato di averti parlato per primo, ho giudicato che fosse venuto il

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momento di mettere alla prova la tua buona fede» continuò il santo errante. Con un lampo di trionfo che gli scintillò negli occhi, aggiunse: «Non hai superato la prova.»

Parnag non disse nulla. Non aveva più nulla da dire. La colpa aveva finito per tro-varlo di nuovo.

«Non so chi Garubad abbia incontrato. Chi o che cosa. Forse, qualcuno ha voluto fargli un brutto scherzo. Forse ha incrociato la strada di un folle. Forse, tutto ciò non è che il frutto dell'immaginazione. Importa poco. Importa solo il fatto che sei venuto. Ciò dimostra che ritieni veramente possibile l'esistenza di una ribellione contro l'Im-peratore. Sebbene debba confessare che una tale cecità superi la mia capacità di com-prensione, ritieni addirittura possibile che qualcuno abbia i mezzi per destituire l'Im-peratore. Comunque sia, la semplice presenza in questo luogo è la prova inconfutabi-le della tua miscredenza ed empietà. Dubiti, e hai verosimilmente dubitato per tutta la vita. Chissà quanti tuoi simili hai gettato nella disgrazia!»

«Eretico!» gridò uno degli uomini. La prima pietra raggiunse Parnag alla tempia e lo gettò violentemente a terra. Vide il cielo, il cielo immenso e vuoto. Mi rimetto a te, mio Imperatore, pensò. Poi sentì il crepitare di un nugolo di pietre che si abbatteva su di lui. Sì, lo confesso. Ho dubitato di te. Lo confesso. Ho permesso che il dubbio m'invadesse e non ho avuto più la forza di cacciarlo. Lo confesso. Nell'ora della giu-stizia, mio Imperatore, tu mi annienterai e sarò senza scampo. Lo confesso e mi ri-metto alla tua giustizia…

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Il tappeto perduto

Più tardi, non gli riuscì di ricordare ciò che l'aveva svegliato, l'odore di bruciato, il crepitio delle fiamme o altro ancora. Era balzato giù dal letto gridando e l'unica pre-occupazione era: il tappeto!

Gridava e gridava, forte quanto poteva, gridava di fronte al fuoco che scoppiava da tutte le parti e la voce risuonava in ogni recesso della grande casa.

«Al fuoco! Al fuoco!» Vedeva solo le fiamme serpeggianti, le lingue di fuoco lo sfidavano coi loro riflessi

rosso arancio che danzavano sui muri e le porte. Non distingueva più le chiazze di cenere che spuntavano come fantasmi e il fumo che turbinava pieno di collera sotto il tetto. Si liberò delle mani che tentavano di trattenerlo, ignorò le voci che gridavano il suo nome. Gli occhi vedevano solo il fuoco. Il fuoco che stava annientando l'opera di una vita.

«Borlon, non farlo! Salvati…!» Si precipitò senza pensare alle donne. La nuvola di fumo lo avvolse per ghermirlo,

gli strappò delle lacrime e gli infiammò i polmoni. Borlon riuscì a recuperare un brandello di stoffa che si mise sul viso. Una brocca di terracotta si spezzò al suolo, inciampò sui cocci e riprese la corsa. Il tappeto. Doveva salvare il tappeto. Doveva salvare il tappeto o morire.

Il fuoco scatenato progrediva nella casa con una violenza inimmaginabile, simile al ruggito di un uragano pieno di rabbia, vanamente alla ricerca di un degno avversano. Mezzo asfissiato, Borlon raggiunse le scale che conducevano al laboratorio di tessitu-ra, nel momento stesso in cui i gradini di legno crollarono in una nuvola di cenere e scintille. Con gli occhi sconcertati vide le lingue di fuoco saltare con un ballo selvag-gio sulla balaustra in cui si ergeva il telaio; percepì il rumore delle travi che comin-ciavano lentamente a cedere. Sembrava il grido di un bambino disperato. Poi riprese il controllo di sé, sapeva che era troppo tardi e qualcosa lo fece battere in ritirata.

Quando ebbe raggiunto la famiglia che si era portata fuori al sicuro, a buona di-stanza dall'incendio, tutto successe molto rapidamente. Karvita, la prima moglie, e Narana la concubina, lo presero accanto a loro; col viso pietrificato e i sensi intorpidi-ti, contemplò lo spettacolo delle fiamme che penetravano ogni vano dell'antica casa. Insaziabili al loro passaggio, facevano scoppiare le finestre prima di guizzare sui telai come se volessero canzonarle con le oscene lingue di fuoco. Vide il tetto illuminarsi all'improvviso, diventare trasparente e infine crollare liberando nella caduta una nu-vola di scintille incandescenti. La moltitudine di stelle danzanti turbinò nella notte, spegnendosi poco a poco, mentre il fuoco sottostante non trovava nulla di cui alimen-tarsi. Alla fine rimasero poche braci accese che diffusero nell'oscurità qualche debole chiarore.

«Com'è potuto accadere?» avrebbe voluto domandare. Ma non ci riuscì. Poteva so-

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lo fissare in silenzio i muri carbonizzati, e la mente si rifiutava di comprendere le proporzioni dell'accaduto.

Sarebbe potuto restare bloccato, immobile, fino ai primi chiarori dell'alba. Era in-capace di pensare cosa convenisse di fare. Dunque fu Karvita che, dopo qualche ri-cerca tra le rovine, scovò i resti carbonizzati della cassapanca in cui si trovava con-servato il loro denaro; recuperò le monete, nere di fuliggine, raccogliendole nel faz-zoletto con cui si copriva il capo. Fu ancora Karvita che, sfidando il freddo intenso della notte, li guidò tutti e tre lungo il faticoso sentiero che li condusse fino alla casa dei genitori, ai margini della città.

«Sono colpevole.» Pronunciò le parole senza guardare nessuno, gli occhi doloro-samente rivolti verso qualcosa di impreciso e di lontano. Una sofferenza indicibile gli scavava il petto, tanto che sperava di ricevere la giusta e veloce punizione senza dolo-re, accusandosi, dichiarandosi colpevole.

«Che sciocchezza» ribatté la moglie in modo risoluto. «Nessuno sa chi ne è re-sponsabile. Finalmente, faresti meglio a mangiare qualcosa.»

Il tono della voce gli fece male. Gli lanciò di sbieco un breve sguardo, cercò di ri-scoprire in lei la fiera ragazza di cui una volta era innamorato, la ragazza dai capelli così lunghi e neri da mozzare il fiato. Ma era sempre fredda, distante; e durante tutti quegli anni non era riuscito a rompere il ghiaccio. Il cuore gli si era, al contrario, raf-freddato poco alla volta.

Senza una parola, Narana gli mise sul tavolo un piatto di minestra. Poi, mezza im-paurita, quasi si fosse spinta troppo in là, si ritirò sulla sedia. L'esile bionda concubi-na poteva essere una loro figlia e mangiava sommessa, in silenzio, prona sul piatto come se avesse voluto rendersi invisibile.

Borlon sapeva che Narana si sentiva odiata da Karvita e, probabilmente, era vero. Quando tutti tre si trovavano nella stessa stanza, l'aria si caricava di tensione. Karvita, con l'abituale freddezza, non lasciava trasparire nulla, ma Borlon era persuaso che fosse gelosa della giovane concubina, perché lui ci dormiva assieme.

Avrebbe dovuto rinunciarci? Narana era l'unica donna che al mattino lo faceva al-zare con il cuore sopito. Era giovane, timida, selvatica, e all'inizio l'aveva presa per compagna unicamente a causa della splendida capigliatura, bionda come il grano. La chioma produceva un contrasto incredibilmente sorprendente con quella di Karvita. Aveva già trascorso alcuni anni nella loro casa senza essere stata toccata, prima che la stessa Karvita, un giorno, non suggerì a Borlon di infilarsi nel letto della concubina.

Quando era solo con Narana, lei si mostrava sciolta, passionale e teneramente gra-ta. Era il sole della sua vita. Ma, nello stesso tempo, aveva avuto la sensazione che il cuore di Karvita si chiudesse, fino a diventare definitivamente inaccessibile, ed egli si sentiva in colpa.

Con la coda dell'occhio, vide Karvita passarsi la mano nei capelli e, per pura abitu-dine, tese la propria per raccogliere i crini rimasti tra le dita. Bruscamente prese co-scienza di ciò che stava per fare e si fermò con la mano a mezza via. Non aveva più alcun tappeto da finire. Sentì il ricordo che ravvivava nel petto la fiamma del dolore.

«Non ha senso che tu ti faccia dei rimproveri» disse Karvita dopo aver notato il ge-sto. «Non è torturandoti così che il tappeto tornerà, neppure la casa. Può essere acca-

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duto di tutto: una scintilla uscita dalla stufa della cucina, una brace restata nella cene-re, qualcosa del genere.»

«Ma cosa dovrei fare, adesso?» chiese Borlon smarrito. «Prima, dobbiamo ricostruire la casa. Dopo, comincerai un nuovo tappeto.» Borlon

sollevò le mani all'altezza degli occhi e si guardò l'estremità delle dita in cui gli anni di lavoro passati a spingere gli aghi avevano tracciato dei profondi solchi.

«Che cosa ho fatto per meritare di dover cominciare di nuovo? Non sono abbastan-za giovane per poter finire un altro tappeto delle dimensioni volute. Ho due donne che hanno i capelli più meravigliosi che l'Impero abbia mai visto e, invece di tesserli in un capolavoro che incanti gli occhi dell'Imperatore, sarò capace di produrre solo un ridicolo scendiletto…»

«Borlon, smetti di lamentarti. Saresti potuto perire nelle fiamme. Allora si che la tua vita sarebbe stata veramente un insuccesso.» Si era realmente arrabbiata. Forse, per tale ragione aggiunse: «Poi, in ogni modo, non hai ancora un erede, allora la ta-glia del tappeto non ha un'importanza così capitale.»

È vero, pensò amaramente Borlon. Non sono riuscito a fare neppure questo. Un uomo con due donne, ma senza bambini, aveva il diritto di prendersela solo con se stesso.

Borlon credette di vedere negli occhi della suocera una punta di disapprovazione, e anche di disprezzo, quando la piccola vecchia fece entrare il maestro della Gilda dei tessitori.

«Non posso esprimerti quanto mi dispiaccia, Borlon» disse il maestro della Gilda. «Ero sconvolto, quando tua moglie mi ha raccontato tutto! … Una tale disgrazia non accadeva da secoli e secoli!»

Voleva umiliarlo? Infilare il coltello nella piaga e ripetere a Borlon quanto era un fallito? Egli fissò il maestro della Gilda, un uomo dal corpo ossuto, alto e dai capelli brizzolati. Borlon non aveva mai visto il vecchio tessitore in uno stato tale.

Sembrava sincero. L'anziano di solito si atteneva sempre seriamente ai fatti, era re-almente colpito e commosso.

«Quando è successo? L'ultima notte?» chiese sedendosi. «Nessuno è stato ancora informato, in città…»

«Non voglio che si sappia in giro» disse Borlon lentamente. «Perché? Ora hai bisogno di ogni possibile aiuto…» «Non lo voglio» si ostinò Borlon. Per un momento, il maestro della Gilda lo scrutò attentamente. Poi scosse la testa

in segno di comprensione. «Bene. Almeno, informami e chiedi un consiglio.» Borlon osservò la sua larga mano posata pesantemente sul tavolo di legno grezzo:

il sangue gli affluiva nelle vene del dorso, in modo quasi impercettibile, ma continuo. Quando iniziò a rispondere, ebbe l'impressione che stesse parlando un'altra persona; si percepiva nel parlare, ma sentiva la voce di Karvita. Prima esitante, poi sempre più scorrevole, ripeté quello che lei gli aveva raccomandato.

«Si tratta della mia casa, maestro. Occorre che la ricostruiamo, ho bisogno di un nuovo telaio, di altri attrezzi. Ma non ho abbastanza denaro per pagarli. All'epoca mio padre ha venduto il suo tappeto a un cattivo prezzo…» Anche lui era già un fallito,

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pensò. «Ha tessuto un magnifico tappeto e l'ha ceduto per un miserabile tozzo di pa-ne. Ma, in ogni caso, lo ha terminato. Non si può dire altrettanto del figlio…»

«Lo so.» «Allora?» «Pensi a un credito a lungo termine…» «Sì.» Il vecchio tessitore scostò lentamente le mani con un gesto spiacente. «Borlon, ti

prego di non mettermi in imbarazzo. Conosci il regolamento della Gilda. Non avendo alcun figlio, non puoi ricevere alcun credito.»

Borlon doveva lottare con tutte le forze per non affondare in un buco nero senza fondo. «Non ho un figlio. Ho due donne e nessuna di loro può darmi un bambino…»

«Probabilmente non dipende dalle donne.» Oh, sì. Certo che no. Squadrò il maestro della Gilda. Avrebbe voluto dire qualcosa, ma aveva dimentica-

to che cosa. O non c'era nulla con cui potesse replicare. «Fammi riflettere un secondo, Borlon. Il credito riguarderebbe centoventi o cento-

sessanta anni. Anche i figli dei tuoi figli dovrebbero finire di rimborsarlo. Una tale decisione non si prende alla leggera. E, certamente, la cassa della Gilda ha bisogno di certe garanzie. Se non puoi concepire un erede, a queste condizioni, non possiamo accordarti un credito a lungo termine. È il senso del regolamento. Ammesso che tu abbia un figlio, ci prenderemmo dei grandi rischi, perché chissà se tuo figlio avrà an-cora un bambino…»

«E un credito a breve termine?» chiese Borlon. «Con che cosa lo rimborserai?» replicò scarno il maestro della Gilda. «Tesserò un nuovo tappeto» assicurò Borlon precipitosamente. «Se non dovessi

avere un erede, potrei restituire il credito; però, se un giorno il cielo si degnerà di darmi un figlio, si potranno cambiare le date della scadenza…» L'anziano emise un sospiro.

«Sono spiacente, Borlon. Sono veramente spiacente per te, perché ti ho sempre molto stimato e ho amato il tappeto che avevi tessuto. Ma sono responsabile del mio ufficio nella Gilda. Per il momento, ho una visione più realistica della tua. In primo luogo, non sei più giovane, Borlon. A tuo avviso, quali dimensioni potrà avere il tap-peto che progetti di realizzare, anche se lavorassi fino a diventare cieco? Un tappeto che non ha la taglia richiesta si vende a un prezzo molto basso, lo sai bene quanto me. Potresti considerarti già fortunato se un mercante accettasse di prenderlo. In secondo luogo, devi tessere con un nuovo telaio. Sarebbe composto di legno che non si è an-cora assestato e che non è stato in trazione per tutti i decenni a cui ci lavorerai. Lo sai bene che su un telaio nuovo non si può sperare di ottenere una qualità comparabile a quella d'un telaio vecchio. Hai intenzione di costruire una casa, devi vivere. Non vedo come tu possa realizzare tutto.»

Borlon ascoltava attentamente e non credeva ai suoi orecchi. Il maestro della Gil-da, che nel periodo dei giorni belli aveva considerato come un amico e da cui aveva sperato di ricevere sostegno, era la stessa persona che gli assestava colpo su colpo senza nessuna pietà.

«Ma… cosa dovrei fare allora?» Il maestro della Gilda abbassò gli occhi e disse

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sottovoce: «È successo, più di una volta, che la linea genealogica di un tessitore di tappeti si estinguesse. Qualcuno muore giovane o senza erede. Si è sempre verificato. In tal caso la Gilda cerca un uomo desideroso di prendere il posto vacante e di fonda-re una nuova stirpe, s'incarica dell'istruzione e così via…»

«Gli concede un credito.» «Se l'uomo ha un figlio, sì.» Borlon esitò. «Una delle donne… Narana… È incinta, forse…» Era una menzogna, e lo sapevano entrambi. «Se dovesse darti un figlio, il credito non sarebbe più un problema, te lo prometto»

disse il maestro della Gilda alzandosi. Arrivato sulla porta, si girò ancora una volta. «Abbiamo parlato molto di denaro,

Borlon, e poco del senso del nostro lavoro. Penso che dovresti mettere a profitto il pe-riodo difficile, provando a rinvigorire la tua fede. Ho sentito dire che un predicatore è arrivato in città; forse, all'occasione, sarebbe una buona idea che tu gli rendessi visi-ta.»

Dopo la partenza del maestro della Gilda, Borlon restò seduto senza fare un movi-mento, perso nei pensieri. Non passò molto tempo quando Karvita entrò nella stanza. Era impaziente di conoscere il risultato del colloquio. Borlon scosse solo la testa, in-dignato.

«Non vogliono prestarmi nulla perché non ho un figlio» finì per spiegare, vedendo che non lo avrebbe lasciato in pace.

«Allora proviamo di nuovo» rispose subito. «Sono ancora abbastanza giovane per avere dei bambini.» Esitando aggiunse: «Narana lo è ancora di più.»

Perché le cose si svolgevano in quel modo? Perché dovevano essere così? Una vita intera passata a tessere un solo e unico tappeto…

«Se malgrado tutto non portasse a nulla? Karvita, perché siamo insieme da così tanto tempo e non abbiamo dei bambini?»

Lei lo scrutò attentamente, mentre avvolgeva attorno alle dita una ciocca della lun-ga e scura capigliatura dai riflessi azzurrognoli. Poi, disse con circospezione: «Il fi-glio deve nascere da una delle tue donne. Ma non sei obbligato a… concepirlo tu stesso!»

Che cosa osava proporgli? Già segnato dal destino, caduto nella miseria più com-pleta, doveva pure farsi disonorare?

«Naturalmente, bisognerebbe agire nella più grande discrezione» aggiunse, se-guendo il corso dei pensieri.

«Karvita!» Vide gli occhi di Borlon e si arrestò di colpo. «Scusami, era giusto un'idea, nulla di

più.» «Ne hai ancora di simili idee?» Tacque. Poi, dopo aver gettato un sguardo prudente nella sua direzione, riprese:

«Poiché la Gilda non è disposta ad aiutarti, forse hai degli amici che ti farebbero un prestito. Potremmo chiederlo a certi tessitori più agiati. Benegoran, per esempio; pos-siede più soldi di quelli che lui e la famiglia potrebbero mai spendere.»

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«Benegoran è molto legato ai soldi. La ragione per cui è tanto ricco è proprio per-ché tiene ai soldi.»

«Conosco molto bene una delle sue donne. Attraverso di lei, potrei domandarglielo con discrezione.» Borlon la osservava mentre lei stava sulla soglia della porta. Im-provvisamente, rivide la ragazza di una volta; si ricordò come, un tardo pomeriggio di molti anni prima, si trovasse nella stessa posizione. Il ricordo gli trafisse il cuore. Provò una profonda avversione per tutti i momenti in cui si era mostrato ingiusto e in cui l'aveva trattata male. Si alzò per prenderla tra le braccia, ma all'ultimo istante si ricredette e le girò le spalle per recarsi verso la finestra.

«Sì» disse. «Ma non voglio che tutta la città lo sappia tra l'oggi e il domani.» «Prima o poi, non lo potremo più nascondere.» Borlon pensò alle case isolate dei tessitori, perse nelle gole e nelle valli montagno-

se che cingevano la città. Probabilmente non c'era nessuna tenuta da cui se ne potes-sero vedere due in un solo colpo d'occhio. Se fossero bruciate tutte insieme, sarebbe trascorso molto tempo prima che in città l'avessero notato.

Forse una delle venditrici ambulanti avrebbe finito per scoprire le rovine carboniz-zate e diffuso la notizia.

«In tal caso, è meglio che giunga il più tardi possibile. Quando la nostra situazione si sarà un poco chiarita.»

Il sole aveva finito la sua corsa e si abbassava un'altra volta sull'orizzonte. Borlon poteva vedere le porte della città e alcune vecchie donne che stavano chiacchierando. Un uomo di una certa età lasciò la città con precipitazione. Borlon ebbe l'impressione che il viso gli fosse familiare ma, lì per lì, non riuscì a ricordarsi dove l'aveva cono-sciuto. Solo quando scomparve dal campo visivo, si ricordò che era il maestro. Nel passato gli aveva fatto visita e domandato se ci fossero bambini; ma erano già molti anni che non si dava più simili pene e, nel frattempo, Borlon ne aveva dimenticato anche il nome.

Non conosco la gente della città, pensò. Avevo raggiunto lo stadio in cui un tessi-tore non lascia più l'abitazione. Tra tutte le emozioni che l'agitavano in quell'istante c'era anche una forte delusione: la smisurata delusione di un uomo lanciato in una fa-ticosa impresa, ma obbligato a fallirla a pochi passi dalla meta.

Allora la stanchezza accumulata durante la giornata si fece sentire anche fisica-mente: la lunga marcia nella notte con le brevi ore di sonno agitato, intervallato dai continui risvegli di soprassalto; la mattina con la partenza del piccolo gruppo tornato per cercare tra i resti carbonizzati della casa, nella speranza di salvare dalle ceneri al-cuni utensili e valutare i danni. Borlon prese una bottiglia di vino e due bicchieri. D'acchito, l'odore acre della cenere gli riempì di nuovo le narici ed ebbe l'impressione di sentire sulla lingua il gusto del fumo.

Porse un bicchiere a Karvita e ne tenne uno per sé. Poi, aprì la bottiglia. «Vieni» disse. «Bevi con me.»

L'indomani mattina fu in piedi presto e uscì a passeggiare lungo le vie della città. Per la prima volta nella vita aveva dormito in una sola notte con entrambe le donne; e, ancora per la prima volta nella vita, non era riuscito a raggiungere le vette necessa-rie alla bisogna, in un caso e nell'altro.

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La vita mi sfugge da sotto piedi, pensò. Sta scomparendo pezzo dopo pezzo. Il fal-limento mi sta tessendo attorno una trappola e finirà per catturarmi.

Nessuno lo notava e ciò gli conveniva. Essere invisibile, non essere notato e non lasciare alcuna traccia dietro di sé, era una sensazione piacevole. Aveva temuto che la notizia fosse già trapelata, aveva temuto di essere oggetto di sguardi e di sussurri alle spalle. Ma i popolani erano occupati da altri argomenti; secondo i frammenti di con-versazioni che riuscì ad afferrare, passando vicino alle persone, un eretico era stato lapidato la sera precedente, su ordine di un predicatore errante che si trovava in città da due giorni.

Borlon si ricordò il suggerimento del maestro della Gilda e si diresse verso la piaz-za del mercato. Forse era realmente una questione di fede. Da molto tempo non aveva più pensato all'Imperatore, oberato dal tappeto e dai futili, piccoli problemi personali. Aveva perso il senso dell'immensità, della totalità. Se non fosse accaduto nulla, a-vrebbe potuto continuare così fino alla fine dei propri giorni.

Forse, l'incendio era una punizione. Non voglio il tuo tappeto, se non lo tessi con il sangue del cuore e l'amore che porti per me. Ecco ciò che l'Imperatore sembrava co-municargli. Curiosamente, questi pensieri lo tranquillizzarono. Tutto sembrava chia-rirsi. Aveva mancato e aveva meritato una punizione. Non era suo compito giudicare; ciò che era accaduto era giusto e lo doveva accettare senza lamentarsi.

La piazza del mercato era quasi deserta. Un paio di donne si erano sedute ai margi-ni e vendevano un'esigua scelta di verdure disposta su dei logori fazzoletti; siccome quasi nessuno comperava qualcosa, chiacchieravano per passare il tempo. Borlon si avvicinò a una di loro e, dallo sguardo che lei gli lanciò, capì che non l'aveva ricono-sciuto. Le chiese dove poteva trovare il predicatore errante.

«Il predicatore? Ha ripreso il cammino alle prima ore del mattino» gli rispose. «Predicava in modo così commovente!» Una grassa donna a cui mancavano gli in-

cisivi inferiori s'immischiò nella conversazione «Peccato che sia rimasto solo un giorno.»

«Strano, non è vero?» aggiunse sgradevolmente una terza donna dalla voce chias-sosa. «Voglio dire che, normalmente, non ci si sbarazza facilmente dei santi predica-tori. Trovo bizzarro che se ne sia già ripartito.»

«È vero» assentì la grassa dal sorriso sdentato. «Ieri mattina ho assistito al sermone e aveva elencato i temi di cui aveva previsto di parlarci.»

«Volete acquistare qualcosa, signore?» chiese la prima rivolgendosi a Borlon. «Ho dei karaqui straordinariamente freschi… O delle radici molto a buon mercato…»

«No.» Borlon scosse la testa. «Grazie. Volevo solo chiedervi… del predicatore…» Tutto era cupo e triste. La legge si stringeva su di lui, non avrebbe permesso che

fuggisse alle responsabilità. Le case che fiancheggiavano la piazza del mercato lo fissavano con le finestre scu-

re come tanti occhi neri e curiosi. Restò immobile un momento, ed ebbe la sensazione di affondare in un pozzo senza fondo, di essere condannato a una caduta eterna senza ritorno, né redenzione. Si allontanò bruscamente e prese la strada di casa.

Quando fu arrivato, incontrò il padre di Karvita, un uomo vecchio e piccolo, un tappezziere. Come tutti loro, manifestava un sacro rispetto per i tessitori di tappeti di capelli. Si era sempre comportato in modo ossequioso nei confronti di Borlon; ma

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oggi Borlon credette di scoprire nel suo sguardo il germe del disprezzo. Si salutarono con un semplice cenno del capo. Borlon si precipitò in casa e salì le

scale che conducevano alla camera di Narana. Era seduta su una sedia vicino alla fi-nestra, calma e timida come d'abitudine. Sembrava più piccola e giovane di quanto fosse in realtà. Cuciva. Le strappò il lavoro delle mani e, senza dire una parola, la portò sul letto, le alzò la sottana, si sbottonò i pantaloni, la penetrò senza tergiversare, con colpi violenti, rapidi e colmi di disperazione. Poi cadde sul letto al suo fianco, ansimante, fissando il soffitto.

Lei non si aggiustò la sottana ma strinse le mani tra le cosce. «Mi hai fatto male» disse sottovoce.

«Mi dispiace.» «Non mi avevi mai fatto male, Borlon.» Lo disse quasi stupita. «Non sapevo che

potesse fare male.» Tacque. Restò disteso, perso nei pensieri. Dopo un po' di tempo, Narana si girò

verso di lui; con i grandi occhi pensierosi, gli guardò il viso e lo accarezzò. Sapeva che non lo meritava, ma la lasciò fare, mentre tentava disperatamente di comprendere quello che non andava.

«Ti fai troppo cattivo sangue, Borlon» sussurrò. «Vedi, prima che la casa bruciasse avevamo abbastanza denaro per il resto della nostra vita. Ora non abbiamo più la ca-sa, ma abbiamo ancora il denaro. Cosa potrebbe accaderci ancora di male?»

Chiuse gli occhi e sentì battergli il cuore. Non era proprio tanto semplice. «Il tap-peto, mormorò. Non ho più il tappeto.»

Le mani di Narana continuarono ad accarezzargli il volto. «Borlon… Forse non a-vrai mai un figlio. A che cosa potrebbe dunque servirti un tappeto? Se muori senza erede, il ricavato della vendita tornerà alla Gilda. La stessa Gilda che rifiuta di aiutar-ti. Ma l'Imperatore… l'Imperatore riceve talmente tanti tappeti che non sa più cosa farsene/lino di più o uno di meno, non è sicuramente quello che cambierà granché.»

Si mise bruscamente a sedere. «Non comprendi. Se muoio senza avere finito il tap-peto, la mia vita sarà senza senso.»

Si alzò, si rassettò i vestiti e si diresse verso la porta. Narana era sempre coricata sul letto, con una mano tra le nude cosce; gli occhi erano quelli di un animale ferito. Avrebbe voluto dirle qualcosa, non importa che cosa: quanto era dispiaciuto, che si vergognava; avrebbe voluto parlarle del dolore che gli stava lacerando il cuore, ma non poté trovare le parole. «Mi dispiace» disse abbandonando la camera.

Se solo avesse saputo quello che non andava! Sembrava non esserci alcuna via d'u-scita da tutta la colpa che si ergeva attorno a lui. Nel scendere le scale a passi pesanti e malsicuri, a ogni gradino, ebbe l'impressione di cadere e di spezzarsi in mille cocci come un vaso di terracotta. Non c'era nessuno in cucina. Sul tavolo vide la bottiglia di vino e i bicchieri della serata precedente. Ne riempì uno, senza darsi la pena di sciac-quarlo, e si mise a bere.

«Ho parlato a Benegoran» disse Karvita. Ti presterà il denaro per la nuova casa e per acquistare un telaio.

Borlon aveva trascorso tutto il pomeriggio seduto alla finestra della cucina, senza dire una parola, seguendo la corsa delle ombre fino al momento in cui il sole finì per tramontare all'orizzonte. Non si mosse. Percepì appena le parole di Karvita. Raggiun-

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sero la coscienza come lontani rumori privi di significato. «Però, c'è una condizione.» Dopo queste parole, riuscì a girare la testa e a guardar-

la. «Una condizione?» «Vuole in cambio Narana» disse Karvita. Borlon sentì che un timido scoppio di risa gli stava gorgogliando in pancia, ma gli

restò bloccato da qualche parte, tra il cuore e la gola. «No.» Vide la moglie stringere i pugni e, in un gesto d'impotenza, colpirsi le anche. «Non

so perché faccio tutto ciò» sbuffò. «Trascorro la giornata correndo a destra e a manca, mi umilio, supplico, imploro, ingoio la polvere del deserto e tu rifiuti tutto con una parola.» Afferrò la bottiglia di vino e ne osservò il contenuto. «Quello che sei capace di fare è solo ubriacarti e soffrire. Credi che sia una soluzione?»

Nel vedere il fermo sguardo della moglie, comprese che lei attendeva una risposta. «No» disse. «Allora quale soluzione proponi?» Si accontentò di alzare le spalle in segno d'impotenza. «Borlon, so che tieni molto a Narana. Probabilmente, più che a me» riprese con

amarezza. «Ma, ti scongiuro, rifletti sulla proposta. Almeno, è una scelta. Noi non abbiamo molte scelte.»

C'erano tante cose che avrebbe sempre voluto dirle e c'erano tante cose che le vo-leva dire in quel preciso istante, ma non sapeva dove cominciare. Innanzitutto, dove-va farle comprendere che l'amava, aveva un posto nel suo cuore e lo addolorava che non lo volesse accettare. Tutto ciò non riguardava Narana…

«Almeno, potresti parlare tu stesso con Benegoran» proseguì con ostinazione. Non aveva alcun senso. Sapeva che non c'era un senso. Tutto era senza senso. «Cosa farai?» gli chiese. Borlon non ne aveva la minima idea. Taceva. Taceva aspettando il verdetto della

corte di giustizia. Taceva in attesa che gli crollasse la montagna di colpa attorno, sep-pellendolo sotto il suo peso.

«Borlon? Che ti succede?» Le parole persero di nuovo il loro significato, si mischiarono allo sfondo sonoro

della notte. Si allontanò verso la finestra e guardò il buio cielo in cui la piccola luna si offriva alla vista attraversando il firmamento in direzione della grande luna che le ve-niva lentamente incontro. Quella notte, la piccola luna avrebbe incrociato con esat-tezza il centro del grande disco luminoso.

Udì qualcuno parlare, ma non comprese. D'altronde, comprendere non aveva alcu-na importanza. Solo le lune erano importanti. Doveva restare in attesa che si toccasse-ro e si congiungessero. Percepì come il rumore di una porta sbattuta violentemente, ma neppure questo aveva più importanza.

Rimase immobile e silenzioso, mentre la piccola luna si muoveva nel cielo. Si po-tevano seguire le stelle che si avvicinavano lentamente all'orbita dello splendente ovale, fino a essere inondate di luce prima di scomparire. Così, sotto la volta celeste, le due lune correvano l'una verso l'altra, stella dopo stella, e si fusero in un unico di-sco brillante, sotto lo sguardo immobile di Borlon.

Era stanco. Gli bruciavano gli occhi. Infine, quando decise di allontanarsi dalla fi-

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nestra, la lampada a olio si era già spenta. Nessuna fiamma, nessun fuoco. Andava bene così. Non sapeva esattamente la ragione, ma era bene così.

Sarebbe partito rassicurato. Il tempo era venuto. Sarebbe potuto uscire nell'antica-mera, prendere il mantello dal gancio, non tanto perché ne aveva ancora bisogno, ma per mettere ordine, per non lasciare nessuna traccia indesiderata. Non avrebbe dovuto importunare nessuno, con i resti di una vita fallita; aveva già troppe colpe, senza ag-giungere anche quella.

Poi aprì la porta e la richiuse lentamente dietro di sé. Si affidò alle proprie gambe che lo portarono dal vicolo fino alla porta della città, sempre più lontano e lontano e lontano, per andare a raggiungere le lune e fondersi in esse…

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La venditrice ambulante

Per delle settimane, nel corso delle peregrinazioni che la conducevano tra le tenute dei tessitori, le capitava spesso di incontrare solo donne. Le mogli, le concubine e le figlie dei tessitori non vedevano l'ora d'invitarla nelle loro cucine. Non tanto per get-tarsi avidamente sulle stoffe e gli utensili che trasportava, ma per ascoltare le notizie apprese sulle altre famiglie o sugli accadimenti di città. Restare seduta per delle ore in compagnia delle mogli era faticoso, e doveva ingegnarsi per riuscire a mettere la merce al centro della conversazione. L'astuzia favorita erano i discorsi sulle ricette. Ubhika conosceva una quantità fenomenale di ricette insolite, tanto culinarie che co-smetiche. Tutte avevano un elemento in comune: per realizzarle, bisognava disporre di un apparecchio particolare o di una determinata spezia. In ogni caso, qualcosa di speciale che le dovevano acquistare.

Quando aveva fortuna, poiché restavano così a discutere e cicalare fino al termine della giornata, le offrivano un giaciglio per la notte. Quel giorno, non ebbe fortuna e ciò la contrariava, perché avrebbe dovuto aspettarselo. In casa di Ostvan, l'ospitalità era una parola senza valore; era così già dai tempi di Ostvan il vecchio e la cosa si era aggravata con il figlio. Giusto prima del crepuscolo, il giovane tessitore era entrato brontolando nella cucina per segnalare all'ambulante che era venuto il momento che prendesse la porta. L'aveva detto con un tono che le aveva fatte tutte rabbrividire di paura e di colpevolezza. Per un istante, Ubhika aveva avuto l'impressione di essere una ladra, non una venditrice ambulante.

Meno male che una delle donne si era data la pena di aiutarla a mettere cesti, fagot-ti e bisacce di cuoio sulla schiena dell'asino di razza yuk. Altrimenti non avrebbe avu-to il tempo di ridiscendere alla luce del giorno il ripido sentiero che conduceva alla casa di Ostvan. Si chiamava Dirilja. Era una discreta, piccola donna che aveva già superato l'età del matrimonio e nel corso delle discussioni non parlava molto, ma l'a-veva fissava con lo sguardo colmo di tristezza. Ubhika avrebbe volentieri voluto sa-perne la ragione. Ma accadeva sempre così con le donne dei tessitori di tappeti: com-parivano all'improvviso e la maggior parte restava laconica e silenziosa sulle proprie origini. Dirilja era l'ultima concubina scelta da Ostvan il vecchio, poco tempo prima che morisse. Fu sorprendente perché, all'epoca, avrebbe dovuto finire il tappeto; inol-tre i capelli di Dirilja erano secchi e fragili, di qualità troppo debole per un tappeto. Ubhika si permetteva di giudicare perché anche i suoi capelli presentavano delle ca-ratteristiche analoghe, prima del tempo in cui l'argento della vecchiaia fosse solo im-maginabile. Che genere di affare poteva aver combinato Dirilja con il vecchio O-stvan? Era Una storia molto misteriosa. Il sole scese rapidamente sull'orizzonte, lan-ciando irritanti ombre tra le colline e le nude rocce, mentre l'aria si rinfrescò sensi-bilmente. Quando Ubhika sentì il vento infilarglisi sotto la gonna e morderle le gam-be, imprecò contro se stessa per essersi lasciata trattenere tanto a lungo. Se si fosse

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messa in strada prima, avrebbe potuto raggiungere la casa di Borlon, dov'era sicura di trovare un letto per la notte.

Ma non le restava null'altro che montare la tenda. Ubhika scrutò i dintorni, in cerca di un luogo protetto, una piccola grotta o uno strapiombo; alla fine, trovò quello che cercava in un avvallamento alle spalle di una roccia, e vi condusse le bestie. Le legò solidamente ai picchetti faticosamente piantati in terra con una pietra. Scaricò i due asini yuk da soma, bendò loro gli occhi e quelli della cavalcatura. Durante la notte era il metodo più sicuro per evitare che fuggissero, nel caso un rumore li avesse spaven-tati. Poi innalzò la piccola tenda, stese sul suolo parecchi strati della stoffa meno co-stosa ed entrò strisciando all'interno.

Ancora una volta, si trovava ad ascoltare il crocchiare delle pietre e il frusciare del-le zampe degli insetti. Percepì di essere l'unico essere umano in quella selvaggia con-trada, protetta solo da una minuscola tenda, due pacchi di viveri, stoffe e attrezzi ai lati. Come sempre, si diceva che non ci si sarebbe mai abituata. Che le cose sarebbero dovute andare diversamente. E, come sempre, prima di addormentarsi, si accarezzò dolcemente il corpo, come per accertarsi di esistere ancora; sentì i seni, rimasti sodi e morbidi al tocco, malgrado l'età; si sfiorò le anche e rimpianse tristemente che non le avesse mai accarezzate la mano di un uomo.

Quando era in età di matrimonio, non si era presentato alcun pretendente e, con i fragili capelli che aveva, non poteva neppure sperare di diventare la concubina di un tessitore. Così non le restava altro che l'attività solitaria dell'ambulante. Talvolta si era chiesta se non avesse potuto accettare i grossolani corteggiamenti dei numerosi artigiani e allevatori che la trovavano di loro gusto. Ma, nel frattempo, anche quei tentativi si diradarono.

Come sempre, finì per addormentarsi e si svegliò nella frescura del mattino. Quan-do strisciava fuori dalla tenda, benché imbacuccata in un pezzo di stoffa avvolto sul corpo, rabbrividiva. Il sole s'imponeva sul crepuscolo mattutino e guardare in lonta-nanza il paesaggio desolato che la circondava le faceva l'effetto di sentirsi un insetto, piccola e irrilevante. Non mangiava mai nel luogo dove aveva trascorso la notte. Al-lora staccava gli yuk, li caricava, toglieva loro la benda dagli occhi e aveva fretta di rimettersi in strada. In cammino, masticava un pezzo di carne secca di baraq, preso dalle provviste, p un frutto, quando ne aveva.

La casa di Borlon. Arrivarci all'alba presentava certi vantaggi. Narana, la giovane concubina di Borlon, gli avrebbe preparato un tè; lo faceva ogni volta. Dopo le a-vrebbe acquistato alcuni metri di tessuto, perché Narana amava cucire.

Ma quando Ubhika vide la casa di Borlon, ancora lontana, percepì subito qualcosa di bizzarro. Era più scura di quella che ricordava. Era quasi nera, come devastata dal-le fiamme. E quando si avvicinò constatò che della casa di Borlon rimanevano solo quei resti che un violento incendio non aveva potuto distruggere.

Attirata da una macabra fascinazione, guidò la cavalcatura fino a quando non si trovò davanti ai resti carbonizzati dei muri che esalavano l'odore acre di fuoco e di distruzione. Le travi e le assi ridotte allo stato di cenere si accumulavano. Ebbe l'im-pressione di comportarsi come un avvoltoio che arrivato sul luogo della tragedia si gettasse voracemente su una carcassa. Forse, c'erano ancora alcune monete nascoste sotto la cenere.

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Ubhika riconobbe le fondamenta della cucina dove, talvolta, si era seduta in com-pagnia delle donne e, nelle vicinanze, la piccola stanza in cui aveva dormito spesso. Non era mai entrata più internamente nella casa. Si aprì faticosamente la strada nel mezzo delle rovine coperte di fuliggine, sollevando a ogni passo una nuvola di cenere dal forte odore di fumo. Per la prima volta, vide le altre stanze che componevano la casa di un tessitore. Quale aveva servito da laboratorio di tessitura? Lo avrebbe sapu-to volentieri.

Scoprì delle tracce senza fuliggine che uscivano dalle rovine e andavano a perdersi in mezzo ai detriti. La famiglia del tessitore sembrava essere sopravvissuta all'incen-dio.

Ma non trovò denaro, nulla di sufficientemente prezioso da portare con sé. Alla fi-ne, decise di riprendere il viaggio. Almeno avrebbe avuto una notizia intrigante da raccontare; ricamandoci un poco attorno, l'avrebbe aiutata a fare buoni affari e, forse, a ottenere un pasto.

Improvvisamente, apparve un uomo. Spuntato dal nulla, nel bel mezzo del deserto. Ubhika guidò lo yuk da sella verso la figura, con la mano posta con diffidenza sul ba-stone. Ma lui le sorrise, facendole un segno amichevole con la mano. Era giovane…

Mentre l'asino s'avvicinava lentamente, si sorprese nell'atto di rimettersi in ordine i capelli. In effetti sono ancora giovane, pensò stupita. Solo il corpo mi ha tradita ed è diventato prematuramente vecchio. Tuttavia ritirò la mano, per timore di sembrare ridicola.

«Salve» disse l'uomo. Le suonò bizzarro. Il modo di parlare aveva qualcosa di rigi-do e di insolito.

Era pure curiosamente vestito. Portava una veste che lo avvolgeva completamente dal collo fino ai piedi, era fatta di una materia che Ubhika non aveva mai visto. Sul petto portava un gioiello scintillante e alla cintura erano fissate ogni tipo di borse e piccole scatole di colore scuro.

«Salve, straniero» gli rispose Ubhika esitando. Il sorriso dell'uomo s'illuminò. «Mi chiamo Nillian» disse e parve sforzarsi di imi-

tare l'intonazione di Ubhika. «Vengo da molto lontano.» «Da dove?» domandò Ubhika, quasi automaticamente. «Da Lukdaria» rispose l'uomo. Una leggera esitazione gli emerse dalla voce, come

qualcuno che cercasse di rifugiarsi nella menzogna e temesse di essere scoperto. Ubhika non aveva mai sentito parlare di una città o di una contrada con quel nome,

ma ciò non voleva dire nulla. Bastava dare un'occhiata allo straniero per rendersi con-to che veniva da molto lontano. «Mi chiamo Ubhika» disse chiedendosi perché fosse così nervosa. «Come potete notare, sono una venditrice ambulante.»

Egli fece un cenno con il capo. «Ciò significa che vendete le cose che trasportate?» «Sì.» Come potrebbe essere diversamente?, si disse, studiandogli il viso. Sembrava

di robusta costituzione e pieno di vita; doveva essere un ballerino infaticabile, uno dalla risata chiassosa, uno in grado di sostenere qualsiasi confronto nel bere. Le ri-cordava un po' il giovane di cui si era innamorata, una volta, quando era ancora una ragazza. Non era successo nulla; aveva sposato un'altra e aveva imparato il mestiere di vasaio. Era morto da alcuni anni. Mise un freno a questi pensieri e cercò di concen-trarsi su un possibile affare. Chiunque l'uomo fosse, le aveva chiesto se aveva qualco-

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sa da vendere; «Sì» ripeté. «Che cosa desiderate acquistare, Nillian?» L'uomo fece correre lo sguardo sul voluminoso carico dei due asini yuk. «Avete

dei vestiti?» «Certamente.» A dire il vero, le stoffe costituivano l'essenziale del commercio, ma

aveva anche alcuni vestiti maschili. «Vorrei vestirmi secondo gli usi della regione.» Ubhika si guardò attorno. Non vide alcuna cavalcatura. Se veniva da così lontano,

com'era giunto fino qui? Non certo a piedi. Come spiegare che era spuntato proprio dove sapeva di incontrare una venditrice ambulante? C'era in tutto questo qualcosa che lei non arrivava a comprendere.

Gli affari innanzitutto. «Potete pagare?» chiese Ubhika. «Perché, in questi paraggi, i costumi vogliono anche che si paghi.» L'uomo fece esplodere una risata e rispose allargando le braccia in un largo gesto. «Non sono affatto dei costumi insoliti; li si trova in ogni angolo dell'universo.»

«Di tutto ciò, non ne so nulla. In ogni caso, ho dei vestiti per voi, se avete il dena-ro.»

«Ho il denaro.» «Bene.» Ubhika scese a terra e notò che l'uomo la seguiva con lo sguardo. Allora si mosse

in modo avveduto, come per mostrare che era ancora svelta, vigorosa e giovane. Con-trariamente a ciò che lasciavano supporre la magrezza del corpo e le rughe della pelle invecchiata dal sole, dalla pioggia e dal vento. Ma si trovò subito grottesca e strappò violentemente dal carico il fagotto che conteneva i vestiti maschili.

Lo srotolò per terra e, quando rialzò gli occhi, vide che l'uomo le tendeva alcune monete. «E il denaro che circola da noi» spiegò. «Riflettete prima, se vi conviene.»

Ubhika prese una delle monete. Non somigliava affatto alle monete che conosceva. La zecca era più fine, il metallo più brillante, non aveva mai visto nulla di simile. Era una bella moneta. Ma non era denaro.

«No, mi dispiace» rispose rendendogli la moneta. «Non posso vendervi nulla. Una vendita inattesa sarebbe stata molto più che benvenuta.»

Lo straniero osservò la moneta come se la vedesse per la prima volta. «Cosa c'è che non va?» chiese. «Non vi piace?»

«Sì, mi piace» replicò Ubhika. «Ma non è il problema. Bisogna che i soldi piaccia-no anche agli altri.»

Cominciò a riavvolgere il fagotto. «Fermatevi, aspettate!» gridò l'uomo. «Aspettate ancora un momento. Proviamo a

metterci d'accordo. Forse vi posso dare qualcosa in cambio?» Ubhika si arrestò e lo squadrò dalla testa ai piedi. «Che cosa, per esempio?» «Non so… Forse i vestiti che indosso?» Ubhika s'immaginò chi avrebbe portato un vestito tanto eccentrico. Nessuno che

non fosse fuori di senno. In quanto a farne qualcosa di diverso… Sì, ma cosa? Scosse la testa. «No,»

«Aspettate. Allora vi propongo altro. Prendete il bracciale. L'ho ricevuto da mia madre; ha veramente un grande valore.»

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Mercanteggiare non è il suq forte, pensò Ubhika divertita. Voleva assolutamente i miserabili vestiti che possedeva e non tentava neppure di dissimularlo. Era come un libro aperto. Ciascuno dei suoi movimenti diceva: ti prego, dammeli; ti pagherò ciò che vorrai. Le faceva quasi pietà.

«Nillian, non avete il nostro denaro e, sentendovi parlare, si nota subito che venite da lontano» disse. «Vestirvi come le persone di questo luogo non vi servirà granché.»

«Il braccialetto» ripeté, tendendole il gioiello che aveva portato al polso destro, come Ubhika credette di ricordarsi. «Vi piace?»

Prese il braccialetto e rabbrividì, sentendo tra le mani il pesante e freddo oggetto al contatto della pelle. Il metallo giallo era brillante, liscio e lucido, presentava all'ester-no dei motivi scintillanti finemente cesellati. Esaminando i motivi da vicino, notò che il braccialetto esalava un forte profumo, un pesante odore di sebo. Simile a quello delle secrezioni emesse dal giovani bufali baraq in calore. L'uomo doveva portarlo da molto. Forse giorno e notte, da quando la madre gliel'aveva donato.

Ma era la verità? Come poteva essere che qualcuno offrisse il regalo della madre, per di più prezioso, in cambio di un paio di miseri stracci?

Le importava poco. «Prendete ciò che volete» si sentì dire Ubhika, del tutto assorta nella contemplazione del gioiello.

«Mi dovete indicare quello di cui ho bisogno!» protestò l'uomo. Ubhika si chinò sospirando. Pescò nel fagotto dei pantaloni, una lunga camicia fat-

ta di tela grezza e una giacca simile a quelle che portavano gli allevatori. Beninteso, non possedeva gli stivali appropriati; al loro posto, gli tese un paio di semplici sanda-li.

«Queste cose non mi andranno mai.» «Certo, vi andranno perfettamente.» «Lo crederò quando le avrò provate» ribatté l'uomo cominciando a svestirsi, da-

vanti allo stupore di Ubhika. Tuttavia si prese la pena di allontanarsi. Egli aprì la giacca realizzata con una sola linea di cucitura; quando l'aprì, produsse una specie di sciabordio sonoro; poi, fece scivolare le maniche lungo le braccia. Allora apparve il torso nudo e vigoroso. Mentre slacciava la cintura, luccicava come il velluto alla luce del sole.

Intanto Ubhika aveva dimenticato di respirare. Inghiottì spaventata una boccata d'aria e non poté impedirsi di sbirciare da ogni lato, come se temesse che qualcuno li stesse osservando. Mai un uomo si era svestito davanti a lei, mai!

Lo straniero sembrava trovarlo naturale. Si tolse i pantaloni e indossò quelli appena barattati.

Ubhika ne fu raggelata e fissò la schiena nuda e muscolosa, tanto vicina da poterla toccare. Le prudevano davvero le mani. Perché no? si domandò, non potendo quasi dominare il desiderio di toccare la pelle levigata e splendente dell'uomo, per provare almeno una volta com'era. Vide il sedere, piccolo e sodo, avvolto solo da un capo stretto e incredibilmente attillato. Sembravano pantaloni corti, e sentì una strana on-data di calore diffondersi in lei dal basso ventre.

E la mente fu raggiunta da pensieri folli… Indecisa, girò il bracciale fra le dita. I motivi sul lato esterno splendevano meravi-

gliosamente. Poteva restituirgli il bracciale e pregarlo di fare con lei le cose che un

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uomo fa con una donna, una volta sola… Che pensiero folle. Trafficò con il bracciale in modo energico, infilandolo al polso

sinistro. Impossibile. Non voleva sperimentare il rifiuto e che le dicesse che era trop-po vecchia.

«In effetti» lo sentì dire ignaro. Distese le braccia in tutte le direzioni e si guardò i piedi. «Mi sta proprio bene.»

Ubhika non disse nulla, aveva solo timore che potesse leggerle i pensieri. Ma Nillian, lo straniero, raccolse le sue cose ed emise un solare sorriso. Avvolse

l'abito luccicante in un fagotto, lo trattenne sotto il braccio e si infilò la cinghia sulla spalla. La ringraziò gentilmente, proferendo ancora qualcosa che l'ambulante non ca-pì. Sebbene lei si ricordasse solo dopo di avergli risposto. Poi, si accomiatò.

Lo seguì con lo sguardo mentre percorreva i campi in direzione della città. Poco prima di un avvallamento si voltò e le fece un cenno di saluto. Dopo, sparì.

Per un certo tempo, Ubhika rimase ancora in piedi, guardando davanti a sé. Riprese coscienza sollevando il braccio sinistro per dare un'occhiata al bracciale, c'era davve-ro. Non era stato un sogno.

Di colpo, ebbe l'impressione come se tutt'intorno, dietro ogni roccia e ogni collina, ci fossero delle persone che si raccontassero bisbigliando dei segreti, dei segreti di cui lei non doveva venire a conoscenza. Si sbrigò, rotolando e sistemando di nuovo i ve-stiti rimasti. Poi prese le briglie dei due Yuk da soma, salì sulla sella della cavalcatura e lo colpì sul fianco per metterlo in movimento. Sul petto sentì un peso che non pote-va spiegare.

Si sforzò di non pensare a quella serata. La notte sarebbe stata difficile.

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L'uomo venuto da altrove

«Pianeta poco fertile, in massima parte coperto da deserti e steppe. Stima appros-simativa degli abitanti: fra trecento e quattrocento milioni. Molte città di media gran-dezza. Tutte allo stato di rovina. Poche risorse minerali. Agricoltura sottoposta alle condizioni più difficili. Penuria d'acqua.»

Ammirava in Nillian l'incredibile dinamismo, l'energia puramente animale che ir-radiava e gli attribuiva qualcosa di selvaggio, di indomabile. Forse dipendeva dal fat-to che sembrava non pensare troppo; le parole, le azioni e le decisioni gli venivano dalle viscere, senza artifici, in modo spontaneo, non ostentato e appena ponderato. Invece, da quando volava assieme a Nillian, Nargant aveva spesso notato come i pro-pri processi mentali l'obbligavano a seguire molteplici andirivieni, anche quando la decisione da prendere era delle più irrilevanti. In lui, esaminare tutti gli aspetti di un problema per proteggersi da ogni eventualità, era quasi un riflesso automatico.

Osservò Nillian di sbieco. Il giovane secondo pilota sedeva comodamente rilassato sullo schienale, davanti alle labbra aveva il microfono dell'apparato di registrazione e studiava attentamente gli schermi e i dati segnalati dagli strumenti dei rilevamenti a distanza. Si poteva toccarne la concentrazione con le mani. Sugli schermi splendeva-no diverse immagini delle superfici planetarie. Erano senza profili particolari, color marrone dalle sfumature grigie. Il computer aveva inserito alcune linee bianche, in-sieme alle indicazioni sull'attendibilità del rilevamento.

«Gli strumenti segnalano qualcosa, con qualche probabilità si tratta dei resti rudi-mentali di un'alta cultura del passato.» riferì Nillian. «Dallo spazio, a occhio nudo, si possono seguire le linee rette, il cui colore permette di intuire le fondamenta di grandi costruzioni. Enormi costruzioni. Nell'atmosfera rilevo i prodotti decaduti di elementi radioattivi; bassi resti radioattivi. Probabilmente, si tratta di una guerra atomica avve-nuta diecimila anni fa. Ci sono piccole attività elettromagnetiche, qualcosa di simile a semplici frequenze radio, presumibilmente. Ma non localizziamo nessuna fonte di forte energia.» Si avviò alla conclusione e la voce prese un tono d'impaziente ironia: «In altre parole, il quadro generale è simile a tutte le altre volte. Non credo che ne sa-premo di più, se continuiamo a non scendere sui pianeti a cui ci avviciniamo. Certa-mente, è la mia opinione personale. Non avrei nulla da obiettare, se il comando della spedizione scientifica prendesse questo appunto come un suggerimento. Rapporto di Nillian Jegetar Cuain, a bordo della KALYT9. Ora ufficiale: 15-3-178002. Ultima taratura 4-2. Settore 2014 BQA-57. In orbita attorno al secondo pianeta del sole G-101. Fine rapporto.»

