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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo) Numero 247 314 27 gennaio 2018 L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo. La memoria vale proprio come vaccino contro l’indifferenza Liliana Segre Maschietto Editore

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Con la cultura

non si mangia

Giulio Tremonti

(apocrifo)

Numero

247 31427 gennaio 2018

L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l’apatia morale di chi si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo. La memoria vale proprio come vaccino contro l’indifferenza

Liliana Segre

Maschietto Editore

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dall’archivio di Maurizio Berlincioni

immagine

NY City, 1969

La prima

Scena di strada un

po’ particolare. Siamo

sulla Avenue of the

United Nations e

tutto è pronto per la

parata in onore degli

astronauti che hanno

piantato per primi al

mondo il vessillo a

Stelle e Strisce sulla

superficie della luna.

Già in passato sono

state presentate sulla

nostra rivista alcune

immagini relative

a questo storico

evento. E’ un’imagine

scattata prima che

arrivasse il corteo con

le limousine con a

bordo gli astronauti

e le loro famiglie.

L’attesa era davvero

grande e le persone

che si erano accalcate

ai lati di questa

avenue decisamente

importante hanno

atteso pazientemente

per per ore l’arrivo

della parata. Faceva

davvero una certa

impressione vedere

questa Avenue

completamente

vuota. L’effetto era

decisamente surreale

nella sua solenne

unicità.

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Direttore

Simone SilianiRedazione

Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Progetto Grafico

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Editore

Maschietto Editore via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142

Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Numero

247 31427 gennaio 2018

In questo numeroRicordando Tabucchi

di Sandra Teroni

Gonfienti come una nuova Pompei

di Giuseppe Alberto Centauro

Il misticismo di Turrini

di Laura Monaldi

Orto delle Monache, addio

di M. Cristina François

Scollo a due dita, strascisco a due palmi

di Fabrizio Pettinelli

Gli uomini che salvarono il Louvre

di Simonetta Zanuccoli

Zevi 100

di John Stammer

L’abito fa il monaco, e non solo

di Angela Rosi

Mappe di percezione: San Francisco

di Andrea Ponsi

Il nudo in stereofotografia

di Danilo Cecchi

La pubblicità litografata

di Cristina Pucci

Per Lindsay

di Alessandro Michelucci

L’imperdibile magia del tre

di Leonardo Bertelli

Della gravità, la forza più debole delle quattro

di Gianni Bechelli

e Remo Fattorini, Anna Lanzetta, Gabriella Fiori... Illustrazione di Lido Contemori, Massimo Cavezzali

Volonta divina

Le Sorelle MarxLa figura del cretino al tempo dei social

I Cugini Engels

Razzi amari

Lo Zio di TrotzkyMettete gli specchi a Palazzo Vecchio

La stilista di Lenin

Riunione di famiglia

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Sandra Teroni ha pronunciato questo inter-

vento alla Serata per Antonio Tabucchi svol-

tasi al Teatro Cantiere Florida di Firenze, l’11

gennaio 2018.

StorieLo spettacolo che vedremo stasera è un bel-

lissimo omaggio a Antonio Tabucchi. Che a

lui sarebbe piaciuto molto. Più esattamente,

gli avrebbe dato una “bella emozione”. Come

avvenne quando, nel lontanissimo 1993, lo

accompagnai al teatro di Pescia a vedere Are-

bours, il primo balletto ispirato ai suoi testi (in

quel caso Notturno indiano) messo in scena

da Angela Torriani Evangelisti. Antonio glie-

lo ripeté poi per scritto, a distanza di anni, in

una lettera di cui, con Zé (la moglie), abbiamo

ritrovato la minuta su uno dei suoi quaderni

neri: “trasmetteva [lo spettacolo], pur nel suo

specifico linguaggio artistico fatto di movi-

menti corporei, quelle suggestioni che avevo

cercato di trasmettere con le parole”.

Era già quello il risultato di una ricerca por-

tata avanti negli anni, arricchitasi poi con

l’incontro con Gianluigi Tosto: affiatatissimi,

i due condividono un intenso rapporto amo-

roso con l’universo di Tabucchi, dove l’em-

patia si accompagna a profonda conoscenza

e a intelligenza. Come testimoniava già, nel

2012, la creazione di Tempus fugit.

“Abbiamo sempre bisogno di una storia, an-

che quando sembra di no”, ci ricorda Antonio

in Requiem. Lo spettacolo – creato da Ange-

la e Gianluigi nel 2013 a un anno dalla sua

scomparsa – si apre proprio su queste pagine

che raccontano l’incontro fantastico con un

venditore di storie in una notte di luna, lungo

il Tago, a Lisbona. Scelta felice, che ci intro-

duce immediatamente in quel surrealismo

visionario che è una cifra inconfondibile di

Tabucchi: storie che rimangono sempre vaga-

mente incompiute, personaggi che emergono

e si dileguano, dialoghi con i fantasmi, un

perenne spostamento alla ricerca di qualcosa

che chiama e sfugge, un faccia a faccia co-

stante con la morte e insieme un gusto della

vita tutto sensoriale: il cibo, la terra, l’aria, i

colori, gli odori, i suoni.

Straordinariamente interpretate da Gian-

luigi e trasposte nella danza perfetta di An-

gela, le parole di Antonio – dalle pagine di

Requiem, Notturno indiano, Il gioco del rove-

scio, I volatili del Beato Angelico, Sogni di so-

gni, fino a Si sta facendo sempre più tardi – ci

restituiscono uno scrittore conosciuto e insie-

me inedito per la selezione e il montaggio di

storie e registri, che esaltano le atmosfere ma-

di Sandra Teroni Ricordandogiche mentre esibiscono sensualità e ironia.

L’ultima storia che ha sentito il bisogno di

raccontare, Antonio l’ha dettata alla moglie

Maria José poi al figlio Michele nella notte

del 22 marzo 2012, in un ospedale di Lisbo-

na. Quando l’indomani lei gli ha portato la

trascrizione lui ha corretto la prima frase, poi

non ha più avuto le forze di continuare. Se n’è

andato al termine della terza notte. Raccon-

ta, quella storia in forma di monologo, di una

donna che ripercorre la sua vita guardandosi

allo specchio, dentro un salon de maquillage

parigino. E che, rivolgendosi alla propria im-

magine riflessa, alla terza persona, conclude:

“Io adesso socchiudo la porta, scivolo fuori

dal salon, spengo le luci e la lascio qui den-

tro, dentro quello specchio, a riflettere sulla

conclusione. Non spetta a me cercare con-

clusioni, questa storia si è fatta da sola, senza

che io contribuissi in niente, e se ho contri-

buito non me ne sono proprio accorta”. Una

straordinaria uscita di scena, un commiato

con visitazione, come in anni lontani aveva

immaginato per gli ultimi giorni del suo Pes-

soa; una storia dettata, come più tardi aveva

immaginato per il suo Tristano morente.

Antonio ha sempre vissuto l’immaginario

come esercizio di libertà e come suo luogo di

elezione, fin da prima di saper leggere. Lo ha

raccontato splendidamente lui stesso, rivol-

gendosi agli studenti dell’Università di Siena

in una conferenze del maggio ’97, dove rievo-

ca le storie fantasticate su un esemplare illu-

strato del Don Chisciotte “Quel libro che non

potevo ancora leggere, inconsapevolmente e

forse in una maniera del tutto incongrua, aprì

senza l’alfabeto la sintassi della mia fantasia”.

L’immaginario come possibilità di andare

oltre l’immanenza e la contingenza; il lin-

guaggio letterario per sondare la realtà e mo-

strarne l’irriducibilità a poche rassicuranti

certezze; le storie inventate anche quando

sono vere o sono racconti di racconti, perché

istituiscono comunque un altro universo di

senso; il racconto per dare forma e conteni-

mento a ciò che è informe e minaccia di tra-

volgerci; e una grande strategia delle parole

per tracciare piste, contorni, evocare presen-

ze – reali o sognate –, dar voce a una ricerca

inquieta e sempre appassionata, senza prete-

sa di approdare mai a risultati certi.

Anche per questo amava Pessoa, Flaubert,

Rilke, Kafka, Pirandello, Fitzgerald, Benja-

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min… perché in loro riconosceva quella stra-

na modernità novecentesca fatta non tanto

di sperimentalismi e avanguardie quanto di

inquieto interrogare e di imprecise soglie, al

tempo stesso inesorabilmente radicata nella

storia – o piuttosto assalita dalla storia – e

straniera al mondo. Quel configurarsi di cose

e persone sempre sfuggevole tra realtà e so-

gno, essere e nulla, sotto la minaccia del tem-

po che ti porta via e di un inquietante scolla-

mento tra sé e sé.

VociIn una conversazione che avemmo nei recessi

del Teatro del Sale, dove Antonio stava per

leggere insieme a Maria Cassi pagine del suo

Tristano muore fresco di stampa (2004), mi

disse qualcosa a proposito della genesi dei

suoi personaggi che mi sembra interessante

ricordare in questo contesto. “Il personaggio

nasce come voce, voce interna. Naturalmen-

te quella voce è la mia, io sono molto abituato

a parlare silenziosamente con me stesso, for-

mulando vere e proprie frasi. Non sono solo

idee, che potrebbero non avere formulazione

frastica o anche narrativa. È quello che si

potrebbe chiamare un monologo interiore, la

voce dell’anima, la voce della coscienza, che

può cominciare col formularsi domande mol-

to semplici del tipo che cosa ho fatto oggi. Ora

succede che quando stai facendo questo soli-

loquio in silenzio con te stesso, normalmen-

te passi e chiudi, funzioni a circuito chiuso

e a un certo momento la cosa cessa. A volte

però non cessa. Perché curiosamente la voce

assume un timbro un po’ diverso, che non è

più esattamente il tuo, è come se il colorito di

questa voce fosse un po’ cambiato, è come se

questa voce fosse tua ma anche non fosse più

tua. Allora ti succede una cosa strana, senti

che dentro sei sempre te ma non sei comple-

tamente te, cominci a essere qualcos’altro; e

se a questo dai spazio – con pazienza e un po’

d’insonnia quando tutti dormono – la cosa

diventa interessante, perché allora… cominci

a fare quello che si chiama ‘teatro’. E il teatro

lo giochi dentro di te, il tuo dentro è lo spazio

teatrale. Se insisti, e diciamo stuzzichi questa

cosa, in questo spazio interno diventato un

palcoscenico possono cominciare ad aggirarsi

quelli che comunemente chiamiamo i perso-

naggi ma che in realtà sono voci. Poi li rivesti

di carne, a uno metti il cappello da marinaio,

all’altro la pelliccia e così via; a quel punto

hai popolato il palcoscenico interno. E il ro-

manzo è nato. Si tratta solo di far giocare le

figure tra di loro. Per me è così che funziona”.

(“Il Manifesto”, 21 maggio.2004)

Il teatro è un luogo privilegiato nella poeti-

ca di Tabucchi, che a sua volta sollecita la

scena teatrale: da voci interne, i personaggi

prendono forma nella scrittura e trovano in-

carnazione nella voce e nel corpo dell’attore.

Questo forse spiega la fortuna di Tabucchi in

teatro, soprattutto in Italia e in Portogallo, ma

anche a Stoccolma per esempio, dove il Tea-

tro di Marionette ha messo in scena Donna

di Porto Pim in forma di balletto con attore

e teatro d’ombre. Nel caso di Angela e Gian-

luigi il gioco si arricchisce di una dimensione

più rarefatta, introdotta dal muto movimento

della danza. Come in un gioco di specchi,

uno sdoppiamento, un ‘oltre’. Il che è molto

tabucchiano.

FantasmiSu uno dei personaggi-fantasmi vorrei sof-

fermarmi brevemente perché esemplare del

suo prendere consistenza nonché di quella

“ruminazione” delle storie di cui Antonio

parlava – “Sono un ruminante. Tengo le

storie in lunga incubazione, poi le scrivo in

fretta” (intervista a Concita de Gregorio, “La

Repubblica”, 3 dicembre 2005) – e a cui la

presenza scenica di Angela con le sue appari-

zioni mutevoli mi ha fatto pensare.

È quello di una figura femminile, Isabel, che

compare in Notturno indiano (1984) come

un fugace ricordo che unisce in un triangolo

il narratore e l’amico Xavier di cui, seguendo

vaghi indizi, lui va alla ricerca in India. Ed

è una misteriosa presenza-assenza, è “fuori

cornice”. Sette anni dopo, ne L’angelo nero

(1991), il ricordo di Isabel emerge in un vaga-

bondaggio per le strade di Pisa, portato dalla

voce dell’amico Tadeus che ha qualcosa da

rivelare sulla fine di lei, qualcosa di doloro-

so e avvolto nel mistero. Mentre in Requiem

(1991), Isabel compare tra i fantasmi che

emergono nella peregrinazione del narratore

per Lisbona. Inizialmente attraverso le pa-

role di Tadeus in un surreale incontro sulla

sua tomba al Cimitero Dos Prazeres, ed è al

centro di una misteriosa vicenda di triangolo

amoroso, aborto, suicidio. Poi è attesa nell’ap-

puntamento alla Casa do Alentejo, ma il suo

Tabucchi

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arrivo è seguito da una straordinaria ellissi

narrativa. Di lei non sapremo nulla, tutti gli

interrogativi rimangono aperti.

Ma il personaggio evidentemente continua-

va ad abitare lo scrittore, la sua storia preme-

va e chiedeva di essere raccontata, o meglio

investigata. In un’intervista del 1994, l’anno

di Sostiene Pereira, Antonio annunciava che

Isabel sarebbe tornata come protagonista ma

raccontata da altri e alludeva a una struttura

circolare del racconto. Due anni dopo face-

va fare un dattiloscritto (datato luglio-agosto

1996) in vista di una pubblicazione. Il narra-

tore, che questa volta è Tadeus, peregrinando

da un luogo all’altro, percorre i 9 circoli di un

mandala, raccogliendo frammenti, ipotesi

dai suoi incontri con personaggi incongrui e

con ancora più incongrui fantasmi. E Isabel

finalmente appare, nell’ultimo circolo: non

per fare definitiva chiarezza ma per liberare

Tadeus dal suo senso di colpa e aiutarlo ad

accettare la morte. Perché “di tutto resta un

poco”. Del resto, come sappiamo con Tabuc-

chi e come anche questo romanzo ci ricorda,

“l’importante è cercare, non importa se si tro-

va o non si trova”. La funzione della lettera-

tura è di inquietare, non di rassicurare; anche

questo ci ricorda Tabucchi.

Il manoscritto rimase nel cassetto. Finché,

nell’estate 2011 lui lo richiese a un’amica a

cui lo aveva affidato perché lo voleva rilegge-

re, forse pubblicare. Ma non ne ebbe il tem-

po, in autunno si ammalò. Così Per Isabel è

stato il primo inedito pubblicato postumo,

nel 2013.

Nello stesso anno è uscita in una nuova edi-

zione illustrata da Isabella Staino, Isabella e

l’ombra, una breve storia che lui le aveva det-

tato al telefono 15 anni prima, dove Antonio

si racconta bambino con gli occhi sgranati che

scopre la pittura a Firenze dove lo zio lo ac-

compagnava in treno da Vecchiano ; e dove si

rivolge a una bambina, Isabella appunto, a cui

offre l’ombra per fare incontrare la luce con

l’oscurità, la tonalità della “nera malinconia”.

