NUMERO 255 in edizione telematica - PIERO GIACOMELLIrelitto, abbandonata a se stessa e in balìa...

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NUMERO 255 in edizione telematica 21 aprile 2018 DIRETTORE: GIORS ONETO e.mail: [email protected] Negli ultimi venti anni i quattro quinti sono podi olimpici con le stellette I quattro quinti delle medaglie conquistate dall’Italia nella classifica combinata dei Giochi Olimpici negli ultimi 20 anni (1996-2016, escludiamo la Corea che verrà) sono appannaggio degli atleti con le stellette. Ed è una tendenza che si va intensificando nel terzo millennio. Certo, all’altezza dei Giochi di Roma la proporzione civili/militari nello sport di vertice non era così spinta. C’erano società civili, diciamo pure industriali, che pompavano capitali importanti verso lo sport e ritenevano che l’atletica fosse una fonte di reclutamento importante per i familiari dei dipendenti. Pensiamo al ruolo della Fiat a Torino che in quella dimensione della produzione delle automobili si riconosceva pienamente. La preponderanza dello sport militare si è accentuata con il progressivo ritiro delle industrie dallo sport, con la loro vendita e il loro frazionamento verso l’estero. La Fiat oggi sponsorizza una squadra di basket e si disinteressa dell’atletica. E’ venuto meno anche il fine meramente sponsorizzatore: non ci si lega più a uno sport per vendere di più perché il mercato (in particolare quello delle auto) ha raggiunto la completa saturazione. Anche l’allestimento della squadra azzurra per i Giochi Invernali risente di una percentuale nettamente maggioritaria di atleti militari. La percentuale dei quattro/quinti nella sola partecipazione è nettamente superata. Ed è comprensibile. Le discipline invernali, gli sport di neve e di ghiaccio, richiedono materiali sofisticati e un’impiantistica ad hoc. Non s’improvvisa in questo campo e come poter credere che l’iniziativa privata possa essere una seconda gamba di sistema? Il CONI è pienamente viziato e compensato da questo oligopolio senza troppi distinguo. E anche gli atleti della Forestale sono stati militarizzati rientrando obtorto collo nel novero dei Carabinieri. Bisogna pienamente metabolizzare la convinzione che il vero sport di Stato oggi è quello italiano, annessi e connessi. Ora inizia la caccia alle medaglie e nel medagliere. complessivo dei Giochi (estivi più invernali) l’Italia è al quinto posto incalzando la non imprendibile Francia I pronostici ci assegnano una dozzina di medaglie assegnandoci una dozzina di medaglie e vaticinando il possibile inserimento nel G 8 dello sport invernale. Ma molto dipenderà dal numero degli ori. La scalata al massimo traguardo è estremamente ardua perché Pellegrino e la Goggia non sono immediatamente accreditabili come numeri uno nella tonnara di un pronostico difficile e che propone chiari e diversi numeri uno. Sarà un’Olimpiade in cui il presidente del CONI Malagò avrà la testa piena dei problemi del calcio. Correranno spese importanti di telefono nel filo diretto con il fido e capace Roberto Fabbricini. Un antico adagio ci ricorda che il pesce puzza dalla testa. Ebbene, lo stato di salute malfermo dello sport italiano più che dai prossimi risultati coreani è certificato dalla scarsa credibilità del mondo del football. Daniele Poto LA VERGOGNA Come è bello far le Foibe da Trieste in giù”. E’ il coro choc che si leva dal corteo di Macerata . Nella giornata del ricordo dell’eccidio degli italiani in Dalmazia, qualcuno intona parole che indignano, parafrasando la canzone di Raffaella Carrà e inneggiando al massacro degli italiani fuggiti dal regime di Tito. Accanto a loro sventolano le bandiere dell’Anpi, di Emergency, di Libera, della Fiom, dell’Arci, di Rifondazione comunista, di Potere al popolo e di alcune associazioni di migranti. In una città fantasma, dove si respira un clima da coprifuoco.Tra i partecipanti l’europarlamentare Cecile Kyenge, Gino Strada di Emergency, l’ex direttore dell’Unità Sergio Staino, il giornalista Adriano Sofri, il deputato Pippo Civati e il conduttore Diego Bianchi (Zoro). Ed hanno fatto finta di non sentire Non solo. Il gruppo di manifestanti presenti al corteo , voluto da diverse sigle politiche (e non) dopo il folle raid di Luca Trani, se la sono presa anche con i poliziotti, e con i martiri di Nassiriya. "A Macerata fa freddo e piove, a Nassiriya fa meno 19 (il numero dei morti, ndr)", hanno cantato e urlato senza vergogna per le strade della città marchigiana. Il riferimento è evidente ai 19 morti dell'attentato del 2003 in Iraq. In quell'occasione morirono diversi carabinieri, facendo il loro dovere. Eppure per alcune frange della sinistra sono ancora da considerare "mercenari" degni di essere uccisi. E forse un po' di parallelismo può essere fatto con quanto successo a Piacenza, dove un gruppo di antagonisti e collettivi hanno massacrato di botte un militare caduto durante una ritirata nel bel mezzo degli scontri. “Cori scandalosi, calpestano morti innocenti e tradiscono gli ideali della Resistenza”, ha affermato la presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani.

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NUMERO 255 in edizione telematica 21 aprile 2018 DIRETTORE: GIORS ONETO e.mail: [email protected]

Negli ultimi venti anni i quattro quinti sono podi olimpici con le stellette

I quattro quinti delle medaglie conquistate dall’Italia nella classifica combinata dei Giochi Olimpici negli ultimi 20 anni (1996-2016, escludiamo la Corea che verrà) sono appannaggio degli atleti con le stellette. Ed è una tendenza che si va intensificando nel terzo millennio. Certo, all’altezza dei Giochi di Roma la proporzione civili/militari nello sport di vertice non era così spinta. C’erano società civili, diciamo pure industriali, che pompavano capitali importanti verso lo sport e ritenevano che l’atletica fosse una fonte di reclutamento importante per i familiari dei dipendenti. Pensiamo al ruolo della Fiat a Torino che in quella dimensione della produzione delle automobili si riconosceva pienamente. La preponderanza dello sport militare si è accentuata con il progressivo ritiro delle industrie dallo sport, con la loro vendita e il loro frazionamento verso l’estero. La Fiat oggi sponsorizza una squadra di basket e si disinteressa dell’atletica. E’ venuto meno anche il fine meramente sponsorizzatore: non ci si lega più a uno sport per vendere di più perché il mercato (in particolare quello delle auto) ha raggiunto la completa saturazione. Anche l’allestimento della squadra azzurra per i Giochi Invernali risente di una percentuale nettamente maggioritaria di atleti militari. La percentuale dei quattro/quinti nella sola partecipazione è nettamente superata. Ed è comprensibile. Le discipline invernali, gli sport di neve e di ghiaccio, richiedono materiali sofisticati e un’impiantistica ad hoc. Non s’improvvisa in questo campo e come poter credere che l’iniziativa privata possa essere una seconda gamba di sistema? Il CONI è pienamente viziato e compensato da questo oligopolio senza troppi distinguo. E anche gli atleti della Forestale sono stati militarizzati rientrando obtorto collo nel novero dei Carabinieri. Bisogna pienamente metabolizzare la convinzione che il vero sport di Stato oggi è quello italiano, annessi e connessi. Ora inizia la caccia alle medaglie e nel medagliere. complessivo dei Giochi (estivi più invernali) l’Italia è al quinto posto incalzando la non imprendibile Francia I pronostici ci assegnano una dozzina di medaglie assegnandoci una dozzina di medaglie e vaticinando il possibile inserimento nel G 8 dello sport invernale. Ma molto dipenderà dal numero degli ori. La scalata al massimo traguardo è estremamente ardua perché Pellegrino e la Goggia non sono immediatamente accreditabili come numeri uno nella tonnara di un pronostico difficile e che propone chiari e diversi numeri uno. Sarà un’Olimpiade in cui il presidente del CONI Malagò avrà la testa piena dei problemi del calcio. Correranno spese importanti di telefono nel filo diretto con il fido e capace Roberto Fabbricini. Un antico adagio ci ricorda che il pesce puzza dalla testa. Ebbene, lo stato di salute malfermo dello sport italiano più che dai prossimi risultati coreani è certificato dalla scarsa credibilità del mondo del football.

