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Con la cultura non si mangia Giulio Tremonti (apocrifo) Numero 261 328 5 maggio 2018 Donald Trump ha rimborsato di tasca propria Michael Cohen, suo avvocato personale ora indagato dall’F- bi, per i 130mila dollari versati poco prima del- le presidenziali alla pornostar Stormy Daniels in cambio del suo silenzio sulla presunta storia con il presidente Usa nel 2006 Maschietto Editore OK il prezzo è giusto

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Con la cultura

non si mangia

Giulio Tremonti

(apocrifo)

Numero

261 328

5 maggio 2018 Donald Trump ha rimborsato di tasca propria Michael Cohen, suo avvocato personale ora indagato dall’F-bi, per i 130mila dollari versati

poco prima del-le presidenziali alla pornostar Stormy Daniels in cambio del suo silenzio sulla presunta storia con il presidente Usa nel 2006

Maschietto Editore

OK il prezzo è giusto

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dall’archivio di Maurizio BerlincioniFirenze, 1994

Queste sono altre due immagini legate alla manifestazione gioiosa dei “nuovi

arrivati” per far conoscere ai fiorentini alcuni aspetti, almeno quelli esteriori,

di una cultura antica che sta cercando di entrare in contatto con la realtà di

un territorio che poco conosce di questo mondo così lontano. E’stata una bella

occasione che ha stimolato molte persone a riflettere sulle conseguenze della

famosa globalizzazione che ornai sembra non conoscere più confini. Questo

era solo l’inizio. Al momento quasi tutti I paesi europei e buona parte del

mondo occidentale, sono investiti da grandi ondate migratorie che aumentano

di giorno in giorno. E’ un fenomeno epocale, causato dai grandi squilibri

mondiali e non è certo risolvibile con improbabili chiusure. Gli Italiani, che

all’inizio del secolo scorso si sono sparsi per il mondo, dovrebbero essere tra i

primi a comprendere questo tipo di eventi. E’ vero, non è facile, ma prima o

poi il “ricco” mondo occidentale dovrà convincersi che cambiamenti globali

di queste dimensioni non possono essere affrontati con ostilità e inutili

sbarramenti. Non è questa la soluzione. Vanno capite le radici profonde

delle migrazioni e, collettivamente, e non solo paese e per paese, affrontate

le storture e le ingiustizie mondiali che le causano. L’occidente ricco deve

cambiare rotta, riconoscere la proprie responsabilità storiche e cercare

approcci diversi a vicende così grandi che stanno davvero cambiando il

mondo.

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Direttore

Simone SilianiRedazione

Mariangela Arnavas, Gianni Biagi, Sara Chiarello, Susanna Cressati, Carlo Cuppini, Remo Fattorini, Aldo Frangioni, Francesca Merz, Michele Morrocchi, Sara Nocentini, Sandra Salvato, Barbara Setti

Progetto Grafico

Emiliano Bacci

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Editore

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Firenze tel/fax +39 055 701111

Registrazione del Tribunale di Firenze n. 5894 del 2/10/2012

Numero

261 328

5 maggio 2018

In questo numeroPistoia, un anno vissuto culturalmente

di Giuseppe Gherpelli

Itinerari insoliti: il parcheggio Santa Trìnita

di Valentino Moradei Gabbrielli

A Treviri per il bicentenario di Marx

di Ugo Pietro Paolo Petroni

Mala educaciòn all’italiana

di Susanna Cressati

L’Etrusca Disciplina e il temenos di Gonfienti

di Giuseppe Alberto Centauro

Barbereide!

di Paolo Marini

Shah Marai fotografo, ammazzato a Kabul

di Danilo Cecchi

Dedicato al fratello maggiore

di Alessandro Michelucci

Per orizzonte l’oceano

di Mariangela Arnavas

Disegnare la Toscana

di Andrea Ponsi

Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere?

di Gianni Bechelli

Storie di fantasmi

di Francesco Cusa

Ceramiche Lenci al Museo di Faenza

di Cristina Pucci

Sapia ritorna

di Roberto Barzanti

e M.Cristina François, Ugo Barlozzetti... Illustrazioni di Lido Contemori, Massimo Cavezzali

Yvonne di Pavana

Le Sorelle MarxQuando c’era lui gli scioperi

erano in orario

I Cugini Engels

Vengo dopo il PD

I nipotini di Šostakovič

Riunione di famiglia

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45 MAGGIO 2018

Stilare un bilancio dell’anno di Pistoia Capita-

le Italiana della Cultura non è facile, e credo

occorra ancora tempo per sviluppare, a par-

tire dai dati che sono emersi, una riflessione

sufficientemente approfondita. L’impressione

che ho è tuttavia, per quello che riguarda il

rapporto fra le attese e i risultati, è che l’esito

è decisamente confortante. Per me è stata una

esperienza avvincente, costellata di speranze,

problemi, decisioni difficili, entusiasmi, molti,

delusioni, per fortuna poche, ma soprattutto,

ed è ciò che più conta, di incontro e lavoro

comune con centinaia di persone che non si

sono risparmiate e hanno generato un fluire

continuo di competenze, volontà, passione. I

dati di cui si è già sostanzialmente in possesso

sono quelli relativi alle somme di denaro im-

piegate per lo svolgimento del programma e al

turismo che ne è derivato. Gli attori di Pistoia

Capitale Italiana della Cultura (MIBACT,

Comune, Provincia, Regione Toscana, Fonda-

zione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia,

Cassa di Risparmio di Pistoia e della Lucche-

sia, Diocesi, CCIAA di Pistoia, altri soggetti

privati e sponsor) hanno messo a disposizione

complessivamente circa 4.400.000 euro in

spesa corrente e circa 11.000.000 di euro in

spese di investimento, cifre di tutto rispetto,

di tre volte superiori alla media delle spese e

degli investimenti pubblici in beni e attività

culturali degli ultimi anni. L’effetto sui flussi

turistici del 2017 è un incremento del 20,74%

per gli arrivi e del 16,80% delle presenze ri-

spetto all’anno precedente, che, grazie all’an-

nuncio, alla fine di gennaio 2016, che la città

sarebbe stata Capitale Italiana della Cultura,

aveva già registrato un più 20% sia negli arrivi

che nelle presenze rispetto al 2015. La rasse-

gna stampa di Pistoia Capitale Italiana della

Cultura 2017 dà conto anche dell’opinione

positiva degli operatori economici della città.

Gli eventi del programma di Pistoia Capitale

che hanno ricevuto maggiore visibilità sul-

la stampa sono stati le mostre (in particolare

Prêt-à-porter di Giovanni Frangi, Omaggio

a Giovanni Pisano; La Visitazione del Della

Robbia; La rivelazione del Tibet. Ippolito De-

sideri e l’esplorazione scientifica italiana nelle

terre più vicine al cielo; Marino Marini. Pas-

sioni Visive; Giovanni Boldini. La Stagione

della Falconiera), i concerti e l’opera del Mag-

gio Musicale Fiorentino, il Festival Dialoghi

sull’uomo, il Pistoia Blues e il Pistoia Teatro

Festival. Si può parlare anche di un grande

successo del lavoro delle istituzioni culturali,

dai mille eventi della Biblioteca San Giorgio ai

di Giuseppe Gherpelli

Pistoia

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55 MAGGIO 2018

clamorosi risultati di pubblico dei Musei, che

nell’anno sono anche aumentati di numero: il

1° dicembre 2017, in occasione della visita a

Pistoia del Presidente della Repubblica, Ser-

gio Mattarella, è stato inaugurato e aperto al

pubblico il “Museo dello Spedale del Ceppo”,

con sede in una porzione dell’edificio storico

dell’ex complesso ospedaliero, frutto della

collaborazione di Regione Toscana, Azienda

USL Toscana Centro, Ministero dei Beni e

delle Attività Culturali e del Turismo e Co-

mune di Pistoia. In occasione del Festival Dia-

loghi sull’uomo 2017, la Fondazione Cassa di

Risparmio di Pistoia e di Pescia ha promosso

la prima ricerca in Italia sull’impatto di comu-

nicazione di un festival culturale, affidandola

ad uno dei massimi specialisti europei, Guido

Guerzoni, della Bocconi. La ricerca, già pub-

blicata col titolo Effettofestival, si è esercitata

sugli ottimi risultati della rassegna pistoiese di

antropologia – la cui ottava edizione si è svolta

a maggio 2017 –, concentrandosi sulla precisa

individuazione del valore economico della sua

copertura mediatica su carta stampata, quoti-

diani on line e tv, dove gli articoli riguardanti i

“Dialoghi sull’uomo” hanno fornito l’occasione

anche per far conoscere Pistoia, il suo territorio

e la sua storia: una vera e propria promozione

turistica indiretta che, senza il festival, la città

avrebbe potuto sostenere solo attraverso costo-

sissime campagne pubblicitarie. Quel valore

economico, infatti, oscilla tra 1,18 e 1,49 mi-

lioni di euro, a fronte di una spesa di produzio-

ne, per i Dialoghi, di poco più di 300.000 euro,

di cui meno del 20% per la comunicazione.

Fra gli elementi di maggiore interesse scatu-

riti dall’esperienza di Pistoia Capitale Italiana

della Cultura vorrei citare l’iniziativa “Pistoia

è la mia città” destinata, nell’ultimo trimestre

del 2016, ai cittadini pistoiesi che hanno avuto

la possibilità, in cinquanta incontri speciali, di

riprendere confidenza con la propria storia e

con il meraviglioso patrimonio culturale di cui

la città dispone. Infine, il lascito più importan-

te mi pare quello, raccolto dal sindaco Tomasi,

che nel 2017 ha sostituito alla guida del Co-

mune Samuele Bertinelli, di sperimentare una

metodologia di lavoro che coinvolge tanti atto-

ri diversi (istituzioni e persone) e li orienta, in

un lavoro d’insieme, verso obiettivi condivisi.

un anno vissutoculturalmente

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65 MAGGIO 2018

Maestro, perdona lei perché non sa quel che dice.

Vorremmo parafrasare il detto evangelico per

rivolgere la nostra umile prece al maestro (con

la “m” minuscola perché ben sappiamo che egli

riconosce per sé solo questo titolo, quello di ma-

estro di scuola) di Pavana, Francesco Guccini:

perdona la Yvonne (al secolo De Rosa) per aver

utilizzato le tue parole, la tua poesia per una

polemicuccia di bottega. La Yvonne, compagna

del presidente della Camera Roberto Fico, non

ha trovato altre parole buone per respingere le

accuse dei conduttori delle Iene sull’impiego

di colf a nero, che quelle tue sublimi di Cyrano:

“le verità cercate per terre da maiali… tornate a

casa nani, levatevi davanti”. Le chiediamo scusa,

maestro, per questo uso inconsapevole e fallace

delle sue parole da parte della Yvonne. La quale

evidentemente non ha compreso niente della sua

canzone, nella quale Cyrano combatte i potenti e

gli ipocriti con la sua penna. Ma soprattutto mo-

stra di ignorare un passaggio del testo molto più

calzante alla fattispecie: “e andate chissà dove

per non pagar le tasse col ghigno e l’ignoranza

dei primi della classe”.

Le SorelleMarx Yvonne di Pavana

Libera interpretazione di Renzi della nota canzone di Renzo

Arbore “vengodopo il tiggi”

Or ora me lo penso

ciao bello c’ho il consenso

ancora un quarto d’ora

ci ripenso

Oh Oh Oh! Il consenso

Oh Oh Oh! Ci ripenso

tu sei cosi carino

per fare il governino

anche se sei un po’ troppo

azzimatino

Oh Oh Oh! Carino

Oh Oh Oh! Azzimatino

e allora mio Giggino

vieni qui vicino

facciamo il governino

e li freghiamo perbenino

Oh Oh Oh Giggino

Oh Oh Oh perbenino

decidi presto e bene

facciamolo insieme

dimmi di si perchè

se no faccio senza te

Ma sì!

Vengo senza il PD

Vengo senza il PD

Vengo e glielo metto li

T’ ho detto sì!