Più recente (2017) è un’altra nuova edizione

illustrata da Gabriella Giandelli, Irma la sire-

na, che racconta l’avventura di due bambini i

quali, intrufolandosi sotto la tenda di un ba-

raccone, vanno alla scoperta di una bambina

sirena esposta come attrazione alla fiera (già

Requiem vi aveva fatto un fugace riferimento).

Nel frattempo (2015), ancora Feltrinelli ha

pubblicato in ebook una storia, E finalmente

arrivò il settembre – datata 2011 pochi mesi

prima della morte dello scrittore – ambienta-

ta negli ultimi anni del salazarismo e rimasta

allo stato di abbozzo. Sempre in ebook, Feltri-

nelli ha riproposto I morti a tavola, una delle

più suggestive storie da Il tempo invecchia in

fretta, un’altra peregrinazione e ruminazione

di un ex agente della Stasi (la polizia politica

del regime comunista) per le vie di Berlino

fino alla tomba di Bertold Brecht.

Di storie, i numerosi quaderni – che andran-

no a raggiungere le carte già depositate alla

Bibliothèque Nationale de France, a Parigi –

ne contengono molte, poche compiute, alcu-

ne appena abbozzate, altre incompiute. È il

caso di “una novelletta” su Walter Benjamin,

a cui aveva dato il titolo Il piccolo gobbo, l’ul-

timo progetto a cui Antonio lavorava e che la

malattia gli ha impedito di portare a termine.

David e GoliaNon meno importante fra i lasciti di Tabuc-

chi è un’altra funzione da lui attribuita alla

letteratura: quella di risvegliare le coscienze.

A una “Bustina di Minerva” di Umberto Eco,

Il primo dovere degli intellettuali. Stare zitti

quando non servono a nulla, lui replicò – in

forma di lettera a Adriano Sofri su “Micro-

mega” (25 aprile 1997), Un fiammifero Mi-

nerva, poi con articoli sul “Corriere della

sera” e su “L’Unità” – contestando un’imma-

gine dell’intellettuale come “amministratore

di cultura” e rivendicando “la creatività del-

la conoscenza artistica”. Una conoscenza di

tipo intuitivo, ipotetico e congetturale fonda-

ta sul dubbio, magari sulla contraddizione o

sul paradosso. Più tardi, in un sms all’amico e

scrittore Paolo di Paolo, Antonio ribadiva con

una felice immagine: “Gli artisti sono sempre

piccoli David di fronte a un enorme Golia.

Non sono loro a far cadere i regimi, ma viven-

do nell’Attuale, nel loro tempo, nel loro “ora”,

se non altro ne osservano le storture; se non

altro, tentano di capire il perché e il quando

delle cose, di ciò che non va. E capire è già

molto” .

Antonio Tabucchi ha avuto il coraggio di ca-

pire e di dire; per questo ha pagare un caro

prezzo in Italia, da cui alla fine si è autoesi-

liato. “L’Italia è una questione che ho con me

stesso. Un paese può costituire un rimorso.

Quando prevale il peggio – sul bello di fondo

di una realtà che si ama – diventa una sorta di

rimorso sordo di cui non ho colpa, ma è mio.

Diventa una questione che mi riguarda. Den-

tro quella storia ci sono anche io.” (intervista

di Simonetta Fiori, “La Repubblica”, 27 gen-

naio 2010). Sono parole che ci emozionano,

e che vorremmo risuonassero nelle coscienze

di chi, attraverso la scrittura, dovrebbe avere

la capacità di mettersi nella pelle degli altri e

di guardare il mondo da tanti punti di vista,

non solo dal diritto ma anche (e soprattutto)

dal rovescio.

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Da qualche tempo, piazza Taddeo Gaddi

vanta un secondo primato, oltre a quello del

più alto numero di crisi di conducenti (o aspi-

ranti tali) costretti a lasciare la guida dal geni-

tore seduto a fianco.

Allocato nel bel mezzo della rotonda, svetta

una cervo fatto di tanti legni incastrati insie-

me. Se ne sta lì, con il suo muso affusolato e

fiero, e domina la foresta di veicoli.

Cosa c’entra tutto questo con il tema “vetri-

ne d’arte, vetrine d’autore” di questa rubrica?

C’entra, per varie ragioni. Innanzi tutto per-

ché il cervo si trova a pochi passi dalla vetrina

di via del Rosso Fiorentino dalla quale tutto

il mio discorso e questa rubrica hanno preso

avvio.

Proprio a due passi da lui, nel tratto di strada

che collega via del Bronzino a via de’ Vanni,

la scorsa settimana qualcuno era passato col

naso per aria, un po’ per caso, in sordina. E si

era fermato davanti a una vetrina.

Ma soprattutto c’entra perché prima della

cervo di Ponte alla Vittoria erano già sbucati

per le strade di Firenze un coccodrillo, un uni-

corno e una giraffa. E prima ancora era com-

parso un orso in piazza Tasso, e un tuffatore,

rimasto per mesi affacciato sul fiume, a pochi

passi da Ponte Vecchio. Tutti loro vegliavano

su Firenze con la stessa aria trasognata di pas-

santi senza meta. E tutti portavano la firma di

un artista, anche noto a Firenze come Il Se-

dicente Moradi. Come un demiurgo che pla-

sma e anima il legno, Moradi ha creato queste

figure e ha dato loro una voce. E’ un suono

flebile, quasi un filo inesistente. Tant’è che in

pochi riescono a sentirla. Chi lo fa, però, chi ci

riesce, si accorge che quello che nasceva come

un bisbiglio soffocato, diventa forte e distinto,

quanto più gli si presta attenzione.

Una volta afferrato quel sussurro impercetti-

bile si mostra per ciò che è: una voce chiara e

nitida che si staglia sul traffico e sui passanti

come un canto. Sì, è proprio un canto. E si

leva nel cielo come un aquila, forte e libera.

L’ho capito qualche giorno fa. Tornavo a casa

percorrendo via de’ Serragli e pensavo a quel-

le figure lignee che osservano Firenze con il

loro sguardo trasognato.

Sentivo la loro linfa scorrere nei miei passi,

come fosse il loro canto a muoverli e ad a in-

dicarmi la strada. Percorrevo via de’ Serragli e

qualcosa, ad un certo punto, ha attirato la mia

attenzione. Non l’avevo mai notata e, proba-

bilmente, se non fossi tornata indietro, mi sa-

rei convinta che fosse stato soltanto un sogno.

Stava lì, dietro al vetro del centro di Yoga che

frequentavo l’anno scorso, quando ancora vi-

vevo stabilmente a Firenze. Ci andavo spesso,

sempre la mattina molto presto. Ed era come

se non mi fossi ancora alzata dal letto, come

se il mio corpo aspettasse di varcare la porta

a vetri del centro di Yoga per iniziare davvero

la giornata.

Ebbene, dietro a quella vetrina che guarda la

strada con la sua luce soffusa, c’era un aquila

fatta di tanti legnetti. Mi ha lasciata passare

insieme ai molti passanti che si affrettano

lungo il marciapiede. Davanti a lei, stampata

sul vetro, proprio all’altezza del suo sguardo,

c’era una scritta bianca. Sono tornata indietro

apposta per leggerla. Diceva: Connesso allo

spirito, volo nel cielo, coraggioso forte e libero.

Come te. Quella scritta è la voce dell’aquila.

E nel cielo di Firenze c’è una sola vetta che

non manca mai di intercettarla. È il cervo di

piazza Taddeo Gaddi.

Maschietto Editore – Libri d’Arte

via del Rosso Fiorentino, 2/D - 50142

Firenze tel/fax +39 055 701111

vetrine d’arte

vetrine d’autore

di Vittoria Maschietto

A pochi passi da via del Rosso Fiorentino c’è

piazza Taddeo Gaddi, la rotonda nella quale

si immette il ponte alla Vittoria, nota anche

per il suo traffico infernale e per la sua re-

frattarietà alle leggi del codice stradale. Ne

conservo un ricordo indelebile, risalente al

tempo in cui tentavo di prendere la paten-

te. Il motore della mia Modus azzurra che si

spegne consecutivamente una quindicina di

volte, mentre tento invano di immettermi nel

traffico della rotonda. Le mani che tremano

sul volante e mia madre seduta accanto a me,

che sbraita di scendere immediatamente dalla

macchina. Ma scende prima lei. Furiosa, spa-

lanca la mia portiera e mi strappa dal sedile di

guida tra gli sguardi dei vicini incolonnati e lo

strombazzare incessante dei clacson.

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Per non smentire il detto “meglio un morto

in casa che un pisano all’uscio”, anche il

Movimento 5 Stelle ha candidato un feno-

meno come sindaco di Pisa: Maria Chiara

Zipel. Lei stessa si presenta come una “illu-

strissima” sul suo sito: la Zipel ci informa

che la madre proviene “da una famiglia che

da generazioni ha fatto parte della storia

cittadina” e il padre invece discende da

“altrettanta illustre famiglia di Trento”.

Lei si trasferisce a Bergamo dove il padre,

manco a dirlo è un “attivissimo industria-

Le SorelleMarx

Volontà divinale”. Ma, sorprendentemente e incredibil-

mente, nonostante tutti queste eccellenze e

pur “appartenendo alla migliore borghesia,

vuole frequentare – niente di meno che – le

scuole pubbliche”! Nonostante questo ba-

gno di umiltà, la Zipel si laurea e collezio-

na master e, sempre con grande sorpresa per

noi miseri mortali, “gratificata dalle attività

professionali, decide di metter su famiglia”.

La Zipel lascia la professione, si riproduce

quattro volte e sposa “la causa della sua

città. Desidero che i miei figli crescano a

Pisa – dichiara piena d’orgoglio - , e se ne

innamorino come ho fatto io”. E quindi non

ha proprio potuto fare a meno di candidarsi

a sindaco perché sennò non ci si può inna-

morare. Si dice convinta di vincere “armata

di quanto più forte ci possa essere: LA

VOLONTÀ!”. Le toccherà collaborare con

il “comune cittadino”, per lei così straordi-

naria cosa ben difficile da sopportare. Ma,

nonostante questa straordinaria straordi-

narietà, stia serena la Zipel, a Pisa le hanno

garantito che “Dio ti ama come sei”.

L’Italia politica è in lutto: si susseguono ora dopo ora le

notizie funeste. La Boschi forse non la vogliono eleggere

nemmeno a Bolzano, che son di bocca buona ed eleggono

chiunque basta che non gli tocchi speck, strudel, zelten,

Lederhosen e Sarner. Ma questo si può anche sopportare.

Ciò che è invece intollerabile è l’esclusione di Antonio

Razzi dalle liste di Forza Italia. Il senatore è distrutto,

dall’influenza dice lui, ma noi tutti sappiamo che ben

altro lo affligge: se Berlusconi non lo ricandida a lui tocca

riprendere il giro dell’oca da dove era partito, Italia dei

Valori e poi chissà verso quali lidi. Razzi dice di non aver

ricevuto neppure una telefonata di cortesia e dal suo letto

di procuste se ne lamenta. Ma ha un asso nella manica:

un attacco con missili a testata nucleare su Arcore da

Pyongyang. “Io ho parlato con Kim Jong-un – ha dichia-

rato Razzi - favorendo la distensione internazionale, non

credo ci siano altre molte persone in grado di parlare con

un dittatore. Io sono andato a parlare con Bashar Assad

dove, con tutta tranquillità, ho potuto parlare per piegare

com’è la situazione”. Ma non è persa ogni speranza: a Ra-

dio Capital il Razzi ha confessato di aver avuto “decine e

decine di offerte di andare a fare il capolista da altre parti.

Anche questa notte ho avuto un messaggio che mi diceva

‘vieni da me a fare il capolista’, ma io ho detto ‘ guarda,

io amo Berlusconi e basta”. Ma si sa, come per le sirene

di Ulisse, se non sei legato stretto ad un palo, il richiamo

della politica e della diplomazia per Razzi è irresistibile.

Ogni tanto capita alla sotto-

scritta, da queste colonne, di

doversi occupare della vicesin-

daca di Firenze Cristina Gia-

chi. Povera stella fare la vice

di Nardella, che è di natura

un vice per antonomasia, deve

essere un’operazione frustrante

ma la mise che ha sfoggiato sul

palco del Mandela forum per

la giornata della memoria è

davvero da tribunale interna-

zionale dell’Aia. Maglia bianca

neve troppo larga, gonna blu

elettrico con elastico all’orlo

(quasi a far pensare che se la sia

messa al contrario) e stivalone

da SS troppo grande. Alla fine

la cosa più sobria indossata

dalla vicesindaca era la fascia

tricolore. In tempo di appelli

alle forze politiche potrebbe

essere il caso di prepararne uno

al PD per dotare l’amministra-

zione di fiorentina se non di

una personal shopper almeno

di specchi a figura intera.

Razziamari

Mettete gli specchi a Palazzo Vecchio

Lo Zio diTrotzky

La stilistadi Lenin

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927 GENNAIO 2018

disegno di Lido Contemori

Pare che Michel Platini, dopo l’ennesima

intervista post partita, ad un cronista che

si lamentava della non proprio raffinata

analisi del centrocampista juventino, ebbe

a rispondere: “anche Einstein intervistato

tutti i giorni sul medesimo argomento fa-

rebbe la figura del cretino”. Ripensavamo

a questa battuta in questi giorni leggendo

le miriadi di esternazione dei politici in

campagna elettorale perenne sui social

network con due ulteriori riflessioni da

aggiungere a quel del talentuoso francese.

Da una parte Platini negli anni ’80 non

poteva immaginare che i social network

ci avrebbero permesso di autointervistarci

ogni giorno sul medesimo argomento e

dall’altra che fare la figura del cretino è

talvolta più semplice se si è naturalmente

predisposti ad esserlo.

I CuginiEngels

La figura del cretino al tempo dei social

didascalia di Aldo Frangioni

Nel miglioredei Lidipossibili

Mi raccomando, Pinocchio, siamo in campagna elettorale non credere alle promesse di Lucignolo, del Gatto e della Volpe

regionali, oppure ad arrangiarsi con i propri

mezzi. Continua così il predominio dell’auto.

Da noi circolano 63 auto ogni 100 abitanti (a

Madrid 32 e a Berlino 35). E oggi il 65% degli

spostamenti è sulle 4 ruote, in crescita dell’8%

rispetto al 2001.

Da anni ci dice che occorre investire molto

di più sulle ferrovie locali e non solo sull’alta

velocità. Sulla Metropolitana d’Italia dai 108

treni al giorno di 6 anni fa siamo passati ai

314. Sulla Roma-Milano nelle ore di punta c’è

un treno ogni 15 minuti. L’offerta è triplicata e

l’affluenza è cresciuta. Su questi treni viaggia-

no 170mila persone al giorno.

Ancora pochi se si confrontano ai 2,8 milioni i

pendolari che salgono su quelli regionali. Ep-

pure lo Stato ha tagliato la spesa proprio qui.