Daniele Poto

LA VERGOGNA “Come è bello far le Foibe da Trieste in giù”. E’ il coro choc che si leva dal

corteo di Macerata. Nella giornata del ricordo dell’eccidio degli italiani in Dalmazia, qualcuno intona parole che indignano, parafrasando la canzone di Raffaella Carrà e inneggiando al massacro degli italiani fuggiti dal regime di Tito. Accanto a loro sventolano le bandiere dell’Anpi, di Emergency, di Libera, della Fiom, dell’Arci, di Rifondazione comunista, di Potere al popolo e di alcune associazioni di migranti. In una città fantasma, dove si respira un clima da coprifuoco.Tra i partecipanti l’europarlamentare Cecile Kyenge, Gino Strada di Emergency, l’ex direttore dell’Unità Sergio Staino, il giornalista Adriano Sofri, il deputato Pippo Civati e il conduttore Diego Bianchi (Zoro). Ed hanno fatto finta di non sentire Non solo. Il gruppo di manifestanti presenti al corteo , voluto da diverse sigle politiche (e non) dopo il folle raid di Luca Trani, se la sono presa anche con i poliziotti, e con i martiri di Nassiriya. "A Macerata fa freddo e piove, a Nassiriya fa meno 19 (il numero dei morti, ndr)", hanno cantato e urlato senza vergogna per le strade della città marchigiana. Il riferimento è evidente ai 19 morti dell'attentato del 2003 in Iraq. In quell'occasione morirono diversi carabinieri, facendo il loro dovere. Eppure per alcune frange della sinistra sono ancora da considerare "mercenari" degni di essere uccisi. E forse un po' di parallelismo può essere fatto con quanto successo a Piacenza, dove un gruppo di antagonisti e collettivi hanno massacrato di botte un militare caduto durante una ritirata nel bel mezzo degli scontri. “Cori scandalosi, calpestano morti innocenti e tradiscono gli ideali della Resistenza”, ha affermato la presidente del Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani.

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SPIRIDON/2

Il business sta uccidendo lo sport? E’ la domanda che mi è venuta naturale – e non per la prima volta – parlando con persone che nel tempo mi è capitato di conoscere come interessate allo sport e nei discorsi di questi giorni mostrano assoluto disinteresse verso l’Olimpiade invernale. Al massimo qualche battuta, giusto perché ne sono indirettamente coinvolti quell’attentatore alla pace che risponde al nome di Donald Trump e quell’ancor più folle dittatore della Corea del Nord. Così i notiziari cartacei e via etere ne parlano: ma, in assoluto, nonostante sforzi, inserti e programmazione della stampa specializzata c’è da registrare un quasi totale disinteresse per la vicenda sportiva che – pur senza avere l’appeal dei Giochi estivi – pur sempre propone le gare di maggior peso e fascino per la storia dello sport e di un atleta. L’indifferenza percepita mi è sembrata anche più significativa abitando in una città – Torino – che una dozzina di anni fa ha vissuto l’evento olimpico, ed ancor oggi ne gode la ricaduta, se non altro per paragonare l’incuria dell’amministrazione attuale rispetto all’impegno che ci fu e diede ottimi risultati per proporre agli ospiti una realtà non solo vivibile ma piacevole, pulita ed adeguatamente attrezzata. Certo, i Giochi da poco iniziati non hanno ancora proposto quei risultati, ossia le medaglie grazie alle quali ci si sente coinvolti e, ovviamente, patriottici, ma cercando di scandagliare meglio il disinteresse altrui, ho finito per arrivare alla conclusione che proprio le ripugnanti cifre che ormai caratterizzano la visione di un certo tipo di attività sportiva e che non sembrano neppure scandalizzare coloro che faticano ad arrivare alla fine del mese, siano il freno all’interesse. La cosa più sorprendente è che neppure si distingue tra le assurdità del calcio e la consistenza dei cosiddetti sport minori: nel grande calderone finiscono tutti e d’altronde come non trasecolare, per esempio, guardando le cifre a troppi zeri che la Iaaf pretende da chi vuol organizzare una manifestazione di respiro internazionale? Per questo ci sono gli sponsor, obbietterà qualcuno. Ma è il gatto che si morde la coda, perché chi investe lo fa per avere dei ritorni ed allora ecco come ad esempio una maglietta il cui costo al produttore è spesso inferiore ad un euro, viene poi rivenduta a cento volte tanto ed alla fine a rimetterci è chi, non per tendenza ma per passione, vuole avere un “ricordo”. Altro tasto dolente è quello del doping. Neppure questo nuovo, così come l’assuefazione al postulato che per vincere occorra l’aiutino. E purtroppo gli esempi in questo senso non mancano: ed è in questa ottica che ci sforziamo di leggere la recente sentenza (caso Schwazer) di primo grado a Bolzano, perché altrimenti penseremmo troppo male di un giudice che inasprisce le pene richieste dal Pubblico Ministero e condanna chi era stato scagionato per mancanza di prove, nonostante mesi e mesi di indagini. Dove ci porterà tutto questo? Dobbiamo recitare tutti un mea culpa , perché indubbiamente anche la generazione ormai da tempo bianca di capelli ha colpe non lievi. Cresciuta da genitori che avevano vissuto la guerra e sognavano per i figli un mondo migliore senza privazioni, si è fatta prendere la mano, cercando di dare anche più di quello che realmente serviva. E noi, a nostra volta, con i figli abbiamo fatto anche peggio creando i presupposti del succitato business e, per dirla tristemente come quella madre che impasticcava la quindicenne figlia nuotatrice, “non sarebbe giusto che mia figlia fosse come gli altri e che magari perdesse contro il figlio di nessuno”. E ciascuno tragga le sue conclusioni. Giorgio Barberis

Tanti amici intorno a un tavolo per festeggiare il compleanno di Augusto Frasca, per noi tutti un caro amico. Eravamo tanti, invitati da questo signore speciale che per molti di noi ha rappresentato - e lo fa tuttora - un punto di riferimento, un faro prezioso per districarci, quando v’è occorrenza, nelle difficoltà. Un signore che non ha età, altro che i suoi ottant’anni: è sempre l’Augusto conosciuto tanto tempo fa. Ciascuno degli invitati è un pezzetto di un puzzle della vita non solo di Augusto ma di tutti noi. Intorno al tavolo quanti ricordi, quanta nostalgia parlando del nostro amato sport, quell’atletica che abbiamo vissuto con ben altro vigore e che oggi ci sembra un relitto, abbandonata a se stessa e in balìa delle onde, senza un timone e, ahimè, un timoniere. I ricordi affiorano, come si conviene in occasioni del genere, e anche un velo di tristezza per chi non ha potuto vivere insieme a noi questa bella ricorrenza ma non c’era. Il pensiero va a Gianni Capitani, un altro compagno di viaggio, che proprio pochi giorni fa se n’è andato.

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SPIRIDON/3

fuori tema

Bruxelles, ventisei agosto 1950 , rue de la Montagne, Café de la Madeleine: battesimo di The Association of Track and Field Statisticians. Ne sono protagonisti undici tra giornalisti e statistici, dieci europei e uno statunitense: Roberto Luigi Quercetani, Fulvio Regli, André Greuze, Don Potts, Erich Kamper, Norris Mc Wirther, André Senay, Bruno Bonomelli, Björn-Johan Weckman, Ekkehard Megede, Wolfgang Wünsche. Dell'associazione Quercetani è presidente dall'atto di nascita fino al 1968. Lugano, 1951 , copertina grigia sbiadita dal tempo e dall’uso, un piccolo volume, rarità, centoventotto pagine, fotografie di Emil Zatopek, Gaston Reiff, Arthur Wint, Herbert McKinley, Arne Ahman, Ragnar Lundberg, James Fuchs, Adolfo Consolini, Ivan Gubijan, Robert Mathias: è il secondo battesimo di rilievo per R. L. Quercetani: è The 1951 A.T.F.S. International Athletic Annual, pubblicato a nome dell’associazione degli statistici di atletica e firmato dall'Uomo di Firenze e da Regli. Ancora prima, fra il 1947 e il 1948, l'elaborazione delle sue liste mondiali in coabitazione con Donald Potts era stata utilizzata per una corretta composizione dei turni eliminatori dei Giochi olimpici di Londra. Quelle evocate costituiscono tre tappe fondamentali nella vita professionale del personaggio che ha ricevuto nella mattinata di martedì 23

