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www.madreterranews.it MENSILE DI INFORMAZIONE E CULTURA Anno III - N. 26 - FEBBRAIO 2012 PALMI & DINTORNI OMAGGIO COSI’ CAMBIA IL “PATER NOSTER” Grazie agli studi di un palmese di Filippo Marino Pag. 4

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MENSILE DI INFORMAZIONE E CULTURA

Anno III - N. 26 - FEBBRAIO 2012

PALMI & DINTORNI

OMAGGIO

COSI’ CAMBIA IL “PATER NOSTER”Grazie agli studi di un palmese

di Filippo Marino Pag. 4

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SOMMARIO 4 DIO E’ PADRE SEMPRE di Filippo Marino8 PPM UN’AZIENDA MULTISERVIZI ...SENZA PIU’ SERVIZI di Paolo Ventrice11 IL COLLA SSO DEL SISTEMA POLITICO ISTITUZIONALE... di Mario Idà13 IL SIGNOR CHI ED IL SIGNOR COSA di Eduardo della Rovere 14 NICOLA GRATTERI di Paolo Ventrice18 PERCHé IO CREDO IN COLUI CHE HA fATTO IL MONDO...

di Chiara Ortuso18 LA NECESSITA’ DI SCELTE CONSAPEVOLI di Mimmo Minasi19 L’INGANNO UNIVERSALE di Nella Cannata20 ADOZIONI A DISTANZA di Luigi Sorrenti21 LA fESTA DELLA SACRA fAMIGLIA di Carmela Gentile22 UN AMORE DI GIOVENTU’ -seconda parte- di Cassiopea24 fORA GABBU E fORA MERAVIGGHJA di Felice Badolati26 ROSARIO BELCARO di Natale Pace27 ECHI DEL CASO DE ZERBI A OPPIDO E PALMI di Rocco Liberti28 fORTUNATO SACCA’ di Giuseppe Cricrì30 VINCENZO COSENTINO di Francesco Lovecchio32 LA STORIA SI RIPETE? di Walter Cricrì34 INNOCENTISTI O COLPEVOLISTI? di Daniela Agresta35 I BAMBINI E IL MALESSERE CRONICO: COLPA DEI GENITORI?

di Rocco Cadile36 NEL MONDO CANINO SI COLLABORA di Domenico Schipilliti37 MOUNTAIN BIKE ALL’OMBRA DELLA TORRE SARACENA di Walter Cricrì38 JOAN BAEZ - DIAMOND AND RUST - di Daniele Gagliardo39 PLATINUM - JOHN “JR” ROBINSON di Cristoforo Bovi39 MINA CANTA CILEA di Nunzio Lacquaniti

MADRETERRA Palmi & Dintorni

REGISTRAZIONE AL TRIB. DI PALMI Nr. 1 / 2010

Anno III-Numero 26 - Febbraio 2012 Direttore respons.: Francesco MassaraCoordinatore: Paolo Ventrice

Collaboratori di REDAZIONE di questo numero.

Saverio Petitto Walter CricrìCettina Angì Salvatore De FranciaNella Cannata Giuseppe Cricrì

Hanno collaborato per questo numero anche: Bruno Vadalà, Achille Cofano.

Editore: Associazione Culturale MadreterrraSede Palmi-Via ss.18 km 485.30P.I. 02604200804Cod. Fisc. 91016680802Mobile-Paolo Ventrice 335 6996255e-mail: [email protected]

Progetto Grafico: Saverio Petitto-Walter Cricrì-Paolo VentriceImpaginazione grafica: Paolo Ventrice Progetto e cura sito web:S. De Francia-D. Galletta Stampa: AGM Calabria-Via Timpone Schifariello Zona P.I.P. II Traversa-87012 Castrovillari (Cs)

E’ stato inaugurato in data 31 gennaio, alla presenza di auto-rità civili e religiose, il nuovo anno accademico presso il Polo

didattico remoto di Palmi della Unicusano (Università Telematica “Niccolò Cusano” di Roma).

Sono 650 gli studenti che mensilmente si recano a Palmi per svolgere gli esami presso la sede ubicata in via Antonio Altomonte 32. Provenienti da 27 province sparse su tutto il territorio ita-liano, coinvolgendo circa una decina di Regioni da Nord a Sud, testimoniano l’importanza conquistata negli anni dal Polo diretto dal dottore Vincenzo Carbone. Un risultato alquanto prestigioso che posiziona la cittadina tirrenica al centro di un vero e proprio polo culturale universitario.

Partita in sordina, oggi la sede remota di Palmi vanta pertanto diverse centinaia di iscritti con un trend sempre in continua cre-scita. Ma la realtà palmese non è solo questo: anche gli altri dati del Polo universitario dell’Unicusano, infatti, evidenziano numeri di tutto rispetto. Tra i recenti, spicca il raggiungimento, alcuni mesi fa, dello storico traguardo del centesimo laureato che ha discusso la Tesi, come da tradizione, presso la sede centrale di Roma. Oggi la cifra è stata ampiamente messa alle spalle e le discussioni che coinvolgono studenti iscritti presso il Polo di Palmi si susseguono ad ogni sessione di Laurea.

Sempre in continua evoluzione e adatta alle più varie esigenze di studio degli iscritti per favorire la conciliazione con lavoro ed altri impegni, è l’offerta formativa dell’università con conta 4 facoltà attivate: Giurisprudenza, Economia, Scienze della forma-zione e Scienze politiche.

I Titoli accademici rilasciati dall’Unicusano sono riconosciuti ed equipollenti a quelli delle università pubbliche. Lo studente può tranquillamente seguire le lezioni e scaricare il materiale didattico in qualsiasi momento. Le iscrizioni sono aperte tutto l’anno e a disposizione degli studenti ci sono ben 9 appelli con date prefissate con largo anticipo ed esami in loco. Per venire incontro ad eventuali difficoltà sono a disposizione anche dei Tu-tor personalizzati. L’importo della retta è contenuto e le stesse sono detraibili dalle tasse. Infine, l’Università al momento dell’i-scrizione riconosce i crediti per attività lavorativa e/o per esami sostenuti in altri atenei anche se si tratta di studenti decaduti o rinunciatari.

Anche le Istituzioni locali si sono accorte di questa importante realtà che inserisce Palmi in un panorama di conoscenza nazio-nale, ed hanno deciso di venire incontro alle sempre crescenti esigenze del Polo di Palmi, dettate dal numero in aumento degli iscritti e alla crescente offerta formativa, rendendo disponibile nelle giornate in cui si svolgono gli esami, un parcheggio adiacen-te la sede universitaria che conta circa 200 posti auto.

Dottore Vincenzo CarboneDirettore Polo didattico Palmi – Reggio Calabria

PALMI CITTA’ UNIVERSITARIA

UNICUSANO (UNIVERSITA’ TELEMATICA “N. CUSANO”)

INAUGURAZIONE DELL’ANNO ACCADEMICO AL POLO UNIVERSITARIO DI PALMI

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Lo stralcio appena letto, è parte integrante della De-

libera Nr. 116 del 22 dicembre 2011, con la quale, il Commis-sario Prefettizio del comune di Palmi, Dott.ssa Antonia Bellomo, da, ufficialmente, inizio ai lavo-ri di abbellimento di una rotonda che, da oltre sei anni, è solo un “disegno” fatto con le “costru-zioni Lego”. L’opera - questo, per avere un quadro completo - per il solo aspetto esteriore, verrà eseguita dall’Associazione PRO-METEUS ed i costi saranno tutti a carico dell’Associazione stessa, con una autotassazione dei pro-pri soci; tutto ciò che riguarda, invece, la parte tecnica è stata e sarà curata dagli uffici comunali preposti.

Ora, non so se sia giusto scri-vere quanto seguirà, ma tale è lo sconcerto che credo, al confronto con quanto sta succedendo, pos-sa avere un peso così leggero da apparire, forse, insignificante.

Di cosa parlo? Presto detto. Giorni fa, in seguito ad una sem-plice chiacchierata con altre per-sone, mi viene posta una doman-da, ma andiamo con ordine.

Viviamo certamente in un pa-ese tranquillo, grazie a Dio le occasioni per essere alla ribalta delle cronache (nere) non sono molte, anche se il nome “PALMI” in testa a numerosi articoli sui quotidiani, appare con moltissi-ma frequenza. Che dire, il nostro Palazzo di Giustizia è perno della legalità per tutta la piana (e qual-che volta anche oltre), per cui è facile leggere titoloni che si rife-riscono a “fatti di Palmi”, anche quando Palmi è semplicemente sede giudiziaria e null’altro.

Nell’ultima settimana, però (oggi è il 6 febbraio ndr) si è no-tata un’interessante attività gior-nalistica, imperniata su Palmi, anzi, più precisamente su una specie di “Rotonda” che occupa quella che ritengo sia una delle

di Paolo Ventrice

L’EDITORIALE

tre porte della città. Badate bene, l’ho chiamata

porta. Non è un caso.Una porta serve per “entrare

ed uscire”, da il benvenuto e l’ar-rivederci. E’ il biglietto da visita!

Certo, qualcuno potrebbe dire che è una porta secondaria, sono altre le entrate di Palmi (il Trodio prima di tutte), ma, soprattutto al Trodio, vi sono dei meccanismi e dei processi che hanno bisogno di tempi tecnici e verifiche parti-colari. Districarsi tra i meandri di tutte le situazioni che s’intreccia-no con il piazzale è davvero com-plicato, o, perlomeno, richiede tempi lunghi.

In ogni caso, tornando al tema giornalistico, si è verificato una sorta di dibattito a distanza (su tutti i quotidiani legati al territo-rio) sulla “Benedetta rotonda di PLASTICA”.

Ora io non ho né i termini tec-nici, né le conoscenze adeguate da contrapporre a qualsiasi tesi, ma registro ciò che accade intor-no a me.

Questo era proprio l’argomento di discussione nella chiacchierata fatidica. La rotonda di via Con-cordato e tutto ciò che la riguar-dava.

Epicentro del discorso era pro-prio il polverone innalzatosi al primo segnale che, di lì a poco, si sarebbe intervenuto per dare impronta degna di Palmi ad una bruttezza, ormai storica, che ha attanagliato le menti di tutti noi per… senti, senti, oltre sei anni!

I giornali si sono resi portavo-ce di studi tecnici, di motivazioni politiche, di pareri sulla viabili-tà, di smentite e indicazioni sul come “non fare” e via dicendo.

Accidenti! Un caso internazio-nale! Eppure, per sei anni si è sentita un’eco unica: “ma quan-du a fannu ddha rotonda o cimi-teru, ca cu ddhi biduni i plastica faci schifu?”.

Nessuno ha mai cercato, con convinzione, di modificare il modificabile. E non mi riferisco certo alla viabilità. Quella è ma-teria di chi ne ha competenza, a parte, il fatto che per sei anni, la viabilità dell’incrocio, nonostan-te qualcuno possa sostenere che sia migliorabile, ha funzionato sufficientemente bene. E’ quindi presumibile che la “rotonda pre-caria”, di oggi, possa sostenere tranquillamente, anche in futuro, il traffico, per cui, dov’è il “pec-cato originale” nel dare luce a qualcosa che è buio totale?

Il dramma si consuma, quando la voce di un bambino di 11 anni, stranito dai discorsi e dalle per-plessità emerse nel confronto, mi pone la domanda a cui accenna-vo all’inizio: “Ma perché ce l’han-no tanto con questa rotonda? E’ bruttissima e si sposta sempre quando piove e c’è vento e poi è sempre sporca. Perché non vo-gliono che si faccia come quelle che vediamo quando andiamo negli altri paesi?”.

Potrei risponderti in mille modi, caro figliolo, ma la verità è che non è vero che nessuno la vuole una rotonda vera, c’è solo qualcuno che non la vuole. Tutto, però, ha il sapore di una campagna politica… ma questo è un discorso che, magari, faremo quando sarai più grande.

SE VUOI RILEGARE TUTTI I NUMERI DI MADRETERRA IN UN ELEGGANTE VOLUME, O IN DUE ANNUARI, CHIEDI INfORMAZIONI, SCRIVI A

[email protected]

...L’Amministrazione ha inten-zione di favorire la partecipa-zione ed il coinvolgimento della società civile in tutte le forme, favorendo e sostenendo i pro-getti, gli interventi e le azioni promosse dai cittadini e dal-le Associazioni specie quando queste rappresentano occasio-ni per lo sviluppo dell’arte e la partecipazione dei giovani;

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di Giuseppe Cricrì

Potremmo definirla epoca-le!! Si tratta della sostan-

ziale modifica che dal prossi-mo mese di maggio, in tutto il mondo, vedrebbe cambiare la frase “Non c’indurre in tenta-zione” contenuta nella pre-ghiera delle preghiere, inse-gnataci direttamente da Gesù, il “Padre Nostro”, in “ Non ab-bandonarci alla tentazione”. Questa variazione è stata uffi-cialmente accolta dal Vaticano a seguito dello studio condotto dal palmese prof. Filippo Mari-no, filologo, mariologo, mem-bro della “Pontificia Accademia Mariana” che già anni addietro aveva sollevato la vexata qua-estio.

Tutto nasce il 26 agosto 1993 allorquando in una intervista rilasciata alla Gazzetta del Sud dal titolo “L’errore di un’o-missione nel Pater Noster”, successivamente ripresa dal Corriere della Sera e dal set-timanale Gente, il Prof. Marino parla di una felice intuizione ispirata dalla Madre Celeste, Sedes Sapientiae e di una con-seguente, laboriosa ricerca, compiuta da egli stesso presso l’Istituto Universitario di Lette-ratura Cristiana Antica di Bari. Egli infatti scopre che il testo della preghiera aveva risenti-to, sin dai secoli bui del medio-evo, della “svista” di un copi-sta amanuense che ha ignorato un “aliquis”, evidenziando con lo svarione, un senso contrad-dittorio e non corrispondente a verità della frase che attual-mente si recita.

Il «Pater Noster», spiegava Marino nell’intervista «non po-teva contenere errori quando è stato pronunciato dalla bocca del Salvatore, e neppure nelle prime stesure apostoliche...». Tutto ciò pone la premessa per un ragionamento che induce a chiederci: come può Dio, infini-tamente misericordioso, indur-re in tentazione? L’effetto di questo percorso intellettuale ha determinato l’ importantis-sima revisione che ha portato alla decisione già presa dalla CEI, tre anni or sono, per i testi biblici, mentre ora si attende la stessa decisione per i testi liturgici (messali, lezionari etc)

Madreterra si pregia di ac-cogliere questa importante notizia offrendo al Prof. Mari-no, già ospite delle sue pagi-ne, l’occasione per chiarire il suo pensiero. La Città di Palmi e tutta la gente calabra potrà sentirsi orgogliosa del fatto che proprio da questa terra, troppo spesso bistrattata, in-giuriata e martoriata, parta un significativo, emblematico segnale di cambiamento che, ritoccando il testo della pre-ghiera più cara ai cristiani, po-trà toccare la mente ed i cuori di tutti gli uomini e le donne della terra.

Dal prossimo mese Di maggio il cambiamento Del

“paDre nostro” in italia e nel monDo.

gli studi del palmese prof. Filippo marino hanno indotto la revisione

James J. Tissot, “The Lord’s Prayer” (1896)

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di Filippo Marino

Pater noster qui es in coe-lis”: quante volte l’abbiamo

sentito quand’eravamo bambi-ni quando labbra colte e devote profferivano in latino quella che il Santo Vescovo di Cartagine considera l’orazione per eccel-lenza perché insegnataci da Gesù stesso, la “Dominica Oratio” per l’appunto.

Con l’Ave Maria, la preghiera alla Mamma Celeste, e il Gloria Patri costituiva e costituisce la “trilo-gia” per eccellenza delle preghie-re che venivano insegnate al Cate-chismo parrocchiale e che erano e sono fonte di ogni catechesi.

La preghiera del Signore com-porta che il cuore sia toccato, che la mente venga illumina-ta, che la sollecitudine fraterna spinga a chiamare “Padre” Colui che è e che ci vuole sempre suoi figli. Un Padre “che è nei cieli” e che dimora quaggiù nella nostra interiorità, che si fa pensiero e azione perché la confidenza sin-cera di figli può grandi cose per effetto dello Spirito.

Quando intrapresi gli studi sul “Padre Nostro” non ero a digiuno di ciò che altri teologi, esegeti e liturgisti avevano compiuto prima di me. Ma la “consuetudo studio-rum” con Cipriano di Cartagine – oggetto della mia tesi di laurea – aveva prodotto in me una “ratio”, un “quid” d’inafferrabile e arca-no che era a portata di mano. Sì, il Dio dei Cristiani, il Giusto e Misericordioso per eccellenza, l’Ineffabile e il Tutto, il Piissimo e l’Eccellentissimo, il tre volte Santo e il Clementissimo, l’Alle-ato di sempre e l’Amorosissimo non poteva mai tentare l’uomo, non lo poteva mai precipitare ne-gli abissi del peccato, non poteva mai dannarlo all’inferno.

E noi vogliamo “santificato il suo Nome” perché coscienti che Egli è il Dio della retta via e del perdono, della fede che non muo-re e dell’infinita speranza, della carità che rivela le nostre miserie e pur ci indirizza “al premio che i desideri avanza” di manzoniana memoria.

Si faceva strada allora in me che il Padre Nostro si spiega con

DIO E’ PADRE SEMPRE

l’insegnamento della Chiesa e che la stessa Preghiera del Signo-re è sempre fonte di gioia e di consolazione.

A queste condizioni il suo Re-gno viene tra noi oggi e per tutto il tempo che sarà perché la pre-rogativa di Dio è di pace e non di afflizione, di gioia e non di me-stizia.

E la fiducia di figli attende il pane, ciò che di giorno in giorno è buono e ci consente di glorificare il Padre Celeste, al quale si eleva l’umana preghiera di “rimettere i nostri debiti” com’è doveroso che “noi li rimettiamo ai nostri debitori”. L’itinerarium mentis in Deum richiede la perfettibili-tà, anzi la perfezione in maniera progressiva e totale del concetto di fraternità che deve animare la nostra umanità pur fragile per il peccato dei progenitori.

Questo della fragilità della natura umana è un tema che ci tocca da vicino e in virtù del-la Grazia dello Spirito Santo noi possiamo superare la prova ed

essere interiormente liberi per-ché non c’è un terzo, un “aliquis” che ci porta nel baratro, ma la stessa nostra volontà corrobora-ta proprio dal discernimento e dalla prova matura la “decisione del cuore”(CCC 2848) della resipi-scenza e della conversione.

Dunque “NON ABBANDONARCI ALLA TENTAZIONE”, o Signore, non lasciarci soccombere ad essa ed alle sue vanità, perché solo Tu sei l’Eterna Sapienza, a cui si adegua la nostra volontà.

Del resto è lo stesso San Paolo, di cui abbiamo di recente cele-brato il bimillenario della nascita e che è tanto caro alla fede e alla devozione nelle due sponde dello Stretto, a confortarci: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fe-dele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze” (Co-rinzi I, 10-13).

La Sacra Scrittura si spiega con il Magistero della Chiesa: San Paolo, i Padri Apostolici, l’inse-gnamento perenne della Chiesa

ci esortano a chiedere al Padre di non permettere di entrare in tentazione.

Se il “Padre Nostro” è e si con-ferma dopo le recenti formula-zioni della CEI la “Preghiera per antonomasia”, è pur vero che dobbiamo ricorrere con fiducio-sa insistenza a Maria “Madre del Verbo e dell’Eterna Sapienza” a intercedere per noi presso il suo Divin Figlio perché la compren-sione e, più ancora, la pratica di ciò che noi chiediamo a Dio possa essere veicolo di grazie per noi stessi e per il nostro prossimo. La “preghiera per gli altri” è un buon antidoto per evitare sia l’a-ridità della fede che l’egoismo orante.

La tentazione, dunque, si evita nella preghiera perché “il com-battimento e la vittoria sono pos-sibili solo nella preghiera” (CCC 2849).

E la Madonna Santissima non è Madre di ogni consolazione ? E non è forse la “scorciatoia” che porta a Gesù ?

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STORES

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di Paolo Ventrice

Due chiacchiere col Presiente della PPM, Ettore Saffioti,

erano d’obbligo per capire cosa succede attorno all’azienda più importante della città di Palmi, l’unica attrezzata per l’espleta-mento di alcuni servizi cittadini fondamentali.

Un giro per la struttura, tan-to per prendere confidenza con gli interni, tutto realizzato solo a spese della PPM, e ci rendia-mo subito conto di trovarci in un posto che esalta, nonostante sia ancora incompleto, l’impegno di dirigenti ed operatori. Il confort creato, ad uso e consumo tota-le dell’utenza, ha dell’incredibi-le. E’ difficile entrare in struttu-re non private e notare una cura attenta nei dettagli e nel conte-sto globale (almeno al sud).

Comodi posti a sedere, una bi-glietteria arredata -gratuitamente, grazie agli arredi dell’ex COMIT-, una rivendita tabacchi in allesti-mento e una ristorazione, con po-sti a sedere, pronta ma in attesa di documentazione definitiva.

Complimenti!Avvocato, la PPM di Etto-

re Saffioti da dove comincia e cos’è oggi?

“La fase che oggi stiamo viven-do ha origini nel 2008. La par-tenza è stata difficile, l’azienda riportava un disavanzo, in bilan-cio, di circa 272.000,00 € e veni-va da anni in cui il disavanzo era cosa normale.

E non è finita! La gestione at-tuale ha dovuto sobbarcarsi an-che due controversie del va-lore di 300.000,00 €, une e 100.000,00 €, l’altra. Circostan-

za, questa, che ha messo in no-tevole difficoltà l’azienda.

Per sopperire alle complicazioni iniziali, anche quelle dovute alla necessaria riorganizzazione inter-na, - continua il Presidente Saffio-ti - abbiamo dovuto lavorare sodo. Appena insidiatomi, mi sono ritro-vato in mano un’eredità di 40 pro-cedure di licenziamento. Che sen-so avrebbe avuto mandare a casa 40 persone? Che danno sociale avrebbe registrato la città di Pal-mi? Fino ad oggi abbiamo scansa-to i guai e per fortuna registriamo un bilancio in attivo, condizione, questa che permette all’azienda di essere un fiore all’occhiello per la Regione Calabria, oltre ad un vanto per Palmi”.

Prima di continuare è, forse, giusto spiegare la divisione dei comparti. La PPM è un’azienda totalmente comunale e per tale motivo non può procurarsi lavo-ri/servizi che non siano assegnati direttamente dal Comune di Pal-mi. Questo per ciò che concerne tutto, tranne i servizi di traspor-to. Per questi servizi il referen-te unico è la Regione. In effet-ti, il settore trasporti, così come viene gestito dallo staff attuale, risulta essere in linea con tutte le normative e, soprattutto, in li-nea con le esigenze dei cittadini.