Tra il 2009 e il 2017 l’ha ridotta del 22,7%:

da 6,2 miliardi a 4,8. Dal 2001 ha trasferito

le competenze alle Regioni, ma con sempre

meno risorse. Ha iniziato a tagliare Tremon-

ti nel 2010. Risultato: degrado diffuso, km di

ferrovie arrugginite, stazioni abbandonate e

inospitali, scarsa manutenzione. Insomma,

un’Italia arretrata e spaccata in due anche sui

treni.

Legambiente ci fa sapere che le Regioni non

sono tutte uguali. C’è chi ha scelto di inve-

stire risorse proprie per arrestare il degrado e

migliorare l’offerta e chi invece ha fatto solo

finta. Ci ritroviamo così in un paese con for-

tissimi squilibri. Abbiamo regioni come la Ca-

labria dove il servizio si è ridotto del 26%, del

19 in Basilicata, del 15 in Campania, del 12

in Sicilia, dell’8 in Liguria. E realtà virtuose

come Trento, Bolzano e la Toscana che hanno

stanziato più dell’1% del proprio bilancio per

i pendolari. Da noi sono entrati in servizio 60

nuovi treni (entro il 2022 saranno tutti nuovi)

e sono in corso investimenti sulla Pistoia-Luc-

ca e la Empoli-Siena. Bene anche in Lombar-

dia ed Emilia-Romagna.

L’esperienza ci dice che i passeggeri aumenta-

no ovunque quando l’offerta migliora, quando

il servizio è affidabile e confortevole. Auguria-

moci che qualcuno se ne accorga e ci creda.

Segnalidi fumo

La Milano-Cremona è una delle peggiori li-

nee ferroviarie della Lombardia. Lo ha scritto

Legambiente nel suo rapporto 2017. Guarda

caso è proprio su quella tratta che giovedì 25

gennaio un treno alle porte di Milano deraglia.

Alcune carrozze escono dai binari e si schian-

tano contro i pali della luce. Un disastro: 3

morti e 46 feriti.

Da anni Legambiente ci ripete che agli italiani

piace il treno; tuttavia per i propri spostamen-

ti sono costretti a subire la scarsa affidabilità

dei servizi pubblici, in particolare dei treni

di Remo Fattorini

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1027 GENNAIO 2018

Il misticismo di TurriniL’Arte è da sempre un luogo di ricerca e di

sperimentazione: uno spazio mentale, nel

quale sondare i campi mistici del reale con

l’intento di varcarli per cogliere ciò che l’oc-

chio umano non può percepire nel labirinto

rappresentativo di un’attualità sempre più

mediatica e sempre più affollata di immagini.

Per Stefano Turrini l’Arte è uno strumento at-

traverso il quale esaminare una misticità che

dal colore porta alla presa di coscienza che esi-

ste una dimensione lontana dalla tangibilità e

dalla concretezza del viver quotidiano, vitale

e attiva nel suo esserci. Basta calarsi nella con-

templazione delle sue opere - libri d’artista,

carte, sculture, pitture - per rendersi conto

della particolare attenzione che l’artista pone

al centro dell’idea d’instabilità: nell’atmosfera

caotica delle pratiche estetiche le opere d’arte

di Stefano Turrini indagano l’armonia delle

parti, in quel delicato varco che delimita l’im-

mutabilità della materia dalla sua trascenden-

za, facendo dell’effimero e del provvisorio un

atto di purezza e di autenticità.

Con “Nigredo”, ultima serie presentata alla

Biblioteca San Giorgio - presso lo spazio “Art

Corner, un luogo di racconti visivi” ideato da

Fabio De Poli nel 2015 - la ricerca artistica di

Stefano Turrini si è assimilata alla pratica al-

chemica capace, attraverso la decostruzione,

di operare in nome della creazione, proce-

dendo oltre tutto ciò che è casuale e razionale,

facendosi di fatto pura operatività. Un’indagi-

ne mistica ed inedita sulle possibilità offerte

«dell’opera al nero» e della sua dialettica nel

farsi opera d’arte; una ricerca insita al centro

dell’idea di Arte, in quanto occasione espres-

siva di cogliere ciò che esiste oltre il reale e i

confini dell’immaginazione umana: una mag-

ma cromatico dal quale scaturiscono elementi

volti a dare vita all’Opera, alla Grande Opera

che l’Arte rincorre da secoli, in una continua

dialettica di tentativi, innovazione e speri-

mentazioni, che portano all’artista alla sco-

perta di infinitesimali fattori, in grado di ope-

rare uno scarto dalla norma e meravigliare il

pubblico. Cosa può essere la prassi estetica se

non la continua ricerca espressiva di una (im)

perfezione instabile e dinamica?

«Nel magma caotico del monocromo tutto

muore e tutto rinasce. Nel nero tutto si va-

nifica e tutto si disperde, in un coacervo di

instabilità e armonia ove l’imperfezione de-

composta e decostruita della materia pittorica

fa dell’opera d’arte un processo alchemico di

caos e di rigenerazione. Nell’atto iniziale e

iniziatico della creazione il colore sfugge alla

categorizzazione figurativa per farsi massa in-

di Laura Monaldi

stabile, tesa a un’evoluzione priva di controllo:

le forme si lasciano andare al mare della ca-

sualità e le linee percorrono strade misterio-

se varcando i confini inesplorati di una geo-

metria atipica fuori dal tempo e dallo spazio

euclideo. Nella dialettica ignota e nella dina-

mica oscura del monocromo l’artista ricondu-

ce il proprio linguaggio a un personalissimo

stadio primitivo, a quell’ancestrale anello di

congiunzione che divide l’astratto dal figura-

tivo, trovando nell’equilibrio instabile degli

archetipi artistici una rinnovata armonia, ca-

pace di aprire le porte su scenari estetici che

invocano un varco della mente sugli orizzonti

sconfinati di ciò che è pensabile e impensabi-

le. La «Nigredo», primo atto creativo, fa della

dissoluzione del tutto un inno alla rinascita,

un incipit di inizio e di rinnovo, una trasmu-

tazione di forma, colore e gesto artistico che

dal magma primordiale genera la quintessen-

za dello spirito estetico, teso a contemplare e a

carpire ciò che il mistero della creazione cela.

Stefano Turrini sfida le regole geometriche e

fisiche per analizzare il misticismo insito nel

potenziamento artistico delle tecniche e dei

linguaggi quotidiani, ricordando che non è

dalla complessità che la Grande Opera emer-

ge, ma è nella complessità che essa si crea e

si ricrea costantemente, seguendo il processo

espressivo del demiurgo».

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1127 GENNAIO 2018

e autore del libro File under Popular: Theore-

tical and Critical Writings on Music (Novem-

ber Books, 1984).

To Lindsay propone sette pezzi, tutti com-

posti dalla musicista inglese tranne il lungo

brano omonimo scritto da Faraò. Il risultato

è una panoramica molto varia della parabola

cooperiana, che spazia da Western Culture

(1978), inciso con gli Henry Cow, all’intenso

Oh Moscow! (1991), forse il più riuscito dei

suoi lavori solistici.

L’orchestra di Faraò realizza una sintesi per-

fetta di passione e di rigore tecnico. Alla rea-

lizzazione del CD hanno collaborato diversi

musicisti che avevano condiviso le esperienze

di Lindsay Cooper. Come anche Alessandro

Achilli, giornalista di Musica jazz, un tempo

animatore dell’indimenticabile rivista Musi-

che (1988-1997). Il disco rappresenta anche

una gradita sorpresa, dato che si concentra su

un ambiente musicale solitamente trascurato

nel nostro paese.

Faraò è un cognome ben noto a chi segue il

jazz italiano. A questa famiglia appartengo-

no due cugini, i pianisti Antonio e Massimo,

e il batterista Ferdinando Faraò, batterista,

fratello maggiore di Antonio. Tutti hanno col-

laborato con i più prestigiosi colleghi italiani

e stranieri: da Enrico Rava a Daniel Humair,

da Chralie Mariano all’indimenticabile Mas-

simo Urbani.

Oltre ai numerosi lavori realizzati con varie

formazioni, nel 2010 il batterista romano ha

fondato l’Artchipel Orchestra, attorno alla

quale ruotano una trentina di eccellenti jaz-

zisti italiani.

La formazione si distingue dalle altre orche-

stre italiane per il repertorio, che si concentra

sul rock-jazz inglese degli anni Settanta e sui

fermenti musicali limitrofi.

La discografia dell’orchestra inizia con Never

Odd or Even (Music Center, 2012), realizzato

insieme al chitarrista Phil Miller, colonna por-

tante di gruppi come Hatfield and the North,

Matching Mole e National Health. Il lavoro

successivo, Ferdinando Faraò & Artchipel

Orchestra play Soft Machine (Musica Jazz,

2014), prosegue su questa strada. Coerente

con questo iter, ma al tempo stesso diverso,

è il recente To Lindsay: Omaggio a Lindsay

Cooper (Music Centeer, 2017). Il nome della

compositrice inglese (1951–2013), fagottista

e oboista, viene solitamente legato agli Henry

Cow, il gruppo che negli anni Settanta guidò

il movimento denominato Rock in Opposi-

tion, al quale aderirono diversi gruppi europei

estranei allo showbiz angloamericano (Art

Zoyd, Univers Zéro, etc.).

Ma in realtà la parabola artistica di Lindsay

Cooper è stata molto varia, spaziando dalle

colonne sonore alle musiche per il teatro, sen-

za dimenticare le collaborazioni con gruppi

come Comus e e News from Babel. Femmi-

nista e marxista, la compositrice londinese

appartiene a una temperie musicale e politica

tipica dell’epoca, che in Italia trovò eco soltan-

to negli Stormy Six e in pochi altri gruppi.

Ma torniamo al CD, dove spicca la presenza

di Chris Cutler, batterista degli Henry Cow

oltreché memoria storica di quella esperienza

di Alessandro Michelucci

MusicaMaestro

Per Lindsay

Giambologna

Foto diPasqualeComegna

Corpidi marmo

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1227 GENNAIO 2018

metropoli (12 ha). Chiaro che non si sarebbe

potuto solo scavare in funzione dei lotti edifi-

cabili dell’Interporto. Nel maggio 2003 fu sot-

toscritto un protocollo d’intesa fra i Comuni di

Prato e Campi Bisenzio per indagare in ogni

direzione oltre i confini interportuali al fine

di identificare un confine possibile della città.

Furono stanziati oltre 300 mila euro e per l’ab-

bondanza dei reperti s’ipotizzò di creare un an-

tiquarium sul posto, utilizzando i fienili restau-

rati della Villa Niccolini cha insisteva nel bel

mezzo della città etrusca, forse sulle stesse fon-

dazioni di un edificio analogo a quello ritrovato

più ad est. Chi scrive ebbe anche l’incarico di

studiare una possibile convivenza fra interpor-

to e area di scavo ed ipotizzare la formazione

di un parco archeologico che si sarebbe esteso

per oltre 50 ettari. L’idea franò già nel 2005

con la realizzazione della asse stradale Mezza-

na-Perfetti Ricasoli che tagliò a sud ogni possi-

bile espansione; inoltre l’interporto reclamava

un nuovo “piano di utilizzo” per compensare

le sottrazioni dei terreni lottizzabili occupando

altre aree. Nonostante questo empasse si dettò

nel novembre del 2006, al termine del citato

convegno, la prima declaratoria d’interesse

per le aree di scavo da sottoporre a vincolo di

tutela. (fig.2)

La” Gonfienti archeologica”, quale fossero sta-

ti i futuri ritrovamenti sarebbe stata confinata

entro una superficie di non oltre 27 ha. D’altro

canto la Società Interporto che nel corso di 10

anni aveva sostenuto in toto le spese di scavo,

nonché la cessione in comodato alla SBAT dei

locali restaurati di un antico mulino, posto all’

interno della proprietà, al fine di permettere la

costituzione in loco di un laboratorio di restau-

ro per il deposito delle oltre 2500 cassette di

reperti raccolti, accollandosi un costo dichiara-

to di 3,5 milioni di euro, usufruì del nulla osta

necessario per dar corso alle nuove edificazioni

che andavano ad occupare 12 ha di aree “sensi-

bili” rimaste intercluse fra il piazzale merci e il

limite nord dell’area di espansione. Nel segno

dell’”archeologia preventiva” si sanciva il sacri-

ficio di una vasta necropoli dell’Età del Bron-

zo medio 1-3, di una strada glareata e di altre

opere idrauliche di grande valore archeologico

che sarebbero state interrate e segnate a terra

sotto il peso del cemento di piazzali, binari e

magazzini.

Nel 2001, le prime ammissioni sulla rilevan-

za del sito archeologico di Gonfienti suonano

ancor prudenti, così il soprintendente Angelo

Bottini: “Lo scavo ha portato alla luce una re-

altà che non è certo una semplice fattoria. Si

tratta di un vero e proprio insediamento, per

il quale è stata usata forse a ragione, la parola

città”. Ma, nel 2006, dopo 10 anni dal primo ri-

trovamento, la città degli Etruschi sul Bisenzio

è ormai una risorsa primaria dell’archeologia in

Toscana, come “certificato” dal convegno Dalle

Emergenze alle Eccellenze (Prato, 31 ottobre

2006). Riferendosi agli scavi pratesi, così scri-

ve la nuova soprintendente Fulvia Lo Schiavo:

“La vocazione all’eccellenza non ha un limite

… questo patrimonio è una risorsa. Non c’è in

tutta la Toscana, un sito archeologico che sia

inserito nelle liste Unesco. Questo è motivo di

scandalo. Qui le ‘buone pratiche’ sono quello

che supportano e sostengono, non solo econo-

micamente ma anche socialmente, lo sviluppo

del sito antico e della sua storia, insieme a tutti

coloro che lo occupano, lo utilizzano e che ci

vivono, apprezzandone la straordinaria ed ec-

cezionale bellezza.” In quell’occasione Ambra

Giorgi, Presidente della Quinta Commissione

“Attività culturali e turismo del Consiglio Re-

gionale della Toscana”) ebbe a dire: “La logica

di fare sistema si addice particolarmente all’ar-

cheologia … Ad esempio: Gonfienti esisteva

quando Prato non c’era. Era una fiorente città

commerciale che, attraverso il valico appenni-

nico e la sua gemella Marzabotto, intratteneva

rapporti con i grandi porti dell’Adriatico e con

Fiesole e poi con Artimino e Comeana. E’ evi-

dente quindi che l’unico modo per valorizzare

adeguatamente un’area territoriale antica, per

renderla leggibile, comprensibile non solo agli

specialisti ma ad un pubblico vasto, è quello di

ricostruirne, attraverso un progetto scientifico

rigoroso, le reali estensioni e la complessità di

relazioni con altri centri e poi mettere in rete

tutti i centri contemporanei che insistono su

quell’area antica per delineare un moderno di-

stretto culturale.” A rendere così intrigante ed

entusiasmante l’appeal di Gonfienti era stata,-

nel 2003 la definitiva messa in luce nel Lotto

14 F di un grande edificio (VI-V secolo a.C.)

di oltre 1400 mq, affacciato su strada orienta-

ta E-O, da questa separato mediante profondo

canale che immette attraverso un vestibolo ad

un vasto cortile interno munito di pozzo con

portico dal quale si accede ad altri locali. “Su

buona parte dell’edificio è stato messo in luce

lo strato di crollo del tetto” (Giovanni Millema-

ci, archeologo SBAT). (fig. 1)