gennaio, a Palazzo Vecchio - senza che dagli uffici federali di via Flaminia uscisse il minimo cenno per i pochi o tanti interessati all'evento - l'onorificenza dell'Associazione europea di atletica. È lo stesso che, decenne, affidò il suo interesse primario all'atletica in una serata del 1932 dinanzi a un display collocato nell'antica piazza Vittorio Emanuele II di Firenze annunciante la vittoria di Luigi Beccali sui 1500 metri ai Giochi di Los Angeles. Un interesse via via alimentato con le consultazioni della Gazzetta dello Sport, del parigino L’Auto dal primo anno di direzione di Jacques Goddet, del tedesco Der Leichtathlet, con il primo articolo firmato nel 1943 sul finlandese Suomen Urheilulehti (un profilo dei dioscuri del disco Consolini e Tosi), con i contatti con il mensile statunitense The Amateur Athlete, la conoscenza del matematico Donald Potts, con cui produrrà nel 1947 la prima All-Time World List, con Leichtathletik e con l’inizio della collaborazione con Track & Field News (1948), di cui più avanti, con l'invito a trasferirsi negli Stati Uniti, rifiuterà la direzione. Da allora , sempre accompagnato dal sostegno dell'ammirevole compagna di vita Maria Luisa, per scrupolo di ricerca e accuratezza di documentazione l’umanista Quercetani, l’uomo di Firenze, l’uomo che nella sua vita ha sempre avuto quale riferimento il credo di Socrate – Hoc unum scio, me nihil scire – è stato, ed è, uno dei passaggi obbligati, padre putativo o fratello maggiore per chiunque avesse o abbia interesse di accostarsi con attendibilità ai personaggi e alla storia dell’atletica mondiale. Alla ricostruzione di quella storia contribuì in misura rilevante nel 1964. Fu la stagione in cui, pubblicata dalla Oxford University Press, con prefazione di Harold Maurice Abrahams, primo atleta bianco olimpionico sui 100, stadio di Colombes, 1924, nacque, definitivo salto di qualità, A World History of Track and Field Athletics 1864-1964, seguito poi da fondamentali aggiornamenti periodici, primo fra tutti, Longanesi editore, anno di grazia il 1968, l'italiano Atletica Mondiale con la memorabile prefazione, da Sant'Ambrogio di Bosisio Parini, di Gianni Brera. Nell'eternità di una generosa , appassionata carriera dedicata allo studio di una disciplina che è espressione vitale della umana cultura, occorrerebbe altro spazio per elencare una lista esauriente delle pubblicazioni firmate da Quercetani, su tutte la lunga frequentazione sulle pagine della Nazione e della Gazzetta dello Sport, la collaborazione con Atletica Leggera prodotta a Vigevano da Dante Merlo, la "federale" Atletica e, per brevi parentesi, con il Corriere dello Sport e con Il Messaggero. In un continente e in un mondo generalmente poco ospitali nei confronti di quanti vi si accostino con pigrizia di linguaggi, a Berlino e a Stoccolma, a Parigi, a Londra come a Città del Messico, l'uomo di Firenze è sempre stato, ovunque, salutato ed accolto quale ambasciatore della parte migliore della nostra terra. Roberto L. Quercetani è un grande italiano. Che l'Iddio del Vangelo, cui crede, ce lo conservi a lungo.

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SPIRIDON/4 Il MIUR, il CONI e la FIDAL hanno elaborato un altro Progetto per aprire le Scuole allo Sport. Mens sana in corpore sano, l'abusato pensiero di Giovenale, è stato declamato ma non attuato. Abbiamo riletto le pagine della rivista Il Discobolo, una inchiesta incisiva su come l'Educazione Fisica è insegnata, e tollerata, nella Scuola. La rivitalizzazione con i Giochi della Gioventù, 1969-1999, dopo il ventennio glorioso, sport e cultura, non ha dato gli esiti sperati, come le nostre 'prediche' su giornali, libri e riviste, dagli anni '60 ad oggi. La trasformazione degli ISEF in Scienze Motorie ha migliorato la professionalità della ricerca ma ha marginalizzato in non poche Facoltà la tecnica e la didattica. La Buona Scuola è mal dotata di palestre e di campi, a ludibrio delle promesse. Il duo Renzi-Faraone promise il prato verde a Brancaccio, visitando la Scuola dedicata a Padre Pino Puglisi. Ad oggi, il quartiere popoloso (circa 56000 residenti), è arido, inquinato in senso lato, e non c'è un Progetto per trasformare in campi, in palestre e in verde attrezzato le zone abbandonate .Queen Atletica, diffusa molto on line, di recente ha messo in pagina l'intervista a Silvano Mombelli, allenatore di atletica e docente. Ne estraiamo una 'scaglia':"E' una farsa, una offesa professionale agli insegnanti di educazione fisica. Un esempio? Lanciare il vortex, correre a prenderlo, darlo al primo della fila e mettersi in coda, ma la cosa più simpatica è la misurazione dei lanci del vortex in palestre da 25 metri... ecco come è stata risolta".Anche altri media autorevoli hanno deprecato che gli insegnanti sono screditati dagli esperti del CONI e della IDAL, che invece dovrebbero aggiornarli nei Corsi annuali.Quanto ammonta economicamente il Progetto in atto? Come sono incentivati gli insegnanti di Educazione Fisica?Di tutto si dibatte nei talk tranne che dell'educazione tramite il movimento. Conosco il fuoco che divorava Pino Puglisi, un Sacerdote ed un Maestro che si battè in una trincea (fra Brancaccio e Corso dei Mille) che io conosco, nella bontà operosa e nella operosità distruttiva, da una vita. Don Pino era mio coetaneo. Mi raccontano che quand’era bimbo, mia madre Rosa, la storica farmacista del Corso dei Mille, lo coccolava, invaghita dal sorriso di questo figlioletto di suoi affezionati clienti. Mia madre pianse Don Pino Puglisi e non si dette mai pace. «Mai si era osato tanto! Anni fa accadde un analogo fatto misterioso, ma, se delitto ci fu, i mandanti non ebbero il coraggio di assumersene la paternità tenebrosa e lo dissimularono come incidente». Non mi meravigliò dunque che Don Golesano, il successore di Don Pino Puglisi, nell’anniversario dell’esecrando misfatto avesse deciso di rendere pubblica una lettera indirizzata al killer che, nottetempo, più crudele di una belva feroce, aveva colpito alle spalle un uomo disarmato di pistole e di pugnali, ma agguerrito, con le parole e con l’esempio, nella lotta contro i venditori di morte. Il Corriere della Sera dette ampio risalto alla missiva del parroco di Brancaccio, così titolando in apertura a tutta pagina 15: “Caro killer, ci voleva un campo di calcio”. Il titolo, all’articolo di Enzo Mignosi, fu di quelli ad effetto, ma val la pena di leggere il brano più significativo della lettera di Padre Golesano: «A volte penso che se avessi avuto un vero campo di calcio una casa accogliente, una vera famiglia, un lavoro, una Scuola, un amico, “forse” non saresti mai diventato un killer ma un bravo ragazzo». Alla fine dell’articolo Mignosi tentava di tranquillizzare i lettori: «il sindaco Orlando rassicura che il campo sportivo sarà completato entro una settimana perché anche un prato verde, come diceva Padre Puglisi, può aiutare un ragazzo a sfuggire alle esecuzioni (testuale) di Cosa Nostra». Apprezzavo, da uomo che crede nei valori dello Sport, quel campo di calcio collocato in cima alla piramide delle Istituzioni. Padre Golesano era un uomo concreto che sapeva su quali temi avviare il dialogo con i ragazzi a rischio, partendo dal loro centro d’interesse: un campo di calcio. Il concetto si ampliava con il prato verde di Padre Puglisi, un campo sul quale si può correre, saltare e giocare, sfoggiando la creatività da contrapporre agli schemi fin troppo reclamizzati del calcio spettacolo. Era probabile che Padre Golesano discernesse nel gioco del calcio quei valori di solidarietà, di subordinazione e di sacrificio che furono cari ad un educatore come Padre Semeria, al quale è dedicato il Centro di San Martino delle Scale. Lungi da noi il sospetto di voler alimentare una diatriba fra i valori di uno sport individuale come l’atletica e quelli insiti nel concetto di sport di squadra. Lo sport, anche per gli amatori, deve essere un mezzo, non il fine. Siamo in sintonia con Padre Golesano non da ieri, ma dall’altro ieri. Quando la guerra di mafia infuriava simile alla peste fra il 1981 e il 1982 e i media, con scarsa fantasia, avevano parlato di Triangolo della Morte, (delle Isole Bermude), per definire i luoghi fra Casteldaccia, Bagheria e Palermo (con le vie Brancaccio, Corso dei Mille e Giafar), scrissi un articolo per la Gazzetta dello Sport. Rilevavo che tutti i grandi campioni siciliani di quel momento (Zarcone, Gargano, Cinà, i gemelli Selvaggio, Antibo...), votati alla sofferenza come lo sono i corridori di lunga lena, provenivano da Centri inquinati dalla violenza mafiosa (Bagheria, Villabate, lo Sperone, Croceverde-Giardini, Altofonte (paese da me definito con l’aggettivo virgolettato “delicato”) e gli eventi successivi (vedi le partecipazioni di alcuni soggetti alle stragi) non mi avrebbero dato torto! «Non si nasce mafiosi, però per distinguersi nei gradi, la massa di energia, la forza vitale deve esistere. E’ questa forza che, identificata, cerca di espandersi: se trova le condizioni adatte può giganteggiare nello Sport, nelle Lettere, nelle Arti, nelle Scienze, nella Politica. Altrimenti si sente bloccata e compressa e cerca di emergere, seguendo le vie traverse e un proprio codice che nello sport agonistico sta a significare, purtroppo, l’aspetto più brutale: la vittoria ad ogni costo. Il Prefetto Dalla Chiesa chiedeva aiuto a tutti e noi, uomini di Sport, che crediamo nei valori educativi e nella prevenzione più che nella repressione, diciamo ancora ed una volta per tutte: <<ma non vi sembra che sia il caso di attuare un massiccio programma di investimento sociale in queste zone dove mancano le più elementari strutture per l’educazione dei giovani?». Trascorsero anni, i morti si sono affastellati fino a culminare nell’uccisione di Don Pino e noi siamo ancora abbracciati alle parole di Padre Golesano, al suo messaggio, alla speranza che almeno una, fra le Istituzioni citate nella lettera al killer, funzioni. Perché la lettera di Padre Golesano indirizzata al killer fu un severo rimprovero a tutti noi, ma soprattutto a chi, detenendo le leve del potere, ne ha fatto un abuso demagogico, promettendo mille e realizzando uno. Pino Clemente