Vengo senza il PD

Vengo senza il PD

per star vicino a ti

PD PD PD PD

vengo e glielo metto li

proprio in quel posto al PD

Io non son normale

dipendo dal canale

mi sento sempre male

voglio il tele....giornale

Oh Oh Oh! Canale

Oh Oh Tele....giornale

E’ la tivvù che vizia

il fatto è che mi sfizia

essere io l’ultima notizia

Oh Oh Oh! Mi sfizia

Oh Oh Oh! La notizia

Dico quel che mi pare

anche al telegiornale

senza nessun rispetto

e la direzione non aspetto

Oh, Oh Oh, rispetto

Oh, Oh, Oh aspetto

io dietro non ci stò

e in sella tornerò

e un’altra volta ci riproverò

Oh,Oh,Oh, tornerò

Oh,Oh,Oh riproverò

Ma sì!

Vengo senza il PD

Vengo senza il PD

Vengo e glielo metto li

T’ ho detto sì!

Vengo senza il PD

Vengo senza il PD

per star vicino a ti

Addio PD addio PD

vengo e glielo metto li

proprio in quel posto al PD

vengo e glielo metto li

proprio in quel posto al PD.

Posso dirvelo? Smettere di sciare gli ha

fatto parecchio male alla Mangoni Lara. A

noi la Magoni Lara piaceva parecchio, ma

parecchio, più quando sciava negli anni ‘90

che oggi, assessore al turismo della Regione

Lombardia, che discetta di storia patria.

Infatti la Lara, chiedendoci permesso, ha

ritenuto indispensabile farci sapere che

“le leggi che tutelano i lavoratori nascono

proprio TUTTE dal fascismo”. Infatti, nel

1922 a Milano, i fascisti forzano lo sciopero

dei tramvieri e li sostituiscono, proprio per

tutelare i lavoratori. Poi immaginiamo che

la signora consideri lo Statuto dei Lavorato-

ri del 1970 un inutile orpello che ostacola

l’unica vera normativa a tutela dei lavora-

tori, la Carta del 1927. Ma, vuoi mettere

il telegramma del Duce del 1° maggio del

1937 che raccomanda il prefetto di Torino

di approntare dei “comodi e decorosi refet-

tori per gli operai” alla Fiat! Queste sì che

son tutele!

Per difendersi dalla critiche sulla sua teoria

del “fascismo buono”, la Magoni precisa

che nel suo post lei no esprimeva “assolu-

tamente alcun vanto a nulla” (ma di che

dovrebbe vantarsi la Magoni che all’epoca

delle fascistissime leggi a tutela dei lavora-

tori non era neppure nella mente di Dio?),

ma “semplicemente seguo la storia”.

Ecco, ma se invece di seguire la storia, tor-

nasse a seguire le piste e passare la sciolina

sugli sci? Noi pensiamo che sarebbe un

migliore impiego delle sue competenze,

magari costituendo una bella scuola di sci

per bambini. Perché era meglio la “Valanga

Rosa” di cui la Magoni faceva parte insie-

me alla Compagnoni, alla Panzanini, alla

Kostner. Di questa “Valanga Nera”.

I CuginiEngels

Quando c’era luigli scioperierano in orario

Vengo dopo il PdI Nipotini di Šostakovič

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75 MAGGIO 2018

disegno di Lido Contemori

didascalia di Aldo Frangioni

Nel miglioredei Lidipossibili

Colpite il centralismo populista!

Lo dico per averlo, nel mio piccolo, sperimentato,

per averne parlato con persone che del cammi-

no hanno fatto una scelta di vita e per aver letto

i loro racconti. Tutti, ma proprio tutti, ti dicono

così: camminare fa bene. Una decina di giorni

fa ho ripercorso il breve tratto tra San Miniato e

San Gimignano. Nell’occasione ho pernottato

all’Ostello Sigerico proprio accanto all’incante-

vole pieve di Santa Maria a Chianni, alle porte

di Gambassi. Lo gestisce un’associazione di gio-

vani entusiasti che, già da alcuni anni, accolgono

pellegrini, viandanti, camminatori per caso. Una

presenza - mi dicono - in costante crescita: nel

2017 vi hanno pernottato in più 5mila, ma po-

tevano essere di più se solo avessero avuto spazio.

Stesso discorso vale per la comunità Il Pellegrino

di Settignano, dove l’interesse per i vari cammi-

ni risulta in costante crescita. Tutto bene allora?

Direi che potremmo fare anche di più. Mi spiego.

Per tanti giovani che hanno commesso reati cam-

minare potrebbe essere una valida alternativa

alla galera. Accade già - per quello che so - in

Belgio e in Francia, dove il cammino si è rive-

lato essere una risposta rieducativa più efficace

del carcere. L’associazione francese Seuil in 15

anni ha accompagnato in cammino per l’Europa

oltre 230 giovani, a cui il giudice aveva proposto

l’alternativa tra il carcere e un percorso a piedi di

1800 km, accompagnato da un adulto, da com-

piersi in un paese straniero, in cento giorni, senza

musica e senza cellulare.

Risultato. L’80% dei giovani ha completato il

viaggio, è tornano trasformato, orgoglioso dell’im-

presa compiuta, pronto a cambiare vita. Cam-

minare è una pena più economica e, soprattutto,

molto più efficace del carcere. Basti pensare che

fra coloro che scelgono il cammino la recidiva

scende sotto il 20%, mentre per coloro che escono

dalla prigione sale ad oltre il 70. Ragioni antiche

trasformano le prigioni in scuole di criminalità,

mentre il cammino ti riporta sui sentieri, certo

tortuosi e faticosi, della retta via. Da noi sono 500

i giovani rinchiusi negli istituti di pena minorile.

Se c’è qualche giudice illuminato batta un colpo.

Segnalidi fumo

Camminare. Camminare aiuta a stare bene, a

ritrovare un equilibrio mentale, a fare pulizia

delle tante scorie che la vita ci appiccica addosso.

Camminare aiuta a vivere meglio con meno, a

riconoscere le vere priorità, a prendere le distan-

ze dall’effimero, a ricostruire il fisico e la mente.

Camminare è faticoso ma divertente, è un eser-

cizio spirituale che uccide i pensieri neri, è uno

sforzo quotidiano che ti riconcilia con la vita.

Camminare è un’attività che si fa fin dai tempi

dei tempi, tant’è che il nostro corpo è fatto appo-

sta per questo.Non lo dico solo perché a me piace.

di Remo Fattorini

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85 MAGGIO 2018

Incontro Silvana Vassallo nel corso di un

evento culturale durante una pausa pran-

zo,solitamente momento di noia e vacuità,

e mi affascina con il racconto di un viaggio

artistico transoceanico, intrapreso in un

cargo sulle orme di un’arciduchessa d’A-

sburgo Lorena, partita da Anversa circa due

secoli prima.

Silvana Vassallo è curatrice con Elia Giulia

Abbiatici di un’esposizione di Maria Gra-

zia Pontorno, inaugurata il 7 aprile 2018,

che si concluderà il 26 maggio, dal titolo

Everything I know/vol. 2, alla galleria Pas-

saggi Arte Contemporanea a Pisa.

Tutto comincia dall’Orto Botanico di Pisa,

già al centro di una precedente mostra

(2015) dell’artista e dal viaggio della gio-

vane e coltissima Leopoldina d’Asburgo

Lorena, promessa sposa di Don Pedro di

Braganza, principe ereditario del Brasile e

del Portogallo nel 1817.

Per raggiungere il promesso sposo Leopol-

dina viaggiò in nave da Anversa fino a Rio

de Janeiro, organizzando una vera e propria

spedizione scientifica, cui parteciparo-

no artisti, naturalisti e botanici, tra i quali

Giuseppe Raddi che riportò in Italia ricche

collezioni naturalistiche, tra le quali alcuni

di Mariangela Arnavas esemplari di felci brasiliane, ancora conser-

vate nell’Orto Botanico di Pisa, che aveva-

no ispirato la mostra del 2015 di Pontorno.

L’artista decide di tornare con le due cura-

trici sulle orme marine di Leopoldina, im-

barcandosi su una nave cargo da Anversa il

28 dicembre 2017 per raggiungere Rio de

Janeiro il 31 gennaio 2018, stabilendo un

costante contatto con artisti, intellettuali e

scienziati che hanno partecipato al viaggio

in forma virtuale e coinvolgendo l’equipag-

gio fino a costituire l’archivio in progress di

Everything I know.

Tra i materiali della mostra troviamo:

Atlante, scultura in bronzo della prima

vertebra cervicale che permette la rotazio-

ne della testa consentendo uno sguardo

sull’intero orizzonte, di Davide Dormino.

La scultura ha costituito durante il viaggio

una sorta di oblò di bronzo con cui scrutare

l’Oceano in navigazione;

I campioni di alcune felci del’Orto Botanico

di Pisa, tornate dopo due secoli in Brasile;

una stampa su seta, indossata dall’artista in

ogni iniziativa; un questionario, proposto a

equipaggio e passeggeri negli ultimi giorni

della traversata, nell’ambito del Pensiero

non funzionale di Cesare Pietroiusti,, per

registrare quanto un mese di Oceano in

uno spazio ristretto possa cambiare l’asset-

to personale; le richieste al cielo formulate

nell’atto di guardare le stelle, racchiuse in

un taccuino presente in mostra a fianco dei

diari di bordo dell’artista e delle curatrici e

altro ancora.

Si tratta della restituzione di un’azione per-

formativa composita che ha attivato proces-

sualità artistiche ed esperienze stratificate,

spazialmente e temporalmente, coinvolgen-

do in forma virtuale artisti, scienziati e in-

tellettuali, così come nel viaggio del 1817.

“Decido di fare ogni giorno due monocro-

mi, uno diurno e uno notturno, per fissare

su carta le modulazioni cromatiche di cielo

e mare. Ho portato di proposito una vasta

gamma di azzurri, blu e grigi e pure dorato

per quando inizierò a vedere le stelle. Poi di

sopra, applicherò il cedro dei cieli in viag-

gio”, così comincia il diario di bordo dell’ar-

tista.

Per orizzonte l’oceano

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95 MAGGIO 2018

dalla chitarra di Armando Corsi, un musi-

cista genovese di grande valore innamorato

del jazz e delle musiche latinoamericane. Il

chitarrista aveva già collaborato a un disco

analogo, Baccini canta Tenco (2011).

La voce dell’artista genovese si sposa perfet-

tamente con la sua chitarra, discreta ma al

tempo stesso energica e ricca di pathos.

Come sappiamo, l’omaggio a un artista ac-

quista un valore particolare se include qual-

che brano inedito o poco noto.

Ecco quindi “La ballata del marinaio”, dai

toni antimilitaristi, e

“Luigi e gli americani”, che Giorgio Gaber

e Ombretta Colli dedicarono al cantautore

suicida.

Naturalmente non mancano i pezzi più ce-

lebri: “ Mi sono innamorato di te”, “Vedrai

vedrai”, “Ciao amore, ciao”, quest’ultima

cantata da Tenco a Sanremo nel 1967. “An-

gela” viene proposta in versione strumenta-

le.

Luigi è un disco intenso, sincero, fatto col

cuore, quasi l’omaggio a un fratello maggio-

re.

Roberta Alloisio e Luigi Tenco non si era-

no conosciuti: quando è morto il cantautore

lei aveva appena tre anni. Eppure avevano

respirato in parte la stessa aria: la cantante

aveva esordito nel 1981 con Giorgio Gaber,

che alla fine degli anni Cinquanta aveva

suonato con Tenco. I due avevano stretto

una solida amicizia e a avevano composto

insieme alcune canzoni.

Roberta Alloisio ha scritto una pagina im-

portante della musica italiana, ma questo

non è il suo ultimo disco. La cantante, inna-

morata della Corsica, aveva stretto una fe-

conda collaborazione col musicista bastiac-

cio Stéphane Casalta. Il frutto di questa

amicizia musicale è il CD Animantiga, che

uscirà nei prossimi mesi. Inutile dire che ne

riparleremo.