Proprio la grande emozione di questo eccezio-

nale ritrovamento, unito alla qualità dei reperti

Gonfienti come una nuova Pompei

di Giuseppe Alberto Centauro

e all’ancor più loro eccezionale valore storico

artistico (di ciò diremo in successivi contributi),

nonché alla fattura e buona conservazione dei

muri perimetrali drenati da canalizzazioni, ha

fatto paragonare lo scavo di Gonfienti a Pom-

pei: per la città campana furono i lapilli e la

lava a sigillarne per millenni le strutture, qui

lasolida persistenza di uno strato limaccioso

ha fatto da collante naturale fin dal principio

del IV secolo a.C., al tempo della sua subita-

nea scomparsa. Sulla scia di questa nuova e

strepitosa scoperta, posta a centinaia di metri

di distanza dai lotti precedentemente indaga-

ti, l’ampiezza dell’insediamento arcaico stava

assumendo i connotati di una vera e propria

Fig 2 - Gonfienti- Interporto, in giallo le aree indagate

al 2006 (Base OFC- Regione Toscana, 2011)

Fig 1 -Gonfienti - Interporto (Lotto 14), Antefissa (da:

Carta Archeologica della Provincia Prato, © SBAT

2011, p.327)

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1327 GENNAIO 2018

di Valentino Moradei Gabbrielli

Domenica, 7 gennaio 2018 visitando con Mo-

nica la Galleria, osserviamo e riflettiamo le oc-

casioni risolte a nostro avviso in maniera inap-

propriata nel recupero e riqualificazione degli

spazi della “Fabbrica degli Uffizi”. Occasioni

risolte o proposte, dagli stessi funzionari della

“Galleria”. L’attuale sistemazione della “Sala

dei Marmi Ellenistici” per esempio, si presen-

ta come un corridoio di transito che ci attende

dopo aver percorso il nuovo scalone di accesso al

piano. Un’infilata di “corazzieri” rigorosamente

e ordinatamente addossati alle pareti che ci pre-

parano creando imbarazzo ed una certa fretta

alle sale successive. Chi mai potrebbe immagi-

nare un allestimento, simile a come può appari-

re un salone per lo sgombero in occasione della

ridipintura del soffitto, o, il transito di materiali

ingombranti e potenzialmente pericolosi per le

statue dalla sala, che precauzionalmente sono

state addossate alle mura? Quale considerazio-

ne per la visione a tutto tondo dell’opera scul-

torea? Quale considerazione per la proverbiale

plasticità ellenistica e la sua partecipazione del-

lo spazio? Una “Tribuna” che in ordine alla sua

conservazione e restauro (si dice molto costosi),

viene impedita alla visita fondamento indispen-

sabile per la conoscenza dello spazio architet-

tonico, e materialmente eliminata dal percorso

ridotta com’è ad un affaccio, simile alla veduta

dalla finestra sul cortile, che allontana irrepara-

bilmente le opere d’arte conservate al suo inter-

no e nega la possibilità di viverne l’atmosfera.

Tutte scelte dettate da infiniti fattori e ponde-

rate valutazioni (speriamo), che all’atto pratico

però non fanno bene alla fruibilità dell’arte, alla

diffusione della cultura.

Attenzione! Funzionari al lavoro

Quando lo vedevi arrivare, con il suo immanca-

bile “papillon” colorato, avevi la sensazione di

vedere arrivare la storia dell’architettura. Con

i suoi libri, e alle sue lezioni, si erano formati

generazioni di architetti. E Bruno Zevi non

deludeva la tua sensazione di avere di fronte

il professore affermato e consapevole della sua

competenza e del fascino culturale delle sue

idee. A Firenze era stato diverse volte per il

progetto (suo e di Alberto Breschi) della nuova

stazione AV di ziale Belfiore. “Lo squalo” come

era stato ribattezzato dalla stampa cittadina e

l’immagine era in fondo corretta. Un’opera di

architettura che non vedremo mai a causa del-

le vie imperscrutabili delle norme di tutela dei

beni architettonici.

Bruno Zevi era nato a Roma esattamente cen-

to anni fa il 22 gennaio 1918 e aveva dovuto

lasciare l’Italia nel 1938 a causa delle leggi

razziali. Si era perciò laureato in architettura

alla Graduate School of Design di Harvard,

all’epoca diretta da Walter Gropius. Tornato

in Italia iniziò l’insegnamento di Storia dell’Ar-

chitettura all’Istituto Universitario di Architet-

tura di Venezia nel 1948. Un docente e critico

militante che tenne per oltre 45 anni (dal 1954

al 2000 anno in cuì morì) una rubrica settima-

nale sull’Espresso, che fondo la rivista “L’Ar-

chitettura. Cronache e storia” e fu impegnato

attivamente in politica prima con la formazio-

ne Giustizia e Libertà e poi nelle file del partito

radicale. Fu, insieme a Manfredo Tafuri e a Pa-

olo Sica, uno dei pochi docenti e critici italiani

di architettura e di storia dell’architettura che

ebbero una rilevanza internazionale.

Fervente assertore dell’architettura organica

vide in Frank Lloyd Wright il massimo espo-

nente del movimento moderno. Dalle sue idee

e dalla sua ricerca nacquero testi chiave della

critica dell’architettura, fra i quali “Il linguag-

gio moderno dell’architettura” è senza dubbio

il più noto. Il sottotitolo “Guida la codice anti-

classico” è ancora più esplicativo degli inten-

dimenti di Zevi.

Scritto agli inizi degli anni ‘70 (la prima edi-

zione nella Piccola Biblioteca Einaudi é del

1973) in contrapposizione (più ricercata che

reale) allo scritto di circa 10 anni prima di

John Summerson “The Classical Language

of Architecture”, il volume raccoglie idee, sug-

gerimenti, proposte e metodi per la costruzio-

di John Stammer

Zevi 100 ne di un lessico, di una grammatica e di una

sintassi dell’architettura anticlassica. Un libro

fortemente ideologico dove le didascalie delle

immagini sono emblematiche a cominciare

dalla prima a pag.12 “La dittatura della linea

retta in uno schizzo di Mauris. Ne derivano

la mania delle parallele, delle proporzioni,

dei tracciati ortogonali, degli angoli a 90°;

cioè il lessico, la grammatica e la sintassi del

classicismo. I monumenti dell’antichità detta

“classica” vengono falsati per conformarli ad

un’ideologia aprioristica, astratta”, e dove si

rileggono le opere di architettura di Miche-

langelo (a lungo dimenticato come architetto

sostiene Zevi) in chiave di rottura con gli sche-

mi dominanti all’epoca, portando ad esempio

la pianta a trapezio rovesciato di piazza del

Campidoglio.

A questo libro seguirono altri come “Poetica

dell’architettura neoplastica” e Architettura e

storiografia” sempre pubblicati da Einaudi.

A cento anni dalla sua nascita saranno molte

in Italia le occasioni per ricordare Bruno Zevi

un architetto che eseguì poche opere ma che

ha fortemente influenzato, con i suoi scritti, il

modo di fare architettura.

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1427 GENNAIO 2018

di Anna LanzettaL’arte è la vera ricchezza dello spirito, è respiro

e palpito, è l’armonia del pensiero, il sipario che

ci divide dalle brutture del mondo, uno spazio

aperto verso un’infinita bellezza, dove il colore

rapisce e gli elementi decorativi e rappresen-

tativi rubano l’attenzione e spostano l’occhio

vigile e attento fino a perdere la cognizione del

tempo che si sottrae a ogni tipo di collocazione.

L’arte di Ambrogio Lorenzetti, nelle sale di

Santa Maria della Scala, affascina e illumina

tra oro profuso e il primo azzurro e dialoga con

gesti, sguardi, espressioni e fisionomie che coin-

volgono il visitatore in un balenio tra l’epoca

dell’artista e la modernità che vi si coglie. Non

sfugge il richiamo all’arte giottesca ma al con-

tempo è evidente l’evoluzione che caratterizza

lo stile innovativo dell’artista nella scelta delle

tecniche che lo renderanno unico. In un clima

di intensa spiritualità emerge la modernità dei

temi espressi con un realismo che definisce i

personaggi e i ruoli che sono chiamati a rappre-

sentare. Un’arte sacra in cui l’elemento religio-

so si coniuga perfettamente con quello terreno.

La mostra è un libro aperto sull’umanità dove

simboli, allegorie e valori insegnano, educa-

no, orientano e rendono il visitatore partecipe.

Ogni opera ferma il passo per essere decodifi-

cata in ogni elemento e coglierne poi il mes-

saggio che va oltre il tema. I protagonisti sono

resi con un naturalismo che l’artista fa suo con

la scelta del colore, con le modulazioni chia-

roscurali, con fisionomie che esprimono moti

dell’animo: gioia, tristezza, dolore, disperazio-

ne, aspirazione al “divino”. Una folla di perso-

naggi che riflettono la vita: angeli, santi, devoti,

storia e leggende, un’umanità differenziata so-

cialmente ma unita nei valori di carità, di sal-

vezza, di ricerca spirituale, di dedizione, in cui

l’elemento sacro si carica di umanità e di affetti

nella carezza, nell’abbraccio del Bambino che

diventa sostegno materno, in quel guancia a

guancia, nel richiamo alle virtù: amore e cari-

tà, nella musicalità degli angeli, nel piede del

Bambino saldamente retto dalla mamma, nel

seno che amorevolmente allatta, espressione di

una maternità universale, nello scambio degli

sguardi che ripetutamente si incrociano quali

simboli di affetto, di salvezza, di solidarietà e di

testimonianza. Un’arte attenta ai particolari e

agli elementi decorativi che tratteggiano vesti

e suppellettili, e architetture che mostrano ca-

pacità di creare poi la prospettiva. La mostra,

di sala in sala rievoca il Trecento, l’epoca di

Lorenzetti, vissuto dal 1290 al 1348, e ne rac-

conta la società nei costumi, negli arredi, nelle

strutture interne ed esterne con un gusto raf-

finato che denota gradualmente l’ evoluzione

Memorie di un uomo libero

Lo splendore dell’arte:Ambrogio Lorenzetti dell’ artista decisamente affrancato.

Tutto è poesia che si muta in versi la cui rima è

il palpito del cuore.

Abbaglia l’oro profuso, segno di spiritualità

misto a un amore dove la sfera divina incrocia

quella terrena fino alla svolta verso un cielo az-

zurro dove la realtà prende corpo. Ogni opera

illumina, bellezza e leggiadria sposano la raffi-

natezza, e lo splendore dell’Annunciazione è

toccante: il volto rapito della Vergine si pone

all’ascolto dell’arcangelo Gabriele…il concepi-

mento avverrà nel mistero più profondo…Ecce

ancilla Domini.

Yves Montand è stata una figura imponente che

ha attraversato la Francia per almeno metà del

XX secolo. Cantante, attore, icona, potenziale

candidato alla presidenza della Repubblica, il

figlio dell’esule antifascista di Monsummano

Terme emigrato in Francia all’avvento del re-

gime mussoliniano nel nostro Paese, è stato un

punto di riferimento per registi, sceneggiatori

ma anche tanti cittadini semplici

che hanno amato le sue canzoni,

i suoi personaggi e le sue prese di

posizione franche e sincere.

Ripercorre la sua vita attraverso

le sue dichiarazioni e interviste

il bel volume, Moi ma vie, curato

da Carole Amiel edito in Italia

da Clichy che ripercorre la car-

riera artistica e la maturazione

politica dell’artista.

Partito dai music hall della Francia occupata,

approdato alla scena musicale parigina che

conta grazie ad Edith Piaff con cui inizierà an-

che una storia d’amore. Quello della sua vita

sentimentale, con la Piaff con la compagna di

una vita Simone Signoret, sono sempre accen-

ni, pudicamente lasciati fuori dal discorso pub-

blico. Preservati non per calcolo ma per scelta,

a differenza delle posizioni politiche passate

dall’innamoramento comunista ad una profon-

da battaglia contro il tradimento degli ideale e a

un antisovietismo militante negli anni 80 che lo

porterà a polemizzare anche con l’allora segre-

tario del Partito Socialista Lionel Jospin.

Il Montand che esce dalle pagine del libro non

è un divo, è un artista (anche se civettuosamen-

te si definisce per larga parte della sua carriera

un artigiano) consapevole dei suoi mezzi, del

suo valore (anche economico) che tiene a far

sapere che di tutte le sue virtù quella per lui de-

terminante sia la sua libertà. Una libertà anche

politica che lo porta a prendere

sempre e comunque posizione,

per l’Unione Sovietica nei primi

anni del dopoguerra, per la de-

stalizzazione, per i profughi cile-

ni, per la primavera di Praga, in-

fine anche per Reagan nella sua

battaglia contro i regimi dell’est.

Una libertà che le cronache

mondane raccontavano tale an-

che nella vita privata ma che invece nel discor-

so pubblico mai appare. Anzi l’uomo Montand

che parla di sé è sempre il figlio del contadino

toscano che va in esilio per affermare la sua li-

bertà, l’uomo integro che pur cantando i senti-

menti (fu il primo a portare al grande pubblico i

versi di Prevert) non ne viene sopraffatto. Salvo

forse sul finale, con l’arrivo in tarda età, del pri-

mo figlio a cui farà dedicare da un suo paroliere

versi struggenti, un testamento e una promessa.

Forse la stessa che Montand bambino fece a se

stesso: di vivere da uomo libero.

di Michele Morrocchi

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1527 GENNAIO 2018

Anche il Louvre ha avuto il suo eroe: Jac-

ques Jaujard (1895-1967), direttore dei Mu-

sei Nazionali Francesi durante la Seconda

Guerra Mondiale.

Il sogno di Hitler era quello di costruire un

enorme museo in onore del Terzo Reich. Per

questo era stato creata un’unità speciale, il

Kunstschutz, apparentemente con il compito

di preservare il patrimonio artistico dei nemi-

ci per poi restituirglielo alla fine del conflitto,

in realtà dedita al saccheggio di opere da mu-

sei e collezioni private di ebrei considerate

bottino di guerra.

Il 25 agosto del 1939, pochi giorni prima

l’inizio della Seconda Guerra Mondiale,

all’ingresso del Louvre fu appeso un cartel-

lo in cui si avvisava i visitatori che il museo

sarebbe rimasto chiuso 3 giorni per “lavori

urgenti”. In realtà, dietro le porte sbarrate del

Louvre, centinaia di volontari, tra cui tutto il

personale ma anche studenti dell’Accademia

e gente del popolo, a ritmo frenetico stavano

imballando più di 4000 opere facenti par-

te del tesoro del museo, per poi metterle in

casse di legno contrassegnate con un colore

a secondo del loro valore artistico. La valigia

che conteneva La Gioconda aveva 3 cerchi

rossi, il massimo in ordine d’importanza. Era

la realizzazione del piano di salvataggio del

tesoro del museo più importante del mondo

progettato dal lungimirante Jacques Jaujard,

che ben aveva intuito la personalità e le mire

di Hitler. Era una missione segretissima e ri-

schiosa che però Jaujard conosceva bene per

aver già eseguito un simile piano quando era

supervisore all’evacuazione delle opere d’arte

dal museo del Prado durante la guerra civile

spagnola.