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SPIRIDON/5

la ricorrenza:

di Pino Clemente Una sola notte di quiete , dal 21 al 22 gennaio 2015: è l'una, e dorme il "vico" di via Pianell. Dal tam tam di internet un motivo antico, lugubre, inestinguibile come l'uscita dalla pista degli umani. Giampaolo Lenzi, il distinto Maestro della premiata Scuola di atletica Estense, collega e amico dal 1967, un cursus honorum dalla cattedra alla Media alla docenza all'Isef, dalla direzione del Cus Ferrara negli anni '60 a c.t. della nazionale, cede al logoramento di una malattia che si era aggravata negli ultimi due anni.

La nostra ultima telefonata tramite Massimo Magnani , l'allievo prescelto, il c.t. unico della nazionale, e il ricordo dei nostri trascorsi: breve il dialogo, lunga l'onda del dopo che avvolge e si presenta con intermittenza anche nel dormiveglia nei sogni. Il ricordo di Giampaolo a Roma, il raduno dei giovani allenatori per la prima fase del Clan del mezzofondo ideato dal c.t. Lauro Bononcini di Bologna, con gli adepti precursori: Michele Autore ,Mario Di Gregorio , Renato Funiciello , Pino Pecorale . A margine, ai verdi anni atleta di buon livello regionale negli 800 metri, Lenzi correva allo stadio dei Marmi, e mi diceva come Mercedes Cittadini lo avesse sfiancato nelle prove intervallate sui 200 metri. Mercedes è la sposa di Gianfranco Carabelli, classe e charme.

I primi campioni made Cus Ferrara: Dario Bonetti mezzofondista veloce e Silvia Chersoni del giro di pista che ondeggiando la chioma e aprendo il passo delle gambe sfrecciava e faceva girar la testa ai tanti ammiratori. Due episodi che ci riportano agli anni '70. L'allieva di Lenzi e Margherita Gargano si preparano a gareggiare nella nazionale juniores, incontro con la forte Jugoslavia. Il c.t. Salvatore Morale aveva assegnato la camera alle due, la bionda decantata e l'affilata bruna bagherese. Allo scoccare della mezzanotte, Lenzi telefona a Morale e non c'è dubbio: chiede il 'controllo' della presenza in stanza. Il c.t. va, bussa e dopo minuti di suspense appare Margherita Gargano appena svegliata che garantisce: Silvia dorme. E il racconto finisce con questa testimone di rispetto. Lenzi si era diplomato in Educazione Fisica nel 1958 presso l'ISEF di Ferrara. A partire dallo stesso anno, fino al 1978, fu insegnante di ruolo presso una scuola media ferrarese, e dal 1979 al 1981 presso l'istituto tecnico Monti. Fu allenatore in 3 diverse società di atletica ferraresi: 4 Torri Ferrara (1959-1970), AICS Ferrara (1962-1970) e CUS Ferrara (1970-1992). Portò 25 atleti a vestire la maglia azzurra, per un totale di 110 presenze in nazionale, di cui 78 per le categorie assolute. Diverse furono le esperienze olimpiche: Massimo Magnani a Montréal 1976 e Mosca 1980, Laura Fogli ai Giochi di Los Angeles 1984 e Seul 1988 (a quest'ultima accompagnò anche Orlando Pizzolato ), mentre portò Salvatore Bettiol ed Emma Scaunich a Barcellona 1992. Tra il 1968 e il 1970 fu direttore, su incarico della FIDAL, dei centri sportivi estivi nazionali di Aosta, Rieti e Belluno per i migliori studenti-atleti emersi dai campionati studenteschi delle province italiane. Sempre per la FIDAL fu

responsabile nazionale del mezzofondo giovanile (1968- 1972), del mezzofondo femminile assoluto (1973-1976), della maratona (1976-1988) e del mezzofondo e fondo maschile e femminile assoluto (1989-1993). Dal 1993 al 1994 fu addetto al Centro Studi e attività didattiche della FIDAL, mentre dal 1995 al 2001 assunse il ruolo di Commissario Tecnico della nazionale maschile di atletica leggera. Dal 2001 al 2015 è stato docente di Teoria e Metodologia dell'allenamento e di Teoria Tecnica e Didattica degli sport individuali nel corso di laurea in Scienze Motorie della Facoltà di Medicina e Chirurgia dell'Università di Ferrara, Rettore il Magnifico e discusso

scienziato dello sport Francesco Conconi, con il quale condivise le ardite sperimentazioni. Da Magnani , allievo ed ex c.t. della nazionale, il senso compiuto del titolo: in età avanzata Gian Paolo apprese come estrarre dai tasti del pianoforte la musica che conduce all'ascesi. Sempre da Magnani, oggi, la notizia: in coincidenza con i Campionati Italiani dei 10.000 metri, assegnati a Ferrara, 19-20 maggio, lo Stadio sarà dedicato a Gian Paolo Lenzi, presente fra le autorità Dario Franceschini, ex allievo a scuola. A corredo, un concerto, protagonista la figlia di Gian Paolo, dal violoncello all'arpa, residente a Parigi, con il dono del canto. Non mancheranno i suoi campioni: Fogli, Pizzolato, Bettiol, Scaunich, Chersoni, e gli altri che hanno illustrato l'atletica italiana.

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SPIRIDON/6

Animula vagula, blandula... scelti da Frasca

La Ines , una di quelle donne milanesi pallide di faccia e nere di capelli, minute di ossa e gonfie di carne che si vedono ancora qualche volta davanti ai portoni di corso Garibaldi o nella zona di Porta Ticinese... Occhi neri, grandi e teneri, voce molle, pelle bianchissima da inseguire e immaginare oltre il limite poco generoso delle vesti che coprivano strenuamente le sue carni ma non potevano impedire l'esplosione delle sue forme , e in particolare del petto, così sporgente che a Luino non se ne era mai visto uno simile a memoria d'uomo. Era una cosa incredibile, come il segno della piena del 26 settembre 1898, murato tra il primo e il secondo piano dell'Albergo Posta e Svizzera. Le donne lo giudicavano senz'altro falso, posticcio, di gomma, benché la Ines, con la vita onesta e riservata che conduceva, non avesse alcun bisogno di imbrogliare la gente con simili artifici. Gli uomini credevano ciecamente a quel seno e lo assegnavano ai fenomeni della natura ... Di pomeriggio era ben raro che un cliente si affacciasse allo studio... Poteva la Ines non aver capito che la passione del giovane stava trovando la strada per riversarsi su di lei al primo cedimento?... Le persiane erano chiuse sulla piazza piena di sole e il vetro smerigliato della porta tra lo studio e l'anticamera era una superficie opalescente che non diffondeva luce. Avvolto dalla penombra sorgeva nel bel mezzo del divano il busto della Ines, quasi in equilibrio sulle cosce accavallate. Era, come al solito, vestita di nero, i capelli corvini stesi sulle tempie e raccolti dietro e sopra la testa in una pettinatura compatta come

quella di una Gorgone, le mani composte in grembo e gli avanbracci scoperti e biancheggianti su tutto quel nero... Era decisa a lasciarlo fare ma non poteva dirglielo apertamente. Quando il Càmola accennò a sederle accanto, si scostò un poco per fargli posto e gli si volse con gli occhi tristi per cominciare a parlargli dolcemente.