«Lo vuoi inviare così?» «Perché, non dovrei?» «Le ultime osservazioni sono abbastanza impertinenti, no?» Nillian scosse la testa facendo una smorfia, si chinò sulla consolle di trasmissione e

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lanciò con un gesto studiato la relazione di volo sul trasmettitore a multifrequenza. «Il tuo problema, Nargant, è l'educazione senza contatto con la vita reale.» chiarì di

seguito. «Sei cresciuto nella fiducia che le prescrizioni siano più importanti dei fatti e incontrare anche la più piccola disobbedienza sia irrimediabilmente mortale. Non hai studiato molto, ma l'obbedienza ti è penetrata nella carne e nelle ossa. Quando, un giorno, dopo il tuo decesso, ti taglieranno a pezzi, invece di midollo spinale troveran-no probabilmente della cristallina obbedienza.»

Nargant si fissò le mani, come per cercare di stabilire attraverso la pelle se Nillian avesse ragione. «Non farai di me nessun ribelle, Nillian» mormorò sentendosi a disa-gio.

La cosa stupida fu che lo pensava lui stesso. Da quando era in viaggio con l'ex ri-belle, e ci viveva assieme, si sentiva come un fossile.

«Non diventerai più un ribelle, soldato imperiale» replicò Nillian. Ora era serio. «Per fortuna non è più necessario. Ma preferirei se tu potessi dimenticare un poco l'addestramento. Non solo per te, anche per me. Da quanto tempo siamo in viaggio? Quaranta giorni. Quaranta giorni, tu e io da soli in questa piccola astronave da esplo-razione. A dire il vero, non so ancora se tu mi puoi effettivamente soffrire. 0 se tu mi sopporti perché te l'hanno ordinato.»

«Sì» disse Nargant. «Ti posso sopportare.» La voce suonò terribilmente legnosa. L'ho già detto a qualcuno? pensò spaventato.

«Grazie. Perché anche tu mi piaci ed è la cosa che mi innervosisce: sei così forma-le con me, come se alla fine della missione dovessi presentare un protocollo sul tuo comportamento a una commissione di chierici o alla Consulta dei ribelli.»

«Formale…?» «Sì! Talmente prudente, talmente cauto, mai nessuna parola fuori dalle righe e

sempre nel giusto… Credo che dovresti metterti ogni mattina e ogni sera davanti allo specchio per dirti ad alta voce: 'Non c'è più l'Imperatore!' E dovresti farlo per alcuni anni.»

Nargant rifletté se il compagno stesse parlando seriamente. «Posso sempre tentare di farlo.» «È semplice: dovresti disinnescare, di tanto in tanto, quel maledetto censore che ti

hanno piantato nel cervello, dire chiaro e tondo quello che ti viene in mente, senza tenere conto di ciò che ne penso io. Credi di poterlo fare, qualche volta?»

«Mi sforzerò.» Talvolta, trovava il ribelle piuttosto irritante. Per esempio, perché la risposta che gli aveva dato lo faceva ridere?

«Qualche volta, credi che potresti ignorare un paio di regolamenti? Interpretare li-beramente un paio di disposizioni?»

«Uhmm… non lo so. Che cosa, per esempio?» Gli occhi di Nillian presero l'espressione di un cospiratore. «Per esempio, l'ordine

di non atterrare su nessun pianeta.» Il respiro di Nargant si bloccò di colpo. «Non hai per caso l'intenzione di…?» Nillian fece un impetuoso cenno con il capo e gli occhi gli scintillarono scherzosi. «Non è possibile!» Il solo pensiero rese Nargant sconcertato. Dopo la discussione,

si sentì attirato in una trappola. Sentì che il cuore gli batteva velocemente. «Abbiamo delle disposizioni rigorose! Non dobbiamo atterrare sui pianeti che sorvoliamo.»

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«Noi non atterriamo.» Nillian mostrò un sorriso che gli andava da un orecchio al-l'altro. Fu difficile decidere se fosse un'espressione maligna, divertita o entrambe. «Ci immergiamo solo un poco nell'atmosfera…»

«E poi?» «Mi fai scendere con la navicella.» Nargant respirò profondamente e strinse i pugni. Nelle tempie sentiva il sangue

pulsare. Distolse lo sguardo e concentrò l'attenzione su una stella sconosciuta che ve-deva attraverso l'oblò, calma ed enigmatica. Ma non lo aiutò.

«Non lo possiamo fare.» «Perché no?» «Perché è la violazione di un ordine esplicito!» «Ma va'» fece Nillian. «È terribile.» E tacque. Nargant evitò gli occhi del compagno; conosceva l'ex ribelle abbastanza bene per

sapere che lo stava attirando in un agguato. Il pianeta G-101/2 era appeso sopra di loro, come una grande palla sporca di colore

marrone. A occhio nudo, non erano individuabili delle città. «Non so che cosa ti riprometti» sospirò infine Nargant. «Conoscenze» disse semplicemente Nillian. «Non sappiamo ancora molto, ma una

cosa la sappiamo con certezza: non riusciremo a trovare alcuna risposta alle nostre domande, finché sorvoleremo un pianeta dopo l'altro e faremo i rilevamenti standard solo dall'orbita in cui ci muoviamo.»

«Abbiamo già una gran quantità di informazioni» lo contraddisse Nargant. «Tutti i pianeti che abbiamo sorvolato sono popolati. Dappertutto troviamo civiltà planetarie a uno stadio notevolmente primitivo. Dappertutto abbiamo trovato tracce di una guer-ra avvenuta molto addietro nel passato, in cui si fece uso di armi atomiche.»

«Che noia» aggiunse il giovane secondo pilota. «In fondo, questo conferma quello che già sappiamo, comunque.»

«Ma erano solo leggende primitive, notizie appena credibili di una manciata di contrabbandieri. Ora lo sappiamo per esperienza personale.»

Nillian trasalì, così improvvisamente che anche Nargant sussultò. «Ti lascia com-pletamente indifferente?» gridò eccitato. «Incrociamo una galassia che evidentemente faceva parte dell'Impero da tempi immemorabili, ma non è registrata su nessuna mappa stellare! Abbiamo scoperto una parte dispersa dell'Impero, su cui nell'archivio imperiale non esistono documenti. Nessuno ne sa la ragione. Nessuno sa quello che ci attende. È un segreto incredibile!»

Si fece ricadere sul sedile, come se l'improvvisa sfuriata ne avesse esaurito le for-ze. «Immagina che la traccia di questo segreto è stata trovata solo attraverso una ca-tena di casualità…» Le sue mani cominciarono a descrivere dei curiosi cerchi, con le dita tese. «Tutte le casualità sono state necessarie per farci arrivare fin qui. Il gover-natore di Eswerlund ci ha permesso di rintracciare un nascondiglio di contrabbandie-ri, come se non avesse nulla di più importante da fare… Il tecnico a bordo delle a-stronavi sequestrate, invece di cancellare le memorie informatiche, le ha ispezionate e di colpo è finito sulle mappe della galassia di Gheera… Poi la Consulta che per un solo voto di maggioranza ha votato l'invio della spedizione scientifica… E adesso siamo qui. È il nostro fottuto dovere, dobbiamo scoprire più informazioni possibili su

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ciò che sta accadendo in questo luogo e com'è potuto avvenire che un'immensa parte dell'Impero sia caduta nell'oblio totale, da decine di migliaia di anni.»

Nargant si mantenne in silenzio. Passò lentamente l'indice sull'imbottitura consunta dei comandi principali, proprio nei punti dov'erano ruvidi per le scalfitture e gli strappi.

«Cos'hai intenzione di fare?» Voleva evitare a tutti i costi che qualcuno potesse di-re in seguito che avesse dato il consenso.

Nillian sospirò. «Mi lascerai con la navicella nell'atmosfera. Atterrerò nelle vici-nanze di un centro popolato e tenterò di contattare gli abitanti.»

«Come vuoi farti comprendere dalla gente?» «A giudicare dai messaggi via radio che abbiamo intercettato, laggiù parlano una

forma molto antica di paisi. Forse esigerà un po' di pratica, ma credo che non incon-trerò dei problemi.»

«E se non andrà così?» Nillian alzò le spalle. «Mi farò passare per sordomuto. O tenterò di studiare la loro

lingua.»

Si assestò sulla poltrona. «Ho già qualcosa in mente.» Ciò detto, scese sulla stretta scaletta che conduceva nel settore inferiore dell'astronave.

Nargant riconobbe che il ribelle non gli avrebbe permesso di sviare il suo proposito e non fece più resistenze. Rassegnato, lo seguì con un profondo sentimento di disa-gio. Vide Nillian caricare l'attrezzatura nella navicella: la tenda progettata per gli at-terraggi di fortuna, qualche provvista e alcuni strumenti di rilevamento necessari per le esplorazioni planetarie, quelli che nel viaggio sarebbero dovuti rimanere nell'arma-dio.

«Prendi un'arma» lo consigliò. «Non ha senso.» «Cosa farai quando ti troverai in una situazione pericolosa? Laggiù c'è comunque

della gente!» Nillian si trattenne e si girò. I loro sguardi s'incontrarono. «Mi affido a te compa-

gno» disse il ribelle con un sorriso insolito che Nargant non seppe interpretare. Un breve grido dei reattori fu sufficiente per rallentare la corsa dell'astronave e far-

le abbandonare l'orbita in discesa. Il pianeta diventò sempre più grande e di lì a poco nell'astronave era udibile dappertutto il fischio lacerante delle prime particelle atmo-sferiche che a enorme velocità scivolavano sulla carlinga. Il fischio diventò un ululato e infine un assordante scroscio di pioggia, mentre l'astronave scendeva negli strati in-feriori dell'atmosfera.

Nargant frenò ancora ed entrò in una traiettoria di parabola il cui punto più basso si avvicinava al massimo alla superficie del pianeta e che, poi, avrebbe catapultato l'a-stronave di nuovo nello spazio.

«Pronto?» «Pronto.» Poco prima di raggiungere il punto più basso, la navicella si staccò. In modo ele-

gante, come se i piloti non avessero fatto altro per anni e anni, i due apparecchi si se-pararono. Nargant si lanciò nel buio del cielo e seguì un'orbita stazionaria molto alta,

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tanto da sfruttare il movimento rotatorio del pianeta, restando approssimativamente sul punto in cui Nillian si trovava. Mentre il rombo delle macchine si esauriva e, cre-pitando, l'astronave si riprendeva dallo sforzo, aprì il collegamento radio.

Nillian stava già emettendo il rapporto sulla situazione. «Sto sorvolando un insediamento abitativo. Si potrebbe dire quasi una città… È

molto esteso, si tratta di parecchie piccole capanne e vicoli stretti, ma anche di larghe strade. Vedo alcuni spazi verdi e dei giardini. Una sorta di muro racchiude l'intero in-sediamento, anche i giardini. Fuori dalle mura della città sembra esserci solo deserto e steppa. Forse, in alcuni punti, c'è qualche vegetazione. Si vedono alcuni animali pa-scolare; probabilmente ci sono allevamenti di bestiame.»

Nargant scrutò con un'occhiata il registratore. Il robusto attrezzo funzionava in-stancabilmente e memorizzò ogni parola.

«Alla mia destra, distinguo un'imponente e scura formazione rocciosa, facilmente identificabile dall'alto. Il rilevamento permette di presumere l'esistenza di caverne. Atterrerò sul luogo; forse, è adatto come base.»

Nargant fece una smorfia. «Caverne!» Come se su un pianeta così desolato non ci fosse nessun altro posto sicuro per una tenda ad aria compressa.

«Ehilà! Nei dintorni della città ci sono anche alcuni edifici. Certi sono notevolmen-te lontani dall'insediamento; stimerei diverse ore di marcia. I sensori a infrarossi indi-cano che le costruzioni sono abitate. Vedo anche qualcosa che potrebbe essere il fu-mo di un camino.»

Era pazzia. Tutta l'iniziativa era una pazzia. Nargant si massaggiò la nuca e deside-rò di essere lontano.

«Ora, compio un'ampia curva verso Sud, fino a vedere di nuovo la catena rocciosa. In effetti, dall'alto, si presta in modo eccellente come contrassegno visivo. Mi avvici-no in volo e atterro.»

Nargant tirò fuori uno straccio e iniziò a lucidare le protezioni degli strumenti di visualizzazione. Gli ho suggerito di non farlo, pensò. Forse, dovevo insistere, perché il mio rifiuto fosse registrato nel giornale di bordo.

Udì il rumore brusco dei pattini di atterraggio e poi lo spegnersi graduale del ron-zio dei reattori.

«Adesso sono atterrato. Ho aperto l'oblò e respiro l'atmosfera del pianeta. L'aria è respirabile, notevolmente calda e piena di odori: polvere ed escrementi, c'è anche un odore dolciastro, come di putrefazione… Naturalmente sono molto ricettivo, dopo aver respirato per mesi solo l'aria sterile dell'astronave, ma penso di farcela senza ma-schera a filtri. Scendo, per cercare tra le rocce un posto adatto alla tenda.»

Nargant sospirò e alzò lo sguardo. Nell'oblò di destra vedeva la più grande delle lune del pianeta. Il pianeta aveva ancora un secondo satellite, sostanzialmente più piccolo, che orbitava nella direzione opposta e necessitava di poco meno di due gior-ni orbitali per terminare la rivoluzione. In quel momento, la luna più piccola non si vedeva.

«Il paesaggio è notevolmente roccioso e scosceso. Penso di interrompere il colle-gamento per un certo tempo, attacco l'apparecchio alla cintura per utilizzare entrambe le mani. Mi senti ancora, Nargant?»

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Nargant si protese sul microfono e spinse il pulsante di trasmissione. «Naturalmen-te.»

«È tranquillizzante saperlo.» Sentì Nillian scoppiare in una risata. Mi viene in mente che sono distante da casa alcuni milioni anni luce e sarebbe notevolmente noioso tornare a piedi, se tu mi lasciassi nei guai. Dunque, a dopo.»

Ci fu un breve gracchiare. Poi l'altoparlante rimase in silenzio. Il registratore si fermò automaticamente. Nargant fu avvolto dai consueti rumori dell'astronave: il quasi impercettibile sibilo dell'impianto di aerazione, di quando in quando un'inquie-tante cigolio proveniente dal settore delle macchine, il molteplice sussurrare e gorgo-gliare degli strumenti dell'abitacolo di comando.

Dopo alcuni minuti, Nargant si sorprese come ipnotizzato dalle cifre dell'orologio di bordo, in attesa del prossimo contatto radio. Irritato, si alzò e scese nel settore di riposo per bere un sorso.

Sono arrabbiato con me stesso, riconobbe. Nillian ha trovato un'avventura. Io inve-ce sono appeso a un'orbita e muoio di noia.

Durò a lungo, fino quando Nillian si fece sentire di nuovo. «Proprio poco fa, ho avuto il primo contatto con un indigeno. Un uomo anziano. Ci

siamo compresi ottimamente, meglio di quanto mi aspettassi. Probabilmente l'ho con-fuso un poco con i miei discorsi. Effettivamente pensavo che qui fosse tutto deserto. Però, secondo quanto mi ha raccontato, in queste caverne ci devono essere delle pie-tre preziose e ogni tanto la gente le viene a cercare. È stato molto loquace; abbiamo parlato con agio. È interessante il fatto che qui l'Imperatore venga considerato ancora immortale, un Signore simile a Dio, sebbene non sappiano molto sull'Impero. Quando gli ho raccontato della ribellione, non ha creduto a una sola parola.»

Nargant si ricordava bene del periodo in cui, anche nella sua vita, l'Imperatore rap-presentava il centro dell'universo. Pure adesso, dopo vent'anni di faticosa e insangui-nata secolarizzazione, sentiva dolore nel luogo in cui in passato si trovava la fede; il dolore che riguarda la vergogna, la sensazione di avere fallito e perso qualcosa di es-senziale.

Per il giovane ribelle andò meglio. Allora, era ancora un bambino e nell'educazione non fu mai sottoposto all'opprimente macchinario delle caste clericali. Neppure pre-sagiva quali sofferenze e tormenti uno come Nargant avrebbe dovuto portare con sé per il resto dell'esistenza.

«Per fortuna, ho fatto atterrare la navicella in un punto poco visibile; non credo che l'abbia notata. Tuttavia mi cercherò un altro posto come accampamento per la notte.»

Il resto del giorno trascorse tranquillo. Nillian fece scalo in luoghi differenti e ri-prese immagini che poi trasmise all'astronave. Nargant poté guardare le fotografie sul monitor. Erano immagini di paesaggi ampi e brulli, di capanne vecchie, inclinate e cadenti, di sentieri riconoscibili che si sviluppavano all'infinito attraverso le gole roc-ciose.

La mattina seguente, Nillian rinunciò a portare a termine il progetto iniziale: cam-minare fino alla città per dare un'occhiata. Invece passò tutto il giorno alla ricerca di viandanti solitari, a piedi o su piccole cavalcature. Atterrava a distanza di sicurezza, si avvicinava e li interrogava. Nel corso di uno dei contatti, comprò da una vecchia donna un equipaggiamento completo di vestiti indigeni, in cambio di un bracciale in-

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credibilmente prezioso. Lo spirito di sacrificio di Nillian impressionò Nargant, e do-vette ammettere che l'avvedutezza con cui il ribelle procedeva lo tranquillizzava.

A mezzogiorno del giorno successivo, Nillian scoprì un uomo che, evidentemente, si era perso nel deserto. «Lo osservo da un po' di tempo. La ragione per cui un uomo percorre questi luoghi a piedi è incomprensibile; può venire solo dalla città e deve avere impiegato almeno una giornata di cammino. Laggiù regna dappertutto una calu-ra spietata e non c'è acqua. Sembra cadere continuamente a terra.» Fece silenzio per un intervallo di tempo. «Adesso non si alza più. Probabilmente è svenuto. Bene, in tali condizioni posso risparmiargli la vista della navicella. Adesso atterro.»

«Iniettagli un sedativo» suggerì Nargant. «Altrimenti, si sveglierà sulla navicella in volo e non sai come reagirà.»

«Buona idea. Quale flacone è? Il giallo?» «Sì. Dagli solo mezza dose; il suo sistema circolatorio dev'essere piuttosto indebo-

lito.» «Va bene.» Nargant seguì, sulla scorta dei rumori che giungevano dall'altoparlante, il modo in

cui Nillian prese l'uomo privo di sensi per trasportarlo in un luogo ombrato e fresco. Gli riempì una bottiglia e mezzo d'acqua. Poi si trattò di aspettare finché lo scampato non si svegliasse.

«Nargant, sono Nillian.» Nargant trasalì. Si era appisolato nella poltrona del pilota. «Sì?» Gracchiò e crepitò nell'altoparlante. Poi Nillian domandò: «Ti dice qualcosa il con-

cetto di tappeto di capelli?» Nargant si grattò disorientato sul petto e rifletté. «No» disse in seguito. «Posso

pensare che si tratti, al massimo, di un tappeto fatto di capelli o che così sembri, per-lomeno. Perché me lo chiedi?»

«Ho parlato un poco con l'uomo. Mi ha raccontato di fare il mestiere di tessitore di tappeti di capelli. Forse, mestiere non è la parola giusta; così, come lui stesso ha det-to, sembra di più una casta sociale. In ogni caso, me ne sono accertato; voleva effetti-vamente dire che tesse un tappeto di capelli e cioè di capelli umani.»

«Capelli umani?» Nargant cercò di essere più sveglio. Perché Nillian gli racconta-va tutto?

«Deve trattarsi di una faccenda dispendiosa. Se non l'ho frainteso, gli serve tutta la vita per tessere un unico tappeto.»

«Sembra piuttosto curioso.» «Gliel'ho detto anch'io e la mia opinione l'ha completamente sconcertato. Annoda-

re i tappeti dev'essere qualcosa di simile a un rito sacro. Del resto, quando ha afferra-to che non sapevo cos'era un tappeto di capelli, ha acutamente dedotto che io venissi da un altro pianeta.»

A Nargant mancava l'aria. «E tu cosa gli hai detto?» «L'ho ammesso. Perché no? Trovo interessante che la gente di qui sappia di altri

mondi abitati; non me lo sarei aspettato, sulla scorta dell'aspetto primitivo dei parag-gi.»

Con meraviglia, Nargant notò che le mani gli tremavano. Solo in quell'istante, capì

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di sentirsi davvero male, per la paura. La tensione non sarebbe diminuita prima della fine dell'avventura e non prima che Nillian fosse di nuovo tornato a bordo. Era una tensione che, contro ogni ragionevolezza, tentava di proteggere entrambi dalle conse-guenze della loro palese insubordinazione.

«Che cosa farai adesso?» domandò, sperando che la voce non lo tradisse. «I tappeti di capelli mi interessano» spiegò Nillian spensierato. «L'ho pregato di

mostrarmi il tappeto al quale sta lavorando, ma lui ha detto che non può. Non ne in-tuisco il perché; ha mormorato qualcosa che non ho compreso. Però visiteremo un suo collega, un altro tessitore, e potrò dare un'occhiata al tappeto.»

Fu una faccenda fisica. La sua coscienza sapeva che i ribelli avevano un'altra con-cezione della disciplina, ma il corpo non lo sapeva. Il corpo era pronto a morire piut-tosto che ignorare un ordine.

«Quando ci andrete?» «Gli ho dato un preparato ricostituente; aspetto ancora, fino che abbia effetto. U-

n'ora, forse. L'uomo era abbastanza distrutto. Ma non è possibile cavargli dalle labbra cosa facesse nel deserto. L'intera storia è parecchio misteriosa.»

«Porti un costume indigeno?» «Naturalmente. A proposito, è incredibilmente scomodo; gratta in posti di cui tu

neppure immagini l'esistenza.» «Quando ti farai sentire di nuovo?» «Subito dopo la visita all'altro tessitore di capelli. Abbiamo di fronte a noi una

camminata di due o tre ore; per fortuna, il sole è già abbastanza basso e non è più tan-to caldo. Può darsi che ci inviti a pernottare, una cosa che certamente non rifiuterò.»

«Hai con te l'apparecchio ricetrasmittente, per ogni evenienza?» «Naturalmente.» Nillian scoppiò a ridere. «Ehi, ti preoccupi per me?» In seguito a queste parole, Nargant sentì una fitta dentro di sé. «In realtà, no» rico-

nobbe, passando per odioso e perfido. Effettivamente, si preoccupava solo di se stes-so, di cosa gli sarebbe capitato se Nillian avesse dei guai. Non meritava l'affetto che il ribelle gli dimostrava, perché era incapace di replicarlo. Tutto quello che poteva fare era di invidiargli la leggerezza e la libertà interiore, per sentirsi come uno storpio.

«Sono tanto stanco da svenire» spiegò elusivamente. «Cercherò di dormire un po-co. In bocca al lupo. Fine messaggio.»

«Crepi. Fine» rispose Nillian. Si udì un crepitio e il registratore si disinnestò di nuovo.

Nargant rimase seduto, appoggiò la testa all'indietro e chiuse gli occhi. Gli sem-brava che i globi oculari vibrassero. Di certo non riuscirò a dormire, pensò. Ma si ad-dormentò, prima di aprire gli occhi ancora una volta, e scivolò in un sogno inquieto.

Quando si risvegliò, ci volle un certo lasso di tempo prima che si ricordasse dove si trovava e che cosa era successo. Con il cervello intorpidito, fissò le cifre dell'orologio di bordo e cercò inutilmente di scoprire quanto avesse dormito. In ogni caso, il conta-tore del registratore non si era mosso, voleva dire che Nillian non aveva chiamato.

Passeggiò fino a un oblò e vide, sotto di lui, la sfera enorme del pianeta. Una zona crepuscolare, da polo a polo, si estendeva sulla superficie dal colore marrone sporco. Fu come scioccato, come se tutto a un tratto gli diventasse chiaro che nella regione in cui Nillian si tratteneva era già mattina. Aveva dormito tutta la notte.

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Nillian non aveva chiamato. Afferrò il microfono e attivò la trasmittente con un movimento troppo marcato. «Nillian?» Attese, ma tutto rimase in silenzio. Diventò più formale: «KALYT-9 chiama Nillian Jegetar Cuain, rispondete!» Anche questo non servì a

nulla. Il tempo trascorse e Nillian non si fece vivo. Nargant sedeva nella poltrona del pi-

lota e chiamò in continuazione il nome di Nillian nell'apparecchio ricetrasmittente, per ore. Riavvolse la registrazione e la riascoltò, ma non c'era nulla di nuovo, nessun messaggio via radio di Nillian. Non era cosciente che si stava mordendo il labbro in-feriore, facendolo sanguinare.

Si sentì a pezzi, come strappato da due forze della natura che lo separavano. Da un lato, il regolamento, il chiaro e irrevocabile ordine di non atterrare sui pianeti in os-servazione, e l'obbedienza, di cui una volta era orgoglioso. Fin all'inizio, sapeva che l'impresa sarebbe andata storta. Un uomo solo su un pianeta sconosciuto, in una cul-tura sconosciuta, con cui l'Impero da migliaia di decenni non aveva più alcun contat-to, cosa avrebbe potuto ottenere Nillian se non correre verso la propria morte?

Dall'altro lato, c'era la nuova sensazione dell'amicizia, il sapere che da qualche par-te laggiù un uomo si fosse trovato, forse, in una situazione pericolosa e poneva tutte le speranze in lui. Un uomo che gli dava fiducia e si era sforzato di ricevere la sua amicizia, sebbene sapesse quanto cose simili mettessero in difficoltà l'ex soldato im-periale. Forse, in quell'istante, Nillian dirigeva lo sguardo verso il cielo notturno e buio, dove sapeva trovarsi la piccola e fragile astronave, aspettando un salvataggio.

Nargant inspirò profondamente e si distese per liberarsi dalla tensione. Aveva un proposito e la decisione gli diede nuova forza. Con mosse allenate, preparò l'apparec-chio di trasmissione per un messaggio via radio.

«Qui, parla Nargant, pilota dell'astronave KALYT-9 in spedizione scientifica. Chiamo l'incrociatore pesante TRIKOOD sotto il comando di Jerom Karswant. At-tenzione, questa è una chiamata d'emergenza!»

Pausa. Senza accorgersi di quello che stava facendo, si pulì il sudore della fronte. Fu come se non sì trattasse solo di un messaggio via radio, ma piuttosto di dire con l'ausilio di tutto il corpo ciò che si sarebbe dovuto intraprendere. Sapeva che non do-veva riflettere troppo. Altrimenti, non avrebbe lanciato il messaggio. Doveva sempli-cemente parlare e inviarlo immediatamente e, poi, attendere qualsiasi accadimento. Liberò il tasto di pausa.

«Senza osservare l'ordine specifico, il mio compagno Nillian Jegetar Cuain, da or-mai tre giorni di tempo standard, si è recato sulla superficie del pianeta G-101/2 per compiere delle esplorazioni tra la popolazione. L'ultimo messaggio è stato trasmesso otto ore fa. Sono da menzionare i seguenti avvenimenti…» Fece un breve rapporto, senza curarsi delle gambe che gli tremavano. «Chiedo disposizioni. Nargant, a bordo della KALYT-9. Ora ufficiale: 18-3-178002. Ultima taratura 4-2. Posizione sul qua-drante 2014 BQA-57. In orbita attorno al secondo pianeta del sole G-101. Fine mes-saggio.»

Quando attivò la trasmissione, era bagnato di sudore. Tutto prese l'inevitabile cor-so. Il messaggio via radio venne scomposto in particelle d'informazione, appartenenti

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a una dimensione incomprensibile, e si indirizzò verso l'obiettivo. Nessuno poteva più fermarlo. Nargant abbassò il microfono e si preparò a una lunga attesa. Era stan-co, ma sapeva che non avrebbe potuto dormire.

Nelle ore che seguirono, chiamò ripetutamente Nillian nell'apparecchio ricetrasmit-tente elettromagnetico. I nervi gli sembravano incandescenti e il presentimento di una vicina sventura lo tormentava.

Improvvisamente, la spia rosso arancio dell'impianto trasmittente si accese e il re-gistratore automatico' si attivò. Nargant trasalì, svegliandosi da un sonno inquieto. L'astronave ammiraglia della flotta in esplorazione su Gheera stava chiamando!

«Qui è l'incrociatore pesante TRIKOOD. KALYT-9, confermiamo il vostro mes-saggio via radio. Ora ufficiale: 153-178002. Il comando della spedizione scientifica vi impartisce l'ordine di interrompere le ricerche e di ritornare il più velocemente pos-sibile. Fine messaggio.»

Il tempo sembrò fermarsi. Improvvisamente, Nargant non sentì più nulla, solo il violento battito del cuore e il fluire di sangue caldo nelle orecchie. «Errore! Errore! Errore!» credette di sentire in modo incessante, scandito dalla pulsazione sanguigna. Aveva fatto uno sbaglio. Aveva permesso che si avverasse un errore. Un atto di di-sobbedienza per cui sarebbe stato severamente punito. Tutto quello che ancora poteva fare per riconquistare l'onore perso era tornare il più umilmente possibile, accettare la punizione.

Le mani di Nargant volarono sui comandi. Il mormorare e il sussurrare degli stru-menti della cabina di pilotaggio si estinsero, quando le enormi macchine nelle pro-fondità dell'astronave si risvegliarono facendo tremare la carlinga. La paura aveva cancellato ogni pensiero, lo stesso ricordo di Nillian. Una lancetta si arrampicò dalla zona rossa a quella verde, mentre i tozzi aggregati pompavano l'energia nei propulso-ri; poi Nargant accelerò e diresse la piccola astronave verso il buio intessuto di stelle. Ogni movimento testimoniava la routine di un'intera vita; avrebbe potuto pilotare l'a-stronave anche mezzo morto. Senza una mossa superflua, preparò la fase di volo, ol-tre la velocità della luce, e poco dopo la KALYT-9 entrò nella dimensione in cui do-minano altre leggi. In quella dimensione in cui il movimento non è sottoposto ad al-cuna limitazione, ma gli individui che l'attraversano sono del tutto isolati. Nessun messaggio può raggiungere via radio l'astronave che viaggia nella dimensione in-comprensibile del superspazio.

Così, accadde che Nargant perse per pochi minuti l'autentica risposta al messaggio d'emergenza.

«KALYT-9, qui parla il comandante Jerom Karswant a bordo del TRIKOOD. At-tenzione, con questo messaggio revoco l'ultimo ordine che avete ricevuto. Si trattava di una disposizione standard, diretta a tutte le astronavi in esplorazione. Nargant, ri-manete nell'orbita G-101/2 e tentate ancora di realizzare il contatto radio con Nillian. Invio l'incrociatore leggero SALKANTAR. Siete pregato di calcolare il punto d'im-mersione più vicino per un'astronave di questa grandezza e inviate le coordinate pre-cise, affinché il SALKANTAR vi possa raggiungere rapidamente! Ripeto: non ritor-nate alla base, ma restate in posizione, per rendere possibile il viaggio del SALKAN-TAR. Il soccorso sta arrivando.»

Molto tempo dopo, dopo l'arrivo dell'astronave KALYT-9 nel campo base della

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spedizione scientifica di Gheera, e dopo molteplici colloqui con il SALKANTAR, a Nargant diventarono chiare alcune cose. Infruttuosamente, il SALKANTAR cercò solo in base alle imprecise ed errate mappe stellari di approssimarsi alla stella G101. Di fronte al forte panico, Nargant non aveva notato che la risposta alla chiamata d'e-mergenza era arrivata molto prima del tempo permesso dalle leggi della fisica. In re-altà, si trattava di una comunicazione di routine rivolta a tutte le astronavi in spedi-zione scientifica. Inoltre fu chiaro che con l'affrettato ritorno aveva abbandonato il compagno Nillian nei guai ed era responsabile della sua morte, probabilmente.

Ebbe un colloquio sgradevole con il taurino comandante della flotta di spedizione scientifica, ma il vecchio generale ribelle non lo punì. Questa fu forse la punizione più dura.

Da quel momento in poi, ogni mattina, quando si guardò nello specchio, Nargant si diceva ad alta voce: «Non c'è più nessun Imperatore.» Ogni volta, nel pronunciare le parole, provava in lui una traccia di paura profonda che lo irrigidiva e si ricordava dell'uomo che gli aveva donato fiducia e amicizia. Avrebbe desiderato essersele meri-tate, ma non ne era stato capace.

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L'esattore delle imposte

Seguiva da giorni i segnali della via dei mercanti, e non aveva alcun motivo di pre-occuparsi; le pietre che marcavano il tragitto erano collocate a distanze regolari, facili da riconoscere, e rari furono gli ostacoli causati dal vento sul sentiero accuratamente battuto. Tuttavia, quando Yahannochia apparve all'orizzonte, tirò un sospiro di sollie-vo.

Lo jibarat rimase indifferente. L'animale da sella non mutò per nulla il passo rego-lare e altalenante, anche quando l'uomo che lo cavalcava lo colpì senza motivo. Per quanto riguardava la cadenza appropriata ai lunghi viaggi, gli jibarat si mostravano più ragionevoli degli umani.

In quell'attimo, vide tra le colline le abitazioni isolate dei tessitori di tappeti di ca-pelli. Alcune colorate e appariscenti, altre marroni e grigie, discretamente adagiate alla roccia. La differenza dipendeva dall'antichità e dallo stile architettonico. C'erano case con i tetti a punta e dai muri dal tono rosso bruciato, altre erano piatte e costruite con pietre. Vide perfino una casa tutta nera che sembrava aver subito un incendio.

Nessuno fece attenzione quando egli cavalcò attraverso la porta della città. Dei bambini gli corsero attorno, gridando rumorosamente, e alcune donne chiacchierava-no sull'angolo di un'abitazione. Solo un paio di volte lesse l'inconfondibile spavento nello sguardo che si posava sulle insegne delle sue bisacce: erano le insegne imperiali dell'esattore delle imposte.

Conosceva bene il luogo. Non era cambiato molto, dall'ultima visita di ben tre anni addietro. Trovò ancora la strada per arrivare al palazzo delle autorità cittadine, attra-versando i vicoli stretti, passando di fronte alle impolverate e povere officine, ricor-dandosi le buie bettole, le pareti macchiate e le aste di legno ammuffito.

Le labbra espressero un sottile sorriso. Non lo avrebbero preso per qualcun altro. Li avrebbe giudicati e tassati senza pietà. Certamente, avevano saputo che sarebbe arrivato; lo sapevano sempre. Era al servizio dell'Impero da decenni, conosceva tutti i trucchi. Non avrebbero avuto bisogno di ingannarlo con quelle facciate di misere ar-chitetture. Se si guardava bene, all'interno, c'erano prosciutti appesi nelle cantine e fini tessuti negli armadi.

Banda di senzadio! Il solo sacrificio che si chiedeva alle loro pietose esistenze era qualche imposta e, anche in tale caso, trovavano il modo di stringere la cinghia.

Davanti al palazzo delle autorità, fece sostare lo jibarat e bussò a una delle finestre, senza scendere. Un ragazzo sporse fuori la testa e gli domandò cosa volesse.

«Sono Kremman, esattore imperiale delle imposte e giudice. Mi annunci ai dignita-ri.»

Il ragazzo sbarrò gli occhi, quando vide lo stemma imperiale fece un precipitoso cenno con il capo e sparì.

Tentavano tutti i trucchi. A Brepenniki avevano addirittura bruciato il libro mastro.

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Naturalmente non lo avevano ammesso, non lo ammisero mai. Avevano affermato che nel palazzo delle autorità era scoppiato un incendio e il libro si era distrutto. Co-me se in tal modo potessero sfuggire alle tasse! Tutto quello, che ottennero fu di pro-lungare il suo soggiorno. Bisognava redigere un nuovo registro e stimare i beni di o-gni cittadino. C'erano stati ululati, gran digrignare di denti e, poi, le solite lacrime, ma non si fece impressionare portando a termine il suo dovere. Sapeva che, d'ora in poi, avrebbero fatto più attenzione. Non avrebbero ritentato, neppure una volta, con lui.

La porta del palazzo delle autorità si spalancò di colpo, ne uscì tempestosamente un uomo grasso e vecchio, mentre si infilava ancora il ricco mantello da pompa. An-sante si recò davanti a Kremman, riuscendo finalmente a farsi completamente in-ghiottire dal mantello, e alzò lo sguardo sull'esattore delle tasse. Aveva fini perle di sudore sulla fronte.

«Siate benvenuto nel nome dell'Imperatore, Kremman!» gridò inquieto. «È bene che siate qui, una fortuna perfino, perché da ieri abbiamo un sacrilego nel carcere sot-terraneo e non sappiamo che cosa fare. Ma, ora, potete esprimere un verdetto giudi-ziario…»

Kremman guardò l'uomo con disprezzo. «Non sprecate il mio tempo. Se si tratta di un sacrilego, allora, impiccatelo come ordina la legge.»

Il superiore della città fece uno zelante cenno della testa, sbuffando così forte che si poteva credere stesse per svenire a ogni istante. «Non potrei mai importunarvi, giu-dice, se si trattasse di un normale sacrilego, davvero mai. Ma non è il solito sacrilego, si tratta perfino di un sacrilego fuori dal comune, e sono convinto che…»

Che razza di immaginazione! Se applicassero il loro estro al lavoro, invece di cer-care di ingannarlo!

Fermò il torrente di parole dell'altro con un movimento della mano. «Voglio prima occuparmi dei registri, è la ragione per cui sono venuto.»

«Certo, naturalmente. Perdonate la mia mancanza di riguardo. Dovete essere esau-sto per il viaggio. Volete esaminare i registri subito o posso assegnarvi un alloggio e farvi portare qualcosa per rinfrescarvi?»

«Prima di tutto i libri» insisté Kremman scendendo dalla sella. «Prima di tutto i libri, molto bene. Seguitemi.» Kremman prese la borsa con gli strumenti di lavoro e seguì il vecchio uomo nella

cantina con il soffitto a volta del palazzo dei dignitari della città. Mentre con movi-menti esercitati centinaia di volte disponeva gli strumenti su un grande tavolo, osser-vò in silenzio mentre il vecchio tirava fuori una chiave arrugginita e apriva l'armadio di ferro battuto in cui erano conservati i libri delle imposte.

«Portatemi subito anche il registro delle varianti» aggiunse Kremman, dopo che il superiore della città gli aveva posto il libro mastro sigillato sul tavolo.

«Ve lo farò portare immediatamente» mormorò l'uomo. Kremman sorrise maligno, mentre il superiore della città si diresse ciabattando ver-

so la porta. Aveva veramente creduto di poterlo sviare dal lavoro con qualche storiel-la. Ora era deluso, perché non aveva funzionato.

Li beccherà. Prima o poi, li beccherà tutti. Poi si mise al lavoro. Innanzitutto, si trattava di esaminare se il sigillo del libro ma-

stro delle imposte di Yahannochia fosse realmente intatto. Kremman palpò i nastri

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che lo avvolgevano; non erano manomessi. Rimaneva lo stesso sigillo. Lo soppesò con la mano, lo guardò con occhio critico. Nella vita, aveva forzato e impresso mi-gliaia di sigilli, eppure c'era sempre un momento in cui si tratteneva, per non permet-tersi di cadere nella routine. Il sigillo del libro mastro era il punto più sensibile del si-stema. Se riuscissero a falsificare un sigillo, senza che lui se ne accorgesse, cadrebbe in loro potere. Se si sapesse in giro, gli costerebbe la testa. Oppure potrebbero ricat-tarlo fino alla fine dei suoi giorni.

Il ragazzo che gli aveva aperto la finestra - probabilmente il servitore - entrò e por-tò il registro delle varianti. Kremman gli indicò, con uno scortese cenno del capo, di deporlo sul tavolo e, quando notò in lui la curiosità, lo squadrò in modo così velenoso che preferì sparire più rapidamente che poteva. Non gli serviva alcuno spettatore.

Con cautela, Kremman sovrappose il proprio sigillo al pezzo di cera. Si adattava perfettamente. L'operazione ben riuscita lo tranquillizzò. Anche l'esame approfondito con la lente d'ingrandimento non gli permise di trovare alcuna irregolarità.

Non potevano rischiare. Non avevano dimenticato che, ancora giovane, l'esattore delle imposte aveva scoperto un sigillo falsificato nella Città dei tre fiumi. Non ave-vano dimenticato con quale durezza avesse giudicato tutta la città, condannandola a una tassa supplementare, tanto che agli abitanti erano scese le lacrime.

Rimaneva l'ultima prova. Dopo una breve occhiata alla porta, per assicurarsi che nessuno lo spiasse, prese un piccolo coltello in mano e iniziò a grattare con cautela l'immagine impressa del sigillo. Era un segreto che svaniva quando qualcuno violava o scioglieva il sigillo: sotto l'immagine del primo sigillo ce n'era una seconda e solo un tocco esperto poteva abilmente riportarla di nuovo alla luce. Con prudenza infini-ta, Kremman grattò fino all'impercettibile colorazione della cera che indicava la pre-senza di un altro strato. In seguito, ancora un piccolo espediente con il coltello, un trucco che gli era costato anni di esercizio, e lo strato di cera superiore si staccò di netto. È il sigillo segreto, un minuscolo simbolo che solo gli imperiali esattori delle imposte conoscevano. Kremman sorrise soddisfatto, afferrò una candela e sciolse completamente il sigillo. Fece gocciolare la cera in una piccola ciotola di metallo; al-la conclusione di tutto, avrebbe preparato un nuovo sigillo.

Aprì il libro. L'attimo lo elettrizzava, da quando aveva la capacità di pensare; era l'attimo del potere. Nel libro erano registrati tutti gli averi dei cittadini, le ricchezze dei benestanti e gli scarsi patrimoni dei poveri; nel libro, lui decideva con un colpo di penna sulle difficoltà o sulla buona salute di tutta la città. Quasi con tenerezza, voltò i fogli che crepitavano per il trascorrere del tempo e lo sguardo accarezzò le pagine piene di antiche notifiche, di cifre, di firme e di timbri. I dignitari della città potevano pavoneggiarsi con i loro mantelli sontuosi per dare spettacolo davanti alla gente, ma con il libro e il diritto di scriverci, lui aveva in mano il vero potere.

Poté separarsene a malapena. Con un impercettibile sospiro, prese l'altro libro in mano, il registro delle varianti. Al tatto, era più consueto, addirittura ordinario. Si po-teva pure sentire che ognuno aveva la possibilità di scriverci; era una puttana di libro. Kremman lo aprì controvoglia e cercò l'ultima notifica. Poi sorvolò le pagine seguenti con i cambiamenti, le nascite, le morti, i matrimoni, gli arrivi, le partenze e i mestieri. Nel periodo della sua assenza non era accaduto molto, come aveva temuto. Terminò rapidamente i calcoli e gli rimase ancora un po' di tempo per qualche prova casuale.

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Voleva scoprire se in quella troppo tranquilla città tutti fossero realmente irreprensi-bili.

Con il naso leggermente arricciato lesse l'ultima voce trascritta. Poco tempo prima avevano lapidato un maestro, evidentemente su istigazione di un predicatore errante; l'accusa formulata in seguito fu: blasfemo. A Kremman non piaceva che qualsivoglia predicatore si spacciasse per giudice; e, in una città senza insegnante, presto o tardi i profitti delle tasse sarebbero calati. L'esperienza l'aveva ripetutamente indicato.

Era piacevolmente silenzioso nella cantina dai soffitti a volta. Kremman sentì solo il proprio respiro e il graffiare della penna sulla carta, mentre apponeva gli elenchi. Il primo l'avrebbe consegnato al servitore delle autorità; conteneva i nomi di tutta la gente che sarebbe stata invitata al palazzo, per l'interrogazione. La gente i cui rapporti di patrimonio o condizione di famiglia erano cambiati dall'ultima stima. Sul secondo elenco, riportò i nomi di quelli che avrebbe visitato e valutato da solo. Un paio di nomi provenivano dal registro delle varianti, lo stato delle cose rendeva indispensabi-le una valutazione personale. I nomi rimanenti li consegnò all'intuizione, al senso per gli intrighi disonesti e all'istintiva identificazione nell'aspirazione umana a trattenere molto e cedere il meno possibile, raggirando i doveri riconosciuti. Si affidava com-pletamente all'istinto e aveva sempre colpito nel segno. Lesse l'elenco dei cittadini, lesse il loro mestiere, l'età, la condizione e l'ultima stima. Davanti a qualche nome, sentì in lui come un grido interiore d'allarme: ne trascrisse i dati.

Si poteva ben immaginare che cosa stava accadendo in città. Nel frattempo, la no-tizia della sua presenza era arrivata fino all'ultima stamberga e si stavano consultando l'un l'altro con il cuore preoccupato, chiedendosi se questa volta sarebbero stati presi in castagna. Certamente nascondevano con zelo tutto ciò che era prezioso: i gioielli, i nuovi vestiti, i buoni utensili, la carne affumicata e le brocche di terracotta con le lec-cornie salate. Mentre stava seduto per scrivere gli elenchi, si sarebbero messi i vestiti più consunti, gli stracci grigi e rattoppati, si sarebbero spalmati il grasso nei capelli e la sporcizia sul viso, oltre a cospargere le pareti delle case e delle capanne con cenere e portare letame di bestiame nelle stanze, affinché la sporcizia si accumulasse.

Avrebbe scoperto la loro mascherata. Credevano di ingannarlo con il viso trascura-to e i capelli sporchi, ma lui avrebbe osservato le loro unghie e, notando se le mani avessero i calli o meno, già ne sarebbe stato informato. Avrebbe trovato le cose, sotto la paglia dei letti, dietro gli armadi, sotto le travi e nelle cantine. Non c'erano così tan-ti nascondigli e lui li conosceva tutti. Nei giorni in cui era di buonumore, poteva prenderla come una sfida sportiva. Senz'altro, questi giorni erano molto rari.

Quando entrambi gli elenchi furono terminati, Kremman chiuse il libro mastro e chiamò il servitore con il campanello.

«Hai confidenza con l'accertamento delle imposte?» gli domandò. «Lo chiedo per-ché sei molto giovane e non ti conosco.»

«Sì. In realtà, no. Me l'hanno spiegato, ma non ho mai…» «Allora, fai ciò che ti dico. Questa è una lista con i nomi dei cittadini che valuterò

domani. Li ho suddivisi in quattro gruppi; per la prima mattinata, la tarda mattinata, il pomeriggio e la sera. Devi fare in modo che siano puntuali. Hai capito?»

Il ragazzo fece un cenno malsicuro con il capo. È veramente un tonto, pensò Kremman sprezzante. «Ce la farai?»

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«Sì, certo!» assicurò sbrigativamente il servitore. «Come procederai?» Lo aveva in mano. Kremman lo vide inghiottire saliva a fatica; cercava per terra,

qua e là, con gli occhi disperati, come se la risposta si trovasse da qualche parte. In-tanto, mormorò qualcosa d'incomprensibile.

«Cos'hai detto?» insisté Kremman con soddisfazione crudele. «Non ti capisco.» «Dicevo che non lo so ancora.» Kremman lo fissò, come si fosse trattato di un disgustoso insetto. «Conosci i popo-

lani riportati nella lista? Cosa ne pensi di passare da loro, uno per uno, e informarli?» Il ragazzo fece un nuovo cenno impacciato, ma non si arrischiò a guardarlo negli

occhi. «Sì, sì, lo farò.» «Come ti chiami?» «Bumug.» Kremman gli porse la lista. «Tu vieni il pomeriggio.» «Oggi pomeriggio?» Guardò di nuovo l'esattore delle imposte, era confuso. «Cosa

vuol dire?» Kremman sorrise sardonico. «Anche tu sei nella lista, Bumug.»

Come ogni volta, l'imperiale esattore delle imposte alloggiò come ospite delle au-torità cittadine. Nell'arredamento dell'alloggio e nel vitto, le città visitate si trovavano in conflitto. Da un lato, avevano timore di privarlo delle comodità, per non suscitarne il malcontento. Dall'altro, non volevano dargli l'idea di avere a che fare con una città abbiente.

Per fortuna, vinceva per lo più il desiderio di corromperlo, anche qui a Yahanno-chia. Trovò una stanza pulita, un letto che sarebbe stato degno di un re e un tavolo riccamente provvisto di cibarie. Depose il libro mastro sotto il cuscino, prima di se-dersi al tavolo. Fintanto che il libro non sarebbe stato di nuovo sigillato, non lo a-vrebbe abbandonato un solo momento con lo sguardo.

Quando la mattina seguente, con il libro incollato sotto il braccio, si recò alla casa del superiore, c'era già una lunga fila di persone in attesa. Kremman fece un profondo respiro e avanzò con passo duro e deciso, per scacciare ogni debolezza da se stesso, ogni aria di compassione, bonarietà o altri sentimenti che non si addicevano a un esat-tore delle imposte. Lo aspettava una giornata faticosa, una giornata in cui dalla matti-na alla sera doveva ascoltare delle storie pietose e non si poteva permettere alcun i-stante di disattenzione, alcun attimo di cedimento, per non tradire il suo compito, il sacro compito della riscossione delle tasse imperiali.

Così sorpassò la coda dei popolani, senza degnarli di uno sguardo. Prese posto al tavolo ancora in allestimento, sul quale già qualcuno aveva collocato l'occorrente per scrivere e una brocca d'acqua, aprì il libro mastro e chiamò il primo nome della lista. «Garubad!»

Si presentò un uomo robusto dai capelli grigi e dal viso scolpito dal clima, un mo-dello di pura forza fisica, vestito di cuoio consunto. Disse: «Sono io.»

«Sei allevatore di bestiame?» «Sì.» «Che genere di bestiame allevi?»

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«Soprattutto pecore di razza keppo. Inoltre, ho qualche bufalo baraq.» Kremman assentì con un cenno. Tutto si trovava nel libro mastro. L'domo dava

l'impressione di un timorato di Dio; nessun caso difficile. «Quante keppo? Quanti ba-raq?»

«Centododici keppo e sette baraq.» Kremman consultò il libro. «Vuol dire che il numero delle tue pecore è aumentato

di un quarto; il numero dei baraq è rimasto immutato. Aumento le tasse nella stessa misura. Hai qualche obiezione?»

L'allevatore scosse la testa. «No. È per l'Imperatore.» «Lo prendo per l'Imperatore» replicò Kremman con la formula tradizionale e regi-

strò l'annotazione corrispondente. «Grazie, puoi andare.» Fu un buon inizio. All'esattore delle tasse piaceva, quando una giornata di esazioni

si avviava in tal modo;. Lasciò all'istinto di scegliere quando qualcuno sulla lista do-veva essere sottoposto a una prova supplementare è quando poteva credergli.

Diventò una giornata di lavoro pieno, ma tutto sommato gradevole. Naturalmente ci furono i soliti strazianti lamenti su raccolti rovinati, bestiame invecchiato, bambini morti e mariti scomparsi. Ma non accadde troppo spesso e certe storie furono perfino credute da Kremman. In un caso, ebbe addirittura una sorprendente manifestazione di mitezza, disponendo il rimborso a una donna il cui marito era deceduto. Nessuno do-veva dire che l'esattore delle imposte fosse un mostro. Faceva semplicemente il suo dovere, nulla di più - un sacrosanto dovere, al servizio dell'Imperatore.

Era sera tardi quando alla luce di una lampada a olio eseguì l'ultima registrazione e congedò l'ultimo uomo. Soddisfatto, osservò la seconda lista, con cinque nomi nuovi. Non avrebbe impiegato più della giornata successiva per le prove, e poi occorreva so-lo calcolare le cifre complessive.

Nell'attimo in cui chiuse rumorosamente il libro, arrivò il superiore della città nella pompa del disordinato mantello. «Se posso, vorrei ricordare che abbiamo ancora il sacrilego nel carcere sotterraneo…»

«Prima di tutto le imposte» lo informò Kremman alzandosi stancamente. «Prima le imposte e poi tutto il resto.»

«Naturalmente» fece l'uomo con un servile cenno del capo. «Come volete.»

Entrò nella prima casa senza preannunciarsi. Per fare le prove casuali era importan-te apparire all'improvviso, sebbene a tale riguardo non si faceva illusioni: il cammino attraverso i vicoli di Yahannochia fu seguito in segreto da molti occhi e tutto quello che fece circolò subito tra i bisbiglii dei popolani.

Ma i due li sorprese davvero. Saltarono di colpo in piedi, quando passò la porta; la donna si nascose il viso sparendo in un'altra stanza e l'uomo s'inframmise tra lei e l'e-sattore, come per impedirgli di vederla. Kremman ne sapeva la ragione: una bella e giovane donna in casa induceva taluni esattori a stimare un'imposta dolorosamente alta, per poi offrire una diminuzione nel caso la donna si fosse a loro concessa. Però Kremman non lo aveva mai - fatto. A prescindere da ciò, i dignitari di Yahannochia gli avevano portato nella notte una giovane ragazza - conoscevano bene le sue predi-lezioni - e ne fu soddisfatto.

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«Sono Kremman, l!imperiale esattore delle imposte» chiarì all'uomo arrabbiato e timoroso nello stesso tempo. «Secondo la mia documentazione, vi siete sposati l'ulti-mo anno. Devo fare una stima. Mi faccia dare un'occhiata in giro e mi indichi tutto quello che vi appartiene.»

La donna era del tutto scomparsa, quando si recarono nella stanza attigua. L'acuto sguardo dell'esattore cadde sulla finestra che era solo accostata. Kremman sorrise in modo rabbioso. Doveva essere fuggita scavalcando il davanzale.