Finalmente, tra mille difficoltà (alcune ope-

re come Le nozze di Cana del Veronese, La

zattera della Medusa di Géricault o la Nike

di Samotracia, date le dimensioni, non erano

facili da imballare), uscì dal museo il lungo

convoglio di 203 veicoli, tra auto private, au-

toambulanze, camion e taxi, con il loro pre-

zioso bottino chiuso in 1862 casse, diretto

verso centinaia di castelli della Loira e case

in piccoli villaggi i cui proprietari si erano

fatti carico di grande responsabilità e pericolo

per custodirlo. Nel diario di Jaujard di quel

periodo si fa riferimento più volte alla pre-

ziosa collaborazione del conte Franz Wolff

Mettenrich che nonostante fosse a capo della

Kunstschutz francese sembrò quasi sollevato

di trovare il Louvre completamente svuotato.

Come molti aristocratici tedeschi, non era na-

zista e, appassionato d’arte, cercò di facilitare

di Simonetta Zanuccoli

Gli uomini che salvarono il Louvrein tutti i modi questa operazione di salvatag-

gio. Jaujard trascorse tutto il periodo della

guerra a Parigi. Con la sua vecchia Renauld,

sprezzante del pericolo, come si dice per gli

eroi, andava da un posto all’altro per ispe-

zionare le collezioni messe in salvo in quei

luoghi, portando perfino stufette elettriche e

dispositivi idrometrici per aiutare a stabiliz-

zare le opere più fragili. Quando i combatti-

menti si avvicinarono a Parigi, organizzò un

sistema di protezione e difesa del Louvre, che

contribuì, nonostante la vicinanza del museo

all’Hotel Meurice, quartier generale tedesco,

e all’infuriare dei bombardamenti, a non fare

subire al museo danni significativi.

All’inizio del 1944 la Resistenza francese

prese contatti con Jaujard mandandogli un

ufficiale di collegamento. Nome di battaglia

Mozart. Grande fu la sua sorpresa quando

scoprì che Mozart era Jeanne Boitel, un’at-

trice bionda platino che negli anni ‘30 aveva

recitato in un film di Renoir. Dopo poco i due

si sposarono e ebbero un figlio.

Dall’ottobre dello stesso anno, dopo la libera-

zione di Parigi il 25 agosto per merito del ge-

nerale Leclerc, le collezioni furono progres-

sivamente riportate al Louvre che riaprì, con

tutti i suoi tesori salvati, nel luglio del 1945.

Alla fine della guerra Jaujard chiese a Char-

les de Gaulle di conferire a Franz Wolff Met-

tenrich la Legion d’Onore per aver contribu-

ito a salvare il patrimonio nazionale. Gli fu

concessa nel 1952.

Jacques Jaujard diventerà per l’opinione pub-

blica un eroe solo più tardi dato che il suo ruo-

lo è stato tenuto a lungo segreto. A lui è stato

dedicato nel 2014 un documentario, L’uomo

che salvò il Louvre, di Jean-Pierre Devillers

e nel 2015 Francofonia un film di Aleksandr

Sokurov.

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1627 GENNAIO 2018

“Coco” è uno straordinario film, una di

quelle opere che hanno il compito di riu-

nificare e accogliere le frammentarie co-

scienze degli abitanti del pianeta Terra.

E’ la testimonianza di come si possa essere

precipitati nell’immaginario di una cultu-

ra “altra” senza alcuna mediazione: basta

una bella storia, una buona dose di curio-

sità e la capacità di generare meraviglie.

Questo fanno magicamente Lee Unkrich e

Adrian Molina, grazie ad una magnificen-

za nutrita di leggiadria che trasporta verso

l’indefinito spazio delle emozioni univer-

sali. Le tematiche del film targato Pixar

sono serissime: si parla di mondo dei vivi e

regno dei morti, di celebrazione della me-

moria, di culto della rimembranza, di ponti

fioriti tra Terra e Cielo, di animali mitici…

sembra di essere di fronte alla continuazio-

ne in salsa “chili” di “Inside Out”, solo che

qui le emozioni sono vivide e reali, sia al

di là che al di qua del cielo. C’è una sottile

linea che unisce tanti film della Pixar, da

“A Toy Story” a “Up” fino a “Coco”. Sono

i temi della perdita, dell’abbandono e del

diverso, dell’anomalia che sconvolge e pro-

duce catarsi dopo un travaglio essenziale

e doloroso. “Coco” è un tripudio di luci,

colori e musica. E’ finalmente un film mu-

sicale (sulla musica come veicolo catartico)

che non scimmiotta il “musical”. Oramai i

prodotti Pixar hanno di fatto sostituito la

valenza di quelli che un tempo venivano

definiti “romanzi di formazione”, giac-

ché la cifra sinestetica e il portato emoti-

vo evocati da simili opere sono oramai in

grado di scrostare e sconvolgere le impasse

dell’immaginario di ogni adolescente.In

“Coco” tutto, dal cane Dante, ad ogni sin-

golo componente della famiglia Ravera è

coralità e flusso eterno, percorso iniziatico

che si costituisce e delinea a partire da ogni

scioglimento di ganglio e nodo energetico.

La festa dei morti è festa delle anime e dei

corpi, è gioia del riconoscimento e simbo-

logia di un legame tra mondi che risale fino

alle epopee di Gilgamesh. Così volano la

bisnonna-bimba “Coco” e il nonnino di

“Up”: su palloncini colorati. Da vedere as-

solutamente.

di Francesco Cusa

Coco, un Inside Out in salsa chili

Lo stato della raccolta contributi verso gli enti no-profitRecentemente pubblicata dall’Istituto Italiano

Donazione, la 15a rilevazione su “L’andamen-

to della raccolta fondi: bilanci 2016 e proiezio-

ni 2017”. L’indagine consente di apprendere

che il 36% delle ONP ha aumentato le proprie

entrate totali nel 2016; il 42% non ha avvertito

alcun cambiamento sostanziale, il 22% ha visto

diminuire le proprie entrate totali nel 2016.Le

donazioni degli italiani alle organizzazioni no

profit non hanno dunque risentito significativa-

mente della crisi, anzi nell’ultimo triennio han-

no registrato una stabilizzazione delle entrate

totali. Dunque la raccolta fondi del 2016 è

risultata maggiore di quella del 2015 e le previ-

sioni per il 2017, sebbene prudenti, ad ottobre

di tale anno, risultavano positive. Il 5 per mil-

le incide solo per il 15% del totale dei bilanci.

La raccolta fondi da enti pubblici ed il direct

mail (ancora cartaceo nonostante la crisi con-

seguente la fine delle agevolazioni sulle spedi-

zioni postali) rappresentano la metà del totale;

quella tramite il direct mail elettronico, le carte

di credito, gli sms, facebook è ancora modesta.

Tra i settori la ricerca scientifica e la cultura re-

stano tra le più gettonate. Il flusso di risorse che

attraverso le dichiarazioni dei redditi e le scelte

degli italiani giunge a irrorare i magri bilanci

di istituti, università ed enti, organizzazioni

assistenziali e ambientaliste, culturali o spor-

tive, se non saranno decurtati strada facendo,

arriveranno purtroppo solo dopo molto tempo.

L’esame dei dati statistici evidenzia con chia-

rezza che buona parte delle risorse finanziarie

degli enti derivano innanzitutto dalla Pubblica

Amministrazione, un’altra parte cospicua deri-

va dalle imprese. E’ evidente la crescente pro-

pensione delle imprese, ma anche dei singoli,

a rivolgere maggiore attenzione al mondo non

profit, proprio in un momento in cui si mani-

festano i maggiori bisogni sociali, sia in relazio-

ne alle minori risorse dello Stato, che a nuove

forme di bisogno. Ci si deve seriamente interro-

gare quali strade occorre percorrere per perse-

guire l’ottimizzazione dei flussi finanziari verso

il terzo settore. Dopo un periodo iniziale della

loro vita, in cui è preponderante l’entusiasmo

dei volontari e dei fondatori, le organizzazioni

non profit, conoscono normalmente un periodo

caratterizzato da un calo nelle adesioni e nella

responsabilizzazione delle persone coinvolte,

pertanto occorre promuovere la conoscenza de-

gli strumenti di marketing e avviare reti tra enti

per l’adozione delle tecniche di comunicazione

adatte al settore. Uno dei problemi maggiori,

poi, consiste nel determinare l’ammontare di

spesa da destinare alle diverse attività di marke-

ting, insomma, per fare soldi occorre spender-

ne! Nel campo della raccolta di fondi, qualche

volta succede che il denaro, speso oggi, darà i

suoi risultati solo domani, talvolta a distanza di

anni. Occorre spendere denaro in liste di mai-

ling, indagini sui profili dei donatori, eventi per

la raccolta dei fondi, addestramento e ricom-

pense ai volontari e pubblicità sui media. II

bilanci di alcuni grandi enti dimostrano, però,

che per ottenere le donazioni si spende molto

più del necessario cosicchè solo una parte viene

destinata alla finalità.

di Roberto Giacinti

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1727 GENNAIO 2018

La memoria di Ryts MonetCurata da Pietro Gaglianò si aperta a Fi-

renze alla SRISA SRISA Gallery of Con-

temporary Art Via San Gallo 53/r, la prima

personale a Firenze di Ryts Monet incen-

trata sulla criticità della memoria collettiva

che si sedimenta nelle forme dei monumen-

ti storici, il cui portato simbolico è ricono-

scibile a tutti, e nella declinazione che ne

ha dato la cultura di massa. L’artista si è

concentrato in vari modi su questo tema nel

corso della sua ricerca, isolando ogni volta

fattori controversi del rapporto che l’uomo

contemporaneo in-

treccia con il vasto

panorama della pro-

duzione di immagini,

delle iconografie del

potere, dei miti dell’i-

dentità e della rea-

lizzazione personale

sollecitati dal sistema

consumista. Dalla fu-

ria iconoclasta dell’I-

SIS, che producendo

rovine di rovine ha

moltiplicato il feti-

cismo occidentale

nei loro confronti,

allo svuotamento di

senso delle immagini nelle ricaduta della

loro moltiplicazione (attraverso lo spazio e

attraverso il tempo), Ryts Monet descrive

senza moralismi una irrevocabile vocazio-

ne dell’umanità a contraffare i simboli, a

distruggerli, a crearne di nuovi. In mostra

vengono presentati lavori recenti ripensati

in un nuovo allestimento e una serie di ope-

re appartenenti a un progetto più ampio

esposto in questa occasione per la prima

volta. Fino al 1 febbraio 2018. Lunedi –

Venerdi 10:00 – 21:00

storo nominò cardinali il nipote Latino, il

fratello Giordano e il cugino Giacomo. In

seguito nominò un altro nipote, Orso, pode-

stà di Viterbo.

Bisogna dire che il buon Latino non comin-

ciò benissimo. Ancor prima di arrivare in

città, emise un solenne editto nei riguardi

delle donne fiorentine, evidentemente trop-

po sfacciate, che obbligava al capo velato le

donne sposate e riduceva “lo scollo a due

dita e lo strascico a due palmi”. Quando ar-

rivò in città, l’8 ottobre 1279, le fiorentine

si erano adeguate: peccato che, alla faccia

della morigeratezza dei costumi, indossas-

sero tutte vestiti accollati fino al mento ma

di stoffe preziose e con ricami pregiati.

Superato questo infortunio iniziale, il cardi-

nale si dette da fare: fece rientrare in città i

fuoriusciti ghibellini, espulse da Firenze gli

elementi più facinorosi (fra i quali spiccava-

no i Buondelmonti), favorì in ogni modo il

processo di pacificazione tanto che, quan-

do lasciò la città, il papa revocò la famosa

scomunica. Nel 1281 i ghibellini furono di

nuovo cacciati dalla città.

Se vi capita di passare, in zona Gavinana,

da cia Cardinal Latino, potrebbe cogliervi

la curiosità di sapere chi era questo prelato,

che ha giocato un ruolo non secondario nel-

la storia di Firenze.

A papa Gregorio X, assurto al trono pontifi-

cio nel 1272, venne il ghiribizzo di mettere

pace fra i guelfi e i ghibellini che si stavano

scannando a Firenze. Avendo convocato un

concilio a Lione, niente di meglio che fer-

marsi di passaggio a Firenze, che si trovava

per l’appunto lungo l’itinerario, per vedere

che cosa poteva fare.

Gregorio arrivò a Firenze il 18 giugno 1273

con un seguito imponente guidato dal re di

Napoli Carlo d’Angiò; non erano della par-

tita i Polo, intimi amici del Papa, che li aveva

appena spediti in Cina con una lettera per

Kublai Khan.

L’imponente spiegamento di forze ridusse

a più miti consigli i capi-fazione e guelfi e

ghibellini, il 2 luglio 1273, sancirono un

solenne accordo di pace siglato sull’attuale

Lungarno Serristori. Il papa, che si trovava

bene a Firenze (vuoi mettere con Lione, a

quell’epoca non c’era nemmeno la Fête des

lumières), si sarebbe anche fermato un po’

di tempo, ma nel giro di pochi giorni guelfi e

ghibellini ripresero a darsela di santa ragio-

ne e Gregorio, infuriato, lasciò la città non

prima di averla scomunicata il che, come

si può facilmente immaginare, non fece né

caldo né freddo ai contendenti; anzi, caccia-

ti i ghibellini, i guelfi pensarono bene, per

non perdere l’allenamento, di dividersi in

due sotto-fazioni (una faceva capo agli Adi-

mari, l’altra ai Tosinghi) e di continuare a

scontrarsi.

Nel 1276 la situazione era diventata così in-

sostenibile che i più ragionevoli fra i guelfi e

i fuoriusciti ghibellini implorarono il nuova

Papa, Niccolò III, di tentare una nuova me-

diazione. A tal fine, il papa inviò a Firenze il

nipote, che altri non era se non

il cardinale Latino Frangipani de’ Brancale-

oni. A proposito, è a papa Niccolò che risale

il termine “nepotismo”: nello stesso Conci-

di Fabrizio Pettinelli

Via Cardinal LatinoScollo a due dita,strascisco a due palmi

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1827 GENNAIO 2018

Washington SquareWashington Square, proprio al centro del

quartiere di North Beach, è un quadrato

perfetto, un prato verde con tre alberi al suo

centro. La piazza è interrotta lungo un suo

lato, con un gesto deciso e senza scuse, da Co-

lumbus Avenue che la taglia in diagonale: Co-

lumbus Avenue diagonale di quartiere come

Market Street diagonale di città.