«Vede, gli disse, io mi sono sacrificata per la Sandra. Ho rinunciato a sposarmi, a farmi una famiglia. E qui cosa

sono, in casa di mio cognato? Una governante, nel migliore dei casi. O una serva. E qualcuno pensa di peggio... », «No, no», disse il Càmola tutto premuroso, e le posò una mano sulla spalla per rassicurarla. Poi, sempre più

intenerito, le rimise a posto delicatamente una ciocca di capelli che le era scesa sul collo e le sfiorò per la prima volta la pelle. Fu una specie di tromba d'aria , un turbine entrato da chissà dove che li avvolse, li trascinò e li avrebbe rapiti in aria se quel sozzo divano, con la sua funzionalità preconcetta, non li avesse trattenuti nel suo seno. L'incredibile fortuna del Càmola andava attribuita in buona parte al caso. Egli era arrivato al momento giusto e aveva potuto approfittare di una congiuntura favorevole. Si era inserito in uno di quei vuoti che tutte le donne attraversano, momento nel quale l'uomo che ha la buona sorte di trovarsi a portata di mano, e ha gli occhi aperti, coglie una palma per la quale altri hanno sospirato inutilmente... I più abili e risoluti donnaioli di Luino avevano appostato e stuzzicato la Ines senza alcun risultato. Perfino l'industriale Ceretti, bell'uomo al quale poche donne avevano resistito, si era dichiarato sconfitto dopo un'insistenza di due o tre mesi e dopo averle offerto invano un appartamento e un appannaggio. Fallito questo tentativo che era stato l'ultimo di una lunga serie, nessuno aveva più osato aspirare alla Ines, che del resto usciva pochissimo di casa e non dava esca agli intraprendenti. Per vederla bene, e rendersi conto di quel che andava perduto in un paese come Luino che di quella roba ne aveva poca, bisognava essere presenti, a mezzogiorno della domenica, all'uscita della messa di San Giuseppe. La Ines scendeva i gradini a testa bassa, di fianco alla nipote, con una mollezza così elastica che anche le due statue di santi nelle nicchie a lato della porta sembrava avessero la testa storta forza di guardarla. Tanto ben di Dio doveva toccare al Càmola, e quasi senza sforzo, in un pomeriggio d'estate, complice il divano dell'avvocato Parietti, l'ora calda, il risveglio dei sensi o qualche precipitazione predisposta nell'atmosfera luinese, in quella colonna d'aria che sovrasta il paese e dentro la quale decisioni e desideri scendono e salgono come i diavoli di Cartesio. Quando il turbine incominciò , il Càmola non riuscì più a distinguere le sue sensazioni. La bocca gli sapeva di rossetto, di profumo, di un amaro e goloso sapore di pelle sudata. Gli occhi vedevano ora bianco ora nero, le mani gli portavano notizie di zone vellutate e molli come panna montata, d'improvvise durezze, di curve e contro curve. Tutti gli ostacoli erano stati travolti e sul divano avveniva qualche cosa come l'incontro del Tresa e del Margorabbia al ponte di Germignaga, in un giorno di piena... Il divano del Parietti dopo i primi sussulti divenne una culla dolcemente ondeggiante dentro la quale il Càmola si sarebbe liquefatto se le pupille della Ines, riemerse in tanto naufragio, e dilatate ma ferme in quel gorgo, non l'avessero tenuto a galla dirigendolo infine all'immobilità e al riposo. Fu un giorno memorabile. Da Il piatto piange , di Piero Chiara (Luino 1913-Varese 1986), Arnaldo Mondadori editore, Milano 1962.

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SPIRIDON/7

Giuseppe Allamano nasce a Castelnuovo d’Asti (oggi Castelnuovo Don Bosco) il 21 gennaio 1851, dietro la chiesetta di San Rocco. Castelnuovo (a quei tempi provincia di Alessandria) è terra di personaggi e santi. Nel 1811 in una casa di via Alberti vi nasce S. Giuseppe Cafasso, il formatore del clero torinese; sua sorella, Maria Anna è la mamma di Giuseppe Allamano. Quattro anni più tardi, in frazione Becchi, viene alla luce S. Giovanni Bosco. Nella casa di un fabbro di Riva ha vita la serafica figura di S. Domenico Savio. Sempre a Castelnuovo, a pochi metri di distanza dagli Allamano, nella casa dei Cagliero nasce Giovanni, che diverrà cardinale missionario. Sulla collina di Piovà sboccia il Massaia, grande missionario dell’Etiopia; a Bra

il Cottolengo. Undicenne, Giuseppe Allamano approda a Torino, entra nell’oratorio di Don Bosco, e vi compie gli studi ginnasiali, sotto la guida del santo educatore. Curioso leggere il primo dialogo tra Don Bosco e l’Allamano immaginato dal Padre Mattea: «Un pomeriggio della fine di ottobre del 1862, durante la ricreazione, Don Bosco notò un ragazzo che se ne stava in disparte sotto i portici. Lo fissò attentamente, incredulo, e disse fra sé: “È una visione o realtà, questa?.. Don Cafasso mi si presenta in mezzo ai ragazzi, lui stesso ragazzo?”. Si avvicina al giovinetto e l’interroga: “Chi sei tu?”. – “Sono Giuseppe Allamano; vengo da Castelnuovo d’Asti e sono fratello di Natale”. – “Già... è vero; adesso ricordo: tuo zio, il parroco di Passerano, mi aveva parlato di te... anzi, è lui che ti ha condotto qui, vero? Non ti avevo riconosciuto. Sai che sei somigliantissimo a don Cafasso? Tu sei anche suo nipote, vero?” – “Si, signor Don Bosco, ma l’ho visto una volta sola”». Nella deposizione al processo apostolico per la beatificazione dello stesso Don Bosco, Giuseppe ricorderà quei quattro anni: « Ho avuto e ho speciale affetto e devozione per il venerabile Don Bosco, per il bene che ha fatto nella mia prima educazione, e per essere stato in quel tempo mio confessore regolare ». Don Bosco lo stima moltissimo e vede in lui la stoffa di un ottimo salesiano. Ma Giuseppe, sia per l’esempio dello zio don Cafasso, prete diocesano, sia perché, alieno alla « vita troppo movimentata e rumorosa » dell’oratorio, è propenso solo « a fare bene il bene ». Perciò, terminati gli studi, preferisce andare in Seminario, lasciando l’oratorio... senza salutare Don Bosco. È la domenica 19 agosto 1866. Dopo molto tempo riceverà un simpatico rimprovero dallo stesso Don Bosco. Il dialogo fra i due viene raccontato

dallo steso Allamano. Don Bosco: «Me l’hai fatta grossa... Sei andato via senza salutarmi!» - « Non osavo... » risponde Giuseppe. «E sei andato via di

domenica!» - « Era per necessità... ». Ordinato sacerdote a 22 anni, monsignor Lorenzo Gastaldi dopo tre anni lo nomina direttore spirituale nel Seminario di Torino e nel 1880 gli affida l’incarico di rettore del santuario della Consolata. Ricoprirà l’incarico per 46 anni. Nel 1901 fonda l’Istituto Missioni Consolata e nel 1910 le Suore

Missionarie della Consolata. La sua vita spirituale è tutta impostata su principi molto semplici: « Essere, prima di fare. Essere straordinari nell’ordinario. I santi sono santi non perché hanno fatto miracoli, ma perché hanno fatto bene tutte le cose ». Ci piace rammentare una particolarità poco nota. L’Allamano non è ricordato come uno scrittore, tanto meno un giornalista; da giovane ha

si tentato di scrivere la biografia dello zio don Cafasso ma, abbozzate una trentina di pagine, si accorge di non essere tagliato per quella professione. È pur vero però, che stima e sostiene con convinzione il giornalismo cattolico, collaborando con idee e aiuti finanziari. « Il denaro serve per fare del bene, non per stare bene » è un altro suo motto. Giuseppe Allamano muore a Torino il 16 febbraio 1926, a 75 anni di età. Beatificato il 7 ottobre 1990 da san Giovanni Paolo II. Il corpo è venerato nella Cappella della Casa Madre dell’Istituto Missionari della Consolata in Torino.

Pierluigi Lazzarini Exallievo e storico di Don Bosco

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SPIRIDON/8

il racconto del mese

di Ermanno Gelati

L'aria sulla quarta corda di Bach interruppe il sogno.

Mi svegliai bruscamente e afferrai lo smartphone, poi, mentre scorrevo l'indice sopra un punto preciso dello schermo, mi chiedevo se non fosse il caso di rimanere a letto invece di uscire a correre. Poco dopo, un impertinente raggio di sole si guadagnò un varco nelle persiane socchiuse e il suo bagliore vinse il mio torpore, così allontanai le coperte con un calcio e mi alzai di scatto.