Aprì gli armadi, guardò nelle brocche, palpò esaminandola la paglia dei giacigli, batté sulle travi di legno e sulle pareti. Come si era aspettato, non trovò nulla di parti-colare. Infine, registrò nella lista la stima che gli sembrava più adatta.

Il sollievo del giovane fu inconfondibile. «È per l'Imperatore!» gridò di botto. «Io prendo per l'Imperatore» replicò Kremman e se ne andò. Il libro mastro fu sigillato di nuovo e chiuso nell'armadio, fu redatta la copia della

lista delle imposte e allegata al registro delle varianti, tutto quello che c'era ancora da fare era redigere la documentazione dei prelievi.

La riscossione delle imposte veniva realizzata dalle stesse autorità cittadine, non se ne doveva occupare lui. Il suo compito fu solo quello di stabilire l'ampiezza delle somme. Anche il trasporto del denaro non lo riguardava; ci avrebbe pensato il pros-simo mercante di tappeti di capelli che sarebbe venuto a Yahannochia. Il documento redatto da Kremman era destinato al mercante, perché avrebbe reso conto nella Città Portuale delle somme affidate a lui e al carro d'acciaio.

La maggior parte della gente credeva che le imposte sarebbero state inviate all'Im-peratore, ma non era vero. Il denaro non lasciò mai il pianeta. L'unico tipo di tributo pagato da questo mondo alla corte dell'Imperatore furono i tappeti di capelli. I denari delle imposte servivano solo a pagare gli stessi tappeti.

Era la ragione per cui il trasporto dei denari era assegnato ai mercanti; quando rag-giungevano la Città Portuale, consegnavano i tappeti di capelli, il denaro restante e i documenti dell'esattore delle imposte. Si confrontavano i dati con gli appunti inviati dai maestri della Gilda dei tessitori e si poteva stabilire se un mercante facesse il pro-prio dovere o si arricchisse in modo fraudolento.

«Le imposte sono state fissate» dichiarò Kremman casualmente, mentre il superio-re della città entrava nella stanza. «Se dovete informarmi di qualche dissidio che ne-cessita dei lumi di un giudice imperiale, adesso è il momento adatto.»

«Non abbiamo nulla di particolare da segnalare» replicò il vecchio. «C'è solo, co-me vi ho già detto, il sacrilego.»

«Ah sì, il vostro sacrilego.» Kremman interruppe la redazione del documento e si appoggiò allo schienale. «Che cosa ha fatto?»

«Ha pronunciato ogni tipo di blasfemia, tra l'altro ha detto che l'Imperatore non è più in carica, ma sarebbe stato destituito e altre assurdità del genere. E in presenza di due tessitori del tutto affidabili, pronti a testimoniare dell'accaduto.»

Kremman sospirò annoiato. «Ah, sono voci molto vecchie. Simili storie circolano già da almeno vent'anni e ci sono sempre dei folli che pensano di riesumarle a dovere. Perché non lo impiccate, semplicemente? È un deviante, nulla di più. Per questo mo-tivo c'è la legge.»

«Ora, non sapevamo se nel caso la legge trovasse applicazione» disse il dignitario

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protraendo il discorso. «Il sacrilego è uno straniero ed è anche strambo, in aggiunta. Non sappiamo da dove venga. Afferma di arrivare da un altro mondo, così lontano che è impossibile vederlo nel cielo.»

«Non è nulla di speciale; il regno dell'Imperatore è grande» sbuffò Kremman. «Afferma di appartenere ai ribelli che avrebbero fatto cadere l'Imperatore. Perdo-

nate le mie parole, espongo solo quello che ha detto lo straniero. Dice anche che pro-viene da un'astronave di ribelli in orbita attorno al nostro mondo.»

L'esattore fece scoppiare una rumorosa risata. «Assurdo! Se esistesse, l'astronave non avrebbe indugiato a intraprendere un'azione per liberarlo. Si tratta di un folle, come dicevo prima.»

«Sì, l'abbiamo pensato anche noi» disse l'anziano con un cenno del capo e indugiò un momento prima di aggiungere: «Ciò che ci ha mossi ad attendere il vostro giudizio è che, presso lo straniero, abbiamo trovato un apparecchio ricetrasmittente.»

«Un apparecchio ricetrasmittente?» Kremman tese l'orecchio. «Sì, l'ho portato con me.» Dalle profondità del pomposo mantello, il dignitario e-

strasse una piccola cassetta nera di metallo che evidenziava una membrana e alcuni pulsanti.

Kremman prese l'apparecchio in mano e lo soppesò per esaminarlo. Era sorpren-dentemente leggero e vistosamente integro. Senza graffi e scalfitture, come quasi tutti gli apparecchi tecnici che l'esattore aveva visto in precedenza.

«Siete sicuro che sia un apparecchio ricetrasmittente?» ' «Lo straniero lo ha affer-mato. Non saprei cos'altro potrebbe essere.»

«È così… piccolo!» Una volta, Kremman aveva posseduto un apparecchio ricetra-smittente, molti anni prima. Era una cassa grande e massiccia. Aveva sempre comu-nicato le registrazioni delle imposte alla Città Portuale. Ma un bel giorno ci fu una tempesta di sabbia, la cavalcatura stramazzò al suolo e il prezioso oggetto si fracassò contro una roccia.

Kremman studiò il piccolo apparecchio con attenzione. Gli interruttori non aveva-no alcuna dicitura; solo sul lato posteriore c'era qualcosa di simile a un numero pun-zonato, composto da segni che ricordavano solo lontanamente le cifre a lui note.

Più l'esattore teneva l'oggetto in mano e più sentiva insinuarsi in lui una curiosa paura, come quella che invade chi si trova sul bordo di uno scoglio ed è obbligato a guardare il buio e profondo abisso smisurato. L'apparecchio, lo riconobbe, era un'ar-gomentazione irrefutabile. Un corpo estraneo. Qualsiasi cosa significasse, la sua esi-stenza dimostrava che le cose accadute esulavano dalle competenze giudiziarie di cui era il tramite.

L'improvvisa prospettiva gli permise di tirare un sospiro di sollievo. Poiché era una via che lo liberava da ogni responsabilità e, inoltre, in completa conformità con le di-sposizioni imperiali.

«Il sacrilego dev'essere tradotto nella Città Portuale» dispose per concludere. «Lui e l'apparecchio.»

«Lo devo condurre alla vostra presenza?» domandò il dignitario. «No, non è necessario. Registro la disposizione nella documentazione. Il prossimo

mercante di tappeti di capelli che visiterà Yahannochia lo prenderà con sé e lo porterà davanti al Consiglio.»

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Rapidamente, come se volesse prevenire eventuali obiezioni, scrisse la nota corri-spondente sul margine inferiore del documento esattoriale, versò accanto alcune goc-ce di cera e impresse il sigillo.

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I predatori

L'enorme carovana del mercante Tertujak rotolava lentamente sull'ampio bassopia-no, con le carrozze, i carri a tenda e i soldati a cavallo. Viaggiava verso il gigantesco massiccio roccioso di Zarrak, tanto ampio da estendersi per tutto l'orizzonte come una parete insormontabile e oscura.

Tertujak era seduto dentro la carrozza, assorto nella lettura, quando sentì un chiaro cambiamento. Le ruote smisero di fare fracasso sulla dura roccia e gli aspri detriti, dove ogni movimento delle ruote diventava un colpo doloroso, e iniziarono a macina-re la strada sulla più arrendevole sabbia. Aveva percorso abbastanza spesso l'itinera-rio per sapere, senza dare un'occhiata alla finestra, che avevano intrapreso la scalata dell'unica via per superare il massiccio di Zarrak, il passo ai piedi della Roccia del Pugno.

Dopo un breve istante di riflessione, valutò che era giunto il momento di verificare di nuovo che tutto fosse a posto. Sollevò a fatica il corpo massiccio dai cuscini e aprì la stretta porta che conduceva alla piccola piattaforma di metallo, a fianco del posto di guida. Per la considerevole corpulenza del mercante, la porta era quasi insufficien-te, ma Tertujak l'attraversò spingendosi come poteva, afferrò l'utile maniglia prevista per la bisogna e fece un cenno al cocchiere, prima di guardarsi attorno.

Di certo avrebbe di nuovo scoperto ogni tipo di cosa che non gli quadrava. Talvol-ta, gli uomini della carovana si comportavano come dei bambini; si doveva stare al-l'erta in continuazione, non doveva permettere loro nessuna delle innumerevoli negli-genze, altrimenti avrebbero preso delle abitudini che potevano diventare pericolose. Per esempio, la carovana si era di nuovo allungata troppo; le carrozze di approvvi-gionamento, invece di raggrupparsi attorno al carro dei tappeti di capelli, venivano dietro gli altri come una catena storta. Colpa di questa inefficienza furono, come sempre, i mercatanti. Troppo volentieri sfilavano alla fine della migrazione, per fare indisturbati i loro ambigui e piccoli affari con i soldati e per dimostrare che non sotto-stavano agli ordini del mercante.

Tertujak sbuffò dal naso con disapprovazione, mentre rifletteva se fosse il caso di intervenire. Percorse con un'occhiata l'ampia catena montuosa di Zarrak che torreg-giava di fronte a loro. La Roccia del Pugno si trovava proprio nella direzione di mar-cia e svettava verso l'alto il suo nero calcare, quasi minacciosa. Si chiamava così a causa della forma; aveva cinque screpolature profonde che da un inaccessibile alto-piano conducevano nelle profondità della montagna e creavano un cornicione latera-le, apparendo come il pugno di un gigante che sembrava sorvegliare l'unico passo del massiccio. Sarebbero passati a fianco del pollice nella posa ad angolo, oltre la sella della montagna, e di lassù avrebbero, per la prima volta da anni, gettato lo sguardo sulla Città Portuale, la destinazione del loro viaggio.

Si ricordò di nuovo del prigioniero. Non passò giorno senza che dovesse pensare

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allo strano uomo che gli avevano consegnato a Yahannochia. Naturalmente non fu felice dell'impegno supplementare, ma non poté rifiutare. Adesso il prigioniero si tro-vava nella parte avanzata della carovana, sopra un carro merci, fra due grandi balle di stoffa, legato e sorvegliato da soldati che avevano il rigoroso ordine di non parlargli e se avesse detto qualcosa avrebbero dovuto ridurlo al silenzio. Il prigioniero era consi-derato un eretico e ciò che poteva esprimere era adatto ad avvelenare il cuore delle persone pie.

Che cosa aveva d'importante quest'uomo, tanto che bisognava portarlo di fronte al Consiglio della Città Portuale? Probabilmente, non l'avrebbe mai appreso.

Tertujak cercò lo sguardo del comandante a cavallo e lo salutò con un breve gesto. «Cosa dicono i tuoi esploratori?» «Vi avrei interpellato tra breve, signore» disse il comandante. Grom era un uomo

aitante dai capelli grigi; fece trottare il cavallo a passo leggero, quasi danzando, fino alla carrozza. «L'ascesa è molto sabbiosa, questa volta; non credo che riusciremo a raggiungere il passo prima dell'oscurità, per tacere del superamento del valico.»

Concordò con la valutazione di Tertujak. Protrasse la mascella inferiore legger-mente in avanti, come sempre quando aveva preso una decisione. «Prepara il campo» ordinò. «Domani ci muoviamo con le prime luci del mattino; dunque, provvedi che tutti siano pronti.»

«Come desiderate, signore» replicò Grom con un cenno e cavalcò lontano. Mentre Tertujak rientrava nella spaziosa carrozza, lo sentì suonare il corno e dare ordini.

L'allestimento del campo venne effettuato, come ogni sera, e tutti quelli che appar-tenevano alla carovana del mercante sapevano esattamente cosa fare. Attorno alla carrozza del mercante e al carro blindato dei tappeti si formò una sorta di roccaforte, in cui i carri delle merci formavano un cerchio interno e gli altri di approvvigiona-mento uno esterno. Nell'area fra i due cerchi, vennero montate le tende per i soldati a cavallo. Gli animali da tiro, bufali baraq per lo più, vennero allentati e legati con lun-ghe corde di lino per permettergli di sdraiarsi. Le cavalcature vennero raggruppate perché dormivano su quattro zampe. Solo i fanti che viaggiavano su qualche carro e passavano il tempo sotto le tende di protezione dovettero svegliarsi; il loro compito era di fare la guardia al campo.

Il cuoco personale del mercante dispose la piccola cucina di fianco alla grande car-rozza. Tertujak aveva aperto la porta e attendeva speranzoso.

«Signore, c'è ancora della carne salata di baraq» propose il cuoco con zelo. «Potrei arrostire del karaqui e preparare un'insalata di lune pallide, oltre un vinello legge-ro…»

«Sì, è perfetto» borbottò Tertujak. Mentre il cuoco trafficava con le pentole, Tertujak tentò di capire da dove proveni-

va l'inquietudine che quella sera lo stava invadendo interiormente.

Imbruniva; la Roccia del Pugno li sovrastava, non sembrava altro che una sagoma nell'oscurità argentata del cielo, l'orizzonte luccicava ancora di chiarori e allo zenit era già scuro. Tertujak sentì le voci degli uomini che alzavano l'ultima tenda. Altrove, vennero accesi i fuochi. C'erano pochi fuochi - dovevano essere parsimoniosi con il combustibile - erano sufficienti a cucinare il cibo per la gente della carovana. Domi-

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nava uno stato d'animo sereno e allegro. Le fatiche della giornata erano passate, l'in-domani avrebbero valicato il passo della Roccia del Pugno e poi ci sarebbero voluti pochi giorni di viaggio per raggiungere la Città Portuale.

Tre soldati a piedi emersero dal crepuscolo; uno di loro si rivolse riverente al mer-cante e annunciò che le guardie notturne si trovavano ai loro posti.

«Chi è il vegliante?» domandò Tertujak. Il compito del vegliante era di fare la ron-da presso gli uomini di guardia, per assicurarsi che nessuno dormisse.

«Donto, signore.» «Informalo che oggi deve fare molta attenzione» disse Tertujak e aggiunse qualco-

sa sottovoce: «Ho un cattivo presentimento…» «Come comanda, signore.» Il soldato sparì di nuovo e gli altri due presero posto di

guardia al fianco della carrozza. Tertujak squadrò il carro che stava dietro al mezzo in cui viaggiava, era doppia-

mente più grande, con otto ruote, i finimenti per settantaquattro baraq: il carro dei tappeti di capelli. Conteneva le cose più preziose trasportate dalla carovana. I tappeti di capelli e una quantità smisurata di denaro.

A dispetto della luce morente del crepuscolo, si potevano riconoscere le zone in cui la blindatura di metallo cominciava ad arrugginire. Appena imbarcati i tappeti e fatto i conti, avrebbe dovuto far riparare il carro nella Città Portuale.

Tornò nella carrozza, si fece portare il cibo in tavola e mangiò in silenzio, pensie-roso.

Erano riusciti a comprare abbastanza tappeti di capelli, ma avevano impiegato più tempo di quanto preventivato. Voleva dire che sarebbe arrivato nella Città Portuale in ritardo, rispetto agli altri mercanti, e avrebbe ricevuto ancora una volta uno degli iti-nerari meno ambiti. Sarebbe diventato sempre più difficile arrivare alla cifra di tappe-ti prescritta, e prima o poi…

Non volle pensare al prima o al poi. Con un gesto brusco, allontanò da sé il piatto. Ordinò che il cuoco sparecchiasse e

si fece portare un'altra bottiglia di vino leggero. Sotto la luce della lampada a olio tirò fuori uno degli oggetti più preziosi, un antico

libro per mercanteggiare scritto da un antenato, diverse centinaia di anni prima. Le pagine del libro frusciavano come foglie secche e le colonne dei numeri, in certi pun-ti, erano difficilmente decifrabili. Tuttavia, il libro gli aveva già fornito molte infor-mazioni importanti sugli itinerari dei tappeti e sulle città che vi si incontravano.

Solo alcuni anni prima, si era accorto che il libro poteva chiarire altre cose. In par-ticolare, i cambiamenti avvenuti nell'arco di lunghi periodi. Erano subdole e imper-cettibili variazioni, percepibili solo dalla comparazione delle cifre tratte da quasi dieci generazioni; fatti i calcoli, si riconosceva un fenomeno: c'erano sempre meno tappeti. Il numero dei tessitori diminuiva, allo stesso modo di quello dei mercanti. In media, l'itinerario che dovevano seguire le carovane per raccogliere la quantità prescritta di tappeti diventava sempre più lungo e la concorrenza dei mercanti tra loro, per ottene-re le vie migliori, sempre più dura. Si trattava degli itinerari situati ai poli.

Come tutti i mercanti, Tertujak sapeva calcolare alla perfezione; in aggiunta, aveva ereditato dagli avi il talento della matematica. Non gli procurava alcuna fatica tra-sformare le cifre da comparare in ben più espressive rappresentazioni grafiche: le

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curve si orientarono in basso. Sì, si abbassavano; la tendenza era drasticamente au-mentata negli ultimi anni. Erano le curve di un organismo sul punto di morte.

La conclusione più ragionevole consisteva nel ritirarsi dal commercio di tappeti. Ma non avrebbe mai potuto farlo. Tramite il giuramento, si era legato alla Gilda fino alla fine della vita. Produrre tappeti era un sacro compito, l'Imperatore l'aveva affida-to a quel mondo, ma per una causa sconosciuta la forza che sosteneva il compito sembrava estinguersi.

In un tale contesto, Tertujak dovette pensare di nuovo al prigioniero e a quello che gli avevano raccontato al proposito. Aveva affermato di venire da un altro mondo. Aveva anche affermato un'altra cosa che scioccò tutti profondamente, tanto che se ne parlò ovunque: secondo lui, l'Imperatore, il signore del cielo, il padre delle stelle, il protettore di ogni destino, il centro dell'universo, l'Imperatore non regnava più!

Tertujak osservò le curve deprimenti e qualcosa in lui si chiese se la rappresenta-zione non potesse prefigurare una spiegazione.

Si alzò a fatica e aprì l'anta della carrozza. Nel frattempo, era scesa la notte. Si sen-tirono le risate dei soldati che insidiavano le poche donne al seguito della carovana. Poiché le donne erano tutte, senza eccezione, delle mercatanti, non era un faccenda di cui dovesse preoccuparsi. Fece un cenno a uno dei due soldati di veglia.

«Vammi a prendere il comandante Grom.» «Sì, signore.» Grom arrivò poco dopo. Entrare nella carrozza del mercante, se chiamato, era un

privilegio della sua posizione. «Signore?» «Grom, ti devo pregare di fare due cose. Primo: provvedi che non tutti i soldati a

cavallo siano ubriachi fradici. Vorrei essere sicuro che almeno una parte degli uomini sia pronta al combattimento. In secondo luogo…» Tertujak indugiò un istante e poi continuò deciso: «Vorrei che il prigioniero venga portato da me senza far notare la cosa.»

Grom sbarrò gli occhi. «Il prigioniero? Fin qui? Da voi, nella carrozza?» «Sì.» «Ma perché?» Tertujak sbuffò arrabbiato. «Ti sono debitore di una spiegazione, comandante?» L'altro trasalì. Il suo rango dipendeva solo dalla benevolenza del mercante e non

aveva affatto l'intenzione di farsi degradare. «Perdonatemi, signore. Sarà fatto, come desiderate.»

«Attendi ancora un po', fino a quando la maggior parte degli uomini si sia addor-mentata. Non voglio che si chiacchieri. Per la scorta, prendi due, tre uomini fidati e porta una catena, atta a legarlo qui dentro.»

«Sì, signore.» «Ricordati: la massima discrezione!» Il tempo che lo separava dall'incontro con il prigioniero Tertujak lo trascorse col-

mandolo d'impazienza. Ripetutamente, fu quasi sul punto di inviare un soldato di guardia per accelerare la faccenda e tenersi a freno gli costò uno sforzo quasi corpo-rale.

Finalmente, bussarono alla porta. Tertujak aprì rapidamente l'anta e due soldati fe-cero entrare il prigioniero. Lo incatenarono a un montante di sostegno, dopodiché il

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mercante li allontanò con un breve cenno. Poi osservò l'uomo che sedeva su una delle più preziose pellicce della carrozza.

Dunque, egli era l'eretico. Vestito di sporchi stracci, la barba disordinata, i capelli in-feltriti e lerci. Lasciò che il mercante lo fissasse, ma il suo sguardo rimase opaco, in-differente, come se la sorte non gli interessasse più.

«Forse ti domandi perché ti ho fatto portare qui» cominciò finalmente Tertujak. Credette di notare che una scintilla di interesse si fosse accesa negli occhi apatici

del prigioniero. «La verità è che nemmeno io lo so con precisione.» Tertujak pensò alla sagoma

della Roccia del Pugno davanti all'oscurità azzurrognola del cielo serale. «Forse, è perché domani vedremo per la prima volta la Città Portuale, la nostra destinazione. Non voglio semplicemente consegnarti al Consiglio, senza apprendere chi ho effetti-vamente trasportato.»

L'uomo lo fissava, sempre inespressivo. «Come ti chiami?» domandò Tertujak. Sembrò passare un'infinità di tempo, prima che il prigioniero rispondesse. La sua

voce suonò come un gracchiare tra la polvere. «Nillian… Nillian Jegetar Cuain.» «Sono tre nomi» constatò meravigliato il mercante. «Tutti da noi hanno tre nomi.» L'uomo tossì. «Portiamo il nostro nome di nascita,

il nome di nostra madre e quello di nostro padre.» L'eretico parlava con uno strano accento che il mercante non aveva mai sentito nel

corso dei suoi lunghi viaggi. «Quindi è vero che provieni da un altro mondo?» «Sì.» «E perché sei qui?» «Sono atterrato.» «Dov'è il tuo mondo?» «Lontano.» «Me lo puoi indicare nel cielo?» Il prigioniero guardò fisso Tertujak a lungo, tanto che il mercante credette che non

avesse compreso la domanda. Poi gli chiese improvvisamente: «Cosa ne sai sugli altri mondi? Cosa ne sai di viaggi fra le stelle?»

Il mercante alzò le spalle. «Non molto.» «Cosa sai?» «Conosco le navi stellari della Flotta Imperiale che prendono a bordo i tappeti di

capelli. Mi hanno detto che possono viaggiare fra le stelle.» L'uomo in stato di prostrazione che affermava di venire dalle stelle sembrò ripren-

dere vita. «I tappeti di capelli» riprese piegandosi in avanti, appoggiando i gomiti sulle gi-

nocchia. «Dove vengono portati?» «Al palazzo dell'Imperatore.» «Come lo sai?» «Non lo so affatto» ammise Tertujak. «Me lo hanno detto.» L'uomo chiamato Nillian fece un cenno con il capo e Tertujak vide della sabbia ca-

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dere dai suoi capelli e spargersi sul pavimento. Domani avrebbe dovuto far pulire l'ambiente. «Ti hanno mentito. Nel palazzo dell'Imperatore non c'è nessun tappeto di capelli. Neppure uno.»

Tertujak strinse diffidente gli occhi. Una tale asserzione era prevedibile da parte di uno che veniva considerato eretico. Ma se non fosse un eretico? «Come fai a esserne sicuro?» domandò.

«Ci sono stato.» «Nel palazzo imperiale?» «Sì.» «Forse, non hai notato i tappeti.» Lo straniero rise, per la prima volta. «È impossibile. Ho visto un tappeto di capelli:

è l'opera d'arte più dispendiosa e fine che abbia mai visto. Una tale opera d'arte non sarebbe rimasta celata. Non stiamo parlando di un tappeto di capelli, sono migliaia e migliaia. Ma nel palazzo non se ne trova uno. La nostra lingua non ha neppure una parola per nominarli!»

Poteva essere vero? Se fosse una bugia, che cosa si prefiggeva quell'uomo? «Si dice che il palazzo dell'Imperatore sia l'architettura più grande dell'universo…»

iniziò Tertujak. L'uomo rifletté brevemente. «Sì, probabilmente è esatto. Ma proprio per tale ragio-

ne è visibile. In ogni vostra città, ci si può nascondere più facilmente che in tutto il Palazzo delle Stelle.»

«Ci sono certo le stanze private dell'Imperatore, che saranno inaccessibili.» «Esistevano una volta.» La figura dello straniero si distese. «Sono seduto qui per-

ché l'ho detto quindi, posso tranquillamente ripeterlo: da circa vent'anni del vostro tempo, l'Imperatore ha cessato di regnare.»

Tertujak squadrò l'uomo, era seduto incatenato mani e piedi, cencioso, sporco, e sapeva che non mentiva. Naturalmente, l'affermazione era palesemente eretica. Ma sentì una profonda certezza: quanto lo straniero gli aveva raccontato non era null'altro che la verità.

«Dunque, le voci che girano da due decenni sono esatte» mormorò avveduto. «L'Imperatore ha abdicato…?»

«Direi che queste voci sono state molto ammorbidite.» «In che senso?» Lo sguardo del prigioniero divenne improvvisamente tagliente come il metallo.

«Mio signore, sono un ribelle e sono stato un membro del movimento Vento Silen-zioso. Vent'anni fa, abbiamo attaccato il Mondo Centrale, conquistato il palazzo e de-stituito l'Imperatore. Da allora, non c'è più nessun Impero. Vi piaccia o no, è un fat-to.»

Il mercante di tappeti guardò lo straniero con incertezza. Quello che diceva sem-brava togliergli il mondo da sotto i piedi.

Indicò con un vago gesto la finestra. «Là fuori, vedo le stelle nel cielo e splendono ancora. Mi è sempre stato detto che senza l'Imperatore non potrebbero farlo.»

«L'Imperatore non c'entra» aggiunse il ribelle. «È una leggenda.» «Ma l'Imperatore non ci ha dato la vita?» «Ne sarebbe capace come lo sono io. Era una persone come tutte le altre. Ve lo

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hanno raccontato solo per tenervi sotto il suo potere.» Tertujak scosse la testa. «Ma se regna da incalcolabili millenni? Come potrebbe

farlo senza essere immortale?» Lo straniero alzò solo le sopracciglia. «Bene. Qualsiasi messinscena abbia creato, è

morto, in ogni caso.» «Morto?» «Morto. Durante l'occupazione, un ribelle lo ha affrontato in un luogo appartato del

palazzo e nel duello lo ha ucciso.» Tertujak si ricordò nuovamente di quello che gli avevano raccontato sulle circo-

stanze dell'arresto dello straniero. Era ospite di due tessitori e aveva improvvisamente cominciato a fare discorsi blasfemi. Dopodiché, entrambi lo avevano arrestato e accu-sato di eresia.

«Lo hai raccontato ai due tessitori?» si stupì. «È un miracolo, che ti abbiano lascia-to in vita.»

«Un colpo in testa me lo hanno dato, il miracolo è che io sia sopravvissuto» rin-ghiò il prigioniero. «Uno dei due mi interrogava tutto smanioso, mentre l'altro, nel frattempo, mi era strisciato alle spalle e sorpresa! Quando mi risvegliai, ero in catene dentro un carcere sotterraneo.»

Tertujak iniziò inquieto ad andare avanti e indietro. «Dici che nel palazzo imperia-le non ci sono tappeti di capelli. Diversamente, anno dopo anno, ho visto decine di migliaia di tappeti lasciare il pianeta. Dove li portano le astronavi imperiali, se non nel palazzo?»

La straniero fece un cenno con il capo. «Mi ero già reso conto che è la domanda più intrigante. E non ho lo straccio di una risposta.»

«Forse, non parliamo dello stesso Imperatore?» «Parliamo della stessa persona» disse il prigioniero, e indicò la fotografia dell'Im-

peratore appesa alla parete. Tertujak aveva ereditato il quadro dal padre che lo aveva ricevuto dal padre, e così via. «L'Imperatore Aleksandr XI.»

«L'Imperatore Aleksandr?» Per la prima volta, Tertujak fu realmente sbalordito. «Non sapevo affatto che avesse un nome.»

«È caduto nell'oblio. Era l'undicesimo di una serie di imperatori chiamati Ale-ksandr. I primi dieci sono morti in età relativamente avanzata. Ma l'ultimo fu a lungo in carica, da solo regnò quanto tutti gli altri insieme. La presa di potere è avvenuta così tanto tempo fa che tutti sono convinti abbia regnato fin dalla notte dei tempi.»

«Sì.» Tertujak scosse il capo. Poi riprese l'inquieto andirivieni. Lo straniero lo os-servò in silenzio.

Era questo? Era la spiegazione? La spiegazione per la diminuzione del numero di tappeti di capelli?

Si sedette di nuovo sulla panca. «Quello che dici solleva in me un'eco lontana» confessò. «Ma, contemporanea-

mente, non lo posso accettare. Comprendi? Non sono in grado d'immaginarmi che l'Imperatore possa essere morto. In qualche modo, sembra essere dentro di me, una parte di me.»

«Riguarda l'idea dell'Imperatore come essere sovrumano. È stata prodotta dalla tua educazione, perché l'Imperatore non lo hai mai visto.» La straniero si mise ad armeg-

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giare attorno alla cintura, per quanto le catene glielo permettessero. «Ho un una foto con me. In verità, volevo tenerla nascosta, almeno fino a quando non mi avessero fat-to qualcosa di simile a un processo…»

Riuscì a tirare fuori la foto che porse al mercante. Tertujak guardò l'immagine. Mostrava con nauseabonda chiarezza il cadavere di un uomo penzolante a testa in giù, con le gambe appese all'asta di una bandiera. Il petto presentava uno squarcio grande più di un pugno, i bordi della ferita sembravano bruciati dal fuoco.

Quando girò l'immagine, per osservare il viso del morto, venne folgorato, quasi il cuore gli si fermasse: conosceva quel viso, lo conosceva meglio del proprio! Il cada-vere era veramente quello dell'Imperatore!

Con un gemito inarticolato, gettò la foto e si sprofondò tra i cuscini. Era impossibi-le. Era… Afferrò di nuovo l'immagine, per accertarsi che non si fosse ingannato. L'Imperatore. Morto. Morto nell'uniforme da parata, le spalle cinte dal manto impe-riale, impiccato senza dignità a un'asta.

«Ora, ti senti come se qualcuno ti avesse colpito la fronte con un martello» la voce del ribelle gli pervenne come giungesse da un luogo lontano. «Se ti consola: non sei il primo che reagisce così. Probabilmente, questa fotografia è oggi una delle più diffuse immagini di tutti i tempi ed è il nostro mezzo più importante per liberare le persone dalla trappola in cui sono cadute, dalla fissazione che l'Imperatore sia una presunta divinità.»

Tertujak lo sentì appena. Fu come se dell'acqua gli bollisse nel cervello. La mente lavorò senza interruzione, a folle velocità, passava in rassegna tutte le immagini della memoria, cercò di interpretarle e ordinarle: tutto, tutto doveva essere capito di nuovo. I valori del passato non significavano più nulla.

Lo straniero non smetteva di parlare? Non lo comprendeva. Vedeva solo l'immagi-ne e cercò di percepire la verità in tutta la sua evidenza: L'Imperatore era morto.

«Ci sono dei rumori là fuori?» «Cosa?» Tertujak emerse dal gorgo dei pensieri e delle emozioni come da un incu-

bo. Adesso, li sentiva. Dall'esterno arrivava un tumulto di grida e colpi di metallo contro metallo. I rumori del pericolo.

Con un gesto, il mercante fu in piedi di fronte alla porta, l'aprì di scatto e tese fuori la testa. Vide le fiaccole, la gente che correva in ogni direzione, le ombre e le nere sagome di cavalli che attraversavano il campo al galoppo. Suoni di lotta. Chiuse la porta e con le grasse dita cercò a tastoni la sottile catena che portava al collo.

Tutto sta crollando, pensò. «Cosa succede?» domandò lo straniero. «Dei predatori» si udì dire il mercante con calma innaturale. «Assalgono il cam-

po.» «Briganti?» «Predatori di tappeti di capelli.» Dunque, aveva ragione di farsi prendere dall'in-

quietante presentimento. Ovvio. Qui, ai piedi dell'unico passo che attraversava la di-stesa infinita della catena montuosa di Zarrak. Era il posto ideale per un agguato.

«Pensi che vogliono rubare i tappeti?» Tertujak assentì con un cenno. «Ma che senso avrebbe? Cosa possono fare dei predatori del deserto con i tappeti

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di capelli?» «Li vendono ad altri mercanti di tappeti» spiegò Tertujak frettolosamente, mentre

cercava freneticamente una via d'uscita dalla catastrofe. «Da tempi eterni, c'è un nu-mero fisso di tappeti che un mercante deve presentare, quando torna nella Città Por-tuale dopo un itinerario di viaggio. Se non può adempiere alla quantità prescritta, il nostro codice d'onore esige addirittura che si tolga la vita.»

«I predatori vendono il bottino ad altri mercanti in difficoltà, ma che tengono alla loro vita?» ipotizzò il ribelle i cui occhi splendevano di rinnovata vita.

«Esattamente.» Improvvisamente, il mercante sentì una voce ancestrale impadronirsi dei pensieri, e

come se li invadesse di polvere gli disse: hai dato ascolto all'eretico e lui ti ha sedotto. Gli hai creduto, gli hai veramente creduto. Ora, accetta la punizione per tutto ciò!

Tertujak alzò la foto dell'Imperatore morto e la tese al prigioniero. «Non hai nessuna arma?» domandò, tirando con inquietudine le catene. «Ho dei soldati.» «Non sembra servirti a molto.» Sì, pensò Tertujak. La fine stava giungendo. I rumori della lotta si avvicinarono sempre di più, le grida selvagge e i colpi del-

l'acciaio contro l'acciaio. Un grido sconvolgente squarciò la notte e qualcosa picchiò contro la carrozza, sembrò un corpo umano. Le dita del mercante, irrigidite dallo spa-vento, fecero cadere i resti tormentati della sottile collana e affondarono fra le pellic-ce.

Ci fu un terribile istante di assoluto silenzio. Poi la porta della carrozza venne for-zata e, nella luce fuligginosa di una fiaccola, apparvero dei visi sporchi di sangue.

«Salve, mercante Tertujak» tuonò minaccioso il primo uomo con tono beffardo; era un gigante barbuto sulla cui fronte era una cicatrice nodosa. «Scusateci se vi dob-biamo importunare in un'ora così tarda…»

Entrò all'interno della carrozza, ondeggiando, era seguito da tre compagni d'arme. Il sogghigno beffardo gli sparì dal viso, come se gli costasse troppo impegno. Accon-tentò lo straniero con un'occhiata occasionale, poi puntò un dito verso il mercante.

«Perquisitelo!» ordinò. Gli uomini si riversarono sul mercante, gli strapparono i vestiti tirandoli con tutta

la loro forza e li ridussero a brandelli. Ma non trovarono quello che cercavano. «Nulla.» Il comandante si mosse verso il mercante e lo squadrò con sguardo tagliente. «Do-

v'è la chiave del carro con i tappeti di capelli?» Tertujak inghiottì saliva. «Non ce l'ho.» «Non mi raccontare favole, sacco di grasso.» «Ce l'ha uno dei miei uomini.» Il barbuto scoppiò a ridere incredulo. «Uno dei tuoi uomini?» «Sì, un soldato di cui mi fido ciecamente. Gli ho ordinato di fuggire, nel caso fos-

simo assaliti.» «Maledetto!» il capobanda perse il controllo colpendolo con uno schiaffo al viso,

tanto forte che la testa di Tertujak volò di lato. Il colpo gli ferì il labbro inferiore, ma il mercante non emise alcun suono.

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Gli altri uomini diventarono inquieti. «Cosa facciamo, adesso?» «Prendiamo il carro con noi» propose un uomo tozzo il cui braccio era incrostato

di sangue che non sembrava appartenergli affatto. «In qualche modo, ce la faremo ad aprirla…» «Che idiozia!» lo redarguì il barbuto. «Perché credi che il carro sia blindato? Non

funzionerà. Abbiamo bisogno della chiave.» I predatori si consultarono l'uno con l'altro. Fuori, si sentivano ancora isolati rumo-

ri di lotta. «Sul far del giorno, potremo perlustrare tutti i dintorni» disse un altro. «Un uomo

senza cavalcatura non può fare molta strada.» «Come sai che non ha una cavalcatura?» gli domandò un tipo tarchiato. «Lo avremmo notato…» «Stai calmo!» ordinò il capobanda con un movimento brusco della mano e si rivol-

se di nuovo al mercante di tappeti. Il sangue gli gocciolava dal labbro inferiore. «Non credo» disse minacciosamente sottovoce. «Non credo che un mercante abbandoni la chiave del carro di tappeti.» Osservò Tertujak, con sguardo inquisitore. «Apri la boc-ca.»

Il mercante non reagì. «Dico che devi aprire la bocca!» ripeté il gigante barbuto. «Perché?» chiese Tertujak. «Perché credo che tu ci voglia imbrogliare.» Prese il mento del mercante con un

movimento improvviso e brutale della mano per costringerlo ad aprire la bocca. «Vedo alcune ferite fresche nella tua gola» annunciò, guardando il mercante in

modo compassionevole. «Non credo al tuo soldato. Invece, credo che tu abbia ingoia-to la chiave!»

Gli occhi del mercante diventarono innaturalmente grandi. Non era più in grado di dire alcunché e il suo sguardo fu come una confessione.

«Allora?» bisbigliò il rapinatore. «Non ho ragione?» Tertujak inghiottì a fatica, an-simando.

«Sì» confessò come se vomitasse. Ogni luce di pietà umana sparì repentinamente dagli occhi del barbuto, mentre af-

ferrava un grande coltello dalla lama affilata che teneva infilato nella cintola alle spalle.

«Non avresti dovuto farlo» disse con voce sommessa. «Non avresti dovuto farlo, davvero.»

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Le dita del flautista

Lo stretto vicolo dormiva ancora. La leggera nebbia mattutina planava sui tetti a falde e si mescolava con il fumo freddo dei camini, in cui nel corso della notte il fuo-co si era spento. Quando i primi raggi di sole carezzarono i colmi delle piccole case, tutto sembrava immerso in una luce onirica, dolcemente vaporosa. In alcuni angoli bui dormivano dei mendicanti. Coricati sul duro suolo erano avvolti fino alla testa in coperte cenciose, sembravano tante collinette di terra. Alcuni roditori si scavavano dei cunicoli nell'immondizia, abbastanza sazi per aggirare con benevolenza gli ad-dormentati, mentre qualcuno di loro si arrischiava annusando fino agli stretti canali dell'acqua che pigramente mormoravano in mezzo al vicolo.

Di colpo, si spinsero sui lati e fuggirono nelle tane, come se fossero tirati da fili in-visibili, spaventati da una sagoma coperta da un velo che si avvicinava a passi veloci. Ansimando, inciampando, guizzando di ombra in ombra, finì per giungere alla casa di Opur, il maestro di flauto. Poi si sentirono due colpi del pesante battente.

Nel piano superiore della casa, l'anziano si svegliò da un sonno turbato. Guardò fissamente il soffitto e si domandò se il rumore provenisse da un sogno o dalla realtà. Qualcuno bussò ancora una volta. Dunque, era realtà. Allontanò la coperta e scivolò nelle pantofole, cercò di afferrare la logora veste da camera e, prima di aprire, andò alla finestra trascinando i piedi. Diede un'occhiata sulla trascurata strada che puzzava di grasso rancido, come ogni mattina.

Dall'ombra sotto la casa, spuntò timidamente un giovane, guardò Opur e si tolse il panno con cui si copriva la testa. Il maestro Opur vide i biondi riccioli incorniciare un viso che mai più in vita si sarebbe aspettato di rivedere.

«Tu?!» «Aiutatemi, maestro» bisbigliò il magro giovane. «Sono fuggito.» L'inattesa gioia che aveva riempito il cuore del vecchio si allontanò lasciando il

posto alla dolorosa disillusione. Per la frazione di un secondo, aveva creduto che fos-se ancora come una volta.

«Aspetta» disse. «Vengo.» Che cosa aveva fatto il giovane? Opur scosse tristemente la testa, mentre scendeva

le scale. Era caduto in sventura. Ecco cos'aveva fatto. Non avrebbe preso una buona piega. Opur lo sapeva, ma qualcosa in lui era pronto a credere il contrario.

Spinse il pesante chiavistello della porta. Il ragazzo stava tremando e vide lo spa-vento nei grandi occhi azzurri che un tempo erano fiduciosi e spensierati. Il viso era segnato dalla paura e dalle privazioni.

«Vieni dentro» disse il vecchio maestro di flauto, non sapendo ancora se rallegrarsi o intimorirsi.

Ma quando il giovane entrò nello stretto e buio corridoio, chinandosi sotto il basso soffitto, lo abbracciò con semplicità senza altre preoccupazioni.

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«Maestro Opur, mi dovete nascondere» bisbigliò il giovane tremando. «Mi stanno inseguendo. Mi danno la caccia.»

«Ti aiuterò, Piwano» mormorò Opur e udì il nome di colui che non aveva più chiamato da quando la Gilda lo aveva inviato al servizio delle astronavi imperiali, proprio questo ragazzo, l'allievo migliore. A memoria d'uomo, il più talentuoso suo-natore di triflauto in circolazione.

«Voglio di nuovo suonare il flauto, maestro. M'insegnerete?» La mascella inferiore del ragazzo tremò. Era allo stremo delle forze.

Opur gli diede una leggera pacca sulla schiena, sperando di calmarlo. «Certo, ami-co mio. Ma prima di tutto devi dormire. Vieni.»

Tolse il grande quadro che nascondeva la porta delle scale della cantina e lo collo-cò di lato. Piwano lo seguì nello spazio interrato dal pavimento di argilla battuta e dalle pareti in grezza muratura. Uno degli antichi e polverosi scaffali poteva ruotare attorno a invisibili cardini e permettere l'accesso a una seconda cantina segreta. C'e-rano un letto, una lampada a olio e alcune provviste. Nella sua vita, non era la prima volta che l'anziano maestro artigiano nascondeva un profugo.

Ci volle solo qualche istante, prima che il giovane s'addormentasse. Dormì con la bocca aperta e, talvolta, il respiro gli si fermò. Poi, ansimando, lo riprendeva. Una delle mani si alzò nel vuoto per opporre resistenza a un nemico invisibile. Infine si rilassò dopo una lunga contrazione.

Opur fece un cenno con il capo, sospirando. Con cautela, sollevò la lampada a olio e la posò in un luogo sicuro. Lasciò Piwano, chiuse la porta segreta e salì. Per un at-timo pensò di dormire ancora un po', ma decise di non farlo.

Invece, nel primo chiarore della mattina, preparò la colazione, si cibò in silenzio, sbrigò alcuni lavori domestici e andò nell'aula delle lezioni per occuparsi di vecchie notazioni.

La prima allieva sarebbe venuta verso mezzogiorno. «Mi dispiace per il denaro delle lezioni.» Appena le aprì la porta, lei cominciò su-

bito a chiacchierare. «So che oggi scade il pagamento della retta, ci pensavo già la settimana scorsa e l'ho fatto per tutto il tempo. Vorrei dirvi che non me lo sono di-menticato…»

«Sì, sì» fece Opur irritato, con un cenno del capo. «Devo aspettare mio fratello; potrebbe arrivare da un giorno all'altro. Sapete, è par-

tito con Tertujak, il mercante. Mi dà sempre il denaro di cui ho bisogno, quando torna da un viaggio. Tertujak è già atteso da tempo, potete domandarlo in giro, se volete…»

«Va bene» la interruppe il maestro con impazienza e indicandole le scale che con-ducevano all'aula delle lezioni. «Pagherai la prossima volta. Adesso, cominciamo.»

Opur capì che era agitato. Doveva ritrovare l'equilibrio, in qualche modo. Si sedet-tero su due cuscini, uno di fronte all'altro, e dopo che la donna ebbe tirato fuori il tri-flauto e gli esercizi, Opur le fece chiudere gli occhi e ascoltare il respiro.

Il maestro di flauto la imitò. Sentiva le tracce dell'inquietudine. Era importante rac-cogliersi interiormente. Senza raccoglimento, sarebbe stato impossibile suonare uno strumento così difficile come il triflauto.

Com'era abitudine, Opur prese per primo il flauto e suonò un breve pezzo. Poi permise all'allieva di riaprire gli occhi.

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«Quando potrò suonare qualcosa di simile, maestro?» domandò sommessa. «Era PAU-LO-NO» spiegò Opur con calma. «È il più semplice dei pezzi classici.

Sarà il primo pezzo classico che suonerai. Ma, come tutti i brani tramandati per flau-to, è a più voci. Vuol dire che devi innanzitutto dominare lo stile a una sola voce. Fammi ascoltare i tuoi esercizi.»

Lei avvicinò il flauto alle labbra e soffiò. Dopo la prestazione di Opur, ebbe l'effet-to di un'orribile stonatura e, come spesso accadeva, il maestro dovette fare ricorso a tutta la padronanza di cui era capace perché il viso non assumesse l'espressione di una smorfia.

«No, no, fai ancora una volta il primo esercizio. Devi soprattutto fare attenzione a suonare le note pulite…»

Il triflauto era composto da tre flauti indipendenti, con otto fori ciascuno che pote-vano essere chiusi usando le falangi. Per tale ragione, i flauti erano piegati a esse, in modo tale da adattarsi alle mani del suonatore e alla differente lunghezza delle dita. Ogni canna era costruita con un materiale tipico: legno, osso e metallo. Ogni canna dava alla nota un altro timbro. Assieme, producevano un suono inimitabile, per cui il triflauto era divenuto celebre.

«Devi badare a tenere il mignolo morbido, mobile e morbido. Lo devi allungare, poiché la costruzione del flauto e l'ordine dei fori lo esige, ma non dovrebbe perdere di mobilità…»

Una premessa importante per un suonatore di triflauto era avere le dita molto lun-ghe e le falangi particolarmente sviluppate. Un mignolo longilineo era vantaggioso. Lo stile musicale non consisteva, come nei flauti normali, nell'otturare o lasciare libe-ri i fori secondo delle contiguità di posizione. Solo i principianti suonavano in questo modo, per familiarizzare con i fondamenti tecnici del flauto. Diversamente, l'allievo di livello avanzato suonava il triflauto a più voci. Tramite il virtuosismo e l'angolatu-ra delle dita, produceva su ogni canna un'altra nota; per esempio, poteva sollevare i segmenti medi di una serie di dita in modo tale che i fori sulle canne esterne fossero chiusi, mentre quelli della canna centrale restavano liberi.

«Bene. Ora, prova l'esercizio numero nove. Contiene già un passo a due voci. A questo punto, alzi entrambe le dita inferiori, così le canne esterne rimangono libere, mentre suoni la canna centrale con le falangi delle stesse dita. Provalo.»

Quel giorno fu intollerante, nonostante la padronanza di sé. L'allieva ce la metteva tutta e, quando si dimenticava l'ansia, le riuscivano dei passaggi accettabili.

«Ferma, ferma. Il segno indica che devi coprire con la lingua l'imboccatura di due canne, ma soffi in una sola, fin qui. Ancora una volta, e osserva la differenza di suo-no.»

Alla fine dell'ora di lezione, lei fu molto felice di avere superato in qualche modo l'esercizio. Anche Opur ne fu alleviato. Gli riuscì di accomiatarsi senza troppe parole.

Poi andò in fretta giù in cantina per dare un'occhiata a Piwano. Il ragazzo era seduto con la schiena appoggiata alla parete e, affamato, stava man-

giando qualcosa di commestibile che aveva trovato nel nascondiglio. Sembrava non essersi svegliato da molto, ma stava meglio rispetto alla mattina. Quando Opur aprì la porta segreta, sorrise felice.

«Raccontami tutto» chiese l'anziano. «Per filo e per segno.»

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Piwano depose il pezzo di pane e raccontò. Della dura formazione che aveva dovu-to superare, dell'ambiente rozzo e grossolano in cui aveva vissuto a bordo delle astro-navi imperiali. Dei mondi stranieri e inospitali, del lavoro che consumava le ossa, delle malattie e degli attacchi malvagi degli altri navigatori.

«Quando suonavo, mi davano la caccia e mi nascondevo nella sala macchine» rac-contò con voce tremante. «Poi mi distrussero il flauto e, quando cercai di costruirne uno, mi ruppero pure quello.»

Una morsa d'acciaio sembrò stringere il petto di Opur, mentre ascoltava la storia del ragazzo.

«Ti sei messo in grave pericolo, Piwano» considerò seriamente. «Sei fuggito dal servizio dell'Imperatore. Per questo c'è la pena di morte!»

«Maestro, non posso diventare un navigatore!» gridò Piwano. «Non posso vivere in quel modo. Se dovessi farlo, preferirei morire. Non si tratta del servizio per l'Impe-ratore; naturalmente, amo l'Imperatore, ma…» Si trattenne.

«Ami il flauto ancora di più, non è vero?» Piwano fece un cenno con il capo. «Sì.» Opur tacque pensieroso. Non sapeva ciò che era giusto o sbagliato fare. Era anche

vecchio; non temeva per se stesso, qualsiasi cosa accadesse. Temeva per il ragazzo. La diserzione era un fatto grave, per quanto conoscesse le leggi dei navigatori im-

periali. Anche se Piwano si fosse consegnato volontariamente, avrebbe dovuto fare i conti con una pesante punizione. Probabilmente, un servizio punitivo pluriennale su un pianeta inesplorato. Per un giovane fragile e sensibile come Piwano, era sinonimo di condanna a morte.

«Maestro, posso avere di nuovo un flauto?» domandò Piwano. Opur lo guardò. Negli occhi del ragazzo brillava sempre la luminosità della dedi-

zione assoluta e incondizionata verso qualcosa di più grande di lui stesso; quella lu-minosità che l'anziano maestro di flauto gli aveva scoperto negli occhi già a otto anni.

«Vieni» disse. Salirono nell'aula delle lezioni. Quando si trovò di nuovo nella grande aula in cui

aveva trascorso molti anni dell'infanzia, Piwano si guardò attorno con lo sguardo che risplendeva; fu come se una forza invisibile lo riempisse di nuova vita.

Opur andò alle finestre che davano sul vicolo e si accertò che nessun soldato della Gilda fosse nei dintorni. Poi invitò il ragazzo ad avvicinarsi.

«Piwano, sono pronto a nasconderti, all'occorrenza anche per anni» spiegò seria-mente. «Ma non dovrai mai lasciare la casa, perfino quando fuori non ci sarà alcun sospetto. Mai. La Gilda ha degli informatori e non sappiamo chi sia al suo soldo. Do-vrai tenerti il più lontano possibile dalle finestre. Puoi suonare il flauto, sotto nel tuo nascondiglio; perlomeno, di giorno non si sente nulla in strada. Sei d'accordo?»

Piwano rispose con un cenno del capo. «Nel caso che ti trovassi nella situazione di dover fuggire, ti vorrei indicare la via

per farlo, è conosciuta solo da pochi iniziati.» Opur indicò una costruzione quasi in disparte, situata in diagonale, di fronte la casa del maestro. Era incastrata fra le merci di un cestaio e il banco di una buia cucina. «Quella è una lavanderia. Corri là dentro. Dall'entrata, si vede subito che dietro la casa c'è un grande cortile, utilizzato come stenditoio, nel quale ci sono sempre dei panni appesi. Fra i tessuti, nessuno ti vedrà.

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Ma se un inseguitore arrivasse a capirlo, ci sono innumerevoli uscite che dal cortile conducono in altri vicoli. Però gira subito a sinistra ed entra nel retro della cucina. Per terra troverai una ribalta che accede alla cantina, e più sotto c'è uno scaffale simile al mio che potrai far ruotare. Dietro, il passaggio porta molto, molto lontano: nel siste-ma idrico sotterraneo della città. Ciò significa che perfino quando si dovesse scoprire la tua fuga, ci sono letteralmente mille vie d'uscita.»

Piwano fece un altro cenno della testa. Opur aveva sperimentato come il ragazzo memorizzasse con un'occhiata le note di interi brani musicali; era certo che aveva ca-pito tutto e non lo avrebbe dimenticato.

Andò all'armadio, in cui conservava le notazioni, i libri e gli strumenti. Dopo una breve riflessione, tirò fuori una custodia scalfita, l'aprì e ne trasse un triflauto che por-se a Piwano.

«È un flauto molto, molto vecchio che da lungo tempo ho conservato per un mo-mento speciale» spiegò. «Penso che il momento sia giunto.»

Assorto, Piwano lo tenne in mano, lo girò e rigirò. «C'è qualcosa di diverso» disse. «In luogo della canna d'osso, ne ha una di vetro.» Opur chiuse la custodia vuota e

la depose da parte. «Con il tempo, il vetro è diventato latteo. Dovrai un po' adattarti, perché un flauto di vetro suona più alto di un flauto intagliato nell'osso.»

Con prudenza, Piwano avvicinò il triflauto alle labbra e appoggiò le dita sulle tre canne ondulate. Soffiò alcuni accordi. Ne uscì un suono stridulo e stonato. L'anziano sorrise.

«Ce la farai.» Dieci giorni dopo, l'astronave imperiale decollò. Per tutti i precedenti giorni, in

lontananza, si era visto il colosso d'argento sostare nel tappeto erboso dell'antica area dell'aeroporto spaziale. Quella mattina, il vento portò sulla città il canto minaccioso dei motori a propulsione, mentre Opur e Piwano seguivano dalla finestra lo splenden-te metallo del veicolo spaziale alzarsi sulle case. Inizialmente pesante, poi sempre più veloce e sempre più in alto, fino a diventare un minuscolo punto confuso nel cielo e poi sparì. Il silenzio arrivò come una liberazione.

«Adesso non dovrai essere avventato, Piwano» lo esortò l'anziano. «Sono partiti e per due anni non torneranno. Ma è certo che la Gilda ti cercherà ancora.»

I mesi trascorsero. Piwano ritrovò il virtuosismo; stava seduto per ore nel nascon-diglio e suonava i pezzi classici, perfezionava la tecnica e si esercitava nelle variazio-ni, irrequieto e instancabile. Talvolta Opur si sedeva vicino a lui e ascoltava, sempli-cemente. Talvolta, suonavano in coppia. Non gli poteva insegnare quasi più nulla.