Washington Square è una sintesi di piazza

all’italiana e parco inglese. Un po’ in declivio

per assecondare la dolcezza della valletta pre-

esistente, invita a sdraiarsi sul prato, a fermar-

si a prendere un cappuccino sui caffè che la

costeggiano o a sedersi su una panchina lungo

il cerchio di asfalto, che circonda il prato: un

cerchio che serve da percorso pedonale, ma

che è anche funzionale alla ronda dell’auto

della polizia. Con il braccio appoggiato al fi-

nestrino il policeman alla guida passa lento,

controllando il territorio: i corpi distesi sul

prato, i vecchietti che conversano tra loro, il

barbone che socchiude gli occhi al sole, i cinesi

che esercitano il tai chi.

Bar MarioNel preciso punto dove sto ora seduto, al bar

Mario a North Beach, una volta c’era un flip-

per. Fuori moda, è stato fatto fuori e sostituito

da un più redditizio tavolo con sedie. Peccato;

ricordo di averci giocato spesso con in braccio

mio figlio, le manine appoggiate sui pulsanti,

a dare spinte alla pallina. Per il resto Mario

è lo stesso. Un bel localino, illuminato bene,

proprio sullo spigolo del palazzetto Vittoriano

che da’ su Washington Square. Ma poichè Co-

lumbus Avenue taglia la piazza in diagonale e

Mario è proprio sullo spigolo con Columbus,

Mario è un bar tagliato, un bar a punta, un

poligono con tre lati ortogonali e uno storto.

Meglio così; è più dinamico e, anche senza il

flipper, è ancora dinamico di gente e anche

più vivace per le tante foto appese, quelle del

tempo, ancora non spostate. Non serviva farlo

per fare spazio a un altro tavolo.

Coit Tower – Telegraph HillUna volta era la collina del telegrafo. Ora al

posto del telegrafo c’è una torre, un monu-

mento che somiglia a un faro, a una colonna

dorica, alcuni dicono al terminale di un tubo

dei pompieri. Mrs. Coit, la benefattrice della

torre, sembra andasse pazza per i pompieri.

E’ comunque una torre semplice e bella, un

pilastro classico in versione art decò, con le

sue scanalature a tutta altezza. Certo ci voleva

qualcosa su quel colle di puramente artistico

di Andrea Ponsi

Mappe di percezioneper differenziarsi dalle torri troppo funzionali

del downtown. Coit Tower sta lì, faro dell’iso-

la del telegrafo a proteggere come una mamma

premurosa la sua prole: le casette cubiche che

stanno abbarbicate tutt’intorno alla collina.

Caffè TriesteSeduto ad un tavolo del Caffè Trieste, da

questa visuale, oltre i vetri, abbraccio un fram-

mento di città : una casa gialla battuta dal sole,

il profilo dei tetti su Grant Street, tetti piani

cosparsi di comignoli, scale a pioli, cornici

dentellate: più in là una bandiera americana

contro il cielo che più azzurro non si può. Sui

vetri le scritte ETSEIRT ‘EFFAC, giuste per

chi passa su Grant Street. Sotto la scritta, i

clienti seduti ai tavoli, i cappuccini, le tazze,

i giornali un po’ sgualciti e la vecchia cabina

telefonica , ormai senza telefono, chissà ora a

che serve; poi altre sedie, altri avventori, forse

scrittori, ex hippies e giovani viandanti senza

nome. Ormai non viene più Bob Kaufman,

con la testa nelle nuvole o Gregory Corso a

leggere il giornale. Forse vengono ancora Jack

Hirshman a discorrere di socialismo e Ferlin-

ghetti col sorriso sulla bocca. Continuo l’ispe-

zione: il tavolino davanti a me ha un piano in

plastica marmorizzata. Sopra il piano un foglio

di giornale, il “San Francisco Chronicle”. Poi

la zuccheriera di vetro a forma di colonna clas-

sica, una tazza con i segni del caffè, il libretto

bianco aperto, la mia mano con la penna e una

linea aggrovigliata che descrive ciò che vede.

Grazie muro (del caffè Trieste)E’ banale, ma sentire il pianista che suona,

proprio qui vicino, un pezzo di Coltrane, fa

pensare: questo muro che separa l’ interno del

caffè dalla strada trattiene il suono, lo avvolge

e lo mantiene solo per noi. Tutto per noi que-

sto buon jazz, questo dolce bel calore (fuori è

rigido); solo per noi questo aroma di caffè, que-

sti brusii, gli sguardi amici, le voci… Grazie,

muro.

San Francisco

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1927 GENNAIO 2018

a cura di Aldo Frangioni

Da Patrizia Pepe le Foreste di Enrico Pantani

Il 16 gennaio da Patrizia Pepe (Via Gobet-

ti, 7/9 Capalle – Firenze) dalle 17,30 si

è inaugurata la mostra Foreste di Enrico

Pantani. La sua squillante pittura è carat-

terizzata da una pluralità di evocazioni,

dall’illustrazione ai graffiti urbani, che ma-

tura in uno stile originale fatto di tratti rapi-

di e colori brillanti. Pittura autentica, per il

modo in cui si inserisce nel vasto panorama

delle possibilità che la figurazione assume

oggi, e irripetibile, per il modo con cui Pan-

tani rende riconoscibile uno stile corrosivo,

usato per costruire narrazioni, con imma-

gini e testi, i cui disorientati protagonisti si

muovono in un universo di storie minime

ed emergenze planetarie. Prendendo come

punto di partenza il tradizionale genere

della pittura di paesaggio Foreste è una ri-

flessione sul conflitto, drammatico e incon-

ciliabile, tra uomo e natura. Figure umane

in bianco e nero scrutano una natura lieta

e autonoma, dai colori densi, della quale

possono essere solo distanti osservatori o

violenti colonizzatori. In questa mostra gli

abitanti delle foreste escono dalla superficie

bidimensionale del quadro nella forma di

sculture totemiche che invadono lo spazio,

mantenendo lo stesso carattere di alterità e

Il gradimento riscosso dal saggio “Il vestito

parla” di Nicola Squicciarino ha motivato

l’autore a una sua nuova edizione cui è stato

dato un titolo diverso perché modifica e am-

plia significativamente il contenuto originario.

L’intento resta quello di offrire al lettore alcu-

ni stimoli per afferrare risvolti impensabili in

un fenomeno di superficie della vita quotidia-

na. In un approccio interdisciplinare egli pone

in luce le dinamiche profonde dell’abbigliarsi,

la necessità quindi di considerarlo da più pun-

ti di vista, ciascuno dei quali ne arricchisce la

comprensione: antropologia, storia, religione,

arte, filosofia, psicologia, sociologia, economia

e persino etica. Il libro mira perciò a rivalu-

tare questo ambito della cultura materiale, a

evidenziare la dignità scientifica di tale tema.

Il lavoro si suddivide in tre parti. Nella prima,

partendo dalla concezione dell’inscindibilità

psicofisica dell’essere umano, viene posto in ri-

salto la valenza linguistica del suo corpo e, con

richiami alla psicologia sociale e alla semiotica,

la funzione comunicativa dell’abbigliamento.

Nella seconda si accenna alle motivazioni ori-

ginarie della copertura del corpo, ad alcune

modalità della cura dell’apparire, all’identità

sessuale e al sex-appeal, alla varietà delle for-

me fisiche e dello stesso concetto di bellezza,

al ruolo non sempre rassicurante dello spec-

chio. La terza parte mira più esplicitamente a

rivendicare una legittimazione culturale per il

fenomeno della moda abbigliamentare. Senza

pretesa di esaurire l’argomento, si fa riferimen-

to al tema dei suoi inizi, alla sua importanza

come indicatore di processi culturali, al suo

legame con l’arte, al maggior peso che in tale

ambito stanno assumendo la consapevolezza

ecologica e le nuove tecnologie. A proposito

della ‘magia’ della pubblicità e dei moderni

comportamenti di consumo-dipendenza vie-

ne posto in luce l’aspetto piramidale e mani-

polativo, presente anche nel trasgressivo spet-

tacolo delle continue metamorfosi della moda.

In particolare si accenna al rischio che il corpo

umano, come la merce, - secondo la logica del

marketing - diventi oggetto di consumo e, in un

crescente affrancamento dei significanti dai

significati, la persona venga considerata solo

per le sue qualità appariscenti, per il suo ‘invo-

lucro’. Per Squicciarino invece “L’amore per

la superficie, la componente ludica, erotica ed

estetica proprie della cura dell’aspetto esterio-

re dovrebbero poter convivere con la dimen-

sione più sotterranea dell’esistenza: l’apparire

e l’essere sono lati della vita differenti ma non

l’un l’altro estranei, sono antropologicamente

complementari”.

di Angela Rosi L’abito fa il monaco, e non solo

di inconoscibilità che è un sintomo e al tem-

po stesso una causa della crisi globale. Enri-

co Pantani presenta un’installazione conce-

pita espressamente per lo spazio espositivo

di Patrizia Pepe. Il titolo Foreste chiude

idealmente la trilogia di progetti che (con le

precedenti mostre di Paolo Chiasera e Luca

Matti) hanno indagato il concetto di habitat

e il rapporto che la civiltà contemporanea

costruisce con l’ambiente culturale e natu-

rale. A cura di Rosanna Tempestini Frizzi

| La Corte Arte Contemporanea Firenze

Testo critico di Pietro Gaglianò.

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2027 GENNAIO 2018

In un documento datato 27 aprile 1018 si

cita la Chiesa di S.Felicita “con giardini” (su

questo argomento vedi anche di M.Cristina

François, Monache e Granduchi I e II par-

te, in “Bollettino di Pitti”, aa. 2013-2014):

questa è con ogni probabilità la più antica

testimonianza di quello che diverrà “l’Or-

to delle Monache” annesso al Monastero

e alla Chiesa. Il 20 febbraio 1078 [A.S.F.

Diplom. in Spoglio Strozzi, p.189] si parla

anche di un oliveto a ovest e di una vigna a

sud. Si configurano così le prime coltivazio-

ni annesse a questo Convento femminile di

clausura benedettina, ricchissimo, che ebbe

- oltre l’Orto - anche molti possedimenti e

poderi “extra monasterium”. Fin dalle sue

origini - documentate almeno dal 950 - si

trovava “intra monasterium” un Orto con

acqua che provvedeva al sostentamento del-

le Monache, secondo quanto raccomanda-

va la ‘Regula’ dell’Ordine. I lavori manua-

li, come pure le fatiche delle coltivazioni,

erano affidati alle Converse che abitavano

un quartiere sull’Orto, rivolto a oriente, ed

erano aiutate da un fattore e una fattoressa

i quali vivevano in una casetta in mezzo a

questo spazio verde. Nel 1550 i Medici di-

vennero i confinanti dell’Orto di S.Felicita

e a causa di questo importante vicinato il

piccolo appezzamento si configurò in parte

anche a giardino, si formarono due terraz-

zamenti: uno superiore con piante a fusto

e vigneto, uno inferiore per ortaggi, fiori

spontanei e da ornamento, piante officina-

li. I fiori venivano offerti alle Granduches-

se e alla “Madonna dell’Orto” a cui venne

dedicata una Cappellina posta al centro di

questo fazzoletto di terra, costruita in soli tre

mesi nel 1616 a spese del Priore [Ms.720,

cc.111r v, 1613]. Questo edificio sacro po-

sto nel bel mezzo del verde, accanto aveva

una piccola campana – forse un campanili-

no a vela – che risuonava e disperdeva tra il

verde e tutt’intorno il suono per scandire le

ore deputate al richiamo delle religiose; dai

documenti d’archivio risulta che, a causa di

questo suono, si disturbava la quiete di Pa-

lazzo, per cui venne ingiunto alle Monache

di non usare la campana. Nel periodo me-

diceo l’Orto fu anche ‘ribattezzato’ e detto

“campo di Boboli”; così, infatti, si legge in

un documento del 1598: “Raccolta di Biada

nette di seme di nostra parte, e Vino e Olio.

Campo di Boboli: Biade staiora 7; Vino ba-

rili 8 1/2, olio fiaschi 2” [Ms.720, c.113r,

a.1614]. La sezione dell’Orto che gareggia-

va con le piante officinali della Granduches-

sa, serviva alla “coquina e all’apotheca” del

Convento. Le acque del Giardino grandu-

cale furono condivise con quelle dell’“Orto

delle monache” per annaffiare da una par-

te l’Orto dei semplici di Maria Maddalena

d’Austria e dall’altra le coltivazioni delle

religiose. Questa condivisione portò però a

qualche dissapore: le suore fecero pervenire

la supplica attraverso Giulio Parigi che pe-

rorò la causa delle Benedettine dimostran-

do che, se c’era “di bisogno di tutta la detta

acqua [alla Granduchessa, alle Monache]

non ne veniva piu e l’Altezza sua volesse

concedere l’acqua di Barbino, e della grotta,

le quali se ne andavano in Arno dopo l’haver

servito a quello che bisognavano”[Ms.720,

c.114r]. Per l’acqua furono aggiustate le

cose, ma non furono invece mai trovati ac-

cordi per i melangoli che le Benedettine col-

tivavano e vendevano ai Granduchi spesso

avari nel saldare il compenso dovuto. Per la

presenza di questo tipo di piante, il quartie-

re sull’Orto abitato dalle Converse fu detto

“Quartiere degli Aranci”. Vi erano pure

coltivati altri alberi: da un “Inventario delle

Piante esistenti” risultano “n. Ottantaquat-

tro Vite, Ottantaquattro Pali, Venticinque

Frutti, Sette piante d’Aranci, Una pianta

d’olivo giovine”. Al piano terra delle Servi-

giali si distribuivano in ordine i seguenti lo-

cali: “Stanza dell’Andito dell’Orto […] Porta

d’ingresso all’Orto […] Portico coperto sor-

di M. Cristina François Orto delle Monache

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2127 GENNAIO 2018

retto da pilastri […] Il Trogolo per sciogliere

la cera […] Stanza delle Caldaje […] Stanza

per i Bucati con scala per il Verone […] Cor-

ticina con Loggiato [per stendere il bucato]

[…] Stanzone del Pane […] Stanzino per la

Cenere [per fare il bucato] […] Stanza per

la Legna”. Questa legenda è tratta da una

‘pianta parlante’ del complesso conventua-

le, databile al 1808 ca.; ancora oggi esistono

negli appartamenti di piano terra abitati da

ex-dipendenti di Pitti, le strutture degli ar-

madi a muro dove le Monache riponevano

la biancheria lavata e piegata. All’improvvi-

so, l’11 ottobre 1810, su Monastero e Orto

cadde a ciel sereno un fulmine che “tenea

dietro al baleno”: Napoleone! Il Governo

francese soppresse il Convento di S. Felici-

ta, lo indemaniò insieme all’Orto, affittando

il terreno e gli ambienti claustrali a “Giu-

seppe Guerrazzi per sua civile abitazione

e per fabbrica di zucchero estratto dalle

castagne e dalla liquirizia”[Ms.322, fasc.7,

a.1812]. Lo stesso anno venne pure affitta-

ta - lungo l’arteria di via Guicciardini – “a

Teresa Dragomanni, una porzione di terre-

no appartenuta alle monache” [ibidem]. La

fabbrica di estrazione dello zucchero rimar-

rà attiva fino al settembre del 1812, cioè fino

a quando il Demanio francese si renderà

conto di avere commesso un grave errore di

esproprio nei confronti della Parrocchia di

S.Felicita: erano stati sottratti beni mobili

ed immobili non solo al Monastero - come

la legge napoleonica prevedeva - ma anche

alla Chiesa parrocchiale. Seguì l’indenniz-

zo. Ecco in cosa consistette il compenso

francese a favore della Chiesa di S.Felicita:

“Concessione del Governo a favor del Par-

roco di S[anta] Felicita, di porzione d’Orto;

Dipartimento dell’Arno, Comune di Firen-

ze. Processo Verbale della consegna fatta

al Sig[no]r Luigi Galeotti Priore della Par-

rocchia di S[an]ta Felicita della porzione

d’Orto proveniente dal Contiguo Convento

soppresso di S.Girolamo sulla Costa in Fi-

renze. […] secondo la seguente Descrizio-

ne, ed Inventario delle Piante. La porzione

d’Orto di cui si tratta è situata in Costa, ed

è di sua estensione un mezzo Stajo di Seme

a Corpo” [ibidem]. Questo indennizzo si ri-

velerà alla fin fine una vera e propria burla

perché i beni restituiti a compenso da Na-

poleone (cioè la terra appartenuta all’ex-Mo-

nastero di S.Francesco e S.Girolamo) erano

in gran parte divenuti beni di Stato che il

seguente Governo lorenese, naturalmente,

si riprenderà nel 1815. L’11 ottobre 1817,

nell’ex-Quartiere degli Aranci del soppresso

Monastero di S.Felicita, il Granduca Ferdi-

nando III sistemerà le abitazioni per il Cor-

po degli Anziani o Sargenti di Palazzo. Con

Firenze capitale “anche il Governo della Ri-

voluzione [si noti che è un Curato che scri-

ve] si servì di detti locali, sebbene per altri

usi” [Ms.730, a.1868]. Una parte dell’Orto

- cioè la porzione adiacente alla Canonica -

rimase di proprietà della Curia, tant’è che

nelle Visite Pastorali veniva ispezionata dal

Vescovo (vedi le Relazioni delle Visite nelle

carte d’Archivio della Sezione Parrocchiale)

l’altra porzione di terra alberata continuò

ad appartenere al Demanio anche sotto il

Governo Regio Savoiardo. Infine, nel 1930,

un documento dell’A.S.P.S.F. attesta la ces-

sione definitiva di Orto e giardino al Dema-

nio, salvo lo scannafosso perimetrale della

Chiesa e il piccolo Cimitero delle Monache

che riposa - a tutt’oggi sconosciuto - sotto i fi-

nestroni del Coro e del Transetto. Lo spazio

verde del Demanio fu sempre curato, custo-

dito e “amato” dal rimpianto vecchio giardi-

niere S., e anche gli Orti nel terrazzamento

inferiore del “Quartiere degli Aranci” (poi

“Quartiere dei Sargenti di Palazzo”) furono

sempre mantenuti e coltivati proseguendo

l’antica tradizione monastica. Oggi, i lavori

in corso, hanno compromesso la coltivazio-

ne del piccolo Orto antico silenzioso erede

di tanta storia. Sembrano tornati i tempi di

Napoleone…ma la poesia si può ferire, non

si può uccidere.

addio

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2227 GENNAIO 2018

Il più grande, dicono alcuni dei collezioni-

sti della apposita pagina Facebook... Penso

sia proprio vero. Marco Gusmeroli è un chi-

rurgo oculista, sessantenne, uomo di poche

e sintetiche parole, immediate e dirette al

centro delle questioni, vive ad Arona sul

Lago Maggiore, colleziona davvero molti

oggetti, insegne pubblicitarie, smaltate e

litografate, scatole di latta, giocattoli di lat-

ta, in una foto che mi ha inviato una lunga

scaffalutura ne è ordinatamente stipata, ca-

lendarietti da parrucchieri, giochi da tavolo

in scatola, di percorso e di società, biglietti

pubblicitari...Tutti oggetti ben mantenuti e

di classe. Mi sembra davvero abbastanza. Il

nonno collezionava francobolli e figurine

Liebig, il padre oggetti antichi non meglio

definiti, Marco ha continuato, e di sicuro

ampliato ed affinato, la passione dei suoi avi.

Aveva 23 anni quando acquistò una targa

pubblicitaria della Coca Cola e fu durante

un viaggio in Irlanda che la sua attenzione

fu colpita da una insegna rotonda, bella ed

evidentemente in grado di svolgere la sua

funzione di attraente richiamo. Un negozio

di oggetti vintage a Milano contribuì ad ap-

profondire il suo interesse. Marco Gusme-

roli ha pubblicato 3 libri, per collezionisti

ed appassionati ne mostra le copertine, essi

sono esaurienti, documentatissimi e ricchi

di foto molto belle, si trovano in vendita a

mostre tematiche e in alcuni Musei, oltre

che nelle librerie, a breve uscirà il quarto.

Ha collaborato alla redazione della Enciclo-

pedia del Giocattolo, è stimato e ricercato

consulente di importanti case d’asta. Il più

grande è proprio definizione azzeccata. La

foto che vedete è di una, bellissima e per-

fettamente conservata, targa litografata con

caratteri in rilievo, “Romoil” (50x70,1925).

Essa appartiene alle circa 200 insegne pub-

blicitarie di latta litografata che possiede e

che tiene appese, tutte precisa, alle pareti

di casa e dello studio. Alla mia prosaica do-

manda sulla polvere risponde che appese

ne sono immuni. Il periodo d’oro della loro

produzione va dalla fine dell’ Ottocento,

la sua più antica è del 1890, al 1930 circa.

Sono difficili da trovare in quanto erano

quasi sempre esposte all’esterno e quindi

facilmente attaccate dagli agenti atmosferi-

ci, la luce del sole scoloriva la brillantezza

dei colori e la pioggia le faceva arrugginire,

poichè nessuno, per molto tempo, ha avu-

to la percezione della loro bellezza e del

loro valore narrativo di epoche e costumi

andati, appena erano sciupacchiate veniva-

di Cristina Pucci

no buttate via. A volte, per caso, restavano

appoggiate in qualche angolo secondario

o dimenticate in qualche fondo di negozio

ormai chiuso o in un retrobottega, trovare

queste ora è una vera fortuna in quanto

sono le più splendenti ed integre. Spesso

pubbicizzavano ditte di vernici, pennelli,

oli minerali, pneumatici, ma anche cibi,

come tonno, caramelle e dolciumi, a diffe-

renza dei manifesti pubblicitari, progettati

da abili grafici e fior di artisti, queste erano

per lo più ideate direttamente dagli artigia-

ni delle Ditte che le commissionavano, sono

quindi espressivamente più semplici e qua-

si sempre hanno immagini collegate al pro-

dotto che pubblicizzano e scritte in rilievo.

Dopo gli anni ‘30 cadono in disuso e piano

piano si deteriora la loro qualità, la guerra

da il colpo di grazia alla loro realizzazione,

il metallo serve per altre e ben peggiori fab-

bricazioni. Fra gli anni ‘50 e ‘60 chiudono

tutte le più importanti ditte di Litografia e

la pubblicità inizia ad usare altri materiali

e tecniche più moderne.

La pubblicità litografata

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2327 GENNAIO 2018

Come è noto, la visione stereoscopica, quella

normalmente esercitata da ambedue gli occhi

contemporaneamente, è quel tipo di visione

che ci permette di apprezzare la terza dimen-

sione, ovvero la profondità della scena osser-

vata, e di valutare la differenza della distanza

fra gli oggetti o i piani più vicini e gli oggetti o i

piani più lontani. Per quanto i cultori della pro-

spettiva scientifica si siano sforzati di rendere

l’impressione di profondità nelle opere bidi-

mensionali (disegni e quadri), si sono sempre

scontrati con le limitazioni della visione mono-

scopica, che riconduce tutto ad un unico piano.

Solo nel 1838 Charles Wheatstone inventa lo

stereoscopio, un apparecchio binoculare che

permette di osservare contemporaneamente

due immagini leggermente diverse, ricreando

artificialmente l’effetto della terza dimensio-

ne. La divulgazione del processo fotografico,

avvenuta nell’anno successivo, il 1939, apre

all’applicazione dello stereoscopio un campo

inaspettato ed inesauribile, e nel 1848 sir Da-

vid Brewster realizza il prototipo di uno stereo-

scopio per l’osservazione di coppie di immagini

fotografiche, indifferentemente dagherrotipi o

calotipi. Costruito in serie da due ottici fran-

cesi e presentato con successo all’Esposizione

Universale di Londra del 1851, lo stereoscopio

entra nella storia della fotografia, e contem-

poraneamente nella storia del costume. Per

la realizzazione di fotografie stereoscopiche si

costruiscono fotocamere “stereo” dotate di cop-

pie di obiettivi opportunamente distanziati, e

con l’avvento della fotografia su vetro si assiste

alla produzione a livello industriale di coppie

di immagini stereoscopiche. Poiché la visione

stereoscopica mette in evidenza la profondità

ed il rilievo, il campo principale di applicazio-

ne della fotografia stereoscopica diventa quello

della fotografia dei panorami e dei monumenti,

dove si ha quasi l’impressione, guardando attra-

verso i visori le immagini di Parigi, di Venezia

o di Roma, di essere presenti e di passeggiare

lungo le strade, i viali o i canali, e di ammirare

dal vero edifici e monumenti. La fotografia ste-

reoscopica si occupa solo episodicamente degli

altri temi coltivati all’epoca, come il ritratto,

dove la figura umana, la quale, apprezzata per

la somiglianza e per l’espressione del volto, non

ha invece alcuna necessità di essere apprezzata

nel suo rilievo e nella sua profondità. Con una

sola, vistosa ed un poco imbarazzante eccezio-

ne, rappresentata dal nudo femminile. Se la vi-

sione in rilievo di viali e monumenti stimola la

fantasia e la curiosità dei potenziali viaggiatori

impegnati in un Grand Tour virtuale, la visione

in rilievo dei corpi femminili stimola tutto un

di Danilo Cecchi

Il nudo in stereofotografia

altro genere di fantasie e di curiosità, entrando

anch’essa, di prepotenza, nella storia e nell’e-

voluzione del costume. Il nudo in stereoscopia

permette a chiunque di godere privatamente

della visione, un tempo riservata a pochi, di

Veneri o Mayas Desnudas, aggiungendovi l’e-

lemento determinante della sensazione del ri-

lievo. Senza arrivare al genio di un Giorgione,

un Tiziano, un Rubens o un Goya, schiere di

anonimi fotografi, per lo più francesi, si danno

da fare per soddisfare un mercato parallelo, e

forse un poco più di nicchia, rispetto a quello

delle “vedute panoramiche” o “pittoresche” di

città e panorami, offrendo panorami non meno

pittoreschi e non meno appaganti. Dai dagher-

rotipi su metallo, talvolta colorati a mano, alle

stampe su carta albuminata, fino alle più mo-

derne stampe su carta aristotipica, le immagi-

nette di nudo femminile si moltiplicano e si dif-

fondono in maniera più o meno scoperta, più

o meno legale, almeno fino alla seconda metà

del Novecento. Che fra la visione in rilievo e

le immagini di nudo femminile sia esistito un

rapporto speciale lo dimostrano, oltre alla gran-

de quantità e varietà di immagini giunte fino a

noi, il fatto che il francese Jules Richard (1848-

1930), forse il più grande costruttore di fotoca-

mere stereo portatili, è stato anche un grande

estimatore delle grazie e dei corpi femminili,

che immortalava sistematicamente con le sue

fotocamere, in modo da conservarne non solo

l’immagine ed il ricordo, ma anche il “rilievo”.

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2427 GENNAIO 2018

Abbiamo una concezione dello spazio e

del tempo che è ovviamente la più vicina

a quelle che sono le nostre impressioni da

sempre e sulle quali abbiamo fondato una

convincente e vincente visione della scien-

za. Sia che le interpretiamo come oggetto

della conoscenza che come funzione delle

stessa, entrambe si definiscono come forme

assolute uguali a sé stesse come prevede la

concezione della geometria euclidea che im-

pariamo fin dalla scuola e il senso unidire-

zionale dello scorrere del tempo tipico della

cultura occidentale (altre concezioni pen-

sano ad un “moto” circolare del tempo). La

nostra stessa concezione religiosa e di Dio

sta dentro questa percezione dell’estensione

infinita e dell’infinito trascorrere del tempo,

che prevede l’identificazione con un Dio an-

ch’esso assoluto posto semmai alla fine dello

spazio e del tempo e una gerarchica strut-

tura religiosa monoteista. Anche qui le

cose sono assai diverse da come ci appaiono

da secoli, e cioè da quando Einstein ha di-

mostrato che spazio e tempo sono sensibili

all’attrazione gravitazionale e alla velocita

del moto dell’osservatore e quindi ”elastici”.

Già ma cos’è in effetti la gravità? Una del-

la quattro forze fondamentali, ma come fa

a tenerci coi “piedi per terra”, non certo ci

attrae come fa un magnete col ferro e allora?

In realtà è la massa, la materia che deforma

lo spazio ed il tempo come farebbe una palla

al centro di un lenzuolo teso perfettamente,

lo spazio si piega e si deforma, siamo come

“scivolati” sulla terra, verrebbe da dire, più

che attratti. Maggiore è la massa più forte è

la deformazione, la stessa luce di una stella

lontana, se durante il percorso fino a noi, in-

contra massa deforma la propria traiettoria,

soprattutto se incontra grandi masse o mas-

se così dense da pesare varie tonnellate ciò

che sulla terra pesa qualche grammo in un

cucchiaino. Il tempo stesso non solo è ovvia-

mente in rapporto ad un osservatore in moto

in uno spazio deformato ma più aumenta la

propria velocità più il tempo si contrae (e nel

cosmo tutto è in moto), fino al famoso esem-

pio dell’astronauta che lascia il proprio fra-

tello sulla terra e trascorsi 5 anni alla velocità

prossima alla luce ritorna e trova il fratello

invecchiato o morto da decine di anni e per

entrambi è il proprio il tempo che è trascor-

so regolarmente. Quindi quando guardia-

mo una stella in cielo non solo quella stella

magari è spenta da anni per la distanza di

milioni di anni luce da percorrere, ma forse

non era nemmeno in quella posizione per la

di Gianni Bechelli

deformazione della luce. Tutto questo ci in-

segna a non fidarsi sempre e comunque dei

nostri sensi e soprattutto del cosiddetto sen-

so comune e delle sue certezze e delle stesse

teorie scientifiche. Inoltre Popper ci ha inse-

gnato che ogni teoria scientifica deve essere

falsificabile per essere credibile, altrimenti

è metafisica. Concetto apparentemente pa-

radossale, ma allude all’idea che ogni teoria

non può essere assoluta perché non c’è un’i-

dea definitiva di verità scientifica, ma solo

teorie che ci fanno avanzare nella conoscen-

za ma senza che vi sia una verità “ultima”.