Qual è la forza lavoro in ca-rico?

“Oggi l’azienda conta circa 45 collaborazioni interne e, ci tengo a dirlo, i risultati raggiunti sono tali, per lo sforzo e le capacità dei dipendenti PPM. Questi ragaz-zi si sono adoperati, di proprio pugno, persino nel ripristino dei

locali che, oggi, ci accolgono”.Presidente, ricordiamo quali

sono i servizi che svolge la PPM per la città di Palmi?

“Certo! In primis, il servizio parcheggi, l’unico ad avere an-cora, fino a giugno, validità con-trattuale” - tutti gli altri servi-zi sono contrattualmente scaduti ed in attesa di rinnovo ndr -, “la segnaletica stradale, la cura del verde pubblico e a tal proposito vorrei raccontare un aneddoto. Giorni addietro, un abitante di via Carbone, m’incontra e, lieto, mi dice: Caro avvocato da 30 anni non vedevo più il mare da casa mia, cosi tante erano le foglie delle palme. Lo avevo, perfino, dimenticato!” (Forse in quest’af-fermazione c’è un po’ di esagera-zione, però il senso si coglie.)

“L’azienda effettua anche il servizio dell’approvvigionamen-to straordinario dell’acqua po-tabile, il servizio di rimozione, tutti i trasporti urbani ed ex-traurbani, il servizio di Scuola-bus e i servizi navetta a dispo-sizione delle scuole. Insomma ce n’è per tutti i gusti.

Riguardo ai servizi di traspor-to, va rilevata l’importanza strategica della PPM nella cura dei dettagli che riguardano sco-lari e studenti. Ai primi si offre, quasi, un servizio taxi molto fa-miliare, con una gestione atten-ta dei tempi e, soprattutto, dei bambini; ai secondi si da un vali-do aiuto, in particolar modo nei periodi freddi e piovosi con una continua spola tra il centro cit-tà e il Terminal bus. Il Terminal, oggi, è una struttura confortevo-le, nonostante non sia ancora ul-

timato in tutti i dettagli. In ul-timo, ma non per importanza, è necessario evidenziare che, con i servizi PPM, la stazione FF.SS. è più vicina alla città. Sono ben 57, infatti, le corse giornalie-re che collegano Palmi alla Sta-zione ferroviaria ed in orari di grande affluenza pendolare, il servizio è raddoppiato.”

Quali potrebbero essere del-le nuove frontiere, per una PPM con prospettive di crescita?

“Vede, essendo, l’azienda, co-munale non può acquisire alcun servizio esterno, per cui le uni-che prospettive di ampliamenti aziendali e, quindi, di possibili-tà di creare nuovi posti di lavo-ro, sono da ricercare nell’ambi-to cittadino. In verità esistono sia le idee ed anche i presuppo-sti per attivare nuovi servizi. La gestione dell’illuminazione pub-blica, per esempio, la gestione delle lampade votive e la cura della pulizia del cimitero, finan-che la riscossione dei tributi è, oggi, una prospettiva interessan-te. L’azienda è in grado di soste-nere il peso di questo e molto altro ancora, tutto sta a voler-glielo concedere.

Altra strada è quella sostenibile con investimenti nel settore gran-turismo ed una “chicca”, il Bus ca-brio per escursioni sul territorio”.

Un’idea di sviluppo porta an-che verso un’ipotesi di collega-menti con gli Aeroporti calabri e con l’Università di Cosenza, il tutto, in attesa di poter svolge-re un servizio più interessante e completo con il collegamento dei paesi interni.

Avvocato quali sono i proble

PPMUN’AZIENDA MULTISERVIZI ...SENZA PIU’ SERVIZI

INTERVISTA AL PRESIDENTE ETTORE SAFFIOTI

Il Presidente Ettore Saffioti

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PPMUN’AZIENDA MULTISERVIZI ...SENZA PIU’ SERVIZI

mi attuali nella gestione della PPM?

“I problemi sono cento, anzi uno! Il contratto di assegnazione dei servizi di cui abbiamo parla-to prima. Mi spiego. Tutti i con-tratti che la PPM aveva con il comune di Palmi, sono scaduti, (giugno 2011 ndr) eccetto quel-lo relativo ai parcheggi che, fra l’altro, scadrà a giugno 2012. Ad oggi, nonostante l’azienda ri-tenga di aver svolto in maniera egregia i compiti assegnateli e nonostante i contratti stessi si-ano scaduti da mesi, non vi sono segnali adeguati di rinnovo. Re-gistro, mio malgrado, dei ritardi burocratici che, in altri contesti, mi avrebbero, senza dubbio, fat-to presupporre rallentamenti ad hoc. Non è certamente questo il caso, ma la realtà è che 45 di-pendenti devono ricevere i loro stipendi, perché con essi vivono e, in una azienda, se non vi sono entrate non possono esserci usci-te! Risultato? L’azienda non può sostenere questo peso a lungo, anzi si trova già in una fase di stallo e il futuro diventa incerto per essa stessa e per le famiglie dei suoi dipendenti”.

Parliamo un po’ del progetto riguardante la “ferrovia Cala-bro Lucana”? E’ ancora attuale?

“Certo che lo è! Anzi, ritengo che, oggi, lo sia più che mai.

Questo progetto si era arena-to – lo dico sintetizzando mol-to - per l’intervento dei sinda-cati, i quali non vedevano di buon occhio che il settore gom-mato venisse staccato dal setto-re ferrato. In realtà, quest’ulti-mo, presenta molta debolezza e

quindi i rischi di un futuro nero, per i lavoratori erano alti. Oggi, però, esistono nuovi presupposti per portare avanti il progetto e la PPM, certamente, percorrerà la strada verso l’obiettivo. Sotto quest’ottica rientrano tutti quei progetti accennati prima e che riguardano una più ampia pro-grammazione dei trasporti, an-che su scala regionale”.

Si è parlato di tutto, con il Pre-sidente, ma trapela un senso di amarezza nelle sue parole quan-do si parla di contratti. Per lui, questo termine è tutto. E’ il futu-ro dell’azienda e dei suoi opera-tori, e una scommessa con la ci-viltà, non si può farne a meno.

D’altronde, i servizi vanno svolti e qualcuno dovrà farli, perché al-lora non accelerare i tempi e por-tare a conclusione questo proble-ma prima che diventi annoso?

Si respira, nonostante tutto, un’aria buona dentro questi uffi-ci. Non vi sono porte chiuse, c’è disponibilità ovunque, c’è sere-nità. E’ un buon segno, questo, legittimato dalla coscienza puli-ta di chi ha svolto e svolge an-cora il proprio dovere, 45 perso-ne vere. Sono in attesa di essere ricevuto dall’Avvocato Saffioti e mi passa davanti, con fare goffo ma educatissimo, un signore an-ziano. Chiede il permesso di ve-dere il Presidente. Mi faccio da

parte, si accomoda… Mio mal-grado, non posso fare a meno di ascoltare. L’uomo aveva solo bi-sogno di chiarezza su una corsa che da giorni non veniva più ef-fettuata, probabilmente quello era l’unico mezzo che aveva per spostarsi. Con fare gentile e con spiegazioni adeguate, il Presi-dente tranquillizza il suo cliente assicurando che la corsa sarebbe ripresa già l’indomani, era sta-to solo un incidente di percorso, per via della mancanza di carbu-rante in seguito allo sciopero de-gli autotrasportatori.

Credetemi è davvero emozio-nante costatare che quelle porte sono aperte …a tutti.

La biglietteria della PPM

Una zona del piazzale PPM

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di Mario Idà

Uno scandalo è un fatto eccezionale, al di fuori dei nor-mali comportamenti. La truffa dei petroli non è perciò

uno scandalo, perché rientra nel funzionamento normale del nostro sistema politico. Nel quale è ormai inestricabile l’intreccio tra avventurieri della finanza e personaggi inve-stiti di mandato di rappresentanza. E questo funzionamento del sistema è ritenuto tanto normale, che in un trentennio nessuno dei responsabili dei cosiddetti scandali è incorso in quelli che vengono chiamati i rigori della legge”. Sono parole, queste, scritte tre decenni fa dal politologo Giorgio Galli sulla rivista Panorama. Certamente l’analisi di Galli era esatta e non si può ancor oggi che condividerla. L’amarezza, piuttosto, cresce ove si pensi all’attuale dilagare degli scan-dali, che coinvolgono sempre più spesso “autorevoli” rap-presentanti delle Istituzioni. E’ evidente, a questo punto, che non si tratta soltanto di un partito, bensì del partito, come strumento di potere. Gli scandali e la corruzione di-lagante sono emanazione diretta e naturale del marciume che aggredisce tutto il nostro sistema politico-istituzionale. La storia degli ultimi decenni l’ha ampiamente documenta-to. E’ di immediata evidenza, infatti, che possono essere portatori di onestà politica solo le persone che possiedono una morale e ad essa danno importanza predominante; chi crede invece che il denaro sia lo strumento essenziale del successo sociale, non può astenersi dallo sfruttare a proprio vantaggio le occasioni che il potere politico può offrire. Ne consegue che responsabile del malcostume dilagante è la società politica, i cui esempi danno sempre di più testimo-nianza di una concezione della vita priva di scrupoli. Gli scandali, dunque, sono diventati il lievito dell’informazione mediale, ma da essi la società civile (?) quasi sempre si di-mostra incapace di trarre le dovute conseguenze. Per chi invece ragiona a fondo, rifiuta il condizionamento mediatico e accetta di ricercare la verità senza preconcetti, gli scan-dali possono rappresentare un’utile occasione di riflessione, un interessante e sintomatico campo di indagine sociologica e politica. La verità è che la conquista del potere da parte delle fazioni l’una contro l’altra armata ha rappresentato il trionfo del malcostume politico, dell’egoismo frazionato delle clientele, della caduta verticale del senso dello Sta-to. Insomma, viviamo nell’epoca di squallidi demagoghi e il Parlamento è diventato il mercato della fiera di quartiere. Scandali, inefficienza, demagogia e menzogne: questo è il quadro clinico penoso in cui versa oggi la Nazione italiana. Contro un mondo di falsi profeti, che pretendono di giustifi-care ogni malefatta nel segno di ideologie astratte, contro i condizionamenti dei ricatti economici e delle mistificazioni della politica-politicante è necessaria perciò – per tutti gli uomini di buona volontà - la presa di coscienza che siamo arrivati sull’orlo di un precipizio senza alcuna possibilità di ritorno alla normalità del vivere civile. Per tutti gli uomini che avvertono il peso insostenibile della decadenza si de-linei, perciò, chiara e incorruttibile, la statura, la dignità e la volontà dell’uomo libero, artefice del proprio destino. L’uomo libero: un valore e una dimensione umana che ab-biamo il dovere di trasmettere ai nostri figli perché possano costruire, su solidi principi, il loro domani.

IL COLLASSO

DEL SISTEMA

POLITICO

ISTITUZIONALE

ITALIANO

Dopo il successo degli anni passati, anche quest’anno il liceo “Corrado Alvaro” di Palmi ha voluto prendere parte al progetto Pon di lingua

inglese dal titolo “Excellent English to ride the world”, un programma che coinvolge gli studenti valorizzando la loro conoscenza della lingua inglese.

Il progetto Pon in questione è finanziato in parte dall’Unione Europea at-traverso l’erogazione di fondi strutturali e permette agli studenti di raggiun-gere un livello di conoscenza e competenza della lingua inglese, classificato come C1 del Common European Framework. Un nutrito gruppo di studenti del liceo palmese, si appresta ad iniziare questo nuovo percorso, che pre-vede la realizzazione di un project work, con stage finale in un Paese di lingua inglese. A motivare gli alunni, la professoressa Giuseppa Meduri che da anni sostiene iniziative simile, ed il dirigente scolastico Francesco Bagalà a cui va il merito di aver contribuito a fare del liceo “Corrado Alvaro” una scuola aperta, che guarda verso l’Europa. Il progetto è suddiviso in fasi; una prima fase iniziale prevede un periodo di studio e ricerca. Ad essa segue la formazione dei ragazzi, attraverso il metodo “content and language inte-greted learning” ed il lavoro di squadra. L’ultimo step, è la realizzazione di un lavoro finale interamente in lingua inglese. A fine percorso, gli studenti parteciperanno ad uno stage in Inghilterra, dove avranno la possibilità di mettere in pratica tutto ciò che hanno imparato durante i mesi di lavoro a scuola. Un premio, insomma, ma anche un’ottima motivazione a lavorare bene e con dedizione, affrontando con tanta grinta un percorso così difficile ma alla fine ricco di soddisfazioni.

ISTITUTO MAGISTRALE

CORRADO ALVARO“Excellent English to ride the world”

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IL SIGNOR CHI ED IL SIGNOR COSA

Eduardo Della Rovere

In una piccola città sulla costa della Calabria da tempo la vita

politica (e non solo quella) viveva mo-menti di grande difficoltà.Gli abitanti erano perplessi, quasi

disorientati. Era come se ad una barca, un’elegante barca a vela, fosse venuto a mancare il vento. Per anni. La barca c’era, galleggiava, era talvolta anche bella a vedersi (certi tramonti, certi colori…), però non andava da nessuna parte. Né avanti né indietro. Ferma, semplicemente ferma.All’origine della bonaccia c’era in

realtà una lite. Già, un litigio, un dissidio. Un’inimicizia perenne. Una rivalità evidente ed infinita. Tra il signor “Chi” ed il signor “Cosa”. Ora vi racconto.Il signor “Chi” era un uomo pasciuto,

ben vestito. Molto curato nel tratto, dai modi quanto mai amichevoli e sim-patici. Di più, direi: quasi travolgen-ti. Riusciva a mettere subito a proprio agio qualsiasi interlocutore, portando abilmente – ed in poche battute - il discorso su di un argomento irresisti-bile per la quasi totalità degli abi-tanti di quel posto: “chi”, appunto, aveva detto o fatto qualcosa.“Chi” aveva preso quella tale inizia-

tiva, “chi” aveva commentato quel noto fatto di cronaca, “chi” aveva sparlato del suo vecchio compagno di scuola o di partito, “chi” aveva annunciato di ave-re intenzione di candidarsi, di aprire un negozio, di fondare un’associazione: insomma, una sorta di aggiornamento co-stante, continuo, ininterrotto su tutti i fatti di tutti.Il signor “Chi” ci sapeva davvero

fare, credetemi. Si poteva passare in piazza – la piazza era il suo luogo di appuntamento abituale – a qualsiasi ora del giorno, e lo si trovava lì. Al cen-tro di un capannello di persone. Di so-lito stanziale, fermo sul posto. Qual-che volta in movimento, con traiettorie determinate da tradizioni immemori ed immodificabili.L’impegno del signor “Chi”, ve l’ho

detto, era continuo. Non erano neppure esclusi turni notturni d’estate, quando alle volte ci si trasferiva nella vi-cina villa comunale per godere del me-raviglioso paesaggio che era possibile rimirare da lassù.Il signor “Cosa”, al contrario, era un

ometto grigio. Quasi polveroso. Sembra-va vestisse sempre degli stessi colori, anzi di un unico colore. Grigio polvere, appunto.Intendiamoci, era una persona distinta

e rispettabile. C’era chi diceva (ma si pensava fosse una diceria messa in giro ad arte dal signor “Chi”) che era stato un professore universitario, caduto in disgrazia per non aver voluto accettare delle raccomandazioni dal potente poli-tico di turno. Per il signor “Chi”, ov-viamente, questa era un’ingenuità inac-cettabile. Quasi la dimostrazione di una forma di stupidità genetica.Il signor “Cosa” aveva l’abitudine di

chiedere. Di porsi domande. Di non fer-marsi alle apparenze, e men che mai a tutto quello che riguardava diretta-mente le vicende personali degli altri. A lui interessavano solo ed esclusiva-mente idee, valori, programmi, proget-ti. Percorsi, iniziative. Cose concrete, insomma. Cose da fare, in tempi certi e possibilmente brevi.Ecco perché il signor “Cosa” s’era

fatto la nomea di persona noiosa, ai limiti dell’insopportabile. Al punto che la sua stessa consorte

lo esortava continuamente ad andare in giro, a farsi delle passeggiate, quattro

chiacchiere con amici e conoscenti. Pur di non averlo dentro casa, sempre pronto a spaccare il capello in quattro con i suoi “perché?” ed i suoi “come mai?”.“Vai, vai, marito mio. Non stare sem-

pre stravaccato su quella benedetta poltrona. Vai in giro, scambia due pa-role con gli altri, senti un po’ cosa succede in paese. Vai, insomma: vai!” diceva, non proprio amorevole, la sua signora.Già, andare in giro. Parlare con gli

altri. La faceva facile, lei. Sua moglie non lo sapeva, che fuori

c’era il suo nemico giurato. Che gli rendeva impossibile la vita.Le cose, infatti, andavano sempre

nello stesso modo.All’inizio il signor “Cosa” incrocia-

va un gruppo di concittadini impegnati a parlare, soprattutto – appunto - di politica, e cominciava a dire la sua. Anche lui, per certi versi, sapeva es-

sere convincente. Il suo puntiglio, la sua precisione, la sua concretezza riu-scivano a far presa su chi lo ascoltava.Ed allora si cominciava a parlare di

cose concrete, di progetti, di linee di espansione urbana, di piani di inter-vento, di priorità per il bene comu-ne, di iniziative culturali. Di ciò che andava chiesto, insomma, a chi voleva candidarsi alla guida della città.Durava al massimo dieci minuti. Fac-

ciamo quindici, non di più.Poi, come se avesse avuto una specie

di radar o di diabolico sesto senso, arrivava lui. Il suo avversario, la sua antitesi, la sua maledizione. Il signor “Chi”, appunto.Ed allora tutto l’incanto finiva. Non

si parlava più di cose da fare, ma solo delle persone che avrebbero dovuto far-le. Tutte, ovviamente, per un motivo o per l’altro assolutamente incapaci.Quello era troppo vecchio. Quell’al-

tro era troppo giovane. Quello parla-va troppo. Quell’altro parlava troppo poco. Quello era parente di chi sapete voi. Quell’altro era troppo poco paren-te di chi sapete voi. Quello aveva già fatto politica, e non era più il suo turno. Quell’altro non aveva mai fatto politica, e quindi non era ancora il suo turno. Quello era troppo di sinistra (o di destra, o di centro: spesso si faceva confusione, in quella piccola città). Quell’altro era troppo poco di sinistra (o di destra, o di centro). Quello an-

dava troppo spesso a messa perché fosse veramente credente. Quell’altro a messa non ci andava mai. Quello non andava bene perché troppo amico di quell’al-tro. Quell’altro non andava bene per-ché troppo poco amico di quello. E via così, all’infinito.A quel punto il discorso si ingar-

bugliava, diventava pettegolezzo, dice-ria, facezia, sghignazzo. Spesso addi-rittura invenzione e diceria.Niente più programmi, niente più idee.

Solo parole, tante parole. Aria vuota, od al massimo fritta, travestita da mi-nuscola tattica politica in salsa locale. Così, puntualmente, il signor “Cosa”

tornava a casa sconfitto. Sotto lo sguar-do trionfante del signor “Chi”. Rinno-vando pensieri di vendetta che non si realizzavano mai.E pensate forse che con i giovani,

quelli che per la prima volta si af-facciavano alla vita politica, le cose potessero andar meglio per il nostro polveroso amico? Assolutamente no.Il signor “Chi” esercitava il suo fa-

scino anche lì. Neanche le nuove genera-zioni riuscivano a resistergli. Magari cambiavano le parole, i rimproveri, le accuse reciproche, i sospetti e le dif-fidenze. Ma la storia era sempre quella. Il “chi” veniva sempre prima del resto.Certo, c’erano stati dei tentativi –

anche seri - di parlare con il signor “Cosa”, di mettere giù dei programmi. Di provare ad essere propositivi, indivi-duando cose precise e concrete da fare sfruttando le potenzialità di tutti, senza barriere e distinzioni di sorta.Ma era durato poco. Il tempo neces-

sario perché arrivasse lui, il signor “Chi”. Il protagonista incontrastato della vita politica di quella sfortuna-ta cittadina. Che rimaneva così, placidamente immo-

bile a specchiarsi nel suo mare sempre più fermo.A questo punto, miei cari lettori,

vorrete sapere di certo come finisce la favola.Ho un segreto da rivelarvi.Il finale dipende da voi. Meglio, la

speranza di un finale dipende da voi.Se sarete riusciti ad ascoltare questa

piccola favoletta senza chiedervi nean-che una volta “ma di chi diavolo starà parlando?” ebbene, amici miei, una spe-ranza di vento nelle vele ancora c’è.In caso contrario…

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NICOLA GRATTERIStare ad ascoltare un signore

di mezza età che si distri-ca fra le maglie di un racconto magnificato da termini dialettali che enunciano nomi di Santi, Ma-donne, luoghi sacri e poi di leggi, indagini, cocaina, di colombiane avventure e ancora, di boss, capi bastone e picciotti, é qualcosa che evoca, un pomeriggio di tar-da primavera, all’ombra dei ma-gici alberi di villa Mazzini, dove un gruppetto di anziani, a turno, danno lezioni di vita, spesso di-storta dai ricordi non più vivi ed anche dalla «necessità», tutta calabrese, di esagerare sempre, a qualche, malcapitato giovanotto assetato di storie che, secondo le dicerie popolari, hanno fatto «grande» il nome della Calabria nel mondo.

Non è stato proprio così, però; il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Dott. Nicola Gratteri, al Liceo Nicola Pizi di Palmi, più che raccontare storielle da pensio-nati, ha provveduto a congelare l’attenzione di tutta la platea (a parte qualche caso sporadico di disattenzione tipica da «studen-te»), con un discorso che, dall’U-nità d’Italia, ed in conseguenza di ciò, dai disagi del popolo del mezzogiorno, è finito sul delicato tema della scuola di oggi e della necessità di una adeguata inte-razione col sociale, fonte di una speranza concreta per il migliora-mento del nostro futuro.Il tutto, passando dalla veloce ricostruzio-ne della storia della ‘ndrangheta, da 150 anni fa ai giorni nostri.

Introdotto dalla Dirigente del Liceo, Prof.ssa Maria Corica che con sapiente fare, spesso, con-duce per mano i suoi studenti verso percorsi di crescita so-ciale che vanno ben al di là dei naturali insegnamenti scolastici, (ricordiamo, uno per tutti, l’in-contro con Antonio Marziale, nel maggio dello scorso anno, ndr), il Dott. Gratteri ha esordito, quasi seguendo un copione collaudato che avrebbe lanciato il suo inter-vento in una escalation di infor-mazioni atte a rubare l’attenzio-ne degli studenti e dei numerosi adulti presenti in aula, con un at-tacco al sistema scolastico, reo di non aver reso giustizia alla storia, proprio nel 150esimo dell’Unità d’Italia, celando il vero motivo della decadenza economica del Mezzogiorno e della Calabria in particolare.