Piwano ardeva di entusiasmo. Presto fu in grado di arrischiarsi nei pezzi più diffi-cili; gli stessi pezzi con cui perfino Opur era in difficoltà. E, con infinito sbalordi-mento del vecchio maestro, il ragazzo riuscì perfino a suonare in modo eccellente l'HA-KAO-TA, uno dei brani classici considerati impraticabili dagli strumentisti.

«Cosa significano le parole sotto le note?» domandò Piwano, quando Opur gli pre-sentò lo spartito annotato con un'antica calligrafia.

«Sono trascrizioni di un linguaggio dimenticato» disse il maestro. «I pezzi classici per triflauto sono tutti molto antichi. Alcuni di loro datano centomila e più anni. Certi maestri dicono che il triflauto è più antico delle stelle e che il mondo fu creato dalle sue note. Ma, naturalmente, è un'assurdità.»

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«Si conosce il significato delle parole?» Opur fece un cenno con il capo. «Vieni.» Dalla cantina salirono nell'aula delle lezioni. Opur si recò presso un tavolino posto

sotto la finestra che dava sul vicolo e prese una cassetta decorata da consumati inta-gli.

«I pezzi più antichi per flauto sono in verità delle storie scritte in una lingua dimen-ticata. Le parole di quella lingua non sono parole, come noi lei parliamo, ma sequen-ze di note sul triflauto. In questa cassetta custodisco la chiave del linguaggio. È il se-greto del maestro di flauto.»

Aprì il coperchio della cassetta. Dentro c'erano il flauto personale di Opur e un fa-scio di vecchie carte, di notazioni e di appunti scritti a mano, parzialmente ingialliti e fragili.

Piwano prese le notazioni che Opur gli porse e le studiò. Fece un impercettibile cenno con il capo, quando giunse a comprenderne le regole: la lunghezza delle note, il ritmo e il timbro seguivano le leggi musicali, mentre le sequenze delle note e gli accordi rimandavano a parole e concetti.

«In parte, ho decifrato le storie. I più antichi pezzi classici trattano di una perduta epoca d'oro, in cui regnavano il benessere e la fortuna. Regnavano dei re saggi e buo-ni. Altri pezzi raccontano di una guerra terribile da cui iniziò l'epoca delle tenebre. Raccontano dell'ultimo re che da mille anni vive solo, prigioniero in un castello, e non fa nulla di più che piangere lacrime per il suo popolo.»

Ripose le carte e chiuse di nuovo il coperchio della cassetta. «Prima della mia morte te la consegnerò, perché sarai il mio successore» spiegò.

Giunse la fine dell'anno e anche il periodo dei preparativi per il concerto annuale degli allievi. Opur si domandò se il gruppo dei suonatori di triflauto e quello dei po-chi spettatori, per lo più parenti o amici, sarebbe mai cresciuto da non poterlo più o-spitare nell'aula delle lezioni. Negli ultimi anni, lo spettacolo sembrava trovare sem-pre meno ascoltatori. Ma il concerto era un'occasione importante, perché offriva agli allievi un obiettivo e la competizione dava loro una prospettiva concreta.

Poco prima del concerto, Piwano gli comunicò che avrebbe voluto suonare. «No» disse deciso Opur. «È molto rischioso.» «Perché?» insisté caparbiamente Piwano. «Credi che la Gilda infili una spia tra il

pubblico? Sono anni che conosci tutta la gente che ci verrà.» «Quanto tempo pensi che occorra perché giri la voce che qualcuno suona l'HA-

KAOTA? Non fare lo sventato, Piwano.» Piwano strinse i pugni. «Maestro, devo suonare. Non posso vivere eternamente in

cantina e fare musica solo per me stesso. C'è… c'è una mancanza, capisci? L'arte è tale quando raggiunge altre persone. Se suono senza che qualcuno mi possa ascoltare, non fa alcuna differenza che lo faccia oppure no.»

Il maestro sentì l'irritazione e la paura per il ragazzo aumentare. Lo conosceva tan-to bene da sapere che, alla fine, Piwano avrebbe fatto quello che riteneva giusto, per-fino se gli fosse costata la vita.

«Bene, per me fa lo stesso» dovette concedere. «Ma solo a una condizione: non suonerai nessun brano difficile, nulla che potrebbe attirare l'attenzione. Suonerai i fa-

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cili brani a più voci che anche gli altri padroneggiano. Nulla che superi SHEN-TA-NO.» Era veramente serio. Pronto a minacciare Piwano nel caso non avesse accettato.

Ma Piwano fece un cenno di gratitudine. «D'accordo, maestro.» Tuttavia, Opur seguì il concerto con una sensazione d'inquietudine. L'ansia si tra-

smise anche agli allievi e li rese nervosi. Mai come prima i preparativi necessari gli riuscirono così difficili. Innumerevoli volte spostò la successione delle rappresenta-zioni, allo stesso modo cambiò l'ordine dei posti; era scontento del rivestimento dei cuscini e litigò, quasi, con il cuoco della cucina che doveva provvedere alle bevande e a qualche spuntino.

Poi arrivò la sera del concerto. Opur accolse personalmente tutti i visitatori alla porta, per salutarli; nell'aula delle lezioni un'allieva indicava loro i posti a sedere. Tut-ti vennero negli abiti migliori. Per la gente che viveva in questa parte della città, non voleva dire granché. Quando era un ragazzo, Opur ebbe l'occasione di partecipare a un concerto organizzato da un maestro della parte ricca della città. Talvolta, aveva il sospetto che i concerti da lui organizzati non fossero altro che la parodia di quella fe-sta, nel tentativo di imitare la sontuosità spendacciona di un'esperienza mai eguaglia-ta.

Com'era usuale, il maestro di flauto pronunciò alcune parole di saluto, riassunse l'anno trascorso e descrisse i brani che erano in programma. Dopo, i principianti più giovani cominciarono le rappresentazioni. Era un modo di procedere che aveva dato buoni risultati, poiché la maggior parte di loro soffriva di panico da palcoscenico e non potevano attendere troppo a lungo.

L'inizio fu duro. Il primo allievo si dimenticò di ripetere una frase musicale, quan-do se ne accorse sbagliò tempo e, per finire il più presto possibile, aumentò la veloci-tà del brano. Ci furono alcuni sorrisi indulgenti e ricevette comunque l'applauso, mentre s'inchinava tutto rosso di vergogna. La seconda allieva, una donna già adulta, sorprese perfino Opur con la fluidità insolita dell'esecuzione; evidentemente, questa volta, si era esercitata veramente. A poco a poco, il concerto diventò agile. Talvolta, perfino buono e Opur sentì che l'ansia lo abbandonava gradualmente. L'ansia che ne-gli ultimi giorni non voleva lasciarlo andare.

Poi toccò a Piwano. Nel momento in cui avvicinò il triflauto alle labbra e soffiò la prima nota, il pub-

blico venne colto da brividi. Di colpo, l'aria dell'aula diventò elettrica. Le teste si al-zarono e le schiene si tesero, come mosse da fili invisibili. Nel momento in cui la prima nota gli uscì dal flauto, fu chiaro che si trattava di una stella. Lo sfondo era trafficato di grigi suoni, la stella in primo piano era colorata e brillante. Lo sfondo era composto da un efficace impegno, la stella era fluida perfezione. Fu come se una cappa di cupe nubi venisse attraversata dalla forza di un raggio di luce splendente.

Piwano suonò il PAU-NO-KAO, un pezzo leggero a più voci che anche un altro allie-vo aveva già presentato. Non suonò nulla di diverso da coloro che l'avevano precedu-to, ma come suonava!

Lo stesso Opur, sebbene lo avesse sentito suonare cose infinitamente più difficili e avesse di lui l'opinione più alta, ne fu come incantato. Fu una rivelazione. Con quel semplice pezzo, l'esile e biondo ragazzo sembrò definitivamente superarsi, come se avesse fatto un salto quantico per raggiungere un livello mai raggiunto del tnflauto.

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Con quel semplice brano, declassò tutti gli altri, li rimandò alla sbarra e mise in chia-ro, una volta per tutte, chi nell'aula era un principiante e chi un maestro. In seguito, nessuno si sarebbe ricordato degli altri brani, ma unicamente del suo.

Le dita danzavano spensieratamente e in modo leggero sul flauto, nella stessa ma-niera in cui gli altri respiravano o parlavano, ridevano o amavano. Non si accontentò di eseguire il pezzo a più voci, ma approfittò del fatto che la stessa nota suonata dalla canna di metallo aveva un timbro diverso se prodotta da quella di legno. Permutò le note tra le canne e creò così dei movimenti sonori contrastanti e subliminali; giocò con l'attitudine della canna di vetro a diventare acuta, se suonata troppo forte, per at-tribuire a certi passaggi una colorazione drammatica. Mai nessuno aveva ascoltato qualcosa di simile.

Gli altri suonavano un triflauto. Piwano diventò un unico essere con lo strumento, era il perfetto annullamento di sé, la completa dedizione al flauto.

La maggior parte del pubblico non riconobbe subito ciò che aveva realmente senti-to, ma ognuno' intuì che di fronte a loro era accaduto qualcosa di inaudito, che in quella piccola e povera aula avevano avuto la possibilità di dare uno sguardo a un mondo dimenticato e meraviglioso. Dio li aveva visitati. Dio era apparso loro. Egli danzava al suono di una musica che nessuno da millenni aveva più ascoltato. A tutti si era fermato il respiro.

Quando la rappresentazione finì e Piwano, con il sorriso assente, raccolse gli ap-plausi, Opur fu invaso dalla paura.

Arrivarono due giorni dopo, poco prima del sorgere del sole. Senza preavviso, sfondarono la porta di casa e, prima che Opur potesse alzarsi dal letto, l'abitazione era piena di soldati, di bruschi comandi e colpi di stivale.

Un gigante dalla nera barba e dall'uniforme di cuoio che identificava l'appartenen-za alla pattuglia della Gilda si diresse verso il maestro di flauto.

«Siete Opur?» domandò dispotico. «Sì.» «Siete sospettato di nascondere un disertore della Flotta Imperiale.» Sebbene tremasse tutto, fissò il soldato negli occhi con audace freddezza. «Non

conosco nessun disertore» chiarì. «Davvero?» Il barbuto chiuse un occhio, per squadrarlo con l'altro in modo mali-

gno. «Ora lo vedremo. I miei uomini perquisiranno la casa.» Non poteva opporsi. Opur concentrò tutte le forze per conservare il più chiaro con-

tegno e apparire disinteressato. Forse, avrebbero avuto fortuna. Ma non ebbero alcuna fortuna. Due soldati condussero l'impaurito Piwano sulle

scale e lo presentarono al trionfante e sorridente comandante. «Ecco» gridò. «Magazziniere Piwano, terzo gruppo di approvvigionamento KA-

RA. Prima o poi, li catturiamo tutti. E tutti, tutti si pentono.» Il maestro andò davanti al comandante della pattuglia e cadde in ginocchio. «Vi prego, abbiate pietà» supplicò. «È un pessimo navigatore, ma è un bravo flau-

tista. Nella vita, non ha il talento che prevedono le forti spalle di un navigatore impe-riale, ma ha le dita di un suonatore di flauto…»

Il comandante guardò l'anziano dall'alto in basso, con disprezzo. «Se le dita da

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suonatore di flauto gli sono d'ostacolo nel servizio per l'Imperatore, il nostro Signore, è doveroso aiutarlo» disse con tono di scherno. Afferrò la mano destra di Piwano e la strinse grossolanamente sulla ringhiera delle scale. Poi prese il pesante manganello di legno.

Il terrore attraversò Opur, quando capì che l'uomo aveva intenzione di rompere le dita di Piwano. Senza riflettere, colpì il soldato nel ventre con tutta la forza che la paura per Piwano aveva moltiplicato. Il comandante non contava affatto di essere ag-gredito da un anziano maestro, e si piegò ansimando, inciampò e cadde per terra. Pi-wano fu libero.

«Corri!» Piwano si lanciò veloce, con una mossa improvvisa e un'agilità che Opur non ave-

va mai notato nel trasognato allievo, eccetto quando suonava il flauto. Prima che uno dei soldati potesse reagire, con un salto audace, il ragazzo superò il parapetto della ringhiera delle scale, per volare al piano inferiore.

Opur si riprese e si gettò verso la finestra, l'aprì e afferrò la cassetta che conteneva il suo stesso flauto. Sotto, Piwano stava correndo fuori dalla casa.

«Maestro Piwano!» gridò Opur e gli buttò la cassetta. Piwano si arrestò, la prese di slancio e rivolse al maestro l'ultimo, scaltro e irragio-

nevole sorriso. Poi scattò in avanti e sparì nell'ampia porta della lavanderia. I soldati gli erano già alle calcagna. Si fermarono davanti alla lavanderia, dove uno

diede degli ordini. Si divisero e corsero per chiudere i vicini vicoli, nella speranza di accerchiare il fuggiasco.

Opur sentì la pesante mano di un soldato sulla spalla e chiuse gli occhi in segno di resa. Aveva protetto la luce e l'aveva donata alla prossima generazione. Di più non poté fare.

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L'archivista dell'Imperatore

Era stato il suo regno. Ancora prima che vivesse l'Imperatore. Allora, il silenzio dominava le grandi sale marmoree che celavano le testimonianze della gloriosa storia dell'Impero e non doveva sentire alcun rumore, eccetto il trascinarsi dei passi e il suono del respiro. In quel luogo aveva trascorso i giorni e gli anni invecchiando al servizio dell'Imperatore.

Che momenti di grazia, quando lo stesso Imperatore arrivava, nell'archivio che lui sorvegliava per l'essere divino! Aveva aperto le gigantesche porte d'acciaio, acceso tutte le lampade, atteso sull'ultimo gradino della scalinata, fino all'arrivo della carroz-za imperiale. Poi rimaneva con discrezione in piedi sull'ingresso, un poco fuori, oltre le colonne, lo sguardo umile indirizzato verso il basso. La più alta ricompensa era quando l'Imperatore passava e gli faceva un solenne cenno di saluto, non troppo evi-dente, ma davanti a tutti gli altri sottoposti. A lui, il gobbo. A lui, Emparak, il servito-re più fedele di ogni altro mortale che l'Impero avesse conosciuto.

Dopo, vennero i nuovi padroni e lo degradarono a domestico, come un amministra-tore privo di diritti di un'eredità spiacevole, capace solo di lucidare i marmi preziosi, di pulire le pareti di vetro e sostituire i materiali consumati delle lampade. Come li odiava! Gli incaricati della Consulta provvisoria per lo studio dell'archivio imperiale. Potevano andare e venire, come volevano, scegliere tutti i documenti e gli archivi a loro piacimento e contaminare il silenzio dei millenni, con le loro chiacchiere strilla-te. Nulla era per loro sacro. Quando gli parlavano, lo facevano sempre nello stile con cui mettevano nero su bianco che loro erano giovani, belli e forti, mentre lui era vec-chio, brutto e privo di diritti.

Certamente, era stato intenzionale il mettergli davanti al naso due donne. Lo volle-ro umiliare. Le donne vestivano alla nuova moda, la moda dei ribelli, che mostrava molto e ancora di più permetteva d'intuire. Loro gli si avvicinavano così tanto che con gli occhi miopi e decrepiti era obbligato a vedere i loro corpi allettanti e pieni di cur-ve, afferrabili eppure irraggiungibili per uno storpio zoppo.

Erano giunte poco prima e imprevedibilmente come al solito. Si erano accampate nella grande sala di lettura, al centro dell'archivio. Emparak stette nell'ombra delle co-lonne dell'ingresso per osservarle. La donna dai capelli rossi era seduta in mezzo alla sala. Rhuna Orlona Pernautan. Come si facevano sempre grandi con i loro triplici nomi, i ribelli! Di fianco a lei c'era la donna dai capelli infinitamente biondi; per quanto ne sapeva, era l'assistente della rossa. Lamita Terget Utmanasalen. Avevano portato con loro un uomo che Emparak non aveva mai incontrato.

Ma lo conosceva dai documenti del governo. Borlid Ewo Kenneken, membro della commissione per l'amministrazione del lascito imperiale.

«Siamo in ritardo!» gridò la donna dai capelli rossi. «Arriverà tra due ore e non abbiamo neppure una bozza d'idea. Come ve la immaginate?»

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L'uomo aprì una grande borsa e tirò fuori una pila di documenti. «Dovrebbe anda-re. Non è obbligatorio che sia perfetta. Lui ha bisogno solo di una relazione breve e chiara, affinché possa avere delle basi decisionali.»

«Quanto tempo ci concederà?» domandò la bionda. «Al massimo, un'ora» replicò l'uomo. «Dovremo limitarci all'essenziale.» Emparak sapeva che lo consideravano senile e sempliciotto. Ogni loro movimento,

ogni loro parola nei suoi confronti, lo dimostravano. Bene, dovevano crederci. Il suo momento sarebbe venuto presto.

Oh, sapeva con precisione, cosa accadeva, oggi, nell'Impero. Per l'archivista del-l'Imperatore non c'era nulla di occulto. Aveva le proprie fonti e i giusti canali, da cui sgorgava tutto quello che doveva sapere. Almeno, questo gli era rimasto.

«Che cosa conosce sugli antefatti della spedizione di Gheera?» «Sa della scoperta di mappe stellari su Eswerlund. Fu uno dei consiglieri che han-

no votato per l'invio della spedizione scientifica.» «Bene. Vuol dire che possiamo tralasciare l'argomento. Che cosa gli è noto dei

rapporti finora emessi?» «Per dirla in breve, nulla.» La bionda guardò la collega, in cerca di sostegno. «Per

quanto ne so.» «Anche secondo le mie informazioni» replicò lei. «Al meglio, illustriamo una bre-

ve cronologia degli avvenimenti, un riassunto, diciamo di un quarto d'ora. Poi gli diamo il tempo per porre domande…»

«Sulle quali, ovviamente, dovremo essere preparati!» aggiunse l'uomo.

«Cominciamo» propose la rossa. «Lamita, potresti realizzare un elenco delle pos-sibili domande sui punti che ci vengono in mente.»

Emparak osservò la bionda chinarsi prendendo un quaderno per gli appunti e una matita, mentre i capelli le cadevano fluenti sul viso. Gli piaceva, naturalmente, e in passato l'aveva… ma lei era tanto giovane. Così spensierata. Si trovava in mezzo a storie vaste decine di migliaia di anni e non le percepiva. Questo, non poteva perdo-narlo a nessuno.

Non sapevano che, una volta, lui sedeva esattamente dove loro si trovavano? Em-parak vedeva ancora tutto davanti a sé, come se il tempo non fosse affatto trascorso. Là, al tavolo ovale, stava l'Imperatore per studiare i documenti che l'archivista gli a-veva consegnato. Oltre a loro, non era presente nessuno. Emparak stava servilmente nell'ombra delle colonne che si ergevano lungo il salone e sostenevano la cupola di vetro. La pallida luce immergeva la scena in un chiarore tale da esortare all'eternità. L'Imperatore voltava le pagine, nello stile graziosamente inimitabile proveniente dal-la calma del potere. Leggeva tranquillo e attento. Tutt'intorno, c'erano dieci scure por-te, su dieci passaggi radiali, lungo i quali si estendevano le librerie, i supporti di me-moria e le capsule d'archivio. Sulla superficie delle pareti, fra le porte, erano appesi i ritratti dei dieci predecessori dell'Imperatore.

Per il proprio ritratto non era previsto alcun posto, perché avrebbe regnato fino alla fine di tutti i tempi…

Adesso, era arrivata, la fine di tutti i tempi. Simili figuri la simboleggiavano, con la loro rumorosa, superficiale attività. Non comprendevano nulla, proprio nulla. Addirit-

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tura, si ritenevano così mostruosamente importanti. Nella loro presunzione sconfina-ta, avevano osato detronizzare l'Imperatore divino, perfino ucciderlo. Al pensiero, Emparak sentì il cuore colmarsi della furia della rabbia.

Sapeva come appariva l'Impero di una volta e sapeva come appariva in quel mo-mento. Loro non erano preparati per il compito. Era ovvio. Il popolo ebbe di nuovo fame e infuriarono le epidemie i cui nomi erano stati dimenticati da migliaia di anni. Dappertutto c'erano agitazioni, in molti luoghi si condussero guerre insanguinate e tutto andò in rovina. Tagliarono il corpo dell'Impero, lo sventrarono ancora vivo e lo divisero in brandelli di cruda carne. Dopo tutto ciò, si consideravano importanti e promettevano la 'libertà'.

L'uomo si appoggiò comodamente nella poltrona e si sostenne la testa con le mani intrecciate a ventaglio. «Bene, con cosa cominciamo? Innanzitutto, propongo di di-scutere dell'astronave in esplorazione che trovò le prime informazioni sui tappeti di capelli. La nave si chiamava KALYT-9 e colui a cui le dobbiamo è Nillian Jegetar Cuain.»

«Il nome è importante?» «In sé, no. Ma ho sentito che dovrebbe appartenere alla Consulta; forse, sarebbe

bene menzionarlo.» «Bene. Cosa gli è successo?» «È disperso. Secondo la dichiarazione dell'accompagnatore, contrastando un ordine

esplicito, è sbarcato sul pianeta G-101/2, nel settore HA/31. Abbiamo dei rapporti trasmessi via radio e alcune foto. Però nessuna che mostri qualche tappeto. Nillian scoprì i tappeti e, in seguito, sparì.»

«Non l'hanno cercato?» «Ci furono dei malintesi riguardo a ordini che si sono sovrapposti. L'accompagna-

tore lo lasciò nei guai e tornò alla base. Una nave di salvataggio arrivò solo settimane dopo e non trovarono più nessuna traccia di Nillian.»

La donna dai capelli rossi batté inquieta con la punta della matita sulla superficie del tavolo. Al rumore che nelle orecchie gli risuonava come osceno, Emparak sussul-tò. Quel tavolo era già antico quando sul mondo cui la donna apparteneva non esiste-va ancora alcuna forma di civiltà.

«Non so se lo dobbiamo esporre in modo tanto prolisso» disse. «Comunque, ci sarà sicuramente un'altra ricerca. Il tutto è semplicemente una storia sfortunata, come del resto capita, ma effettivamente non apporta nulla al nucleo della questione. L'unica cosa importante è che Nillian abbia scoperto dei tappeti di capelli e, in seguito, si sia cominciato a studiare a fondo il fenomeno.»

«Esattamente. È importante descrivere i tappeti di capelli e quello che significano. Sono tappeti molto grandi, annodati in modo estremamente denso e realizzati con ca-pelli umani. Gli artigiani che li producono si chiamano tessitori di tappeti di capelli. Usano solo i capelli delle loro donne e figlie, l'intero processo è incredibilmente di-spendioso, tanto che un tessitore dedica tutta la vita per annodare un solo tappeto.»

La bionda alzò brevemente la mano. «Possiamo mostrare l'esemplare di un tappe-to?» aggiunse.

«Purtroppo, no» ammise l'uomo. «Naturalmente, ne abbiamo richiesto uno e ci hanno dato anche risposta affermativa, ma fino a stamattina non è arrivato nulla. A-

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vrei sperato che nell'archivio…» «No» disse subito la bionda. «Abbiamo verificato. Non c'è nulla di simile nell'ar-

chivio.» Nell'angolo silenzioso, vicino alle colonne, Emparak sorrideva. Livello 2, corridoio

L, settore 967. Ovviamente, l'archivio possedeva un tappeto di capelli. L'archivio conservava tutto. Lo si doveva solo trovare.

L'uomo guardò l'orologio «Bene, quindi dobbiamo continuare a chiarire cosa sono i tappeti e quale enorme impegno nascondano. Come si espone nella relazione socio-logica, l'intera popolazione planetaria non si occupa praticamente di null'altro.»

La donna dai capelli rossi rispose con un cenno della testa. «Si. È importante.» «Cosa accade ai tappeti?» domandò la bionda. «E un altro punto decisivo che dobbiamo sottolineare. La produzione totale dei

tappeti è motivata dalla religione. Riguarda l'antica religione di stato: l'Imperatore come Dio, creatore, conservatore dell'universo e così via.»

«L'Imperatore?» «Si. Chiaramente. Hanno perfino delle foto. Con ciò è inoltre provato che la parte

popolata della galassia di Gheera effettivamente fu un tempo parte dell'Impero. Le strutture religiose e di potere politico sono simili alle zone già conosciute dell'Impero e la lingua diffusa sui mondi di Gheera corrisponde a un dialetto del nostro paisi. Se-condo le dichiarazioni dei linguisti, come veniva parlato ottantamila anni fa.»

«In tal modo, avremmo un punto di riferimento: quando il contatto fra Gheera e il restante Impero venne interrotto.»

«Esattamente. Del resto, su molti di questi mondi si trovano tracce di antichissime esplosioni atomiche - prodotti permanenti di decadimento e così via - che indicano contrasti bellici. Anche le tracce vengono datate almeno ottantamila ani fa.»

«Ciò rende l'interpretazione più solida.» «Ma cosa c'entra con i tappeti?» insisté la bionda. «I tessitori realizzano i tappeti come servigi a favore dell'Imperatore. Credono che

i tappeti siano destinati al palazzo imperiale.» Tutti rimasero in meravigliato silenzio. «Per il palazzo dell'Imperatore?» «Sì.»

«Ma non c'è nulla nel palazzo che possa essere preso per un tappeto di capelli.» «Infatti. È l'enigma.» «Ma…» La bionda cominciò a fare calcoli. «La somma totale dei tappeti dev'esse-

re davvero considerevole. Un intero mondo, il numero degli abitanti approssimativa-mente è…»

«Sono cifre fenomenali» la interruppe l'uomo. «Risparmiati la fatica, il più bello deve ancora venire. La popolazione di G-101/2 crede di essere l'unica che produce tappeti di capelli. La gente sa che l'Impero comprende molti mondi, ma crede che gli altri mondi forniscano altre cose per il palazzo dell'Imperatore. Una sorta di suddivi-sione interplanetaria dei compiti artigianali.» L'uomo prese l'occasione per guardarsi le unghie. «Ora, poco tempo dopo, la spedizione su Gheera ha scoperto un secondo mondo sul quale la popolazione produce tappeti di capelli e anche questo crede di es-sere l'unico a farlo.»

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«Due mondi?» si stupirono le donne. L'uomo le guardò, una alla volta, e gustò visibilmente la tensione dell'impazienza

sui loro volti. «Dall'ultima relazione della spedizione si deduce che fino a ora ha tro-vato 8347 pianeti su cui vengono tessuti tappeti di capelli» continuò assaporando o-gni parola.

«Ottomila…?!» «La cifra finale non è da prevedere.» L'uomo batté con il palmo della mano sul ta-

volo. «È il punto che dobbiamo fare emergere. Qualcosa sta accadendo e non sap-piamo che cosa.»

Lo so, pensò con piena soddisfazione Emparak. Anche l'archivio lo sa. Se fu cer-cassi ci arriveresti…

La bionda si alzò di colpo e si avvicinò a Emparak, tenendo gli enormi seni quasi davanti al viso del gobbo archivista. «Emparak, adesso abbiamo due riferimenti» dis-se mentre lo guardava. «Ottantamila anni. La galassia di Gheera. Possiamo trovare qualcosa nell'archivio?»

«La galassia di Gheera?» gracchiò Emparak. L'avvicinamento improvviso lo aveva spaventato e la prossimità del corpo invitante risvegliò in lui dimenticate voglie che per un istante lo sopraffecero e gli tolsero la voce.

«Lascialo, Lamita!» gridò dal fondo della sala la strega dai capelli rossi. «Anch'io ho tentato spesso. Non ne ha alcuna idea e l'archivio è un totale caos, senza qualsiasi ordine sistematico.»

La ragazza scosse le spalle e tornò al proprio posto. Emparak fissò la rossa, bollen-do di rabbia. Aveva osato troppo. A centinaia e migliaia fallirono nel tentativo di sfi-dare l'eredità di un uomo come l'Imperatore, ma lei osava chiamare l'archivio caos. Come chiamava quello che la Consulta provvisoria aveva combinato là fuori? Quale parola aveva per la sconfinata assenza di valori, per la decadenza dei costumi, per l'incombente degenerazione? Come avrebbe definito il risultato dell'infinito fallimen-to?

«Allora, che cosa succede concretamente ai tappeti nella galassia di Gheera?» chiese la rossa. «Dovrebbero essere immagazzinati da qualche parte.»

«Il trasporto dei tappeti è assicurato da una grande flotta di astronavi, in verità de-crepita, ma completamente in grado di affrontare lo spazio» raccontò l'uomo. «La ca-sta competente è quella dei navigatori imperiali. Conservano l'eredità tecnologica, mentre sul pianeta sopravvivono solo primitive culture post-atomiche.»

«E dove trasportano i tappeti?» «La spedizione li ha potuti seguire fino a una gigantesca stazione spaziale che orbi-

ta attorno a una doppia costellazione solare senza pianeti. Tra l'altro, uno dei due soli è un buco nero. Non so se il fatto abbia un significato.»

«Che cosa si conosce sulla stazione spaziale?» «Nulla, eccetto che è estremamente sorvegliata e provvista di armi pesanti. Una

delle nostre astronavi, l'incrociatore leggero EVLUUT, nel corso dell'avvicinamento è stato attaccato e seriamente danneggiato.»

Ovviamente. Fino a oggi, Emparak non riusciva a capire come mai dei ribelli, que-sti presuntuosi e deboli saccenti, avessero potuto esautorare l'immortale e onnipotente Imperatore per strappargli il regno. I ribelli non potevano lottare! Sapevano dire bu-

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gie, ingannare, celare e ordire perfidi intrighi, ma lottare? Gli sarebbe stato per sem-pre incomprensibile come fossero riusciti a superare l'enorme e invincibile macchina-rio militare dell'Imperatore. Dieci e più di loro non valevano un soldato imperiale.

«Bene.» La rossa chiuse la cartella, per fermare momentaneamente la discussione. «Adesso ci dobbiamo preparare. Penso che dovremmo installare un proiettore e tene-re pronte le tavole storiche, nel caso che a qualcuno servano delle connessioni.» Guardò in direzione del vecchio archivista. «Emparak, abbiamo bisogno del tuo aiu-to!»

Sapeva in che cosa consisteva l'aiuto. Doveva andare a prendere il proiettore e in-stallarlo. Nulla di più. In un baleno, avrebbe potuto rispondere a tutte le domande e sciogliere ogni enigma. Se solo fossero stati più gentili con lui, un poco più premuro-si, un poco più riconoscenti…

Ma non si sarebbe svenduto. Dovevano sforzarsi di farlo loro. L'Imperatore aveva sempre saputo quello che faceva; anche in questo caso. Poteva avere delle ragioni e non stava a lui metterle in discussione.

Emparak si trascinò dalla sala di lettura all'ingresso e voltò a destra. Non aveva al-cuna fretta. Al contrario dei tre ragazzi sapeva esattamente quello che avrebbe dovuto fare.

Scese lo scalone che conduceva ai settori sotterranei dell'archivio. La luce era sof-fusa e lo sguardo non giungeva molto lontano. Loro, le ragazze, stavano volentieri di sopra, fra gli infiniti scaffali dell'architettura a forma di cupola. Quaggiù, le aveva vi-ste raramente. Probabilmente lo spazio sotterraneo le inquietava e lo poteva addirittu-ra capire. Quaggiù, non si sfuggiva al respiro della storia. Quaggiù erano conservati incredibili artefatti, testimonianze di accadimenti inimmaginabili, documenti di valo-re inestimabile. Quaggiù, si poteva afferrare il tempo con le mani.

Aprì la porta del piccolo vano per gli attrezzi ai piedi delle scale. Ottantamila anni. Lo pronunciavano in modo tanto spensierato, gli inconsapevoli, come se non fosse nulla. Lo pronunciavano senza profondo rispetto, senza che li cogliesse l'orrore alla vista dell'abisso del tempo. Ottantamila anni. Era un lasso di tempo in cui potevano nascere imperi enormi, essere distrutti e cadere nell'oblio. Quante generazioni venne-ro e scomparvero in quel tempo, vissero, sperarono, soffrirono, portarono cose che tramontarono nel flusso spietato dei secoli! Ottantamila anni. Lo pronunciavano con lo stesso tono in cui parlavano di ottanta minuti.

Eppure, quel tempo era solo una parte della storia smisurata dell'Impero. Emparak fece un cenno pensieroso con il capo, mentre si tirava dietro il proiettore sulle scale.

Forse, avrebbe dovuto offrire loro una piccola indicazione. Non molto, solo un mi-nuscolo frammento. Una traccia, per mostrare che sapeva più di quanto credessero. Affinché lei potesse intuire qualcosa della grandezza dell'uomo a cui avrebbe sparato come a un farabutto. Mai il potente Impero sarebbe esistito così a lungo senza que-st'uomo, senza l'undicesimo Imperatore che ottenne l'immortalità. Sì, pensò Emparak. Solo una traccia, affinché potessero trovare il resto. Di più non potevano accettare, nel loro folle orgoglio.

«Dovrebbe arrivare tra un istante» disse la rossa che fissava ininterrottamente l'o-rologio, mentre gli altri ordinavano i documenti. «Come lo dobbiamo interpellare?»

«Il suo titolo è membro della Consulta» disse la bionda.

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Emparak mise il proiettore sul tavolo e tolse la protezione. «Non ama il titolo» aggiunse l'uomo. «Preferisce essere chiamato con il suo nome,

Jubad.» Al suono di quel nome, Emparak sentì gelarsi fino alla punta delle dita. Rerenko

Kebar Jubad! L'uomo che aveva ucciso l'Imperatore! Osava. L'assassino osava entrare nel luogo che conservava la gloria dell'Impero.

Un affronto. No, ancora peggio: una spensierata distrazione. L'essere di vedute ri-strette non era in grado di percepire il significato delle proprie azioni, il simbolismo sottinteso alla visita. Veniva semplicemente fin qui, per ascoltare una piccola e scioc-ca relazione, esposta dalla bocca di piccole e sciocche persone.

E sia. Emparak sarebbe rimasto in silenzio. Era stato l'archivista dell'Imperatore e lo sarebbe rimasto fino all'ultimo respiro. Si vergognò di avere quasi deciso di fare il gioco di tali parvenu cantafavole. Mai. Mai più. Avrebbe mantenuto il silenzio e lu-cidato i marmi antichi di migliaia di anni, fino a quando un bel giorno il panno non gli sarebbe caduto dalle mani.

La rossa si recò presso i commutatori posti nell'ingresso e aprì un'anta del portone. Emparak fece un cenno soddisfatto. Non capivano nulla di stile, di andatura. Non a-vevano portamento.

Tutta la scena dell'accoglienza al capo dei ribelli fece a Emparak l'effetto di una ri-dicola imitazione. Arrivò una piccola automobile e ne scese Jubad, un uomo tozzo e brizzolato i cui gesti apparivano inquieti e nervosi, tanto che era leggermente piegato, come se lo opprimesse il peso della responsabilità. Coi modi di un pupazzo snodato si precipitò irrequieto sui gradini e senza rispettare la sontuosità e l'atmosfera dell'entra-ta si diresse subito dalla rossa, per farsi condurre alla sala di lettura.

Emparak prese posto come d'abitudine vicino alle colonne e osservò Jubad, mentre ascoltava la relazione degli altri tre. Si raccontava che soffrisse di una lunga e fatico-sa malattia, forse incurabile. Emparak era disposto a crederlo, quando osservò il volto del capo dei ribelli che reprimeva le espressioni di dolore. Sarà stato il caso. Forse, era anche una punizione del destino.

«Quindi, la collocazione definitiva dei tappeti è sconosciuta?» concluse Jubad alla fine del rapporto.

«No.» «All'interno della stazione spaziale?» «Al riguardo, non è sufficientemente grande» rispose l'uomo. «Si deve solo valuta-

re il volume complessivo dei tappeti prodotti e paragonarlo al volume della stazione spaziale: il primo è più grande almeno di un coefficiente numerico.»

«Forse i tappeti non sono stati conservati» aggiunse la bionda. «Forse, vengono di-strutti.»

«Può essere» disse Jubad casualmente. Si notava che era distratto da altri pensieri. «Mi spaventa l'idea che in qualche posto dell'universo possa esistere un palazzo del-l'Imperatore non ancora scoperto, nel quale intanto si accumulano di nascosto i tappe-ti. E, se esiste un tale palazzo, chi può sapere cosa ancora nasconde. Forse, delle ar-mate che attendono di essere risvegliate da un sonno profondo?»

La rossa fece un cenno. «Forse, un clone immortale dell'Imperatore?» «Esattamente» approvò serio Jubad. «Non sappiamo come l'Imperatore sia riuscito

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a non invecchiare in tutto lo smisurato lasso di tempo, continuando a vivere. Non sappiamo molto, e riguardo a certi segreti non chiariti dobbiamo prestare ben più di un interesse accademico, perché potrebbero occultare dei pericoli.»

Emparak dovette ammettere, con riluttanza, che Jubad disponeva di un intelletto sorprendentemente sveglio. Un poco della grandezza dell'Imperatore sembrò essersi trasmessa a colui che l'aveva debellato. Aveva ragione: sull'immortalità dell'Impera-tore neppure nell'archivio si trovavano notizie di sorta.

Jubad sfogliò la documentazione quasi di sfuggita, mentre gli altri lo osservavano con muta pazienza. Arrivato a un documento, si fermò, lo lesse da cima a fondo e poi lo porse all'uomo. «Che cosa significa?»

«La stella di Gheera non fu scoperta» spiegò. «La flotta in spedizione scientifica era, inizialmente, incaricata di controllare la precisione delle mappe stellari giunte in nostro possesso. Alcune stelle catalogate non erano contrassegnate da cifre ma da nomi e, tra queste, la stella Gheerh non era affatto rintracciabile.»

«Che cosa vuole dire affatto rintracciabile?» L'uomo alzò le spalle. «Semplicemente non era lì. Il sole con i pianeti, tutto spaz-

zato via dall'universo.» «Può riguardare la presunta guerra di ottantamila anni fa?» «Quello che sembra saliente è la denominazione. Gheerh. Gheera. Forse Gheerh fu

il Mondo Centrale di un Impero che in seguito venne chiamato Gheera e, per tale ra-gione, venne distrutto.»

Jubad si accorse che gli occhi della rossa covavano silenzioso terrore. «La Flotta Imperiale era in grado di distruggere un intero sistema solare?»

Sì, pensò Emparak. Lo ha fatto spesso e volentieri. «Sì» disse la rossa. Jubad sprofondò di nuovo nei suoi pensieri. Fissò le carte, come se potesse strap-

parne via il loro segreto. «Una delle stelle che formano la costellazione attorno alla quale orbita la stazione

spaziale è un buco nero?» domandò all'improvviso. «Sì.» «Da quanto tempo?» Le donne e l'uomo furono presi alla sprovvista ed erano disorientati. «Non ne ab-

biamo alcuna idea.» «È una costellazione notevolmente pericolosa, vero? Il luogo più rischioso per eri-

gere una stazione spaziale: le forti e incessanti radiazioni, il pericolo continuo di esse-re ingoiati dall'orizzonte…» Uno dopo l'altro, Jubad squadrò gli altri. «Cosa dicono le antiche mappe stellari?»

«Oh.» La bionda si chinò sul supporto portatile delle informazioni e batté su alcuni tasti. «Non sanno nulla del buco nero. Qui è registrata solo la gigante Rossa. Neppure un doppio sistema solare.»

«Questo significa qualcosa!» Jubad si alzò. «M'impegnerò nella Consulta, affinché una flotta da guerra sia inviata su Gheera, con l'incarico di attaccare e conquistare la stazione spaziale. Dobbiamo portare alla luce il segreto dei tappeti di capelli e sono dell'opinione che la stazione sia la chiave decisiva.» Poi fece un cenno elusivo. «Vi ringrazio.»

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Dette le scarne parole, si recò rapidamente di fuori, per raggiungere l'automobile che lo portò lontano.

Con un sospiro di sollievo, l'uomo si sprofondò nella poltrona e sì rilassò stirac-chiandosi il corpo.

«Be'?» chiese. «È andata bene, no?» La rossa gettò un'occhiata insoddisfatta al piano del tavolo. «La questione del dop-

pio sistema solare è stata penosa. Avrebbe dovuto attirare la nostra attenzione.» «Ah, Rhuna, sei un'inconsolabile perfezionista!» gridò la bionda. «Non sei mai

soddisfatta? Si metteranno in azione, di più non volevamo ottenere.» «Sarebbe stato peggio se avesse detto: è una cosa improduttiva, facciamo ritornare

la spedizione scientifica di Gheera» considerò l'uomo. «Probabilmente, non è un male che ci sia arrivato da solo» disse la bionda. «Lo ha

convinto con maggiore forza di qualsiasi spiegazione confezionata nei minimi parti-colari.»

«Anche questo è vero.» La rossa sorrise e iniziò a raccogliere í documenti. «Bene, gente, non c'è ragione di farsi il sangue cattivo. Facciamo i bagagli e poi pensiamo dove andare a fare baldoria.»

La bionda fece a Emparak un segno. «Può smontare di nuovo il proiettore. Gra-zie.»

Perché lo ringraziava? Perché lo guardava in modo così strano, così inquisitorio? Emparak non disse nulla. Prese la protezione del proiettore e si trascinò fino al ta-

volo, per applicarla. I tre ragazzi girarono i tacchi, carichi di borse e di cartelle, senza degnarlo di un'altra parola.

«Vedrai che riusciremo a scoprire il ruolo giocato dai tappeti di capelli…» Fu l'ultima frase che Emparak udì e rimase ancora per un certo tempo nell'aria,

come se cercasse un'eco nelle profondità impenetrabili dell'archivio. Emparak li seguì con lo sguardo; il viso era inespressivo. Gli occhi della sua mente

videro l'armadio in cui si celavano tutte le risposte, tutte le domande. Cercate, se potete, pensò mentre richiudeva il portone d'acciaio. Spremetevi le me-

ningi. Credete di avere scoperto un grande segreto. Non avete proprio nessuna idea di quanto non abbiate neppure scalfito la superficie della storia dell'Impero.

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Jubad

La mano sinistra stringeva la destra sul petto, un gesto che era diventato il suo se-gno di riconoscimento e che venne frequentemente imitato, sia dagli epigoni sia dagli invidiosi. Lo sguardo scorreva sui giardini inondati di sole, sulle bordure colme di fiori, sui mari luccicanti e i sentieri paradisiaci, ma non vedeva nulla, solo la confusa oscurità di un'epoca scomparsa. L'auto seguiva la strada che, serpeggiando spensiera-ta fra gli impressionanti edifici dalle vetuste e varie architetture, lo avrebbe portato nella corte centrale del palazzo dell'ex Imperatore. Tuttavia, davanti agli occhi di Ju-bad c'erano solo le imponenti e buie colonne che aveva lasciato poco prima.

L'archivio dell'Imperatore… Aveva sempre evitato di mettere piede nell'antichis-simo edificio che ospitava i documenti e gli artefatti dell'intero periodo imperiale. Forse, avrebbe dovuto evitarlo anche quel giorno. Ma per una ragione non chiara, gli era sembrato inevitabile partecipare alla discussione che vi aveva avuto luogo, anche se di tale ragione non gli era rimasta traccia nella memoria.

Alla fine, era letteralmente fuggito. Aveva acconsentito a tutto ed era scappato, come se dovesse salvarsi dal fantasma del sovrano morto. Appesantito e in difficoltà, Jubad dovette, all'improvviso, prendere fiato. Con la coda dell'occhio notò l'espres-sione preoccupata del conducente. Volle dirgli qualcosa che fosse atta a calmarlo, ma non seppe cosa. Ancora, conosceva appena gli argomenti di cui aveva discusso, così dovette lottare contro le onde del ricordo che minacciavano di sommergerlo. La me-moria del passato aveva deciso della sua vita.

Berenko Kebar Jubad. Alla lunga, il proprio nome gli sembrava quello di un altro uomo, tutte le volte che lo aveva sentito pronunciare in discorsi e lo aveva letto nei libri di storia. Jubad, il liberatore. Jubad, il vincitore del tiranno. Jubad, l'uomo che aveva ucciso l'Imperatore.

Dalla fine dell'Impero, condusse lui stesso la vita di un sovrano. Sedeva nella Con-sulta dei ribelli, parlava davanti al parlamento e ovunque si recasse o qualsivoglia co-sa dicesse, notava le occhiate rispettose e l'affetto riverente. Poiché gli si dava ascol-to, poté partecipare in modo determinante all'indipendenza della regione Tempesti Kutaraan e anche la liberazione della provincia di Baquion fu, almeno in parte, un'o-pera a cui aveva contribuito. Ma le generazioni future non si sarebbero ricordate di simili prestazioni, avrebbero sempre pensato a lui come all'uomo che assestò il colpo mortale contro il despota.

Seguendo un improvviso impulso, fece fermare il conducente dell'automobile. «Fa-rò un tratto a piedi» disse. E, quando vide di nuovo lo sguardo preoccupato dell'uo-mo, aggiunse: «Non sono così vecchio come sembro. Lo dovreste sapere.»

Aveva cinquantaquattro anni, ma non era raro che gliene attribuissero settanta. Come scese, li sentì quasi tutti. Si fermò e attese, fino a che l'automobile fosse fuori dalla vista.

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Poi respirò profondamente e si scrutò attorno. Era solo. Solo in un piccolo giardi-no, circondato da cespugli verdi sfumati di blu, ornati da boccioli rosso scuri e dalle foglie delicatamente piumate. Da qualche parte, un uccello emetteva dei suoni desola-ti, sempre la stessa variazione di note. Sembrava che si esercitasse con diligenza.

Jubad chiuse gli occhi, ascoltò il canto dell'uccello. Gli ricordava più la musica di un flauto che il canto degli uccelli della regione. Gustò il piacevole calore del sole sul viso. È delizioso, pensò, starsene qui senza meta e non sentirsi importante. Non esse-re osservato da nessuno. Vivere con semplicità.

Quando aprì di nuovo gli occhi, fu stupito di trovarsi di fronte un ragazzino che lo stava fissando. Non lo aveva sentito arrivare.

«Sei Jubad, non è vero?» disse il giovane. Jubad lo salutò con un cenno del capo. «Sì.» «In questo momento, stavi pensando a una questione difficile?» volle sapere il

bambino. «Infatti, non ti ho disturbato.» «È molto gentile da parte tua» disse Jubad sorridendo. «Ma non ho pensato a nulla

di speciale. Ascoltavo solo un uccello cantare.» Il giovane sbarrò gli occhi. «Davvero?» «Davvero» assicurò Jubad. Guardò il ragazzino che dondolava inquieto le anche e aveva visibilmente qualcosa

che gli stava a cuore. Improvvisamente, gli uscì fuori una richiesta: «Vorrei farti una domanda importante!»

«Cosa?» disse Jubad senza dargli troppo peso. «Allora, chiedi.» «È vero che hai ucciso il cattivo Imperatore?» «Sì, è così. Ma è passato molto tempo.» «Ed è morto veramente? Hai controllato attentamente?» «Ho controllato con precisione» assicurò Jubad, rimanendo serio per quanto gli fu

possibile. Faceva fatica a reprimere una risata. «L'Imperatore era veramente morto.» Il giovane sembrò molto preoccupato. «Mio padre dice sempre che non è vero. Di-

ce che l'Imperatore è ancora vivo e che ha abbandonato solo il corpo per continuare a esistere tra i pianeti e le stelle. In una stanza, ha moltissime immagini dell'Imperatore e dice anche che tu sei un mentitore. È vero? Sei un mentitore?»

Un dolore ben noto attraversò Jubad. Il passato. Non lo avrebbe mai abbandonato. «Vedi, quando tuo padre era un bambino come sei tu, c'era ancora l'Imperatore e

tuo padre doveva andare, come tutti i bambini, alla scuola clericale» spiegò con cau-tela, «Là, i preti gli hanno fatto del male e hanno creato in lui una terribile paura. La paura di non potere intraprendere nulla che non piacesse all'Imperatore. La paura non lo ha più lasciato per tutta la vita. Ha paura ancora oggi. Per questa ragione dice quel-lo che mi hai raccontato. Puoi capirmi?»

Era quasi troppo esigere da un bambino di quattro o cinque anni di rompersi la te-sta con tali pensieri, perché amava il padre.

Il piccolo viso sembrò che stesse elaborando tutto a velocità estrema, mentre il bambino cercava di arrivare a una conclusione. Di colpo, tutto il rimuginare sparì come rapito da un turbine e gridò raggiante: «Non credo che tu sei un mentitore!»

«Grazie» fece Jubad in modo brusco. «Inoltre, l'Imperatore ti avrebbe duramente punito, se fosse ancora in vita!» conti-

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nuò a raffica il bambino con allegria. Dopo la frase, cominciò a saltellare, leggero e pieno d'energia.

Jubad lo seguì con lo sguardo, abbastanza sbalordito da un tale giudizio infantile. «Sì» mormorò infine. «È un pensiero coerente.»

Quando Jubad entrò nell'appartamento, al tavolo era seduto un uomo. Era calmo, quasi lo aspettasse già da un certo tempo.

Di fianco alla mano che poggiava sulla superficie del tavolo, c'era una piccola va-ligia scura.

Jubad si fermò un attimo, poi chiuse la porta con cautela. «È di nuovo arrivato il momento?» «Sì» disse l'uomo. Jubad fece un cenno con il capo. In seguito, chiuse tutte le ante delle finestre. Fuori

c'era già il tramonto e un paio delle sette lune stavano nell'oscurità del cielo come se fossero coricate su nero velluto.

Da una delle finestre, Jubad poteva vedere la grande cupola che formava il centro del palazzo imperiale. Ospitava gli sfarzosi appartamenti dell'Imperatore, requisiti e accessibili solo agli studiosi con permesso speciale. Anni prima, per quanto sembri incredibile, avrebbero voluto che lui, Jubad, vi prendesse quartiere. Cosa che, natu-ralmente, aveva subito rifiutato.

«Qualcuno ti ha visto arrivare?» «Non credo.» «Non ne sei sicuro?» L'uomo seduto al tavolo sorrise. «Le voci sulla tua grave malattia non si potranno

più mettere a tacere.» Jubad chiuse l'ultima finestra, accese la luce e si mise a sedere al tavolo. «Stiamo parlando di uno dei più importanti segreti di stato» spiegò con tono serio.

«Neppure la Consulta può ricevere l'informazione.» «Sì.» L'uomo aprì la valigetta, prese una siringa e aspirò un liquido color azzurro

chiaro. «Quanto resisterai ancora?» «Più a lungo possibile,» Al riguardo, si rifiutava di essere superstizioso. Fu un caso, null'altro. Il virus do-

veva averlo colpito già negli anni giovanili, preso in qualche posto, magari già nel primo viaggio su incarico della Consulta dei ribelli, quando lo avevano portato a Je-hemba. La malattia aveva covato in lui molti lunghi anni, senza il minimo sintomo.

Il liquido nella siringa diventò poco a poco scuro. Non appena avesse raggiunto una tinta quasi nera, doveva essere iniettato. Per ore, avrebbe terribilmente bruciato, ma avrebbe frenato il progresso della malattia. Jubad cominciò a togliersi la camicia.

La rabbia del deserto. Così si chiamava la malattia su Jehemba. Con cautela, Jubad liberò la protezione che ingannevolmente mostrava la pelle sana. Sotto, venne alla lu-ce la pelle di un uomo vecchissimo: grinzosa, screpolata e flaccida, tanto che ricopri-va fasci muscolari rattrappiti, più sottili di un dito. Improvvisamente, pensò all'archi-vio e al bambino. Pensò al passato, a un tempo lontano, quando l'Imperatore era anco-ra in vita e Jubad, il ribelle, lo aveva in pugno.

Doveva rimanere un segreto. Nessuno doveva sapere che il braccio destro di Be-

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renko Kebar Jubad si stava seccando. Era il braccio con cui aveva ucciso l'Imperato-re…

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L'Imperatore e il ribelle

Non si aspettava più nulla, solo la morte. Sarebbe stata terribile, terribile per lui e ancora più terribile per coloro che pendevano dal suo silenzio. La vita di migliaia di persone. Probabilmente il futuro di tutto il movimento dipendeva dal silenzio mante-nuto sui segreti che gli avevano confidato. Sapeva che non poteva proteggerli.

Gli scagnozzi dell'Imperatore avrebbero cercato di rompere questo silenzio con tut-ti i mezzi a loro disposizione. Ed erano mezzi spaventosi, tecniche crudeli, verso cui non poteva opporsi. Le sofferenze che lo attendevano avrebbero superato qualsiasi esperienza vissuta in precedenza. E le sofferenze non sarebbero state tutto. C'erano altre tecniche, dei metodi astuti pianificati nel minimo dettaglio, contro cui la forza di volontà non poteva neppure opporsi consciamente. Lo avrebbero messo alla prova con droghe. Gli avrebbero inserito delle sonde nel sistema nervoso. Avrebbero usato attrezzi di cui non aveva mai sentito il nome. Infine, lo avrebbero costretto a parlare. Prima o poi, avrebbero appreso tutto quello che volevano sapere.

C'era solo una possibilità di salvezza, solo una speranza: doveva morire, prima che pervenissero al loro scopo.

Ma morire non era una cosa semplice. Se avesse visto la possibilità di porre fine al-la sua stessa vita, non avrebbe indugiato un momento. Ma gli avevano preso tutto. In primo luogo, la capsula di veleno che ogni ribelle portava con sé, e poi ogni altra sor-ta di equipaggiamento, tutto. Avevano cercato oggetti nascosti in ogni orifizio del corpo e lo avevano esaminato da capo a piedi. Vestiva solo un abito maschile, di sot-tile e leggera stoffa, morbida e ovattata.

La cella in cui lo avevano infilato era piccola e completamente vuota, del tutto a-settica. Le pareti erano di scintillante acciaio, liscio come uno specchio. Allo stesso modo erano costruiti il soffitto e il pavimento. C'era un piccolo rubinetto da cui goc-ciolava l'acqua tiepida, quando lo apriva, e un contenitore bloccato al suolo per i bi-sogni. Era tutto. Nessun materasso, nessuna coperta. Doveva dormire sul nudo pavi-mento.