Luigi Tenco si suicidò a Sanremo nella not-

te fra il 26 e il 27 gennaio 1967. Aveva ven-

totto anni. Probabilmente il primo a trovare

il suo cadavere fu uno degli amici più cari,

Lucio Dalla. Durante il mezzo secolo che ci

separa da quella data il cantautore, nato a

Cassine (Alessandria) nel 1938, è stato ri-

cordato e onorato nei modi più diversi: libri,

concerti, opere teatrali. A lui è stato intito-

lato il prestigioso Premio Tenco.

Non si contano gl omaggi musicali, da “Pre-

ghiera in gennaio” di Fabrizio De André

(1967) al concerto “Come mi vedono gli

altri...quelli nati dopo”, con vari artisti ita-

liani, poi registrato in CD (2017).

L’omaggio più recente, intitolato sempli-

cemente Luigi (Orange Home Records,

2018), è quello di Roberta Alloisio. La can-

tante, deceduta l’anno scorso, era nata nel

1956 ad Alessandria, ma poco dopo la sua

famiglia si era stabilita a Genova. Profon-

damente legata a questa città, Roberta era

una delle poche donne in questo panorama

musicale egemonizzato da figure maschili.

Nel nuovo disco la sua voce è affiancata

di Alessandro Michelucci

di Ugo Barlozzetti

MusicaMaestro Dedicato al fratello maggiore

Storie a puntiLa mostra di opere recenti di Alessandro

Goggioli offre l’occasione per meditare su

quello che efficacemente Laura Monaldi

definì “il valore del tempo”. Possiamo ammi-

rare, oltre alle intense acqueforti e litografie,

ancora una volta la rigorosa qualità del fare

al servizio di una tecnica originale in pittura,

funzionale per una capacità dell’immaginare

che arricchisce e reinventa aspetti della ricer-

ca del surrealismo, come dell’iperrealismo,

definendo un codice interpretativo polisemi-

co. Un tale processo si sviluppa soprattutto

con la restituzione di soggetti-oggetti preferi-

ti, i vecchi balocchi di latta litografata, mon-

do del gioco dell’infanzia fino all’invadente

trionfo della plastica. Con l’inserimento di

quelli oggetti in un nuovo contesto e con

titoli “guida”, le opere acquisiscono una iro-

nia costruttiva, avviano a una riflessione sul

passarsi di testimone dell’esistere tra le gene-

razioni e invitano a saper vedere, nella quoti-

dianità degli eventi che mutano la storia. Lo

storico Johan Huizinga, con “Homo ludens”,

indusse a una indagine adeguatamente at-

tenta alla relazione tra gioco e cultura. Nella

produzione di Alessandro Goggioli, come

Frangioni e De Rosa hanno sinteticamente,

quanto bene, messo in luce, vi è un impegno

civile e morale esemplare, quanto prezioso.

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105 MAGGIO 2018

dirigere diverso, non rinunciò mai all’utopia

necessaria di portare l’umanesimo nel mon-

do economico, un umanesimo concreto, non

libresco.

Primo ad affrontare in modo sistematico

ancorchè distopico (con Il pianeta irritabile,

del 1978) il tema ecologico, Volponi appro-

dò infine alla grande allegoria visionaria de

Le mosche del capitale (1989) dove il per-

sonaggio del dirigente-intellettuale, Bruto

Saracini, porta i segni palesi e autocritici del

fallimento.

Ma come si è accennato all’inizio è nel meno

noto “Il lanciatore di giavellotto” (1981) che

Sarchi ha individuato un altro segno indubi-

tabile della modernità di Volponi. E’ la sto-

ria terribile e tragica dell’adolescente Damìn

Possanza (un nome che è un ossimoro) so-

praffatto da un violento complesso di Edipo

e insieme dal modello culturale fascista, una

“mala educaciòn” violenta e machista che

lo contamina nel profondo. I consigli e i va-

lori positivi e aperti interpretati dal nonno

vasaio e dal paterno amico calzolaio non lo

salvano dal duplice assedio e Damìn fallisce

il rapporto con l’altro sesso e con la madre.

Accecato dall’inconcepibile idea che un cor-

po femminile possa “esistere” uccide e si uc-

cide, lanciando se stesso nell’abisso, come un

giavellotto. Nel 1981 Volponi – ha concluso

Alessandra Sarchi – riteneva essenziale, in

un libro destinato ai giovani, mettere a nudo

la radice della cultura prepotente e maschi-

lista e chiedersi che cosa vuol dire diventare

un uomo: “E’ importante – ha detto - che sia

riletto oggi”.

di Susanna Cressati

Si è concluso al Vieusseux il ciclo “Scrittori

raccontano scrittori”, dedicato agli studenti

delle superiori. I quali, alle prese in queste

settimane con il rush finale dell’anno scola-

stico, hanno poca voglia o poco tempo per

misurarsi con gli approfondimenti letterari.

Sarà per questo motivo, chissà, che l’appun-

tamento settimanale conclusivo dedicato

al Paolo Volponi (Urbino 1924 - Ancona

1994) è stato disertato dalle classi di scuo-

la come era accaduto soltanto, forse per al-

tri motivi, nel caso degli incontri riservati a

Federigo Tozzi e Carlo Betocchi. Peccato,

perchè la brava Alessandra Sarchi ha trova-

to una chiave di particolare interesse per un

pubblico giovanile, il commento a “Il lancia-

tore di giavellotto”, romanzo di formazione

non remotissimo (uscì nel 1981 per i tipi di

Einaudi) e la cui drammatica trama si con-

fronta con problematiche di sicuro interesse

contemporaneo.

Poeta, scrittore, giornalista, dirigente d’a-

zienda e parlamentare, Paolo Volponi in-

carnò con la sua attività e le sue opere – ha

detto Sarchi – il tentativo di comporre il

conflitto tra il sontuoso patrimonio storico e

culturale del nostro paese e una modernità

male sviluppata e male assimilata. Affrontò

la lacerazione incomponibile tra un mondo

sostanzialmente rurale e quello della nuova

cattedrale dello sviluppo, la fabbrica, tema

su cui Volponi (in Memoriale, del 1962)

esercitò la sua intelligenza, le sue attività

artistiche e professionali, il suo impegno po-

litico, incudine su cui si forgiò, inesauribile e

inviolata perfino nei momenti di scontro più

aspro, la sua amicizia con Pierpaolo Pasolini

(il Vieusseux custodisce il loro epistolario).

I due intellettuali guardarono con occhi di-

versi quello che stava succedendo all’Italia

del boom economico: condivisero il tema e

lo sguardo lirico sul mondo rurale (Volponi

fu prima di tutto e nonostante tutto poeta)

ma mentre Pasolini ne deprecò la scompar-

sa, per Volponi una trasformazione in senso

moderno rimase possibile, quando la cultura

arcaica venisse guidata verso una transizio-

ne.

E’ al seguito di Adriano Olivetti che Volponi

lavorò alla composizione di un singolare rap-

porto tra lavoro e mondo letterario. E fino

a che il progetto olivettiano “tenne” Volpo-

ni restò al suo posto, prima come dirigente

dei Servizi Sociali aziendali e poi come

capo del Personale. Non rinnegò mai – ha

detto Sarchi - il desiderio di dare vita a un

Mala educaciòn all’italiana

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115 MAGGIO 2018

Le due ruote, hanno sempre rappresen-

tato una peculiarità del trasporto urbano

fiorentino tanto da caratterizzarlo. Rap-

presentandone però anche un importante

problema in termini di sosta. Sono passati

diversi decenni da quando individuando

nei lungarni il luogo più adatto da desti-

narsi a parcheggi per motocicli, l’immagine

cittadina si è arricchita di “nuove prospet-

tive”. Conosciamo la nostra città perché la

viviamo tutti i giorni da tanti anni. La co-

nosciamo nei suoi luoghi noti ed in quelli

meno noti grazie alle tante iniziative volte

alla scoperta di angoli e luoghi non sempre

visitabili e raggiungibili. Motivi di caratte-

re diverso, ne impediscono il libero accesso

perché privati, perché pubblici ma non ac-

cessibili, perché protetti da segretezza mili-

tare, perché mancanti delle garanzie di si-

curezza, perché mancanti di custodia. Tutti

luoghi che visitiamo con grande curiosità e

soddisfazione, per il piacere di appropriarsi

di un’altra casella della nostra città, del ter-

ritorio che sentiamo ci appartenga. Luoghi

di cultura, luoghi particolari, emozionanti,

curiosi, o semplicemente nascosti agli occhi

di molti. Transitavo da via del Parioncino,

una strada strettissima a fianco di Palazzo

Corsini sul lungarno, quando ho visto un

motorino sparire in una delle due pareti ad

una certa velocità. Dato la scarsa presenza

di porte e l’assenza di sporti di negozi, la

cosa mi ha incuriosito, e raggiunto il punto

in cui avevo visto sparire il motorino, ho sco-

perto l’accesso ad un parcheggio pubblico

per motoveicoli. Sono rimasto colpito dalla

cura e dall’elevato automatismo del luogo.

Il parcheggio ho scoperto più tardi ha un

ingresso pedonale su via del Parione. La

curiosità mista a sorpresa, mi ha fatto entra-

re, e inaspettatamente ho trovato un gran-

di Valentino Moradei Gabbrielli

Itinerari insolitiil parcheggio Santa Trinita

Il sensodella vita

de parcheggio semi-interrato, per veicoli a

due ruote luminosissimo, dove un numero

considerevole di motorini era parcheggiato

ordinatamente su un pavimento pulito e

piastrellato alle pareti. Ho iniziato a per-

correre il locale che grazie a numerose fine-

stre a bocca di lupo ci offre una prospettiva

diversa quanto inaspettata sul chiostro del

convento della basilica di Santa Trinita. E

che riproduce la planimetria dei loggiati al

piano superiore e le sale attigue al chiostro.

Un bell’esempio da imitare di “Catacombe

Moderne”, dove riposano, nascosti alla vi-

sta del turista e del fiorentino, gli scooter e

ciclomotori così preziosi e insostituibili alla

mobilità cittadina.

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125 MAGGIO 2018

Si racconta che un fanciullo d’origine divina,

di nome Tagete, insegnò in un sol giorno l’ar-

te divinatoria agli Etruschi che, di generazio-

ne in generazione, la tramandarono insieme

ai riti accadici e anatolici delle origini (culti

ilozoisti); in queste arti gli Etruschi furono

maestri tanto da porre quegli antichi saperi al

centro del loro modo di essere, di porgersi nei

confronti del quotidiano e, imparando da essi,

affinarono indiscutibili capacità tecnologiche

e metallurgiche. Strabone racconta che fu

Tarconte, fondatore di Tarquinia (Tarchu-na

in lingua etrusca), insieme al fratello Tirre-

no a introdurre tali riti in Etruria nel corso

della prima migrazione dalla Misia. Verrio

Flacco e Aulo Cecina ci tramandano che fu

proprio Tarconte ad iniziare nel IX sec. a.C.

l’esplorazione dei territori a nord dell’Arno,

spingendosi in Val Padana fino alla pelasgica

Spina. Oggi, dai ritrovamenti di Villanova a

Castenaso (BO) e in mancanza di più preci-

se cognizioni, indichiamo come Villanoviani

quei primi colonizzatori confondendoli con

le popolazioni aborigene ed altre con le qua-

li i Rasenna condividevano ataviche usanze.