Il ronzio del rasoio elettrico fece il resto e io, a quel punto completamente sveglio, mi diressi in cucina dove mi aspettava una colazione estemporanea: una barra proteica e una spremuta di frutta. Infine non mi rimaneva altro da fare, se non indossare il costume aderente color verde bottiglia con calze in tinta, infilare i piedi in un paio di scarpe tecnologiche e inforcare gli occhiali fotocromatici.

Scesi le scale di corsa e quando fui all'aperto presi atto delle previsioni meteorologiche: stava nascendona splendida giornata primaverile.

Mentre la leggera brezza mattutina mi stimolava a correre impostai il solito ritmo blando iniziale, prima di fare sul serio.

L'aggettivo essenziale qualifica perfettamente questo sport, infatti basta godere di buona salute e possedere un'adeguata preparazione per praticarlo. Diversamente da altre discipline non servono particolari attrezzature, bastiamo noi stessi e un briciolo di abnegazione. Inoltre, e non è poco, mentre si fatica ci si può rilassare osservando con calma quello che ci circonda, come quella curiosa costruzione che appariva sul lato sinistro della strada non appena svoltavo e mi lasciavo alle spalle l'abitato.

Dopo quella fantomatica villa non esistevano che sentieri sterrati, prati e boscaglia. Si trattava di un'abitazione vecchia e malandata le cui facciate esibivano, sorprendentemente, strani pannelli in autentica corteccia d'albero.

Su una delle due colonne di cemento, che ne delimitavano l'ingresso, svettava una sconcertante scultura mitologica: un minuscolo unicorno di pietra.

Ogni volta che vedevo l'indomita figura mi chiedevo come mai nessuno avesse pensato di rimuoverla e impreziosire l'arredamento di casa, ma forse avrei dovuto decidere di farlo personalmente prima che qualcuno mi bruciasse sul tempo.

Sul fatto che quella casa fosse abbandonata da parecchio non v'erano dubbi, lo testimoniavano le sterpaglie che infestavano quello che un tempo doveva essere un grazioso giardino. Il cancello d'ingresso mostrava i segni dell'abbandono attraverso la vernice scrostata, dalla quale affiorava una ruggine scura e grumosa; anche la corteccia alle facciate si stava inesorabilmente sfaldando, tanto da scoprire il nudo legno sottostante. Dietro alla villa si intravedeva il rudere di un'antica fabbrica.

Un muretto di mattoni rossi corrosi, sopra il quale si ergeva una recinzione di rete metallica malmessa, a tratti mancante, racchiudeva, come uno scrigno, quell'originale eredità del passato. Forse l'intero complesso ospitava una modesta attività familiare di anticonformisti.

Mi chiedo frequentemente, durante i viaggi notturni in treno, mentre osservo sfilare le finestre illuminate delle ville e dei palazzi, quali fenotipi potrebbero abitare quegli alloggi. A volte, quando il convoglio rallenta e le rotaie sono vicine alle abitazioni, si possono notare dei piccoli quanto illuminanti indizi: lampadari, librerie, addirittura soprammobili.

Accantonate queste divagazioni mi immersi nuovamente nel percorso, riflettendo che ogni volta, nel passare da quel luogo, provavo un senso di sollievo nel notare che non era cambiato nulla, che nessun cantiere stava per essere innalzato e che, apparentemente nessuno, almeno sino ad allora, intendeva dissacrare quel tempio magico e decadente. Tuttavia, un giorno il misfatto sarebbe certamente avvenuto e io sapevo che per me, senza quella dimora misteriosa, quel percorso avrebbe perso parte del suo fascino.

Uscii anche da quest'ultima considerazione per potermi concentrare meglio sul passo da tenere, non c’era affanno nella mia respirazione perché avevo imparato a controllarla. Praticando quotidianamente questo sport, ci si crea una sorta di personalissimo pace maker biologico che funziona da metronomo mentale.

Quest'ultimo si rivela indispensabile nel corso dei mitici quaranta chilometri di competizione; infatti non bastano gambe e polmoni, ovviamente devono esserci e ben allenati, è anche quell'immaginario tic-tac che ci aiuta, in una specialità così faticosa, a correre sino alla fine senza rischiare la pelle.

Mimetizzato nel verde come un camaleonte, avanzavo con una discreta frequenza lungo un sentiero stretto, delimitato da due strisce d’erba che correvano parallele come rotaie. L’odore della vegetazione mischiato alla corteccia degli alberi e alla terra umida, tipico delle pianure lombarde, mi facevano sentire parte integrante della natura circostante, riportandomi indietro nel tempo.

Tutte le volte ricordavo, in quel punto del percorso, la mia infanzia: le folli scorribande bucoliche del branco, a volte braccati da un guardiacaccia che avrebbe avuto ben altro da fare che inseguire ragazzini armati di carabine ad aria compressa. Forse era quell’effluvio intenso e primitivo che ci spingeva verso l'ignoto, allora una vasta riserva di caccia, e a sparare, si fa per dire, a tutto ciò che si muoveva.

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SPIRIDON/9 Un giorno accadde un episodio che interruppe per sempre le mie imberbi velleità venatorie. La mia carabina,

vecchia e difettosa, era il regalo di un amico che possedeva un vero e proprio gioiello tecnologico. Per questo motivo o per incapacità non riuscivo mai a colpire qualcosa, tranne in quella sciagurata occasione. Dopo aver mirato un passero appollaiato allo scoperto sopra di me e premuto il grilletto, mi ritrovai ai piedi l'uccellino agonizzante. Dopo aver gettato l'arma lo raccolsi: l'afrore acre del suo sangue e i suoi occhi straziati mi commossero a tal punto da giocarmi irrimediabilmente il nascente rispetto virile del branco.

La mia corsa continuava e fra poco sarebbero apparsi i due Range Rover gemelli. Le sagome spettrali delle due carcasse spuntarono puntualmente in fondo al campo, immerse nelle erbacce e

dopo una curva a gomito. Evidentemente i ladri avevano avuto tutto il tempo per lavorare indisturbati e asportare il possibile prima di dare quelle auto alle fiamme. Come al solito, mi chiesi cosa aspettassero a rimuovere quei rottami arrugginiti.

Proseguii nel viottolo che continuava in mezzo ai campi, fino alla svolta successiva e a quello che non mi aspettavo.

Un pastore tedesco, piantato in mezzo al sentiero, mi sbarrava la strada. Mi fermai di colpo annichilito! Osservai la bestia che mi fissava con le orecchie ritte e senza dimenare la

coda. Le mie nozioni sulla razza canina erano alquanto limitate ma la sua posa mi suggeriva comunque una certa

cautela. Lo osservai meglio e notai che il suo aspetto era quello di un esemplare curato. La constatazione in parte mi tranquillizzò: almeno non ero alle prese con un randagio.

Rimanemmo così, io e il cane a studiarci, mentre da parte mia stavo elaborando una strategia per levarmelo di torno e continuare la corsa. Mi ricordai di un romanzo, nel quale si dice che per mettere in fuga un cane occorre far finta di staccarsi la testa e scagliargliela contro, o qualcosa di simile.

Non ci pensai neppure di mettere in atto la bravata, avrei potuto anche farlo poiché nessuno mi stava osservando ma quella mi sembrava proprio una buffonata.

Mi guardai attorno per cercare un'improbabile arma da difesa, nel caso l'animale mi attaccasse improvvisamente: un sasso oppure un ramo per esempio. Poi, invece, giocai d'astuzia. Forse quel cane lupo si sentiva l'individuo alfa del branco e non mi avrebbe mai ceduto il passo se non dopo una mia resa incondizionata; così mi piegai sulle ginocchia e aspettai.

Avevo fatto centro perché lui cominciò a dimenare leggermente la coda e si avvicinò con cautela, sino a sfiorarmi. A quel punto successe una cosa inspiegabile... Avvertii una strana sensazione, difficile da descrivere: sembrava che un soffio di vento improvviso mi avesse investito.

Non avendo confidenza con la specie, per prudenza non lo toccai e, visto che lui stava di nuovo immobile, ebbi il tempo di notare il collare di cuoio screpolato; osservando meglio vidi luccicare una piastrina. Mi tolsi gli occhiali, poi mi asciugai il sudore con il palmo della mano e mi concentrai sulla scritta che a prima vista mi parve antiquata, con i caratteri allineati grossolanamente: evidentemente l'incisione era stata eseguita una lettera alla volta con dei punzoni.