Aveva pensato di compiere un'azione disperata, di lanciarsi contro la parete per rompersi il cranio, prima che glielo potessero impedire. Ma le pareti erano protette da un campo magnetico che rendeva impossibile realizzare movimenti veloci e, nel caso di simili tentativi, agiva come una barriera di gomma, in modo ancora più efficace.

Era caldo. Le pareti e il pavimento sembravano riscaldati; ipotizzò che molto vici-no alla cella fosse installato un grande macchinario, forse un generatore, perché quando era disteso per terra poteva sentire delle tenui vibrazioni. La luce emessa dai tre elementi applicati al soffitto non si spegneva mai e aveva la certezza di essere os-servato. Anche se, a questo riguardo, non gli restava alcun punto di riferimento.

La porta era provvista di un coperchio ribaltabile semicircolare. Quando si apriva, all'interno, trovava il pasto quotidiano. Sempre uguale, una poltiglia fine e priva di

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gusto, contenuta in una ciotola trasparente. Fu l'unica cosa per cui lo minacciarono: se avesse rifiutato il cibo, lo avrebbero legato e nutrito artificialmente. Quindi, mangia-va. Poiché non gli avevano dato nessun cucchiaio, la poltiglia doveva berla. La stessa ciotola era morbida e fragile, non adatta per tagliarsi le arterie o cose del genere.

Era l'unica distrazione e l'unico riferimento temporale. Il tempo rimanente lo pas-sava seduto, per lo più in un angolo, con la schiena appoggiata alla parete, e riflette-va. Riemergevano i visi degli amici, come se volessero dargli l'ultimo addio, ed epi-sodi della vita che pretendevano una resa dei conti. No, non si pentì di nulla. Avrebbe rifatto tutto nella stessa maniera. Anche il volo di esplorazione, il volo che si era rive-lato una raffinata trappola. Nessuno lo poteva prevedere. Non aveva nulla da rimpro-verarsi.

Talvolta, i pensieri tacevano. Allora rimaneva seduto, guardando l'indistinta imma-gine del suo corpo riflessa sulla parete, per provarsi che era ancora vivo.

Non sarebbe durato a lungo. Ogni momento era prezioso. In questi istanti, si sentiva in pace con se stesso. Poi ci furono i momenti dello spavento. La coscienza che la morte fosse vicina e

inevitabile risvegliò in lui un'ancestrale paura animale. Una paura che, escludendo ogni forma di comprensione, spazzava via le riflessioni e travolgeva tutte le altre priorità. Perché saliva dalle profondità più buie dell'anima, come una spaventosa alta marea. In quelle ore annegava, mentre cercava una speranza, una via d'uscita, e tro-vava solo incertezza.

Perse lentamente il senso del tempo. Gli diventò impossibile dire da quanto fosse rinchiuso, giorni o mesi. Forse, lo avevano dimenticato. Forse, sarebbe rimasto im-prigionato per anni, sarebbe invecchiato e morto.

Arrivarono, mentre dormiva. Ma il rumore di chiavi nella serratura lo fece sveglia-re e nell'arco di un istante era già in piedi.

L'ora era dunque scoccata. La tortura cominciava. Contò i sedici soldati della guar-dia imperiale, se ne stavano stretti vicino alla porta, tutti armati con fucili a proiettili narcotici. Pensavano sempre a tutto. Non aveva alcuna chance.

Uno di loro, un uomo tozzo con i capelli a spazzola, il viso dai tratti duri, si appo-stò sul vano della porta.

«Il ribelle Jubad? Venite» ordinò bruscamente. Due soldati si avvicinarono a lui con prudenza e lo incatenarono, tanto che poté

camminare solo a piccoli passi. Poi gli legarono assieme i polsi e gli misero una cate-na attorno ai fianchi. Jubad permise loro di farlo. Quando gli indicarono di muoversi, obbedì.

Percorsero un corridoio illuminato a giorno e raggiunsero un largo tunnel in cui li aspettava un transporter corazzato con gli sportelli aperti. Non c'era nessuna occasio-ne di fuga e nessuna opportunità di gettarsi in un precipizio o di affrontare un mortale fuoco di sbarramento. Gli ordinarono di salire, gli si sedettero attorno e il viaggio ini-ziò.

Sembrò che il transporter si muovesse sempre solo longitudinalmente, per ore. Talvolta, attraversavano la totale oscurità e lo scarso chiarore della plancia di guida dava alle facce dei soldati l'aspetto di maschere demoniache che non lo abbandona-vano con lo sguardo neanche per un istante. Alcune volte, dovettero fermarsi di fronte

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a pericolosi e scintillanti schermi di energia per attendere l'ispezione approfondita di sorveglianti che all'interno di cabine corazzate conducevano lunghe telefonate, prima che disinserissero le barriere e permettessero il proseguimento del viaggio. Per tutto il tempo, nel transporter non venne proferita parola.

A un certo punto attraversarono di nuovo l'oscurità, si diressero verso una lumino-sa macchia lontana e, di colpo, il transporter sparì nell'apertura di una scoscesa parete rocciosa e rimase sospeso in un campo antigravitazionale, libero nell'aria. Jubad si voltò a guardare e si stupì, ammirò la sconvolgente prospettiva. Continuarono il per-corso su un paesaggio marino calmo e azzurro come l'inchiostro che si estendeva da orizzonte a orizzonte. La cattedrale enorme e perfetta del cielo li sovrastava. Lascia-rono alle loro spalle il frastagliato e ripido massiccio roccioso che si gettava nell'oce-ano, e davanti a loro, davanti a loro… Tanto grande da non poterlo comprendere con lo sguardo né concepire con la mente, sfavillante sotto la luce del sole, c'era il palazzo dell'Imperatore.

Il Palazzo delle Stelle. Jubad ne aveva visto delle fotografie, ma nessuna immagine poteva rappresentare adeguatamente l'orgogliosa e dispendiosa sontuosità della gi-gantesca architettura. Era la sede dell'Imperatore, l'immortale sovrano che regnava su tutti i popoli, ed era il cuore dell'Impero. Non esisteva un solo ribelle che non sognas-se di arrivare in questo luogo come vincitore. Jubad si avvicinava come prigioniero. Il suo sguardo si annuvolò al pensiero dei terrori che lo stavano aspettando.

Il transporter scese di altitudine e proseguì il volo sfiorando la superficie del mare, solcato dal pettine delle onde mosse da un impercettibile vento; tendendo la mano, si sarebbe potuto toccarne la cresta. Rapidamente, la parete del recinto del palazzo si fece sempre più vicina, sempre più alta. Una porta si aprì e li inghiottì come le fauci di un animale che ingoia la preda. Entrarono in un capannone immenso al centro del quale il trasporter atterrò.

«Sarai consegnato alla guardia personale dell'Imperatore» disse il capo della scor-ta.

Jubad rabbrividì. Ciò non prospettava nulla di buono. La guardia personale del-l'Imperatore era composta dagli elementi più selezionati, l'élite dell'élite, da soldati pronti a morire per l'Imperatore che non manifestavano riguardi per sé e altre perso-ne. Dodici di loro, dei colossi massicci vestiti di uniformi dorate e somiglianti come fratelli, lo attendevano già nell'area dell'atterraggio.

«Troppo onore» bisbigliò Jubad, con il cuore in gola. Le guardie lo circondarono e aspettarono, impassibili, che il veicolo riprendesse il

volo. Quindi, uno si abbassò e gli rimosse le catene che portava ai piedi. Questo gesto aveva qualcosa di condiscendente. Non ci sfuggirai, anche se puoi correre, sembrava volergli dire.

Lo condussero per corridoi senza fine. Jubad sentiva la paura battere nel petto, ma gustò ogni passo, ogni secondo. Nel prossimo corridoio, o forse nel seguente, una porta non avrebbe tardato ad aprirsi sulla stanza che sarebbe stata teatro degli ultimi momenti della sua vita. Il lampeggiare sterile degli apparecchi contenuti in quella stanza sarebbe stata l'ultima luce percepita dal suo sguardo; e le grida emesse l'ultimo suono che lo avrebbe accompagnato nelle oscurità eterne…

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Salirono alcune ampie scale. Jubad le memorizzò in modo confuso. Arbitrariamen-te, aveva supposto che le sale degli interrogatori e le camere di tortura si sarebbero trovate nelle profondità del palazzo, nei sotterranei più occulti, in cui nulla sopravvi-veva e nessun grido poteva uscire. Ma le guardie, con la loro marcia a colpi di passi uguali sullo specchio lucente del marmo, lo condussero tra portoni rivestiti d'oro e at-traverso splendide gallerie riempite di tesori artistici provenienti da tutte le galassie dell'Impero. Il cuore si mise a battere come un martello quando superarono una porti-cina laterale che celava solo una piccola stanza bianca sobriamente fornita di alcune sedie, una tavola e un minuto quadro di comando. Nulla di più. Gl'intimarono l'ordine di non muoversi, presero posizione sulle porte e aspettarono. Non accadde nulla.

«Cosa attendiamo?» finì per chiedere Jubad. Una delle guardie si girò verso lui. «L'Imperatore ti vuole vedere» disse. «Fai silenzio.» I pensieri di Jubad fecero un passo indietro, una capriola, poi si annodarono e la

mascella gli cadde a terra dallo stupore. L'Imperatore? Sentì infiammarsi l'angoscia. Mai si era saputo che l'Imperatore avesse direttamente preso parte a qualche interro-gatorio.

L'Imperatore voleva vederlo. Cosa poteva significare? Passò qualche istante, prima che Jubad si chiarisse ciò che voleva dire. Proprio lo

stesso Imperatore non avrebbe tardato a fare la sua comparsa. Qui, in questa stanza. Probabilmente attraverso la porta sorvegliata da una parte e dall'altra, da due soldati. L'Imperatore sarebbe arrivato per fare fronte al ribelle.

In Jubad, i pensieri correvano come un gregge in fuga. Era una chance? Se avesse tentato di aggredire l'Imperatore, non aveva l'ombra di un dubbio che lo avrebbero ucciso, dovevano ucciderlo, rapidamente e in modo indolore. Era la possibilità che attendeva. Avrebbe mostrato al tiranno come i ribelli intendono la morte.

La porta si aprì, mentre Jubad era preso dal corso dei pensieri. Le guardie del corpo presero posizione. Con passi misurati, entrò un uomo leggermente tozzo che, a para-gone degli uomini della guardia, aveva l'aria un nano. Era brizzolato sulle tempie e portava un'uniforme davvero mostruosa, interamente coperta di ciarpame luccicante. Gettò attorno a sé uno sguardo di onorificenza e dichiarò:

«L'Imperatore.» Con queste parole cadde sulle ginocchia, tese le braccia e si chinò con umiltà, fino

a toccare il suolo con la fronte. I soldati fecero la stessa cosa e, in definitiva, Jubad fu il solo a restare in piedi.

Allora, l'Imperatore entrò. Ci sono cose che si dimenticano, altre che si ricordano. Fra queste, la vita offre a

volte alcuni rari momenti di cui si conserva la memoria quasi fosse impressa a fuoco, come quella di immagini sproporzionate e luminose. Successivamente, ogni volta che Jubad si chiese quale momento della sua vita era stato il più impressionante, il più sconvolgente, doveva ammetterlo con riluttanza: questo.

La presenza dell'Imperatore lo colpì quasi fosse stato frustato. Ovviamente, ne co-nosceva il viso. Chi non lo conosceva? Nel corso dei millenni, la conoscenza interiore di questo viso si era integrata al patrimonio dell'umanità. Lo aveva visto nei film, lo aveva sentito pronunciare dei discorsi, ma nulla lo aveva preparato… a questo…

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Era lì. L'Imperatore. Da millenni e millenni regnava sull'umanità, su tutto l'univer-so abitato. Senza età e al di là di ogni metro di misura umano. Era un uomo grande e slanciato, dal corpo potente e dalle caratteristiche marcate, dal viso di una perfezione assoluta. Vestito con una sobria tunica bianca, avanzò nella stanza con passo infini-tamente calmo, senza alcuna fretta né movimento superfluo. Lo sguardo si pose su Jubad, e il ribelle ebbe l'impressione di affondarvi come nell'oscurità di due pozzi senza fondo.

Era travolgente. Come incontrare una figura mitologica. Ora comprendo perché lo si prende per un Dio! Fu il solo pensiero che il povero

cervello di Jubad fu capace di esprimere. «Sollevatevi.» Anche il timbro della voce gli era familiare, tenebroso, modulato, contenuto. Era la

voce di un uomo che viveva oltre al tempo. Attorno a Jubad, i soldati della guardia si alzarono e rimasero in piedi con la testa chinata in segno di umiltà. Jubad notò con indignazione che anche lui, alla comparsa dell'Imperatore e senza rendersene conto, si era inginocchiato. Si riprese con un salto.

L'Imperatore osservò nuovamente Jubad. «Toglietegli le catene.» Due guardie lo liberarono dagli ultimi impedimenti. Con un ticchettio di ferraglia,

le arrotolarono e le fecero sparire nelle tasche delle loro uniformi. «Ora, lasciatemi solo con il ribelle.» Per un istante, il timore prese forma sul viso dei soldati, ma obbedirono senza

l'ombra di un'esitazione. Impassibile, l'Imperatore attese che tutti fossero scomparsi e che avessero richiuso

le porte dietro loro. Quindi gettò un breve sguardo in direzione di Jubad, con un sorri-so leggero e impenetrabile sulle labbra. Passò dinanzi al ribelle, gli girò le spalle non prestandogli la minima attenzione, come se non fosse stato presente.

Jubad fu quasi afferrato da una vertigine. Qualcosa in lui pulsava senza sosta: uc-cidilo! Uccidilo! Era un'occasione che non si sarebbe ripresentata prima di migliaia di anni. Era solo con il tiranno. Lo avrebbe ucciso a mani nude; lacerandone il corpo con i denti, con le unghie, e liberando l'Impero dal dittatore. Avrebbe compiuto la missione dei ribelli, da solo. Strinse i pugni in silenzio, mentre il cuore si mise a bat-tere così forte che credette di sentirne l'eco invadere la stanza.

Improvvisamente, il sovrano gli parlò. «Adesso i tuoi pensieri girano attorno a una sola idea, uccidermi. Ho ragione?»

Jubad inghiottì saliva. L'aria che gli riempiva i polmoni bruciava. Cosa stava avve-nendo? Quale gioco l'Imperatore stava mettendo in campo con lui? Perché aveva mandato via le guardie?

L'Imperatore sorrise. «Naturalmente, ho ragione.» I ribelli sognano da secoli una situazione simile. Tro-

varsi soli con l'odiato despota… Non è così? Ma dimmi qualcosa; vorrei sentire il suono della tua voce.»

Jubad inghiottì di nuovo. «Sì.» «In questo momento, vorresti uccidermi, è vero?» «Sì.»

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L'Imperatore aprì le braccia. «Bene guerriero, eccomi. Perché non provi?»

Diffidando, Jubad strinse gli occhi. Fissò l'Imperatore divino che attendeva con pa-zienza, nella sua sobria tunica bianca, le mani tese in un gesto che esprimeva vulne-rabilità. Sì. Sì, l'avrebbe fatto. Poteva solo morire. Non chiedeva nulla di meglio che scomparire.

L'avrebbe fatto. In quel momento, non appena avesse trovato il modo di attaccare. Immerse gli occhi in quelli dell'Imperatore, in quelli del Signore degli elementi e del-le stelle, in quelli dell'onnipotente. La forza che sentiva in sé venne meno. Le braccia si contrassero. Ansimava. L'avrebbe fatto. Doveva ucciderlo. Lo doveva fare, ma il corpo non gli obbediva.

«Non ci riesci» constatò il sovrano. «È ciò che volevo mostrarti. Il rispetto che i-spira l'Imperatore è profondamente radicato in tutti voi. Anche in voialtri, ribelli. Ti rende incapace di aggredirmi.»

Egli si voltò e andò a mettersi dinanzi al piccolo quadro di comando al cui fianco c'erano due sedie che facevano fronte alla parete. Con un gesto calmo e quasi gentile, stese il braccio e premette un pulsante. Una parte della parete scivolò senza rumore di lato, offrendo allo sguardo la proiezione immensa e tridimensionale di un panorama stellare. Jubad riconobbe i contorni dell'Impero. Ogni stella, anche la più isolata, sembrava essere rappresentata e le galassie investivano lo spazio in cui si trovavano con una luce spettrale.

«Rimango spesso seduto qui per delle ore. Per contemplare ciò su cui ho potere» disse l'Imperatore. «Tutte queste stelle e tutti i loro pianeti sono miei. Tutto questo incredibile spazio è il luogo in cui si esercita la mia volontà e dove la mia parola è legge. Ma il potere, il vero potere, non è mai quello che si esercita sulle cose, fossero pure dei soli o dei pianeti. Il potere è tale solo sugli uomini e i loro pensieri. E il mio potere non si limita a quello delle armi e della violenza; la mia influenza si estende ai cuori e ai pensieri degli uomini. Miliardi, centinaia di miliardi di esseri umani vivono su questi pianeti e mi appartengono tutti. Non passa alcun giorno senza che ciascuno di loro pensi a me. Mi venerano, mi amano; sono il centro della loro vita.» L'Impera-tore guardò Jubad. «In passato, mai nessun Impero fu così grande come il mio. Mai nessun uomo ebbe tanto potere.»

Jubad fissò l'Imperatore. Le caratteristiche del suo viso erano più immutabili delle costellazioni del firmamento. Perché gli diceva tutto questo? Quale sorte gli riserva-va?

«Ti domandi perché ti stia dicendo ciò e quale sorte ti sia riservata» proseguì l'Im-peratore. Jubad fu quasi atterrito vedendosi così rapidamente e facilmente scoperto nell'intimo. «E ti stai anche domandando com'è possibile che legga nei pensieri… No, non ho questa capacità. Del resto, non è necessario. Ciò che tu pensi, e provi, è scritto sul tuo viso.»

Jubad sentì nella carne a quale punto quest'uomo senza età gli fosse superiore. «A proposito, non ho neppure l'intenzione di sottoporti a un interrogatorio. Puoi

dunque rilassarti. Se ti dico tutto questo, è solo perché tu possa comprendere qualco-sa…» Il sovrano lo fissò con uno sguardo impenetrabile. «So già tutto ciò che voglio sapere. Anche su di te, Berenko Kebar Jubad.»

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Jubad non poté impedirsi di trasalire, sentendo l'Imperatore pronunciare il suo no-me.

«Sei nato ventinove anni fa su Lukdaria, uno dei mondi che fungono da basi segre-te all'organizzazione ribelle. Sei il figlio primogenito di Ikana Wero Kebar e di Uban Jegetar Berenko. A dodici anni, sei stato addestrato all'uso di armi pesanti e alla dife-sa astronavale; quindi sei stato nominato comandante di pattuglia e di astronave; infi-ne, sei stato chiamato nello stato maggiore della consulta dei ribelli.»

Un sorriso sarcastico scivolò sul viso dell'Imperatore, quando vide a quale punto Jubad fosse sconcertato.

«Ti devo raccontare anche alcuni dettagli piccanti del tuo piccolo traffico con quel-la giovane navigatrice? Avevi appena sedici anni e si chiamava Rheema…»

Lo spavento si leggeva sul viso di Jubad. «Come… Come l'avete appreso?» balbettò. «So tutto di voi» disse l'Imperatore. «Conosco il nome, la posizione e il livello di

armamento di ciascuna delle vostre basi su Lukdaria, Jehemba, Bakion e tutte le altre. Ho informazioni sul governo fantasma che avete instaurato su Purat, conosco le vo-stre società segrete su Naquio e Marnak, e conosco anche la vostra base segreta di Niobai. Conosco ognuno di voi e i vostri nomi, conosco gli obiettivi e i vostri piani.»

Avrebbe potuto infilare nel corpo di Jubad una spada incandescente. Lo spavento fu quasi mortale. Si era preparato alle torture destinate a strappargli queste informa-zioni ed era pronto a morire per non rivelare i nomi che aveva udito.

Le gambe lo abbandonarono. Senza rendersi conto di ciò che faceva, crollò su una delle poltrone. Dopo tutto ciò che aveva appena sopportato, era sul punto di perdere la ragione.

«Ah» fece l'Imperatore scuotendo la testa con l'aria di chi se ne intende. «Vedo che sei davvero un ribelle…»

Jubad impiegò un istante per comprendere il senso di quelle parole. Egli si era se-duto, mentre lui, l'Imperatore, era rimasto in piedi. Normalmente, simili atteggiamenti venivano considerati come un'offesa passibile di morte. Jubad restò lo stesso seduto.

«Allora, se sapete già tutto, mi chiedo che cosa volete da me» disse, tentando pe-nosamente di controllare la voce.

L'Imperatore lo fissò con uno sguardo insondabile come l'abisso che separa le stel-le.

«Voglio che torni indietro e provvedi perché i piani siano cambiati.» Fuori di sé, Jubad fece un salto. «Mai!» esclamò. «Piuttosto, preferisco morire!» Per la prima volta, sentì l'Imperatore scoppiare in una sonora risata. «Tu pensi realmente che ciò servirebbe a qualcosa? Non essere stupido. Vedi bene

che so tutto di voi. Se ne avessi il desiderio, potrei, in un'ora, fare scomparire tutto il movimento ribelle fino all'ultimo uomo senza che ne resti la minima traccia. Sono l'unico a conoscere il numero esatto delle rivolte e delle ribellioni che si sono già avu-te e ho sempre provato un grande piacere nel demolirle e distruggerle. Ma questa vol-ta non lo farò, poiché il movimento ribelle svolge un ruolo importante nei miei pro-getti.»

«Non ci lasceremo strumentalizzare!»

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«Ti piaccia o no, siete stati il mio strumento fin dall'inizio» replicò l'Imperatore con calma, prima di aggiungere: «Io ho fondato il movimento ribelle.»

A Jubad sembrò che i pensieri si fermassero, per sempre. «Cosa?» si sentì debolmente mormorare. «Conosci la storia del movimento» precisò l'Imperatore. «Circa trecento anni fa, un

uomo è apparso in un mondo alla periferia dell'Impero; teneva discorsi insurrezionali e riuscì a convincere un buon numero di persone a sollevarsi contro la dominazione dell'Imperatore. È lui che ha piantato il germe del movimento ribelle e ha scritto ciò che doveva restare oltre i secoli, il libro più importante del movimento. Il movimento deve il nome al titolo del libro. L'opera s'intitolava Il vento silenzioso, e l'uomo si chiamava Denkalsar.»

«Sì.» «Quell'uomo, ero io.» Jubad lo fissò. Il suolo sembrava crollargli sotto i piedi, frammento dopo frammen-

to. «No…» «È stata un'avventura interessante. Mi sono mascherato e ho spinto il popolo a in-

sorgere contro l'Impero; in seguito, sono rientrato al palazzo e ho combattuto i ribelli che avevo addestrato al combattimento. Nella vita, ho avuto occasione di mascherar-mi un numero incalcolabile di volte, ma quell'esperienza fu la sfida più grande. E ho avuto successo. Il movimento ribelle è cresciuto, irresistibilmente cresciuto…»

«Non lo credo.» L'Imperatore ebbe un sorriso di compassione. «Osserva solo il nome. Denkalsar è un anagramma del mio, Aleksandr. Ve ne siete

mai accorti?» Il suolo sembrò definitivamente cedere sotto i piedi di Jubad. Si aprì un abisso sen-

za fondo pronto a inghiottirlo. «Ma, perché?» esclamò di colpo. «Perché tutto questo?» Conosceva già la risposta. Era solo un gioco con cui l'annoiato Imperatore si era

trastullato, per passare il tempo. Quello in cui Jubad aveva creduto con tutte le fibre del suo essere serviva in verità a distrarre il sovrano immortale. Aveva fatto sorgere il movimento ribelle; lo cancellerà quando ne avrà abbastanza.

Di fronte alla sua onnipresenza, non c'era alcuna possibilità, alcuna speranza. La loro lotta, fin dall'inizio, era senza uscita. Forse, pensò tristemente Jubad, era davvero il Dio che si riteneva fosse.

L'Imperatore lo osservò, per un lungo momento di silenzio, ma non sembrava ve-derlo. Aveva lo sguardo assente. Memorie millenarie gli si riflettevano sul viso.

«Può sembrare difficile da comprendere, ma tanto tempo fa sono stato un ragazzo, non più vecchio di te» riprese lentamente a raccontare. «Ero cosciente di possedere solo una piccola scintilla di vita e che, qualunque fosse il mio desiderio, avrei dovuto afferrarla prima che si estinguesse. Volevo molto. Volevo tutto. I miei sogni non co-noscevano alcun limite ed ero pronto ad agire perché diventassero realtà, esigevo il massimo da me stesso per raggiungere il vertice. Volevo compiere ciò che nessuno aveva realizzato fino ad allora; volevo essere il primo in tutti i campi, il vincitore in tutte le discipline, volevo avere potere sull'universo, sul passato come sul futuro.»

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Fece un gesto impreciso. «I contenuti mentali degli imperatori che mi hanno pre-ceduto continuano a vivere in me. Così, sono cosciente che anche loro erano spinti dalla stessa visione. Nella mia gioventù, regnava l'Imperatore Aleksandr il Decimo ed ero deciso a succedergli. Sono riuscito a entrare nella Scuola dei figli dell'Imperatore, ho mentito, ingannato, corrotto e ucciso prima di diventare il suo favorito. Sul letto di morte, mi consegnò la signoria dell'Impero, mi affidò il segreto della longevità e mi fece entrare nel cerchio degli imperatori.»

Jubad pendeva dalle labbra del sovrano. Gli venne un capogiro, quando tentò di immaginare a quanto tempo addietro potevano risalire gli eventi di quella storia.

«Ma c'era ancora qualcosa di più da raggiungere, da conquistare. Avevo il potere, una lunga vita dinanzi a me, e lottavo per ottenere più potere e più vita. Avrei avuto una tregua solo di fronte alla longevità e all'immortalità. Conducevo guerra dopo guerra, per estendere sempre più lontano le frontiere dell'Impero, all'infinito. Più ave-vo potere, più diventavo avido di potere. Era un processo senza fine. Era una febbre che ci spingeva avanti. Qualsiasi cosa avessimo conquistato, bruciavamo di desiderio per possederne ancora.» Lo sguardo dell'Imperatore era indirizzato allo schermo di proiezione. «Abbiamo conquistato il potere, lo abbiamo conservato e assaporato sen-za ritegno. Abbiamo condotto guerre, abbiamo oppresso e sterminato popoli. Abbia-mo costantemente imposto la nostra volontà, senza alcuna pietà. Nessuno osava resi-stere. Abbiamo commesso crudeltà di fronte a cui tutti gli episodi della storia hanno l'aria di piacevoli favole per bambini. Crudeltà che il nostro linguaggio non può nep-pure nominare e che sfidano l'immaginazione più folle. Nessuno poté fermarci. Ci siamo bagnati nel sangue fino ai fianchi, come se guadassimo un fiume. Nessun ful-mine ci ha fermati. Abbiamo accumulato montagne di teschi e nessuna potenza supe-riore si è opposta. Abbiamo versato torrenti di sangue umano e nessun Dio è interve-nuto. Allora, abbiamo deciso che noi stessi eravamo degli dèi.»

Jubad osava appena respirare. Aveva l'impressione di soffocare, di essere schiac-ciato da ciò che ascoltava.

«Avevamo preso potere sui corpi e ci preparavamo a conquistare il potere dei cuo-ri. I mortali, sotto tutti i soli, ci temevano, ma ciò non bastava più: dovevamo inse-gnare loro ad amarci. Abbiamo inviato sacerdoti incaricati di santificare il nostro no-me e di proclamare la nostra onnipotenza in tutte le galassie. Siamo riusciti a estirpare i vecchi idoli dal cuore degli uomini per prendere il loro posto.»

L'Imperatore tacque. Jubad lo fissava senza muoversi. L'aria nella stanza sembrava composta di acciaio massiccio.

Con una lentezza infinita, il sovrano si girò verso di lui. «Ho raggiunto ciò che volevo. Potere assoluto. Vita eterna. Tutto. E oggi so che

tutto ciò non ha alcun senso.» Jubad percepì nelle parole una solitudine indicibile e, in un lampo, riconobbe che il

sapore dell'Impero era composto da questo torpore senza respiro, dall'oscurità senza speranza. Dall'alito di una putrefazione che non poteva propagarsi poiché il tempo si era fermato.

«Il potere è una promessa che conserva valore solo finché vi sono ostacoli che im-pediscono di realizzarla. Abbiamo accumulato un potere incommensurabile, ma non abbiamo risolto l'enigma dell'esistenza. Siamo più vicini alle divinità che ai semplici

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mortali, ma il nostro desiderio non si è esaudito. Il così vasto Impero è solo un gra-nello di polvere nell'universo, ma è probabile che la conquista di altro potere non ci avvicinerà alla soddisfazione. Dovrei attaccare un'altra galassia? A cosa servirebbe?

«Non abbiamo mai trovato altri esseri comparabili agli umani e l'umanità senza ec-cezioni vive sotto la mia sovranità. Così, da migliaia di anni, tutto è immutabile, non si muove più nulla; tutto funziona, ma nulla di nuovo si produce. Per quanto mi ri-guarda, il tempo ha cessato di esistere. Oggi, poco importa se ho vissuto centomila anni o uno solo, non ha alcun senso continuare su questa via. Abbiamo capito che la nostra ricerca è fallita e abbiamo deciso di liberare gli uomini dal nostro giogo. Di rendere ciò che abbiamo conquistato e di non conservare nulla.»

Tali parole caddero come colpi di maglio sul silenzio di acciaio. Jubad era osses-sionato dall'impressione di essersi volatilizzato in una nuvola di fumo.

«Comprendi ciò che ti voglio dire?» Sì. No. No, non comprendeva nulla. Aveva cessato di comprendere qualcosa.

L'Imperatore, che tramite un impenetrabile mistero ospitava le memorie dei predeces-sori, dichiarò:

«Abbiamo deciso di morire.» «Di morire?» No. Non comprendeva nulla. «Chiunque abbia conquistato tanto potere come noi, non potrà mai liberarsene» ri-

prese con calma l'Imperatore. «È per questa ragione che vogliamo morire. Il proble-ma è che l'Impero non può continuare a esistere senza l'Imperatore. Gli uomini sono troppo dipendenti da me. Se mi accontentassi di scomparire, non avrebbero alcun fu-turo. Non posso permettermi di abbandonare la sovranità, così, senza correre il ri-schio di condannarli a morte. Per risolvere il problema, ho creato il movimento ribel-le.»

«Ah.» Jubad sentì in sé delle voci che si alzavano. Iniziavano a dubitare, vedevano solo una manovra occulta del tiranno. Ma dalle profondità del cuore gli giungeva la certezza assoluta che le parole dell'Imperatore erano da prendere sul serio.

«Costruire il giogo del potere è facile, ma cancellarlo dalla mente della gente è dif-ficile. Gli uomini non avranno alcun futuro finché non riusciranno a scuotere il giogo mentale della mia autorità. Il movimento ribelle aveva lo scopo di raccoglierli e met-terli sul cammino della liberazione intellettuale.»

L'Imperatore fece nuovamente scorrere la parete. Lo schermo di proiezione scom-parì. «Abbiamo raggiunto il nostro obiettivo. Ci avviciniamo alla fase finale del piano e ora tocca a voi. Dovrete conquistare il Mondo Centrale, uccidermi e prendere il po-tere, frammentare l'Impero in parti vitali e autonome. Soprattutto, dovrete estirpare radicalmente dallo spirito umano la fede che ha verso di me, l'Imperatore divino.»

Jubad notò che aveva trattenuto il fiato per un lungo periodo e fece un profondo re-spiro. La pressione sovrumana che lo schiacciava sembrò ridursi, l'oscurità che l'op-primeva svanì.

«Ma come potremo farlo?» chiese. «Te lo spiegherò immediatamente» disse l'Imperatore. «I vostri piani mi sono noti;

sono senza via d'uscita. Alla fine di questo colloquio, verrai ricondotto alla cella. Po-trai fuggire. I miei servizi segreti hanno adottato le misure necessarie in questo senso;

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ti sembrerà assolutamente credibile. Non lasciarti fuorviare, sarà preparato nei mini-mi dettagli. Tutto è sistemato perché, al momento della fuga, tu possa entrare in pos-sesso di documenti segreti che mostrano una lacuna nel dispositivo di sicurezza del Mondo Centrale. Anche questi piani sono falsificati; se prenderete d'attacco questi supposti punti deboli, cadrete in una trappola da cui non uscirete vivi. Invece non fa-rete altro che simulare un attacco, ma il vostro vero obiettivo sarà la base di Tauta. Tauta, ricordati questo nome. Tauta è una delle mie basi di copertura. Sul posto, esi-ste un tunnel dimensionale segreto che riemerge direttamente qui, nel palazzo. Utiliz-zandolo, sfuggirete al dispositivo di difesa planetaria e potrete occupare il palazzo dall'interno.»

A Jubad mancò il respiro. Mai nessuno aveva immaginato l'esistenza di tale acces-so.

«Veniamo alla mia morte» riprese stoicamente l'Imperatore. «Tu mi toglierai la vi-ta. Quando lancerete il vostro attacco, sarò ad attenderti, in questa stanza. Mi uccide-rai con un colpo nel petto. Dovrai prepararti! Hai già avuto occasione di renderti con-to che non è facile aggredirmi. Quando ci incontreremo la prossima volta, dovrai es-serne capace!»

Jubad assentì alla richiesta, facendo un cenno colmo di sconcerto. «Sì.» «Sono importanti due cose» proseguì il sovrano. «Innanzitutto, dovrete mostrare il

mio cadavere attraverso tutti i canali mediatici, per provare che sono davvero morto. Presentatemi in una posizione degradante. Per esempio, appeso per i piedi. Non pren-detevi alcun riguardo, ciò avrebbe effetti perniciosi. Non dimenticare che dovrete cancellare la fede nell'Imperatore. Occorrerà mostrare che sono solo un semplice mortale, nonostante la mia lunghissima esistenza. E dovrete provare che si tratta del mio cadavere. Per tale motivo non mi taglierai la testa. Non credere che sia una mis-sione facile. Nulla è più difficile che estirpare una religione, anche se riposa su basi tanto false.»

Jubad assentì. «Il secondo punto ci riguarda entrambi, tu e io» fece ancora l'uomo senza età fis-

sando il ribelle per valutarne le reazioni. «È importante che conservi questo colloquio come un segreto e che lo porti con te nella tomba.»

«Perché?» «Gli esseri umani devono credere di riconquistare la loro libertà; occorre che pos-

sano essere fieri della loro vittoria. Quest'orgoglio li aiuterà a superare i tempi diffici-li che li attendono. Non devono apprendere che non è la loro vittoria. Mai. Non de-vono apprendere che avevano già perso ogni forma di libertà e che è stato necessario il mio intervento per restituirla. Devi tenere il silenzio, per amore delle prossime ge-nerazioni e per il futuro dell'umanità.»

Jubad, il ribelle, immerse gli occhi in quelli dell'Imperatore e vi osservò una stan-chezza infinita. Acconsentì, e fu come una promessa solenne.

Sei mesi più tardi, quando i ribelli conquistarono il palazzo, Jubad si allontanò dal-la squadra di combattimento senza farsi notare. Avevano sorpreso le guardie di sor-veglianza. Si sparava ovunque, ma non aveva alcun dubbio sulla riuscita della batta-

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glia. Jubad raggiunse senza ostacoli le zone periferiche dell'immenso palazzo ed entrò finalmente nella stanza in cui l'Imperatore lo attendeva.

Stava nel posto preciso dove Jubad lo aveva visto nell'ultima visita. Questa volta, portava l'uniforme ufficiale da parata e le spalle erano cinte dal manto imperiale.

«Jubad» disse semplicemente quando il ribelle entrò. «Sei pronto, questa volta?» «Sì» rispose Jubad. «Allora, poniamo fine alla situazione.» Jubad afferrò la sua pistola a raggi e rimase titubante, come sospeso nel vuoto. Os-

servò l'Imperatore che lo fronteggiava con lo sguardo. «Ti rammarica quello che hai fatto?» chiese il ribelle. L'Imperatore sollevò la testa. «No» disse. Aveva l'aria sorpresa per la domanda. Jubad tacque. «No» ripeté infine l'Imperatore. «No. Sono nato in questo mondo senza sapere nul-

la della vita. Solo il potere era promettente e ho seguito questa via, abbastanza a lun-go per capire che era falsa e che portava a nulla. Ma ho provato. Anche se non ab-biamo ottenuto alcuna risposta alle nostre interrogazioni, resta l'inalienabile diritto di ogni essere vivente a cercare una risposta. Utilizzando tutti i mezzi, tutte le vie e tutte le forze. Ciò che ho fatto era un mio diritto.»

Jubad fu colpito dalla durezza delle parole. L'inflessibilità dell'Imperatore si eserci-tava contro tutti, perfino contro se stesso. Alla fine della vita conservava ancora il pugno di ferro che aveva esercitato nel corso di centomila anni. Nella morte e oltre, continuava a stabilire la forma del destino dell'umanità.

Ha ragione, riconobbe Jubad nel disordine che gli aveva invaso la mente. Non può liberarsi dal potere che ha conquistato.

Sentì l'impugnatura dell'arma pesargli nella mano. «Forse, un tribunale giudicherebbe diversamente.» «Devi uccidermi. Se resto in vita, fallirete.» «Forse.» Jubad si era preparato ad affrontare la rabbia dell'Imperatore, ma, con costernazio-

ne, vide nei suoi occhi solo disgusto e stanchezza. «Voialtri mortali siete fortunati» disse lentamente il sovrano. «Non vivete abba-

stanza a lungo per capire che l'esistente è vanità e la vita non ha senso. Perché credi che abbia fatto tutto questo, perché mi sono preso un tale faticoso impegno? Avrei potuto portare via con me, nella morte, l'umanità intera, se avessi voluto. Ma non lo voglio. Non voglio nulla, non voglio avere più nulla a che fare con l'esistenza.»

Dall'esterno giungevano delle grida e dei rumori di spari. I combattimenti si avvi-cinavano.

«Spara, ora!» gli ordinò l'Imperatore in modo pungente. E Jubad, senza pensare, come per riflesso, alzò l'arma e colpì l'Imperatore nel pet-

to. Più tardi, festeggiarono il liberatore, il vincitore del tiranno. Sorrise di fronte alle

macchine fotografiche, assunse pose trionfali e pronunciò discorsi che vennero accol-ti con il giubilo della folla, ma era cosciente di recitare il ruolo del vincitore. Dentro di sé, sapeva di non esserlo.

Fino agli ultimi giorni della sua vita si chiese se anche quest'ultimo istante facesse

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parte del piano dell'Imperatore. Da sola, la saggezza non resiste al tempo; si trasforma e scompare. La vergogna, in

compenso, è come una ferita che non si espone alla vista e che, pertanto, non si ri-margina mai. Avrebbe tenuto alla promessa e conservato il silenzio. Non per saggez-za, ma per vergogna. Avrebbe conservato il silenzio a causa di quell'istante, l'istante in cui aveva obbedito all'Imperatore…

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Ti vedrò ancora

L'attacco era arrivato senza preavviso. Le astronavi straniere erano emerse dal nul-la e si erano avvicinate alla stazione spaziale senza fornire nessun segno di ricono-scimento e senza reagire agli avvertimenti a loro inviati. E quando i robot aerei da combattimento che costituivano la prima linea di difesa della stazione aprirono il fuo-co, la riposta degli estranei fu massiccia.

Erano riusciti a farli fuggire e avevano addirittura seriamente danneggiato una del-le loro astronavi. Ma era prevedibile che sarebbero ritornati. Il più rapidamente pos-sibile, occorreva riparare i danni prodotti dall'attacco, per poter essere già in guardia la prossima volta ed essere perfettamente pronti all'intervento.

Ludkamon era stato assegnato ai lavori di riparazione nel settore 39-201 della base, assieme ai comuni magazzinieri. E fin dall'inizio odiò la missione.

Il settore 39-201 era un insieme di costruzioni piatte, una sorta di capannone, un deposito interamente automatizzato. Un colpo l'aveva messo fuori servizio. I danni al rivestimento esterno erano stati riparati e il settore venne alimentato d'aria, ma nono-stante questo non era ancora in funzione.

«Ascoltatemi tutti» tuonò il capo della truppa con la voce abituata al comando. «Si formeranno delle coppie e marcherete tutte le parti dell'impianto che non funzionano normalmente. In seguito, nella zona verrà ridotta la gravità e, mano a mano, si scari-cheranno i container che non sono accessibili. Velocemente, se non è troppo chieder-velo; la nave per il tunnel sta attendendo.»

La paratia si aprì e diede via libera all'immenso, oscuro capannone pieno di scaffali e di nastri per il trasporto mobile. Alcuni erano contorti o fusi. Incombeva il gelo e l'odore di polvere.

Non poterono formare i gruppi e Ludkamon si mise in azione da solo. Lo preferiva. Non poteva sopportare i magazzinieri, almeno da quando conobbe Iva…

Non voleva pensarci. Forse, era meglio che avesse una missione sulla quale con-centrarsi. Tirò fuori l'evidenziatore e si dedicò coscienziosamente all'esame del tra-sportatore mobile: batteva i cilindri con la mano, ascoltava il rumore che facevano mentre giravano e si fermavano di nuovo. Quando i cilindri non giravano o il rullio era sospetto, tracciava un segno sul lato.

Fu allora che scoprì il container rovesciato. C'erano molti container divelti nel capannone. Quest'ultimo, tuttavia, era caduto da

un nastro trasportatore nel corso del bombardamento, e il fianco di uno scaffale den-tellato gli si era abbattuto sopra e ne aveva tagliato il coperchio, quasi come un apri-scatole.

Ludkamon trattenne il respiro. Un container aperto! Tutta la vita si era chiesto quello che i container potevano conservare, ogni giorno

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ne arrivavano a migliaia, per essere trasbordati sulle navi del tunnel. Era vietato sa-perlo. I container misuravano circa come lui, in lunghezza e in larghezza, e l'altezza non superava le sue anche. Erano sempre chiusi e sigillati. Giravano le voci più fanta-siose sul loro contenuto.

Ludkamon si guardò attorno, in tutte le direzioni. Nessuno lo osservava. Un solo passo e avrebbe saputo. Un passo e si sarebbe attirato le ire dell'Imperatore.

Perché no? Ancora un passo e Ludkamon si chinò sopra il foro aperto nel coper-chio del container.

Un odore rancido e sgradevole lo colpì come una frustata in pieno viso. La mano palpò qualcosa di molle e peloso. Ciò che afferrò e tirò fuori dallo squarcio somiglia-va a una spessa coperta o a un sottile tappeto. Le sue dimensioni corrispondevano e-sattamente al container. Quest'ultimo ne era pieno.

Tappeti? È curioso. Ludkamon infilò di nuovo la cosa morbida nel container, me-glio che poté.

«Non avevi per caso l'intenzione di guardare là dentro?» Una voce minacciosa lo fece sussultare. Ludkamon si mise sull'attenti. «Per nulla» balbettò. Il capo della squadra gli stava di fronte e lo squadrava dalla testa ai piedi con aria

sospettosa. «Invece, ci scommetterei. Ludkamon, un giorno la tua curiosità ti costerà la testa!»

Il medico si chinò sulla ferita aperta con il viso impassibile, appena leggermente indignato, e un suo gesto tradì che la sua presenza era solo pesante routine. L'osso del cranio era esploso; la ferita aveva la grandezza di due mani sovrapposte e, sotto, fuo-riusciva la massa del cervello, grigia e senza vita. Avvicinò la lampada che gli pen-deva sopra la testa; la luce assorbì le ombre e illuminò la frattura.

«Allora?» chiese l'altro uomo. La sua voce risuonò nella grande sala clinicamente sterile. «Non funziona più.»

Sospirando, il medico prese una sonda dal supporto e la mise a contatto del cervel-lo, senza prendere particolari precauzioni. Osservò gli strumenti per un istante. Non si mosse nulla.

«Nessun dubbio, è morto» disse infine. L'altro, sbuffò con rabbia «Che disastro! Proprio adesso!» «Pensate che gli assalitori ritorneranno?» «Forti del loro primo tentativo e con più armi. Sì. Non serve a nulla; abbiamo biso-

gno di ricambi nel Settore Superiore, il più presto possibile, prima che attacchino una seconda volta il portale di sbarramento della stazione spaziale.»

Il medico convenne, impassibile. «Sono pronto.» Staccò i tubi di alimentazione e spense gli apparecchi. Il ronzio leggero e sordo che fino a quel momento era quasi uno sfondo subliminale nella gelida sala, tacque.

«Ping!» Con un suono metallico, gli apparecchi di sorveglianza indicarono che un nuovo

punto luminoso era apparso sugli schermi. L'uomo seduto dinanzi alla consolle si fe-

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ce più attento. Vide subito il punto isolato che scintillava sullo schermo e la sua mano cercò nervosamente il pulsante d'allarme.

Trascorsero infiniti secondi prima che a fianco del punto apparisse l'identificazione appropriata ed esso cessasse di lampeggiare. K-70113. Un'astronave imperiale. L'uo-mo abbandonò il pulsante e collegò la radiotrasmittente.

«K-70113, parla il portale della stazione. Ora di bordo, 108. Siamo in stato di mas-simo allarme. Tenetevi pronti a essere scortati da robot da combattimento. Avete la zona di volo sud-occidentale. A partire dalle 115, riceverete un raggio d'orientamento luminoso; la banchina per l'atterraggio è la numero 2.»

La voce dell'altoparlante era calma e impersonale, come sempre. «Portale di sbar-ramento, abbiamo capito. Zona di volo sud-occidentale, attracco alla banchina nume-ro 2, raggio d'orientamento a partire dalle 115. Chiudo.»

«Chiudo» confermò l'uomo. Non avevano chiesto dettagli. Probabilmente, ignora-vano ancora l'attacco delle astronavi straniere. Lo avrebbero appreso molto presto.

Dal posto della cabina di vetro, Ludkamon dominava tutta la banchina d'atterrag-gio, gli immensi portali di sbarramento, le passerelle, le scale e le montagne di con-tainer vuoti, alte come case. Siamo al servizio dell'Imperatore. Fece scivolare le perle della collana di supervisore tra le dita, in modo da tranquillizzarsi. La sua parola è la nostra legge. Per frenare il corso dei pensieri, non cessava di recitare le frasi votive pronunciate dai custodi della barriera. La sua volontà è la nostra volontà. La sua rabbia è terribile. Dall'attacco degli stranieri, tutto girava al minimo. Le riparazioni erano quasi terminate e ci furono lunghi periodi d'attesa in cui non sapeva come pas-sare il tempo. Non perdona, ma punisce. E la sua vendetta è eterna.

Ancora una volta, una domanda gli attraversò la mente: per quale ragione la perla che si toccava pronunciando l'ultima frase del giuramento era rivestita di pelliccia? Non poté impedirsi di pensare all'insolito tessuto trovato nel container. Dopo vide I-va, la sua Iva, che flirtava con Feuk, un tipo borioso e sgradevole. La gelosia fatico-samente repressa si rimise a bruciare.

Ludkamon osservò il suo riflesso su uno dei monitor spenti. Vide un esile ragazzo dall'aria sinistra, piuttosto maldestra, che per il resto offriva un aspetto mediocre. A malincuore, doveva riconoscere che non riusciva bene a spiegarsi come mai una ra-gazza come Iva potesse interessarsi a lui. Feuk le piaceva e questo gli era da tempo saltato agli occhi. Il pensiero ebbe l'effetto di provocargli un bruciore allo stomaco, perché si sentiva brutto e piccolo. Feuk il magazziniere era grande, forte, sicuro nel portamento; un colosso dai riccioli d'oro e dai muscoli d'acciaio. Mentre era ancora sorprendentemente giovane, Ludkamon era riuscito a inserirsi nel gruppo di sorve-glianza dei carichi. Una posizione alla quale Feuk non avrebbe mai avuto accesso, vi-sta la sua cronica mancanza di capacità intellettuali. E Ludkamon si sentiva chiamato a esercitare responsabilità ancora più importanti. In verità, non aveva mai fatto l'espe-rienza di una donna che fosse impressionata dalle capacità intellettuali.

Un messaggio apparì sullo schermo dinanzi a lui, Ludkamon lo lesse malvolentieri e, con un gesto rabbioso, inserì l'altoparlante del capannone per diffondere l'annuncio.

«La sorveglianza comunica l'arrivo dell'astronave imperiale K-70113. Ora prevista dell'atterraggio: 116.»

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I gruppi di manutenzione si misero in movimento, i nastri trasportatori furono col-locati in posizione, i sistemi di calcolo azzerati, i carrelli trasportatori approntati. Sui portali di sbarramento si accese un segnale luminoso per segnalare che l'aria veniva pompata fuori dalla camera di decompressione. Le porte immense che dovevano resi-stere al vuoto scricchiolarono e lo stridore echeggiò nel capannone come un sinistro augurio. Ma gli uomini vi erano abituati.

Là! Feuk le aveva pizzicato le natiche e lei aveva riso. Faceva di testa sua. Ludka-mon non si sarebbe mai abituato alla spensierata gioia di vivere di cui faceva mostra. Pieno di rancore, stracciò la prima pagina del quaderno degli appunti e la gettò accar-tocciata in un angolo.

La notizia fu diffusa tramite tutti i media del portale di sbarramento, fino agli al-loggi. «La direzione della stazione comunica che il vincitore del prossimo campiona-to sarà promosso al Settore Superiore.»

Centinaia di uomini fiutarono il colpo fortunato. Per tutti, era l'occasione di acce-dere ai livelli di comando. Si dicevano delle cose meravigliose sul lusso di cui si usu-fruiva nel Settore Superiore. Mai nessuno di loro lo aveva visto di persona; il Settore Superiore era strettamente separato da quello principale e nessuno di coloro che erano chiamati nel cerchio decisionale era mai tornato ai livelli inferiori. Secondo ciò che si diceva, i membri del Settore Superiore beneficiavano addirittura di trattamenti desti-nati a prolungare loro la vita. In ogni caso, basta con i calli alle dita. Mai più contai-ner da caricare. Era una chance.

Lo abbracciò teneramente e a lungo e gli sembrò di sciogliersi in fumo rosa. Emise un sospiro, immergendo le dita nei suoi capelli e ne respirò il profumo, una fragranza celeste. Sussurrò con gli occhi chiusi: «Iva, ti amo.»

«Ti amo anch'io, Ludkamon.» Gli diede ancora un bacio sulla punta del naso e si mise a sedere.

Restò con gli occhi chiusi per sentire la permanenza di quelle dolci sensazioni. Quando si accorse che lei stava per vestirsi, si inalberò di colpo.

«Cosa fai? Dove vai?» Lei diede un'occhiata all'orologio. «Ho un appuntamento con Feuk.» «Con Feuk…?» L'aveva quasi gridato. «Ma… hai appena detto che mi ami!» «L'ho pensato.» Sorrideva con un sorriso che quasi chiedeva perdono. «Ma amo

anche Feuk, appunto.» Lo abbracciò un'ultima volta e se ne andò. Fuori di sé, Ludkamon la osservò allon-

tanarsi. Poi, strinse i pugni e colpì con tutte le forze il materasso, ancora e ancora e ancora.

L'astronave di trasferimento era sospesa alla parte inferiore del portale di sbarra-mento, come una grande escrescenza a forma di vescica. Comparata alle navi impe-riali che sciamavano attorno alla stazione come insetti attorno alla loro tana, era di dimensioni mostruose. Portati via da un flusso senza fine, i container scomparivano

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negli insaziabili magazzini, sotto la sorveglianza di uomini e di donne in uniforme nera che si chiamavano rispettosamente 'guide del tunnel'.

Le astronavi imperiali arrivavano tutti i giorni. Attraccavano a una delle ventiquat-tro banchine, scaricavano i container e, una volta vuote, ripartivano. Nei giorni di punta, se ne trasbordavano cinquantamila, talvolta anche ottantamila. Normalmente, i container caricati erano diecimila. Ogni giorno, venivano trasferiti dalle banchine agli scomparti delle navi rullando sugli interminabili nastri trasportatori e le vie mobili del settore di carico.

La luce rossa del vicino sole splendeva sinistramente sul rivestimento opaco della gigantesca stazione, colpita dalle correnti di particelle e dai micrometeoriti. Quasi nessuno osservava lo spazio siderale. Esistevano pochissimi oblò, poiché non c'era molto da vedere. Un grande sole rosso e, dopo, quella insolita macchia scura nello spazio ai cui bordi la luce delle stelle lontane veniva deformata: il tunnel.

Nei depositi, Ludkamon cercò di spiegarsi, sperando che lei non notasse quanto tremava.

«Iva, non posso continuare così. Passi da me a Feuk e da Feuk di nuovo a me. Non ne posso più di questo va e vieni.»

Pronunciando le ultime parole, dovette trattenersi per evitare che la sua voce si rompesse in un singhiozzo disperato.

«E allora?» chiese lei con aria provocatoria. «Cosa farai? Vuoi lasciarmi?» Al semplice pensiero, a questa semplice parola, sentì tutto il suo essere irrigidirsi.

Strinse i pugni. «Dovresti deciderti per uno di noi due!» insisté. Lei assunse un'aria cocciuta: «Non devo fare proprio nulla.» «Iva, ti amo!» «Detto da te, sembra voler dire: ti voglio possedere!» Ludkamon non seppe replicare. Aveva ragione, cosa che lo rese ancora più furioso. «Vedrai!» gridò voltandosi. Mentre se ne andava, sperava che lo avrebbe chiamato,

ma lei non lo fece.