Gonfienti è al centro di queste epiche remini-

scenze con le quali concludiamo questo ciclo

di storie. E’ stato già detto come gli assetti del-

le città etrusche fossero ben pianificati, ordi-

nati secondo un rigoroso schema matematico

derivante dall’osservazione dell’Universo

[“CuCo”, 253, p. 13] e dall’arte divinatoria

che si esercitava attraverso i codici haruspi-

cini, fulgurales e rituales. Analizzando gli

antichi insediamenti, pur non conoscendo le

arcaiche liturgie, si hanno conferme di quelle

“speciali” attitudini nel costruire le “città dei

vivi” e le “città dei morti”, a cominciare dal-

la mai casuale dislocazione dei santuari che

etruschi e pre-etruschi (dalla Cultura del Ri-

naldone in avanti) fondavano coi principi del-

la «geografia sacra». Tale disciplina si basava

sulla conoscenza e l’utilizzo dell’energia cre-

atrice della Terra, seguendo gli orientamenti

astrali (o delle divinità cosmiche) duplicati

nelle cavità sotterranee (o delle divinità cto-

nie). Il bronzeo “Fegato di Piacenza” (IV-III

sec. a.C.) ci mostra la suddivisione della volta

celeste nel mondo etrusco nella maglia di par-

tizioni teocratiche geo orientate alle quali gli

di Giuseppe Alberto Centauro

L’Etrusca Disciplina e il temenos di Gonfienti

Il disegno del “Fegato di Piacenza” perfettamente coincidente con la conca di Travalle e la Valdimarina nei carat-

teri orografici e morfologici qui spartiti nelle regioni celesti costituenti il pantheon etrusco (elab. di G.A. Centauro,

2003)

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135 MAGGIO 2018

aruspici si rapportavano. Il microcosmo etru-

sco ruota alla ricerca dell’Armonia, simbiosi

tra natura e artificio, per riprodurre in Terra

quello che si muove in Cielo e che si rigenera

nel grembo della Madre Terra. L’Etrusca Di-

sciplina era in grado di captare le fonti ener-

getiche e di imbrigliarle entro precisi confini

fisici (inter amnes, nelle paludi e nei bacini

lacustri, intorno alle sorgenti delle alture co-

niche e biconiche o “lunate”, nelle sinuosità

di fiumi, laghi e coste marine) e, laddove tale

Fig. 2 – La motta di Travalle vista dal sito della Bucaccia - Poggio Castiglioni (foto di G.A. Centauro, 2003)

Fig. 1 – Riprese a volo d’uccello della motta di Travalle (foto di G.A. Centauro, 2003

energia rischiava di disperdersi, si erigevano

terrapieni, recinti circolari in modo da conte-

nere i flussi energetici endogeni, catturando

quegli esogeni nell’alternanza del giorno e

della notte, della luce solare diretta e lunare

riflessa. L’ager bisentino di di Gonfienti è

da questo punto di vista un luogo emblemati-

co. La morfologia, l’orografia e l’idrografia di

quel territorio rendono percepibili le conn\

essioni esistenti, qui amplificate dai fenome-

ni carsici che omologano l’azione dell’uomo a

quella della natura e viceversa (doline, grotte,

anfratti come vie cave, recinti murari, acqui-

docci ecc.). In tutta l’Etruria continentale ci

sono solo due luoghi, pur nelle diverse di-

mensioni, che lasciano intravedere il model-

lo archetipo che riflette il cielo sulla terra: il

Fanum di Bolsena, conclamato santuario di

Voltumna, con le isole Bisentina e Martana,

“sacre aiuole” della Dea Madre, emergenti

nelle acque del cratere vulcanico; e il natu-

rale enclave, ancora tutto da esplorare, della

“magica” conca di Travalle dove, al centro di

una radura sottratta da secoli alle acque, spic-

ca una motta gradonata detta Castellaccio e

Castelluccio (castrum sive castellare). Per la

diffusa presenza di strutture megalitiche, di

allineamenti, coppelle e spartitoi l’intera val-

lecola non può che essere il temenos dell’Of-

ferente: un’area inusitata che si estende dal

crinale del Camerella fino all’acropoli di

Poggio Castiglioni, disegnando un’ampissima

cornice circolare interrotta, a sud est, dalla

stretta di poggio dell’Uccellaia che la separa

dalla Chiusa di Calenzano e dal massiccio

del Morello. Il focus areale è posto laddove le

acque del Marinella e del Camerella (deviato

ad hoc) confluiscono insieme ad altri ruscelli

e ad acque risorgive verso la collinetta arta-

tamente modellata, fatta di terreni e pietre

di antico riporto, sostenuta da cortine di alte

muraglie già datate del IV/III sec. a.C. (fig. 1).

L’amena altura, ingentilita oggi da strette bal-

ze di ulivi, delinea una sorta di ziggurat che

si eleva per poco più di 20/22 mt. dal piano

mediano di campagna, per una larghezza di

120 e una lunghezza di 240. Stupisce il trac-

ciamento a terra delle redole e delle profonde

canalizzazioni di drenaggio che la spartiscono

in precise porzioni geometriche che si aprono

a raggiera nelle direzioni cardinali della volta

celeste (fig. 2), proprio come nel rituale fegato

ovino (v. Carta). Nelle occultate viscere pare

materializzarsi il mito del labirintico mauso-

leo del Re d’Etruria, citato ma mai visto da

Varrone, descritto tra le fabulae Etruscae da

Plinio il Vecchio: “sepultus sub urbe Clusio,

in quo loco (Porsina) monimentum reliquit

lapide quadrato quadratum …” (Naturalis

Historiae, lib. XXXVI, 91). In questo sito

sono stati trovati innumerevoli reperti litici e

ceramici d’epoca etrusca e romana, questi ul-

timi da porre in relazione ai resti di una villa

rustica d’epoca imperiale rinvenuta nei pressi

della vicina Villa-fattoria di Travalle dall’e-

soterico giardino; pur tuttavia, nonostante

questi seri indizi, la curiosità della scienza re-

sta ancor “sospesa” perché niente ancora si è

fatto per approfondire, per essere in grado di

svelare verità nascoste.

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145 MAGGIO 2018

Si chiama Sabrina, come il film di Billy Wil-

der la cui eponima protagonista è interpretata

da Audrey Hepburn. Di cognome fa Always,

titolo di un altro film, stavolta di Spielberg,

sempre con la Hepburn, nella sua ultima,

toccante, interpretazione. Se non fosse suf-

ficiente l’aggravante di essere americana da

parte di madre, è veneziana in linea paterna:

aggiungere Costantini. Di qui la fascinazione

per il colore delle murrine, gli incanti delle

trasparenze vitree e acquatiche, le stupefa-

zioni per manufatti fragili e cangianti, che

fanno parte del suo d.n.a. e se si aggiunge che

viene chiamata pure Ramona, come il titolo

di una delle più belle canzoni del, purtroppo

per lui, Nobel Dylan, si può trarre una sorta

di destino e vocazione dai suoi nomi, che non

potevano non portarla alla pittura: “Ramona

come closer, shut softly your watery eyes”,

canta Bob. E pare proprio che solo chiudendo

gli occhi “acquosi” (lacrime di commozione?)

Ramona Sabrina Always Costantini, riesca a

trattenere quelle vibrazioni di luce, sospese

tra lancinante ricordo e sgomenta sorpresa,

che rendono così peculiari le sue opere.

Opere nelle quali trasfonde la sua “pazienza

da arrostita”, per citare il torinese Ceronetti

(Torino è l’altra sua città di elezione) che le

deriva dalla attività di restauratrice, specie

di affreschi, onde simulare su superfici dure

(compensato, mdf, faesite ecc.) risultati mura-

li ma con l’alea imprevedibile delle reazioni e

controreazioni del colore. Esattamente come

avviene in natura. Per un’artista che si è dedi-

cata a “Ritratti di alberi”, così si chiamava una

bella sua mostra ospitata nel Museo Regiona-

le di Scienze Naturali di Torino qualche anno

fa, è ovvio che captare le umbratili e infinite

variazioni proposte dal mondo vegetale, dalle

tessiture delle venature di foglie, cortecce o

petali e dei suoi abituali frequentatori, siano

essi insetti, uccelli o altre creature meno mo-

leste e devastanti degli umani, sia diventata

sua cifra stilistica.

Eccola allora indagare nei meandri del Tessu-

to di nidi e foglie, oppure rendere un Uragano

quasi una sintesi di simbolistico magma inte-

riore, in un’esplosione di colori che possono

far pensare ai suoi amati Redon o Hunder-

twasser, ma nei quali il richiamo a certa art

déco si impenna in inquieta e tutta contem-

poranea, sofferta, attesa: di un Godot visivo

neghittoso, che nel trascolorar del sembiante

lascia pochi spiragli a possibili tranquille rap-

presentazioni della Natur, ormai dissezionata

dalla scienza o dissacrata dalla sovrabbondan-

za di idilliache e bucoliche istantanee, buone

di Fabio Norcini

Segreto delle foglie allo Studio Rosai

sole a pubblicizzare agriturismi. La difficile

strada di Sabri Always si pone su un altrove,

forse ancora praticabile. Indicato da Enrico

Filippini all’inizio del suo memorabile rac-

conto L’ultimo viaggio: “Sì, abbiamo visto, ab-

biamo annusato, abbiamo respirato, abbiamo

visto molti alberi; abbiamo cercato gli alberi,

o forse negli alberi abbiamo cercato di inda-

gare un segreto che gli alberi non possono tra-

dire. Possono regalarti soltanto il colore delle

foglie...”. Proprio questo, sempre e sempre, la

nostra Always propone. E per tale ragione i

suoi quadri sono difficili da capire soltanto ve-

dendoli in quell’effimero e svaporante tempo

del rito espositivo: andrebbero frequentati,

abitati. Chi scrive ha avuto questa fortuna,

per pochi giorni, nello studio torinese dell’ar-

tista. Per questo può farsene garante e orgo-

gliosamente presentarla a Firenze, con opere

appositamente pensate e realizzate per que-

sta sua personale allo Studio Rosai. Una sor-

presa e forse una “visione”, per citare ancora

Filippini, degna di un primo piano di Wilder

o di un dolly di Spielberg.

Gli Omaniti apprezzano le corse di dromedari e scommettono

anche forti somme. I dromedari allevati per la corsa raggiungo-

no quotazioni altissime, come in Occidente i migliori cavalli da

corsa

AndreaCaneschiin Oman

Giovani dromedari in allenamento

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155 MAGGIO 2018

In teoria i morti sono tutti uguali, tutti degni

della stessa pietà e della stessa compassione.

Ma quando si tratta di persone a noi più vi-

cine o più simili, per qualsiasi motivo, ci sen-

tiamo in qualche modo maggiormente colpiti

e maggiormente coinvolti. Anche nel doppio

attentato suicida recentemente messo a segno

dai talebani a Kabul, in cui sono state vigliac-

camente ammazzate una trentina di persone,

il nostro pensiero corre soprattutto a quella

decina di giovani giornalisti e cineoperatori, ar-

rivati tempestivamente sul luogo del primo at-

tentato, e che sono rimasti uccisi nella seconda

esplosione. Fra di loro ha perso la vita anche un

fotografo, ma non un fotografo qualsiasi a cac-

cia di immagini forti e sensazionali. Il fotografo

assassinato dai talebani è Shah Marai, afghano,

poco più che quarantenne, padre di sei figli,

responsabile a Kabul della prestigiosa Agenzia

France Press. Entrato a servizio dell’agenzia

come autista nel 1995, comincia a scattare foto

tre anni più tardi, fino a diventare il referente

della AFP, per la quale realizza in vent’anni

oltre 18.000 fotografie, che raccontano la vita

del paese, nel primo difficile periodo sotto la

dominazione talebana, fino all’invasone ameri-

cana del 2001, poi nel periodo della speranza

di un reale cambiamento, fino alle successive

delusioni, con il ritorno dei talebani nel 2004,

la partenza delle truppe americane nel 2014

e la definitiva perdita di fiducia in un qualsi-

asi domani ed in qualsiasi prospettiva. Questo

senso di sfiducia è testimoniato in un saggio del

2016, “The hope is gone”, in cui Marai raccon-

ta il passaggio dall’entusiasmo che pervade la

capitale dopo la fuga dei talebani alla dispera-

zione di oggi, con i talebani che sono dovunque

ed attaccano i luoghi frequentati dagli stranie-

ri, mentre gli afghani si ritrovano senza soldi,

senza lavoro e con i talebani di nuovo alle por-

te. “Non ho mai sentito la vita avere così poche

prospettive e non vedo una via d’uscita”. In

vent’anni di professione Marai ha documenta-

to i momenti tragici ed i momenti felici, i lutti

e le speranze, ha raccontato il suo popolo attra-

verso immagini che parlano della vita quotidia-

na come dei momenti eccezionali. Ha scrutato

il volto di uomini e donne, ma soprattutto dei

bambini, per cogliere nei loro sguardi le diver-

se emozioni che si sono alternate nell’arco degli

ultimi anni, scrivendo in maniera indelebile la

storia di un paese tormentato, lontano e quasi

dimenticato. Dotato di grande forza, coraggio

e generosità, Marai testimonia anche gli eventi

più orribili con estrema professionalità e sensi-

bilità, mostrando nelle sue immagini un’incre-

dibile capacità di catturare l’umanità in quasi

di Danilo Cecchi Shah Marai fotografo, ammazzato a Kabul

tutte le situazioni. Senza voler togliere niente

agli altri caduti, giovani reporter e cameraman,

vittime di un agguato talebano mirato contro

la stampa, contro la libertà di informazione e

contro la libertà di espressione, ricordiamo la

figura e l’opera di Shah Marai, con una selezio-

ne di immagini scelte fra quelle a suo tempo

selezionate per una possibile pubblicazione

monografica, insieme alle parole che al lui ha

dedicato un amico e collega. “Il mondo è un

posto più piccolo e meno umano senza Marai.