E la fisica quantistica sembra dargli proprio

ragione. E tuttavia è da vari decenni che si

ricerca la cosiddetta “teoria del tutto”, una

formula magari semplice che riunifichi le

quattro forze fondamentali (a partire dalla

gravità all’elettromagnetismo e le forze ato-

miche, l’elettrodebole e l’elettroforte )

Dunque la gravità, la forza più debole per

intensità delle quattro fondamentali, è tutta-

via la più “pervasiva”e in grado di produrre

questo effetto incredibile sullo spazio-tempo

e di generare alcuni dei fenomeni più spet-

tacolari dell’astrofisica: far nascere stelle e

galassie con la sua attrattività di gas e pol-

vere, e farle morire nelle esplosioni di stelle

e supernove che producono in pochi istanti

tanta energia quanta tutta quella del Sole

per l’intero suo ciclo vitale di circa 10 miliar-

di di anni e ,soprattutto, di produrre il divo

di quest’ultimo decennio, noto a tutti col

nome di buco nero di cui si è teorizzata pri-

ma l’esistenza, fino ad osservarne gli effetti

al centro delle galassie o sparsi nel cosmo, in

modo così diffuso, da far registrare scontri e

unificazione di buchi neri diversi, che posso-

no produrre, come si è accertato di recente,

quelle onde gravitazionali che sono arrivate

a noi dopo 3 miliardi di anni dal “fattaccio”,

e che sono appunto onde di contrazione di

spazio-tempo prodotti in quell’evento gigan-

tesco d’energia.

Della gravità, la forza più debole delle quattro

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2527 GENNAIO 2018

Se cercate in Missouri (midwest Stati Uniti)

la cittadina di Ebbing (trad. riflusso) certo

non la troverete; il film “Tre manifesti ad

Ebbing-Missouri” è stato realizzato a Sylva

(Nord Carolina), ma i tre cartelloni pub-

blicitari posti lungo una strada periferica

rimarranno reali, minacciosi ed imponenti

nell’immaginario dello spettatore, motore

primario per una storia di un grande cinema

classico, di una perfetta sceneggiatura (pre-

miata a Venezia 2017), di una impeccabile e

commovente recitazione dei tre personaggi

principali. Questo terzo film di Martin Mc-

Donagh, pluripremiato commediografo, sce-

neggiatore e regista, inglese di origini irlan-

desi, tratta di importanti temi di attualità, il

razzismo, la questione femminile, la violen-

za , senza retorica o moralismo, tenendosi in

bilico tra commedia nera, thriller e dramma,

con dialoghi brillanti, continui avvenimenti

spiazzanti, mescolando malinconia e diver-

timento. Il regista sa sempre molto bene

dove mettere la macchina da presa e come

muoverla senza inutili estetismi, e sa diri-

gere con maestria i suoi attori. Tre attori in

gran forma e di grande bravura sostengono

la narrazione di una attualità corale ed im-

mediata - violenta, rapida, frenetica, insen-

sata -. Frances McDormand (Mildred), una

madre abbandonata da un marito violento,

lacerata da conflitti, sofferenza e rabbia, che

decide di affittare tre cartelloni pubblicitari

(prima abbandonati, poi rinati nell’accusa,

infine bruciati) posti su una strada secon-

daria che porta ad Ebbing e di affiggere tre

manifesti con cui accusa la polizia locale di

non aver fatto niente per scovare gli assas-

sini di sua figlia, stuprata, uccisa e bruciata

nella stessa zona. L’attrice crea un altro per-

sonaggio indimenticabile, dopo la Marge di

“Fargo” (premio Oscar) e la Olive Kitteridge

della miniserie omonima, percorrendo l’in-

tera opera vestita con una tuta da lavoro az-

zurra ed una bandana, riferimento evidente

all’immagine celebre del femminismo ame-

ricano (We can do it). Mildred è un donna

di Leonardo Bertelli

L’imperdibile magia del tre

forte e chiusa che non sa piangere ma rie-

sce a lanciare bottiglie incendiarie. Woody

Harrelson che interpreta in modo perfetto

lo sceriffo preso di mira dai manifesti ma

amato e rispettato dalla comunità locale

che si schiera a sua difesa contro Mildred;

un uomo dotato di umanità e gentilezza ma

impotente contro la violenza che infetta la

comunità e contro l’inefficienza della sta-

zione di polizia che dirige. Lo sceriffo è af-

fetto da un cancro in fase terminale e prima

di suicidarsi invia tre lettere che tendono a

sciogliere i nodi conflittuali e violenti che

percorrono il film ; una a Mildred per dar-

le il denaro necessario a a pagare una rata

dell’affitto dei cartelloni, riconoscendone e

condividendone indirettamente la giustez-

za; una alla moglie per giustificare la scel-

ta altruistica del suicidio ed una all’agente

Dixon terzo personaggio della storia. Sam

Rockwell, un convincente Dixon, agente

“infantile”, razzista, violento,che utilizza la

divisa per sfogare contro i più deboli la sua

rabbia, portandolo ad azioni brutali ed erra-

te ; non ha elaborato la morte del padre, vive

con una madre dura, possessiva e repressa,

ma la lettera dello sceriffo gli dice che non è

una persona cattiva e disonesta e lo esorta a

divenire un bravo poliziotto, sostituendo la

rabbia e l’odio con l’amore. Dall’arrivo delle

tre lettere la storia cambia : l’atto di genti-

lezza ha il potere di far defluire lentamente

i conflitti, il dolore, il livore. Con una presa

di coscienza si determina un riflusso positi-

vo. Lo scarafaggio della prima inquadratura

voltato sul dorso, la comunità di Ebbing, una

umanità dolente, si agita inutilmente , ma

basta un piccolo colpo di pietà, comprensio-

ne, affetto, e di nuovo cammina la vita riflui-

sce. Cela possiamo fare.

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2627 GENNAIO 2018

Alberta dei miracoli. Così chiamo Alberta

Bigagli, psicopedagogista, scrittrice e poe-

tessa, maestra di linguaggio espressivo. Il 5

agosto 2017, il suo addio. E’ stata ricordata

alla Casa di Dante il 16 di gennaio. Nata

il 3.4.1928, quindi un Ariete la chiamai

“chevalier seul”, secondo i francesi e a lei

piacque data la sua indipendenza, coraggio

e originalità. Che andavano insieme a un

modo suo “nuovo di rapportarsi con i no-

stri simili” ragione del sodalizio, “autentico

scambio di pensiero” tra lei e Fiorella Falte-

ri, che ha trovato in Alberta “una guida” per

il vivere, nel gusto dell’arte (v . il suo “alto

artigianato di riproduzione di stampe anti-

che colorate a mano”) e nella passione per

la poesia. Alberta chiamava la loro armonia

“miracolosa amicizia”. Tento di dirla in sin-

tesi: per me le sue qualità vanno a due per

due: metodica e immediata, esatta e origina-

le, fedele a se stessa e aperta all’attenzione

per gli altri tutti e i più esclusi.1975- pub-

blica il suo primo libro “L’amore e altro”

esploso di getto da antiche radici(scriveva

da “prima dell’adolescenza”), prefazione

di Carlo Betocchi poeta con fiuto di rabdo-

mante che trova in quelle pagine scolpite

“una gioia corposa e un dolore nascosto”.

Poco scolarizzata perché “figlia femmina di

gente povera”, telefonista alla SIP decide di

prendere la maturità da privatista e poi lau-

rearsi in psicopedagogia. Tesi 1982 da visi-

te al Manicomio di San Salvi nel Centro di

Attività Espressive La Tinaia (creta, stoffa,

ceramica) secondo le idee dello psichiatra

Franco Basaglia, dove inventa il momento

di parola poetica, con la lettura di pagine

dal suo primo libro a un aprirsi fisiologico di

“parola espressiva cioè colorita e trainante

emozione” come dice in Voce Viva. gustoso

foglio semestrale nato nel 2005. L’invenzio-

ne si estese a conversazioni di gruppo (“Tu

parli io scrivo”) in sedi pubbliche , come

centri per anziani ( Montedomini-“Arman-

do e Marcella”)carceri (v. “Dialoghi a Sol-

liccianino”) e Ospedale Psichiatrico Giudi-

ziario di Montelupo (v. “Olindo del Fuoco”

poi anche pièce teatrale) fino al volume

“Agli amici di Villa Ulivella” 2007 dove

era stata guarita da lunga e grave malattia

e poi, quel “Voglia d’incontrarsi” emanato

dalla Direzione della Casa Circondariale di

Prato, dove i testi vengono dalla viva voce

dei detenuti sex offenders, i più esclusi fra

tutti e per ogni seduta il titolo viene deciso

insieme alla fine. Sede privata è la piccola e

“scomoda per i suoi 94 scalini casa” di Al-

di Gabriella Fiori

berta in Tre voci e una mano (1990) dove

Michela ed Egeria parlano con Alberta che

scrive. Intanto, scrive e pubblica per conto

suo , perché “ciascuno di noi è ‘doppio’ in

sé. Non c’è un sentire forte a cui basti un

solo canto”. Premette L’Arca di Noè (1986)

così: […] Ho parlato molto e anche scritto.

Parlato, perché avevo amici. Scritto perché

ho tenuto me stessa per amica e ho accettato

lo specchio della parola fermata sulla carta.

Occorre il coraggio esistenziale di dare alle

proprie esperienze i loro nomi, il coraggio

teatrale di far emergere le immagini sugge-

rite dalla vita in atto.” E quando le chiedo

dei suoi miracoli di maieutica in quei grup-

pi mi risponde “Non lo so, avveniva tutto

spontaneamente. E solo uno ha lasciato le

sedute in tutti quegli anni.” Giuseppe Bal-

dassarre, critico letterario e italianista, che

è stato gomito a gomito con lei nei corsi di

scrittura organizzati per un paio di anni alla

Biblioteca di Parte Guelfa e alla sala Loren-

zo della Nazionale e da lei coinvolto per es.

alle Piagge con Don Santoro, si dice “stu-

pito dall’eterogeneità delle relazioni socia-

li e culturali che riusciva a coltivare come

dall’acume con cui dava un giudizio, poche

parole appropriate su un testo o un autore,

anche ascoltato per la prima volta”. Condi-

vido la sua scelta: “Il Linguaggio – La mia

parola è facile vivace e si muove quasi da

sola/ma non è sufficiente a esternare tutti

i suoni e i colori/che dentro me da sempre

vanno danzando rubando la quiete./Senza

fretta comunque io mi preparo a usare mez-

zi nuovi./so che nel mio futuro ci sarà una

stanza oltre il buio/e vedo il gioco delle luci

sul cavalletto alla vetrata/dove godendo io

posso impastare le tinte con passione/come

vorrei far tutto in questo mondo che frena

e avvilisce./Al quale manderò da quel mo-

mento i miei messaggi lieti.”(Tre voci e una

mano 1990) Solo pochi steli dall’immenso

mazzo di fiori che è stata questa vita di Al-

berta dei miracoli. Leggete il suo sito www.

albertabigagli.it.

Albertadei miracoli

Alberta Bigagli con l’Assessore alla cultura del Comune di Impruneta

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2727 GENNAIO 2018

Nel 2015 con Simone Siliani avevamo

appena cominciato a cercare, leggere, ana-

lizzare documenti e temi che avremmo ri-

versato poi nel libro “Berlinguer. Vita tra-

scorsa, vita vivente”. Fin dai primi passi ci

eravamo imbattuti in una notevole difficoltà

nel reperire i materiali originali a cui vole-

vamo attingere e subito diventò quotidiana

per noi l’abitudine di scandagliare l’archi-

vio storico digitalizzato dell’Unità, strada

maestra e veloce per chi avesse voluto, come

noi, avere a disposizione documenti della

direzione nazionale del Pci, tesi e interventi

congressuali, molti discorsi del segretario

riportati integralmente. Una vera e propria

miniera che offriva le sue pepite d’oro con

la semplicità che solo può essere il risultato

di un lavoro complesso e fatto bene.

Un giorno improvvisamente, e incompren-

sibilmente, il canale si spense. Una intrica-

ta vicenda societaria, con risvolti giudiziari

altrettanto complessi, portò circa un anno

fa all’oscuramento del prezioso deposito

storico, in seguito parzialmente ritrovato

nei meandri del deep web, disponibile a

un indirizzo internet consultabile solo con

il browser Tor e, dicono, frequentato da un

paio di centinaia di persone ogni giorno.

Mentre scrivo alzo gli occhi dalla scrivania

e osservo le due copie originali dell’Unità,

una del 1943 e una del 1944, che mi furo-

no regalate molti anni fa. Non posso fare

a meno di pensare a quegli anni di fuoco,

quando c’era chi rischiava la vita per far

uscire dalle tipografie segrete (ce n’era una

vicino a casa mia) questi foglietti ingialli-

ti, sui quali Palmiro Togliatti esortava alla

“lotta senza quartiere contro nazisti e fasci-

sti”. E penso con amarezza che l’Unità, il

giornale in cui ho lavorato per venticinque

anni della mia vita professionale, è tornato

di nuovo nella clandestinità.

La storia dell’archivio digitalizzato dell’U-

nità non è solo una storia triste. E’ una sto-

ria che fa orrore all’intelligenza, alla memo-

ria, alle ragioni della nostra democrazia e a

tutti coloro che, illustri o ignoti, hanno lavo-

rato per fondarla, svilupparla, difenderla. A

denunciare con grande forza la situazione è

stato un anno fa Pietro Spataro sul suo blog

e oggi di nuovo torna alla carica il sito Stri-

sciarossa, mentre le dichiarazioni di Walter

Veltroni (“È un assassinio della memoria,

l’indisponibilità a tenere in rete questo pa-

trimonio è un atto di violazione di elemen-

tari principi di civiltà culturale. Lì dentro

c’è la storia del fascismo, della resistenza,

di Susanna Cressati

della liberazione, della ricostruzione, della

sinistra, del movimento operaio, dei partiti,

del sindacato...”) vengono rilanciate in pri-

ma pagina da Repubblica.it. Tutti invocano

un intervento pubblico per salvare quello

che a tutti gli effetti è un pezzo di storia po-

litica, sociale, culturale e giornalistica del

nostro paese, un vero e proprio patrimonio

nazionale.

Confesso che, nonostante queste uscite, i

meccanismi di quanto è accaduto non mi

risultano del tutto chiari. Le conseguenze

però sì, e nessuno le conosce meglio di chi

ha frequentato l’archivio per tanti anni, per

ragioni professionali, politiche, di studio, di

approfondimento e vorrebbe ancora avere

la possibilità di farlo. Chiarissima è infine

la responsabilità di quanti, in questi anni,

hanno gettato al vento consapevolmente un

patrimonio, una presenza, una realtà politi-

ca e culturale diffusa, autorevole, originale,

radicata. Sono d’accordo con chi, analiz-

zando le vicende più o meno recenti della

politica, sostiene che tutto ciò non era affat-

to inevitabile. E di conseguenza che non era

ineluttabile che a questa “sparizione” si ac-

compagnasse anche l’eclissi degli strumenti

che quel patrimonio avevano contribuito a

formare, sostenere e divulgare.

L’archivio clandestino

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di Carlo Cantini

1982 Carlo Cantini a New York

Graffiti in metropolitana