Conoscere la propria storia, le origini d’ogni cosa, l’essenza della nostra cultura, di come si è formata e del perché abbia segui-to il suo cammino - dice, in sinte-si, il Procuratore - fa si che noi si

Sopra: Il Procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola GratteriSotto: Il Dott. Gratteri e la Dirigente Maria Corica in un momento del convegno al Liceo N. Pizi di Palmi

di Paolo Ventrice

“...io non vi sto dicendo, il futuro è vostro; «il futuro è dei giovani» è la frase più stolta e vigliacca che si pos-sa dire, il futuro non è dei giovani, il futuro è di tutti noi, di chiunque abbia un ruolo ed una funzione nella società...”

BIBLIOGRAFIALa mafia fa schifo - Mondadori, 2011La giustizia è una cosa seria - Mondadori, 2011Fratelli di sangue - Mondadori, 2009. (nuova ed)Cosenza ‘ndrine sangue e coltelli. L. Pellegrini Editore, 2009La Malapianta - Mondadori, 2010Il grande inganno - L. Pellegrini Editore, 2007. Fratelli di sangue - L. Pellegrini Editore, 2007

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NICOLA GRATTERIsia più consapevoli dei pregi e dei difetti del nostro vivere quotidia-no, lascia spazio alla correzione degli errori e taglia, senz’altro il marcio ed il bieco.

Quando l’Italia fu unita dai “so-liti noti”, cominciò il dramma del sud. La Calabria ne faceva parte e dovette subire il prezzo dell’U-nione con il nord. Esatto, subire! Il Nord, fino allora dovette soste-nere guerre su guerre, in Europa vi erano in atto assestamenti im-portanti, e gli italiani (quelli non “Borbonici”), per loro mera capa-cità, furono attivi, quasi, in ogni conflitto. Il costo sostenuto dai Savoia era stato altissimo e qui cominciano a sorgere grossi dub-bi sulla volontà di unire la peni-sola per puro sentimento italiano o, cosa più probabile, per il solo scopo di scacciare i Borboni, ap-profittare delle loro ricchezze in terra italica e per lo sfruttamen-to dei territori del sud in modo da rimpinguare le casse vuote e ricostituire un settore industria-le, al nord, ormai annullato dai continui conflitti.

L’oro borbonico, servì, infatti, a ciò e per lo stesso scopo furono smontate industrie intere, come la “ferriera di Mongiana”, un con-testo siderurgico dove operavano circa 1.500 operai.

I vari Mazzini, Garibaldi, ecc… erano certamente spinti da italico patriottismo, ma anche - e qui la-sciamo aperte le porte a considera-zioni personali, per stabilire quanto vale l’una verità rispetto all’altra - da un fattore economico a largo beneficio dell’Italia nordica.

E’ vero - sostiene il Procuratore -che nell’ottica di una globalizza-zione e di una centralità euro-pea, la scelta di spostare al nord le industrie e, quindi, verso il cuore dell’Europa e del mercato continentale è, certamente, da approvare. Ma, per contro, era stata promessa una riforma agra-ria, per sostenere un’economia attiva ed uno sviluppo adeguato che, però, non arrivò mai.

Questo elemento contribuì, anzi, diede il via ad un sistema che, piano piano portò alla nasci-ta della ‘ndrangheta di oggi.

Fu all’epoca, infatti, che si cominciarono a formare i pri-mi nuclei (picciotteria). Le con-trapposizioni fra le grandi fami-glie possidenti e i lavoratori dei campi, portarono ad un sistema “affiliantistico” – perdonatemi la coniazione di questo termine -, a capo del quale si posero i vari “Massari”, naturali elementi di congiunzione e, quindi, di media-zione, tra i contadini e i padroni, in quanto gestori dei beni di que-

sti ultimi. Loro dettavano, sugge-rivano e concludevano operazio-ni atte ad estorcere, al padrone, qualcosa.

Sembra quasi la storia di Robin Hood! Togliere ai ricchi e ridistri-buire ai poveri. In effetti, questa era, probabilmente, all’origine la logica, ma, ben presto, le cose cambiarono.

Si comincia a verificare, intor-no agli anni ‘50 una sorta di fe-nomeno che rivolge un’adeguata attenzione verso questa forma di associazione delittuosa.

Corrado Alvaro fu il primo a scrivere la parola ‘ndrangheta - continua il Dott. Gratteri -, e lui la conosceva bene; era, ap-punto, figlio di un ‘ndranghetista.

Lo sviluppo della struttura ma-dre della ‘ndrangheta, ha dato, nel tempo, una configurazione qual è quella di oggi, ed i mo-vimenti e le azioni delittuoso/economiche hanno disegnato un percorso che va dall’estorsione nei confronti del padrone, alla “mazzetta” chiesta ai traspor-tatori di bestiame, dell’epocva, alla commercializzazione della cocaina di oggi, passando attra-verso il periodo nero dei seque-stri di persona, di alcuni decenni addietro.

In questo passaggio di epoche, si sviluppa la vera forza di questo tipo di mafia. Ad un certo pun-to, mentre in Sicilia, in Campania e, se vogliamo, anche in Puglia, si continua ad operare in modo “antico”, in Calabria, le famiglie cominciano ad inserire le pedine più fidate all’interno del mondo dei “colletti bianchi”. I figli degli ‘ndranghetisti percorrono la via degli studi e, senza troppa fatica, cominciano ad occupare posti im-portanti, a stretto contatto con la classe dirigente.

Questo sistema ha aperto le porte - e le casse - del settore appalti, proprio negli anni in cui, in Calabria, si investiva molto in infrastrutture pubbliche.

Oggi, è il mercato della cocai-na quello che più frutta ed è, in gran parte, nelle mani delle fa-miglie calabresi. La ‘ndranghe-ta, infatti, si è saputa aprire una corsia preferenziale con i paesi produttori, creando una struttura importante per lo smistamento.

Il “concerto” istruttivo del Pro-curatore, riguardo il “sistema ‘ndrangheta”, è durato oltre due ore e, come lui stesso afferma, “...questi che vi do, non sono al-tro che flash, piccole porzioni di come è strutturata la ‘ndranghe-ta, dei traffici che fa, dei mercati che occupa. Ci vuole molto più tempo per approfondire tutto...”.

Ovviamente, il tema trattato non era che uno starter per apri-re un discorso più in linea con la vita scolastica dei ragazzi del Liceo Pizi. Il sunto di tutto deve servire ai giovani di oggi come monito, sono nozioni, queste, che fanno si che il futuro si possa affrontare con dignità e nella ri-cerca della legalità.

Rivolgendosi direttamente ai ragazzi, infatti, apre un nuovo argomento: lo studio.

“L’unico sistema – dice il Procu-ratore - per evitare di incappare in incresciose situazioni e di per-seguire un futuro degno, è quel-lo di studiare. Studiare non per imparare la materia “del gior-no”, ma farlo per essere istruiti, per affinare capacità superiori e metterle in pratica, questo è il segreto. Oggi, - continua - dove-te seguire gli insegnanti che più si dimostrano duri, perché sono loro quelli che, ancora, prova-no emozione nell’insegnamento, agiscono in perfetta sincronia morale con la funzione sociale che svolgono e riescono a darvi qualcosa di concreto”.

Certo, il risultato di queste af-fermazioni, visto dalla parte de-gli studenti, potrebbe essere un anacronistico dramma da medio evo; pensate se tutti gli insegnan-ti, ora, si mettessero a fare i duri e costringessero i ragazzi ad un regime scolastico forzatamente appesantito da questa tesi. Sa-rebbero guai!!!

In realtà, tra le righe, convie-ne leggere la verità. La scuola regala una logica per affrontare il futuro, ma il regalo deve esse-re accettato. Studiare tanto per farlo non fa bene. Farlo con un obiettivo da, senz’altro, più sod-disfazione.

Serve a poco –concetto espres-so dal Dott. Gratteri- andare all’università ed accontentarsi del 18/19. Alla fine degli studi, e passeranno 10 anni, i punteggi ottenuti non sarebbero sufficien-ti ad aprire porte importanti. Ciò non vuol dire che non si debba studiare, ma, forse, in qualche caso è più corretto mettere la propria intelligenza e le proprie capacità al servizio di un lavoro vero. Accenna, il Procuratore, anche all’eventualità del “ritor-no” ai campi, “cosa che non è un augurio, bensì potrebbe essere, una volta per tutte, una spinta alla ri-modernizzazione del set-tore agricolo, un innesto di menti fresche con concetti attuali che possano far diventare, lo sfrutta-mento delle risorse agricole, un vero e proprio impero imprendi-toriale”.

UN INCONTRO TRA IL PROCURATORE NICOLA GRATTERI E I RAGAZZI DEL LICEO “N. PIZI” DI PALMI. OLTRE 2 ORE DI INTERVENTO SUL TEMA ‘NDRANGHETA E SULLA STORIA DELLA CALABRIA. LA PROf.SSA CORICA INSISTE NEL PERCORRERE UN CAMMINO SOCIAL-

MENTE COSTRUTTIVO, CON L’AIUTO DI CHI COMBATTE IN PRIMA LINEA.

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C/C N. 000094156981 INTESTATO AD ASSOCIAZIO-NE CULTURALE PROMETEUS CON CAUSALE: ”PARCO GIOCHI”;

BONIFICO CODICE IBAN: IT39P0760116300000094156981 - POSTE ITALIANE PALMI CENTRO - ASSOCIAZIONE CUL-TURALE PROMETEUS.

OPPURE RITIRA L’ATTESTATO DI PARTECIPAZIONE, DIRETTA-MENTE DAI VOLONTARI DELLE ASSOCIAZIONI COINVOLTE E NEI CENTRI AUTORIZZATI.

LA DONAZIONE E’ DETRAIBILE DAL-LE TASSE CONSERVANDO LA COPIA DEL BONIfICO O DELL’ASSEGNO.

PARTNERS PARTNER ISTITUZIONALE

Area Politiche del Welfare Area Cultura, Pubblica istruzionee politiche giovaniliArea Sport, Turismo e Spettacolo

Comune di Palmi

GRUPPO SCOUTPALMI 1

Scuola “Sergi”

LANDOLFO CARMINELANGONE MICHELELENTINO MICHELE V.LENTINO ROSALEONARDIS ANNA M.LEONARDIS FRANCESCOLEONARDIS GIULIALEONARDIS SANTINALEONARDIS VINCENZOLEONELLO ANGELALO BARTOLO GIUSEPPELO PREVITE STEFANOLUPPINO DOMENICOLUPPINO ROCCOLUVERO CESAREMAGAZZU’ ANTONINOMAGAZZU’ ANTONIOMAGAZZU’ GIUSEPPEMAGAZZU’ MARCOMAGAZZU’ MICHELANGELOMAGLIANO RENATOMAISANO GIORGIAMAMBRINO VINCENZOMAMMOLITI DOMENICOMANAGO’ BIANCAMANAGO’ FRANCESCOMANAGO’ VINCENZOMANUCRA FRANCESCOMANUCRA SINAMARIANO CAMELAMATINA FRANCOMAURO SILVANAMAZZA ANTONIETTAMAZZAFERRO SANTINOMELISSARI MINOMICARI ROCCO ANTONIOMILIDONO CONCETTAMILITANO CONCETTAMILITANO GIUSEPPEMONTEBIANCO LILIANAMONTELEONE SILVANAMONTEROSSO ANTONIOMORGANTE ANTONIOMURATORE NUCCIOMURATORE PIERLUIGINASTRI CARMINENOTO VINCENZOOLIVA CARLOOLIVERI DOMENICOOLIVERIO FRANCESCOOLIVERIO ROBERTOORLANDO DOMENICOORLANDO MARIAORLANDO TONINOOTTOBRE ANTONINOPACILE VINCENZOPALERMO PIETROPAPALIA MARCELLOPARDEO FRANCESCOPARDEO GAETANOPARDEO ROCCOPARISI NINOPARISI VINCENZOPARRELLO AURELIOPARRELLO CARMELAPARRELLO LUCIANOPARRELLO NICOLA E IDAPARRELLO NUNZIATINAPASSALACQUA TERESAPASSARELLI MAUROPATAMIA CARLOTTAPATAMIA LORENZOPATTI ANTONELLAPEDULLA’ LUCIAPELLEGRINO EMILIOPELLEGRINO PASQUALE(VARAPODIO)PETITTO ANTONIOPETITTO ROSAPETITTO SAVERIOPICCOLO GIOVANNIPICCOLO MARIAPIPINO GIUSEPPEPIPINO ROBERTOPISANO ROBERTOPITITTO LUIGIPITTI PIETROPIZZUTO SABINA(TAURIANOVA)POLIMENI GIULIAPOZZOLINI WALTERPRINCI ROCCO

BELLOMO ANTONIAABRAMO TERESAALAMPI PAOLOAMBESI CELESTINOAMBROGIO CATERINAAMEDEO SANTINAAMMENDOLEA FRANCESCOANANIA ANTONELLAANDIDERO GIUSEPPEANEDDA ANNUNZIATAANEDDA ANTONELLAANGALO’ ROBERTOANGEMI ELENAANGI’ CETTINAARCURI ANTONIOARENA CARMELOARREDAMENTI SERRAMENTI ARCURIASS.SPORTIVA KOLBEAUDDINO VINCENZOBAGALA’ ANTONIETTABAGALA’ FRANCESCABAGALA’ PIETROBARBARO GIUSEPPEBARBARO IMMOBILIAREBARBERA GIUSEPPEBARBERA VINCENZABARONE ANDREABARONE ANTONIOBARONE CONCETTABARONE GIUSEPPEBARONE MARIABENDINI ROBERTOBENFATTO ANNA MARIABERNARDINI MARIA LUISABONACCORSO ANTONIOBONACCORSO GABRIELEBONACCORSO GIAMPIEROBONACCORSO GIOVANNIBONASERA ANTONIOBONGIOVANNI LUCABORRELLO ANGELABOVA ALESSANDROBOVI CRISTOFORO MARIABRACCO GIUSEPPEBRANDO GIUSEPPEBRANDO GIUSEPPEBRIZZI MARILENACAIA CARMELACALABRO’ DANIELACALI’ MARIOCALI’ MASSIMOCALOGERO DANIELACALOGERO SALVATORECAMBARERI PINOCAMERA ANTONIOCAMERA FRANCESCOCANNISTRA’ SAVERIOCARBONE RAFFAELANGELOCARDONE VERACARIDDI PINACARNEVALE RODOLFOCARONE DOMENICOCARPANO SALVATORECASADONTE SERGIOCASEIFICIO “IL GRANATORE”CATALANO MARIA ROSARIACAVALLO IVANCHOTEAU PASCALECICCONE CARMELOCILONA GIUSEPPECIPRI FRANCACIPRI FRANCESCOCOGLIANDRO CARMINECOLLURA ELENACOLLURA LUCIACOLOSI CARMELOCOLOSI FRANCESCOCOMMISSO ELVIRACOSENZA FRANCESCOCOSTA MARIA CONCETTACOSTANTINO DARIOCOVELLO MATTEOCREA CARMELACREA EUGENIOCRICRI’ ALBERTOCRICRI’ AURORACRICRI’ CLAUDIOCRICRI’ GIUSEPPECROCITTA MAURIZIOCRUCITTI JULIAD’AGOSTINO DOMENICO

D’AGOSTINO FRANCESCOD’ELIA TERESADAVI’ GIUSEPPEDE FRANCIA SALVATOREDE FRANCIA VINCENZODE GIORGIO TIZIANADE LEONARDIS MARIA ROSADE LUCA SALVATOREDE MARCO ROCCODE MARIA ELISABETTADE NICOLA Agenzia ViaggiDE SALVO PAOLADE SANTIS MARTADE SANTIS MATTEODE SANTIS NOEMIDE VINCENZO MAURIZIODE VIVO BIAGIODELLO IACOVO CAMILLODI LORENZO GIOVANNIDOMINICI CARMELADONATO GIUSEPPEDORIA GIUSEPPEEPIFANIO FRANCESCOESPOSITO MARCOESPOSITO NATALEESPOSITO PIEROFARMACIA SAFFIOTIFAVAZZO CARLOFEBBO GIUSEPPEFERRARO ANTONIOFERRARO DOMENICOFERRARO MARGHERITAFILIPPONE ANGELAFILIPPONE CARMELOFILIPPONE DANIELAFILIPPONE GIUSEPPEFILIPPONE ROBERTOFIORAMONTE CINZIAFIORILLO MARINAFIORILLO MONICAFIORINO ANGELAFIORINO ANTONINOFIORINO GRAZIELLAFIUMARA SAVERIOFORTUGNO GIUSEPPEFOTIA ANTONELLOFOTIA CARMELOFRISINA MATTIAFRISINA PASQUALEGAGLIARDO ALICEGAGLIARDO GIORGIAGAGLIARDO ILARIAGAGLIOSTRO ANTONINOGAGLIOSTRO CONCETTAGALLETTA ENZOGALLETTA GUIDOGALLICO CATERINAGANGEMI PINOGARGANO ERNESTOGAUDIOSO ROCCOGENTILE GIUSEPPEGENTILE ROSARIOGENUA NICOGEROCARNI ROSAGIOE’ FILIPPOGIORDANO NICOLAGRASSO DAVIDEGRASSO EMANUELAGRASSO LINAGRASSO LUIGIAGRASSO MARIA TERESAGRILLO PATRIZIAGRUPPO ZULULANDIAGUARNACCIA ANTONIO PIOGUARNACCIA CATERINAGUERRERA GIUSEPPEGUERRERA MANUELAGUGLIELMO FABIANAGULLO ANTONELLAGULLO DOMENICO ANTONIOIANNELLI ERIKAIANNELLI FRANCESCOIANNELLI GIUSEPPEIANNELLI LILLOIANNELLO MICHELEIANNINO DARIOIANNINO FRANCESCOIMPIOMBATO MANUELAINFANTINO VINCENZOISOLA BERNADETTE CARLAISOLA ROCCOISOLA VINCENZO

Il guerriero della luce crede. Proprio come credo-no i bambini.

Poiché crede nei miracoli, i miracoli comin-ciano ad accadere. Poiché ha la certezza che il proprio pensiero possa cambiargli la vita, la sua vita comincia a cambiare. Poiché è cer-to che incontrerà l’amore, l’amore compare. Di tanto in tanto, è deluso. Talvolta, viene ferito e al-lora sente i commenti: “com’è ingenuo!”

Ma il guerriero sa che il prezzo vale. Per ogni scon-fitta, ha due conquiste a suo favore.

Tutti coloro che credono lo sanno.

Paulo Cohelo

PALMESI: CUORE D’ORO!

CREDERE SENZA PAURA

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di Chiara Ortuso

Perché io credo in colui cheha fatto il mondo.

uno scienziato credente: zichichi

Le pietre, gli spaghi, i legni, il battito del cuore non sono

mancati mai ad alcun uomo. In tutti i tempi. E in tutte le civiltà. Una cosa invece era sempre man-cata a tutti: il credente che Colui che ha fatto il mondo avesse po-tuto lasciare negli oggetti volgari – pietre, spaghi e legni - l’impronta della sua potenza straordinaria. Fu questa Fede che spinse Galileo Galilei a dare dignità culturale ad oggetti volgari”. Con queste toc-canti parole si apre l’illuminante e appassionato inno al Creatore di ogni cosa “ Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo” di Antonio Zichichi, il famoso scienziato sco-pritore dell’antimateria nucleare e inventore delle ricerche pioneristi-che che hanno portato alla scoper-ta della Terza Colonna nella strut-tura delle particelle fondamentali della fisica. Contro la millenaria e diffusa credenza secondo cui Fede e Scienza sarebbero inconciliabili, Zichichi sostiene invece che “Non esiste alcuna scoperta scientifi-ca che possa essere usata al fine di mettere in dubbio o di negare l’esistenza di Dio”. Persino Galilei, colui il quale ha rivelato al mondo il principio di inerzia e le leggi che reggono il creato, era un creden-te e riteneva che la Scienza fosse un prezioso strumento per svelare i segreti divini. E credenti erano

anche Plank e Maxwell, i due padri della fisica contemporanea. L’atei-smo sarebbe, allora, una “contraddizione logica”. Esso infatti parte dalla negazione del Trascen-dente e affida tutta la sua credibilità al rigore dell’Immanente, cioè alla matematica e alla Scien-za. Senonchè né l’una, né l’altra riescono a fornire una spiegazione della presunta inesistenza divina. Come infatti poter rappresentare una realtà trascendente con degli strumenti che operano nell’immanente? Lavorando con i mezzi della Ragione, che por-tano alla nascita della logica immanentistica, scoprire Dio significhe-rebbe, paradossalmente, negarlo. Ripercorrendo le grandi scoperte scien-tifiche moderne, Zichichi dimostra come nel Ter-zo Millennio sia quanto mai urgente e necessario un dialogo e un connu-bio continuo tra Fede e Scienza. Questa grande alleanza, di cui un illu-stre promulgatore fu Gio-vanni Paolo II, è l’unica

sorgente di speranza per tutti, cre-denti e non, affinchè le Emergenze Planetarie, causate nel II millennio da una cultura mistificatrice che ha agito da supporto irresponsabile all’imperversante violenza politica imbottendo il mondo di armi nucle-ari nel dopoguerra, possano essere risolte. L’uso della cultura scien-tifica ha bisogno sempre di più di valori e la sorgente più autentica di questi ultimi non può che essere la Fede. Nel regno dell’immanente è la Scienza che ha aperto gli occhi sull’esistenza delle Leggi fonda-mentali della natura. Nel Trascen-dente è, invece, la Fede l’indiscu-tibile sorgente di coraggio in modo che l’utilizzo della Scienza non sia più contro l’uomo, né contro la vita, ma a favore della prosperità, della giustizia e del rispetto per la dignità umana. Ogni individuo do-vrebbe finalmente comprendere il limite della realtà di cui è costitui-to, non arrogandosi la presunzione di ergersi a creatore e inventore di qualsivoglia realtà. Del senso di eternità, mistero e spiritualità, in cui ogni uomo volente o nolente si rifugia con costanza, nessuno riu-scirà mai a dimostrare l’esistenza tramite un’equazione matematica o una scoperta scientifica. Ad uno sguardo profondo e consapevole, infatti, non può sfuggire la traccia di un’entità suprema nello spazio che circonda la nostra storia. Ecco la meraviglia, lo stupore che spinge molti di noi a credere, senza esita-zione alcuna, nell’esistenza di Co-lui che ha fatto il mondo.