Era l’anima di AFP Kabul. RIP amico mio.”

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165 MAGGIO 2018

San Gimignano Con le sue torri silenziose e impenetrabili,

San Gimignano rappresenta l’immagine

archetipica e anticipatrice delle più avve-

niristiche città contemporanee. A differen-

za degli analoghi prismi moderni, enormi

ma non per questo simbolicamente più

alti, il fascino delle torri medievali di San

Gimignano consiste nella loro bellezza

austera, misteriosa, completamente mate-

rica.

di Andrea Ponsi

Disegnare la Toscana San Gigmignano

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175 MAGGIO 2018

La città natale del grande filosofo, attivista poli-

tico ed economista tedesco ha organizzato una

grande festa in onore del duecentesimo com-

pleanno anniversario della nascita. Ma il suo

pensiero è più attuale che mai.

Karl Marx era nato a Treviri, in Renania-Pala-

tinato, il 5 maggio del 1818, terzo figlio dell’av-

vocato ebreo e produttore vinicolo Heinrich

Marx. Da alcuni mesi, nella città tedesca si

svolgono conferenze rievocative del suo pensie-

ro, in parallelo alla predisposizione di percorsi

guidati nei luoghi che ricordano il giovane Karl.

Ma, accanto all’intrattenimento storico-cul-

turale, non poteva mancare anche un intenso

sfruttamento commerciale dell’evento.Le sem-

bianze barbute del filosofo sono riprodotte su

bambole, magliette, borse, mutande, gnomi da

giardino,videogiochi. Su Amazon il produttore

Kikkerland ha proposto l’acquisto di un salva-

danaio, suggerendo «di conservare i propri sol-

di dentro il famoso socialista».

Il comune di Treviri ha inoltre avuto l’idea ori-

ginale di regolare il traffico facendo accendere

ai semafori la sua barba verde o rossa. Non si

tratta però di un omaggio all’immobilismo,

come nell’esilarante performance fatta nel

2009 da Corrado Guzzanti satireggiando su

Romano Prodi, «fermo come un semaforo». Il

compito di vigilanza assegna infatti alla piccola

sagoma di Marx un certo dinamismo e induce

ovviamente al sorriso, ma non si attaglia per

niente alla figura storica del pensatore rivolu-

zionario, sovvertitore dell’ordine costituito.

Il critico letterario russo Pavel Annenkov, che

incontrò Marx a Bruxelles, ne fece un ritratto

all’età di trent’anni come di persona dalla gran-

de autorevolezza: «Con una spessa zazzera di

capelli neri in testa, le sue mani pelose, vestite

con un cappotto abbottonato diagonalmente

sul petto, manteneva l’aspetto di un uomo con

il diritto e l’autorità di imporre il rispetto, qua-

lunque sembianza avesse preso e qualunque

cosa facesse».

Marx è stato un filosofo e attivista politico che

ha cercato di elaborare una teoria che potesse

orientare politicamente l’azione del movimen-

to collettivo operaio. Il primo volume de Il Ca-

pitale, pubblicato nel 1867, muove dall’analisi

della questione più rilevante dell’epoca, la mi-

seria urbana del proletariato industriale. Gli

operai avevano giornate di lavoro lunghissime,

vivevano ammassati in alloggi fatiscenti, guada-

gnavano salari molto bassi. Ai suoi occhi si pa-

lesava un evidente fallimento del sistema eco-

nomico capitalistico dominante. In presenza

di una crescita economica che faceva lievitare

i capitali (profitti industriali, rendite fondiarie,

affitti urbani), la situazione delle masse invece

restava davvero miserabile. E anche i minori

non erano esclusi dall’ignobile sfruttamento

lavorativo. Basti pensare che, nel biennio 1841-

1842, in Francia e nel Regno Unito si era dovu-

to intervenire con la legge per vietare il lavoro a

soli 8 e 10 anni!

Marx denuncia quindi in modo scientifico e in

una prospettiva di emancipazione della classe

operaia le contraddizioni del profitto spregiudi-

cato, produttore di alienazione e sfruttamento.

Il libro è soprattutto un potente strumento per

comprendere le ingiustizie e la natura insazia-

bile del capitalismo, spiegata dal principio di

accumulazione infinita del capitale. Il filosofo

tedesco ritiene che tale meccanismo non sia

finalizzato a soddisfare le esigenze sociali, ma

sia solo costruito per generare denaro. Fornisce

quindi un quadro critico della sua logica evo-

lutiva, soffermandosi sulla creazione dei mer-

cati mondiali, sull’invenzione di nuovi bisogni.

Indica che le crisi del capitalismo si ripetono

ciclicamente, diventando sempre più gravi e

finendo per sincronizzarsi su scala globale. La

storia, e in particolare la grave crisi finanziaria

planetaria iniziata nel 2007-2009, ha dimostra-

to che egli aveva colto nel segno nel descrivere

le patologie del capitalismo.

Pur avendo sbagliato diverse profezie, Marx ha

previsto il bisogno del capitale di espandersi,

di compensare il declino e/o il crollo del pro-

fitto. È stato così un preveggente dell’odierna

globalizzazione, che ha realizzato la fusione

progressiva e forzata delle economie nazionali

in un mercato capitalista mondiale unificato. Il

pianeta intero è diventato una gigantesca piaz-

za in cui popoli, classi sociali e Paesi entrano in

competizione fra loro. Si è realizzato, però, uno

sviluppo economico non globale, ma localiz-

zato nei centri di affari, sedi di grandi società,

banche, mercati finanziari, assicurazioni. Si è

così creata un’economia di arcipelago, isolotti di

ricchezza che fluttuano su un oceano di popoli

in agonia, come ha notato il sociologo francese

Philippe Zarifian.

Secondo l’indice di povertà approntato in sede

Onu, quasi un miliardo e mezzo di persone re-

sidenti in 91 Paesi in via di sviluppo vive oggi

nell’indigenza. Essi sono privi o non hanno ac-

cesso sufficiente a cibo, acqua potabile, istruzio-

ne, alloggio,cure mediche, lavoro. Le oligarchie

del capitale globalizzato decidono, giorno dopo

giorno, chi ha diritto di vivere e chi è condan-

nato a morire. Lo fanno attraverso alleanze po-

litiche, strategie d’investimento, speculazioni

monetarie.

Il capitalismo crea così un mondo pieno di po-

vertà, disoccupazione, degrado, e sta distrug-

gendo il pianeta anche attraverso l’inquina-

mento e il surriscaldamento del clima.

Forse tale sistema può considerarsi una caratte-

ristica inevitabile del mondo odierno, tuttavia

permane ancora la speranza che possa essere

controllato, canalizzato in forme meno distrut-

tive.

Al centro del pensiero di Marx vi è la lotta con-

tro lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e la

concentrazione della ricchezza, da cui deriva-

no le disuguaglianze.

Egli ci ha fornito una lente atta alla decodi-

fica di protagonisti e meccanismi del mondo

globalizzato, per cercare di renderlo diverso e

più giusto. E non si limita soltanto a indicare la

direzione di marcia,come ai semafori del comu-

ne di Treviri, ma ci svela anche un metodo per

iniziare a comprendere il mondo.

Come scrisse all’inizio degli anni Ottanta il

filosofo francese Louis Althusser in Leggere

il Capitale: «Dobbiamo a Marx di non essere

soli: la nostra solitudine dipende solo dalla no-

stra ignoranza di ciò che aveva detto. È questa

che bisogna accusare, in noi e in tutti coloro che

pensano di averlo superato – e non parlo che

dei migliori – mentre non sono che alla soglia

della terra che egli ci ha svelato e aperto».

Pubblicato su Liberamente.net

di Ugo Pietro Paolo Petroni A Treviri per il bicentenario di Marx

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185 MAGGIO 2018

La Tour Eiffel è stata progettata per l’Espo-

sizione Universale del 1889 organizzata per

commemorare il centenario della Rivoluzio-

ne Francese. L’idea è quella di costruire una

struttura più alta possibile da superare i limiti

tecnici del tempo. L’ingegnere Gustave Eiffel,

specializzato in costruzioni in ferro, con una fio-

rente società con molti dipendenti, famoso per

aver costruito ponti e ferrovie in tutto il mondo

e perfino la struttura interna della Statua della

Libertà, riuscirà a realizzare l’opera sfruttando

le caratteristiche di leggerezza e resistenza di

questo metallo, divenuto simbolo dell’architet-

tura della nascente epoca industriale.

Naturalmente Eiffel è subito interessato a que-

sta sfida tecnica che la città di Parigi ha lanciato

a livello internazionale. Non segue però perso-

nalmente il progetto ma incarica due suoi di-

pendenti: gli ingegneri Maurice Koechlin, capo

del ufficio progettazioni, e Emile Nouguir, capo

dell’ufficio metodologico di realizzazione. Que-

sti studiano una torre alta 300 metri a forma di

piramide. Eiffel non è convinto del progetto

perché, non solo non è sicuro di poterlo realiz-

zare, ma pensa di non avere neanche il tempo

per farlo. Tuttavia continua a incoraggiare i

due a portarlo avanti fino alla presentazione

nel 1884. Il progetto viene rifiutato. Colpito

nell’amor proprio, Eiffel incarica allora un suo

architetto, Stephen Sauvestre, di rivederne il

Il salotto di Eiffel di Simonetta Zanuccoli

design togliendo un po’ di quella rigidità tipica

dei progetti ingegneristici. E infatti Sauvestre

ammorbidisce le forme delle strutture metalli-

che, ridisegna le basi in muratura, diminuisce

il numero delle piattaforme di collegamento,

aggiunge una specie di campanile alla sommi-

tà....A Eiffel piace così tanto questo progetto

così riadattato che, per non farselo copiare, bre-

vetta il metodo “su come montare una torre me-

tallica alta 300 metri”. Nel brevetto all’inizio

compaiono oltre al suo nome anche quello dei

veri progettisti della torre, Koechlin, Nouguir e

Sauvestre ma poi Eiffel riscatta la loro parte in

maniera che il brevetto abbia solo il suo, con-

dannando gli altri all’oblio. E con questo nome,

Tour Eiffel, il progetto modificato risulta vinci-

tore nel 1886 su 107 altri pervenuti. Forse l’in-

gegnere è stato favorito dai rapporti previlegiati

con alcune alte personalità dello Stato ma an-

che, e soprattutto, per aver dato una funzione

non solo estetica alla Torre. Infatti il progetto

prevedeva di utilizzare dei locali situati nella

parte più alta per sperimenti tecnici e scienti-

fici. In seguito viene rapidamente completato

da 50 tra ingegneri e disegnatori che eseguono,

sotto la sua direzione, 5300 disegni della Torre

nei minimi dettagli. Alla firma del contratto per

la realizzazione dell’opera si stabilisce che la

sua copertura finanziaria sia per il 23% a carico

di sussidi pubblici e il restante 77% a spese del-

lo stesso Eiffel. Sarà però suo il guadagno dei

biglietti venduti per la visita alla Torre a molti

dei 32 milioni di persone venute all’Esposizio-

ne Universale oltre a quello ricavato dall’affitto

che la città di Parigi gli pagherà dalla fine dell’

Esposizione per 20 anni fino al 31 dicembre

1909, ultimo giorno prima di essere abbattuta.