L'astronave successiva a fare scalo nella banchina numero 2 fu la K-5404. Strana-mente, non trasportava solo un carico, ma anche squadre di riserva, vettovaglie e parti di ricambio. C'era un bisogno urgente delle vettovaglie e delle parti di ricambio; solo le squadre di riserva posero un problema. La K-22822 che doveva evacuare le squa-dre sostituite non era ancora arrivata; quindi, bisognava pressurizzare e riscaldare de-gli alloggi provvisori, stretti e poco comodi, nel settore delle macchine. In cambio, i posti di combattimento poterono temporaneamente raddoppiare gli uomini.

«Feuk!» Ludkamon aveva urlato attraverso tutta la mensa, le porcherie che gli disse furono

udite dalle centinaia di persone tutt' intorno. «Feuk, ti sfido!» Il magazziniere si girò lentamente. Lo sguardo gli scivolò sulla

folla, alla ricerca di quello che ne aveva gridato il nome. Sotto gli abiti, si vedevano prendere forma ampie spalle e muscoli tesi come cavi d'acciaio.

«Ah, sì?» bofonchiò con l'aria divertita, quando vide il supervisore del carico.

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Quella mezza sega si precipitava verso di lui. «Feuk, voglio battermi con te!» Ludkamon si teneva ansimante di fronte al rivale. «Con piacere» ghignò quest'ultimo. «Usciamo o preferisci che t'inchiodo subito al

muro?» Ludkamon scosse la testa. «Ti sfido a partecipare con me al campionato! Quello di

noi due che andrà più lontano, si prenderà Iva e l'altro si ritirerà.» Improvvisamente, nella mensa vibrò il teso silenzio dell'attenzione. Feuk rifletté. «Non ho ancora partecipato ad alcun campionato» disse con aria so-

spettosa. «Neppure io. Dunque, è una proposta leale.» Qualcuno emise un mormorio d'approvazione. Feuk fissò lo sfidante con l'aria di disprezzarlo. «Bene» disse infine. «In ogni modo, se vuoi il mio parere, non supererai neppure le

qualificazioni. Allora, d'accordo.» Ludkamon tese la mano. «D'accordo? Parola d'onore?» «Va bene. Parola d'onore» rispose Feuk sogghignando. Era d'accordo, colpì e strin-

se la mano di Ludkamon così forte che quest'ultimo si gettò quasi a terra, in ginoc-chio.

Tutti quelli affollatisi attorno si misero ad applaudire.

La grande sala delle riunioni pubbliche venne preparata in previsione del campio-nato che si stava per disputare. Era situata esattamente nel cuore della stazione. Le installazioni tecniche furono realizzate rapidamente, come al solito. I problemi orga-nizzativi posero più difficoltà. La stazione era sempre in stato di massimo allarme; quindi, i gruppi di difesa sarebbero dovuti restare al completo, anche durante il torne-o. D'altra parte, dato che il vincitore sarebbe stato ricompensato con l'ammissione al Settore Superiore, il numero dei partecipanti non era limitato. Chiunque si fosse qua-lificato avrebbe avuto il diritto di combattere.

«Ludkamon, sei diventato folle?» «No. Cerco solo di non diventarlo.» Era fuori di sé. Durante l'orario di servizio, violando il regolamento, lo aveva rag-

giunto nella cabina di sorveglianza. Tutta la squadra di carico ammirava lo spettaco-lo, dal basso verso l'alto. Iva, con il viso arrossato dalla rabbia, lo fronteggiava facen-dogli una scenata. Attraverso le pareti di vetro non si poteva intendere nulla, e ciò rendeva il diverbio ancora più interessante.

«Quando me l'hanno detto, ho creduto di aver sentito male. Combattere per me. Avete l'intenzione di battagliare per me. Grazie, è molto lusinghiero. Non avete pen-sato di chiedere il mio parere,' eh?»

«Te l'avevo chiesto, Iva.» «Quando, di grazia?» «Ti avevo chiesto di deciderti per uno di noi due.» «Ma non voglio decidere!» «È questa la ragione per cui la cosa verrà regolata tra di noi.» «La cosa. Ah, vedo! Dunque, per voi, sono una cosa, un trofeo. Il primo premio

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che si espone su uno scaffale. O piuttosto, che si porta nel proprio letto, come nel no-stro caso.»

«Vogliamo che le nostre relazioni diventino chiare.» «Perché non vi siete picchiati direttamente?» «Iva, Feuk è magazziniere. È un vero armadio pieno di muscoli. Non sarebbe stato

leale.» «Ludkamon, per avere successo nel campionato dovresti averne la vocazione. Il

fatto che tu sia un supervisore e Feuk un semplice magazziniere non garantisce nulla. Non avrai molte possibilità.»

«Precisamente. È leale.» Lei l'osservò sconcertata. «Se perdi, chiuderai la relazione con me?» «Sì.» «Mascalzone!» «Ma vincerò.» La ragazza si lasciò sfuggire un grido inarticolato. «Perché non avete giocato lanciando i dadi! Quello, sarebbe stato leale!» lo fulmi-

nò con le parole. Poi, aprì violentemente la porta e gridò attraverso tutto il capanno-ne: «Ah, gli uomini!!»

L'incaricato delle qualificazioni fissò attentamente il giovane candidato, partico-larmente nervoso, seduto sulla sedia di fronte a lui. «Come ti chiami?» chiese tirando fuori una matita.

«Ludkamon.» «Posizione?» «Supervisore della banchina d'imbarco numero 2.» L'uomo consultò un elenco. Supervisore del carico non era un posto importante nel

dispositivo di difesa. Dunque, non era necessario prevedere sostituti. Accantonò il modulo e tese al candidato il casco di combattimento.

«Hai già partecipato a un campionato?» «No.» «Oh, divino Imperatore! Ancora uno di questi avventurieri che sognano di sfuggire

al loro quotidiano e misero servizio. Ancora uno di questi che si giudicano degni di essere promossi al settore più segreto, nell'ambiente più elevato che si possa immagi-nare.

«Bene, ti spiegherò la cosa» cominciò il reclutatore pazientemente. Dovrai mettere questo casco, facendo attenzione affinché i sensori sul lato aderiscano bene alla fron-te. In questo modo. Ora, abbassa la visiera. Cosa vedi?

«Una sfera gialla.» «Bene. Mettila in movimento.» «In movimento?» chiese il ragazzo, stupito. «Come?» «Proprio con il pensiero» spiegò l'uomo. «Con la forza dell'immaginazione. Nel

campionato, si combatte solo con i pensieri. Il casco capta gli impulsi e li trasforma in movimenti. In questa dimostrazione, sei l'unico che vede la sfera; nel corso del cam-pionato, la vedranno anche gli spettatori. E, certamente, non si tratterà di una sola sfe-ra. Nel secondo round, ce ne saranno tre, quindi cinque e così via. Tu e l'avversario

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ne disputerete il controllo e più sfere riuscirete a controllare, più andrete lontano.» «L'essenziale è che vada più lontano di…» fece il ragazzo prima di interrompersi. L'uomo tese l'orecchio. «Di chi?» «Nulla. Cosa devo fare?» Dopo tutto, i problemi della mezza sega gli erano del tutto indifferenti. «Metti la

sfera in movimento. All'interno di un cerchio, possibilmente.» L'uomo controllava su uno schermo ciò che visualizzava la visiera del casco. La

sfera si mise in movimento, un movimento inizialmente titubante, poi più sicura, se-guendo quasi un percorso circolare.

«Grazie» disse l'uomo tracciando una croce sul modulo. «Sei qualificato.»

Il campionato era di solito una manifestazione relativamente poco considerata. In-vece, questa volta fu inaugurato in pompa magna. Di fatto, tutti coloro che lo stato d'allarme non bloccava ai loro posti si erano raccolti nelle file della sala. Nell'alto spazio, risuonavano degli arabeschi musicali, gli effetti colorati danzavano rallegran-do l'ambiente.

Apparve il portavoce del livello dirigente. La musica s'interruppe, i festosi colori si estinsero, il silenzio afferrò il pubblico.

«Ho l'onore di aprire solennemente il campionato. Pronuncerò i voti, i voti dei cu-stodi del portale di sbarramento. Vi prego di ripeterli con me.»

Quando tutti si alzarono dalle loro sedie, echeggiò un sordo boato. «Siamo al servizio dell'Imperatore» iniziò. Siamo al servizio dell'Imperatore, ripeterono in coro centinaia di voci. «La sua parola è la nostra legge. La sua volontà è la nostra volontà.» La sua parola è la nostra legge. La sua volontà è la nostra volontà. «La sua rabbia è terribile. Non perdona, ma punisce.» La sua rabbia è terribile. Non perdona, ma punisce. «E la sua vendetta è eterna.» E la sua vendetta è eterna. Accompagnato da un colpo di fanfara, il portavoce esclamò: «Il campionato è aperto!»

Ludkamon si recava sul campo di gioco a fianco degli altri, con il casco stretto e infilato in testa, mentre cercava tra le file del pubblico, sperando di scoprire Iva. In-vano. C'erano troppi visi. Forse, non era affatto venuta.

Bisognava che si concentrasse sul combattimento. Era l'unica possibilità di supera-re Feuk.

Il primo avversario fu facile da battere. Quando il segnale scattò, apparve tra loro una sfera gialla e sopra la testa di ogni giocatore si accese un rettangolo azzurrognolo. Quello che riusciva a prendere la sfera sotto il suo controllo e a farla andare nel ret-tangolo che era sospeso sulla testa dell'avversario aveva vinto. Ludkamon vinse in pochi secondi.

Dopo, si guardò attorno. Feuk era molto lontano, ma sembrava che avesse vinto. Si passò al round seguente.

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Questa volta c'erano tre sfere, ma Ludkamon riuscì a controllarle e le inviò nella meta. Fu una nuova vittoria.

Cercò Feuk. Aveva finito il suo avversario e anche lui lo osservava. Lo inquietò. Ludkamon asciugò il sudore che gli imperlava le sopracciglia. Non

fece attenzione alle grida degli spettatori, pensava solo ai rivali. Aveva segretamente puntato sulla superiorità della sua mente rispetto a quella di Feuk, ma sembrava che Iva avesse ragione: qui, valevano altri criteri di giudizio. Poco a poco, intuì che il combattimento sarebbe diventato difficile.

«Stazione di sbarramento, chiama K-6937, astronave imperiale. Chiediamo istru-zioni.»

«K-6937, risponde la stazione di controllo. Per il momento, non è possibile nessu-no scarico. Entrate in posizione d'attesa.»

«Stazione di controllo: perché ce lo chiedete?»

«Attualmente, si sta svolgendo il campionato.» Su un altro canale, ci fu ancora un messaggio. «K12002, astronave imperiale, chiama stazione di sbarramento…»

«K-12002, chiama stazione di controllo…» Il numero dei punti luminosi attorno alla stazione stava aumentando. Nelle banchine di scarico, il lavoro era fermo. Solo il carico dell'astronave di trasferimento continuava nonostante il torneo.

Undici sfere. Il sudore bruciava gli occhi di Ludkamon e il casco sembrava volergli schiacciare la testa. Undici sfere ed erano ancora entrambi in partita. Oltre il terreno violentemente illuminato in cui si affrontavano gli altri candidati, lanciò a Feuk uno sguardo furibondo. Non avrebbe ceduto. Sentiva la passione bruciare in lui come uria fiamma che lo divorava.

Undici sfere. In questa fase, avevano già lasciato alle loro spalle un buon numero di giocatori noti al pubblico. Una cosa era certa: sarebbero finiti molto in alto nella classifica finale.

Il pensiero che un principiante aveva battuto campioni tanto famosi, come Pal il tecnico o Buk il soldato, lo sfiduciò per un istante e l'immagine delle undici sfere vor-ticanti nello spazio divenne più confusa.

Non era il momento di deconcentrarsi. Strinse i pugni e allargò le gambe per trova-re l'equilibrio a destra e sinistra, senza perdere le sfere di vista. L'avversario era forte e astuto. Da quando si giocava con più di sette sfere, i combattimenti erano lunghi e difficili.

Poco prima di scomparire sul nastro trasportatore all'interno dell'astronave di tra-sferimento, l'ultimo container, agganciato male dal meccanismo di calcolo, si inca-strò. Poiché la cifra memorizzata non era ancora stata raggiunta, il nastro proseguì la sua corsa a vuoto e i cilindri rotatori raschiarono la parte inferiore della cassa produ-cendo un rumore stridente.

Lo stridio mise in allarme un membro dell'equipaggio dell'astronave. Il pilota del tunnel si avvicinò e tentò di liberare il container, ma la pressione dei cilindri era così

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forte che non poté sbloccarlo da solo. Andò a cercare aiuto presso un componente della squadra.

«Simili grane accadono sempre alla fine del carico» disse quest'ultimo. «Sì. Come va la partita?» «Si direbbe che si avranno due outsider in finale. Peccato che siamo già stati elimi-

nati.» Il solo piano di volo al quale erano sottoposti i piloti si estendeva alle pulsazioni

del tunnel che venivano chiamate anche 'maree'. In due riuscirono a riportare il container sul nastro trasportatore. Rotolò scuotendo-

si, si fermò al posto previsto, quindi tutto l'impianto si fermò di colpo con una vibra-zione, mentre alcuni cilindri ancora in movimento continuavano a ronzare leggermen-te.

La gente in sala era scatenata. Uomini e donne, in piedi sulle sedie, agitavano le braccia gridando. Nel tumulto, l'arbitro della partita, sull'alto scranno, faticò non poco per farsi capire quando annunciò i risultati intermedi.

«Round finale! Si affronteranno… Ludkamon e Feuk!» Un colpo di scena. Due principianti erano riusciti a imporsi in un grande campio-

nato, avevano eliminato i nomi prominenti, erano arrivati in finale. Un finale che con diciannove sfere in gioco, raggiungeva un grado di difficoltà visto raramente.

Ora, ti batterò, pensò Ludkamon, deciso. Una volta per tutte, mi sbarazzerò di te. Con gli occhi mezzi chiusi, osservò Feuk farsi massaggiare frettolosamente la schiena da un assistente. Il rivale si spruzzò dell'acqua sul viso. Il petto nudo splendeva di su-dore.

Improvvisamente, Ludkamon scoprì Iva tra il pubblico. Mentre tutti attorno urla-vano e cantavano, stava in piedi, livida, gli occhi sgranati, le mani dinanzi alla bocca. Quando la vide, bruscamente gli venne alla memoria una constatazione bruciante. Il vincitore del torneo sarà promosso al Settore Superiore!

E uno di loro sarebbe stato il vincitore, dopo il combattimento! Un perfido sorriso prese forma sul viso di Ludkamon. Era un'idea geniale. Sarebbe

stata una trappola brillante. Ludkamon avrebbe perso intenzionalmente la finale! Co-sì, Feuk si sarebbe aggiudicato il campionato per essere promosso al Settore Superio-re e Ludkamon avrebbe avuto Iva solo per lui.

Era geniale. L'occasione ideale per sbarazzarsi dell'ingombrante controparte. E il bello era che non poteva andare di traverso.

«Valvole chiuse. Tenuta perfetta.» «Condutture di alimentazione scollegate, alimentazione di bordo in funzione.» L'uomo in uniforme nera si chinò in avanti e attivò una serie di pulsanti. «Astrona-

ve di trasferimento a controllo. Siamo pronti per staccarci.» «Qui controllo, mancherete la finale.» «Sì. Ma i nostri cuori battono ora al ritmo delle maree del tunnel…» Un modo di

dire dei piloti del tunnel… «Certamente. Pronti per staccarvi in dieci… cinque… tre… due… Distacco! Buon

volo!»

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L'uomo in uniforme nera sorrise. «Grazie, stazione di sbarramento!» Delicatamen-te, senza la minima scossa, l'astronave di trasferimento si staccò dall'imponente sta-zione e si allontanò lentamente scivolando in direzione dell'inquietante macchia nera nel mare di stelle.

Ludkamon aveva usato tutti i mezzi concepibili per schernire ed eccitare Feuk, spe-rando così di pungolarne l'ardore al combattimento. Ora, mentre si preparavano a di-sputare la finale, tirò fuori un'ultima volta la lingua in una smorfia provocatoria. Il pubblico l'accolse con urla frenetiche e ciò fece, ovviamente, diventare Feuk folle di collera. Molto bene. Occorreva che la rabbia lo rendesse cieco e che combattesse con veemenza. Occorreva che lo odiasse, doveva dimenticare tutto, eccetto il desiderio di superarlo. Proprio lui. Ludkamon.

E avrebbe fatto di tutto per esaudire questo desiderio. Ludkamon ghignò, sicuro della vittoria.

Il gong risuonò e sul terreno apparirono le proiezioni tridimensionali di diciannove sfere.

Per un istante, un altro pensiero s'impadronì di Ludkamon: vincendo il combatti-mento, avrebbe scoperto ciò che avveniva nel Settore Superiore. Forse, era vero ciò che si diceva sul lusso inimmaginabile, sulla vita prolungata… Forse, ciò per cui sta-va combattendo era una stupida meta? Il Settore Superiore era una possibilità che non si sarebbe più presentata. Gettarla per una donna volubile… Con timore improvviso, Ludkamon vide le diciannove sfere mettersi bruscamente in movimento. Colpirono il campo situato sulla testa di Feuk e scomparirono prima che Ludkamon avesse avuto il tempo di agire. La tensione che paralizzava la folla esplose in assordanti grida di giubilo. Le fanfare echeggiarono. L'arbitro della partita tentò invano di farsi sentire dagli altoparlanti. Fu solo quando i primi spettatori saltarono sulle barriere e si preci-pitarono verso di lui che Ludkamon comprese: in un modo o nell'altro, aveva vinto il campionato.

«Ma… Non ho fatto assolutamente nulla!» mormorò. Feuk! Feuk, quello scellerato! Gli divenne tutto chiaro. Feuk aveva avuto la sua

stessa idea, ma non aveva esitato a causare, di primo acchito, la propria sconfitta! Impotente, Ludkamon dovette osservare il rivale che gli faceva una smorfia chi-

nandosi dinanzi a lui. Ludkamon strinse gli occhi. Ora rimaneva solo da sperare che il Settore Superiore sarebbe stato un valido risarcimento. Almeno, in futuro, non avreb-be più rischiato di farsi i calli alle dita.

Quando le fu davanti, Iva lacrimava. «Sei contento, ora?» singhiozzò. «Iva» bisbigliò confuso. «Nessuno lo poteva prevedere…» Lo prese tra le braccia e lo strinse con la disperazione dell'addio. «Hai vinto e allo

stesso tempo hai perso, tu… Idiota!» «Non è per sempre, Iva» disse ormai rassegnato. «Mi avrai presto dimenticata. Raggiungerai il Settore Superiore e non penserai più

a me.» Egli scosse la testa e si sentì il cuore in gola. «Non ti dimenticherò. Ti rivedrò. Ti

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rivedrò, te lo prometto.»

Onnipotenti tenebre, pulsanti e tremolanti, un maelstrom inquietante composto da una impenetrabile oscurità che sembrava inghiottire le stelle. L'astronave di trasferi-mento avanzò verso il gigantesco gorgo, come un granello di polvere nell'infinito.

«Ed eccoci ancora diretti verso il mondo dell'oscurità!» disse uno degli uomini nel-l'abitacolo di pilotaggio.

Si erano già immersi almeno mille volte nel buco nero, ma i piloti non potevano impedirsi di trattenere il respiro.

Le tenebre sembrarono gonfiarsi. Si aveva l'impressione di oscillare sul bordo della cateratta di un fiume. L'astronave di trasferimento scomparve dall'universo.

* * *

Gli allacciamenti erano pronti. La struttura prevista per ricevere il nuovo membro del Settore Superiore era aperta. Le soluzioni nutritive affluivano regolarmente in un intreccio di condotti trasparenti. Il medico controllava gli strumenti, non indicavano nulla di anormale. Era routine. I condotti argentati e flessibili si immergevano nella bocca mezzo aperta del paziente; cavi di colore grigio chiaro erano collegati alle nari-ci e alle incisioni che gli avevano fatto nella zona occipitale rasata per l'occasione. Gli occhi e le orecchie erano già state rimosse e sostituite da un modulo elettrico. Lo sguardo del medico scivolò passando sul corpo sottile e nervoso del ragazzo. Si tro-vava dinanzi a lui, sulla tavola, e un rammarico fugace lo invase. Scacciò questi pen-sieri, collegò la sega e iniziò a separare la testa dal tronco.

«Iva, bisogna che lo dimentichi.» Feuk teneva le mani di Iva tra le sue gambe e-normi e la osservava rassegnato. Gli occhi della ragazza erano rivolti verso un punto lontano. «Ora è nel Settore Superiore, fa parte della classe dei dirigenti. Non credi che potrebbe chiamarti in qualunque momento, se lo volesse?»

Iva scosse lentamente la testa. «Non posso credere che mi abbia dimenticato, così rapidamente.»

Vedeva con mille occhi, aveva mille braccia. Nei pensieri, sentiva gli ordini che doveva effettuare e, con la sola forza della mente, controllava anche le squadriglie di robot teleguidati da combattimento che incrociavano lo spazio attorno al portale di sbarramento. Collegato al sistema informatico i cui circuiti e cavi percorrevano tutta la stazione spaziale, vedeva tutto e sarebbe vissuto nei secoli.

Ti vedo. Iva. Con mille occhi ti vedo. Non te l'avevo promesso?

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Il palazzo delle lacrime

È un pianeta solitario, il pianeta più isolato dell'universo e anche il più maledetto. Qui non c'è nessuna speranza. Il grigio del cielo pesa in modo permanente come una cappa di piombo. È avvolto da nuvole oppressive e la notte non si vedono mai le stel-le. Una volta, il pianeta aveva un nome, ma chi se ne rammenta oggi? Il resto dell'u-niverso ha dimenticato questo mondo, ne ha cancellato il nome e anche il destino de-gli abitanti.

Da qualche parte, sul pianeta, c'è una vasta e desolata pianura che si estende da un orizzonte all'altro e molto oltre. Nulla vi nasce, nulla vi sopravvive, nessun arbusto, nessun filo d'erba, nessuna pianta, nessun animale; tutto è solo roccia e grigia polve-re. Se qualcuno avesse il desiderio di attraversare la pianura a piedi, non incontrereb-be una collina, neppure una valle, per giorni e settimane; non troverebbe nulla da be-re, nulla da mangiare. Per unica distrazione avrebbe solo l'alba e il tramonto dell'opa-co disco solare. Fino al giorno in cui all'orizzonte non apparisse la sagoma di una grande architettura: il Palazzo delle Lacrime.

I merli in rovina s'innalzano verso il cielo, come se fossero la smorfia sdentata di un vecchio guerriero che rifiuta di rendere le armi finché è in vita. Dalla cima dei merli, i trombettieri vestiti di uniformi sontuose squillavano la sera le loro fanfare; ma fu tanto tempo fa…

Se si potesse far tornare indietro il tempo, la pianura non esisterebbe. Ovunque ora regna la roccia levigata, un tempo si ergevano le case, si dispiegavano le strade, si a-privano piazze sontuose. Allora in questo luogo c'era una città, la capitale di un Impe-ro potente. Ampie vie conducevano verso tutti i punti cardinali, più lontano di quanto lo sguardo potesse seguirle, e il mare era attraversato da ricche opere murarie. I viali e le piazze erano sempre trafficate, sia di giorno sia di notte. In ogni caso, non faceva mai realmente notte in questa città continuamente immersa in una risplendente luce dorata. Gli abitanti erano felici e prosperosi. Quando indirizzavano lo sguardo verso il cielo, potevano vedere le fusoliere argentate di imponenti astronavi interstellari tracciare solchi simili alle nuvole nel cielo azzurro, prima di atterrare nell'astroporto mercantile o lasciare l'atmosfera del pianeta. Con il loro carico si dirigevano verso destinazioni lontane, verso milioni di stelle che luminose le stavano chiamando.

In seguito, le stelle si estinsero… Non resta più nulla della città che sembrava immortale e invincibile. Si sarebbe po-

tuto scavare per secoli senza mai trovare nessuna traccia degli uomini che l'abitarono. Nessuna vestigia dall'aspetto di fondamenta e di strada, nulla. Di giorno e di notte, solo il calore e il freddo, a volte la pioggia, e l'eterno vento che spazza la pianura e solleva nuvole di polvere dal colore grigio marrone. Un vento che senza pietà corrode gli ornamenti di pietra del palazzo, l'unica architettura ancora rimasta. All'epoca, quando c'erano ancora esseri umani, consideravano il palazzo come la più bella archi-

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tettura della galassia. Ma le devastazioni del tempo non lasciano indovinare più nulla di quella bellezza: le rosette di pietra delle torri, precedentemente simili a fiori in germoglio, sono state così tanto colpite dal vento da non formare altro che grumi gri-gi e indistinti; delle sculture in rilievo finemente lavorate alle pareti, per le quali non si esitava a intraprendere viaggi di molti anni luce per visitarle, non resta più nulla, neppure le tracce che tradiscono la loro posizione. Il palazzo è in rovina e abbandona-to. Pareti crepate e tetti crollati sono esposti al vento e alla pioggia. Il freddo e il calo-re attaccano i muri e di tanto in tanto le pietre si screpolano facendo cadere un fram-mento. Oltre a questo, non accade nulla. Nelle corti e nei corridoi, non esiste alcuna traccia di vita umana.

L'unica parte della costruzione che sia stata interamente conservata è la sala del trono. Con le finestre fiere e slanciate, predomina su resti e rovine. Forze misteriose hanno conservato gli ornamenti cesellati delle volte ad arco, le frivole decorazioni dei cornicioni e le fini scanalature delle colonne.

La sala del trono è una sala immensa la cui volta è sostenuta da pilastri imponenti. In tempi immemorabili, fu il quadro di feste opulente, di discorsi commoventi e di dibattiti accaniti. La sala ha visto numerose vittorie e altrettante sconfitte. Ci fu una sconfitta di troppo…

Da allora, il portone enorme dell'entrata è chiuso e sigillato. Le tarsie dorate che decorano il lato interno si sono conservate bene, ma non si possono vedere. Sono na-scoste da un ritratto gigantesco, illuminato da una fila di lampade eternamente accese.

Il trono d'oro del sovrano si trova su un piedistallo, alla parete opposta. E sul trono è seduto, immobile, il solo essere vivo che queste pareti proteggono ancora: il sovra-no stesso. Siede senza muoversi, rigido, sostenuto dai braccioli. Lo si potrebbe pren-dere per la statua di se stesso, se gli occhi non si socchiudessero con stanchezza e se il petto non si sollevasse regolarmente al ritmo del respiro.

Dal luogo in cui è seduto, può vedere dalle finestre la pianura che circonda il pa-lazzo fino all'orizzonte. Su una tavola dinanzi a lui si trovano due grandi monitor che precedentemente, molto tempo prima, funzionavano e mostravano le immagini di re-gioni lontane. Ma un giorno le immagini si sono indebolite fino a diventare un grigio tremolio, mentre gli anni, i secoli trascorrevano. Il primo schermo finì per spegnersi, poi fu la volta del secondo. Da allora, gli apparecchi stanno di fronte al sovrano, neri, immobili e inutilizzabili.

Le finestre offrono alla vista un'immagine sempre identica: una pianura piattamen-te grigia che, da qualche parte, si confonde con il cielo dello stesso colore e altrettan-to uniforme. Di notte il cielo è nero, si tratta di una oscurità infinita in cui non esisto-no stelle. Fuori dal palazzo non accade nulla, nulla muta.

Il sovrano spera spesso di diventare folle e si chiede spesso se non lo sia già diven-tato. Ma sa che non lo è, che non lo diventerà mai.

Di tanto in tanto, una pietra cade da qualche parte e, nel corso dei seguenti giorni, il sovrano assapora il rumore emerso dal silenzio, lo ricorda incessantemente per di-lettarsi l'udito, poiché è la sola distrazione.

La sostanza delle vetrate, nel corso degli eoni, ha subito la legge di gravità; con lentezza infinita si è fusa verso il basso. Nei secoli dei secoli, le alte vetrate si sono poco a poco ispessite alla base e hanno assottigliato il loro vertice, fino al giorno in

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cui questo ha lasciato passare il vento nella silenziosa sala del trono; inizialmente, en-trò timidamente con un esitante spiffero e, infine, con un grido di trionfo.

Da allora, i vetri non hanno cessato di cedere, ogni giorno un po' di più, e oggi il vento soffia attraverso la sala nello stesso modo in cui soffia sulla pianura. E la inva-de di polvere.

Ormai, il prezioso pavimento di cristallo della sala del trono giace invisibile sotto uno strato di polvere. Ha coperto i dipinti e le statue alle pareti, le imbottiture delle sedie e il corpo del sovrano stesso. La polvere si è posata sulle braccia, le mani, le gambe, i piedi e capelli. Il viso è grigio e solo le lacrime che scendono dagli occhi la-scialo tracce sulle guance corrugate, lungo il naso, sul labbro superiore e nel collo, dove bagnano il bavero del manto reale, prima color porpora, oggi sbiadito e grigio.

Così il sovrano vede tutte queste rovine attorno a lui e attende con un desiderio in-dicibile che la macchina dietro al trono cessi di funzionare e lo lasci morire.

Così siede immobile, ma non per sua volontà. Se si tiene immobile, è perché gli hanno precedentemente separato tutti i muscoli e tutti i tendini, e irrimediabilmente bruciato i tessuti nervosi. Il cranio è sostenuto da perni d'acciaio, appena visibili e stabilmente fissati allo schienale del trono. Lo penetrano all'altezza della parete occi-pitale, sotto la pelle della testa; sono avvitati all'osso temporale e sbucano al di sotto del pomo d'Adamo per mantenere il cranio in posizione verticale. Altri dispositivi di fissaggio sostengono la mandibola che, altrimenti, si abbasserebbe.

Dietro il trono si trova una macchina enorme che, da millenni, lavora in silenzio e lo costringe a rimanere in vita. Condotti spessi come un braccio collegano la macchi-na alla schiena del sovrano, attraverso la parte posteriore del trono, ma sarebbero in-visibili a qualsiasi osservatore che entrasse nella sala. Forzano la gabbia toracica al respiro, il cuore al battito cardiaco, alimentano il cervello e gli altri organi con so-stanze nutritive e ossigeno.

Gli occhi del sovrano sono le sole parti del corpo che può ancora muovere auto-nomamente. Può versare lacrime in abbondanza e, se non evaporassero, la sala sareb-be immersa nel fluido liquido del pianto. Può guardare dove vuole ma, da molto, mol-to tempo, non fissa altro che l'immagine di fronte a lui. È una immagine beffarda e crudele che, nel passo dei secoli, non ha perso nulla della sua ferocia: è il ritratto del vincitore. Il sovrano non cessa di fissarlo e attende solo che grazia gli sia fatta. Atten-de, attende, egli attende e piange.

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Quando rivedremo le stelle

Il fuoco al centro del grande cerchio era molto tenue, appena sufficiente per cuci-nare il contenuto della pentola, nonostante il freddo mordente. Le donne, i bambini e gli anziani dell'orda erano seduti attorno al focolare e in silenzio masticavano circo-spetti, osservavano le fiamme danzare stanche. Con la mente altrove, provavano a fa-re durare la grezza poltiglia insipida che prendevano con le dita da ciotole di legno levigato.

La luce del fuoco illuminava leggermente le fredde rocce che circondavano il pic-colo gruppo. Quasi gettava tristi fuochi fatui sui loro visi, profondamente segnati dal-le fatiche di una vita di fuga. Era la sola luce nella notte. Il vasto cielo sopra le loro teste era nero come un abisso senza fondo.

Cheun era il solo guerriero del cerchio. Mangiava la poltiglia in silenzio, sapendo che non lo avrebbe saziato. Saziato… Erano anni che non lo era più stato. Da quando avevano lasciato le valli che delimitavano il fiume, le valli dai grassi pascoli e dal suolo fertile. Poi, le terre appartennero al nemico, e i pascoli scomparvero per sempre sotto la massa grigiastra con cui il nemico copriva tutto ciò che riusciva a conquista-re.

Cheun si affrettò a cibarsi. Occorreva che tornasse presso dagli altri uomini che montavano la guardia lassù, in montagna. Avevano fame, anche loro, e ne attendeva-no il ritorno.

Con la coda dell'occhio, vide come il vecchio Soleun appoggiasse la ciotola incri-nata e lasciasse trasparire un sorriso fugace alle labbra, mentre si passava la mano sulla pancia. Era un antico costume, per esprimere sazietà. Cheun gli lanciò appena un breve sguardo. Sapeva ciò che l'aspettava.

«Ci fu un tempo in cui il cielo non era così scuro» cominciò a raccontare Soleun con la voce sommessa per l'età. «Ci fu un tempo in cui l'oscurità non opprimeva gli uomini, quando cadeva la notte. Prima, molto, molto tempo fa, così tanto che la piog-gia ha sommerso le allora giovani montagne nel mare, nella notte splendevano le stel-le del firmamento.»

I bambini gradivano le storie che raccontavano loro gli anziani. Cheun fece una smorfia di disapprovazione. Ci si poteva risparmiare di ridiventare infantili in vec-chiaia, era meglio cercare la morte del guerriero.

«Le stelle… Dopo tutto questo tempo, il nostro linguaggio ha conservato ancora una parola per indicarle» proseguì pensieroso Soleun. «Sebbene nessun occhio ancora in vita abbia mai visto una stella, tuttavia, sappiamo dalle tradizioni dei nostri antena-ti che una stella è un piccolo punto leggermente luminoso nel cielo notturno. E le stelle che tappezzavano il cielo erano migliaia, centinaia di migliaia. Allora, la volta celeste somigliava di notte a un tessuto sontuoso ornato di luci scintillanti, cosparso di piccoli e grandi brillanti. Ma arrivarono i nemici, sono venuti da un altro mondo e

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le stelle si sono estinte. Da quel momento, il cielo notturno è nero e opprime i nostri spiriti.»

Le parole dell'anziano e la serietà solenne con la quale le pronunciò destarono in Cheun qualcosa che gli fece venire i brividi alla schiena, un fatto che lo fece arrabbia-re quando se ne rese conto.

«Da quel momento, i nemici ci perseguitano. Passo dopo passo ci bandiscono, ci massacrano e rendono il nostro mondo inabitabile. Nessuno sa perché lo facciano. Ci bandiscono per estendere sempre di più la Regione Plumbea. Apparentemente, sono uomini come noi, ma in verità sono servi del male. Non sono solo i nostri nemici, so-no i nemici della vita poiché vogliono che un giorno le regioni dal colore cinereo co-prano tutto il pianeta. Dappertutto, essi vogliono che non esista null'altro, con il Pa-lazzo delle Lacrime al centro. Ma poiché sappiamo che sono i servi del male, sap-piamo anche che, in fin dei conti, sono condannati al declino. Il male non può nutrire durevolmente il male. Forse, oggi, sono vincitori, ma domani affonderanno e cadran-no nell'oblio. Forse, moriremo, ma vivremo eternamente. Un giorno, tutte le nostre paure avranno fine. Un giorno, le stelle splenderanno nuovamente. E quando noi ri-vedremo le stelle, saremo salvi.»

A queste parole, i bambini diressero lo sguardo verso lo spento cielo e rabbrividi-rono vedendo il vuoto pesare sopra le loro teste. Lo sguardo dei più anziani restò apa-tico, indirizzato verso il basso, e il loro respiro vaporoso risplendeva alla luce del pic-colo fuoco.

Un giorno. Nessuno sapeva quando questo giorno sarebbe venuto. Nel frattempo, era probabile che la pioggia avrebbe di nuovo sommerso le montagne, spazzandole dalla faccia del mondo.

Senza finire la ciotola, Cheun si sollevò preso dalla rabbia. Passò bruscamente la ciotola alla donna seduta accanto a lui, lasciò il cerchio ed entrò nell'oscurità.

Non vedeva più nulla. Doveva aiutarsi tastando una a una le rocce sul sentiero che aveva perfettamente memorizzato durante il giorno e che conduceva alla cima della montagna. Ogni rumore era importante; percepiva la minima perturbazione dell'eco che gli rinviava i suoi passi. La via era ripida e pericolosa.

Arrivò senza respiro al bivacco degli uomini che montavano la guardia; era posta sulla parte opposta del vertice della montagna in cui era piantato l'accampamento. Qualcuno lo salutò con una pacca sulla spalla. Cheun afferrò la mano e riconobbe Onnen, il capo dell'orda.

«Cheun! Come va di sotto? I vecchi si cullano ancora con le loro favole?» Cheun sbuffò furibondo. Poteva sentire la presenza degli altri uomini, li sentiva re-

spirare e muoversi. Il timore incombeva nell'aria, e la collera anche… La sensazione disperata di essere impotente, di non poter opporre nulla al nemico.

' «Soleun racconta le vecchie leggende. Dice che dobbiamo solo attendere che i nemici affondino da soli nella loro malvagità.»

Delle risa isolate giunsero dall'oscurità, dure e secche come l'abbaiare di cani. Sulla cima, il vento soffiava leggero, ma portava con sé un freddo corrosivo e il viso di Cheun non tardò a soffrirne. Le sue narici sembravano gelarsi dall'interno e perdere ogni sensibilità.

«È accaduto qualcosa alla frontiera?» chiese Cheun, nella notte impenetrabile.

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«No» gli rispose qualcuno. Cheun avanzò a tastoni fino a che non poté vedere in basso. C'erano le luci dell'al-

tro, le luci del nemico. Un margine luminoso appena percettibile, un colore azzurro-gnolo che segnalava la posizione della frontiera rafforzata. Era un chiarore così diffu-so che non si poteva distinguere alcun dettaglio, appena i contorni angolari di mac-chine colossali, ammassate lungo la frontiera.

Cheun si ricordava quando per la prima volta, da bambino, aveva visto quell'im-magine. Prima, la frontiera si concretizzava in un recinto discreto di filo spinato che si estendeva all'infinito e uccideva con una scarica elettrica chiunque si avvicinasse. La notte, splendeva leggermente di luce tremolante e bluastra che ardeva come una incessante minaccia. Ma un giorno erano arrivate le macchine. Lentamente, come grandi animali di grigio acciaio. Erano avanzate in una colonna infinita e si erano messe le une accanto alle altre fino a formare un fronte semovente che si estendeva per tutto l'orizzonte.

Cheun era restato in attesa di quello che sarebbe accaduto. La sua orda non aveva aspettato; tutti avevano raccolto i loro magri averi ed erano partiti. Aveva avuto il tempo di vedere degli uomini avvicinarsi e smontare il recinto. Sebbene fosse molto giovane, Cheun aveva ugualmente compreso che lo facevano per liberare il passaggio per l'arrivo della Regione Plumbea, per il nemico che voleva ucciderli tutti, benché non avessero fatto nulla.

E ciò non aveva cessato di ripetersi. Loro non avevano cessato di dover fuggire, sempre più su verso il Nord; diventava sempre più freddo e il cibo sempre più raro. A volte, avevano dovuto combattere altre orde di cui invadevano il territorio per scappa-re al nemico. E adesso erano arrivati ai piedi del massiccio roccioso del Nord. Non restava loro che il cammino verso il gelo mortale, un deserto sterile in cui tra le nude rocce e le ripide gole si sarebbero estinti.

«A cosa pensi, Cheun?» gli chiese bruscamente Onnen vicino a lui. Cheun ebbe un sussulto. Non aveva sentito il capo avvicinarsi, tanto era immerso

nei pensieri e nella memoria. «Questa volta, non so dove potremo fuggire» spiegò. «Ci restano solo il deserto

roccioso e i ghiacci eterni. Qualsiasi cosa facciamo, non c'è altra scelta: la morte ra-pida o quella lenta.»

«Invece, cosa sceglieresti?» «Scelgo sempre la lotta.» Onnen tacque per qualche istante. «Avevo progettato di proseguire verso Est, se il

nemico avesse ripreso l'offensiva. Se le informazioni erano esatte, avremmo trovato valli riscaldate dal sole, un suolo fertile e molti animali ben nutriti. Ma sarebbe stata una lunga marcia e, per sopravvivere, avremmo avuto bisogno del prossimo raccolto. L'attacco si è verificato troppo presto. Nei prossimi giorni, il nemico avanzerà e di-struggerà i nostri ultimi campi. Là, in basso sulla pianura; e, se restiamo, ci uccide-ranno.»

«Allora non abbiamo altra scelta che fuggire abbandonando i vecchi e i più deboli» concluse Cheun. Nel corso di un esodo, aveva dovuto abbandonare sua madre malata e aveva visto il nemico bruciare la loro capanna.

«Ho un altro piano» disse Onnen. «Proviamo a fermarli.»

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Cheun si chiese di sorpresa se tutto ciò fosse solo un brutto sogno. Fermarli? Cosa diceva il capo? Le loro armi non erano in grado nemmeno di graffiare i colossi d'ac-ciaio.

«Come pensi di riuscirci?» «Si potrebbe uccidere uno di loro e impadronirsi delle armi» spiegò con calma On-

nen. «I nostri non possono nulla contro le loro macchine, ma se dirigiamo le loro armi contro di loro, abbiamo una possibilità, forse.»

Era un sogno. Un incubo. «Onnen, ci sono migliaia di macchine. Anche se ne di-struggessimo una, non cambierebbe nulla…»

«Ma se ne catturiamo una e ce ne serviamo per attaccare le altre, cambierà qualco-sa!»

«Sono troppo potenti, Onnen. Ne distruggi una e centinaia di altre verranno a sosti-tuirla.»

La voce del capo divenne improvvisamente tagliente, intransigente. «Non dicevi di scegliere sempre il combattimento, Cheun?» Cheun tacque. «Se vogliamo agire, dobbiamo farlo ora o non lo faremo mai più» riprese Onnen.

Posò il braccio attorno alla spalla del guerriero e, benché non potesse vederlo, Cheun indovinò che il capo gli indicava la pianura e la frontiera. «Hanno smontato il recinto che emette le scariche elettriche e le loro macchine sono abbastanza distanti le une dalle altre perché un uomo possa infilarsi tra loro. Non vedi che tra parecchie di loro l'illuminazione è molto debole? Protetti dalla notte, potremo avvicinarci di soppiatto, penetrare nella Regione Plumbea e attaccarli alle spalle. Non sospetteranno di nulla. Attenderemo che uno di loro si trovi isolato e lo uccideremo con una freccia.»

Cheun dovette riconoscere che Onnen aveva accuratamente pensato il piano. Di giorno, avevano spesso visto individui isolati spostarsi dietro la fila di macchine se-moventi. Certamente, la Regione Plumbea non offriva alcun nascondiglio, ma non era necessario finché faceva notte. Avrebbero sorpreso il nemico prendendolo da dove non si aspettava di essere attaccato e, poiché le macchine erano avvolte da un chiaro-re azzurrognolo, potevano vedere il nemico senza essere notati.

Inoltre, era meglio morire in battaglia che di malattia nel letto. «Sono con te» disse Cheun. Onnen gli diede una pacca sulla spalla, contento, ma anche alleviato. «Lo sapevo.» Dato che l'audace impresa era stata decisa, non esitarono un momento. Onnen rac-

colse gli uomini e spiegò nuovamente ciò che si approssimavano a fare. Designò uno dei più giovani per montare la guardia e restare al bivacco e fece controllare le armi che possedevano: asce di pietra, lance, archi e frecce. Quindi, iniziarono la loro disce-sa verso la pianura.

Trovarono la via, anche nell'oscurità. Le loro dita cercavano a tastoni le pietre rile-vanti, i tronconi di rami morti, il muschio secco e i solchi nella parete. I loro piedi scivolavano sui pendii, alla ricerca di appoggi, di cavità e di rocce prominenti. Cia-scuno sapeva quando doveva abbassare la testa e fare attenzione per non cadere nel vuoto.

Cheun sentì una feroce collera infiammargli cuore e affilare il suo spirito combat-tivo. Spesso, aveva represso l'odio che gli ispirava il nemico, poiché lo addolorava

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riconoscere l'inferiorità e l'impotenza assoluta. Il solo pensiero che fosse possibile in-fliggere all'onnipotente nemico almeno una ferita, fece liberare l'odio accumulato du-rante tutta la vita. Un'energia spietata lo invase.

Erano venuti da un altro mondo per uccidere e devastare. Se fosse stato possibile rintracciare il motivo del loro agire, da secoli era già caduto nell'oblio. E cosa acca-drebbe se arrivassero a completare la loro insensata opera, se venissero tutti uccisi a favore di un pianeta coperto di grigie rocce? Forse, pensò Cheun, le cose andavano diversamente che nelle leggende. Forse, occorreva distruggere il nemico prima di ri-vedere le stelle.

Infine, sentì l'arida erba della pianura sfiorargli il polpaccio. La bocca era secca e sapeva che era lo stesso per gli altri. Tutti restarono muti.

Si diressero verso il debole lucore azzurrognolo. I ciuffi d'erba secca e gli scarni rovi scricchiolavano sotto i loro passi, minacciando di rivelare la loro presenza. Si in-filarono tra giovani arbusti che crescevano sulla pianura e che non avrebbero mai por-tato frutti. L'oscurità li avvolgeva e si estendeva all'infinito in tutte le direzioni; solo l'azzurrognolo tremolio dinanzi a loro sembrava tracciare un orizzonte, una cucitura che univa la fine di due mondi. Si sentiva solo il rumore dei loro passi e il soffio del respiro. Tutti gli animali, anche gli insetti e i piccoli roditori, fuggivano dalla frontie-ra della Regione Plumbea. Solo loro si stavano avvicinando.

Quando ebbero superato i campi, Onnen fermò il gruppo. «Occorre riflettere con precisione sul modo in cui procederemo» sussurrò. «Penso

che sia meglio dividerci in gruppi di due. Ogni gruppo si sceglierà un passaggio per infilarsi tra le macchine e noi andremo. In seguito, ci incontreremo dall'altro lato, nel-la Regione Plumbea. E non ci muoveremo assieme, ma gli uni dopo gli altri. Qualcu-no ha una proposta migliore?»

Nessuno rispose. Le mani si cercarono nel buio e, senza una parola, si formarono i gruppi di due.

«Allora, andiamo!» sibilò il capo. Il primo gruppo scivolò furtivamente davanti. Dopo alcuni istanti, poterono vedere

la sagoma dei due giovani guerrieri prendere forma nel chiarore della frontiera. Com-parate alle macchine del nemico, sembrarono improvvisamente piccole e fragili. Cheun prese coscienza dell'immensità delle macchine, di quelle montagne enormi di metallo scuro, montate su ruote blindate.

Non poté impedirsi di scuotere la testa. I nemici erano i servi del male ed erano più forti. Avevano una forza infinita, erano i vincitori e lo sarebbero restati fino alla fine dei tempi.

Per parte loro, non rimaneva che accettare una morte onorabile. Almeno, li liberava dalla fuga eterna e dalle sofferenze senza speranza.

Due detonazioni colpirono la notte ghiacciata come colpi di frusta. Il piccolo grup-po vide con ribrezzo i due guerrieri crollare agitando fiaccamente le braccia.

Onnen gridò per avvisare il secondo gruppo che si era già messo per strada. «Fermi!» Restarono là senza muoversi, in attesa di ciò che sarebbe avvenuto. Ma non avven-

ne nulla, tutto era calmo. «Dobbiamo inventarci qualcosa» finì per mormorare Onnen. «Apparentemente,

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non si può passare, anche se il recinto non è più attivo. Bisogna trovare un'altra solu-zione…»

Cheun tese la mano e gli toccò il braccio. «Non ha senso, Onnen. Se non si può penetrare nella Regione Plumbea, non si ar-

riverà a nulla.» «Mi rifiuto di abbandonare!» sbuffò rabbiosamente Onnen. «Dobbiamo ancora ri-

flettere…» Di colpo, nell'aria ci fu un pesante fragore che lentamente aumentava, come il

brontolare di tuoni lontani. Cheun fece un giro su se stesso per individuare la prove-nienza del minaccioso frastuono.

«L'attacco» bisbigliò qualcuno. «È ricominciato.» «Non hanno mai attaccato di notte» si ostinò Onnen. Un fragore acuto, come il

ronzio di uno sciame di mosche, si avvicinò senza pietà. In quel momento, Cheun fu certo che proveniva dalle enormi e allineate macchine. E il rumore diventava sempre più alto, sempre più stridente.

«Certo, sono loro» disse. Allora la luce si fuse su loro, una luce abbagliante e insopportabile dopo l'oscurità

totale in cui erano caduti, una luce che si estendeva su tutto l'orizzonte. Prese i loro occhi alla sprovvista e li colpì così forte che sembrò loro più luminosa del sole, più luminosa di cento soli. Cheun si appoggiò i pugni stretti contro gli occhi chiusi, ma la luce riuscì comunque a bucare le palpebre, come se una forza invisibile la spingesse. Il dolore era atroce. Poi, il suolo tremò sotto i piedi e seppe quello che significava: le macchine del nemico si erano messe in movimento e rullavano, irresistibilmente, nel-la loro direzione.

«Indietro!» gridò arretrando. Inciampò con gli occhi chiusi e pieni di lacrime. La luce vi bruciava come fuoco. Il rullio sordo dei mostri d'acciaio riempì il cielo, tra lo stridere delle ruote, di rami e pietre che esplodevano al loro passaggio. In un attimo, il rumore fu tale che Cheun non poté più comprendere gli altri.

Ripresero i suoni stridenti e penetranti che ogni volta erano seguiti dalle urla dei compagni. Cheun si mise a correre, correre per salvare la sua vita e quella dei compa-gni. La rabbia e lo spavento gli battevano nel petto ed entrambe le passioni mettevano le ali ai piedi. Combattere. Anche questo poteva essere combattere. A volte, combat-tere era correre, fuggire di fronte a un nemico troppo potente e fare di tutto per so-pravvivere.

Alle spalle, ci fu una nuova detonazione dal suono di una frusta ed era diretta verso di lui. Sentì un lampo di dolore folgorante attraversargli il corpo e proiettarlo in avan-ti, come un colpo inatteso che gli fosse stato assestato nelle reni. Pur continuando a correre, portò istintivamente la mano sulla parte del corpo da cui proveniva il dolore. Tra le lacrime che gli bagnavano gli occhi, vide del sangue sulle dita. Molto sangue.

Il nemico lo aveva colpito, ma era ancora vivo. Non poteva cedere. Doveva conti-nuare a correre. Il nemico aveva fatto un errore. Anche il nemico poteva fare errori. Anche quei colossi non disponevano di un potere illimitato.

Era arrivato sufficientemente lontano per essere fuori portata. Sarebbe loro sfuggi-to. Ce l'avrebbe fatta. Sanguinava, certo, ma ciò non voleva dire nulla. Lottò. Corse. Continuò a correre. Sceglieva sempre il combattimento. Raccoglieva la sfida. Lui, il

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guerriero. Cheun, della stirpe degli Oneun. Riuscì a raggiungere il piede della monta-gna, riuscì anche a scalarla per alcuni passi, mentre veniva illuminato. E crollò.

Questa volta, la sua ora era venuta. Cheun era disteso sulla schiena, gli occhi chiu-si, le mani premute sulla ferita, e sentiva la vita scorrergli via dal corpo. Con chiarez-za sapeva che stava morendo, gli dispiaceva per l'orda che doveva prendere la via del-la fuga senza i suoi guerrieri ed entrare in una vasta regione ostile, una dimensione di morte dove sarebbero periti tutti. Sentiva l'avanzare del nemico, sentiva il tremito di-sperato del terreno attraversargli la schiena e percepiva lo scricchiolare di migliaia di piante strappate e schiacciate. Il respiro divenne più pesante. Dunque, la fine. La sua fine. Almeno, sarebbe morto dissanguato prima che le macchine avessero iniziato a scalare la montagna. La solitudine l'afferrò, mentre giaceva ansimante, aggrappato alle ultime scintille di vita. Si chiese se ci fosse qualcuno di cui avrebbe desiderato la presenza in quel momento, ma nessuno gli venne in mente. Finiva così: misero e solo.

E di colpo fu silenzio. Nessuna luce gli attraversò più le palpebre. Cheun aprì gli occhi. Sopra, nel cielo infinito della notte, vide le stelle.

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Il ritorno

Perché tutto ciò? Lo ignorava. Dopo tutti gli anni, dopo tutti gli eventi sanguinari e le scoperte macabre, dopo tutti gli incubi…

«Comandante Wasra?» Alzò gli occhi con irritazione. Era Jegulkin, il navigatore, e gli si poteva leggere

sul viso che lo rammaricava disturbare il comandante. «Sì?» «Raggiungiamo il pianeta G-101/2. Avete direttive particolari?» Wasra non ebbe bisogno di riflettere. Per mesi, avevano così spesso sorvolato pia-

neti come questo, avevano così spesso annunciato la caduta dell'Impero che si senti-va, a volte, come all'interno di un incubo interminabile in cui egli era condannato. Fi-no alla fine dei tempi, dover pronunciare le stesse parole e fare gli stessi gesti. Non pensò, improvvisamente, che questa volta era diverso; per questo pianeta, aveva ordi-ni precisi. E non facilitavano il compito.

«Non ho direttive particolari. Cerchiamo il porto e atterreremo.» «Ai vostri ordini, comandante.» Wasra fissò il grande schermo che mostrava lo spazio come sarebbe apparso anche

a un occhio inesperto. Una piccola macchia di luce opaca si stava avvicinando: il se-condo pianeta del sole G-101/2. Anche qui vivevano tessitori di tappeti di capelli, come su migliaia di altri pianeti. Pianeti che sembravano tutti somigliarsi.

Sullo sfondo, le stelle splendevano leggermente, di luce fredda e intorpidita; cia-scuna era un altro sole o un'altra galassia. D'umore tetro, Wasra si chiese se fossero mai riusciti a lasciarsi l'Impero alle spalle, se potevano davvero sbarazzarsi definiti-vamente dell'eredità degli imperatori. Aveva l'impressione di un'impresa dedita al fal-limento! Chi poteva dire con certezza che dietro uno di quei punti luminosi non si na-scondesse un'altra provincia dell'Impero, non ancora individuata? Che una porta non si sarebbe aperta dinanzi ai loro occhi rivelando uno spaventoso segreto?