Dai dati del Rapporto SVIMEZ all’analisi della realtàdel mondo del lavoro al Sud.

di Mimmo Minasi

Il recente rapporto sullo stato delle regioni meridionali presentato alla Camera dei deputati dalla SVIMEZ offre un quadro sconfortan-

te della condizione socio economica del meridione.Il rapporto parte dalla considerazione che l’attuale crisi economica

ha colpito il Mezzogiorno ancor più che il resto d’Italia e che non c’è, purtroppo, alcun segnale di ripresa, anche modesta. Non solo la disoccupazione è in progressivo aumento e diventa ancora più grande lo sconforto per cui il posto di lavoro molti non lo cercano nemmeno, ma addirittura si sono ridotti anche i consumi alimentari delle fami-glie. La crescente disoccupazione colpisce soprattutto i giovani, sia quelli con basso grado di istruzione che quelli con alle spalle lunghi anni di studio. Un terzo dei laureati al di sotto dei 34 anni infatti non svolge alcuna attività. Negli ultimi cinque anni i diplomati iscritti all’università sono diminuiti dal 70 al 60% e più del 25% di questi fre-quenta le facoltà del nord con la speranza che questo possa aiutarli a trovare più facilmente un posto di lavoro. Se a tutto ciò aggiungiamo il fatto che per la riduzione delle nascite il mezzogiorno perderà nei prossimi venti anni un giovane su quattro è facile prevedere come il Sud, da area ricca di menti e di braccia, si trasformerà in un prossimo futuro in un area popolata da anziani economicamente sempre più depressa. Da questa situazione non si esce soltanto con provvedimen-ti di carattere economico ma con scelte e comportamenti che siano in grado di colmare le differenze che separano il meridione dalle regioni ad elevato sviluppo sociale. Il Mezzogiorno non riesce a stare al passo con le aree più avanzate perché criminalità e comportamenti illegali lo isolano sempre più dal resto dell’Europa, perché la classe politica che lo amministra oltre ad essere spesso debole di fronte alla prepotenze è incapace di proporre nuove strategie di sviluppo e perché, di conseguenza, le forze migliori fuggono altrove.

Anche la nostra regione, come le altre del meridione, soffre di que-sti problemi ma l’aspetto più preoccupante, è l’insufficienza di reali prospettive di una inversione di tendenza che possa quanto meno ri-dare speranza a quei giovani che ancora hanno voglia di scommettere sul loro futuro nella nostra terra.

Le cause di questa difficile condizione socio-economica sono mol-teplici, tuttavia, una responsabilità importante non può non essere attribuita anche a chi, in questi decenni, ha amministrato la cosa pubblica. In tal senso il vero problema dei calabresi è probabilmente la cronica incapacità di saper scegliere una efficace classe dirigente. D’altronde i motivi che spingono a scegliere questo o quel candidato solo poche volte sono basati sulle reali capacità dei singoli, quasi sempre prevalgono motivazioni diverse, facilmente intuibili. Questo purtroppo avviene da sempre e le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Per porre fine a questa situazione occorre quindi un profondo cambiamento, etico oltre che politico.

E’ giunto il momento di una responsabile presa d’atto della situa-zione, di una profonda riflessione che, senza preconcetti ideologici, ci renda consapevoli che una trasformazione è possibile solo se le nostre future scelte, al di là degli schieramenti, saranno rivolte ad uomini provvisti di adeguate e riconosciute competenze che siano in grado, in maniera del tutto disinteressata, di mettere a disposizione della comunità la loro esperienza di vita. Uomini che non abbiano “biso-gno”, a qualsiasi titolo, di questa o quella qualifica politica, di questo o quell’incarico per accrescere la loro autorevolezza. Uomini capaci di dare risposte certe e convincenti sul perché si propongono come amministratori, sui loro obiettivi e, soprattutto, su come intendono raggiungerli. La necessità di operare scelte opportune e consapevo-li diventa pertanto l’ elemento imprescindibile di quel cambiamento tanto invocato che oramai non può più essere rinviato, nel nostro interesse ma soprattutto nell’interesse delle generazioni future.

la necessità di scelte consaPevoli

Lo scienziato Antonino Zichichi

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di Nella Cannata

Da qualche anno parole come spread, de-fault, rating, signoraggio sono diventate

di uso comune, non solo in tv ma anche in ufficio, in famiglia, nelle chat, dovunque si discuta dell’attuale situazione socio economi-ca del nostro Paese e della politica interna-zionale in genere. Solo fino allo scorso anno erano poche le persone che si interessavano di finanza e di borsa, al contrario, oggi qua-si tutti sembrano attenti a seguire col fiato sospeso l’andamento dei nostri BOT e BTP e l’altalenante incedere del loro tasso di rendi-mento, rispetto ai BUND tedeschi. Siamo in piena crisi, anzi siamo in piena recessione: i conti sono in rosso, il nostro Paese non è più in grado di fronteggiare gli impegni economici assunti: rimborsare alla scadenza prevista il denaro preso in prestito, pagare gli stipendi e le pensioni ai dipendenti pubblici. La situa-zione degli altri Paesi è più o meno simile con l’eccezione della Germania, considerato lo Stato più solido e affidabile.

Come è cominciato tutto ciò? Quali mecca-nismi ci sono dietro? Per comprendere i retro-scena di quello che viene definito “Inganno universale” occorre conoscere il funzionamen-to del nostro sistema monetario. Esso si basa sulla creazione di denaro che viene prestato a persone e aziende in cambio di interessi. Il ciclo parte dalla Banca Centrale che stampa dal nulla la moneta, pagando solo il costo di produzione che, ovviamente, non corrisponde al suo valore. (Una volta le banche per stam-pare danaro dovevano avere una riserva aurea che oggi non è più richiesta!) Ogni banconota, essendo carta, ha un costo ridotto di pochi centesimi l’una. La BCE presta le banconote allo Stato italiano che deve restituire il valore nominale della banconota così come è scritto sulla carta, per esempio per una banconota di 100 euro saranno chiesti 100 euro. Lo Sta-to darà in garanzia i propri titoli di stato con l’aggiunta di interessi. La BCE prende i titoli e li dà alle banche commerciali che a loro volta li vendono alla popolazione che pagherà real-mente, cioè con denaro vero e non virtuale, quei 100 euro che la banca stessa ha creato. Quindi di fatto, i 100 euro emessi torneranno al proprietario, attraverso il debito pubblico, che altro non è che il debito da saldare per lo stampo di banconote. Però, la banca non chiede solo 100 euro, ma aggiunge un interes-se pari al 2,5% del valore nominale. Quindi, per 100 euro emessi, la banca chiederà indie-tro 102,5 euro. Il signoraggio altro non è che quanto guadagna la banca per ogni banconota emessa, e, per una banconota di 100 euro, ammonta a 102,5 euro – i pochi centesimi del costo di produzione. Ma la banca ha stampato 100 euro, non 102,5, quindi il popolo deve tro-vare i soldi da ridare alla banca aumentando, così, il debito pubblico. Tecnicamente, dun-que, il signoraggio non è altro che il lucro che si genera dal creare moneta e costituisce il massimo potere del pianeta di cui ormai siamo divenuti schiavi. In Italia, fino a pochi anni fa, il signoraggio era diritto della Banca Centra-le d’Italia e, in seguito, della Banca Centrale Europea, entrambe private. Praticamente con tale sistema, di cui i mass media si guardano bene dal parlare (come pure i sindacalisti, i parlamentari, i ministri, i presidenti) si pro-duce un enorme e sistematico trasferimento di beni e di ricchezze dalle tasche dei citta-dini a quelle dei banchieri che usano questa montagna di crediti per comprare e controllare le compagnie petrolifere, le multinazionali, i media, le industrie di armamenti, le aziende farmaceutiche, i politici, e tutto ciò che permette loro di controllare il mondo. Con-

L’inganno universaleSi uSa dire che “il più grande inganno del diavolo Sia Stato far credere all’umanità che lui non eSiSte” ed è proprio

grazie a queSta diabolica tecnica che il Signoraggio è padrone del mondo.trollando la creazione del credito, i banchieri possono provocare boom o crolli economici, sia a livello nazionale che internazionale. Sappiamo che la depressione economica è causata da un crollo nella domanda di beni e servizi, in realtà essa si viene a creare quando non ci sono in circolazione abbastanza pezzi di carta e "denaro" elettronico con cui pagare quelle merci e quei servizi. Se si vuole cau-sare una depressione basta adottare misure per ridurre l'ammontare del denaro in circola-zione: ridurre il numero di prestiti concessi e alzare i tassi di interesse. Negli anni trenta le banche ritirarono il danaro dalla circolazione e rifiutarono la concessione di prestiti portan-do alla fame intere popolazioni. Si disse che non c'era denaro sufficiente per sfamarle né per costruire le loro case. Eppure, appena ini-ziata la guerra comparvero i soldi per i finan-ziamenti bellici. Ricordiamo anche che i Paesi del Terzo Mondo, da tempo, stanno cedendo la loro terra e le loro risorse ai banchieri internazionali poiché non sono in grado di rimborsare i grossi prestiti elargiti loro con questi subdoli propositi. Circolano parecchie voci sul fatto che nella storia dell’umanità alcune persone provarono ad abbattere questo sistema. Tra questi John F. Kennedy che nel giugno del 1964 osò sfidare la Federal Reserve Note, società privata che deteneva, e detiene ancora oggi, il monopolio sul conio monetario. A novembre dello stesso anno, il presidente venne ucciso e proprio a Dallas, una delle sedi delle dodici banche statunitensi. E prima di lui anche altri presidenti avevano tentato di imporre una banconota statale: Lincoln, McKinley e Roosevelt, tutti e tre uccisi. L'ex questore di Genova Arrigo Molinari citò in giudizio Bankitalia per “la truffa del signoraggio”. Aveva l'udienza il 5 ottobre 2005, ma venne ucciso a coltellate il 27 settembre...chi tocca il signoraggio muore! Da qualche tempo i grandi gruppi della finanza i n te r na z i o na le, guidati dalle grandi banche di investimento, tra cui la più famosa Goldman Sachs, dopo essere state ricapitalizzate dalla Federal Reserve americana che ha erogato 16 trilioni di dollari “inesistenti” per tenerle in piedi, si sono buttate sul patrimonio europeo. Hanno cominciato a comprare i buoni del tesoro, andando alla ricerca di quelli che avevano i più alti tassi di interesse: in primo luogo i bond greci, perché erano quelli più esposti che davano tassi di interesse più alti, poi sono andati a comprare quelli

italiani, considerando che l’Italia risulta tra i Paesi in maggiore difficoltà a causa della di-mensione del debito pubblico(anche se rap-portando debito privato e debito pubblico siamo messi meglio degli altri Paesi europei). Verrebbe da pensare che tutta questa sto-ria della bancarotta italiana sia stata messa in piedi ad arte, proprio per consentire alle grandi banche internazionali di comprare a basso prezzo e con soldi fittizi, i territori e le ricchezze artistiche e culturali del nostro Bel Paese, della Grecia, della Spagna. Del resto le leggi europee avvantaggiano, di fatto, la fi-nanza internazionale dimostrando chiaramen-te una responsabilità del Parlamento europeo che non ha saputo o voluto impedire queste speculazioni. Riflettiamo, a tal proposito, sul fatto che il nostro Premier è stato un uomo del-la Goldman Sachs e, comunque compromesso con le più prestigiose lobby internazionali. In Italia esiste il Comitato di Liberazione Mo-netaria che sta raccogliendo migliaia di ade-renti e si prefigge una radicale riforma mo-netaria e di far pagare le tasse alle banche, con un risparmio per la collettività di circa 90 miliardi di Euro l’anno. Ma la soluzione più efficace sarebbe quella di restituire al po-polo, quindi allo Stato, la funzione sovrana dell’emissione del denaro! Non ci sarebbe più il debito, né le tasse. Il potere non sarebbe più in mano alle banche e l'economia sarebbe fiorente.

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di Carmela Gentile

Perché no? Si può fare molto, moltissimo, con poco, non occorrono sacrifici e privazioni. Con il va-lore di uno stipendio da 1.500.00 euro si può arrivare a mantenere una famiglia di quattro persone

per un anno in Rwanda. Quattro persone per un anno. Con 30,00 euro al mese per bambino si garanti-sce la sopravvivenza di un asilo-con annesso noleggio di pulmino-nelle lande etiopiche dell’ignoranza e della fame. Con 500,00 euro l’anno si aiutano sei donne camerunensi diversamente abili a mantenersi costruendo bambole. Di queste briciole stiamo parlando. E allora, perché non farlo?

C’è troppa retorica in giro sull’egoismo che ci renderebbe distratti e insensibili, non ci è mai piaciu-to questo approccio al problema. A monte c’è prima di tutto una carenza di corretta informazione e l’uso spregiudicato, francamente ormai insopportabile, di tanto sensazionalismo. Dovuti, forse, anche un certo sfruttamento dei buoni sentimenti cui contribuiscono alcune martellanti pubblicità dell’ora di pranzo, da togliere la fame, da spegnere la tv, ma ottimi per commuovere e spingere a inviare un euro con sms.

Occorre convincere. Non cercare soldi. L’Occidente non è ostaggio dell’egoismo, è infiltrato dall’e-goismo. Abbiamo, grazie a Dio e alla nostra storia, anche altri valori. La solidarietà è uno di questi. Dai nostri contatti con i missionari siamo venuti a sapere di imprenditori (del Nord) che donano 50/100.000,00 euro. La solidarietà dura e cresce nel tempo, la commozione funziona subito e subito passa, premendo “invio” sul cellulare. C’è bisogno di altro e noi vogliamo dare una mano a costruirlo.

Sulla scia di quanto scritto, quello di cui noi riteniamo ci sia bisogno si può spiegare così: è necessa-rio che le motivazioni e i progetti che spingono le grandi ONG a raccogliere soldi via sms si diffondano tra la gente, per suscitare un movimento di solidarietà diffusa, coinvolgente, partecipativa e molto più produttiva; un movimento che, aggiunto all’impegno delle ONG, non potrà che potenziarne in modo esponenziale gli effetti.

Per suscitare un movimento nuovo, vasto, diffusibile, occorrono volontari. Pace sulla Terra Comunità di Adozione a Distanza ONLUS è nata per questo. L’associazione propone progetti di adozione a distan-za di famiglie e comunità, con la possibilità del rapporto diretto con gli adottati tramite i missionari e internet. Si punta a dare strumenti alle famiglie per costruirsi le condizioni minime dell’autonomia economica e alle comunità per realizzare i programmi di sviluppo umano ed economico. Ogni donatore è legato ad un progetto identificato di cui può seguire gli sviluppi. I nostri volontari sono impegnati a diffondere la conoscenza dei progetti nelle comunità parrocchiali e nell’ambito delle proprie relazioni.

Ma obiettivo “strategico” di Pace sulla Terra, siamo associazione ecclesiale riconosciuta dall’Arci-vesco di Reggio Calabria, è suscitare nelle parrocchie l’impegno adottivo verso le parrocchie povere del Sud della Terra, secondo le indicazioni del Decreto “Ad Gentes” n. 37. Siamo certi che attraverso le parrocchie sia possibile quella capillare diffusione dell’impegno volontario che è indispensabile a cambiare, moltiplicandoli, i numeri del rapporto solidale Nord Sud. Non chiedeteci di spiegare perché ne siamo certi: è una questione di fede, di Amore. Contiamo su di Lui. Ci siamo capiti!

Luigi Sorrenti

Adozioni a distanza, perché?

La Chiesa Cattolica quest’an-no ha festeggiato la Sacra

Famiglia il 26 Dicembre. Nella dottrina cristiana la Sa-

cra Famiglia è stata sempre rite-nuta un modello fondamentale della famiglia umana. I legami di affetto, di amore, di comprensio-ne che le famiglie sono chiamate a rinnovare continuamente, sono particolarmente espressi e vissuti nella Sacra Famiglia.

I componenti della Sacra Fami-glia sono Giuseppe, Maria e Gesù.

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LA FESTA DELLA SACRA FAMIGLIA

Di Giuseppe non si sa molto; i Vangeli raccontano il fidanzamen-to con Maria, l’avviso dell’angelo per la futura maternità voluta da Dio, con l’invito a non ripudiar-la, il matrimonio con lei, il suo trasferirsi con Maria a Betlemme per il censimento, gli episodi con-nessi alla nascita di Gesù, in cui Giuseppe fu sempre presente.

Fu sempre lui ad essere avvi-sato in sogno da un angelo, dopo l’adorazione dei Magi, di mettere in salvo il Bambino dalla persecu-zione scatenata da Erode il Gran-de e Giuseppe proteggendo la sua famiglia, li condusse in Egitto al

sicuro.Dopo la morte dello scellerato

re, ritornò in Galilea stabilendosi a Nazareth; ancora adempì alla legge ebraica portando Gesù al Tempio per la circoncisione, of-frendo per la presentazione alcu-ne tortore e colombe.

La tradizione lo dice falegna-me, ma il Vangelo lo designa come artigiano; viene ancora menzionato nei testi sacri, che conduce Gesù e Maria a Gerusa-lemme, e qui con grande appren-sione smarrisce Gesù, che aveva dodici anni, ritrovandolo dopo tre giorni che discuteva con i dottori

nel Tempio; ritorna-ti a Nazareth, come dice il Vangelo, “il Bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza e la gra-zia di Dio era sopra di lui”.

Di Giuseppe non si sa altro, nemmeno della sua morte, av-venuta probabilmen-te prima della vita pubblica di Gesù, cioè prima dei 30 anni.

Il secondo membro della Sacra Famiglia è Maria, una vergine adolescente, umile e devota, scelta da Dio per incarnarsi. Maria accolse Gesù nel suo grembo, senza aver mai “conosciuto”, uomo: sposò Giu-seppe, uomo umile e giusto che accet-tò di condividere con Maria il difficile compito di diventare genitore “putativo” di Gesù.

La terza perso-na della famiglia è Gesù; con la sua pre-senza essa diventa la Sacra Famiglia; an-che della sua infan-zia non si sa pratica-mente niente; Egli, il Figlio di Dio, vive nel nascondimento della sua famiglia terrena, ubbidiente a sua madre ed a suo padre, collaborando da grandicello nella bottega di Giuseppe, meraviglioso esem-pio di umiltà.

Certamente assi-sté il padre putativo nella sua vecchiaia e morte, come tutti i buoni figli fanno, ubbidientissimo alla madre, ormai vedo-va, fino ad operare per sua richiesta, il suo primo miracolo pubblico alle nozze di Cana.

La Sacra Famiglia racchiude in sé il “dogma” della reli-gione Cattolica Cri-stiana che la rende modello ed esempio per tutta l’umani-tà. Gesù, che è Dio, sceglie di condivide-

re la condizione umana, diven-tando figlio di Giuseppe e Maria, persone umili e giuste che, ac-colgono il figlio di Dio con grande amore e semplicità. Sono proprio queste due qualità a rendere i due genitori la culla ideale per l’incarnazione del Figlio di Dio. Persone semplici che, pur non comprendendo fino in fondo il grande mistero dell’Incarnazio-ne, si donano in maniera totale ed esclusiva.

Indipendentemente dal credo religioso, la celebrazione della famiglia è, più che mai attuale nei giorni difficili che stiamo vi-

vendo, poiché essa rappresenta il primo nucleo di ogni Società umana in cui i rapporti che le-gano i membri di una famiglia devono essere improntati al ri-spetto, alla solidarietà ed all’a-more reciproco. Ciò rappresenta anche il fondamento dei rapporti umani in seno alla Società civile che può progredire soltanto se i propri componenti vivono nel ri-spetto delle regole che formano il tessuto di tale società.

Per questo motivo, il richiamo alla Sacra Famiglia rappresenta il modello a cui ispirarsi. All’interno di una famiglia unita, le difficoltà possono essere affrontate e supe-rate con spirito di sacrificio e di solidarietà e la condivisione dei problemi e delle preoccupazioni quotidiane consente di affrontarli in modo più sereno e di giunge-re più facilmente alla soluzione. In poche parole, “l’unione fa la forza!”

Viviamo in un’epoca estrema-mente materialistica, caratte-rizzata da un decadimento dei valori morali. Riconosciamo so-vente un unico dio: il denaro. Per questo siamo disposti a tutto. Il denaro si impossessa delle nostre vite, culture, perfino dei nostri sentimenti e ci rende simili alle macchine.

La crisi che ha investito le So-cietà capitalistiche, forse è ser-vita a farci comprendere quanto fallaci possano essere i falsi idoli e, forse, ci fa comprendere con la giusta prospettiva la scala dei valori.

D’altronde se proviamo a guar-dare i libri di storia ci rendiamo subito conto che, coloro che ri-mangono a futura memoria non sono quelli che hanno saputo ac-cumulare meglio ricchezze, ma coloro che si sono adoperati per il bene dell’umanità e con le loro opere hanno contribuito alla cre-scita della civiltà umana.

A questo proposito, mi è capita-to, qualche tempo fa, di ascoltare una intervista alla scienziata Rita Levi Montalcini che alla veneran-da età di centouno anni e, pur professandosi totalmente laica, ha interamente donato la propria vita per il progresso dell’uma-nità. Non si è mai costruita una famiglia propria perché ha prefe-rito abbracciare tutta la famiglia umana, e ha dedicato un’intera vita allo studio per contribuire a comprendere la genesi di alcune malattie neurologiche, ricevendo il premio Nobel per le sue sco-perte. Ha creato una fondazione a beneficio delle donne dei Paesi sottosviluppati, per garantire loro la possibilità di studiare, perché, crede che solo la cultura possa sconfiggere molti mali dell’uma-nità. Ella rappresenta a mio av-viso un grande esempio di amore “materno” verso l’umanità tutta, pur non essendo mai stata madre nel senso letterale del termine.

Ho voluto ricordare la sacra commemorazione della famiglia nella speranza che vengano ri-scoperti i legami ed i valori insiti nel concetto stesso di “famiglia”, che in questi anni caratterizzati dalla perdita dei principi morali, vengono spesso messi in discus-sione.