Eiffel pretende anche di ricavarsi al terzo piano

della Torre un piccolo ma confortevole appar-

tamento dalla vista mozzafiato su Parigi (oggi

visitabile dopo decenni di chiusura) che arreda

elegantemente con carta da parati, mobili in

stile e un pianoforte a coda. Gli servirà come

luogo di riflessione e per ricevere ospiti illustri

come Thomas Edison.

Con il tempo l’interesse dei visitatori per la

Torre, che fin dall’inizio della sua costruzione

è molto criticata dai parigini, diminuisce tanto

che alla fine del contratto d’affitto con Eiffel,

quando diventa pieno possesso della città di

Parigi, si ripropone l’idea di smantellarla. Si

salverà solo per quei locali situati nella parte

più alta dedicati a scopi scientifici (stazione me-

teorologica nel 1889, antenna telegrafica nel

1903, laboratorio di aerodinamica nel 1909)

divenuti con il tempo sempre più importanti.

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195 MAGGIO 2018

Il professor Philip Goodman conduce il

programma televisivo “Truffe Paranorma-

li”, ed ha consacrato la sua intera vita (come

il militante “cicapparo”) a smascherare le

attività dei sensitivi, degli indagatori del

paranormale ecc.

“Ghost Story” è naturalmente la narrazio-

ne del progressivo sfaldarsi delle certezze

dogmatiche di Goodman, attraverso l’esplo-

razione di tre casi rimasti “irrisolti” dal suo

predecessore, lo psicologo Charles Came-

ron.

Questo film è un piccolo gioiellino che si

rifà alla tradizione dell’horror psicologico

degli anni Settanta, percorso da un’irresi-

stibile venatura di umorismo “british” che

rende fascinosa la narrazione, in un equili-

brio perfetto tra spaventi da “jump scares”

e scene “à la Jodorowsky” (soprattutto nel

surreale e folle finale).

Goodman viene accusato dal suo stesso

mentore di rimuovere le informazioni del

mondo che non rientrano nella sua insul-

sa casistica, e il viaggio - del protagonista e

dello spettatore - è un lento scivolare verso

le regioni del sovrannaturale, dell’assurdo e

del mostruoso. Alcune massime affidate alla

bocca dei soggetti indagati offrono il centro

della speculazione “filosofica” del film di

Dyson e Nyman (autori anche dell’omo-

nima celebre piéce teatrale di enorme suc-

cesso in Inghilterra): “Il cervello vede solo

quello che vuole vedere”, “Vuoi ridurre il

mistero della vita a una questione di atomi

e molecole”.

I tre casi - Tony Matthews, il guardiano

notturno che esplora i sotterranei del ma-

nicomio, Simon Rifkind, il ragazzo chiuso

in casa e perseguitato dal demonio, e Mike

Priddle, il broker a cui si manifesta il pol-

tergeist del nascituro morto - vengono gesti-

ti dai registi con maestria davvero rara ed

escursioni nel cinema di Kubrick, Polanski

e Lynch. La costruzione della trama è oltre-

modo pregevole, strutturata com’è su sin-

cronie temporali sfalsate ma concatenate

in un convincente puzzle che rivelerà il suo

mistero nel sorprendente finale.

Il film è pieno di rimandi cabalistici (suf-

fragati da prologo nei filmati in “Super 8”

dell’infanzia tormentata di Goodman, col

padre ebreo ortodosso a fare da despota,

nel gioco perverso che porterà il povero

“Kojak” ad esplorare la galleria buia alla ri-

cerca dei dieci numeri ecc.), e si dispiega su

versanti affabulatori che procedono in dire-

zione verticale oltre che orizzontale, chiu-

dendo la cornice dell’opera entro il sigillo

pregevole dei due quadri iniziali e finali.

Spero vivamente che molti cinefili vinca-

no la pregiudiziale ritrosia nei confronti di

questi prodotti di genere e corrano in sala a

vedere questo piccolo capolavoro.

La Corte che conta sotto la pioggia

Una storia di fantasmi

“Contare” è un verbo

dai tanti significati. Il più

ricorrente, forse, è quello

di “enumerare”: 1, 2, 3, 4,

... Alcuni attenti cultori

dei Conti, dalla loro Corte toscana, hanno

indirizzato all’attuale inquilino di un Vec-

chio Palazzo che conta un allarme dopo aver

contato non 1, ma ben 2 incidenti stradali

che avevano danneggiato una statua posta

in mezzo a una rotonda alla fine di un via-

le periferico. La Corte dei Conti, potendo

scegliere fra tanti conteggi, non risulta si sia

interessata al tasso alcolemico di chi era alla

guida delle auto che avevano “birillato” la

povera statua, né ai giorni di prognosi che si

erano guadagnati, bensì (meritoriamente) a

quell’indifeso Uomo della pioggia che Folon

aveva donato a Firenze sedici anni fa. E dal

Palazzo che conta sembra ci si stia attrezzan-

do per rispondere: “Non conta, non rileva,

ciò che altri hanno speso per restaurare la

statua. Quel che conta è ciò che decidia-

mo noi: l’Uomo della pioggia lo rimettiamo

dov’era!”. Ma “contare” ha anche un altro si-

gnificato: quello di raccontare. In alcune for-

me dialettali, si trova: “...contami una storia,

contami una favola...”. E allora perché nel

Palazzo che conta a nessuno viene in men-

te che quella bella statua di quell’Uomo con

l’ombrello potrebbe esser collocata anche

all’ingresso del Centro, in un luogo certa-

mente al riparo dal traffico automobilistico,

magari sul Lungarno? Se, poi, la scelta, ca-

desse su uno degli accessi al Ponte Vespuc-

ci, chi sa che almeno ai contemporanei non

potesse essere offerta la possibilità (anche

solo per un attimo) di dare un senso alle im-

barazzate manifestazioni di solidarietà verso

la Comunità Senegalese, ferita per mano di

un fiorentino, che in un attimo di follia (?),

aveva deciso che né Firenze né questo mon-

do avrebbe avuto niente più da dividere con

un Uomo buono che vendeva ombrelli, era

simpatico a tutti quelli che lo conoscevano

ed aveva una vita di affetti. O voi che conta-

te, non rinunciate a raccontare!

di Francesco Cusa

I pensieri di Capino

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205 MAGGIO 2018

“Come è possibile che Hitler abbia invaso

la Russia senza tener conto dei precedenti

storici ovvero di quanto era successo a Na-

poleone?” - Domanda il giornalista.

“Infatti, la storia non insegna nulla” - Ri-

sponde lo storico.

“E allora noi qui che ci stiamo a fare...?” -

Protesta il giornalista.

“La storia è importante perché – replica

prontamente lo storico - la sua conoscenza

aiuta ad aprire la mente... e poi è affascinan-

te”.

Grosso modo è andata così: siamo a “Pas-

sato e presente”, trasmissione condotta da

Paolo Mieli stavolta dedicata alla battaglia

di Stalingrado, in cui assieme (come di rito)

ai tre giovani storici è tornato ospite il pro-

fessor Alessandro Barbero.

Barbero qui più che mai non è luminare ma

luminoso: perché è brillante, vola leggiadro

sui fatti, si aiuta nell’esposizione con una

vistosa, scenografica agitazione delle mani

e discorre con gioia.

Siamo lontani dai moduli espressivi dei cat-

tedratici, i quali parlano in modo studiato,

sorridono di rado, non gesticolano e talora

sembrano esigere la conferma del riconosci-

mento della loro specialissima competenza.

Insomma, Barbero non è un trombone, il

che non toglie che voglia e sappia affermare

con sicurezza ciò che ritiene di affermare,

né tantomeno che possa essere uno studioso

esigente, per nulla accomodante.

Lo storico è di vaglia: a parte la caterva di

libri che ha pubblicato e che qui non giova

enumerare, tratta con disinvoltura epoche,

fatti e personaggi i più svariati, dall’antichi-

tà al secondo conflitto mondiale, passando

per il Medioevo di cui è riconosciuto spe-

cialista (è appunto un ‘medievista’), con la

stessa competenza e l’inalterata capacità di

stabilire nessi, analogie, di ricavare ‘lezio-

ni’, di fornire ipotesi interpretative anche

nuove, originali. Traspare il valore del per-

sonaggio anche dalla qualità di certe sintesi

ultime, posto che non si danno mai sintesi

valide che non siano precedute da analisi

rigorose.

Con Barbero è entrata aria fresca nel mon-

do della storiografia, tanto fresca da susci-

tare un Gruppo di fan su Facebook che si

chiama “Le invasioni barberiche”, quasi a

significare la sua esuberanza televisiva. La

novità in effetti non può essere che la sua

persona, con la naturale, inedita forma co-

municativa che suscita curiosità, ferma l’at-

tenzione, diverte. La storia non è più per

soli addetti ai lavori ma si fa materia ‘calda’,

attuale, appassionante, per essere ascoltata

e metabolizzata dal grande pubblico.

La storia non mette al riparo gli uomini dal

ripetere gli errori del passato, ce lo insegna...

la storia stessa. Ma renderla così prossima e

commestibile al quisque de populo, toglier-

le la patina di polvere che spesso le si è ap-

piccata addosso, è un invito ad assumerla

come argomento di conversazione, oggetto

ricorrente di lettura e di dibattito, chiave di

interpretazione del tempo presente. Dio sa

quanto ve n’è bisogno.

La storia si presta a diventare con Barbero

‘a long tale’ che irrompe davanti a noi con

l’entusiasmo e la sagacia del personaggio e

si fa in un certo senso epos, termine greco

che rinvia al concetto di parola e di narra-

zione di gesta epiche e che nella fattispecie

va deprivato dell’elemento mitico o leggen-

dario: insomma, una ‘Barbereide’ (neologi-

smo che conio hic et nunc con simpatia e

ammirazione), una favola a volte drammati-

ca e perfino tragica, in cui è tutto (nei limiti

della ricerca storica) maledettamente vero.

Barbereide!

di Paolo Marini

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215 MAGGIO 2018

Sì, lo so, ho scritto varie volte su statuette

Lenci, ma al Museo della Ceramica di Fa-

enza, è in corso una mostra di 150 opere di

questa manifattura, tutte degli anni d’oro

1927/’37, provenienti da una collezione

privata. Ferrero si chiamano i due proprie-

tari di queste meraviglie, niente a che fare

con la Nutella. L’ho visitata, è molto bella.

Omaggerò le artiste, prima di tutto Helen

König Scavini, detta dal padre Elenchen,

lei, piccola, diceva Lenci. Su questo no-

mignolo Ojetti coniò il famoso detto “Lu-

dus Est Nobis Constanter Industria”il cui

acronimo ha dato nome e motto alla Ma-

nifattura, prima di bambole e poi anche di

ceramiche. Vita difficile quella di Helen,

precocemente orfana, impegnata fin da

piccola a dare una mano, racconta nella sua

autobiografia “la mia bambola è quella che

avevo sempre sognato e pensato nel cuore,

nel grande dolore per avere perso la mia

bambina...” E sarà per questo imprinting

di tristezza che i volti delle sua bambole

erano sempre imbronciati e con lo sguardo

in tralice. Una grande vetrina è dedicata

alle sue Signorine di ceramica, provocanti

e provocatorie, libere ed emancipate. Esse

riflettono un pò la sua vita, ragazzina girò

l’Europa facendo i più vari lavori, frequentò

la Scuola d’Arte a Düsseldorf, conobbe arti-

sti e ceramisti, rientrata a Torino, dove era

nata, sposò Enrico Scavini, con lui fondò,

nel 1919, la fabbrica di bambole, giocattoli

ed arredamenti per bambini ed inventò il

famoso “pannolenci”. Torniamo alla mo-

stra. Organizzata per temi ed autori espone

opere dei pricipali artisti che collaborarono

con Lenci, tutte bellissime e alcune non

molto note. Si inzia con un gruppo, dalla

difficile realizzazione in quanto composto

da parti assemblate, “Il trionfo di Bacco”,

di Giovanni Grande, presente poi con altre

creature di varia ispirazione, sacra, artisti-

ca, come Susanna e i vecchioni, letteraria.