Rinfrancato mi rialzai e gridai: «Wolf!». Il pastore si mise al mio fianco impaziente: mi stava incitando a riprendere! Così ricominciai a correre con quel partner inconsueto che mi trotterellava al fianco ma precedendomi, da

leader dominante, di mezza lunghezza. Arrivammo al tronco d’albero mozzato che trovavo sempre all’inizio del solito bosco. Proprio in quel tratto,

qualche tempo prima, nel corso di uno dei miei allenamenti mattutini, incontrai un uomo di mezza età in completo scuro e cravatta che ci stava seduto. Ricordo il suo sguardo perso nel vuoto e nessuna risposta al mio abbozzo di saluto.

Che cosa ci facesse tra il fogliame, vestito così e con quell'espressione sul viso me lo sto ancora chiedendo. Ricordo anche che, dopo essermi allontanato e aver superato una serie di cespugli, notai una berlina scura parcheggiata malamente nel prato di fianco e di essermi aspettato di udire, da un momento all'altro, un botto sinistro. Ma forse quel tipo si era semplicemente preso una pausa immerso nella natura.

Proseguii nel solito percorso con Wolf per poi tornare nei pressi della villa ricoperta di corteccia. Improvvisamente il cane si fermò e io, trascinato dall'inerzia della corsa, lo imitai poco più avanti. Dopo

essermi voltato lo vidi impalato che mi fissava, poi lui si mosse avvicinandosi lentamente fino a sfiorami la coscia con il muso: non ci fu contatto tra noi piuttosto avvertii, per la seconda volta, quel colpo di vento anomalo.

Infine l'animale, trotterellando, si allontanò. Ero deluso. Stupidamente pensai che quel cane mi avrebbe seguito in capo al mondo, chissà perché, quel

giorno, mi venne in mente una tale sciocchezza. Ripresi la corsa, ma quasi subito mi voltai e, pur avendo l'intera prospettiva di una strada diritta, non lo vidi

più. Wolf era letteralmente scomparso. Mi concentrai nuovamente sul ritmo da tenere ma quando fui davanti alla villa mi fermai indeciso. Poi

intravidi una breccia nella recinzione. Avvertivo confusamente che qualcosa mi stava incitando a entrare all'interno di quello scrigno, così seguii

d'impulso lo stimolo scavalcando agilmente il muretto di mattoni, poi avanzai cautamente facendomi largo nelle erbacce fra le quali, vicino all'abitazione, notai una massa voluminosa ormai preda dei rampicanti che la avvolgevano. Mi inginocchiai e mi misi a liberare l'oggetto dai tentacoli facendo attenzione alle ortiche che spuntavano dappertutto. Imprecai e serrai le labbra per il prurito alle mani ma riuscii comunque a dipanarne una porzione che si rivelò una vecchia cuccia per cani.

Scoprii completamente la parte anteriore di quel rifugio e dopo aver letto il nome marchiato a fuoco sopra l'apertura rimasi di stucco.

Mi rialzai barcollando e ritornai incerto sui miei passi.

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SPIRIDON/ 10

di Sergio Pegorini

Sono incondizionatamente dalla parte delle forze dell’ordine, di quelle stesse che dovrebbero garantire (e ci provano) la nostra incolumità, la nostra sicurezza. Le stesse che si trovano a lottare quotidianamente contro auto di servizio che non sono efficienti, che devono essere riparate e non ci sono i soldi nemmeno per la benzina, che se ci fossero potrebbero servire. Le stesse che il giorno dopo l’arresto si trovano con l’ex-arrestato al bar che gli fa marameo perché certi magistrati, ahinoi, li lasciano a piede libero o li mettono a domicilio coatto nei campi Rom da dove spesso provengono. Quegli stessi campi Rom dove basta entrare che si trova qualsiasi cosa che possa servire a violare il codice. Penale naturalmente. Il fatto è che bisogna entrare, si può solo entrare, col “Celere” o con il

Battaglione (a seconda che sia polizia o Carabinieri) che una o due volanti o gazzelle non servono a nulla, anzi.

In compenso dopo aver assistito a manifestazioni di solidarietà per i cosiddetti migranti abbiamo assistito al “canto del cigno” dell’ordine pubblico”. A Piacenza 10 (dieci) carabinieri sono stati mandati a contenere 4/500 energumeni dei cosiddetti “centri sociali” che in realtà sono guastatori in servizio permanente effettivo. Dieci contro 400…nemmeno alle Termopili. Il disastro è stato che questi poveri ragazzi hanno mostrato palesemente quanta sicurezza possiamo trarne per la nostra tranquillità: non solo in fortissimo gap numerico ma, soprattutto, in fortissimo deficit addestrativo particolarmente aggravato

dall’esiguità del numero operativo ma soprattutto traditi da una classe politica senza dignità né senso dello Stato . Sono bastati quattro imbecilli sediziosamente determinati, armati con aste di legno e tanto odio , per volgerli in fuga. E a pagare uno solo, un brigadiere, probabilmente scivolato nella fuga e rimasto solo, che oltre ad accendere un cero alla Madonna deve ringraziare che le aste fossero di plastica perché la gente era la stessa che “uccidere un fascista non è reato”, “basco nero il tuo posto è al cimitero” e a corredo ci metteva spranghe di ferro e “hazet 36”.

Questi poveri ragazzi probabilmente non hanno ricevuto il minimo addestramento che un qualunque reparto di fanteria, anche micro, deve ricevere. Anche il micro-reparto è una comunità di tipo fraterno, quasi francescano, dove per spirito di corpo e ancor più per spirito di servizio “nessuno deve rimanere indietro”; si portano indietro anche i feriti gravi, anche i morti, nessuno viene abbandonato. Come le antiche unità romane, centurie, coorti, la Legion un qualsiasi picchetto anche in evidente inferiorità numerica serra i ranghi e si batte. Gli uomini combattono spalla a spalla, fianco a fianco, dove ciascuno difende sé stesso e il commilitone a fianco, quello davanti quello dietro e viceversa: un vero nucleo di mutuo soccorso. Ma nessuno molla, nessuno fugge, si torna “o con gli scudi o sugli scudi”. Questo non è avvenuto sicuramente per mancanza di addestramento, perché gli esempi quotidiani sono contro chi cerca di far rispettare le leggi: ricordiamoci di Placanica.

Guai a intimare l’alt ad un onesto rapinatore, guai a non scansarlo quando cerca di investirti, guai a cercare di fermarlo sparando alle gomme. Un proiettile di rimbalzo che ne ammazza uno ti costa l’avvocato e la carriera: se non vai in galera forse vieni congedato. Se metti la mano sul calcio dell’arma è minaccia, abuso di potere. Quando poliziotti e carabinieri potranno esercitare il giusto livello di contrasto?

Vero che per fare questo occorrerebbe che i giudici del “politicamente corretto” si rendessero conto dei guasti che stanno provocando, non difendono questa società malandata e sempre più insicura ma difendono i criminali che cercano di approfittare ogni giorno di questo incedere insicuro, di questo ipergarantismo masochista che ingiunge al rapinato di indennizzare il rapinatore che è stato in qualche modo “toccato” dalla difesa che, purtroppo, obbligatoriamente rapida e concitata, non ha spesso potuto essere calibrata ne’ bilanciata (è facile ragionare con calma quando si è ben sistemati in un tranquillo ufficio con tanto di protezione e di scorta) e che ha avuto come risultato un ferimento, un ricovero, se non la morte.

Eccesso colposo nell’uso delle armi, eccesso colposo di legittima difesa, legittima difesa putativa. Fino a quando dovremo fare collette per gli avvocati degli aggrediti, fino a quando dovremo fare funerali e versare lacrime da cittadini indifesi per cittadini che non hanno saputo ne’ potuto difendersi, per “tutori della legge” che non hanno potuto esercitare il loro mandato e lasciano famiglie e figli anche se hanno continuato a dire “meglio un brutto processo che un bel funerale”?

Basta. Ditelo oggi, ogni giorno che Dio manda in terra. E ricordiamocelo quando sarà il momento.