La Sacra Famiglia di Juan Simón

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venite per solidarietà umana a far visita due ore alla settimana a questi infelici e li tormentate, raccontando favole e parlando di fate, di re e di regine, di af-fetto e di bontà e li baciate e li abbracciate e poi ve ne andate e forse non tornate più… E i bambi-ni non fanno che ripetere i vostri nomi e parlare di voi, piangono di nascosto e si ribellano alle re-gole. Loro che non hanno nome, figli indesiderati e invisibili di questo mondo senza coscienza, cominciano a vagheggiare false speranze, a credere che gli altri li vogliano bene: invece non devono dimenticare mai che la vita con loro sarà molto dura. I bambini lo sperimentano ogni volta che li mettiamo in fila davanti alle cop-pie di genitori adottivi. C’è chi lo vuole maschio, chi femmina, ma soprattutto perfettamente in salute, chi con gli occhi azzurri, chi biondo, chi bruno, chi con la fossetta, chi pretende che somigli anche a qualche suo antenato e poi ancora che sia intelligente e che non faccia i capricci... e poi questo e poi quello... Nessuno vuole un figlio per dare e ricevere amore! Prima di ogni cosa viene il proprio egoismo!” La suora capì che aveva esagerato e concluse dicendo ”I bambini non sono no-stri, noi li accogliamo quando li abbandonano fuori al portone, li cresciamo e li rimandiamo in quel mondo che li rifiuta; Berna-dette sarà felice, è andata in una buona e generosa famiglia che le darà tanto amore.” Rivolgendosi a Giulia, concluse: ”se vuoi prega per lei e non piangere, non serve a nulla.” Giulia cercò lentamente di ricomporsi, anche perché altri piccoli ospiti la chiamavano e la tiravano per la gonna. Finalmen-te anche quelle due ore trascor-sero. Tornando verso casa, Lo-redana giustificò l’operato delle suore, anche se non ve ne era bi-sogno: erano chiamate a svolgere un lavoro sociale molto gravoso e delicato. Dopo quel giorno Giu-lia non si recò più al brefotrofio, ma non per orgoglio o ripicca nei confronti delle suore, più sem-plicemente perché pensava, e lo pensa ancora, che l’amore è un dono, che viene dal cuore e non costa nulla. I bambini hanno bi-sogno di sentirsi amati così come hanno bisogno di aria per respi-rare. Dopo molti anni, di Berna-dette le è rimasto un ritratto a matita ormai sbiadito. Tra il 1970 e il 1980 furono gradualmente chiusi tutti i brefotrofi e si pas-sò a forme di assistenza familiare più adeguate, con vari tipi di affi-damento e adozione, per aiutare e sostenere sia le madri che i loro bambini. Negli ultimi trenta anni verso questo fenomeno è cresciu-ta l’attenzione della società, che rifiuta l’abbandono e l’emargina-zione: tutti “i figli di nessuno” sono ormai usciti dall’ombra dei brefotrofi.

(Da una storia vera)

Più tardi, per strada, fu Lore-dana a rompere il ghiaccio,

interpretando il silenzio di Giu-lia come naturale conseguenza della sua prima visita al brefo-trofio. Giulia, che a quella visita era stata in parte preparata dalle amiche, dovette convenire che immergersi in quella cruda real-tà è tutta un’altra cosa. Elisa la rincuorò dicendole che loro non potevano fare altro che donare un po’ del loro tempo libero a quei piccoli innocenti. Loreda-na, gran parlatrice, fece un lun-go discorso, alla fine del quale sembrò quasi che quei bambini fossero dei privilegiati. In fin dei conti cosa gli mancava? Avevano una casa, del cibo, dei vestiti puliti, anche se modesti, erano assistiti dalle suore con carità cristiana, perciò qual era il loro disagio? “Ma non hanno affetto, non ricevono nemmeno una ca-rezza, sono affamati d’amore!” avrebbe voluto obiettare Giulia, ma la vista dei bambini l’aveva provata a tal punto che si limitò a dire “Mi sembrano tanto soli e infelici questi bambini!” Arrivò la settimana successiva e Giulia, che prima di quell’esperienza pregava che le vacanze durassero a lungo, adesso le trovava inter-minabili: spesso si ritrovò a pen-sare ai bambini del brefotrofio, ma soprattutto a Bernadette… si era ripromessa di non andare più a trovarli, ma si accorgeva, an-che con una punta di rabbia nei confronti della sua debolezza,

Un amore di gioventù

Cassiopea

che contava i giorni per ritor-narci. Ogni domenica, per tutto il mese di luglio, le tre giova-ni visitatrici si ritrovarono con i bambini. Giulia si era affezionata a Bernadette e la bimba dal can-to suo ricambiava questo affetto con ogni suo sguardo. Quando Giulia pensava di non essere vista dalle suore la abbracciava e le copriva il visetto di teneri baci. L’ultima domenica di luglio portò con sé un foglio di album e con pochi segni sicuri e precisi, così come aveva imparato a scuola, tratteggiò con una matita il vol-to di Bernadette. Il disegno era di una somiglianza impressionan-te. Giulia lo piegò e lo conservò in una tasca della gonna: adesso non doveva più aspettare la do-menica per vedere la sua piccola amica. In quella prima settimana di agosto a Napoli faceva davve-ro caldo, le ore del pomeriggio, pregne di tutto il sole della gior-nata, venivano avvertite ancora come roventi. Per strada, a parte qualche marinaio a zonzo con la ragazza di turno, c’erano pochis-sime persone; tra queste le tre amiche che, sfidando anche la calura estiva, andavano alla casa dei trovatelli. “Con questo caldo i bambini non saranno di certo nel cortile, perlomeno i più piccoli” esordì Loredana, “Sicuramente ci aspetteranno nel refettorio, o in camerata e io non vedo l’ora di incontrare Bernadette!” sen-tenziò Giulia. Con questa spe-ranza nel cuore varcò il portone dell’istituto. I bambini erano nel refettorio, un vasto salone dalle volte settecentesche, molto fre-sco, considerata l’afa esterna.

La semplice, sincera allegria dei bambini accolse le tre amiche, che cominciarono a salutare tutti quelli che presto le circondarono. Gli occhi di Giulia cercavano feb-brilmente Bernadette, che però non era in nessun gruppo… con-tinuò a guardarsi intorno ma alla fine chiese notizie ad un’inser-viente, che con una certa ritrosia si limitò a qualche “non so”. Giu-lia temette che la bimba stesse male e decise di chiedere ad una suora che, appena udito il nome, abbassò lo sguardo. La ragazza capì che qualcosa non andava ed ebbe il torto di insistere; la suora rispose cortese ma sibillina “Ber-nadette non c’è!” La sua risposta non lasciava spazio ad altre do-mande, Giulia invece replicò “E dov’è?” La suora, che stava per uscire dalla grande sala, si fermò, si girò e guardando Giulia disse ”Bernadette ha avuto la fortuna di essere adottata, buon per lei, è andata lontano con gente che le vorrà bene… e tu mettiti il cuore in pace, non la rivedrai mai più”. Le palpebre di Giulia si chiusero sotto il peso di grosse lacrime, che rotolarono sulle sue guance senza ritegno, mentre il suo pet-to si inarcò per il colpo al cuore che aveva appena ricevuto. Ave-va perso la sua piccola amica, il suo grande amore… chissà cosa aveva provato Bernadette ad es-sere consegnata a due perfetti sconosciuti, chissà dov’era, chis-sà se la pensava. Alcuni bambi-ni attorno a lei avevano assistito alla conversazione e guardavano contriti, anche Loredana ed Elisa si avvicinarono. La suora riprese a parlare con toni più duri ”Voi

SECONDA PARTE

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23LA SATIRA

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di Felice Badolati

Intendiamoci subito: l’idea di malocchio, la paura del-

la iettatura, le difese relative e l’invidia fanno parte della natura umana, garantita e trasferita da una generazione all’altra, pro-prio come patrimonio genetico. Ed è di tutti. Perché tutti, chi più chi meno, anche quando altezzo-samente o timidamente afferma-no <<non è vero, non ci credo, ma va là...>>, quando qualcosa non va finiscono con il dire - quanto meno a se stessi - “è una jetta-tura”, oppure “è tutta invidia”. E in conseguenza, “facciamo scon-giuri”!!!

Chi non l’ha mai detto o fat-to, stampi un manifesto! La sola differenza ammissibile - nel senso che può essere creduta e accettata - sta nelle precauzio-ni che ciascuno prende. Ecco ci sarà chi esce da casa solo dopo avere pregato (pochi), oppure compiuto lo stesso gesto nelle stesse forme (molti), o-e sono davvero tanti ad avere controlla-to di portare in tassa o al collo o al braccio, comunque con sé, quel determinato oggetto che si è considerato come l’usbergo, la garanzia, lo scudo e... e quant’al-tro possa proteggere ed assicura-re una giornata possibile, se non proprio serena. C’è chi porta con sé il classico corno, le cui dimen-sioni sono lasciate alla libera determinazione di ciascuno ed alla capienza delle tasche. L’im-portante è che sia rosso, abbia quella strana forma “a vite” che ricorda tanto un simbolo fallico (ovviamente non umano! Tutti però abbiamo viste le riproduzio-ni di pitture romane, o di quadri medievali, nei quali era raffigu-rato il dio Pan: metà uomo, metà caprone, metà maiale...). Era un dio temuto, per eventuali effetti “negativi”, ma anche molto imi-tato in quell’epoca, dato che i costumi non erano così castiga-ti. Diciamo che oggi i nostri non sono molto diversi, vista l’impor-tanza che ha il sesso nella tota-lità delle espressioni, nella moda che ci costringe a guardare seni mostruosi e antiestetici. Per non dire di tutto quello che ci viene propinato in televisione, cinema, libri e giornali.

Ma non sono in grado di stabi-lire come, quel simbolo bestiale, possa influire nella protezione o meglio come garanzia... A meno che non si tratti di quella legge di fisica - della elettricità - per la quale, una punta attira su di sé la carica elettrica ed evita che il fulmine cada tutt’intorno con ri-schio per tutti. E’ possibile. Cer-ta cosa è, che quasi tutti, gran-de o piccolo, di corallo (finto) o d’argento, nl polso al collo, nel mazzo di chiavi e che ne so io, ne

FORA GABBU E FORA MERAVIGGHJA

hanno uno. I più preoccupati per l’uso smoderato dell’automobile, ne hanno uno, per alcuni, è in bella vista appeso allo specchiet-to retrovisore; per altri, è appeso accanto alla chiave; ma qui può dare fastidio e allora lo si trova appeso ad uno dei pannelli o del-le levette che dovrebbero avere altra destinazione. L’importante è che il corno ci sia. E in auto sia di proporzioni adeguate…

Poi ci sono i raffinati. Non si possono fare nomi, ma c’è chi accanto al corno - il principe in-contrastato - pone una grattugia. Sì proprio quella che serve per grattugiare il formaggio. Ovvia-mente di proporzioni inferiori: 3-4 centimetri in tutto, quantum sufficit: quanto basta, tanto ser-ve a che lo iettatore vi si possa grattare le corna!!!... e non fare del male al misero automobilista. Bisogna riconoscere che ci vuole ingegno, se non scienza!!!

Come è ovvio, accanto a que-sti simboli della difesa legittima, un posto particolare è occupato dalle “corna”. Oggi, queste, van-no dall’autarchico gesto che vede il pugno chiuso dal quale fuorie-scono indice e mignolo spianati ed indirizzati verso il soggetto pericoloso; oppure verso l’alto in gesto ecumenico a protezione di tutti. O, ancora diretti verso il basso, verso terra, quando si vuole far capire all’interlocutore che si apprezza quanto ha fatto o, per la salute riconquistata, senza che ciò possa essere inte-so come “malaugurio”, ma venga accettata come partecipazione e augurio. C’è tutta una tecnica in materia.

Sono molte, poi, le anime gen-tili che usano donare, come im-pegno e prova d’amore un gioiel-lino d’argento, piccolo, a forma di mano che fa le corna... Come resistere a tale prova d’affetto?

Ormai, non se ne vedono più tante in giro, ma una volta, sul-la porta delle macellerie, faceva bella mostra di sé un bel trofeo di coma di bovino. Stava lì, un po’ come insegna ed un po’ di più per proteggere il macellaio da quel-la forma virale epidemica che è l’invidia. Maggiore era il succes-so commerciale, più grosso era il

trofeo.E, intendiamoci, la cosa non era

limitata alle macellerie perché, nascosta alla vista ma ben pre-senti, più o meno grande il trofeo di bue c’era: in bagno, nel depo-sito, sull’arco dietro la porta che immetteva dal locale di vendita al retrobottega...ma c’era, im-ponente, fermo rassicurante con quelle punte rivolte verso l’alto: forse per attirare i fulmini...

Anche in campagna - ed ancora oggi se ne vede qualcuno su vec-chi diruti fabbricati - ogni canti-na, ogni frantoio -, ogni deposito lo inalberava come un vessillo: in cima al tetto là dove le due fal-de si incontrano, c’era un trofeo di corna indistruttibile, imperti-nente, deciso ad affrontare ogni tempesta.

A questo punto è naturale chie-dersi, “nelle case, a tutela delle abitazioni non c’era qualcosa?” Domanda intelligente.

Certo che c’era. Ma questo di-pendeva dalla cultura antica. Che c’entra la cultura? C’entra e come. Perchè questa nostra Piana ha due sorgenti culturali diverse, sulle quali, dopo, hanno inciso le varie dominazioni. Alla base di tutte ci sono: la grecità portata dai Micenei, Achei, Eubei, Ioni eccetera che, dopo avere colo-nizzato lo Ionio, sono passati sul Tirreno a Medma e lpponion; e la romanità con il suo corredo di deità e superstizioni più terrestri rispetto a quelli. Così che nelle zone a prevalente influenza gre-ca, invece delle coma - simbolo della cultura agreste/campagnola della civiltà, pre e post Cristo, le-gata alla terra ed ai suoi simboli più importanti: il bue che trascina il carro, conduce l’aratro, produ-ce carne -, c’erano i “Babbaluti”.

Erano, questi, delle statuette a forma di uomo con in testa un gran cappello (un corno... umaniz-zato! Simile al cappello indossato dal Doge di Venezia - e chi sa che non abbiano la stessa origine...) con lo sguardo fisso in avanti, brutto, repellente, posto anch’es-so sul colmo del tetto. Ogni villa o casa di campagna ne aveva uno, a protezione e garanzia.

Simbolo della protezione che gli dei (quelli greci erano molto

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FORA GABBU E FORA MERAVIGGHJA“U malocchiu”

umani, anzi del tutto umani visto che rappresentavano i vizi e le virtù dell’uomo). Chi non ricorda la casa di Ulisse? I romani invece veneravano gli antenati, uomini certo, ma solo ‘quasi’ dei, spiriti che proteggevano.

Cosi, quale che sia l’iconogra-fia, ognuno secondo le proprie origini si è protetto, nei secoli, da quella terribile malattia che comincia con la semplice invidia (lo starnuto) e si trasforma poi in jettatura (la febbre). Accanto a questi simboli, come dire, con-creti, che però presuppongono un regalo, nel senso che debbono essere il dono di qualcuno che ci vuol bene, c’è, poi, ma solo per i maschietti un altro ‘simbolo’, questa volta naturale. A lui si ri-corre quando d’improvviso venia-mo colpiti dallo sguardo o dalla altrui attenzione. E’ istintivo ab-bassare la mano e raggiungere il nostro compagno di gioventù... A proposito di questa scaramantica operazione, per vero volgare, si tramandava negli ambienti go-liardici una formuletta magica che veniva attentamente recitata quasi con religiosa cura. Ed era, in fondo, un residuato delle re-ligioni precristiane affidate solo alla gratitudine di dei cui si offri-vano sacrifici.“Terque quarterque tactis pallis, palliatoque augellosic modo mala iactura fugatur”.

E’ lampante, per non dire ov-via, la paternità di quei goliardi che dalla fine dell’800 alla se-conda metà del novecento, (fino a quando l’ideologia politica o politicante non uccise la spen-sieratezza e la voglia di ridere di se stessi e del-mondo, affannato nella ricerca di denaro) riempiva-no di sé e della loro traboccante

allegrìa le città sedi di università. Certo, una invenzione ma, con altrettanta certezza, una rivisi-tazione di antiche scaramanzie.

Quale che possa essere l’e-spressione, più o meno pubblica o soggettiva, della difesa messa in essere dal “soggetto passivo”, re-sta ii fatto che “IL MALOCCHIO’’ (l’etimologia è evidente) è sem-pre esistito sia, nella paura del-la gente che, nella attività con-seguente all’invidia. Addirittura parrebbe, che le ziggurat - le tor-ri babilonesi - fossero destinate a raggiungere il cielo e quindi non essere raggiungibili dall’occhio della gente.

Cosi come pare che Abramo sia fuggito da Ur - città Sumera (Ur dei Caldei: coloro che occu-parono poi l’odierna Palestina..”) - perché le sue capre non figliava-no, come sua moglie...

E così via, passando dagli Ebrei, prima e dopo Mosè, i Fenici, i Greci ed i nostri progenitori Osci-Ausoni-Enotri (cioè Lucani) che scolpivano nella pietra e nella ce-ramica corpi di donna formosa e materna: solo la mamma proteg-ge i figli... C’è un’altra tradizione, però, che non si sa bene da dove venga. La particolarità “locale,” - Bagnara e gli insediamenti dei Bagnaroti lungo la Costa Viola - porterebbe a pensare ad una in-fluenza nordica, magari norman-na visto che questi banditi (i Nor-manni) - poi divenuti gentiluomini - avevano dimestichezza col mare (erano pirati) e si insediarono lun-go le Coste, lasciando in eredità, occhi azzurri, capelli biondi e una altezza superiore ai “Terronicoli”. Sta di fatto che, nelle saghe nor-diche gruppi di donne lacrimanti e scarmigliate (e discinte: forse per richiamare in vita... il mor-

to!), si riunivano per piangere il defunto, allontanare la morte o la malattia. Cosi come, nel me-dioevo europeo nordico avveniva nelle foreste. Anche se poi, le poverette vennero bruciate come streghe, perché invece di “coglie-re”, cioè cacciare il malocchio, lo concretizzavano in materiale,’il più vario, per lanciarlo verso un nemico, loro o altrui. A Bagnara, invece, ecco la differenza con le popolazioni terricole e allogene, le donne piangevano, sì, ma per allontanare il malocchio, per al-zare muri a difesa di una persona o di una famiglia, di una barca da pesca o di una casa, di qualunque cosa, insomma, che abbisognasse di protezione.

La modernità, meglio la televi-sione - e se no che altro? - ha di-strutte facendole sparire queste attività che erano bene remune-rate, peraltro. Nel senso che, or-mai, si continua solo a dire “chia-miamo le bagnarole mi ‘ndi cian-ginu”. Ma è rimasto un modo di dire. Anche perché, le bagnarote non vestono più le gonne plisset-tate, i corpetti con la vita sotto il seno, ed in testa un fazzolet-tone arrotolato. Oggi seguono la moda, la tv, e non hanno tempo

per queste stupidaggini.Stupidaggini un corno (ecco che

torna!): il malocchio c’è ancora negli amici prima che nei nemici, nei parenti prima che negli estra-nei, nelle parole e negli sguardi!!! FORA GABBU E FORA MERAVIG-GHJA!!! La potenza varia, à se-condo del soggetto, che abbia o meno occhi biancastri, oppure occhiali neri, sorrisi sfuggenti e parole mielose. Guai a sottovalu-tare queste persone, guai a farsi vedere bene in salute!!! Meglio, molto meglio lamentarsi (tanto “u picciu coli”). Ma molto meglio un corno, una “grattarola” una manina con l’indice e il mignolo alzati. E meglio ancora essere maschi e... mettere la mano in tasca... con noncuranza, ma ra-pidamente.

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Ha poco più di ventanni Ro-sario Belcaro quando scrive

questa lirica, che, tra l’altro, non ritiene degna di inserire nelle sue raccolte pubblicate, mentre a me pare di una freschezza univa e lievitante, esempio di poesia po-polare certamente avvicinabile ai grandi del genere. Potrei essere tacciato di speculazione poeti-ca, se lo abbinassi a Franco Co-stabile, considerando la similare tristezza delle loro esistenze, ma fino a un certo punto.

Fa bella mostra di sé in libreria, tronfio e orgoglioso, questo libro, antologia critica di Rosario Belca-ro, poeta di Maropati, scoperto casualmente per dono fattomi da Fortunato Seminara.

Eravamo andati a fargli visita nella sua casetta di Maropati, nel 1980, io, mia moglie e Nanù Zap-pone.

“E’ un personaggio straordi-nario che aveva grande stima di Mimmo. Se riusciamo a staccarlo dalla campagna e dalla vigna per qualche ora vedrai che rimani soddisfatto.”

Non avevo necessità di farmi convincere. Conoscere Seminara, nella sua casa, nella sua Maropati era per me motivo di orgoglio.

Mi avvicinai quel giorno a un uomo eccezionalmente lucido sulle vicende della cultura cala-brese, sui suoi mali, sulle qualità eccelse di alcuni esponenti, sulle negatività di tanti faccendieri e salottieri della cultura, copia-incolla, come oggi amo definirli, che tanto male fanno alla Cala-bria, marcandola di gretto pro-vincialismo.

Può essere che in altra occasio-ne scriverò più dettagliatamente dell’incontro con il grande scrit-tore. Ci offrì dolci e caffè, rude, burbero, ma pieno di attenzioni per gli ospiti.

Ai saluti, capì che il giovane scrittore che ero, si aspettava da lui qualcosa in ricordo dell’incon-tro.

“Aspetta!” mi disse, e ciondo-lando si allontanò dalla cucina dove ci aveva ricevuto per ritor-narvi dopo pochi minuti.

“Ti aspetteresti qualche mio li-bro e invece, mi farebbe piacere che ti interessi a questo scrittore di Maropati che tanta poca fortu-

StORIA DI Un POEtA cAlAbRESE AttRAvERSO Un lIbRO UnA DEDIcA E UnA POESIA

IL GIORNO DEL GRANO

Oggi è il giorno del grano e non stupitevi

se io, riposti i libri, vengo a impugnare la falce con voi.

Oggi è il giorno del granoe con voi voglio sudare

e ubriacarmi di papaveri.Forza, compagni, cantiamo!

E voi donne lasciateci cantarestrambotti per l’amata

e ser iteci gli orcioli di vinogià sotterrati per tenerli freschi.

Forza Rocco, Michele accompagnatei miei stornelli in coro

e attenti a non mietervi le mani:oggi non abbiamo bisogno di sangue

ci basta il nostro sudore.E voi donne non tenetemi il broncio

se canto per le donne di città.Via! Portate i fasci di grano

e alzate i covoni sull’aiae dateci da bere

e cantate, cantate con noi:oggi è il giorno del grano!

Stasera ci fermeremo fino a tardi per fare quattro salti a tarantella

e ballerò con tutteanche con zia Teresa la più vecchia

se non sarà ubriaca di stornelli.

na ha avuto nella vita.”Mi consegnò: POESIA DI ROSA-

RIO BELCARO antologia di tutte le poesie edite e inedite, curata da Emma La Face tre anni dopo la morte – Fiorentino editore Na-poli – 1973, vergando a mano la seguente dedica: dal Padre del Poeta e da Seminara, a Natale Pace.