Scorse il suo riflesso nell'involucro di uno strumento e, come spesso nelle ultime settimane, si stupì che il viso sembrasse sempre giovanile. Aveva la sensazione che l'uniforme grigia del comandante fosse tagliata in un tessuto più pesante di quelle portate fino ad allora. E il distintivo del rango a cui apparteneva gli sembrava pesare ogni giorno di più. Quando si era aggregato alla spedizione diretta dal generale Kar-swant, aveva appena raggiunto la maggiore età; era un giovane soldato che voleva af-fermarsi e conoscere il brivido dell'avventura. Ma, dopo solo tre anni passati in quel-l'immensa provincia, si sentiva estremamente vecchio, quanto lo stesso Imperatore. E non poteva comprendere come tutto questo non si leggesse sul suo viso.

Gli sembrava di avere già effettuato migliaia di atterraggi e non c'era nessuna ra-gione evidente per fermarsi.

Ma questo pianeta era particolare. In qualche modo, tutto era cominciato qui. In

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passato, l'astronave SALKANTAR era già arrivata su questo mondo, al termine di un vo-lo errato durato molte settimane, provvista di mappe celesti antichissime. All'epoca, Wasra era solo un membro dell'equipaggio, come gli altri, e non avrebbe mai detto che stavano per intraprendere sanguinanti battaglie contro le truppe imperiali. Ignora-vano del tutto la morte dell'Imperatore e la caduta dell'Impero. All'epoca si pensava che la spedizione fosse, per così dire, al termine. Ci si era preparati al ritorno, si erano adottate le misure necessarie per effettuare il grande salto nel Nulla che separava le galassie. Wasra aveva diretto i lavori di sgombero sul ponte numero tre. Se qualcuno gli avesse detto che, due anni più tardi, avrebbe esercitato il comandò a bordo della SALKANTAR, l'avrebbe schernito. Tuttavia, era accaduto e questi due anni avevano implacabilmente trasformato l'adolescente in un uomo. Tutto era cominciato qui, su questo pianeta il cui luminoso disco, del desolato colore di sabbia, stava aumentando di grandezza e di rotondità; sulla superficie, prendevano forma i primi contorni.

La discussione che Wasra aveva avuto con il generale Karswant datava già molte settimane, ma se la ricordava come se fosse ieri. L'astioso anziano, allo stesso tempo temuto e gradito da tutti, gli aveva mostrato una fotografia. «Nillian Jegetar Cuain» aveva detto, lasciando trasparire nella voce le profondità di una inspiegabile tristezza. «Senza quest'uomo, saremmo rientrati già da tre anni. Vorrei che scopriste cosa gli è successo.»

Violando un ordine formale, quest'uomo era atterrato sul pianeta G-101/2 e aveva scoperto i tappeti di capelli. Inizialmente, Wasra si era rifiutato di credere alle voci che giravano negli alloggi dell'equipaggio, tanto gli sembravano assurde; ma succes-sivamente la relazione di Nillian era stata confermata nei minimi dettagli. Secondo ciò che aveva comunicato al quartiere generale della spedizione, i tappeti erano opere estremamente dispendiose, tessute con capelli umani. Così finemente che un tessitore poteva completare un solo tappeto nel corso della sua vita. Ma questa notizia non a-vrebbe giustificato nulla più di una semplice menzione nel rapporto della spedizione, se questi tappeti non fossero stati realizzati per una ragione inattesa: i tessitori dice-vano che i tappeti erano destinati al palazzo dell'Imperatore, e tesserli era per loro un dovere sacro. Ciò avrebbe sorpreso chiunque fosse mai penetrato nel palazzo. Infatti, si poteva giurare che i luoghi celavano certamente le cose più sconosciute, ma nessu-no dei famosi tappeti.

Di conseguenza, la flotta rimase in agguato e dopo alcuni mesi, effettivamente, ap-parve un grande trasportatore. Era in uno stato di rovina pietosa; si pose sul pianeta per lasciarlo nuovamente circa due settimane più tardi. Seguirono l'astronave, di cui si persero le tracce, ma in compenso si trovò un altro pianeta sul quale si produceva-no ancora tappeti di capelli, con la stessa motivazione religiosa. Quindi se ne trovò un altro e ancora un altro, delle dozzine, presto delle centinaia. Allora, le astronavi della spedizione sciamarono in giro per l'universo scoprendo sempre più mondi in cui si tessevano tappeti di capelli; si inviarono orde di robot di riconoscimento automatico che fecero delle scoperte identiche. E, quando furono trovati diecimila di questi mon-di, si bloccarono le ricerche. Benché, probabilmente, l'elenco fosse ancora molto lun-go…

I reattori si misero in azione e il loro sordo fragore fece tremare il suolo sotto i loro piedi. Wasra afferrò il microfono per registrare il diario di bordo. «Atterreremo tra

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alcuni istanti sul secondo pianeta del sole G-101. Settore 2014-BQA-57, perimetro 36-01. Ora ufficiale: 9-1178005. Ultima taratura 2-12. Incrociatore leggero SALKAN-

TAR, comandante Jenokur Taban Wasra.»

La zona d'atterraggio fu presto visibile. Era un'area immensa dalla superficie con-solidata, scavata da solchi e bruciata da motori indeboliti dall'uso. Un astroporto atti-vo da molte migliaia di anni. Ciascuno dei pianeti possedeva uno di questi porti che si somigliavano tutti. Attorno alla zona d'atterraggio si estendeva sempre un'antica città e tutte le strade del pianeta sembravano convergere verso la città in cui l'astroporto si trovava. Secondo quello che si era appreso nel frattempo, l'impressione corrispondeva bene alla realtà.

Il ronzio dei reattori cambiò tono. «Fase d'atterraggio» annunciò il pilota. Con una scossa tanto rumorosa da gelare di paura tutti coloro in viaggio per la prima volta a bordo di un astronave interstellare, la SALKANTAR atterrò.

Gli uomini e le donne dell'equipaggio vi erano così abituati che non la percepivano neppure più.

I portelli si aprirono lentamente dinanzi a loro e la rampa di carico scese ronzante verso il suolo eroso. Gli odori penetrarono nell'astronave, odori pesanti e nauseabondi di escrementi, di putrefazione, di polvere, di sudore e di povertà. Sembravano fissarsi alle narici come uno strato di peli. Rimettendo a posto il minuscolo microfono contro la sua gola, Wasra si chiese di nuovo la ragione per cui tutti questi mondi avessero lo stesso odore; a ogni atterraggio, era una domanda che gli attraversava la mente. Da nessuna parte, in questa galassia abbandonata da dio, sembrava esserci una risposta; solo domande.

Era caldo. Sull'area immensa, grigia e polverosa, della zona d'atterraggio scintilla-va un pallido sole. Dalla città si avvicinò un gruppo di anziani, con il passo allo stes-so tempo rapido e stranamente devoto. Portavano tuniche pesanti e scure che, in que-sto forno, dovevano essere una tortura. Wasra avanzò sulla passerella e attese che ne avessero raggiunto la base.

Aveva osservato gli sguardi attenti con cui esaminavano l'astronave, mentre si av-vicinavano. Evidentemente, doveva essere molto diversa da tutte quelle che avevano visto fino ad allora. La squadrarono in modo apprensivo e sospettoso. Finalmente, uno degli uomini si chinò e disse: «Ti salutiamo, navigatore. Detto con rispetto, ci at-tendevamo che arrivaste prima…»

Sempre la stessa paura. Ovunque andassero, trovavano questa coazione inconfessa-ta, dovuta al fatto che il trasporto dei tappeti era cessato, ma si era ripetuto per mil-lenni senza incidenti. Anche i saluti si somigliavano fino alla noia.

Tutto era così simile, i grandi porti rovinati, le città misere e puzzolenti intorno e gli anziani nelle loro tuniche scure e deprimenti. Non volevano comprendere, quando parlavano dell'Imperatore, dell'Impero e di altri pianeti sui quali si faceva fermentare il vino o cucinare il pane per la tavola del sovrano, di pianeti che gli tessevano gli abiti, coltivavano i fiori o addestravano gli uccelli che cantavano per i suoi giardini… Ma non era stato trovato nulla di tutto questo; solo migliaia di mondi in cui si tesse-vano tappeti, null'altro che tappeti, una marea traboccante e continua di tappeti di ca-

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pelli umani che scorreva da millenni attraverso la galassia… Wasra collegò il microfono per amplificare la sua voce e diffonderla negli altopar-

lanti esterni. «Attendevate i navigatori imperiali» dichiarò seguendo una formula che aveva spesso usato e si era dimostrata valida. «Non lo siamo. Siamo venuti a dirvi che non ci sono più navigatori imperiali, non ci sono neppure gli imperatori e potete smettere di tessere tappeti di capelli.» Nel corso dei viaggi, prese facilmente l'accento dell'antica lingua paisi che si parlava in tutti i mondi della galassia e, a volte, la sco-perta lo spaventava quasi. Certamente, a lui come all'equipaggio, ciò sarebbe valso delle occhiate di sbieco quando sarebbero ritornati a casa.

Gli uomini, tutti alti dignitari della Gilda dei tessitori, lo fissarono con sguardi sconvolti. Wasra fece un cenno alla responsabile del gruppo d'informazione e, in se-guito, uomini e donne salirono sulla rampa, portando vecchi apparecchi di proiezione, documenti consumati e fotografie. Avevano l'aria esaurita e camminavano come son-nambuli. Il comandante sapeva che l'equipaggio si sforzava di non calcolare quanti pianeti di questo tipo rimaneva ancora da visitare.

Almeno una cosa gli impediva di affondare completamente nella routine. All'avvi-so della caduta dell'Impero, le reazioni ottenute erano state le più diverse. Su certi pianeti, si erano rallegrati di liberarsi dal lavoro forzato della tessitura dei tappeti. Su altri, in compenso, erano stati trattati come eretici, avevano gettato contro di loro del-le pietre, li avevano insultati e cacciati. Avevano avuto a che fare con dignitari della Gilda che, per vie oscure, avevano già avuto sentore della morte dell'Imperatore, ma che non intendevano affatto dirlo alla popolazione, poiché temevano di perdere la lo-ro posizione nella società. Alla fine dei conti, pensò Wasra, se ripartivano per il loro viaggio, non potevano influire su ciò che avveniva effettivamente. Su molti mondi, sarebbero occorsi ancora secoli prima che la vecchia èra volgesse realmente al termi-ne. Improvvisamente, si ricordò della missione che gli aveva affidato il generale. Sbuffò rumorosamente, contrariato di averla quasi dimenticata e fece uscire il comu-nicatore. «Parla il vostro comandante. Capo di settore Stribat, siete chiamato a rap-porto. Portello inferiore»

Ci vollero solo alcuni momenti perché entrasse dalla passerella un uomo alto e ma-gro. Salutò con l'indifferenza di chi rende onore al grado. «Comandante?»

Wasra sgranò gli occhi irritato. «Smettila con le scemenze» ringhiò. Ai loro inizi, lui e Stribat erano insieme in

servizio a bordo della SALKANTAR. Ora, Stribat era responsabile dei veicoli di terra e della fanteria. Non aveva fatto una grande carriera. Le grandi carriere erano buone per i folli, pensò Wasra tristemente. «Ti ricordi che siamo già venuti su questo piane-ta?» Sorpreso, Stribat strabuzzò gli occhi.

«Realmente? Sono settimane che ho l'impressione di atterrare sempre sullo stesso" pianeta…»

«Che baggianata. Siamo già venuti qui, ma tre anni fa. La SALKANTAR aveva rice-vuto la missione di cercare una delle astronavi KALYT caduta in difficoltà. E poiché non avevamo punti di riferimento, siamo saltati per settimane da un sole all'altro, fino al momento di beccare quello buono.» Stribat fece un cenno pensieroso con il capo. «Non dimenticherò mai a quale punto mi sentivo male, all'epoca, con tutti quei voli ravvicinati alla velocità della luce… Si chiamava Nillian, non è lui? Uno dei piloti

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della KALYT. Atterrò, scoprì i tappeti e, in seguito, scomparve senza lasciare tracce. Oh…?»

Wasra vide una luce ravvivare gli occhi dell'altro, segno che aveva compreso. Il comandante si accontentò di scuotere la testa.

«Dobbiamo scoprire cosa gli è accaduto. Allestiamo un gruppo di veicoli blindati e andiamo in città al palazzo della Gilda.»

Poco dopo, tre veicoli cingolati e blindati scesero dallo scivolo con un grande ru-more di ferraglia. I loro motori emettevano rombi sordi e potenti. Alla loro vicinanza, dovettero adattarsi al senso di nausea che li colpì per qualche istante. Il portello late-rale del veicolo di testa si aprì e Wasra entrò. I dignitari della Gilda presenti nell'area d'atterraggio arretrarono rispettosamente quando i tre blindati scesero la rampa, uno seguito dall'altro.

«Questa è la differenza» disse Wasra rivolgendosi a Stribat, mentre in realtà parla-va solo a se stesso. «Per l'Imperatore, una vita umana non valeva nulla, anzi meno di nulla. E cosa accade oggi? Il generale Karswant aspetta a bordo della TRIKOOD, tutto è pronto per il nostro volo di ritorno, per riferire sulla nostra spedizione dinanzi alla Consulta; ma egli si rifiuta di partire finché non saprà ciò che è accaduto a Nillian È piacevole saperlo. Mi rende, come dire…» Cercava la parola precisa.

«Orgoglioso» l'aiutò Stribat. «Orgoglioso, sì. Mi rende orgoglioso.» Quando furono sul terreno, il comandante fece brevemente fermare il veicolo. «Prenderemo uno dei dignitari con noi; ci condurrà fino alla palazzo del Gilda. A-

prì il portello laterale e fece segno a uno degli anziani che si tratteneva sul posto. L'uomo della Gilda si avvicinò senza esitare e montò con prontezza sul blindato.

«Sono tanto contento che siete finalmente arrivati» parlottò mentre la piccola co-lonna si rimetteva in movimento. «Dovete sapere che qualsiasi ritardo dei navigatori imperiali ci mette in una situazione scomoda, poiché nell'intervallo i nostri depositi straripano di tappeti… Oh, è già accaduto una volta. Mi ricordo, ero ancora bambino, all'epoca. I navigatori ci avevano messo quattro anni prima di ritornare. La situazione era critica e fu una dura prova per noi. E dovete sapere che allora la Gilda disponeva ancora di depositi molto più grandi. Oggi, tutto è più difficile di prima…»

Wasra osservava il vecchio e curvo uomo vestito dalla logora tunica. Con gli occhi quasi ciechi e dai riflessi argentati curiosava all'interno del veicolo e ciarlava come un bambino agitato. «Ditemi, come vi chiamate?» lo interruppe.

L'anziano fece un inchino. «Lenteiman, navigatore.» «Lenteiman, avete compreso quello che i miei uomini vi hanno spiegato poco fa?» Il dignitario della Gilda alzò le sopracciglia cercando con un'aria insicura il posto

da cui parlava il comandante. La mandibola si mise a pendere fiaccamente, tanto che scoprì una fila di ceppi nerastri. Non sembrava neppure avere compreso ciò che era in questione.

«Lenteiman, non siamo navigatori imperiali.» È inutile che li attendiate, poiché non ritorneranno mai più, né tra quattro anni, né tra quattro secoli.» Sebbene non ci metterei la mano sul fuoco, pensò Wasra. «È inutile che continuate a tessere tappeti per l'Imperatore, perché l'Imperatore è morto. L'Impero non esiste più.»

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L'anziano tacque un istante, come se avesse avuto bisogno di impregnare il cervel-lo in ciò che aveva appena inteso. Poi, fu preso da una breve e gorgogliante risata. Gi-rò il capo verso il pallido sole che splendeva nel cielo.

«Il sole continua a splendere, no? Voialtri navigatori siete un popolo sconosciuto e avete abitudini curiose. Da noi, sarebbe un'eresia dire ciò che avete appena proferito e fareste meglio a suggerire ai vostri uomini di parlare con contegno quando sarete in città. Tuttavia, vi accadranno molte cose, poiché tutti sono contenti che siate arriva-ti.» Gorgogliò di nuovo.

Wasra e Stribat si scambiarono sguardi sconcertati. «A volte, ho la sensazione» bisbigliò Stribat «che Denkalsar fosse un ottimista.»

Denkalsar era quasi una figura mitologica; secondo quello che si raccontava, un uo-mo così chiamato era realmente vissuto circa cento anni prima e aveva scritto il libro il cui titolo aveva dato il nome al movimento ribelle: Il vento silenzioso.

Dalla caduta dell'Imperatore, leggere Denkalsar era comunque passato di moda e Wasra si stupì che Stribat lo conoscesse. «Lenteiman, cosa fate di solito agli eretici?» chiese.

Con le mani scarne, l'anziano fece un ampio e vago gesto. «Di sicuro li impicchia-mo, come ordina la legge.»

«A volte, riuscite semplicemente a imprigionarli?» «In casi di eresia benigna, si. Ma è raro.» «E tenete registri sui processi e le impiccagioni?» «Che cosa credete? Naturalmente, e tutti i libri sono conservati, come lo vuole la

legge imperiale.» «Nel palazzo della Gilda?» «Sì.» Wasra fece un cenno di soddisfazione. Iniziava a gradire il rombo e gli scossoni dei

motori che gli facevano vibrare ogni fibra del corpo; si stava trasformando, poco a poco, in una sensazione di supremazia invincibile. Sarebbe arrivato con tre blindati, dei soldati e delle armi dalla irraggiungibile superiorità, rispetto a tutto ciò che si tro-vava sul pianeta. Stava per entrare senza discussioni nell'edificio che rappresentava il cuore di questa cultura, dove avrebbe potuto fare quello che più gli piaceva. La pro-spettiva lo deliziava. Percorse con lo sguardo la linea marrone chiaro di capanne e di case basse verso la quale si dirigevano e gradi di appartenere al campo dei vincitori.

Raggiunsero il palazzo della Gilda. Si ergeva massiccio, e imponeva rispetto. Le pareti erano grigio marrone, inclinate come quelle di un bunker, non aveva finestre ma solo alcune strette aperture sotto forma di feritoie. All'ombra del palazzo, si e-stendeva una grande piazza che offriva una curiosa immagine: come si tenesse un mercato annuale in vana attesa degli ospiti; tutti i banchi sembravano essere sprofon-dati in una specie di dormiveglia. Era un vero intrico di carri e carrozze di qualsiasi tipo, alcune spaziose, altre piccole, alcune sontuosamente arredate, altre brutte e blin-date, alcune crollavano sotto il peso degli anni, altre erano sprovviste di tende. Ovun-que c'erano greggi di grandi animali da traino che osservavano nel vuoto, mentre i cocchieri dormicchiavano ai loro posti di guida. Erano le carovane dei mercanti di tappeti di capelli che si raccoglievano qui per ricevere in consegna i tappeti. L'arrivo dei mezzi blindati portò una certa animazione; le teste si raddrizzarono curiose, le

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fruste sferzarono l'aria e, poco a poco, i mezzi blindati si allontanarono per liberare l'accesso al palazzo della Gilda. I portoni erano aperti. Wasra ordinò ugualmente al-l'autista di fermarsi. Sarebbe entrato accompagnato da Stribat, dal dignitario della Gilda e da una squadra di uomini armati; gli altri avrebbero montato la guardia vicino ai veicoli.

«È saggio fermarsi qui, poiché nella corte interna non ci sono più posti. Sapete be-ne, i tappeti…» gracchiò Lenteiman.

«Lenteiman conduceteci dal più anziano della Gilda» ordinò Wasra. Il vecchio accondiscese con premura. «Certamente, vi attende già con impazienza,

navigatori.» Quando si aprì la porta del mezzo blindato, un olezzo intollerabile di escrementi di

bestiame penetrò all'interno. Prima di scendere, Wasra attese che si raccogliesse la scorta che doveva accompagnarli. Quando pose il piede per terra e, dunque, quando realmente mise per la prima volta il piede sul pianeta, gli sembrò che gli sguardi lan-ciati dagli uomini e dalle donne ammassati sul posto gli entrassero nella carne. Evitò di guardare attorno a sé. Stribat andò a mettersi al suo fianco; l'anziano lo imitò e, con un cenno del capo, il comandante ingiunse alla scorta di mettersi in marcia. Supera-rono il portone. Tutt'intorno regnava un silenzio innaturale alimentato dalla paura. Wasra ebbe l'impressione di intendere qualcuno nella folla sussurrare all'orecchio del vicino che loro non somigliavano affatto ai navigatori imperiali. Gli anziani della Gilda potevano essere duri di comprendonio e rifiutare, fino allo spasimo, di vedere la verità in faccia, ma la gente del popolo intuiva sempre con un'acutezza estrema ciò che avveniva e ciò che la loro comparsa significava. Dietro il portone, c'era una pic-cola corte. Probabilmente si chiamava anche qui Corte della conta, pensò Wasra, scorgendo il carro blindato che alcuni uomini stavano scaricando. Facevano uscire i tappeti gli uni dopo gli altri e li ammucchiavano dinanzi a un uomo che portava la tu-ta di maestro della Gilda e che, dandosi grandi arie, comparava molto precisamente ogni lavoro con le descrizioni iscritte sui moduli di carico. Gettò solo uno sguardo ra-pido e sdegnoso alla squadra che si avvicinava. Improvvisamente, notò la presenza di Lenteiman; allora si affrettò a fare un profondo inchino, imitato dagli aiutanti. Solo il mercante, un uomo massiccio che seguiva tutta la procedura con lo sguardo spento, non si mosse.

Allo spettacolo della pila di tappeti che arrivavano circa all'altezza di un ginocchio, Wasra rabbrividì. La vista di un solo tappeto era già opprimente, se si sapeva come era stato prodotto. Un tessitore vi aveva lavorato tutta la vita, utilizzando esclusiva-mente i capelli delle mogli; aveva trascorso la giovinezza nell'elaborare il tessuto por-tante e a scegliere i motivi che avrebbe cercato di realizzare per il resto dell'esistenza; cominciava a tessere le linee fondamentali, del colore dei capelli della prima moglie e, in seguito, quando aveva figlie o concubine, egli completava tutte le diverse sfuma-ture; alla fine, con la schiena incurvata, le dita irrigidite dall'età e gli occhi quasi cie-chi, terminava l'orlatura del tappeto con il crine arricciato che prelevava dalle ascelle delle mogli…

Un solo tappeto era già una visione che richiedeva rispetto. Una pila intera, era una mostruosità. Passarono un'altra porta ed emersero su un corridoio scuro e breve, così ampio che somigliava a una piccola sala. I soldati della scorta si guardarono attorno

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con sospetto, e Wasra notò il loro atteggiamento con soddisfazione. Raggiunsero la corte interna e compresero, allora, la ragione del passaggio così

buio: nella corte, erano ammucchiate delle montagne di tappeti. Sebbene Wasra si fosse aspettato un simile spettacolo, gli mancò il respiro. I tappe-

ti erano ammassati in torri accuratamente ordinate, strato dopo strato; erano messe le une presso le altre, da un angolo della corte al successivo. Tre anni di sfruttamento del pianeta. Era meglio non pensarci, se non si voleva perdere la ragione.

Si avvicinò a una delle torri e provò a contare. Ci dovevano essere almeno duecen-to tappeti. Considerò le dimensioni della corte e s'ingegnò in un breve calcolo. Cin-quantamila tappeti. Sentì la nausea invaderlo e il panico minacciò di sommergerlo.

«Il più anziano?» chiese al dignitario con voce più ferma e più minacciosa del vo-luto. «Dove possiamo trovarlo?»

«Seguimi, navigatore.» Con un'agilità stupefacente, Lenteiman s'infilò nello spazio lasciato libero tra le

torri di tappeti e la parete. Wasra fece un segno alla scorta e tutti seguirono l'anziano. Sentiva il sordo desiderio, difficilmente controllabile, di colpire tutto ciò che aveva attorno, di rovesciare le montagne di tappeti, picchiare il dignitario. Follia, quale fol-lia! Avevano combattuto e vinto, avevano fatto a pezzi tutto ciò che poteva rimanere dell'Impero e, tuttavia, non c'era una fine, continuava ancora. A ogni passo che face-va, da qualche parte nella galassia, un tappeto veniva tolto dal telaio, come prima. Da qualche parte, ogni volta che respirava, si uccideva un bambino, perché un tessitore aveva diritto a un figlio solo. Da qualche parte, su uno dei numerosi pianeti che non avevano ancora visitato o anche su uno di quelli che avevano già visitato, ma in cui non erano stati creduti. Sembrava impossibile fermare l'inondazione di tappeti.

Più avanzavano, più l'odore che emanavano si trasformava in un olezzo pesante e rancido che somigliava al grasso marcito e ai rifiuti in fermentazione. Wasra sapeva che non erano i capelli che puzzavano così, ma le soluzioni con cui i tessitori impre-gnavano i tappeti perché si conservassero molto a lungo. Infine, raggiunsero un am-pio e buio varco nella parete. Una scala di alcuni gradini sembrava condurre al piano superiore. Lenteiman fece loro comprendere di non fare rumore e precedette rispetto-samente il cammino, come se penetrasse in un luogo santo.

La sala nella quale li condusse era vasta e scura, unicamente illuminata dalle braci rosseggianti di un fuoco che si consumava in un bacino metallico in mezzo alla stan-za. Il soffitto poco elevato li costringeva a mantenere la testa chinata in segno di u-miltà, mentre il calore opprimente e il fumo acre li faceva sudare sulla fronte. Wasra cercò nervosamente con le dita l'arma che portava alla cintura, per verificare che ci fosse ancora.

Lenteiman si chinò verso il fuoco che bruciava debolmente. «Venerabile, è Len-teiman che vi saluta. Vi porto il comandante dell'astronave imperiale, desidera parlar-vi.»

A queste parole, intesero un ronzio e un movimento indistinto vicino al fuoco.» So-lo allora, Wasra osservò vicino al treppiede di metallo una sorta di branda che ricor-dava la culla di un bambino e, tra le coperte e le pelli, apparve il cranio e il braccio teso di un uomo senza età. Quando aprì gli occhi, nel riflesso delle braci, Wasra vide risplendere due pupille cieche e argentine.

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«Quale raro onore…» bisbigliò il vecchio. La voce risultava sommessa e lontana, come se si rivolgesse a loro da un altro mondo. «Salve, navigatori imperiali. Il mio nome è Ouam. Vi attendevamo da tempo.»

Wasra scambiò con Stribat uno sguardo turbato. Decise di non perdere tempo, di non spiegare all'anziano della Gilda che non erano in alcun modo degli imperiali, ma dei ribelli. In ogni caso, non finché non avrebbero compiuto la loro missione. Si schiarì la voce.

«Salve, riverente Ouam. Mi chiamo Wasra. Ho chiesto di parlarvi poiché ho una domanda importante da porvi.»

Ouam sembrava fare maggiormente attenzione all'intonazione della voce straniera che al significato delle parole. «Chiedi.»

«Sono alla ricerca di un uomo chiamato Nillian. Vorrei sapere se qualcuno che ri-sponde a questo nome è stato condannato o impiccato per eresia negli ultimi tre an-ni.»

«Nillian?» Riflettendo, l'anziano oscillò delicatamente il cranio grinzoso. «Bisogna che consulto i registri. Dinio?»

Wasra avrebbe voluto sapere come questo vecchio cieco avrebbe potuto esaminare un libro. Fu allora che un altro viso emerse dall'ombra delle coperte. Era quello di un giovane ragazzo. Misurò gli ospiti con sguardo freddo e poco gradevole; quindi si te-se verso il vecchio uomo che gli mormorò qualcosa all'orecchio. Assentì frettolosa-mente, quasi come un cane, si protese e scomparì in una porta, da qualche parte, in fondo alla sala.

Ritornò immediatamente, con un grande volume sotto il braccio. S'inginocchiò per terra a fianco del fuoco per studiare il registro. L'occupazione gli prese solo alcuni istanti. Si inchinò nuovamente sopra lo strato di coperte e pelli, quindi scambiò a bas-sa voce alcune parole con il vecchio uomo. Ouam fece un sorriso spettrale, il sorriso di un teschio.

«Questo nome non è segnato nei nostri registri» disse allora. «Il nome completo è Nillian Jegetar Cuain» insisté Wasra. «Forse, è registrato sot-

to un altro nome.» Il vecchio più anziano della Gilda alzò le sopracciglia. «Tre nomi?» «Sì.» «Un uomo bizzarro. Mi ricorderei di lui.» «Dinio?» Il ragazzo consultò un'altra volta le note. Quando tornò a mormorare tra le coperte

della branda, aveva qualcosa in più da proferire. «Anche gli altri due nomi non sono stati registrati» spiegò Ouam. «Negli ultimi tre

anni, c'è stata in tutto e per tutto una sola esecuzione per sacrilegio.» «Qual era il nome di quest'uomo?» «Era una donna.» Wasra rifletté. «Quando s'impicca qualcuno per sacrilegio o per eresia in un'altra

città del pianeta, ne siete informati?» «A volte. Non sempre.» «E che ne è delle vostre carceri? Avete prigionieri?» Ouam fece un cenno affermativo. «Sì, l'abbiamo»

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«Un uomo?» «Sì.» «Voglio vederlo» chiese Wasra. Avrebbe preferito aggiungere che era pronto a ri-

durre tutto il palazzo in cenere per ottenere ciò che voleva. Ma le minacce non furono necessarie. Ouam assentì e disse: «Dinio vi condurrà.»

Le carceri erano situate nella parte più isolata del palazzo. Scesero le sinistre e strette scale, mentre Dinio tratteneva sul petto il registro delle esecuzioni e degli arre-sti come un tesoro. Sulle pareti si sbriciolava un rivestimento coperto di macchie bru-ne e più entravano negli scantinati e più le zaffate di urina, di putrefazione e di malat-tia si facevano forti. A un certo momento, il ragazzo prese una torcia e la infiammò. Stribat aveva già acceso la lampada che teneva dinanzi al petto. Raggiunsero final-mente una prima grande griglia sorvegliata da un carceriere livido e gonfio. Li osser-vò con lo sguardo spento e, se questa visita di gruppo lo sorprese, non lasciò traspari-re nulla. Dinio gli ordinò di lasciarli accedere alle carceri e Wasra mise due soldati della scorta a montare la guardia vicino alla griglia aperta. Penetrarono in un corri-doio scuro, illuminato dalle sole torce che bruciavano all'entrata. Da una parte e dal-l'altra, le porte che davano sulle celle erano aperte. Stribat avvicinò la sua lampada. In ogni cella era appesa una grande fotografia a colori dell'Imperatore. I prigionieri era-no incatenati alla parete opposta, tanto da mettere il ritratto fuori portata, e si rifiutava loro anche la grazia dell'oscurità: le griglie dei condotti d'aerazione lasciavano passa-re nella cella appena la luce necessaria affinché i prigionieri non potessero fare altro che vedere in modo permanente l'immagine dell'Imperatore. Dinio e il grasso carce-riere, il cui odore era più fetido di quello della paglia marcia che copriva il suolo, si erano fermati dinanzi alla sola cella occupata. Stribat avvicinò la sua lampada alla fi-nestrella della porta. Videro, raggomitolata al suolo, una sagoma scura, i capelli lun-ghi, le braccia incatenate alla parete.

«Aprite» ordinò Wasra, furibondo. «E liberatelo.» Quando la chiave girò nella serratura, l'uomo si svegliò. La porta venne aperta ed

era seduto. Li osservò senza dire una parola. I capelli gli splendevano come argento e al lucore della lampada risultò che il prigioniero era troppo vecchio per essere Nil-lian. «Liberatelo» ripeté Wasra.

Il carceriere esitò. Solo quando Dinio assentì, tirò fuori la chiave e rimosse le ma-nette dal vecchio uomo.

«Chi siete?» chiese Wasra. L'uomo lo osservò. Nonostante la miseria in cui giace-va, irradiava una dignità e una calma pacifica. Gli occorsero alcuni tentativi per riu-scire a pronunciare una parola; secondo l'evidenza, erano anni che non aveva più par-lato.

«Mi chiamo Opur» disse. «Una volta, ero un flautista.» A queste parole, si osservò tristemente le mani che somigliavano a grotteschi tron-

coni. Dovevano avergli rotto tutte le dita e, in mancanza di trattamento medico, le fratture si erano risaldate.

«Che cos'ha fatto?» volle sapere Wasra rivolgendosi al carceriere. Quest'ultimo lo osservò con l'aria ebete e il giovane ragazzo, con la voce sprezzan-

te e fredda, rispose in sua vece: «Egli ha nascosto un disertore.» «Un disertore?»

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«Un navigatore imperiale. Un magazziniere della Kara, l'ultima astronave che sia atterrata qui da noi.»

Doveva essere l'astronave che avevano inseguito, tre anni prima. «Che cosa è ac-caduto al disertore?» Dinio restò di marmo.

«È sempre in fuga.» Wasra osservò il giovane ragazzo per un istante, chiedendosi quale ruolo poteva ri-

vestire. Quindi, decise che ciò non lo interessava affatto e si girò verso il prigioniero. Mentre Stribat lo aiutò ad alzarsi, affermò: «Siete libero.»

«No, non lo è!» protestò Dinio furibondo. «È libero!» ripeté Wasra in tono tagliente e lanciò al ragazzo un'occhiata talmente

minacciosa che quest'ultimo arretrò. «Ancora una parola e ti sbatto in ginocchio come un pidocchio e ti schiaccio la testa.»

Mise Opur sotto la guardia di due uomini della scorta e ordinò loro di condurlo al-l'astronave perché se ne occupassero e lo conducessero dove meglio avesse creduto. Nel caso in cui non si sentisse al sicuro sul pianeta, Wasra era deciso a portarlo con sé fino al prossimo mondo di tessitori in cui avrebbero fatto scalo.

Sbuffando irato, Dinio osservò i soldati e il flautista allontanarsi, ma non osò più dire nulla. Non cessò di passare il registro da un braccio all'altro, come se non sapesse fare altro; per finire, lo premette contro il petto come uno schermo protettivo. Così facendo, qualcosa di piccolo e bianco sfuggì dalle pagine e scivolò delicatamente a terra.

Wasra lo vide e lo raccolse. Era una piccola fotografia dell'Imperatore. Dell'Impe-ratore morto.

Sbalordito, il comandante osservò la fotografia. Conosceva quell'immagine. Ne a-veva esattamente una uguale in tasca. Tutti i membri della flotta ribelle avevano con loro una fotografia dell'Imperatore defunto, nel caso in cui si trovassero nella situa-zione di dover provare che l'Imperatore fosse stato realmente destituito e fosse morto.

«Dove l'hai trovata?» chiese al ragazzo. Dinio fece l'espressione più cocciuta di cui era capace e serrandosi il libro al corpo tacque.

«Doveva appartenere a Nillian» disse Wasra rivolgendosi a Stribat; mise il lato bianco della fotografia sotto la luce della lampada che Stribat portava appesa al collo. «Davvero. Vedi?»

L'iscrizione si era attenuata, quasi cancellata; era così debole che la si vedeva ap-pena, ma, con un po' d'immaginazione, si poteva, in un punto, riconoscere la sillaba M/7. Wasra fulminò Dinio con uno sguardo attraversato di lampi così feroci che a-vrebbe abbattuto alberi o squarciato crani di bambini. «Dove hai trovato l'immagi-ne?»

Dinio inghiottì saliva e finì per mugugnare: «Non lo so, appartiene a Ouam.» «Non mi farai credere che Ouam l'abbia riportata da una passeggiata!» «Non so dove l'ha trovata!» Wasra e Stribat si scambiarono uno sguardo e per un istante fu quasi come nel pas-

sato, quando ciascuno sapeva ciò che l'altro pensava.» «M'interessa sapere ciò che Ouam avrà da raccontarci al proposito.» Sulla via del ritorno, intesero rumori perturbanti risuonare nei corridoi scuri dei

sotterranei della Gilda e istintivamente aumentarono il passo. Quando, questa volta

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frettolosamente e neppure con riverenza, salirono le scale che conducevano agli ap-partamenti dell'anziano, il fumo e la luce crepuscolare erano scomparsi. L'aria era ormai pura e la luce splendente. La sala era come trasformata. Un uomo passava len-tamente da una finestra all'altra e apriva le ante. Ogni volta, nuove cascate di luce l'abbagliavano e l'inondavano. Con le finestre aperte, si scorgevano i tappeti all'ester-no, come altrettante onde che s'infrangevano sui parapetti.

Il fuoco del treppiede di metallo si era estinto e Ouam era disteso sulla branda. Era morto, gli occhi chiusi, le mani scarne unite sul petto. La branda era più piccola di quanto si ricordasse Wasra e, tuttavia, il cadavere osseo e senza età dell'anziano sem-brava appena più grande del corpo di un bambino. Dietro i due piloti, gli anziani della Gilda salirono le scale trascinando i piedi. Passarono a fianco dei due stranieri con indifferenza, s'inginocchiarono attorno alla branda del defunto e, con la voce contenu-ta, intonarono i lamenti. All'esterno si alzò l'eco di altri lamenti che, con le finestre aperte, vennero a mescolarsi ai primi e si diffusero in tutto il palazzo, in tutta la città. L'uomo che aveva aperto le ante delle finestre, dissipando il fumo e l'olezzo accumu-lati durante i numerosi anni, aggiunse anche i suoi lamenti e offrì ai ribelli lo spetta-colo di un uomo capace di saltare, di palo in frasca, da un'operosa attività al dispiace-re più inconsolabile.

Ci furono passi precipitosi, affannati, sulle scale. Wasra si voltò con un movimento brusco. Era Dinio. Corse nella sala, preso dalla disperazione. Senza osservare a sini-stra né a destra, si protese verso la branda del morto, si gettò per terra e scoppiò in singhiozzi amari. In questo luogo, erano i soli gemiti che sembravano autentici.

Wasra osservò una volta ancora la fotografia che teneva in mano, quindi la rimise in tasca. Scambiò uno sguardo con Stribat e, nuovamente, si compresero senza avere bisogno di parlare.

Quando si trovarono di fronte al palazzo della Gilda, il sole stava tramontando, ro-vente come metallo fuso. In questa luce, i due veicoli blindati sulla piazza scintillava-no come pietre preziose. I salmi rituali del maestro della Gilda, cantati con voce pia-gnucolante e lamentosa, conferivano alla scena un aspetto onirico.

«È la fotografia di Nillian, non è vero?» chiese Stribat. «Sì.» «Vuole dire che è stato qui.» Wasra osservò i mercanti che chiudevano le loro botteghe in vista della notte e get-

tavano, di tanto in tanto, sguardi pensierosi in direzione del palazzo del Gilda. «Non so se possiamo darlo per scontato.»

«Forse è sopravvissuto, ha incontrato una ragazza carina e, da allora, vive felice da qualche parte su questo pianeta» proseguì Stribat riflettendo ad alta voce.

«Sì, forse.» «Tre anni… Ha avuto il tempo di avere due bambini, nel frattempo. Chissà? Forse,

ha iniziato pure lui a tessere un tappeto.» È morto, pensò Wasra, non illuderti. Lo hanno ucciso e sotterrato perché ha detto

qualcosa contro l'Imperatore. L'Imperatore immortale. Maledizione! Erano state ne-cessarie solo ventiquattr'ore per farlo cadere, ma da vent'anni, ogni giorno, dovevano riprendere il combattimento come se nulla fosse accaduto.

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«La navicella d'atterraggio!» esclamò Stribat tirandogli con eccitazione il braccio. «Wasra! Dov'è finita la navicella?»

«Quale navicella?» «Nillian dev'essere atterrato a bordo di una navicella. E possiamo trovarne le trac-

ce!» «Le hanno già trovate, nel corso delle prime ricerche» obiettò Wasra. «Sono stati

inviati informatori segreti che hanno raccolto notizie. Nillian era stato imprigionato per eresia e un mercante lo aveva preso per portarlo alla Città Portuale. Allora, si so-no fatte ricerche in città, ma Nillian non è mai arrivato.» Wasra aveva studiato i rap-porti dell'epoca. Erano piuttosto brevi e non erano stati fatti con molta cura. Scoprire la posizione della città nei cui pressi era atterrato Nillian aveva già richiesto sforzi considerevoli… Osservarono i tappeti come una piacevole curiosità e, per il resto, ciascuno non vedeva l'ora di prendere il cammino del ritorno. Tutti concordavano nel dire: aveva ricevuto l'ordine di non atterrare, ha fatto di testa sua. Ha quello che si merita.

«Non sarebbe stato utile farci accompagnare dal membro dell'equipaggio di Nil-lian?»

«Certo» fece Wasra. Sentì un'onda d'esaurimento pervadergli il corpo. Sapeva che era un fenomeno puramente fisico. Non finirà mai. Nulla ha fine. «È morto. Faceva parte dei volontari che hanno lanciato il primo attacco alla stazione di sbarramento e uno dei loro robot volanti da combattimento lo ha beccato.»

Stribat emise un suono inarticolato che avrebbe dovuto esprimere qualcosa di simi-le all'ammirazione. «Com'è possibile che un pilota KALYT arrivi ad arruolarsi volonta-riamente per una missione di guerra?» Poiché Wasra non rispondeva, continuò a mu-gugnare per qualche istante, lo faceva a volte quando rifletteva. «E come mai il gene-rale ha accettato di arruolarlo?»

Wasra non prestò attenzione al borbottio. Perso nei pensieri, immaginava la fuso-liera imponente della SALKANTAR che s'innalzava per allontanarsi nel cielo; la massa scura contro il sole del tramonto, mentre la scintillante linea argentata ne tracciava il contorno. Tutte le astronavi interstellari appartenevano allo spazio. Ferme sulla su-perficie di un pianeta, avevano l'aria di un corpo estraneo.

Tuttavia, pensò il comandante avvinto dal cattivo umore, la SALKANTAR sarebbe rimasta ancora a lungo inchiodata a terra. Il generale Karswant non ripartirà per il Mondo Centrale prima che lui, Wasra, non gli abbia trovato qualche informazione sulla sorte di Nillian. Finché il generale non avesse consegnato una relazione alla Consulta dei ribelli, quest'ultimo non poteva decidere ciò che occorreva fare. E finché non fosse stata presa una decisione, la marea di tappeti avrebbe continuato a infligge-re ovunque la visione oscena di se stessa.

Stribat ebbe un presentimento e chiese: «Vuole dire che dovremo frugare tutto il pianeta?»

«Hai un'idea migliore?» «No, ma come possiamo giustificare un impegno di tali proporzioni? Se Nillian

fosse ancora vivo, sarebbe restato nella Città Portuale. È qui che potrebbe contattare le astronavi. Ma se è morto, allora non sarà la sola vittima della spedizione.»

«Ha scoperto il fenomeno dei tappeti di capelli.»

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«Sì, e dopo?» Stribat guardò con la coda dell'occhio il viso del comandante, come per essere sicuro di poter correre il rischio di chiedergli ciò che aveva in mente. «Non vorrei ferire il tuo orgoglio, Wasra, ma è possibile che le ragioni del generale Kar-swant non siano tanto nobili come vuole farci credere»

Wasra tese l'orecchio. «Cosa vuoi dire?» «Forse, vuole fare un favore a un membro ben preciso della Consulta.» «A un membro ben preciso della Consulta?» «A Berenko Kebar Jubad.» Wasra osservò attentamente il compagno, mentre tentava di comprendere ciò che

gli stava dicendo. Fu Jubad che, nel corso dell'attacco al Palazzo delle Stelle, aveva affrontato l'Imperatore e lo aveva ucciso in duello. Da allora godeva di una fama qua-si leggendaria.

«Che relazione c'è con Jubad?» «Il padre di Jubad si chiamava Uban Jegetar Berenko…» disse lentamente Stribat. Wasra esitò, come colpito da uno schiaffo. La mascella gli si abbassò per lo stupo-

re. «Jegetar!» ripeté affaticato. «Nillian Jegetar Cuain. Nillian e Jubad sono paren-ti…»

«Ne hanno tutta l'aria.» «E tu pensi che sia per questo che Karswant attende…» Stribat si accontentò di alzare le spalle. Wasra sollevò il capo e fissò il cielo che si oscurava. Allo zenit apparivano le prime stelle. Le stelle che appartennero all'Imperatore.

Non c'era alcuna fine. L'Imperatore era morto? O stava già trafficando per trasforma-re i suoi oppositori nel prossimo Imperatore?

«Torniamo all'astronave» disse di colpo. Ebbe bruscamente la sensazione di non poter rimanere un secondo di più, di non potere restare proprio in quel luogo, di fron-te al portone della Corte della conta. «Immediatamente.»

Stribat fece un breve segno ai soldati della scorta; i motori dei due veicoli blindati si avviarono con un rombo sordo e straziante. Gli animali da soma, distesi gli uni vi-cino agli altri per riposare, alzarono la testa e guardarono nella loro direzione.

Quando si mossero, tutti coloro che si trovavano sulla piazza lasciarono libero il passaggio. Seguirono la pista del terzo veicolo che aveva già raggiunto l'astronave con l'uomo liberato dal carcere. Il maestro di flauto. Wasra cercò di comprendere il significato della situazione. Poi, quando le vibrazioni dei sedili si propagarono al suo corpo, si ricordò della sensazione che aveva provato entrando nella città. La sensa-zione di forza e di superiorità che gli aveva dato piacere. Il potere e le sue tentazio-ni… Sembrava che non potessero trarre nessuna lezione dal passato, anche dopo i duecentocinquantamila anni dell'Impero.

Si chinò e afferrò il microfono dell'unità di comunicazione. Quando stabilì il con-tatto con la radio di servizio, a bordo della SALKANTAR, ordinò: «Inviate un messag-gio alla TRIKOOD, all'attenzione del generale Jerom Karswant. Testo: Nillian Jegetar Cuain è morto, è quasi certo. Tutti gli indizi fanno pensare che sia stato vittima di un atto di giustizia sommaria, causato da motivi religiosi. Buon ritorno e salutatemi il Mondo Centrale. Firmato, comandante Wasra, e così via.»

«Lo invio immediatamente?» chiese l'operatore alla radiotrasmittente.

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«Sì, ora.» Quando si accomodò nella poltrona, ebbe la sensazione di avere fatto solo di testa

sua, di essersi mostrato indocile, e non era una sensazione sgradevole.» Assomigliava a una sorta di gelido fuoco che gli scorreva nelle vene. L'indomani, avrebbe inviato in tutta la città una squadra d'informazione per spiegare al popolo che cosa era successo nella galassia. E per fargli capire che l'Imperatore era morto. Cielo! Era tanto impa-ziente di raggiungere il prossimo maledetto pianeta e sbattere la verità in faccia ai suoi abitanti!

Notò che Stribat lo osservava con la coda dell'occhio, con un sorriso che si gli insi-nuava appena sulle labbra. Forse, Nillian sarebbe riapparso un giorno, chi poteva sa-perlo? Attualmente, contava che Karswant riprendesse la via del ritorno per il Mondo Centrale. Per presentare il rapporto alla Consulta. Bisognava che le cose si rimettes-sero in marcia. Se un giorno gli avessero ritirato il grado di comandante, non avrebbe cambiato idea: aveva agito come riteneva fosse giusto fare. Wasra sorrise e il sorriso era quello di un uomo libero.

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La vendetta eterna

Nel cielo splendevano sette lune. La notte era chiara e libera dalle nuvole; la volta celeste si curvava come un nero e bluastro cristallo sopra l'irreale paesaggio.

Come immaginare che in passato questo intero mondo non aveva avuto altro scopo che servire allo svago e alla distrazione di un solo uomo? Eccetto i dispositivi di dife-sa e le carceri sotterranee, naturalmente. Spesso, la sera, Lanuta si tratteneva sul pic-colo balcone della stanza e provava a comprendere. Al di là delle pareti del palazzo, il mare si estendeva a perdita d'occhio, calmo e argentato nel chiarore delle lune. Le colline morbide e boscose offrivano le loro soffici forme all'orizzonte, un orizzonte così lontano che, di notte, non si poteva individuare la linea che separava la terra dal-l'acqua. L'intero pianeta formava un parco costellato di opere d'arte. Lanuta sapeva che, oltre all'immenso palazzo, c'erano una miriade di corti di campagna e di castelli dalle dimensioni più modeste in cui l'Imperatore si dedicava ai suoi piaceri.

Ma tutto ciò già da tempo faceva parte del passato. Ormai la Consulta dei ribelli si riuniva nella grande sala del trono e gli innumerevoli collaboratori del governo prov-visorio popolavano il gigantesco Palazzo delle Stelle. La scelta di collocare la sede del governo sull'antico Mondo Centrale era lungi da ricevere l'unanimità dei consensi. Si sospettava che, nell'ambiente paradisiaco, i membri fossero troppo distanti dai veri problemi della popolazione degli altri mondi per poter prendere decisioni adeguate. Ma le ragioni che avevano spinto la Consulta provvisoria a mantenersi temporanea-mente qui erano d'ordine pratico: infatti, era proprio in quel luogo che convergevano tutte le installazioni degli apparati di comunicazione.

Risuonò un'armoniosa nota emessa da una campana. Era la comunicazione a lunga distanza che stava attendendo. Lamita lasciò precipitosamente il balcone e si diresse verso l'apparecchio multifunzionale vicino al letto. Sullo schermo, venne visualizzato il simbolo della rete intergalattica.

«Comunicazione stabilita con Itkatan» la informò una voce melodiosa, ma ovvia-mente artificiale. «Siete in collegamento con Pheera Dor Terget.»

Attivò il tasto appropriato. «Ciao, mamma. Sono Lamita.» Lo schermo restò scuro. Ancora una volta, la comunicazione visiva non era possibile. Ultimamente, sembrava che le comunicazioni faccia a faccia fossero possibili solo con le altre galassie.

«Lamita, tesoro!» La voce della madre aveva un timbro metallico sgradevole. «Come stai?»

«Come vuoi che vada, da queste parti? Bene, naturalmente.» «Ah, certo. Dimenticavo la vostra isola della gioia. Da noi, si è già felici quando

funziona la fornitura dell'acqua e cessano i combattimenti nel settore Nord. Forse, fi-niranno per eliminarsi l'un con l'altro. Non sarebbe mai troppo tardi e non sarebbe davvero un dramma.»

«Novità di papà?»

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«Sta bene. È arrivata una nuova scorta di medicine e il suo stato si è stabilizzato. Se avesse cinque anni di meno, si potrebbe operare. Lo ha detto recentemente il me-dico. Benché le cose vadano come dovrebbero andare…» Fece un sospiro; un sospiro che percorse oltre trentamila anni luce. «Parlami di te, bambina. Che c'è di nuovo?» Lamita alzò le spalle. «Domani sono invitata a una grande seduta della Consulta. Par-teciperò come osservatrice. Il comandante della spedizione di Gheera è ritornato e presenterà una relazione.»

«Gheera? Non è quella provincia dell'Impero di cui non si sapeva neppure che esi-stesse?»

«Sì. È scomparsa per ottantamila anni e gli uomini di laggiù, durante tutto questo tempo, non hanno fatto altro che fabbricare tappeti con i capelli delle donne» disse Lamita, e aggiunse con tono sarcastico: «Indipendentemente dalle altre abitudini sco-nosciute che la spedizione avrà scoperto, da me si attenderà una spiegazione plausibi-le di tutto.»

«Non lavori più con Rhuna?» «Rhuna è stata nominata nuovo governatore di Lukdaria. È partita ieri. Ora, sono la

sola responsabile degli archivi imperiali.» «Governatore?» L'invidia spuntò chiaramente nella voce della madre. «È incredibi-

le. Quando abbiamo attaccato il Palazzo Imperiale, aveva appena l'età di fare i prima passi. Oggi fa carriera.»

Lamita fece un profondo respiro. «Mamma, si potrebbe dire la stessa cosa di me. Allora, avevo quattro anni.» I vecchi ribelli sembravano trovarsi in difficoltà nell'ac-cettare l'idea che in futuro una generazione sarebbe succeduta all'altra, poiché l'Impe-ratore immortale non regnava più.

Poi ci fu un silenzio interstellare. Ogni secondo costava una piccola fortuna. «Sì, è proprio il corso naturale delle cose» sospirò finalmente la madre. «Allora, sei tutta sola nel tuo museo.»

«Non è un museo, è un archivio» la corresse Lamita. Intuiva la latente sottovaluta-zione che le parole della madre esprimevano e ciò la faceva arrabbiare, benché si fos-se promessa di non lasciarsi più provocare. «In ogni caso, è davvero ridicolo. Nell'ar-chivio sono conservati duecentocinquantamila anni di storia dell'Impero e ci sto da sola proprio nel mezzo. Tuttavia, in questi archivi, si potrebbero trovare le risposte a domande di cui non abbiamo neppure l'idea…»

La madre aveva la capacità di farla imbestialire, non ascoltando almeno la metà di ciò che le diceva. «E per il resto? Nella vita, sei sempre sola?»

«Mamma! Ancora la stessa solfa.» Sarebbe potuto trascorrere un altro milione di anni, prima che certi genitori cessassero di intrufolarsi nella vita dei figli.

«È solo una domanda…» «E conosci la mia risposta. Se un giorno dovessi attendere un bambino, ti terrò al

corrente. Ma fino a quel momento, le mie relazioni con gli uomini non ti riguardano. Hai compreso?»

«Piccola, non ho affatto l'intenzione di inserirmi nella tua vita; semplicemente, mi rassicurerebbe sapere che non sei sola e che…»

«Mamma? Non potresti cambiare argomento?» La Consulta provvisoria aveva invitato, in via eccezionale, numerosi osservatori ad

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assistere alla seduta. Era prevedibile, dato che si trattava della prima relazione riguar-dante il bilancio di una missione spettacolare condotta in una riscoperta provincia dell'Impero. La Consulta si riuniva nella vecchia sala del trono che aveva rappresen-tato il centro cerimoniale dell'Impero, che era di dimensioni e di un fasto da togliere il respiro. Dunque, l'afflusso degli osservatori non presentava alcun problema.