Notevoli e dal simpatico sentore ironico,

due Don Chichotte che indossano giubbe

a righe e siedono su drappi dalle geometrie

deco, appoggiati su dorsi di restii cavalli.

Di Ines Grande, sua moglie, ammirariamo

composizioni ispirate alla vita contadina e

familiare, quadretti pacificati che, in piena

corrispondenza con la propaganda di regi-

me, idealizzano la dura vita dei campi ed

esaltano l’epopea familare come ” la fami-

glia all’Angelus” e “l’affilatura della falce”;

riescono, oltre la retorica del tempo, a sug-

gerire atmosfere dalla calda affettività. Una

Ceramiche Lenci al Museo di Faenza

di Cristina Pucci

sezione espone un ricco bestiario, animali

perfetti, anche se alterati nelle proporzio-

ni, suggestivi della propria essenza anche

quando hanno molti elementi fantastici,

sempre decorativi grazie a colori brillanti

e lucentezza, anche quando sono ripresi in

momenti di caccia cruenta o intenti a ferali

pasti. Ragguardevole un gallo chinato a bec-

care, cresta e bargigli rossi dominano il bei-

ge punteggiato di bianco delle ali ed il bian-

co con grandi pallini neri del corpo e della

coda, Sandro Vacchetti. Felice Tosalli ci

mostra una lontra che gioca con un pesce e

un ermellino che mangia un gufo. Un alba-

tros a terra è della sua allieva S.A.R. Bona di

Sancipriano di Baviera e di Savoia. Claudia

Formica è rappresentata da alcune delicate

fatine dei boschi risalenti al breve periodo in

cui ha collaborato con Lenci; unica donna

ad avere scolpito un Monumento ai Caduti

in epoca fascista, ha sfornato una ampia ed

eclettica serie di sculture di tutte le dimen-

sioni e dei più vari materiali, monumenti

pubblici e celebrativi. Una intera sezione

raccoglie manufatti ispirati agli amori e agli

innamorati, una agli oggetti d’arte più che

di uso: un Orco-bottiglia, ciotole traversate

da un fila di mossi ed estetici ballerini.

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225 MAGGIO 2018

Il portico che vediamo oggi fu fatto assembla-

re nel 1580 dai Padri Agostiniani, detti “Sco-

petini”, provenienti da S.Donato a Scopeto.

A seguito della demolizione della loro chiesa

a scopi strategici per difendersi dall’assedio

delle truppe imperiali (1529), questi

Padri recuperarono i rocchi di mar-

mo delle colonne, i capitelli e quanto

poterono, per ricostruire il portico ro-

manico di Scopeto davanti alla Chiesa

di S.Jacopo sopr’Arno dove essi anda-

vano nuovamente ad installarsi. Le la-

pidi che vediamo nel sottoportico sono

da riferirsi, in parte, a un arco di tempo

precedente all’ultima ricostruzione

di questa chiesa avvenuta nel 1709 e,

in parte, comprendono anche epigrafi

più recenti provenienti dall’edificio

settecentesco: cioè complessivamente

dal XIV al XIX sec. Citerò, dopo una

breve descrizione di ogni lapide, il nu-

mero della scheda cartacea di Inventa-

rio della Sovrintendenza quando tale

scheda esista. PARETE SINISTRA

DEL PORTICO partendo dal basso:

(1) Chiusino tombale circolare. Mar-

mo bianco inciso. XVII-XVIII sec. Al

centro stemma familiare bipartito: nel cam-

po superiore tre stelle e nella metà inferiore

lo spazio per lo ‘smalto’ del blasone. [scheda

n.13]. (2) Lastra di marmo bianco scolpito

con al centro uno stemma bipartito, a scu-

do e diviso per diagonale in due campi. XV

sec. [n.12]. (3) Stemma di marmo, bicromo.

Famiglia Capponi. XVIII sec. [n.11]. (4)

Lastra di pietra scolpita. All’interno stemma

a scudo, bipartito. Famiglia Capponi. XIX

sec. [n.10]. SUL PAVIMENTO parten-

do da sinistra: (5) Lastra tombale in marmo

bianco inciso. Nella scritta dedicatoria due

nomi: “Cassandra Catharina e Ferdinandus

Passerinius”. Data leggibile, ma non visi-

bile [nessuna scheda]. (6) Lastra di marmo

bianco. All’interno uno stemma a scudo in

marmi bicromi. Illeggibile [nessuna scheda].

(7) Grande lastra tombale in marmo bianco

inciso. Al centro lo stemma dell’Ordine dei

Cavalieri di S.Stefano, a destra e a sinistra

è ripetuto lo stemma dei Conti Zefferini.

Dedicata al Conte Agostino Zefferini da

Cortona, a.1706. [n.14]. Sul pavimento e

adiacente la parete di facciata: (8) Lastra di

marmo bianco, tagliata. Inciso il nome del

defunto della famiglia Ridolfi. XIV sec. [nes-

suna scheda]. (9) Lastra di marmo bianco, ta-

gliata. Illeggibile l’incisione; a.1326. [n.17].

AL CENTRO, SOPRA L’ARCHITRAVE

S.Jacopo sopr’ArnoLe lapidi del portico

di M.Cristina François

DEL PORTONE, partendo da sinistra: (10)

Lapide in marmo bianco, iscritta: ricorda che

nel 1580 gli Agostiniani di S.Donato a Sco-

peto si trasferirono in S.Jacopo sopr’Arno e

fecero ricostruire qui il portico romanico del-

la loro chiesa di Scopeto, distrutta per difen-

dersi dall’assedio di Firenze del 1529. [n.28].

(11) Stemma scolpito in marmo bianco e

porfido dell’Arcivescovo Alessandro de’ Me-

dici. Databile al 1580. [n.29]. (12) Lapide in

marmo bianco inciso: ricorda che nel 1575 il

Priore di S.Jacopo - Piero de’ Medici - lasciò

la chiesa agli Agostiniani Scopetini (citati so-

pra) dietro istanza del Granduca Francesco.

Databile 1580. [n.30]. SUL PAVIMENTO

DALLA PARTE DESTRA: (13) Chiusino

circolare in marmo bianco con inciso uno

stemma a scudo illeggibile. XVI sec. [nessu-

na scheda]. (14) Lastra tombale in marmo

bianco inciso con al centro uno stemma fa-

miliare in marmo serpentino di Prato, non

decifrabile. Nel cartiglio: “de morte ad vi-

tam”. XVIII sec. La lastra è spezzata. [n.16].

(15) Chiusino rettangolare in marmo bianco,

all’interno è di forma ovale. Incisa la scritta

“ab Incarnatione MDLXXX”. Il marmo è

spezzato [n.18]. (16) Chiusino di marmo

bianco circolare, inscritto in una lastra di

pietra rettangolare. Al centro del chiusino

uno stemma familiare a forma di scudo con

al centro un leone non ben leggibile.

XVI sec. [n.19]. (17) Adiacente alla

parete di facciata, lato destro: lapide

in marmo bianco interamente incisa.

Poco leggibile, ma il testo esiste trascrit-

to dal Richa (in “Notizie Historiche

delle Chiese Fiorentine”, 1762). Vi si

raccontano i vari trasferimenti di sede

dei PP. Scopetini dal 1352 al 1575

quando vennero in S.Jacopo sopr’Ar-

no. La lapide è databile al 1580 [n.17].

(18) Lapide in marmo bianco iscritta:

il Priore della Missione Sac. Giusep-

pe Tosi la dedica alla defunta sorella

Maria l’a.1831 [n.20]. (19) Lastra tom-

bale in marmo bianco venato grigio:

defunto Priore Giuseppe Tosi, a.1842

[n.21]. (20) Chiusino circolare in mar-

mo bianco inciso e inserito in una la-

stra quadrata di pietra. Al centro del

marmo uno stemma ‘a testa di cavallo’,

interzato in banda con una stella in alto a de-

stra. XVI sec. [n.22]. (21) Lapide in marmo

bianco iscritta e datata 1736. La defunta è

Maddalena Giovanna Moldetti [n.23: que-

sta scheda erroneamente riferisce la lapide

a Domenico Moldetti che, invece, la dedica

alla moglie morta]. SULLA PARETE A

DESTRA DEL PORTICO: (22) Chiusino

circolare in marmo bianco con piatta banda

iscritta: defunti Ser Antonio di Ser Battista

e suoi. Al centro stemma familiare a forma

di scudo in marmi commessi. XVI-XVII sec.

[n.27]. (23) Lapide in marmo bianco, sago-

mata e iscritta, che ricorda come il Cav. Gae-

tano Antinori figlio di Amerigo, fece apporre

nell’a.1743 lo stemma familiare che sta sopra

questo marmo [n.26]. (24) Stemma Antinori

in marmo bianco, a forma di scudo, inscritto

in una cartella marmorea rettangolare. XIV

sec. [n.25]. (25) Lastra rettangolare in mar-

mo bianco decorata con una croce fitomorfa

al cui centro sta un’Ostia con Agnus Dei.

Forse proviene dalla Compagnia del SS.mo

Sacramento di S.Jacopo sopr’Arno. Termine

post quem 1575 [n.24]. Nel prossimo n°262

di “Cultura Commestibile” vedremo come i

fusti delle colonne in serpentino del portico e

alcuni capitelli all’interno di S.Jacopo si rap-

portino morfologicamente a reperti lapidei

presenti nel complesso di S.Felicita.

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235 MAGGIO 2018

“La questione perché c’è qualcosa e non

il nulla è priva di senso dal momento che

qualsiasi risposta tornerà alla stessa doman-

da”. ”Di ciò di cui non si può parlare, si deve

tacere”. Questi alcuni dei celebri aforismi di

Ludwig Wittgenstein, una delle più brillan-

ti menti del xx secolo e del neopositivismo

logico, il punto più alto e forse conclusivo

della razionalità positivistica del pensiero

occidentale, che divideva la logica per com-

prendere il mondo attraverso la filosofia cor-

retta del linguaggio, da ogni forma di ricerca

di senso o di spiegazione metafisica che di

per sé è indicibile perché non sorretta da un

linguaggio logico corretto. Il che non signifi-

cava che non avesse realtà la ricerca del senso

e del fine ultimo delle cose, ma questo aveva

a che fare appunto con l’indicibile, il non co-

municabile (una sorta di noumeno kantiano),

non soggetto a comunicazione logica, anzi a

comunicazione tout court in quanto appunto

indicibile. La realtà del mondo risulta divisa

fra dicibiltà e misurabilità delle cose e il sen-

so stesso delle cose, la loro sostanza.

Al contrario, come abbiamo visto, la fisica

quantistica fa assumere alla ricerca scientifi-

ca una torsione diversa legando anche l’esi-

stente alla forma che lo indaga e comprende:

Heisenberg:” la coscienza umana è intercon-

nessa con tutte le strutture dell’esistente” o

addirittura con Theilard de Chardin “Nella

sua realtà fisica l’universo non può dividere

sé stesso. L’unità vera è indivisibile”. “la fisi-

ca sperimenta che le particelle sembrano leg-

gere il pensiero dell’osservatore”. Si tratta di

interpretazioni forzate ed estreme? Intanto

sono formulate all’ interno del mondo scienti-

fico, e non speculazioni esterne, e teorizzano

una sostanziale unità più o meno manifesta

nell’universo tra le cose che lo compongono

compreso noi che le osserviamo e le spie-

ghiamo. Se non ce n’è abbastanza per dire

superato il neopositivismo, possiamo tuttavia

dire che sembra che ci sia meno distanza fra

l’essenza delle cose (qualunque cosa questo

significhi) e il suo manifestarsi misurabile e

descrivibile, mi sembra che rappresenti bene

la situazione. E di cosa è fatta questa intelaia-

tura interconnessa?