Ne rimasi visibilmente deluso, ma a casa, assetato come sempre di letture e poesia, non mancai di bere tutto d’un sorso i versi e la vita di questo giovane sfortunato poeta calabrese, comprendendo, man mano che andava avanti la conoscenza dei suoi versi, le mo-tivazioni del dono di Seminara, la sua voglia di farlo conoscere.

Belcaro, nacque a Maropati, piccolo centro di poche migliaia di abitanti della Piana, il 9 aprile 1941 da Giorgio e da Rachele Pan-gallo, studiò nel paese di origine le scuole elementari, diventando viaggiatore di pulman e treni, pendolare nella vicina Polistena per le medie e a Reggio Calabria, dove si trasferisce nel 1957 per frequentare l’Istituto Tecnico In-dustriale. Non arrivò al diploma. Non era certamente il corso di studi adatto alla sua sensibilità, ma allora (ancora oggi a dire il vero), dalle nostre parti si optava per la scuola tecnica convinti che agevoli l’inserimento nella vita lavorativa.

Rosario, ancora giovanissimo, avvia una felice collaborazione a vari giornali e periodici di cultu-ra.

Nel 1963 pubblica un gruppo di liriche dal titolo”Olezzo di Calicanto” che vengono inserite nel XIX volume di “Nuove Voci” pubblicato da La Procellaria di Reggio.

Prima ancora di questo esordio, viene segnalato al Decimo Con-vegno Poetico del 1962, mentre l’anno dopo, 1963, allo stesso XI Convegno Poetico, vince ex ae-quo.

L’anno dopo, 1964, da alle stampe il primo volumetto di po-esie tutto suo “E sono pietre i giorni”.

La raccolta venne giudicata as-sai positivamente dalla critica:

Scrisse Decio Belli:“… una prima raccolta di poe-

sie dell’anima nei suoi molteplici riflessi umani. Poesia Vasta e dol-ce. …Quel che importa osservare è la evidenza con la quale il Bel-caro seguendo l’impulso dei suoi sentimenti, esprime i suoi stati d’animo attraverso un linguaggio

così vero e vivo da lasciar traspa-rire l’accordo del suo interiore con la realtà… Il Belcaro è tanto giovane e così poeta!”

E Salvatore Terranova sul Pro-gresso Italo-Americano:

“… la sua parla al lettore, al critico, con la dolcezza morale della sua anima…”

Segue nel 1967 il volume “Una lunga ossessione” che rappresen-ta un nuovo punto di arrivo e di partenza nel suo cammino poe-tico. In questa occasione la Fie-ra Letteraria esalta la grandeur poetica di Rosario, pubblicando in anticipo sull’uscita del libro, alcune tra le liriche più significa-tive.

Anche Napoli Notte ne pubblica alcune.

Lo stesso anno 1967 il Premio Nazionale di Poesia e Saggistica F.D’Ovidio, lo premia con meda-glia e diploma con lauro sempre verde per la poesia “ATTESE”, scelta tra circa 1000 liriche con-correnti.

Su Libri Nuovi, scrive Domenico Grugnali a proposito della raccol-ta “Una Lunga Ossessione”:

“… la Poesia di Rosario Belcaro, viva, spontanea, rivelazione di un ricco mondo interiore, fa bene all’anima.

… io vorrei che leggessero que-sto libro tutti quei giovani fatui che si interessano quasi esclusi-vamente di cantanti più o meno zazzeruti, di calciatori, di conte-stazioni fasulle e simili idiozie. Ne riceverebbero una lezione di vita.”

E’ la consacrazione definitiva per il giovane poeta di Maropati, ma è un’ascesa destinata purtrop-po a fermarsi all’inizio della sali-ta, perché Rosario Belcaro è già, a Napoli, minato da una malattia terribile, senza guarigione, che lo costringerà a un letto d’ospedale, condannandolo a chiudere la sua infelice esistenza, a meno di ventinove anni, a Napoli, il 30 gennaio 1970.

Due distinte riflessioni sul gio-vane e sfortunato poeta.

1- La Poesia di Rosario Bel-caro ha vissuto soltanto la prima-vera della sua vita. Non ha avuto il tempo di affinarsi con la ma-turità, di crescere, staccandosi dai canoni scolastici della poesia classica, eppure, Belcaro è riu-scito a lasciarci pagine così pie-ne di vita e originalità, capaci di ancorarsi in ogni caso a una sua personalissima tonalità poetica. Ci sono versi di questo poeta che stanno in piedi da soli, facendo

scuola nuova, nuova forma, buo-na per tante generazioni di gio-vani poeti alla ricerca del verso personale, originale.

2- Ecco, scriveva Grugnali una lezione di vita.

Rosario Belcaro, condannato a letto, consapevole del suo male irredimibile, che lo stava portan-do alla fine del suo tempo, scri-veva di morte esaltando la vita, ma scriveva d’amore: per la vita, per la poesia, per le donne che sfioravano leggiadramente la sua esistenza.

Scriveva della sua ultima rac-colta di versi, Amore per Amore” nel 1969:

“Dopo oltre due anni ho ripreso a scrivere versi. Non è forse una notizia importante; ma per me sì.credo sia l’unica cosa per cui valga la pena di vivere, e che sia l’unica saggezza che go-vernerebbe bene questo mondo.”

Rosario Belcaro riposa oggi nel Recinto delle Memorie del picco-lo cimitero, accanto a Fortunato Seminara e Antonio Piromalli, al-tri due grandi uomini di cultura di Maropati. Nell’agosto del 1999 la cittadina lo onora con una bella cerimonia commemorativa, pre-senti il padre che tanto lo amò e da lui tanto amato, il fratello. Gli è stata intestata una strada importante.

Tutto è stato fatto. Ma i poeti vivono eterni nelle

rime che hanno composto e nel cuore di tutti coloro che conti-nuano a leggere di lui, a scrive-re di lui, ad amarlo anche nella morte. Per riportarlo ogni volta in vita, lui che ha vissuto così poco.

“Io ho gustato appena/la mia stagione./Ma di stagioni/non conosco che questa;/canti d’uc-clli, musica di fiori,/nascite e vita./La mia stagione/non do-vrebbe conoscere la morte.

ROSARIObElcARO

di Natale Pace

Rosario Belcaro

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Deceduto avanti l’alba del 20 febbraio 1893 il noto depu-

tato, giornalista e scrittore Rocco De Zerbi, coinvolto nello scanda-lo della Banca Romana assieme a Tanlongo e soci e ad altri par-lamentari, dopo ch’era riuscito vano il consulto del celebre Car-darelli, il fratello Gaetano, sinda-co di Oppido, il quale era corso su-bito nella capitale probabilmente non appena le cose erano volte al peggio, si è premurato di far co-noscere tramite telegramma alla città, di cui reggeva le sorti, non-ché al primo cittadino di Palmi, il luttuoso tragico evento. Non sono edotto del tenore del dispaccio inviato all’amministrazione oppi-dese, ma stimo ch’esso sia stato simile, se non a tinte più forti, a quello fatto tenere alla primaria autorità del capoluogo del colle-gio, che il De Zerbi rappresentava a Roma. Così aveva voluto che si trasmettesse in quell’ora di gran-

Echi del caso De Zerbi a Oppido e

Palmi

de ambascia il cav. Gaetano, cui, naturalmente, non poteva far di-fetto non mettere in primo piano l’innocenza del congiunto:

«Con l’animo angosciato dal più profondo schianto annunzio-vi morte mio fratello avvenuta stamani ore 3. Egli fu colpito in pieno petto e la sua vita spezza-ta, voleva però prima di morire vedere proclamata la sua inno-cenza per l’onore del suo collegio elettorale».

Appresa la ferale notizia, il sottoprefetto da Palmi stessa si è fatto un dovere di resocontare al suo superiore diretto già il 21 in merito a come quella era stata accolta e su quanto si prospetta-va di allestire, onde onorare nel modo più degno l’illustre estinto, il quale, anche se era stato inqui-sito per fatti, di cui certo non si poteva andare fieri, restava pur sempre il prestigioso rappresen-tante delle istanze e degli inte-ressi della popolazione di una va-sta plaga. Queste le frasi salienti della comunicazione:

«La notizia della morte dell’o-norevole De Zerbi, partecipata a questo Sindaco da Roma, dal fra-tello del defunto, Cav. Gaetano Sindaco di Oppido, impressionò generalmente questa cittadinan-za. Numerosissimi telegrammi di condoglianza furono mandati al figlio ed alla famiglia del defun-to.

Quasi tutti i negozi della città restarono ieri, e continueranno a restare semichiusi oggi e domani in segno di lutto ed alla porta di essi e per i muri della città furo-no a cura del municipio affissi gli avvisi che acchiudo.

Le tre società operaie telegra-farono per condoglianza ed issa-rono la bandiera abbrunata».

Il caso De Zerbi ha scosso sicu-ramente la cittadinanza palmese tutta ed i legami di questa con la famiglia non potevano che uscir-ne rinsaldati-non si dimentichi che il nonno di Rocco e suo omo-nimo era stato più anni a Palmi quale sottoprefetto ed il padre vi aveva sposato una Cotronei-se il consiglio comunale, subito convocato in seduta straordi-naria, ha sospeso i lavori dopo aver approvato una deliberazione sui modi da seguire per rendere onore pubblicamente al giovane deputato scomparso. Secondo le indicazioni date, il banco della presidenza doveva rimanere ab-brunato per la durata di un mese e così pure le bandiere di tutti gli uffici. Le scuole invece restavano chiuse solo per tre giorni. Il co-mune avrebbe provveduto a far svolgere solenni onoranze fune-bri invitando tutte le rappresen-tanze del collegio, mentre una

delegazione avrebbe raggiunto Roma per partecipare diretta-mente ai funerali. A perpetua memoria si sarebbe poi posto in villa un busto di De Zerbi, al cui nome si sarebbe intitolato il regio ginnasio.

Rocco De Zerbi ha indubbia-mente rappresentato un’epoca di giornalismo, politica e cultu-ra e su di lui è nata tutta una letteratura e c’è stato chi lo ha osannato e chi, per i suoi chiac-chierati trascorsi, lo ha feroce-mente criticato. A ricordarlo degnamente non è sicuramente il discorso dell’avvocato palme-se Vincenzo Silipigni, che nel 1934 in un particolare frangen-te, quello fascista, lo ha definito «figura completa di cittadino e patriota, dannato finora al si-lenzio dalle turpi congiure delle sgominate fazioni demo-libera-li» né quello di tanti detrattori. Preferiamo finire con la penna di un grande, il filosofo Benedetto Croce, che nell’opera “La lette-ratura della nuova Italia” così ha scritto del De Zerbi giornali-sta, un campo, quello del gior-nalismo, dove particolarmente eccelleva: «era artista del gior-nalismo; e il suo Piccolo entrò subito nelle grazie delle classi colte e moderate di Napoli, pel tono spassionato ed elevato, per l’agile eloquenza, per la polemi-ca signorile, arguta e stringen-te... Al De Zerbi, forse più che ad altri, si deve se il giornalismo napoletano si andò spogliando di un certo che tra l’ingenuo ed il provinciale che prima serbava, e si fece più svelto ed elegante, e più ammaliziato».

di Rocco Liberti

Rocco De Zerbi-Dipinto di Domenico Augimeri

Oppido-Abitazione del De Zerbi prima del 1908

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di Giuseppe Cricrì

E’ una storia bella ed avvin-cente quella che oggi vi vo-

glio raccontare, è la storia ardita ed avventurosa, tenera e gloriosa di un giovane ragazzo palmese nato nel 1899 che divenne aviato-re a soli 19 anni, pilotando gli ae-rei che, nella prima guerra mon-diale, rappresentarono la punta di diamante delle nostre forze armate e fecero dell’Asso France-sco Baracca, l’eroe indiscusso che ancora oggi, con il suo cavallino rampante ereditato dalla Ferrari, rappresenta e diffonde nel mon-do l’orgoglio, l’ingegno e la gloria del popolo italico.

Il primo volo con un aereo, quindi con un mezzo più pesante dell’aria fu compiuto negli Stati Uniti, sulle coste della Carolina del Nord da parte dei fratelli Mel-ville e Orville Wright, era il 17 di-cembre del 1903.

Solo quindici anni più tardi, l’11 Aprile del 1918 il nostro concitta-dino Fortunato Saccà affrontava per la prima volta il cielo e nel conseguire il secondo brevetto in tempo record, (appena due mesi e sei giorni) raggiungeva quota quattromila metri.

Siamo agli albori dell’Aeronau-tica italiana e nella nostra Patria tutto era iniziato solo sette anni prima. Nel 1911 infatti era scop-piata la guerra fra Italia e Turchia e da questo conflitto sarebbero nati gli avvenimenti che avreb-bero innescato tensioni naziona-listiche, che a partire dai Balca-ni, allargandosi a macchia d’olio, avrebbero presto generato la Pri-ma Guerra Mondiale. L’Italia ave-va bisogno di aeroplani, veniva quindi attivata una sottoscrizio-ne sponsorizzata dall’Aero Club d’Italia (fondato nel novembre del 1911) lanciata il 3 marzo 1912 su tutto il territorio nazionale. Vi era bisogno di piloti aviatori, che provenissero da tutte le specia-lità: fanteria artiglieria, genio, cavalleria; (Francesco Baracca si distaccava da quest’ultima, ecco perché aveva voluto fregiarsi del cavallino rampante, inserendolo nella carlinga del suo aereo). Il nostro Fortunato Saccà invece, dopo l’ottenimento del diploma di licenza ginnasiale, consegui-to nel marzo del 1917 a Palmi, nel successivo 15 giugno veniva chiamato alle armi ed assegnato al 4° Reggimento Artiglieria For-tezza in Messina. La sedentarie-tà di quella sede mal si addiceva al suo spirito dinamico ed intra-prendente, pertanto egli colse al volo l’opportunità di fare do-manda per la partecipazione ad un corso di allievi aviatori che si

Fortunato saccà

Fortunato Saccà

Il brevetto di volo

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Il primo palmese che toccò il cielo

sarebbe tenuto al campo scuola di Foggia. Dopo il superamento di prove severe e selettive il No-stro venne ammesso al corso (…esplose in me una gioia indicibi-le-scriveva-al pensiero che avrei potuto offrire anche il sacrificio della mia vita alla Patria). Alla frequenza erano stati ammessi anche numerosi militari america-ni. Fra questi uno in particolare, sfoggiando un italiano contami-nato dal dialetto, simpatizzò col collega Saccà, chiamandolo sim-paticamente “paisà”; il suo nome era Fiorello La Guardia e presto sarebbe diventato il sindaco più amato di New York, tanto che la metropoli l’avrebbe per sempre ricordarlo intitolandogli un aero-porto.

Spulciando nel libretto perso-nale di volo scopriamo che le le-zioni ebbero inizio l’11 aprile del 1918, su un apparecchio Maurice Farman 2589 a doppio comando. La durata del primo volo effet-tuata al fianco dell’istruttore Poggi fu di 10 minuti e la quota raggiunta di 100 metri. Gli aerei a quel tempo erano costruiti con una tecnologia quasi artigianale, spesso usando il legno e la tela.

Col Farman NS 11 l’aereo utiliz-zato dal pilota Saccà, gli incidenti mortali che si verificarono duran-te l’addestramento superarono in numero gli eventi fatali in azioni di guerra.

Era un biplano biposto da rico-gnizione francese, costruito su li-cenza FIAT. Con motore da 70 Hp. Raggiungeva la velocità massima di 95/100 Km orari ed aveva una autonomia in volo di 3 ore e 45 minuti.

Aveva l’elica a trazione poste-riore perché non era ancora stato dotato del dispositivo, colloca-to solo nei velivoli più avanzati, che consentiva di sparare con la mitragliatrice in modo sincrono, permettendo ai proiettili di non danneggiare la stessa elica.

Su un aereo analogo era stata compiuta la prima storica azio-ne di bombardamento notturno contro una postazione tedesca il 21 dicembre del 1914. Era carat-terizzato da una configurazione alare biplano-sesquiplana, ovvero con l’ala superiore dall’apertura maggiore di quella inferiore, con una piccola fusoliera biposto in-casellata tra le due ali che incor-porava il gruppo motoelica nella parte posteriore in configurazio-ne spingente. Caratteristica era anche la posizione dell’equilibra-tore, posizionato anteriormente su un prolungamento dei pattini che sporgevano dalle ruote del carrello, soluzione adottata per evitare il rischio di cappottata in fase d’atterraggio. Questa ca-ratteristica lo identificò succes-sivamente come “Longhorn”, in inglese “lungo corno per diffe-renziarlo dal successivo modello derivato MF.11 dove l’equilibrato-re venne spostato in coda e che per questo venne identificato come “Shorthorn”, ovvero “cor-no corto”.

Il velivolo veniva utilizzato come addestratore, ricognitore e bombardiere e come tutti gli ap-parecchi di allora era sprovvisto di paracadute.

Da dati ricavati dalle pubblica-zioni: (L’Aviazione 1900-1918-Cur-cio periodici; e l’Aviazione ita-liana in guerra-L.Contini ed. Marangoni 1934) si apprende che nell’anno 1918 su un totale di 2460 piloti furono ben 756 gli aspiranti che nelle scuole e nei campi di allenamento persero la vita,(più di uno su tre).

Il 26 maggio 1918 dopo un volo di 45 minuti e una quota raggiun-ta di 900 metri, completata la 45ª lezione, Fortunato Saccà conse-guiva il primo brevetto di pilota d’aereo, quello civile. Il 17 giugno successivo, dopo 210 minuti di volo, avendo percorso 250 Km e raggiunto quota 4000, completa-ta la 62ª lezione, Saccà consegui-va il brevetto militare con deter-minazione ministeriale 27256.

Nel corso della sua iniziale car-riera di pilota egli riuscì a cavar-sela egregiamente anche in un in-cidente di volo occorsogli a segui-to di una accidentale mancanza di carburante, il motore si spense ed in volo planato, sfruttando l’a-iuto del vento e la leggerezza del mezzo egli riuscì a completare un atterraggio di fortuna su un prov-videnziale campo di grano.

Dopo la prima guerra Saccà venne inviato presso l’ufficio stampa della direzione generale dell’aeronautica di Roma e suc-cessivamente riprese gli studi in-terrotti conseguendo l’abilitazio-ne magistrale. Si trasferì a Tripoli nel 1922, per insegnare in una scuola coloniale e nel 1923 vinse un concorso per una cattedra nel comune di Venezia. E’ nella città lagunare che il Nostro conoscerà la signorina Erminia che diven-terà sua amatissima sposa e gli darà sette bambini. L’improvvi-sa, dolorosa morte della giovane sorella lo farà ritornare a Palmi per riavvicinarsi ai genitori e con-tinuare la sua attività di educa-tore. Seguiranno alterne vicende che lo vedranno ancora impegna-

to come aviatore militare, prima come sottotenente presso l’aero-porto di Mehalla in Tripolitania e successivamente presso l’aero-porto di Grottaglie, con incarichi di vigilanza e difesa anti aerea, ove si distinse per brillanti azioni che lo videro coperto di encomio. In tale sede ebbe l’opportunità di istaurare un personale rappor-to di cameratesca amicizia con i figli del Duce Vittorio e Bruno (quest’ultimo comandante della 260ª squadriglia morirà in un inci-dente aereo). Nel 1941 Il Tenente Saccà venne assegnato all’aero-porto reggino, dal quale più vol-te si alzerà in volo per azioni di ricognizione che lo porteranno a sorvolare anche la sua cara Pal-mi. Conclusi gli eventi bellici, nel 1952 il Capitano in congedo For-tunato Saccà viene formalmente invitato dal ministero della Difesa a riprendere servizio come uffi-ciale della NATO, nell’organizza-zione di difesa del Patto Atlan-tico, con l’assegnazione di una prestigiosa destinazione estera, probabilmente Parigi, ma l’uo-mo, il padre, il maestro sceglie di rinunciare a questa allettante opportunità che avrebbe degna-

mente coronato la sua carriera militare preferendo mantenere la vicinanza alla famiglia e alla sua amata attività di insegnante.

Ancora oggi il maestro, Capita-no Fortunato Saccà, è ricordato con grande affetto da generazio-ni di suoi allievi.

L’avventurosa vita dell’uomo, dell’aviatore dell’insegnante, rivive nelle toccanti pagine tra-boccanti di memorie raccolte dal figlio Natale, e pubblicate a cura dello stesso nel volumetto “ For-tunato Saccà-un ragazzo del 99-Ed. Iriti 2007” dal quale sono sta-te tratte le notizie per la realiz-zazione di questo articolo e nelle cui pagine traspare anche l’animo sensibile, la singolare personalità di questo nostro concittadino che anche le nuove generazioni do-vrebbero conoscere e ricordare.

Il signor Natale Saccà assecon-dando lo spirito dell’Ass. Prome-teus, in memoria del padre For-tunato, ha generosamente voluto offrire tutto il ricavato della ven-dita delle copie del suo volume, alla Città di Palmi, finalizzandolo alla realizzazione di un progetto mirato ad abbellirne una piazza o una via.

Per ulteriori informazioni tel. al n° 0965/622691.

Fortunato saccà

Fortunato Saccà su un M. F.

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Le poche notizie che si conoscono su Vincenzo Cosentino sono dovute allo

scrittore Palmese Vincenzo Saffioti Candido che esaltò la figura e le opere di questo grande giurista, in un articolo pubblicato nel quotidia-no la “Tribuna” di Roma il 10 novembre 1938 e in un opuscolo stampato l’anno dopo dalla tipografia Zappone di Palmi.

Vincenzo Cosentino nacque a Palmi il 28 giu-gno 1831 dall’avvocato Giuseppe e dalla nobil-donna Maria Teresa Burzì. Dopo aver comple-tato gli studi nelle scuole di Palmi fu mandato all’Università di Napoli dove, per continuare la professione paterna, si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. Appena giunto nell’Ate-neo Partenopeo non rimase insensibile al gri-do unanime che veni va invocato per l’unità e l’indipendenza dell’Italia. Anzi, fu proprio tra gli studenti che la libertà di pensiero e di una Nazione unita, libera ed indipendente trovò terreno fertile. Ciò costò ai giovani universitari molte persecuzioni ed angherie da parte della polizia borbonica che cercava con tutti i mezzi di soffocare le idee liberali. Infatti, i principi di libertà furono per un momento sopite anche nell’azione del giovane palmese dalla violenta reazione con la quale i Bor bone reagirono in conseguenza della rivoluzione scoppiata nel 1848 in Sicilia e nella stessa Napoli. Vincenzo Cosentino, riuscito miracolosamente a sfuggire diverse volte al patibolo, riversò tut to il suo im-pegno allo studio e, avendo come maestri Luigi Settembrini e Francesco De Santis, completò la sua prepara zione universitaria prima in Belle Lettere e Filosofia e poi in quella legale, gra zie all’aiuto del sacerdote calabrese Andreelli che rivestiva anche la carica di Cappellano Reale.