Lamita s'infilò tra due anziani membri della Consulta, alla ricerca del posto che gli avevano attribuito. Certamente in una fila del fondo, pensò. I frammenti di frasi rac-colte a! passaggio le offrivano una traccia dell'atmosfera che regnava nell'ambiente.

«… Attualmente, ci sono davvero altre preoccupazioni di cui interessarsi, piuttosto che di un oscuro culto praticato in una galassia dimenticata.»

«La considero come una manovra di Jubad e di Karswant per influenzare la Con-sulta e…»

Nelle ultime file non trovò alcun posto con il suo nome. Stringeva l'invito in mano. La mancanza di fiducia in se stessa, di fronte a tutti questi vecchi eroi della ribellione, la faceva arrabbiare.

Si spaventò, quando scoprì che la poltrona con l'etichetta del suo nome si trovava appena alle spalle del mezzo cerchio formato dalle tavole in cui la Consulta aveva preso posto. Sembrava realmente che ritenessero la sua opinione importante. Si sedet-te con discrezione e si guardò attorno. Al centro del mezzo cerchio, dinanzi all'appa-recchio di proiezione, c'era un grande tavolo. Di fronte, leggermente in diagonale, scoprì Borlid Ewo Kenneken con cui lavorava da qualche tempo alla faccenda di Gheera. Faceva parte della Consulta per l'amministrazione dell'eredità imperiale e degli archivi. In un certo qual modo, era il suo superiore gerarchico. Le fece un sorri-dente saluto e, ancora una volta, Lamita si accorse che lo sguardo dell'uomo faticava a staccarsi dalla contemplazione della sua figura. Un colpo di gong annunciò l'apertu-ra imminente della seduta. Lamita osservò affascinata il disco enorme. Era grande come una persona, riccamente ornato.

Un giorno, la sede del governo si sarebbe trasferita altrove e l'antico Palazzo Impe-riale sarebbe diventato un museo, il museo più affascinante dell'universo.

Dandosi un'occhiata attorno, scoprì la sagoma tozza di un generale in perfetta uni-forme che faceva l'entrata accompagnato da alcuni ufficiali. L'uomo aveva l'aria bur-bera e una incrollabile fiducia in sé. Doveva essere Jerom Karswant, colui che co-mandava la spedizione di Gheera. Pose una manciata di supporti magnetici sul tavoli-no a fianco dell'impianto di proiezione, li- ordinò con cura e poi si accomodò sulla poltrona.

Ci fu un secondo colpo di gong. Lamita notò che Borlid guardava nuovamente nel-la sua direzione. Si adirò per avere scelto un abito che le metteva in risalto i seni. Per fortuna, il presidente della Consulta provvisoria si alzò. Aprì la seduta e diede la pa-rola al generale Karswant, mentre Borlid rivolse loro l'attenzione.

Karswant si alzò. Il viso fiero, aveva lo sguardo sveglio e luminoso. «Voglio innanzitutto mostrarvi di cosa ci stiamo occupando» dichiarò facendo un

segno a due collaboratori. Questi raccolsero un lungo rotolo alto come un uomo, lo posero sulla tavola e lo aprirono con precauzione.

«Egregi consiglieri, signore e signori, ecco un tappeto di capelli!»

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Gli spettatori tesero il collo. «Sarebbe meglio che veniste tutti al tavolo per ammirare da vicino questa stupefa-

cente opera d'arte. Il tappeto è interamente tessuto di capelli umani e i nodi sono così incredibilmente fini e densi che la realizzazione di questo lavoro rappresenta il tempo di tutta una vita.»

I primi curiosi si alzarono esitando, passarono tra le file di sedie, si avvicinarono per esaminare il tappeto e toccarlo finalmente con le dita prudenti. Il resto dei presen-ti seguì il loro esempio, provocando un intenso rumore. In breve, la seduta fu colta da una confusa agitazione.

Quando Lamita riuscì ad accarezzare la superficie del tappeto, fu colta da un mera-vigliato rispetto. A prima vista somigliava a una pelliccia, ma al contatto si percepiva che le fibre erano più spesse e fitte. Capelli neri, biondi, marroni e rossi erano stati lavorati in una grande varietà di motivi geometrici. Nei rapporti delle esplorazioni spaziali, aveva visto riproduzioni fotografiche di tappeti di questo tipo, ma averne di-rettamente uno sotto gli occhi era un'esperienza emozionante. Si sentiva veramente l'intensità della passione e della concentrazione con cui la favolosa opera d'arte era stata creata. Improvvisamente, nella baraonda generale, Borlid si trovò come per caso al suo fianco. Il tappeto non sembrava interessarlo in modo particolare.

«Quando tutto sarà finito, potrò invitarti a cena?» sussurrò. Lamita respirò profondamente. «Borlid, sono spiacente. Per il momento non posso

darti una risposta, non sono dell'umore adatto.» «E dopo la seduta? Sarai dell'umore adatto?» «Non lo so. Non penso. Inoltre, sono certa che mi sentirei in colpa nell'accettare un

invito da parte tua. Perché so che ti faresti delle speranze sbagliate.» «Oh?» fece con finta sorpresa. «Mi sono espresso male? Non si trattava di una do-

manda di matrimonio, ma di una semplice cena.» «Borlid, per favore. Non ora!» lo redarguì, prima di tornare a sedere. Come poteva essere così sicuro di sé? Fino a quel momento, lo aveva considerato

un collega piacevole, ma quando credeva di essere irresistibile con le donne si svela-va del tutto meschino e grezzo. Sembrava non volere capire che lei non ne voleva sa-pere nulla di lui. Agli occhi di Lamita, si comportava in modo così infantile che a-vrebbe avuto l'impressione di approfittare di un bambino.

Poco a poco, il pubblico ritrovò la calma. Quando ciascuno ebbe ripreso posto, il generale proseguì la relazione.

Lamita lo ascoltò disattenta. Conosceva già la maggior parte di quanto diceva: il modo in cui i tappeti erano stati scoperti, i dettagli sul culto dei mondi di Gheera, le vie mercantili e le astronavi che prendevano i tappeti a bordo e li trasportavano verso una destinazione rimasta del tutto sconosciuta.

«Abbiamo potuto seguire le tracce dei tappeti fino a una grande stazione spaziale in orbita attorno a una doppia costellazione formata da una gigante rossa e da un buco nero. Secondo le nostre osservazioni, confermate successivamente, la stazione era in un certo qual modo una piattaforma di trasbordo. Ma quando ci siamo avvicinati sia-mo stati vittime di un attacco così violento e improvviso che, inizialmente, siamo stati obbligati a battere in ritirata.»

Naturalmente, secondo i criteri più comuni, Borlid era un uomo seducente. Secon-

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do quanto si raccontava, trascurava raramente l'occasione di offrirsi alle colleghe del settore amministrativo. Lamita sondò le proprie sensazioni interiori. Non era certa-mente per questo che lo respingeva. Era più per… la sua mancanza di maturità. Come uomo, lo trovava superficiale, acerbo, poco interessante.

«Non si deve dimenticare che, in quel momento, si trattava solo di una piccola flot-ta, composta in tutto da un incrociatore pesante, tre incrociatori leggeri e venticinque navicelle da esplorazione. Dunque, abbiamo atteso l'arrivo dell'unità di combattimen-to inviata dalla Consulta; quindi, abbiamo attaccato la stazione e l'abbiamo presa sot-to il nostro controllo. Le perdite furono relativamente basse. Si stabilì successivamen-te che il buco nero era in realtà l'accesso a un gigantesco tunnel dimensionale, abba-stanza grande da essere attraversato da un trasportatore dalle enormi dimensioni. È in questo tunnel che da decine di migliaia di anni finiscono i tappeti prodotti su Ghee-ra.»

Lamita sapeva bene che era graziosa, aveva un profilo raffinato, dei lunghi capelli biondi e delle gambe interminabili. Non c'era un uomo che non si girasse al suo pas-saggio. Non poteva dipendere dal suo aspetto, se era sola da così tanto tempo. Allora, si chiese cosa fosse che non andava in lei.

«Abbiamo catturato un trasportatore che usciva dal tunnel. Era carico di container vuoti. Probabilmente previsti per il trasporto dei tappeti. Dopo molte riflessioni e l'e-same meticoloso di tutti i dati, accompagnati da una unità da combattimento, ci siamo arrischiati nel tunnel. E abbiamo scoperto un sistema stellare di cui si era dimenticata l'esistenza. Poiché non era più dove, secondo le mappe stellari, avrebbe dovuto esse-re. Abbiamo trovato il pianeta Gheerh.»

Borlid passò nel dimenticatoio. C'era in gioco una storia da far venire la pelle d'o-ca. Si supponeva che Gheerh fosse stato precedentemente il centro di un grande re-gno, quello di Gheera, prima che le Flotte Imperiali lo conquistassero e lo annettesse-ro all'Impero. E, successivamente, per una ragione sconosciuta, fu isolato e dimenti-cato.

«Il sistema solare si trovava in una enorme bolla dimensionale alla quale si acce-deva solo tramite il tunnel in cui eravamo entrati. È stato il motivo per cui non ave-vamo trovato Gheerh alla posizione indicata dalle mappe. Fino a quel momento, ave-vamo creduto che il sistema fosse stato distrutto, ma di fatto era stato solo allontanato dal nostro universo tramite la bolla dimensionale. L'hanno, per così dire, isolato in un minuscolo universo creato per lo scopo e completamente sprovvisto di stelle, a ecce-zione del sole di Gheerh. La bolla era tenuta in funzione grazie a dispositivi installati sul pianeta più vicino al sole, cosa che permetteva loro di attingere direttamente le enormi quantità d'energia necessarie. Anche questi impianti erano sorvegliati da a-stronavi da combattimento estremamente mobili e armate che ci attaccarono appena passati nella bolla. Poiché ci tagliavano la strada del ritorno, abbiamo attaccato i ge-neratori che alimentavano la bolla e ne abbiamo distrutti un numero tanto alto che il sistema solare si è riconvertito nell'universo normale. È ritornato alla posizione ini-ziale e, con l'aiuto prestato dalle restanti unità di combattimento, siamo finalmente riusciti a neutralizzare le forze ostili e a conquistare il pianeta Gheerh.»

Karswant si fermò. Per la prima volta, sembrò cercare le parole adatte. «Nella mia vita ho già visto molte cose curiose e la maggior parte di quelli che mi

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conoscono dice che non mi lascio facilmente impressionare. Ma Gheerh…» L'immagine proiettata sullo schermo mostrava un pianeta avvolto da una grigia su-

perficie, sulla quale non c'erano quasi oceani. Solo le regioni polari presentavano del-le insignificanti zone colorate.

«Abbiamo trovato alcuni milioni di autoctoni che, alla meno peggio, riuscivano a sopravvivere in condizioni pietose e primitive. Abbiamo anche trovato circa centomi-la uomini che si credevano truppe dell'Imperatore e conducevano una guerra spietata di distruzione contro le popolazioni indigene. Procedevano passo dopo passo, ucci-dendo, incendiando e massacrando per fare avanzare la loro irresistibile linea di fron-tiera. Attualmente, appena un quarto della superficie del pianeta resta abitato dagli autoctoni e queste terre coprono principalmente le inospitali regioni situate ai poli.»

«Avete messo fine a quella crudele guerra?» chiese uno dei consiglieri con voce tonante.

«Naturalmente» rispose il generale. «Siamo riusciti a fermare un attacco che era appena stato lanciato.»

Un consigliere alzò la mano. «Generale, dicevate che nel corso degli anni gli autoctoni si sono trovati respinti su

un quarto della superficie totale del pianeta. Cosa ne è dei tre quarti rimasti?» Karswant abbassò la testa. «La superficie liberata dalle truppe rappresenta circa i

due terzi della terra ferma…» Si fermò nuovamente e si guardò lentamente attorno, come se attendesse che qual-

cuno nella sala gli venisse in aiuto. Finalmente, quando riprese la parola, la voce ave-va perso il timbro duro del militare. Fu come se parlasse solo Jerom Karswant, un es-sere umano.

«Riconosco di avere temuto questo momento. Come posso descrivere quello che ho visto? Darei tutto per saperlo. Come posso descriverlo, perché mi crediate? Non ho neppure creduto ai miei migliori comandanti, uomini a cui avrei affidato la vita senza la minima esitazione. Sono dovuto atterrare sul pianeta per rendermene conto di persona. E ciò che ho visto con i miei occhi, non lo volevo ancora credere…»

Fece un gesto indefinito con la mano. «Durante tutto il viaggio di ritorno, siamo restati seduti insieme a rimasticare ogni dettaglio, ancora e ancora, ma non siamo ar-rivati ad alcuna conclusione. Nel caso che tutto ciò abbia un senso, gradirei che qual-cuno me lo rendesse noto. È la sola cosa che spero ancora di ricevere dalla vita. Una ragione che spieghi ciò che avviene sul pianeta Gheerh.» A queste parole, mise il proiettore in funzione e il film cominciò a scorrere.

«Ogni metro di terreno che le truppe imperiali avevano conquistato massacrando o cacciando gli autoctoni era immediatamente livellato e stabilmente consolidato da una squadra tecnica composta da circa cinquecentomila uomini. Quando le unità di combattimento riprendevano la loro progressione, la superficie conquistata veniva coperta di tappeti. Così, nel corso del millenni, i soldati imperiali hanno tappezzato con queste opere i due terzi della superficie totale del pianeta.»

Rompendo il silenzio prodotto dallo sbalordimento, uno dei consiglieri si raschiò la gola e chiese: «Siete in procinto di insinuare, generale, che tutti i tappeti sono stati fabbricati per coprire un pianeta!»

«Quando si sorvola Gheerh, è esattamente l'immagine che si offre allo sguardo.

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Ovunque, assolutamente ovunque, il pianeta è solo un'immensa superficie di tappeti cuciti gli uni agli altri, senza il minimo interstizio che lascerebbe trasparire il suolo originario. Dalle vaste pianure alle valli profonde, passando per le alte montagne fino alle coste, le colline e i pendii, tutto è coperto di tappeti.»

Affascinati, i presenti seguivano sullo schermo le immagini che confermavano le dichiarazioni del generale.

«Ma è completamente folle!» finì per esclamare qualcuno. «Quale senso può ave-re?» Karswant alzò le spalle, sapendo che non c'era risposta. «Lo ignoriamo. E non ci possiamo immaginare alcuna spiegazione.»

I partecipanti alla seduta si lanciarono in una discussione animata che il presidente della Consulta provvisoria interruppe con un gesto imperioso della mano. «Avete ra-gione, generale Karswant, mi risulta difficile credere a tutto questo» disse. «È senza alcun dubbio la cosa più incredibile che abbia mai sentito.» Tacque un momento. Gli si poteva leggere sul viso che aveva difficoltà nel conservare il filo di ciò che voleva dire. «In ogni caso, è impossibile recarci tutti su Gheera. Non è la curiosità che man-ca. Riconosco che la cosa lo richiederebbe. Dunque, cercheremo di credervi, genera-le.»

Tacque di nuovo e si guardò attorno con l'espressione stravolta, aveva l'aria scossa. Tutti in sala sembravano colpiti.

«Potremo trovare una plausibile spiegazione nell'analisi storica, qualsiasi essa sia.» Proseguì, cercando di riprendere, più o meno, il controllo della situazione. «Sono contento che oggi sia presente la nostra affascinante Lamita Terget Utmanasalen. È una delle migliori storiche che abbiamo ed è incaricata di amministrare gli archivi imperiali. Forse, sa più di noi?» Nel sentire il suo nome, Lamita si alzò e si girò da tutti i lati, nervosa per il fatto di trovarsi di colpo al centro dell'attenzione. «Sono spiacente di non poter dare risposte alle vostre domande» disse quando il presidente le fece un cenno. «Fino a oggi, non abbiamo trovato negli archivi il minimo indizio sui tappeti. Non vuole dire che non ce ne potrebbero essere, ma il sistema di classifi-cazione resta piuttosto enigmatico ai nostri occhi e la massa di documenti che copro-no tutto il periodo imperiale è davvero gigantesca…»

«Lamita, vi esento da tutti gli altri compiti» la interruppe il presidente. «Fino a nuovo ordine, occupatevi esclusivamente di questa faccenda.»

«Grazie» pensò irritata Lamita, mentre si sedeva. Sola. Con gli archivi. Dei colla-boratori, ecco ciò che avrebbe dovuto confermare…

«Le nostre riflessioni dovrebbero concentrarsi sul presente e sul futuro» proseguì immediatamente l'anziano consigliere. «Occorre informare la popolazione di Gheera, sradicare la fede nell'Imperatore e stabilire un nuovo ordine politico. Penso che pren-dendo esempio dalla nostra esperienza nelle province di Baquion e di Tempesh Kuta-raan potremmo riuscire a trasformare Gheera in una federazione indipendente che de-ve…» Lamita ascoltò distrattamente la discussione politica che seguì. La politica spicciola non la interessava. Le importavano solo i millenni, gli eventi e le evoluzioni storiche che facevano parte del passato. Esplorò mentalmente gli archivi, allettata per la millesima volta dall'idea di sondare il segreto della loro classificazione, ma non le venne nessuna nuova idea. La chiusura della seduta la rese felice.

Borlid la bloccò prima che potesse lasciare la sala. «Lamita, bisogna che ti parlo un

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momento.» Lei incrociò le braccia, trattenendo i dossier stretti contro i seni. «Ti ascolto.» «Sono settimane che mi eviti. Vorrei sapere il perché.» «Ti evito?» «Sì. Ti chiedo se vuoi cenare con me e tu…» Sbuffò. «Borlid, smettiamo di mentirci. Ti aspetti molto di più che una semplice

cena. E non lo voglio. Accettare il tuo invito sarebbe disonesto da parte mia. È pure faticoso.»

«Non mi dai neppure una possibilità?» «No. Sei un caso di vanità maschile ferita. È terribile!» «Allora, c'è un uomo nella tua vita?» «Se fosse il caso, Borlid, è affare mio e non ti riguarda affatto.».

Era coricata sulla schiena e fissava le decorazioni dipinte del soffitto sopra il letto. La brezza notturna faceva delicatamente muovere il ninnolo appeso nel vano della porta che dava sul balcone, facendogli produrre delle note delicate e nostalgiche. Il chiarore della luna proiettava le ombre del ninnolo sulla coperta del letto, il resto del-la camera era immerso nell'oscurità.

«Ho respinto il corteggiamento di uno degli uomini più seducenti del palazzo» dis-se ad alta voce. «Ora sono sola nel mio letto e non so cosa mi capiterà.»

Si udì una debole risata, quasi fosse distante diciassettemila anni luce. «Dal momento che l'hai respinto, non era abbastanza seducente, sorellina.» «Sì, è vero. Lo trovo infantile e superficiale.» «Hai appena detto che sarebbe uno degli uomini più seducenti…» «Be', molte donne lo trovano davvero attraente.» Si sentì una nuova risata. «Ho l'impressione, mia amata sorella, che tu continui a

credere nella necessità di diventare come tutti gli altri. In verità, bisogna diventare qualcosa d'altro e non essere come gli altri. Devi scoprire la tua singolarità. Sei nata fra i ribelli, ma ciò non vuole dire molto. La tua ribellione non si è ancora avverata.»

Lamita corrugò il naso provando ad approfondire il senso dell'osservazione. La so-rella maggiore adorava emettere sentenze misteriose e lasciare che i suoi interlocutori avessero la libertà di interpretarle.

«Sarna, cosa c'è in me che non va? Perché sono così sola?» si ostinò a chiedere Lamita.

«Cos'hai contro la solitudine?» «È noiosa. Insoddisfacente.» «Deprimente?» continuò imperterrita Sarna. «Anche questo» dovette riconoscere Lamita. «Da quanto tempo non sei stata con un uomo?» «Da tanto. Fu un'esperienza quasi irreale. Inoltre, fu orribile. Avevo l'impressione

di essere una bambinaia.» «Se è passato tanto tempo, ne sei già fuori. È dunque altrove che bisogna cercare.

Lamita, quale uomo nel tuo ambiente ti attrae?» «Nessuno» rispose Lamita come se sparasse con una pistola. «Rifletti ancora un poco.» Lamita passò rapidamente in rivista tutti gli uomini gio-

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vani e accettabili con cui aveva a che fare. «È subito detto. Davvero, non ce n'è uno.» «Questa non la mando giù. Secondo le mie esperienze, è impossibile. Anche solo

da un punto di vista strettamente ormonale.» Lamita dovette ammettere che l'espe-rienza della sorella in materia di uomini era immensa. L'aveva chiamata anche per questo motivo. «È impossibile, sono certa che ce n'è uno. Un uomo che ti attira e alla cui presenza ti bagni in mezzo alle cosce. Non lo vuoi riconoscere, è tutto. Forse, è sposato o molto brutto. In ogni caso, qualunque ne sia la ragione, l'hai cancellato dal-la tua coscienza. Ma egli è là. È per questo che nessun altro t'interessa.» Pausa. «Allo-ra, ti ho messa sulla via giusta?»

Persa nei pensieri, Lamita si allontanò alcuni capelli dalla fronte. Sì, la sorella ave-va messo il dito su un punto caldo. Sentiva nella memoria come una zona di resisten-za, una macchia, un muro che si era costruita da sola. Se per un istante avesse messo da parte tutti i tabu, allora sarebbe giunta alla… No. Era fuori questione. Cosa direb-bero di lei se…

Cosa direbbero gli altri. Ecco tutta la spiegazione. Era un comportamento stupefa-cente per una donna che si riteneva una ribelle, no? Si arrabbiò con se stessa, ma si sentì fiera di essersi messa in discussione.

«Effettivamente, c'è un uomo…» cominciò incerta. «Vedi, allora!» le rispose Sarna con la voce della soddisfazione in persona. «Ma non va. Non con lui.» «Perché no?» insisté la sorella senza dissimulare il piacere di avere colto nel segno. «È molto più vecchio di me.» «Dev'essere l'eredità familiare. Anche nostro padre non era proprio un pesce di

prima scelta quando ha incontrato mamma.» «Ed è un impenitente sostenitore dell'Imperatore.» «È la garanzia per animate discussioni!» commentò allegra Sarna. «C'è qualcos'al-

tro?» Lamita rifletté. «No» sbuffò con il tono di chi vuole chiudere una discussione. «Ma

non so davvero quello che dovrei fare.» «No?» disse divertita la sorella. «Invece scommetto che lo sai perfettamente.» Si sentiva pronta ad agire, per essere coraggiosa e non lasciarsi impressionare dagli

ostacoli. Conosceva questo stato d'animo e sapeva che occorreva approfittarne prima che si dissipasse.

Dormire era fuori discussione. Si cambiò rapidamente e chiamò gli archivi impe-riali. L'archivista ci mise poco tempo a rispondere.

«So che è tardi, ma avrebbe qualcosa in contrario se venissi in archivio questa se-ra?» chiese. Alzò appena un sopracciglio.

«Siete stata delegata dalla Consulta. Potete andare e venire quando vi pare.» «Sì» rispose Lamita nervosamente. «Volevo avvertire. Arrivo fra poco.» «Sì» disse Emparak l'archivista prima di chiudere la comunicazione. Quando arrivò, il portone degli archivi era aperto. Lamita restò alcuni istanti inde-

cisa nell'ingresso illuminato a giorno. Si guardò attorno. Tutto era deserto e abbando-nato, nessuno in vista. Scorse anche della luce proveniente dalla grande cupola. Andò nella sala centrale di lettura e depositò la cartella con i materiali di lavoro sulla tavola ovale, quella in cui precedentemente si era seduto lo stesso Imperatore. L'eco prodot-

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ta dai rumori risuonava e le rafforzava la sensazione di solitudine. Percorse uno dei corridoi radiali che partivano dalla sala e, da uno scaffale, prese

un vecchio libro di grande formato. Quando ritornò al tavolo, scoprì l'archivista. Co-me sempre, aspettava immobile nella penombra delle colonne dell'ingresso che con-duceva alla sala di lettura. Lamita pose lentamente il volume sulla tavola. «Spero di non disturbarvi» disse rompendo il silenzio.

«No» rispose Emparak. Lei esitò. «Dove abitate?» Non fece trasparire se la domanda lo avesse meravigliato o meno. «Ho un piccolo

appartamento nel sotterraneo.» Dalla voce l'archivista sembrava assente. Sapeva che aveva conosciuto l'Imperatore

e lavorato con lui. Fino ad allora, ogni volta che l'aveva contattato non le era sfuggita l'ostilità che esprimeva nei suoi confronti e in generale verso tutti coloro che avevano partecipato alla ribellione. Lo osservò. Era un uomo tozzo, poco più alto di lei, dai capelli spessi e argentati; la schiena era leggermente gobba, un fatto che lo costringe-va a tenersi curvo. La figura irraggiava una notevole dignità e una matura tranquillità. «Vivere qui deve offrire delle emozioni singolari» disse Lamita con l'aria pensierosa. «In mezzo alla storia, vasta decine di migliaia di anni…»

Notò che a queste parole Emparak trasalì. Lo osservò e, quando incrociò il suo sguardo, vi lesse la sorpresa.

«Al momento della caduta dell'Impero ero ancora una bambina di cinque o sei anni al massimo» proseguì. Per la prima volta, ebbe la sensazione che l'ascoltasse real-mente. «Sono cresciuta in un mondo che si trovava in radicale trasformazione. Vede-vo attorno a me le cose crollare ed è allora che ho iniziato a interessarmi del passato. A ciò che c'era prima. Certamente, è quello che ha motivato la mia scelta di studiare la storia. E durante tutti gli studi ho sognato di trovarmi un giorno qui, negli archivi imperiali. Gli scavi, le ricerche, gli studi sul campo, tutto ciò non mi ha mai attratta. Là fuori c'erano le domande, ma ero persuasa che le risposte si trovassero in questo posto. Non ero interessata a cercare, ero interessata a sapere.» Lo osservò. «E ora so-no qui.»

Aveva fatto un passo in avanti. Probabilmente senza accorgersi che così era uscito dall'ombra. La fissava attentamente, come se la vedesse per la prima volta, e Lanuta aspettò con pazienza.

«Perché mi dite tutto questo?» le chiese. La voce sembrava tormentata. Lamita gli si avvicinò prudentemente. Fece lentamente un profondo respiro e cercò

di sentire in se stessa il coraggio che poco prima l'aveva mossa. «Sono venuta a sco-prire quello che c'è tra noi» disse delicatamente.

«Tra… noi?» «Emparak, tra voi e me. C'è qualcosa. Una vibrazione. Un legame. Un campo elet-

trico. Lo sento e sono certa che lo sentite anche voi.» Gli stava di fronte e la tensione tra loro era aumentata. «Emparak, vi ho notato immediatamente. La prima volta che sono venuta qui, eravate vicino a queste colonne. È stato necessario aspettare fino a oggi perché lo riconoscessi, ma la vostra presenza solleva in me il desiderio; un desi-derio tanto forte quanto sconosciuto. Sono venuta per comprenderlo.»

Il respiro di Emparak si fece ansimante. Lo sguardo sconvolto sfuggiva a sinistra e

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a destra, cercava di trovare un appiglio per terra e sulle pareti, non osava più osser-varla se non di sbieco. «Vi prego, non scherzate con me.»

«Emparak, non scherzo.» «Siete una… una donna splendida, Lamita. Potete avere tutti gli uomini che desi-

derate. Per quale ragione vorreste darvi a uno storpio come me?» Improvvisamente, Lamita sentì il dolore dell'archivista come se fosse stato il suo.

Era un'emozione che sorgeva nella regione del cuore. «Non trovo che siate uno stor-pio. Vedo bene che la vostra schiena è un po' curva, ma cosa importa?»

«Sono uno storpio» insisté. «È pure un vecchio.» «Ma sempre un uomo.» Non disse nulla. Le voltava le spalle e fissava il pavimento di marmo. «Sono venuta qui perché mi diciate quello che provate» riprese Lamita a bassa vo-

ce. Dopotutto, forse, non era una buona idea. «Posso andarmene, se preferite.» Empa-rak mormorò qualcosa che non comprese, mentre lei tese la mano e gli toccò il brac-cio. «Volete che me ne vada?» chiese piena d'apprensione.

Girò la testa. «No, non andate via.» Continuava a non sapere dove posare lo sguar-do, ma la mano aveva improvvisamente afferrato quella della ragazza e la stringeva. Di colpo, una cascata di parole scaturì dalle sue labbra. «Sono un vecchio pazzo… È tutto così… Non lo avevo previsto, non credevo che succedesse ancora una volta nel-la mia vita, di… È una donna come voi! Ora, non so davvero cosa fare.»

Lamita non poté impedirsi di sorridere. «Scommetto che lo sapete benissimo» dis-se.

Era venuta attendendosi di dover affrontare una montagna di sentimenti d'inferiori-tà, accumulati per tutta una vita, e si era preparata. Ma Emparak la prese tra le braccia e la baciò, facendola sentire vicina a lui con una sensibilità talmente marcata che la meravigliò oltre ogni limite conosciuto. Si fuse nell'abbraccio, come se il suo corpo avesse sempre atteso che quell'uomo la toccasse.

«Posso mostrarti dove abito?» finì per chiederle dopo un istante che Lamita visse come fossero trascorse ore. Accettò con aria trasognata. «Sì» disse sospirando.

«Non lo posso ancora credere» sussurrò Emparak nell'oscurità. «E non so se ci riu-scirò mai.»

«Calmati; anch'io lo credo a malapena» lo rassicurò Lamita con il fare di una gatta assonnata.

«Hai avuto molti uomini?» chiese. La gelosia che gli emergeva dalla voce era qua-si divertente. «Non tanti come crede la maggior parte della gente.» Sorrise e aggiun-se: «Ma abbastanza per stancarmi molto rapidamente degli uomini, perché pensano che l'epoca più importante della Storia sia cominciata con la loro nascita.» Si girò e si accoccolò contro il suo petto. «Per fortuna, le tue esperienze in merito sembrano met-tere in ombra le misere abilità di cui posso dare prova in quanto storica. Scommetto che non hai sempre condotto una vita così monacale come l'appartamento lascia sup-porre.»

Emparak abbozzò un sorriso, lo capì dal timbro della voce. «Precedentemente, oc-cupavo una posizione importante e ciò ha molto pesato nella bilancia della mia vita. Ero discreto, ma credo si sapesse che corteggiavo tutte le donne del palazzo… Poi,

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c'è stato il rovesciamento del potere. Voialtri ribelli mi avete terribilmente degradato; mi avete fatto sentire in vostro potere poiché avevo scelto la parte sbagliata, quella dei vinti. Mi avete tenuto ugualmente, poiché ignoravate se avreste avuto ancora bi-sogno di me, ma non ero che un vecchio servo. Allora, mi sono completamente ritira-to in me stesso.»

«L'ho notato» mormorò Lamita. Qualcosa le diceva che la conversazione stava sci-volando su un terreno pericoloso, ma decise di accettare il rischio. «Credo che tu sia sempre un sostenitore dell'Imperatore.»

Nell'arco di un istante, sentì che si richiuse in se stesso. «Che significato avrebbe per te?» La replica era intrisa di inflessibile orgoglio, di

ostinazione, ma anche di paura. Di una grande paura. «Finché sosterrai anche me, non è importante» disse con tenerezza. Era una buona

risposta. Ne fu sollevata. Qualsiasi origine avesse la paura, non sarebbe stato pronto a rinnegarsi, neppure per lei.

«In verità, non sono mai stato un sostenitore dell'Imperatore in senso stretto» disse con l'aria pensierosa. «Gli uomini che lo veneravano e lo pregavano non lo conosce-vano; conoscevano solo l'immagine che si facevano di lui. Ma io lo frequentavo per-sonalmente, perché lo avevo incontrato spesso.» Tacque un momento e Lamita sentì che i ricordi si risvegliavano in lui. «L'aspetto dell'Imperatore era più potente di tutte le leggende che i sacerdoti avevano creato. Era una personalità dall'incommensurabile carisma. Voialtri ribelli semplificate le cose. L'Imperatore non si può valutare secon-do i principi comuni, misurandolo sulla stessa scala di un fenomeno naturale. Non dimenticare che era immortale, aveva trecentomila anni e nessuno sa cosa possa si-gnificare. No, non ne sono un cieco ammiratore. Sono uno studioso. Tento di com-prendere le cose e ogni facile, rapida risposta già preconfezionata mi ripugna.»

Lamita si era alzata. Accese la luce vicino al letto. Osservò Emparak come se lo vedesse per la prima volta e, in un certo modo, era vero. Il vecchio acido dallo sguar-do opaco era scomparso. L'uomo coricato al suo fianco era perfettamente sveglio, pieno di vita, e si rivelò essere spiritualmente più simile a lei di chiunque altro avesse mai conosciuto. «La penso anch'io così» disse. Improvvisamente, ebbe voglia di se-durlo una seconda volta, senza trattenersi.

Tuttavia Emparak sollevò la coperta, si alzò e cominciò a vestirsi. «Vieni con me, voglio mostrarti qualcosa» le propose.

«Gli archivi sono antichi come l'Impero e, nel corso del tempo, i criteri di classifi-cazione sono stati modificati più di un migliaio di volte. Oggi il sistema rispecchia questa complessità. Quando non lo si conosce, è assolutamente impossibile consultar-lo secondo dei criteri.» La voce di Emparak risuonava nei bassi, oscuri corridoi late-rali e l'eco ritornava verso di loro mentre scendevano, livello dopo livello, nelle pro-fondità segrete degli archivi. «Qui sotto, un tempo, erano illuminati solo i corridoi principali e ciascuno era libero di immaginare ciò che voleva tra le ombre proiettate dagli armadi, dalle bacheche e da tutti i misteriosi bottini di guerra che vi erano con-servati.» A un certo punto, Lamita prese la mano dell'archivista e non l'abbandonò più.

«Livello due» disse Emparak quando scesero dalle ampie scale di pietra. Le indicò

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una piccola e poco appariscente insegna sulla quale era stata dipinta una cifra, in uno stile molto antico.

«Il livello due è il penultimo verso il basso?» chiese Lamita. «No. Non c'è alcuna relazione. Gli archivi sono stati sistemati, cambiati, estesi e ristrutturati un numero incalcolabile di volte.» Rise come se la stesse canzonando. «Sotto i nostri piedi si svi-luppano ancora quattrocento altri livelli. Nessun ribelle è mai andato così in profondi-tà.»

Seguirono un ampio corridoio, arrivarono a un'insegna con la lettera L, la cui gra-fia ricordava quella in vigore al tempo del terzo Imperatore. Deviarono, prendendo una stretta galleria laterale. Poi iniziò un lungo percorso tra scaffali e manufatti mi-steriosi, apparecchi tecnologici e opere d'arte. Lamita ebbe l'impressione che il cam-mino durasse un'eternità. I segni utilizzati nelle cifre delle insegne attraversavano centomila anni di storia semiotica, fino a quando arrivarono al numero 967, la cui grafia corrispondeva a quella di ottantamila anni prima.

Emparak aprì un grande armadio a una sola anta. Socchiuse l'anta quanto poté e accese la luce del soffitto.

Sul lato interno dell'anta era appeso un tappeto di capelli. Dopo qualche istante, Lamita notò che era rimasta a bocca aperta e la richiuse per

trovare le parole da dire: «Dunque, è vero. Gli archivi sanno qualcosa sui tappeti di capelli.»

«Gli archivi sanno tutto sui tappeti di capelli.» «E sei sempre rimasto in silenzio.» «Sì.» Lamita sentì una sciocca risata cominciare a chiocciarle déntro, come se fosse del-

l'acqua che stesse raggiungendo l'ebollizione. Non poté trattenerla. Spinse la testa al-l'indietro e rise a crepapelle, con una grido che risuonò ovunque nei dintorni. Attra-verso un velo di lacrime, vide che Emparak l'osservava compiaciuto.

«Archivista» disse riprendendo fiato e provando invano ad assumere una voce se-ria. «Mi rivelerete immediatamente tutto ciò che sapete su questa faccenda. Se rifiuta-te, v'incateno al letto e ci resterete finché non avrete parlato.»

«Oh» fece Emparak. «In realtà, avevo l'intenzione di raccontarti tutta la storia, ma ora sono davvero tentato di tacere…»

Fece uscire una grande mappa stellare avvolta in un foglio di materiale concepito per resistere alle alterazioni del tempo. «In passato, Gheera fu un regno fiorente la cui storia si perde nella notte dei tempi, sul modello di quasi tutti gli antichi imperi del-l'umanità. Il regno fu scoperto e conquistato dal decimo Imperatore, dunque dal pre-decessore dell'ultimo. La sola ragione per cui l'Imperatore volle dominarlo era il semplice fatto che esisteva. Scoppiò una guerra. Durò a lungo e fece numerose vitti-me, ma Gheera non ebbe mai una vera possibilità di resistere alla Flotta Imperiale in assetto da guerra e finì per soccombere.»

Emparak mostrò con il dito una fila di immagini memorizzate su antiquati supporti. «Il re di Gheera si chiamava Pantap. La prima volta che lui e l'Imperatore si incontra-rono fu su Gheerh, dopo la sconfitta del regno. L'Imperatore chiese a Pantap un gesto pubblico di solenne sottomissione.» Emparak guardò Lamita. «Vuoi portare il mate-riale di sopra con te?»

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«Come? Ah sì, certo.» Emparak scompari in un corridoio laterale e ritornò con una cesta fatta di rete me-

tallica. Vi depositò la mappa e i supporti di memoria. «All'epoca, Gheerh doveva essere un mondo splendido e pieno di vita» proseguì

mentre tirava fuori una vecchissima cartella che conteneva dei fogli. «Questa relazio-ne descrive il pianeta e ne parla come di un gioiello dell'universo, elogia i suoi innu-merevoli tesori artistici, la saggezza dei suoi abitanti e la bellezza dei suoi paesaggi.»

Emparak le tese la cartella. Lamita la prese con precauzione e la mise con il resto delle cose nella cesta di metallo.

«Sapevi che per tutta la vita il decimo Imperatore ha sofferto di calvizie?» chiese Emparak.

Sorpresa, Lamita alzò le sopracciglia. «Allora ho visto le fotografie sbagliate.» «Naturalmente aveva dei capelli trapiantati, ma bisognava rinnovare l'intervento

ogni due mesi, poiché il suo organismo li rigettava. Era una reazione allergica che l'ha perseguitato per tutta la vita. È possibile che ciò sia in relazione con il trattamen-to della longevità, ma non ne siamo sicuri. In compenso, quello di cui siamo sicuri è che considerava quella leggera mancanza come un oltraggio, un affronto del destino che gli impediva di raggiungere la perfezione a cui aspirava.»

Lamita respirò rumorosamente. «Oh!» fece eloquente. Cominciava già a intuire confusamente i rapporti tra gli avvenimenti.

«Le spie del re Pantap avevano scoperto il punto debole dell'Imperatore» proseguì Emparak. «Pantap era evidentemente un uomo fiero e collerico. Per ragioni insonda-bili, non trovò nulla di meglio che fare appello alle sue ultime forze e infilare il col-tello nella piaga. Quando l'Imperatore si presentò per prendere atto della sottomissio-ne di Pantap, quest'ultimo che, d'altra parte, sfoggiava una splendida chioma e una folta barba gli disse letteralmente: 'Forse il tuo potere è abbastanza grande per metter-ci in ginocchio, ma non lo è abbastanza per fare crescere i capelli sul tuo cranio, o calvo Imperatore'.»

«Certo, non fu una buona idea…» «No. Probabilmente, fu la peggiore idea che un uomo abbia mai avuto.» «E cosa accadde?» «Il decimo Imperatore aveva già la nomea di essere folle e vendicativo. Quando

sentì le parole di Pantap, diventò furioso. Gli giurò che si sarebbe pentito, come mai nessuno si era pentito dopo un'ingiuria. Replicò: 'Il mio potere è abbastanza grande per far sì che tutto questo pianeta sia coperto con i capelli dei tuoi sudditi e ti obbli-gherò ad ammirare lo spettacolo!'»

Lamita gettò sull'anziano archivista uno sguardo terrorizzato. Ebbe la sensazione che un abisso le si fosse appena aperto sotto i piedi.

«Significa che la storia dei tappeti di capelli… È la storia di una vendetta!» «Sì. Null'altro.» Si mise una mano di fronte alla bocca. «Ma è follia!» Emparak fece un cenno di approvazione. «Sì. Ma la vera follia non sta tanto nell'i-

dea in sé, quanto nelle spietate conseguenze che la sua realizzazione ha implicato. Come di prammatica, l'Imperatore inviò i sacerdoti a propagare il culto della sua di-vinità e a imporlo contro ogni tipo di resistenza. Nello stesso tempo, ordinò loro di

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instaurare il culto dei tappeti di capelli, cosa che comprendeva altri elementi logistici complessi, l'esistenza delle caste, il sistema delle imposte e così via. Tra le restanti forze armate di Gheera, reclutò i navigatori che avevano il compito di trasportare i tappeti raccolti sui singoli pianeti. Tutto il sistema solare di Gheerh fu rinchiuso in una bolla dimensionale, per escluderlo dall'universo normale e impedire ogni fuga o intervento esterno. Vennero scelte delle truppe particolarmente brutali per riportare la cultura degli abitanti allo stato primitivo e, in seguito, attuare una campagna di lento annientamento della popolazione. Cominciarono consolidando il suolo attorno al pa-lazzo del re e lo coprirono dei primi tappeti di capelli.»

«E il re?» chiese Lamita. «Cosa accadde a Pantap?» «Su ordine dell'Imperatore, Pantap fu incatenato al trono e collegato a un sistema

destinato a mantenerlo in vita. Almeno, per migliaia di anni. L'Imperatore voleva che osservasse, impotente, la pena che infliggeva al suo popolo. All'inizio, dalle finestre della sala del trono, Pantap ha certamente visto livellare il terreno, strada dopo strada. Quindi, lo ha visto coperto di tappeti. Successivamente, le squadre di soldati si mise-ro a filmare tutte le loro attività, i combattimenti, le conquiste e pure i lavori di co-struzione. Le immagini furono teletrasmesse e diffuse su schermi installati davanti all'impotente re.» Lamita era sconvolta. «Vuole dire che Pantap potrebbe essere anco-ra vivo?»

«Non è da escludere, anche se non lo credo affatto, poiché all'epoca le tecniche di mantenimento della vita non erano ancora molto perfezionate» riconobbe l'archivista. «In ogni caso, il palazzo deve trovarsi da qualche parte su Gheerh. Forse, perso nel bel mezzo di una regione immensa in cui i primi tappeti sono ridotti in polvere da molto tempo. Ovviamente, la spedizione di Gheera non lo ha trovato. In caso contra-rio, ne avrebbero ugualmente scoperto i resti.»

La giovane storica scosse la testa. «La questione dev'essere chiarita. Bisogna che la Consulta ne sia messa al corrente, bisogna inviare qualcuno…» Fissò Emparak.

«E questo non ha mai smesso di funzionare per tutto il tempo?» «L'Imperatore è morto poco dopo l'instaurazione del sistema dei tappeti. Il succes-

sore, l'undicesimo e ultimo Imperatore, si è recato a Gheera solo una volta, breve-mente. Alcune note fanno capire che lo nauseava, ma non si è mai deciso a porvi ter-mine. Probabilmente, per fedeltà agli imperatori che lo avevano preceduto. Al ritorno fece cancellare la provincia da tutte le mappe stellari e da tutti i supporti di memoria. La popolazione fu abbandonata a se stessa. Da allora, la macchina ha continuato a gi-rare, millennio dopo millennio.»

Il silenzio si abbatté sulla coppia così mal assortita. «Dunque, è questa la storia dei tappeti di capelli» mormorò Lamita, completamente

scossa. Emparak fece un cenno di assenso. Poi, richiuse l'armadio dell'archivio. Lamita diede un'occhiata allo spazio circostante, ancora sbalordita per quello che

aveva appena sentito. Lo sguardo percorse i corridoi e le gallerie in cui si trovavano innumerevoli armadi, identici a quello che era appena stato chiuso. Sembrava che si estendessero senza fine.

«Tutti gli altri armadi dell'archivio che cosa contengono?» chiese quasi sussurran-do.

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L'archivista la guardò. Una scintilla d'eternità gli illuminò gli occhi, mentre rispo-se: «Delle altre storie.»

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Epilogo

Nodo dopo nodo, faceva sempre incessantemente gli stessi movimenti della mano, annodava sempre gli stessi sottili capelli, infinitamente fini e minuti, con le mani con-torte dai crampi e gli occhi arrossati. Non procedeva quasi per nulla, per quanto si sforzasse e si affrettasse. Ogni ora di veglia sedeva al telaio a cui era già stato seduto il padre, e prima il padre del padre, nella medesima posa curva, con la vecchia lente d'ingrandimento mezza sporca davanti agli occhi, le braccia sostenute dalla tavola consumata e premuta sul petto utile per dirigere gli aghi con la punta delle dita. Nodo dopo nodo, tesseva con la rapidità febbrile di un uomo perseguitato che lotta per la vita; la schiena lo faceva soffrire fino alla nuca, e un dolore acuto gli batteva nel ca-po, tanto che gli opprimeva gli occhi in modo da non riuscire più a distinguere l'ago. Provò a ignorare i nuovi rumori che riempivano la casa: le discussioni animate e osti-nate delle mogli e delle figlie, sotto in cucina, e soprattutto la voce che usciva dall'ap-parecchio che vi avevano installato e che diffondeva di continuo discorsi blasfemi.

Passi pesanti fecero scricchiolare le scale verso il laboratorio di tessitura. Dunque, non potevano lasciarlo in pace! Anziché compiere i doveri che la natura imponeva loro, restavano sedute tutto il giorno a ciarlare sui nuovi tempi; le visite erano conti-nue e i venuti si mescolavano all'incessante chiacchiericcio. Sbuffò e completò il no-do al quale era giunto. Senza allontanare la lente d'ingrandimento, afferrò uno dei ca-pelli che teneva sul cuscino vicino a lui, dopo averli pettinati con cura e averli portati uno per uno alla giusta lunghezza.

«Ostvan…» Era Garliad. Strinse i denti fino a farsi male, ma non si girò. «Ostvan, figlio mio…» Furioso, Ostvan si strappò la banda che manteneva la vecchia lente d'ingrandimen-

to sulla fronte e si girò con un brusco gesto. «Non mi potreste lasciare in pace?» e-sclamò, con il viso arrossato dalla rabbia. «Non mi potreste lasciare in pace, final-mente? Per quanto tempo continuerete a trascurare i vostri doveri interrompendo sempre il mio lavoro?»

Garliad stava immobile, con i lunghi e bianchissimi capelli. Solo, lo guardava, sen-za dire una parola. Lo sguardo premuroso e compassionevole degli occhi chiari lo fe-ce andare fuori di sé. «Che cosa vuoi?» disse con voce adirata.

«Ostvan, quando ti deciderai a fermarti?» rispose lei con la voce pacata. «Non ricominciare!» gridò girandole le spalle e aggiustandosi la lente d'ingrandi-

mento sulla fronte. Le sue dita ripresero l'ago e afferrarono un altro capello. «Ostvan, ciò che fai non ha più alcun senso…» «Sono tessitore, perché mio padre era tessitore e anche suo padre prima di lui, co-

me tutti gli altri. Cosa dovrei fare se non annodare tappeti di capelli?» «Ma nessuno ti comprerà più il tappeto. Non ci sono più mercanti. I navigatori im-

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periali non verranno più. Tutto è diverso, ora.» «Menzogne. Tutte menzogne.» «Ostvan…» Quel tono materno nella voce! Perché non se ne andava? Perché non poteva ritor-

nare nella cucina e lasciarlo in pace, lasciarlo fare in pace ciò che doveva fare? Tesse-re un tappeto per il Palazzo dell'Imperatore, era la sua missione, l'ufficio divino, il senso della sua vita… Riprese il lavoro in modo frettoloso, trascurato, nervoso. Biso-gnava disfare tutti questi nodi più tardi, quando avrebbe ritrovato la calma.

«Ostvan, ti prego! Non posso più vederti così.» Le mascelle rabbiosamente strette gli facevano male. «Tu non mi fermerai. Ho un debito verso mio padre. E lo estingue-rò!»

Proseguì febbrilmente il lavoro come se dovesse finire il tappeto in giornata. Nodo dopo nodo, le mani ripetevano sempre gli stessi gesti, svelto, molto svelto, sempre gli stessi nodi secondo la tradizione ancestrale che lega i sottili e minuti capelli, acco-vacciato al cigolante telaio di legno, le braccia tremanti sostenute dalla sporca e con-sumata tavola premuta sul petto.

Non se ne andò. Rimase semplicemente in piedi, dov'era. Poteva sentirne lo sguar-do sulla schiena come un dolore.

Le mani si misero a tremare, a tal punto che egli dovette interrompere. Non poteva lavorare in quelle condizioni. Non finché lei sarebbe rimasta. Perché non si decideva a sparire? Non si voltò, ma strinse di più l'ago tra le dita. Aspettò. Il respiro gli diven-ne pesante.

«Ho un debito verso mio padre e lo estinguerò!» disse ostinato. Lei tacque. «E…» aggiunse prima di interrompersi e riprendere. «E…» Non poté proseguire.

Aveva raggiunto una frontiera che non poteva valicare. Ancora una volta, prese un capello, tentò di farlo passare nel foro dell'ago, ma le mani tremavano troppo.

Lei non se ne andò. Rimase, tacendo. Aspettava. Fu allora che le parole gli scaturirono, con la voce che s'infranse come un vetro rot-

to. «Ho un debito verso mio padre. E… ho un debito verso mio fratello!» Accadde ciò che non sarebbe mai dovuto accadere: la mano scivolò, l'ago s'infilò

nel tappeto e strappò il tessuto. Era uno strappo lungo come una mano, che rovinava il frutto di molti anni di sforzi… Allora, alla fine, giunsero le lacrime.

La storia continua…

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La storia dietro la storia

Miliardi di tappeti di capelli è una di quelle storie che si portano a termine come se cadessero dal cielo. Sono un dono, perché prendono luce da un momento all'altro e bisogna solo metterle su carta.

Scrissi il primo capitolo in una giornata. Si trattava di un racconto con il titolo «Il tessitore di tappeti di capelli». Era un mercoledì, il 16 ottobre 1985. Il giorno prece-dente avevo incontrato un amico, il quale mi raccontò di essere entrato nella redazio-ne di una rivista di letteratura pubblicata a Stoccarda: Flugasche. Poiché sapeva che scrivevo, mi chiese se avevo qualcosa che avrebbe potuto pubblicare nella rubrica «Science Fiction». «Sì, certamente» dissi senza tergiversare e, al momento, credevo davvero di averla pronta. Però, quando diedi un'occhiata ai miei manoscritti, trovai storie troppo lunghe, troppo brevi o troppo brutte. La possibilità improvvisa di vedere pubblicato un racconto mi elettrizzava. L'avrebbe ricevuto, perfino se avessi dovuto scriverlo di sana pianta.

Scorrendo i taccuini di appunti, la mia l'attenzione venne attirata da un'idea allora già stagionata: le vicissitudini di un tessitore di tappeti, che annoda materiali talmente sottili che in tutta la vita può terminare un solo tappeto. Quale materiale potrebbe es-sere così fine? I capelli! Decisi che avrei scritto la storia di un tessitore in grado di produrre un tappeto con i capelli delle mogli e delle figlie.

Da quel momento, la storia si scrisse da sola. Dovetti solo aspettare di prendere al volo le singole parti che mi arrivavano, raccoglierle e fissarle sulla carta. Camminai tutto il giorno come in trance, scrivevo a lezione, mentre mangiavo… Questo stato durò fino alla sera. Poi, trovai tutto fatto. Il racconto era finito.

Uscì nel dicembre 1985. Sebbene collocato in una posizione sfavorevole del fasci-colo, e a fianco di grandi illustrazioni, e risultasse poco appariscente, mi venne spesso rammentato. Naturalmente mi rallegrò, ma inizialmente non pensai a eventuali svi-luppi. Non prima del dicembre 1990, quindi cinque anni dopo. Quell'anno compresi che non mi era solo riuscita una bella storia. Durante le «Stuttgarter Buchwochen» incontrai il curatore della rivista di letteratura prima menzionata. Cortesemente feci il mio nome e, di colpo, gli venne in mente 'la storia dei tappeti di capelli'. Rimasi senza parole. Qualcuno che ogni due mesi pubblica una rivista di letteratura, legge e valuta continuamente dei manoscritti, si ricorda all'istante di una storia stampata cinque anni prima? È possibile che egli abbia una memoria talmente disumana? 0 dipendeva - che pensiero azzeccato! - dalla storia stessa?

La ripresi di nuovo in mano, le permisi di agire, mi aprii alla magia che intuivo muoversi al suo interno. E più la leggevo, tanto più avanzavo nel cosmo in cui si svolgeva, nei retroscena e nei primi piani delle figure. Mi sembrava sempre più come una porta che si aprisse su un altro mondo, da cui accedere a storie più ampie e com-plesse: storie di desiderio, incredibili, mozzafiato, terribili e meravigliose. Iniziai a

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scriverle, e mentre lo facevo scoprivo poco alla volta sullo sfondo dei singoli episodi quella vasta e inenarrabile storia che li collegava tutti assieme. Così, nacque il ro-manzo intitolato Miliardi di tappeti di capelli.

Scrivere questo romanzo ha cambiato la mia vita, ha cambiato la mia scrittura. Ho imparato ad aprirmi alla dimensione indescrivibile da cui provengono tutte le storie. Per uno scrittore, è un'esperienza talmente fondamentale che la vita si può suddivide-re in due parti: il prima e il dopo. Non è importante dire quali romanzi scriverò, o sa-pere se mi riusciranno bene, perché il libro che tenete in mano resterà per sempre del tutto particolare.

È la storia del tessitore di capelli. Se non l'avete ancora letta, non posso prometter-vi che l'amerete. Non posso neppure promettervi che vi piacerà.

Posso solo fare una promessa: non la dimenticherete, mai.

Andreas Eschbach Solaria, 5 dicembre 2000