E’ l’informazione la connessione unitaria

dell’universo ha teorizzato John Wheleer,

grande fisico americano, concentrata su se

stessa al tempo di Plank (un miliardesimo di

miliardesimo di secondo dopo il bigbang) di-

spiegata e dipanata nello spazio-tempo dopo

il big bang ma conservata secondo appunto

la legge di conservazione dell’informazione.

Di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere?

di Gianni Bechelli

Noi siamo in primo luogo un codice informa-

tivo fisico e biologico sviluppatosi nelle varie

fasi evolutive tutte conservate nel cervello

certo ma anche nelle fisica stessa delle nostre

componenti. Ma lo stesso sembra ripetersi

nel sistema delle particelle, dopoché la stessa

attrazione gravitazionale presuppone degli

scambi informativi tra le masse del campo

interessate. Ecco è nello scambio informativo

che sembra stare l’essenza stessa della vitalità

universale. Troppo “ concettuale”? Badate

bene che questo ci appare più comprensibile

più facilmente nel rapporto interpersonale

tra esseri coscienti, dotati di sensibilità e ca-

pacità di apprendimento, fin dalla nascita

possediamo informazioni , una struttura per

recepirle, e sentiamo di crescere con esse e di

connetterci sempre più con sistema esterno/

interno. Ma anche le cose? Appare fantasio-

so, e tuttavia abbiamo già conosciuto l’espe-

rienza dell’entaglement tra due particelle

che lontanissime vivono in sincronia oltre il

tempo e lo spazio, informate almeno su alcu-

ne esperienze trasmesse come informazione

che producono effetti di comportamento.

In altre parti ho raccontato dell’esperienza

della doppia fenditura che presuppone che,

ad esempio, due fotoni che la attraversano

siano come informati sui reciproci percorsi,

o che, al netto degli effetti dello strumento

di rilevazione, è come se il fotone” sapesse”

o meno di essere osservato tramite qualcosa

che lo informa. Un giorno forse si troveranno

spiegazioni più tradizionali, ma oggi il tema

anche se con prudenza va considerato con

occhi nuovi, e così sta facendo la scienza non

solo fisica ma anche biologica e neurologica.

Soprattutto mi sembra che si attenui quella

caratteristica del pensiero che ragionava sul-

le cose, sugli oggetti. Oggi è determinante la

loro relazione, ed nella relazione informativa

che sta la “sostanza” delle cose.

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245 MAGGIO 2018

Ritorna il fantasma di Sapia Salvani, incon-

trato sui banchi di scuola leggendo il XIII

del dantesco Purgatorio mentre nel giugno

1269, ebbra di gioia, esultava per la sconfitta

che stava subendo l’esercito comandato dal

nipote Provenzano: una rotta rovinosa che

pose fine ai sogni di egemonia ghibellina in

Toscana dell’altezzoso, e generoso, leader

senese. Finì lui stesso – si ricorderà – lette-

ralmente impiccato: la sua testa, infilata su

una picca, fu esibita come lugubre trofeo

lungo il piano di San Marziale, che si ritiene

luogo effettivo del durissimo scontro. Al Mu-

seo San Pietro di Colle di Val d’Elsa resterà

aperta fino al 28 ottobre una piccola mostra

dedicata alla nobildonna sotto il titolo del

suo ultraterreno esordio: Savia non fui. Un

museo deve offrirsi al visitatore come un li-

bro da sfogliare con attenzione curiosa. E

mostre mirate e penetranti come questa fun-

gono perfettamente allo scopo, collegando

il patrimonio permanente con il paesaggio

storico che ne partecipa e vi si riflette. Un

museo diventa così un corpo che respira, un

centro di produzione culturale, uno stimolo

a capire di più e meglio quanto spesso è tra-

mandato con inerte boria. Oltretutto si tratta

di un museo atipico, che vanta le collezioni

di Romano Bilenchi e di Walter Fusi, riuni-

sce Museo Diocesano e Museo Civico e, in

quanto ex Conservatorio San Pietro, è stret-

tamente connesso con presenze che fanno

di Colle alta un eccezionale spazio urbano,

snobbato forse per la sua rustica eleganza,

ancora non compromessa dal rapace turismo

di massa. Un bell’esempio di contiguità fe-

lice tra storicità e contemporaneità. La pro-

spettiva del 750° anniversario della battaglia

di Colle suggerisce riflessioni che è augura-

bile riescano a sottrarsi ad una cerimoniosità

tutta rituale e infarcita di solenne retorica.

La rivisitazione della storia patria non è, se

ben condotta, erudizione fine a se stessa: ci

sovviene nel riascoltare il senso, il battito di

un passato imminente. «Fu la sconfitta della

cavalleria pesante di fronte alle umili, ma più

efficaci, armi della popolazione»: questo è lo

schema interpretativo ribadito dall’assessora

alla cultura Anna Maria Cotoloni nella pagi-

na introduttiva al catalogo.

Ma veniamo a Sapia. Anche per lei vale l’in-

dicazione di Erich Auerbach circa l’interpre-

tazione figurale che di personaggi e avveni-

menti compone Dante.

«Si può essere certi – avvertì il grande critico

in un memorabile saggio del 1938 – che ogni

personaggio storico o mitologico che appare

nel poeta deve significare qualche cosa che

ha uno stretto rapporto con ciò che Dante

sapeva della sua esistenza storica o mitica, e

precisamente il rapporto di adempimento o

di Roberto Barzanti

Sapia ritorna

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255 MAGGIO 2018

per assegnargli soltanto un valore allegori-

co-concettuale».

Beatrice è incarnazione e profezia, contin-

genza événementielle e verità – Verità, ani-

ma – oltre il tempo. Questa stessa chiave si

deve usare per Sapia, figura dell’Invidia, in

tarda età ravveduta e mossa da caritatevo-

le zelo, sarcastica e pietosa, feroce e devota.

Non una fissa icona, ma una doppia masche-

ra: femmina ghignante e soddisfatta della

sconfitta dei concittadini e simultaneamente

fondatrice (nel 1265) di un provvidenziale

ospizio «iuxta stratam francigenam prope

Castiglionem positum», accanto quindi alla

sua residenza di esule. Quale era il torto subi-

to che la induceva a odiare con tanta sprege-

vole furia i ghibellini in rotta? Come si sa, re-

cente è l’identificazione della donna con una

Salvani. Ebbene: l’aggressione dei fuorusciti

guelfi di Siena e Firenze alla riconquista, sot-

to la guida di Provenzano, dei castelli di Ra-

dicondoli, Belforte, Monteguidi, che erano

nelle mani di Ghinibaldo nominato podestà

di Colle, può spiegare qualcosa, o tutto. E poi

se il marito era morto nel 1268, proprio du-

rante le crudeli scorribande senesi pel conta-

do colligiano, tutt’altro che incomprensibile

è l’esultanza di lei allorché l’esercito della

patria abbandonata fu clamorosamente bat-

tuto e accentuò la sua solitudine di vedova.

La tragedia di Colle è teatralizzata da Dante

intersecando più piani. Dante si rifà ad una

«trama di temi popolareschi», evoca la «fe-

rocia dei rancori politici» (Sapegno). All’in-

vidia insorta per motivi privati si aggiunge e

prevale un’invidia sociale, o civica, o comuni-

taria che dir si voglia. Ed è questo il tasto sul

quale più preme Dante. Il tema della cittadi-

nanza è sottolineato fin dalle prime battute

dell’incontro lungo la grigia cornice contro la

quale son quasi mimetizzati e indistinguibili

i penitenti: «O frate mio, ciascuna è cittadi-

na/d’una vera città…». Nel qualificarsi la zia

di Provenzano ha accenti di non dismesso

orgoglio civico: «Io fui Sanese…». E non è un

caso che il sipario cali quando ella pronuncia

– condivise da Dante – parole di sprezzante

condanna verso i progetti di smisurata gran-

deur destinati a naufragare: «E cheggioti, per

quel che tu più brami,/ se mai calchi la terra

di Toscana,/ che a’ miei propinqui tu ben mi

rinfami./ Tu li vedrai tra quella gente vana/

che spera in Talamone, e perderagli/ più di

speranza ch’a trovar la Diana; / ma più vi

perderanno li ammiragli». «Gente vana» è

un’etichetta che Dante aveva già attribuito ai

senesi, facendoli campioni di una non reali-

stica scalata al potere vogliosa di un dominio

illusorio, fuori portata. A costo di inserire

divagazioni grossolanamente anacronistiche,

mi vien fatto di paragonare questi ammiragli

ai manager che ai giorni nostri hanno inse-

guito manovre finanziarie non meno azzar-

date di quei lontani faccendieri. Quando si

dice la lunga durata! Sarà pur vero che im-

prigionare in identità immutabili il destino di

una città è operazione inaccettabile, eppure

la Vanitas irrisa dal poeta ha ammorbato e si

direbbe ancora ammorbi l’aria. Sicché non

è errato evidenziare i tratti etico-politici cui

Dante fa ricorso nel tratteggiare la crisi della

civiltà comunale al suo nascere: «L’invidia –

ha osservato Elena Pulcini – emerge come

il fattore per eccellenza di sgretolamento e

dissoluzione, in quanto alimenta quel clima

di reciproca diffidenza che sfocia nel prolife-

rare di lotte e conflitti tra individui e fazioni,

e mina alla radici ogni sentimento di solida-

rietà ». «Ragguardando – detterà Santa Ca-

terina (L. 349) – la umiltà di Dio, ha mozzo

le corna della superbia e con la sua giustizia

s’è levato dalla ingiustizia, e con la carità del

prossimo suo ha conculcata la invidia, dilar-

gando il cuore nell’affetto della carità». Non

pare un commento agli Effetti del Cattivo

Governo squadernati in Palazzo Pubblico

da Ambrogio Lorenzetti? La «città divisa» è

nemica della concordia, è il risultato di una

catena di offese e rivalse che distruggono

senza tregua. «Dall’invidia nascono l’odio e il

rancore, la calunnia e la diffamazione» (G.P.

Evans).

«Savia non fui, avvegna che Sapìa/ fossi

chiamata, e fui de li altrui danni/ più lie-

ta assai che di ventura mia»: il pentimento

autocritico è netto. A bilanciare tanto rin-

novellato dolore ecco citare con gratitudine

Pier Pettinaio per le sue feconde preghiere:

un quadro mosso e vario di quella convulsa

rivoluzione comunale si amplia nell’affresco

scritto in versi. E la mostra di Colle – cura-

ta esemplarmente da Marilena Caciorgna e

Marcello Ciccuto – finisce per apparire un

contributo che esaudisce l’implorazione ad

esser rinfamata che Sapia aveva rivolto al fio-

rentino, intravisto appena dagli occhi cuciti,

impossibilitati a vedere per aver troppo guar-

dato con ostilità: invidia da in-video.

Tra le opere in mostra val la pena soffermarsi

sull’epica espressionistica dei vivaci dipinti

di Gino Terreni, e sul bozzetto per il bassori-

lievo di Fulvio Corsini, che Guido Chigi vol-

le in omaggio ad un’antenata che poi non era

affatto sua antenata. La donna, scarmigliata e

spersa, volge il mento in alto a cercar di sen-

tir vibrazioni e carpire rassicuranti promesse,

che confortino l’ansiosa speranza e allievino

la penosa attesa.

figura; ci si deve guardare dal togliere al per-

sonaggio tutta la sua esistenza storico-terrena

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Stanza di Hotel a New York

1982 Carlo Cantini a New York di Carlo Cantini