Per qualche tempo coabitò col suo conterra-neo il quale gli fece ottenere dalla Santa Sede una speciale dispensa per po ter leggere alcuni libri ritenuti ‘proibiti”.

Laureatosi nel 1852 in Legge ottenne di en-trare a far parte dell’As sociazione Unitaria Costituzionale divenendo poi Segretario della stessa.

A seguito dell’attentato al Re Ferdinando II compiuto nel 1856 dal soldato calabrese Agesilao Milano, rischiò ancora una volta di es-sere impiccato per aver aiutato Giambattista Falcone e Antonio Nocito, a sfuggire alla cattu-ra da parte della polizia che li stava cercando quali presunti complici dell’attentatore.

In effetti il nostro Cosentino sottrasse i due patrioti calabresi alla polizia borbonica na-

Un grande giurista Palmese dell’’800

scondendoli nella sua casa e facendoli poi fug-gire da Napoli per mare. Mentre il Nocito entrò nel corpo garibaldino assumendo poi il grado di colonnello nell’esercito regolare, Falcone morì a Ponza per i suoi ideali di libertà assieme a Pisacane e Nicotera.

Il 24 novembre del 1861 avendo vinto un concorso pubblico nella città partenopea, Cosentino fu nominato applicato di prima clas-se nella Cassa Ecclesiastica per le Province Napoletane che amministrava i beni incame-rati dopo la soppressione delle corporazioni religiose, diventandone successivamente il Segretario.

Nel 1867 un Comitato Politico, riconoscen-do nel Cosentino meriti politici e giuridi ci, gli offrì la candidatura a Deputato nel Collegio Elettorale di Palmi che però l’elettorato non premiò pur se il programma presentato con-teneva un modo diverso di rappresentare il popolo. Nei pubblici manifesti così si era pro-posto: “Debbo non pertanto dichiarare aper-tamente, che riconosco due canoni supremi di condotta pel rappresentante della na zione: la fede incrollabile nell’Unità e nelle future sorti di questa nostra amatissima Italia e l’amore immanente pel progresso in ordine alle sue li-bertà. Riconosco poi due qua lità indispensabili nell’individuo che vuol rivestirsi di tale officio, la indipendenza del Governo come degli estre-mi partiti e la personale onestà. I voti conferiti senza questa condizione mi parrebbero man-chevoli della necessaria intelligenza e quelli che mirassero a fare di me tutt’altro uomo io dovrei respingerli”.

Il 13 dicembre 1868 entrò nella Magistratura andando a coprire la carica di Presidente del Tribunale di Monteleone (Vibo Valentia) prima e poi quella di Reggio Calabria. Il 19 ottobre del 1874 venne nominato consigliere della Cor-te di Appello di Messina dove presiedette la stessa fino al la data della sua morte avvenuta il 21 dicembre 1879. A Vincenzo Cosentino è dovuta una importante produzio ne di pubbli-cazioni giuridiche che gli valsero le lodi del grande giurista Francesco Carrara.

Oltre alle numerose opere di Diritto Commerciale, Amministrativo e Costituzionale, il giurista Palmese deve la sua notorietà soprat-tutto per aver dato alle stampe nel 1866 un im-mane lavoro di Commento al Codice Penale del 1859 con le successive modificazioni. Il suo no-tevole contributo fu molto apprezzato in quanto giungeva in un momento in cui unificata l’Italia, si stava cercando di unirla anche sotto l’aspetto giuridico considerato che i vari stati erano legi-ferati in modo diverso l’uno dall’altro.

Subito dopo la sua morte il Consiglio Comunale volle ricordare ai posteri l’illustre concittadino non tanto come patriota e giu-rista, ma come riconoscenza per essere sta-to l’artefice principale dell’istituzione del

Tribunale a Palmi. Per questo motivo il 25 aprile 1880 il Civico

Consesso, riunito sotto la presidenza del Sindaco Pasquale Suriano, delibera di onorare Vincenzo Cosentino nel modo seguente: “Si pas-sa quindi alla discussione della proposta messa all’ordine - e sull’Innalzamento di una lapide commemorativa del fu Cosentino Vincenzo nel-la sala del Tribunale Civile, trovandosi assente il proponente Sig.Bagalà avv.Felice, dichiara il Sig.Pitea di appoggiare la proposta; ma in que-sto frattempo sopragiunge il proponente, che, chiesta la parola, svolge le ragioni che lo indus-sero a sottoporre al Consiglio la proposta. Dice che il nome del fu Cosentino Vincenzo, onora Palmi, si come scienziato, si come cittadino. A tutti è noto il valore del Cosentino nelle scien-ze giuridiche; e che se la morte non lo avesse rapito nel fiore degli anni, avrebbe raggiunto la meta cui l’umana natura è data toccare. Come cittadino rese a questa città uno di quei servig-gi che mai si possono dimenticare. Il Tribunale Civile deve qui il suo impianto all’opera del Cosentino, accoppiato all’altro egregio estinto Augimeri Vincenzo. Non dubito che il Consiglio non sia per accogliere la sua proposta, tenden-te ad onorare la memoria di un illustre citta-dino. Dopo il Sig.Presidente messa a partito la proposta; ma il Sig.Prenestini desidererebbe che la lapide venisse collocata nella sala consi-liare invece che nel Tribunale; giacché essendo la Rappresentanza cittadina che onora un suo concittadino il posto della lapide è più conve-niente qui che altrove e prega il proponente Sig.Bagalà Felice che volesse modificare in que-sto senso la sua proposta. Ma il Sig.Bagalà ri-tenendo che sia più adatta allo scopo innalzare la lapide nella sala del Tribunale che in questo Consiglio, non crede opportuno modificare la proposta. Quindi il Sig.Presidente dapprima invita il Consiglio a votare in massima la pro-posta salvo a deliberare dopo, ove venga accet-tata, il locale in cui deve innalzarsi la lapide. Il Consiglio per appello nominale delibera ad unanimità di voti favorevolmente alla propo-sta Bagalà Felice, autorizzando così il Sindaco a spendere la somma occorrente per l’esecuzione del presente deliberato. Con voti poi 10 con-tro due ed uno astenuto delibera che la lapide sia collocata nella sala d’udienza del Tribunale Civile - non già in questa sala consiliare.”

Evidentemente la lapide scomparve dalla sala delle udienze del Tribunale a causa dei catastrofici terremoti che si sono abbattuti sul-la Città, dalle guerre, dagli incendi e, forse, anche per l’incuria umana. Credo che la Classe Forense di Palmi e gli amministratori comunali che fra alcuni mesi andranno a governare la Città, si contenderanno il privilegio di ricor-dare Vincenzo Cosentino, ricollocando la targa nel Tribunale o dedicandogli almeno una via cittadina.

vIncEnZO cOSEntInO

di Francesco Lovecchio

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di Walter Cricrì

Ma guarda un po’ chi parla di cucina povera? Il maestro Gianfran-co Vissani!? Sfogliando una rivista nella sala d’attesa del mio

dentista(?), trovo un suo articolo in cui si spende in una ampia disser-tazione sulla tradizione e sulla cucina povera, che, cito, “ha dato il meglio anche in piatti che ancora restano tra le eccellenze del nostro Paese”. E giù ad elencare piatti della cultura contadina umbra, come la “pappa con il pomodoro” o “la ribollita”, per finire con “la panza-nella”; certo, esempi lontani dalle nostre tradizioni meridionali, dove si trova ben altro: “i mulingiani chini” (con la stessa polpa e la mollica di pane raffermo, recuperando anche i piccioli), “cicoria cu suriaca” e, in momenti veramente tristi, la stessa cicoria succedanea al caffè, ecc., ma che esaltano la cucina ed “arricchiscono”, al dire del Vissani, le nostre sempre più povere tavole familiari.

Sarà un caso ma a quanto pare, nell’ultimo periodo, sia in Italia (come pare anche in Grecia), si recuperano vecchi ricettari dai titoli forse eccessivi, rispetto alla realtà di oggi, (“La cucina del tempo di guerra”, “Le ricette della fame”...), ma fatto sta che dall’editoria ar-rivano sempre segnali importanti.

Certo è che, il ritorno ad una cucina d’altri tempi, porta anche a cambiare la borsa della spesa. Di conseguenza una tendenza a sce-gliere parti meno pregiate del macellato (ciò non significa assoluta-mente minor qualità, anzi...), pesci meno blasonati (ma non per que-sto meno gustosi!), frutta e verdura made in Italy, vini di outsider ad una fascia di prezzo contenuta.

Spesso i nutrizionisti lodano il nostro modello di cucina perché uti-lizza alimenti poveri, con preparazioni semplici, con il vantaggio di renderla “ipocalorica”.

Anche se la cucina povera, a cui si riferiscono i nutrizionisti, vero-similmente, era quella che i nostri nonni, poveri, adottavano quoti-dianamente, e che hanno abbandonato appena hanno potuto. Ma c’è anche da dire che non sempre gli alimenti poveri sono sazianti: pane, pasta, cereali, legumi, hanno indici di sazietà molto inferiori alla car-ne e al pesce, notoriamente alimenti “ricchi”. E poi, se penso alla cucina tradizionale italiana, riportata all’attualità, non mi vengono in mente piatti ipocalorici: tortellini, lasagne al nord e parmigiana, cannoli e pastiera, al sud.

Erroneamente considerata una cucina povera, quella calabrese, ri-sente degli influssi di popoli come Greci, Latini, Arabi e Normanni prima e Spagnoli e Francesi poi, che nel tempo hanno introdotto cibi e usanze che ancora permangono. Il gusto saporito della cucina cala-brese è spesso determinato da alcuni ingredienti con una presenza, costante e caratterizzante, nelle diverse ricette, particolarmente ric-che della componente aromatica.

La tradizione culinaria calabrese, che vede uniti territori completa-mente differenti, può, comunque, vantare una dieta ben bilanciata: nel suo ricettario si possono trovare piatti a base di carne ovina e suina, di verdure (tra le quali melanzane, zucchine) e di pesce. La nostra terra, aspra e soleggiata, regala profumati agrumi, olive di svariate cultivar, oltre agli ortaggi da pieno campo, vini e condita di una ritualità, come scrive Ottavio Cavalcanti, «dove il fuoco è ancora sacro, il termine cibo è dialettalmente sconosciuto e al suo posto si usa cucinatu, u mangiari, che dà contemporaneamente l’idea della casa, del calore, di pasti corroboranti, consumati a un desco dove i vincoli familiari quotidianamente si rinsaldano».

Ma tornando all’editoria, dicevo che, nelle librerie in bella mostra, in questi giorni si può trovare: “La cucina del tempo di guerra”; ma-nuale pratico per le famiglie, di Lunella De Seta (A. Vallardi Editore), di cui l’originale risale al 1942 (Salani, editore). Un testo brillante, pieno di spunti per risparmiare, rinfrescare la memoria e stratagemmi per sostituire prodotti “rari”. Prima di aiutare le massaie a sopperire alla mancanza di molti ingredienti a loro familiari, l’autrice prende tempo per dire che anche in momenti avversi si deve proseguire: “l’appa-recchiatura della tavola come sempre, ma con tovaglie colorate che rimangano pulite più a lungo (anche il sapone era razionato), servirsi di tegami e vasellame che può anche andare in tavola, per ridurre l’entità della rigovernatura” e così via. Gli ingredienti umili che i nostri nonni e bisnonni usavano in tempo di guerra, ritornano a essere il pun-to di partenza per preparare piatti sani e gustosi. Tra i suggerimenti più curiosi: la preparazione della maionese (olio misto d’oliva e di lino), le patate in crema rossa senza condimento, i dolcetti di farina di castagne senza zucchero, il super brodo di guerra vegetale (2 cucchiai di fagioli, due di lenticchie, due di fave, due di ceci, sedano in abbon-danza e tanti erbaggi) etc., così come il caffè di cicoria. Ma anche come economizzare con i torsoli delle verze, con le budella del pollo, le bucce delle arance e delle mele, i baccelli dei fagioli etc. Tuttavia i contenuti del ricettario sono molto attuali: recupero, poco spreco, ricerca di ingredienti di poco costo o succedanei ai prodotti rari e costosi. Oggi, forse, si ha ancora la fortuna di poterlo fare per scelta.

La storia si ripete?Redditi ridotti, disoccupazione, recessione, crisi in atto potrebbero portare profondi cambiamenti anche nella cucina, con ritorni

alla semplicità del passato? Cucina povera e recupero della gastronomia tradizionale.

Zuppa d’acciaLa zuppa d’accia, o meglio la zuppa di sedano, è una ricetta povera della tradizione gastronomica calabrese. Si prepara infatti con tutti ingredienti prodotti nel territorio calabrese come il caciocavallo e in particolar modo la soppressata. Sedano e salsiccia sono elementi della tradizione conta-dina, insieme alle uova. Si tratta di una zuppa nutriente, da servire calda come primo piatto, che prevede anche delle fette di pane casereccio, magari stagionato per qualche giorno. Da aggiungere a piacere il pecorino grattugiato. Anche se non propriamente previsto dalla ricetta, personal-mente aggiungerei anche un pizzico di peperoncino piccante.

400 g di sedano100 g di soppressata100 g di caciocavallo1 salsiccia 2 uova sode2 cucchiai di olio extravergine di olivasale, pepe, fette di pane casereccio, pecorino grattugiato

Preparazione:Pulite le coste di sedano, eliminate i filamenti e tagliatele a pezzetti. Mettetele in una casseruola e lessatele, in circa 1 litro di acqua, con un filo di olio e un pizzico di sale. Quando il sedano sarà cotto, filtrate il brodo e tenetelo al caldo. Nel frattempo tagliate a fettine le uova. Tagliate a dadini la soppressata e il caciocavallo, e sgretolate la salsiccia. Ponete nei piatti fondi o nelle ciotole di ciascun commensale 2 o 3 fette di pane casereccio abbrustolito.Mettete tutti gli altri ingredienti preparati in una zuppiera, versarvi sopra il brodo bollente e i pezzetti di sedano, spolverizzate con il pecorino grattugiato e pepe macinato al momento. Amalgamate e servite caldo.

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di Daniela Agresta

Ci troviamo a parlare di scuola, di scuola primaria nello speci-fico e, di conseguenza, di bambini in crescita, di piccoli che

devono maturare; nuovi cittadini in formazione di un domani che, si spera, possa avere prospettive sempre migliori di quelle che si vivono attualmente.

Ci troviamo a parlare di insegnanti, non tutti uguali ovviamente, ognuno con le proprie peculiarità e il proprio bagaglio di esperien-ze e cultura; di una categoria non sempre omogenea e compatta purtroppo, ma di una vasta compagine di persone che hanno un compito fondamentale, spesso sminuito, sottovalutato o dato per scontato.

Il lavoro di un’insegnante, parlando della mia esperienza diretta

InnOcEntIStI O cOlPEvOlIStI?

A.D.I.C.Associazione Donne Insegnanti Calabresi

[email protected]

NUOVO DIRETTIVO PER L’ADIC, L’ASSOCIAZIONE DONNEINSEGNANTI CALABRESI CON SEDE A GIOIA TAURO.

Costituita nel 1978 per iniziativa di alcune insegnanti di Gio-ia Tauro, l’Associazione prende spunto dalle dichiarazioni dell’O.N.U. che proclamò l’anno 1975 “Anno internazionale del-la Donna” e il successivo decennio 1975-1985 il “Decennio della Donna”.

Fu un’iniziativa accolta molto favorevolmente per l’obiettiva constatazione che nessun evento di promozione ed emancipa-zione femminile era ancora sorto, né a livello comprensoriale della Piana di Gioia Tauro, né a livello regionale.

Come sancisce l’art. 4 dello statuto, i limiti territoriali dell’As-sociazione sono regionali e, quindi, possono far parte di essa donne che abbiano la propria residenza o esercitino la propria attività di insegnamento nell’ambito territoriale della Regione Calabria. Fra gli obiettivi si ricorda: la promozione dei diritti delle donne; favorire l’affermazione della donna in tutti i campi; elevare il livello professionale della categoria e sensibilizzarla ai problemi umani e sociali, promuovendo scambi culturali, conve-gni, incontri-dibattito e tavole rotonde; valorizzare il patrimonio intellettuale femminile e stimolarne le potenzialità culturali at-traverso la partecipazione produttiva alla vita sociale;incidere sul sociale per sollecitare servizi;aprire un dibattito continuativo e costruttivo con le autorità costituite per la definizione di pro-getti e nuove strategie di sviluppo e di crescita comune. L’As-sociazione è attivamente impegnata nella promozione dell’af-fermazione della donna in tutti i campi del vivere quotidiano, della crescita culturale e sociale del territorio e di una convinta azione di socializzazione-aggregazione tra le diverse componen-ti umane del territorio.

Presidente Caterina Provenzano

V.Presidente Vincenza Seminara

Consigliere Myriam Costa

Tesoriere Cinzia Guardavalle

Segretaria Rina Ciccarelli

personale, mi arricchisce, con fatica talvolta, di una vitalità e di un entusiasmo che giorno per giorno consentono di superare anche le difficoltà oggettive che si manifestano. Le classi numerose, i tagli massicci e selvaggi, i precari senza lavoro, i ritmi frenetici e i salari poco gratificanti, rendono sempre difficile la situazione e viene meno la garanzia di un valido e professionale insegnamento. La formazione tout court, imposta dell’alto, che vede l’insegnante tuttologo, anche in campi che presupporrebbero una specifica e non certo affrettata competenza, rendono certamente complessa una situazione che va-cilla, non considerando minimamente quello che è il risultato finale: in ballo, cioè, la formazione dei bambini. Poco importa se non tutti avranno la possibilità d’imparare, se non si potrà garantire loro per-corsi individualizzati e tempi più fluidi, non si può: è impossibile. Cer-to sulla carta e a livello teorico tutto è perfetto e tutti avranno ac-quisito il loro bagaglio...ma la realtà spesso è tristemente differente.

La vitalità di cui accennavo sopra è data dai bambini e dal loro fantastico mondo, dalla loro innocenza, sacra, dai loro bisogni e dai loro sorrisi. Certo non sempre l’atmosfera in classe è rosea e si riesce a lavorare con serenità e calma. I soggetti difficili ci sono sempre in ogni realtà ed è difficile mantenere alta la loro attenzione e vivo il loro interesse. Si cerca, con coscienza e responsabilità, di fare del nostro meglio.

Altro tassello di questo variegato puzzle è la famiglia col proprio vissuto che inevitabilmente arriva a scuola. I genitori, vorrebbero sempre il massimo per i loro figli legittimamente; ma anche dai loro figli, come se tutti dovessero obbligatoriamente avere 10 in pagella! Ogni bambino è un mondo a sé, con i propri ritmi e le proprie carat-teristiche e come tale va rispettato.

E’ giusto che la famiglia abbia modo di conoscere ciò che avvie-ne all’interno della scuola; ciò deve accadere in modo proficuo, di-screto e sopratutto senza arroganza. I “salotti” che spesso fuori o anche dentro ogni scuola prendono vita, con i nomi degli insegnanti sbandierati (spesso in modo negativo e denigratorio), secondo la mia modesta opinione, non contribuiscono certo ad una crescita fattiva e operosa, sempre per il bene dei nostri figli, ma alimentano quel pet-tegolezzo arido e sterile che non porta a nulla, che impedisce così, un sereno rapporto dialogico tra chi lavora a scuola per lo stesso fine comune: la crescita e il benessere di ogni bambino. I problemi, se ci sono, vanno affrontati in modo civile, senza strumentalizzare mai la voce innocente di un bimbo, sempre vigili ad ogni segno di disagio, ma solo se reale ed effettivo.

Direttivo Adicda sinistra: Guardavalle, Seminara, Costa, Provenzano e Ciccarelli

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La notizia, con relativo fil-mato, di pochi giorni addie-

tro apparsa sul telegiornale, mi ha particolarmente colpito per la sua drammaticità. In Indone-sia, una comunità di bambini tra i sei e i dodici anni per arrivare a scuola, sono costretti, tutti i giorni, ad attraversare un ponte semidistrutto da un violento tem-porale, lungo 162 metri, dove sot-to scorre un imponente fiume, te-nendosi aggrappati alle funi e ai residui tavolacci, rischiando quo-tidianamente la vita; e di quelli del Vietnam che, attraversano a nuoto il fiume tenendo le mani in alto, con l’intento di mantenere gli zaini all’asciutto. Il primo pen-siero che mi è venuto in mente, alla vista di quel singolare filma-to (vedere su You Tube), è stato quello di fare un parallelo tra la qualità della vita che conducono i nostri figli, sempre insoddisfat-

ti e, quella dei bambini indonesiani e vietnamiti, sicuramente meno “depressi”. Il confronto, nei riguardi di quelle popola- zioni disagiate, appare grottesco e, forse irriverente, pensando a quei genitori che ac- compagnano i figli (che fanno i capricci), fino all’ingresso dell’aula scolastica tenendoli per mano, o addirittura in brac-

cio, per poi riprenderli all’uscita, dopo una lunga attesa davanti all’edificio scolastico. Qualcuno, addirittura, sa-lendo con la macchina sul marciapiede, qualora piovesse, per non compromette-re la salute del figlio che, spesso esce col broncio. A questo punto, una domanda sorge spontanea: qual è il modello educativo che i genitori dovrebbero seguire per avere in futuro dei figli più indipendenti, sicuri e meno esigenti? La soluzio-ne, seppur non semplice (fare i genitori è un “mestiere” difficile), sta probabil-mente a metà e cioè, tra chi mette a repentaglio la vita dei propri figli, votati al sacrificio, pur di dargli un’istruzione per un futuro migliore (vedi Indonesia e Vietnam), e quelli che sono costretti, tutti i giorni, a tollerare figli viziati e conseguenti bizzarrie di continue richieste. Ci sembra quanto mai opportuno, poiché si tratta di un fenomeno diffuso, focalizzare l’argomento sull’educazione dei figli e sul loro disagio. I dati in questa direzione sono preoccupanti. Se i figli sono viziati, negligenti, assenti, distratti, la colpa non è certamente loro. Que-sti comportamenti sono sintomi di un atteggiamento genitoriale iperprotettivo. Genitori che trovano difficile dire di no. Sono esageratamente preoccupati del benessere mentale dei propri figli che li assecondano in ogni loro richiesta, per restituire loro,una falsa serenità, non rendendosi conto che tali modi di agire condannano di fatto i figli a una situazione di dipendenza dagli adulti anche per svolgere le più banali attività quotidiane. A tal proposito vorrei raccontare due episodi, che ritengo significativi, riguardo appunto la condotta dei genitori. Quell’anno ero rappresentante dei genitori, con funzioni di V. Presidente del Consiglio di Circolo, quando, un giorno, all’ora di pranzo, ricevetti una telefonata da un amico d’infanzia che, con fare nervoso, mi comunicò che aveva l’urgenza impellente di parlarmi. Pensai ad una cosa importante, prodigandomi di incon-trarlo immediatamente. Non vi dico la delusione che ebbi, nell’ascoltare il suo sfogo. In pratica, lamentava un comportamento scorretto di una maestra, rea di aver strappato in classe un album di figurine al figlio, il quale, minacciava di non voler più andare a scuola, pretendendo che io intervenissi, tramite la Direttrice Scolastica, per richiamare l’insegnante. La mia risposta non poteva essere che scontata. Feci capire all’amico che la maestra aveva fatto bene e che a scuola i bambini devono portare i libri. Quel genitore, invece di sgridare il figlio, che giocava nell’aula con le figurine, si era fatto intenerire dai pianti del “pargolet-to”, promettendogli giustizia. L’altro episodio si verificò alcuni anni addietro, alla fine di un allenamento, con i pulcini (età 6-8 anni) della Scuola Calcio, di cui ero responsabile. Una mamma, non di certo senza cultura, mi richiamò in presenza del figlio, dicendomi che avrei dovuto palesare più attenzione nei confronti del piccolo e, che avrei dovuto inserirlo, secondo lei, nella squadra più forte, in quanto, il figlio era nato leader e non amava perdere. Le risposi che sin dalla loro età, devono abituarsi ad accettare anche le sconfitte e che lo sport, non è

altro che una metafora della vita. Purtroppo dispiace dirlo, nell’età liceale il ragazzo ha conosciuto anche una comunità di recupero. Ricordare il fatto, ancora a distanza di tempo mi procura molto dolore. Questi esempi, sono indicativi, per dire che, i bambini, i ragazzi troppo protet-ti, non impareranno mai le strategie per cavarsela da soli, per acquistare sicurezza, autonomia. Sono bambini che hanno un basso livello di tolleranza e soffrono per delusioni, rinunce, noia che, spesso sfociano in rabbia, dispetti e violenza, perché non hanno sviluppate le risorse necessarie per gestire le esperienze negative. Viene da domandarsi che diavolo di società stiamo creando. I genitori non si rendono conto che spesso diventano “vittime” dei figli. Non è certamente positivo,il messaggio che un genitore trasmette al proprio figlio di sei, otto, dieci anni, costretto, perché assalito da sensi di colpa, anche non avendo le possibilità economiche ad organizzargli la mega festa di compleanno, solo perché il piccolino sbatte i piedi. I regali ricevuti, non sortiranno alcuno effetto, perché abituato a riceverli senza “fatica”, non sapendo apprezzare,così, il valore di un dono. Cosa chiederanno questi bambini quando saranno maggiorenni? Qualcuno risponderà : beh, è la società che te lo “impone”, altrimenti crescerebbero emarginati. Sarebbe ora di prendere coscienza, rivolgendo ogni tanto, uno sguardo a quei bam-bini dell’Indonesia e del Vietnam, che vivono felici, nella povertà e nella difficoltà, rischiando quotidianamente la vita, per non sentire più parlare dei nostri figli viziati e annoiati.