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SPIRIDON/11

Alto Adige è in atto una vera è propria rivolta contro la pupilla di Matteo Renzi, catapultata nel collegio uninominale di Bolzano-Bassa Atesina per evitarle la corsa nella Toscana di Banca Etruria. Il Pd ha scelto il Sud Tirolo perché spera che, grazie allo storico accordo con gli autonomisti della Svp, il collegio sia praticamente blindato per la Sottosegretaria di Stato alla presidenza del Consiglio. Ma mai dire mai, e mai dare nulla per scontato. La base del Partito Democratico di Bolzano è in subbuglio e sono moltissime le mail, le telefonate e i post sui social di chi afferma che non voterà alla Camera, annullando la scheda o lasciandola bianca, proprio per evitare di votare la Boschi all'uninominale. E la stessa cosa sta accadendo anche nella minoranza tedesca (da qui "Wir werden nicht für Maria Elena Boschi stimmen") che questa volta in massa potrebbe decidere di non votare Svp proprio evitare di sostenere nel maggioritario l'ex ministra del governo Renzi. La Boschi ha sostenuto la riforma istituzionale bocciata dal referendum del 4 dicembre 2016 che, di fatto, colpiva le autonomie locali e ora corre in una zona del Paese dove almeno il 40% della popolazione appartiene ad una minoranza. Per molti un assurdo, un fatto inaccettabile. Senza contare che nel Pd locale si sentono esautorati con una decisione imposta da Roma. Fatto sta che se la Boschi dovesse perdere il 4 marzo sarebbe davvero un evento eccezionale che potrebbe accelerare lo sgretolamento del Pd.

fiabe e illustrazioni a Palazzo Malaspina di San Donato

Gelatai blu al sapore d’arancio, gnomi artefici di giochi e dispetti, amicizie eroiche tra bambini e leoni, paesaggi avvolti dalla magia della notte e porti riflessi nelle acque del mare illuminati dal sole della fantasia. Reale o irreale, immaginaria o plastica, è la pienezza della vita, fonte di gioia e curiosità per il mondo dei bambini, che esce fuori da ogni pagina come un pop up antelitteram, che si respira in ogni visione, narrata e illustrata da Pinin Carpi grande scrittore ed autore per infanzia.. “Mi leggeva e rileggeva le sue fiabe senza tempo, storie in continua evoluzione, aperte alle emozioni di chi le ascoltava, aspettando una mia reazione, un mio feedback, un mio sorriso,

costruiva le sue storie mescolandovi dentro un ingrediente che riteneva necessario per rendere la scrittura viva e attraente, il parere, l’interpretazione dei più piccoli”. Per Mauro Carpi, figlio di Pinin, protagonista di molte sue fiabe (Mauro e il Leone) è stato questo saper ascoltare e leggere nel cuore dei bambini uno dei motivi che ha reso celebre il padre i cui libri per l’infanzia hanno fatto innamorare intere generazioni di lettori. Un atto d’amore che ha stimolato curiosità, pensiero critico, ha innovato la letteratura degli anni Settanta attraverso la composizione di testi per l’infanzia privandoli di ridondanti chiose moralistiche, ha rafforzato il senso etico risvegliano la purezza d’animo dei lettori. Fino al 4 marzo sarà “Un giorno tutto da giocare”. A regalarlo al pubblico è l’evento ideato e allestito dagli architetti Mauro Carpi e Daria Moroni, promosso dai Comuni dell’Unione del Chianti fiorentino, Barberino Val d’Elsa e Tavarnelle Val di Pesa. La mostra è aperta venerdì - sabato - domenica dalle 16 - 19, ingresso libero

Finestrini aperti Niente attenuanti, dice il politicamente corretto, per chi molesta le donne vestite e truccate audacemente. La donna deve potersi vestire come vuole senza subire molestie. Però, vedete, non si può evitare, per definire certi look, il termine “provocante”. La donna indossa certi abiti e assume certe movenze proprio per provocare. Molte lo fanno addirittura per il piacere perverso di leggere negli occhi dei maschi provocati il tormento del desiderio inappagato. Ma lui deve sapersi trattenere, e se non ci riesce, galera. Ok. Però la provocazione, qui non riconosciuta, lo è in altri campi. Per esempio il Codice della Strada (Art.168) dice che chi, in caso di sosta o anche solo di fermata, lascia le porte aperte o il finestrino abbassato o la chiave nel cruscotto, rischia una multa da 41 a 168 euro perché “non impedisce che qualcuno usi il suo veicolo senza il suo consenso”. In pratica si configura il reato di “induzione in tentazione”. Non è colpevole solo il ladro, ma anche chi lo “provoca”, tentandolo col lavoro facilitato. Anche per i furti in casa, se si lasciano le porte o le finestre aperte, le compagnie di assicurazione non pagano, perché l’Art. 1914 del Codice Civile prescrive che l’Assicurato “deve fare quanto gli è possibile per evitare o diminuire il danno da furto”. Vietato indurre i ladri in tentazione, insomma. Ma se l’occasione fa l’uomo ladro, perché la tentazione deve valere per auto e casa aperte, e non per l’abbigliamento e l’atteggiamento osé? Non invoco attenuanti per i molestatori, sia ben chiaro. Vorrei solo par condicio. Vorrei poter lasciar le porte aperte e i finestrini abbassati senza multe. E’ solo coerenza. di manliocollino (p.g.c.)

Page 12: NUMERO 255 in edizione telematica - PIERO GIACOMELLIrelitto, abbandonata a se stessa e in balìa delle onde, senza un timone e, ahimè, un timoniere.I ricordi affiorano, come si conviene

SPIRIDON/12

FOTO D’EPOCA Ondina Valla prima della finale degli 80 hs. Di Berlino 1936 assieme alla Eckert, Steuer, Braake e Testoni.

V Corsa del Ricordo a Roma

- Una splendida mattinata di sole ha salutato nella Capitale gli oltre ottocento partecipanti che hanno dato vita alla V Edizione della 'Corsa del Ricordo', l'ormai tradizionale manifestazione organizzata da Asi in occasione delle celebrazioni del Giorno del Ricordo volte a commemorare la tragedia delle Foibe e l'esodo delle popolazioni Giuliano-Dalmata. Dopo le note dell'inno nazionale e lo start dato da Donatella Shurtzel, presidente del Comitato provinciale e vice presidente Nazionale ANVGD (Aassociazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia), si è subito scatenata la bagarre. La gara è stata di notevole livello tecnico, sia al maschile che al femminile, grazie alla presenza di atleti di spessore come l'etiope Elias Embaye (gruppo sportivo LBM Sport), che ha fatto gara solitaria coprendo i 10 chilometri in 32'38". Staccato è giunto al secondo posto il giovane Giovanni Ceselli, alfiere della Lazio Atletica, in 33'27". Sul podio anche il biscegliese Mark Ridger (Adem Exprivia Molfetta), giunto dalla Puglia per onorare la ricorrenza correndo, arrivato al traguardo con il tempo di 33'37". Fra le donne hanno fatto il vuoto altre due atlete della LBM Sport, vale a dire Camille Chenaux, che ha tagliato il traguardo per prima con il tempo di 36'27" davanti alla compagna di squadra Elisabetta Beltrame, giunta in 36'42". Terzo gradino del podio per Lucia Mitidieri (Atletica Roma Acquacetosa), che ha concluso in 37'41". Fra i tanti podisti al via anche il Generale Mario Sumatra, grazie al quale è stato possibile attraversare le strade della città militare, Roberto Tavani, della Regione Lazio, Angelo Diario, presidente della Commissione Sport di Roma Capitale, Fabrizio Ghera, vice presidente della Commissione Cultura di Roma Capitale, Alessandro Cochi, già delegato allo sport di Roma Capitale, tutti regolarmente giunti al traguardo. Ai primi due classificati, sia in campo maschile che in quello femminile, è stata anche consegnata una copia del libro ''Il nostro teatro dei sogni'', storia dello stadio Olimpico scritta da Fabio Argentini e Luigi Panella. - Presente a sorpresa anche Mario Depangher (nella foto accanto), esule istriano, classe 1927, residente a Trieste che, dopo aver partecipato alla Corsa del Ricordo della sua città, ha voluto essere a Roma per questa quinta edizione, compiendo per intero il percorso della non competitiva. A conclusione della gara c’è stato il momento delle forti emozioni con la deposizione da parte dei rappresentanti delle Associazioni degli Esuli di una corona di fiori ai piedi della stele dedicata alle vittime delle foibe e dell’esodo, accompagnata dalle note del silenzio intonate da un trombettiere del gruppo Paracadutisti.

Valentina Belotti si è imposta nell’Almas Tower Vertical Run corsa a Dubai lo scorso 3 febbraio. La camuna dell’Atletica Alta Valtellina – La Sportiva che era al rientro dopo la duplice operazione ai tendini dello scorso settembre ha stabilito anche il nuovo record della competizione grazie al crono finale di 9’50” per risalire i quasi 300 metri di dislivello della torre. Alle sue spalle si è piazzata la polacca Dominika Wisnieska Ulfik che ha chiuso la gara in 9’57” mentre chiude il podio l’altra polacca in gara Iwona Wicha 10’32”. In campo maschile trionfa il polacco Piotr Lobodinski 7’57” ed alle sue spalle si piazza Emanuele Manzi 8’53” (Us Malonno – La Sportiva) chiude il podio il belga Jan de Henau 9’43”.