I BAMBInI E Il MAlEssERE cROnIcO: cOlpA dEI GEnItORI?di Rocco Cadile

Immagine estratta dal video su YOU TUBE

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di Domenico Schipilliti

Spesso si sente dire la frase “Il cane è il miglior amico

dell’uomo” ma raramente se ne capisce il vero significato e ciò che realmente comporta l’averne uno.

Il cane è uno degli animali do-mestici più diffusi che gode di una forte predilezione affettiva e questo perché sono animali socie-voli che sviluppano rapidamente attaccamento e fedeltà nei con-fronti degli esseri umani. È proprio questa sua natura sociale che rende il cane l’animale pre-diletto dagli uomi-ni. Esso è, infatti, animale da branco che possiede l’in-nata potenzialità di riconoscere e at-tuare un intero re-pertorio di risposte sociali.

Tuttavia, è im-portante mettersi anche nei panni del nostro amico a quattro zampe senza preoccuparsi solamente di quello che noi pretendia-mo da lui o quello che è giusto o sba-gliato per noi. Biso-gna sapersi relazio-nare a lui per ren-dere la convivenza il più gradevole possibile senza pro-vocare, come spes-so succede, disturbi comportamentali che potrebbero sfo-ciare in situazioni non più sostenibili per il padrone.

A tal proposito sono nate figu-re professionali, come l’addestratore cinofilo e il comportamentista cinofilo, il cui compito è quello di aiutare l’interazione tra cane e padrone nell’ottica della psicologia canina su cui si fondano entrambe.

Per la formazione di tali figure sono nate nell’ultimo decennio associazioni specifiche come l’AP-NEC (Associazione Professionale Nazionale di Educatori Cinofili) presente in Italia dal 2002 e dif-fusa in tutte le Regioni italiane.

In quanto educatore cinofilo, mi occupo non solo del compor-tamento canino, ma anche della sensibilizzazione dei padroni nei confronti di esso. A differenza di ciò che pensano molti, il mio compito non è quello di imporre al cane determinati comporta-menti all’interno della società in cui vive, ma di rendere la sua vita domestica e sociale il più grade-vole possibile sia per lui che per il padrone attraverso un approc-cio basato sul cosiddetto metodo gentile che non si avvale di modi violenti o aggressivi per l’appren-dimento del cane, ma bensì di

NEL MONDO CANINO SI COLLABORAatteggiamenti il più naturali pos-sibili volti ad ottenere risposte positive ed immediate da parte dei nostri amici a quattro zampe.

È diffusa la convinzione che attraverso le maniere forti si ottengono i migliori risultati e questo perché il cane risponde apparentemente in modo corretto alle punizioni che gli vengono inflitte dai padroni nel momento in cui sbaglia o fa danni. La differenza, infatti, tra il metodo gentile e quello

tradizionale, che si avvale delle maniere forti, è che l’animale risponde ad entrambi ma attra-verso processi completamente diversi. Il metodo tradizionale ottiene i risultati attraverso le punizioni (molto spesso con le botte o il fatto di inveire in modo brusco contro il cane); in questo modo il cane ubbidisce al padro-ne non perché abbia capito l’er-rore ma perché ha timore di lui. Il metodo gentile invece si fonda sul fatto che si crea prima di tut-to un legame con il proprio cane e una volta fatto ciò si procede con la correzione degli errori o dei disturbi comportamentali che non prevedono l’uso della violen-za ma un tipo di intervento che si basa fortemente sulla psicologia del cane e su come questo può immagazzinare in modo rapido la “lezione” ovvero attraverso il rinforzo positivo (carezze, elogi, cibo) nel momento in cui il cane esegue in modo corretto ciò che gli viene chiesto.

Attraverso questo metodo, in-fatti, non si ottengono risultati

solo sul cane, ma anche sui pa-droni. Il fatto di instaurare un le-game forte con il proprio animale implica una maggiore sensibiliz-zazione delle persone poiché si è di fronte ad un mondo diverso da quello degli esseri umani in quanto caratterizzato da istinti, emozioni e cosa più importante da un linguaggio che non si av-vale delle parole ma di gesti e comportamenti che sono in gra-do di esprimere molte più cose di quanto si possa immaginare. Il

cane esprime tutto ciò che sente attraverso svariate manifestazio-ni, da comportamenti irruenti nel caso di paura o ansia, ad at-teggiamenti giocosi nei momenti di felicità e benessere. È un es-sere vivente che diventa parte integrante della nostra vita, non ci abbandona mai, è sempre fe-dele e cosa che in pochi sanno non porta rancore anche quando è trattato in modo spiacevole; non prova gelosia e non assume atteggiamenti per noi errati col proposito di recare un danno al padrone (cosa che molti credono in quanto spesso sento dire “me lo ha fatto apposta”).

A tal proposito mi preme sot-tolineare che ogni qual volta mi viene chiesto di addestrare un cane o di intervenire su proble-mi comportamentali di questo, la cosa che mi rende più orgoglioso è il vedere la gioia dei padroni nel momento in cui si rendono conto di essere ascoltati dai loro piccoli amici e di ricevere da que-sti molte più attenzioni di quan-to non facessero prima. Questo

perché il mio concetto di “adde-stramento” si riferisce al creare una relazione di fiducia tra cane e padrone dando a quest’ultimo semplici accorgimenti su come comportarsi col proprio animale guardando il mondo dal punto di vista canino.

Sono sempre a contatto con diverse persone e diverse razze di cane, specialmente durante le puppy class (scuole per cuccioli in cui essi cominciano ad apprende-re una serie di segnali che li aiu-

teranno da grandi a relazionarsi con i loro simili senza avere paure o al-tre patologie com-portamentali) e le terapie che faccio con cani che hanno subito traumi di va-ria natura metten-doli a contatto con un vero e proprio branco, all’interno del quale vige una gerarchia rispetta-ta da ogni membro e intervenendo sul problema in modo specifico attraver-so mie direttive che i padroni devo-no seguire anche e soprattutto all’in-terno del loro con-testo domestico.

Questi incontri vengono fatti so-litamente in spa-zi aperti e molto grandi dove i cani possono giocare e imparare recipro-camente a socia-lizzare attraverso il linguaggio dei segnali che esito-no all’interno del branco.

Penso che sia importante adibire

spazi aperti presenti nel nostro paese per questo genere di atti-vità per zone di ritrovo per pa-droni e cani di tutte le età.

I cani valorizzano la nostra vita e il contatto con il mondo animale contribuisce ad arricchi-re il nostro bagaglio personale aumentando la sensibilità delle persone.

Per me i cani sono maestri di vita e non c’è cosa più bella al mondo che l’ammirare lo spetta-colo della natura abbracciato ai miei cani.

Un pensiero profondo va alla mia vecchia compagna che ormai non c’è più, la mia dolce cagnoli-na che con un semplice e leggero uggiolio mi svegliava il cuore nei momenti più difficili e con il suo viso dolce mi ha sempre perdo-nato tutti i miei cambi d’umore restando sempre lì….

Ringrazio Madre Terra per aver-mi dato la possibilità di scrivere questo articolo e tutti coloro che mi appoggiano e condividono con me queste bellissime esperienze di vita.

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di Walter Cricrì

La nostra cittadina si con-ferma al primo posto in Cal-

abria per la pratica di questo ap-passionante sport. Un’altra carta a favore del nostro territorio che va a coniugarsi con la prossima occasione di promozione del Par-co Archeologico. Ma per dovere di cronaca è necessario segnalare alcuni passaggi fondamentali, propedeutici a questa iniziativa.

La ASD Bici Palmi, dopo aver ottenuto quest’anno ben 5 maglie di campione provinciale (Antonio Mazzullo, Carmelo Co-losi, Pasquale Mattiani, Tripodina Pasquale ed il debuttante Rigoli Vincenzo), va a conquistare pres-soché tutte le categorie maschili della disciplina e, occupando per meriti, il primo posto anche sul piano organizzativo.

Non a caso il territorio Palmese e la Società Sportiva, che lo rap-presenta per la pratica agonistica della Mountain Bike, ha ottenuto la nomination, quale sede pres-

Mountain Bikeall’ombra della Torre Saracena

In attesa del Campionato Italiano “Udace Off–Road”, in svolgimento i preparativi per il Campionato d’Inverno di Mountain Bike 2012, all’interno del Parco Archeologico Tauriani “Antonio De Salvo”.

celta addirittura per lo svol-gimento del Campionato Italiano “Udace Off–Road”, che si terrà il 7 di Ottobre di quest’anno e ver-rà intitolato al ciclista Palmese Vincenzo Bruzzese, di recente scomparso.

Ma, in attesa di ospitare i Cam-pioni Nazionali della disciplina, gli organizzatori palmesi si stanno adoperando nell’organizzazione del Campionato d’Inverno 2012, che si volgerà in tre tappe, tutte sul nostro territorio.

Il primo appuntamento sarà per il prossimo 26 febbraio, dove i campioni regionali, e non solo, saranno impegnati su un circuito sviluppato in località Paterna, nei pressi dell’Impianto Sportivo San Gaetano.

Complice, per il 18 marzo, il multiforme scenario del Monte S. Elia, offrirà piste di gara artico-late tra i boschi e le vedute moz-zafiato.

Ma la tappa da non perdere, anche per l’inedita scenografia, proposta per il primo di aprile (e non è uno scherzo!), verrà svi-

luppata proprio all’interno del Parco Archeologico Tauriani “An-tonio De Salvo”; sarà senz’altro un’ulteriore opportunità di visita e di conseguente promozione per il nostro territorio.

“Italia Nostra”, Sez. Reggina, “Movimento Cultuale San Fanti-no” e le Associazioni che a vario titolo gestiscono le attività del Parco, presteranno la loro prezi-osa collaborazione per il pieno successo della manifestazione.

Quest’ultima tappa, unita-mente ai risultati conseguiti nelle

altre prove, laureerà i campioni d’inverno 2012 nelle varie cate-gorie, consegnandogli, oltre alla classica Maglia, dei preziosissimi manufatti in ceramica, ispirati dalla più antica cultura del nos-tro territorio.

Un grazie agli sponsor Barbaro Sport, Biciclette Riotto e Pizze-ria Angolo Verde con l’augurio di buon lavoro agli instancabili or-ganizzatori Alessandro Bova, An-tonio Mazzullo, Gino e Pasquale Mattiani, Rosario Cipri, e a tutti i componenti della ASD Bici Palmi.

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di Daniele Gagliardo

L’usignolo ed il falco spiccarono il volo. Spinti dal vento, distesero le ali emet-

tendo suoni simili a dolci armonie. Le loro scie s’intrecciarono più volte, lasciando a bocca aperta i numerosi presenti che am-miravano sbalorditi quella danza area. Ma poco dopo, il sincronismo tra Joan e Bob non rispettò i giusti tempi: le loro rotte si divi-sero e la storia, che mezzo mondo invidia-va, ebbe termine. Delusa e forse tradita si sedette per riflettere come era solita fare in circostanze difficili. Avido di emozioni un foglio bianco l’aspettava. Era l’anno 1975 e la Baez, ispirata da quel momento, scrisse una delle sue più belle canzoni: Diamonds and Rust. La penna scorreva sicura, impri-mendo una calligrafia chiara e leggibile; la determinazione era quella di sempre, mal-grado il suo amore fosse volato via verso al-tri lidi. L’amarezza non frenava lo scorrere dell’inchiostro, ma fomentava lo sfogo che aveva nell’animo. Due vocaboli le pulsavano nella mente: diamanti e ruggine. Il minerale prezioso brillava al pari del suo amore ini-ziale ma, come il diamante che, filtrando un’immagine da di essa innumerevoli sfac-cettature, anche Dylan dimostrò nel tempo una personalità complessa, trasformando lo scintillio dell’iride di Joan in ruggine opa-ca. La sua presenza ritornò in una sinistra

JOAn BAEz-diamonds and Rust-

notte di luna piena e, come un fantasma comparso dal nulla, fece rivivere nella me-moria della Baez le paure di un tempo. Restò impietrita ad ascoltare la voce al telefono, senza riattaccare, forse perché non aveva mai smesso di cercalo, malgrado si fossero lasciati, o forse perché era “dannata” nel provare questo sentimento contrastante di odio/amore. Anche se era così diverso da lei, trasandato, dimesso e non curante della sua immagine, Bob trasmetteva un grande fascino e di questo ne era consapevole. Il carisma l’avvolse; “gli occhi chiari, parago-nati all’azzurro delle uova del pettirosso”, la stregarono; il portamento dinoccolato l’attraeva a tal punto che era diventata la sua ombra. Continua a scrivere frenetica-mente Joan, non curante del fatto che lui avesse sempre messo in dubbio le sue ca-pacità poetiche definendole “penose”. In questo tumulto di emozioni ricorda regali donati al suo amato ma, tutto questo, non fa che portarle dolore. Dylan era già in auge quando prepotentemente si impose nella sua vita, sconvolgendola. A dispetto dell’e-sile corporatura, Joan non era abituata ad indietreggiare ma a combattere in prima fila battaglie a favore dei diritti civili. Fol-le oceaniche l’acclamavano, consacrandola paladina di una giustizia sociale che, spes-se volte, si nega ai ceti meno abbienti. Ma questa volta l’amore le fece chinare il capo. Lei che era “la Madonna adorata da tutti, la Venere che nasce dalla conchiglia”, bel-la e inarrivabile. Il pensiero adesso è rivolto

ai giorni trascorsi in un hotel a Washington Square, dove “il loro fiato formava nuvolet-te bianche che si mescolavano fermandosi nell’aria”. Giochi tra due innamorati, tempi passati dedicati interamente a colui che cre-deva fosse l’uomo con il quale trascorrere il resto della vita. Ma adesso tutto è cambia-to, niente è come prima. Dal timbro della sua voce si sente che è distaccato, freddo come una statua di ghiaccio. Dylan afferma addirittura “di non avere nostalgie” pen-sando alla loro storia: dichiarazione onesta ma crudele. Questa attestazione squarcia il sentimento di Joan che ancora continua ad avere un tonfo al cuore quando lo sente. Ma non si da per vinta, anzi; per lui, che “è così bravo con le parole e ad essere sempre vago nelle sue affermazioni”, ha in riservo questa canzone che rappresenta una rivalsa. Adesso tutto, per lei, è molto più chiaro. “Il suo è stato un amore vero e se anche adesso sta ricevendo dalle sue frasi diamanti e ruggi-ne, è un prezzo che già ha pagato personal-mente”. La melodia tormentata di questo brano, accompagnata dalla voce da usignolo della Baez, da l’idea del sentimento forte e sentito e di come dal testo trasudi la schiet-tezza di questa donna forte che ha creduto nella storia d’amore vissuta. Joan non esce sconfitta da questa ennesima battaglia. Le ferite provocate dall’esperienza con Dylan l’hanno segnata ma non distrutta, provata ma non annullata ed il sangue, che è sgorga-to da esse, ha intriso le sue piume trasfor-mando l’usignolo in aquila.

Joan Baez e Bob Dylan

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di Cristoforo Bovi

John Robinson, non ha biso-gno di particolari presenta-

zioni in quanto, dai primi anni ’70 in poi, ha suonato nella maggior parte dei dischi di successo usciti nel mondo.

Frequenta la Berklee di Boston con risultati eccelsi, pertanto viene notato subito da gruppi e big band che circolavano da quel-le parti.

Il passo decisivo, che sarà la svolta definitiva della sua car-riera, avviene nel ’78, quando i RUFUS & Chaka Kahn lo scrittu-rano per numerosi dischi e conse-guenti tour in giro per gli STATES, culminati nel ’83 con “STOMPING AT THE SAVOY”, lavoro splendido che vinse anche un GRAMMY per il brano “AIN’T NOBODY”.

In quegli anni, Quincy Jones, favorevolmente colpito dal suo elegantissimo e preciso drum-ming, gli propone di collaborare al disco (divenuto poi leggen-da) “OFF THE WALL” di Michael Jackson.

Da quel momento, “JR” non ha più pace, in quanto desiderato “batteristicamente” da chiunque.

Lionel Richie, Eric Clapton, Dave Lee Roth, Stevie Winwood, Madonna, Barbra Streisand, giu-sto per citane alcuni, hanno “pre-teso” le sue innumerevoli qualità

nei loro lavori discografici, alcuni di essi anche nei tour.

Basta, comunque, collegarsi al suo website ed ascoltare i suoi numerosi grooves, per compren-derne l’effettiva grandezza.

E’ mio compito, oggi, recensire il suo ultimo lavoro discografico PLATINUM.

Con un simile curriculum, an-che a voler chiamare in aiuto gli amici più stretti, la lista si rivela infinita.

Luis Conte, Gary Grant, Abe Laboriel, Grag Mathieson, Neil Stubenhaus, Hawk Wolinski ed un congruo numero di musicisti meno noti ma altrettanto bravi, creano una cornice sonora invi-diabile.

Il disco in sè, non può essere definito un’opera d’arte, bensì un contenitore dei grooves più congeniali a Robinson, magistral-mente eseguiti dalla sterminata lista di nominativi di cui sopra.

Per chi ama il genere, sarà un “incontro felice”, perché deter-minati suoni e certe atmosfere non passeranno mai di moda e risultano piacevoli all’ascolto.

Sarà molto utile, inoltre, a chi si avvicina al mondo dei tam-buri, in quanto “JR” è maestro dell’ESSENZIALE, pertanto la sua dottrina non può che essere di supporto.

Brani da segnalare per il tiro particolare, sono:

The beat, con annessa lezione di basso di Laboriel, You Under-stand, Move Over, Crawfish Salad (groovosissimàààààà) e Hector’s Carrot; anche le restanti tracce meritano attenzione, ma nessuno di Voi griderà al Miracolo.

Felicissimo di aver recensito, dopo due anni, il CD di un bat-terista.

Vi auguro un buon ascolto.

PLATINUMJohn “JR“ Robinson

di Nunzio Lacquaniti

Anche se i “meloma-ni” puri arricceran-

no il naso, noi calabresi, ma soprattutto noi pal-mesi, dovremmo andare fieri sapendo che Mina, una delle più grandi in-terpreti della musica ita-liana, ha inserito l’aria “E la solita storia”, tratta dall’opera Arlesiana del musicista Francesco Cilea (1876-1950) in uno degli ultimi CD dal titolo “Sulla tua bocca te lo dirò”.

Gli arrangiamenti e la direzione sono stati eseguiti da Gianni Ferrio che ne ha curato la rielaborazione di molti brani, rispettando rigi-damente la composizione originale ma sotto alcuni aspetti innovativa.

Mina ha registrato l2 brani nel 2009 servendosi dello stu-dio della Radio della svizzera Italiana e, successivamente, accompagnata dall’orchestra Roma Sinfonetta a Roma.

Sfruttando le sue capacità canore la celebre cantante si è voluta cimentare con alcune delle più celebri romanze del melodramma italiano, da “Mi chiamano Mimì” di Giacomo Puccini, a “Nessuno dorma” della Turandot, “E lucean le stelle” dalla Tosca.

Mentre per le musiche ed i brani del ‘900 ha inserito Ge-orge Gershwin ed alcuni dei più significativi pezzi tratti da Porgy and Bess di Leonard Bernstein.

Questa operazione musicale e culturale abbraccia due se-coli: Mina e la tradizione lirica.

“Due mondi” - come è scritto nella brochure del CD - “che possono sembrare lontani ma che hanno in comune la valorizzazione della bellezza come ragione fondante di ogni espressione artistica”.

Grazie Mina e chi ti ha fatto conoscere Cilea.

MInA cAntA cIlEANEL SUO LAVORO LA MUSICALITA’ DI FRANCESCO CILEA- OMAGGIO AL MUSICISTA -

Francesco Cilea e Mina

La cover del disco

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