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Curso ARPI - 2007 Angelo Tresoldi - www.tresoldi.pro.br Cenni di Letteratura Italiana del Novecento

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rapida panoramica storico-letteraria del novecento

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Cenni di Letteratura Italiana

del Novecento

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Cos’è la letteratura? A cosa serve? Come si può usare in classe? Sono alcune delle domande a cui si vuol cercare di dare, in questi incontri, se non delle risposte, perlomeno alcune indicazioni utili e pratiche. Queste dispense sono organizzate in una serie di testi accompagnati da note esplicative e da schede dell’autore. Per motivi di sequenza didattica, sono presentati prima i brani senza indicazioni di sorta e poi le schede e notizie relative al testo e all’autore. Tutto il materiale delle dispense è stato tratto, ed eventualmente adattato, da internet, in modo speciale dai siti: www.liberliber.it e http://it.wikipedia.org/wiki/Pagina_principale all’esclusivo ed unico fine didattico.

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Raccontavano che si era combattuta una gran battaglia di mare, e si erano annegati dei bastimenti grandi come Aci Trezza, carichi zeppi di soldati; insomma un mondo di cose che parevano quelli che raccontano la storia d’Orlando e dei paladini di Francia alla Marina di Catania, e la gente stava ad ascoltare colle orecchie tese, fitta come le mosche.

[...] La gente si affollava attorno a quelli che leggevano i giornali, che pareva una festa. - I giornali son tutte menzogne stampate! sentenziò don Giammaria. - Dicono che è stato un brutto affare; abbiamo perso una gran battaglia, disse don Silvestro. Padron Cipolla era accorso anche lui a vedere cos'era quella folla. - Voi ci credete? sogghignò egli alfine. Son chiacchiere per chiappare il soldo del giornale. - Se lo dicono tutti che abbiamo perso! - Che cosa? disse lo zio Crocifisso mettendosi la mano dietro l'orecchio. - Una battaglia. - Chi l'ha persa? - Io, voi, tutti insomma, l'Italia; disse lo speziale. - Io non ho perso nulla! rispose Campana di legno stringendosi nelle spalle.

[...] - Sapete com'è? Conchiuse padron Cipolla, è come quando il comune di Aci Trezza litigava pel territorio col Comune di Aci Castello. Cosa ve n'entrava in tasca, a voi e a me? - Ve n'entra! esclamò lo speziale tutto rosso. Ve n'entra... che siete tante bestie!... - Il guaio è per tante povere mamme! s'arrischiò a dire qualcheduno; lo zio Crocifisso che non era mamma alzò le spalle.

[...] - A me mi sembrano tanti pazzi, costoro! diceva padron Cipolla soffiandosi il naso adagio adagio. Che vi fareste ammazzare voi quando il re vi dicesse: fatti ammazzare per conto mio? - Poveracci, non ci hanno colpa! Osservava don Silvestro. Devono farlo per forza, perché dietro ogni soldato ci sta un caporale col fucile carico, e non ha a far altro che star a vedere se il soldato vuol scappare, e se il soldato vuol scappare il caporale gli tira addosso peggio di un beccafico. - Ah! così va bene! Ma è una bricconata bell'e buona!

[...] Il giorno dopo cominciò a correre la voce che nel mare verso Trieste ci era stato un combattimento tra i bastimenti nostri e quelli dei nemici, che nessuno sapeva nemmeno chi fossero, ed era morta molta gente; chi raccontava la cosa in un modo e chi in un altro, a pezzi e bocconi, masticando le parole. Le vicine venivano colle mani sotto il grembiule a domandare se comare Maruzza ci avesse il suo Luca laggiù, e stavano a guardarla con

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tanto d'occhi prima d'andarsene. La povera donna cominciava a star sempre sulla porta, come ogni volta che succedeva una disgrazia, voltando la testa di qua e di là, da un capo all'altro della via, quasi aspettasse più presto del solito il suocero e i ragazzi dal mare. Le vicine le domandavano pure se Luca avesse scritto, o era molto che non riceveva lettera di lui. - Davvero ella non ci aveva pensato alla lettera; e tutta la notte non poté chiudere occhio, e aveva sempre la testa là, nel mare verso Trieste, dov'era successa quella ruina; e vedeva sempre suo figlio, pallido e immobile, che la guardava con certi occhioni sbarrati e lucenti, e diceva sempre di sì, come quando l'avevano mandato a fare il soldato.

[...] Coll'andare dei giorni però, nessuno parlava più di quello che era successo; ma come la Longa non vedeva spuntare la lettera, non aveva testa né di lavorare né di stare in casa; era sempre in giro a chiacchierare di porta in porta, quasi andasse cercando quel che voleva sapere. - Avete visto una gatta quando ha perso i suoi gattini? dicevano le vicine. La lettera non veniva però. Anche padron 'Ntoni non s'imbarcava più e stava sempre attaccato alle gonnelle della nuora come un cagnolino. Alcuni gli dicevano: - Andate a Catania che è paese grosso, e qualcosa sapranno dirvi.

Nel paese grosso il povero vecchio si sentiva perso peggio del trovarsi in mare di notte, e senza sapere dove drizzare il timone. Infine gli fecero la carità di dirgli che andasse dal capitano del porto, giacché le notizie doveva saperle lui. Colà, dopo averlo rimandato per un pezzo da Erode a Pilato, si misero a sfogliare certi libracci e a cercare col dito sulla lista dei morti. Allorché arrivarono ad un nome, la Longa che non aveva ben udito, perché le fischiavano gli orecchi, e ascoltava bianca come quelle cartacce, sdrucciolò pian piano per terra, mezzo morta. - Son più di quaranta giorni - conchiuse l'impiegato, chiudendo il registro. Fu a Lissa; che non lo sapevate ancora? La Longa la portarono a casa su di un carro, e fu malata per alcuni giorni. D'allora in poi fu presa di una gran devozione per l'Addolorata che c'è sull'altare della chiesetta, e le pareva che quel corpo lungo e disteso sulle ginocchia della madre colle costole nere e i ginocchi rossi di sangue, fosse il ritratto del suo Luca, e si sentiva fitte nel cuore tutte quelle spade d'argento che ci aveva la Madonna. (tratto e adattato da www.liberliber.it)

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La battaglia di Lissa fu un uno scontro navale che si svolse il 20 luglio 1866 nel mare Adriatico nelle vicinanze dell'isola di Lissa tra la marina dell'Impero Austriaco e la Regia Marina del Regno d'Italia. Fu la prima grande battaglia navale in cui vennero impiegate navi a vapore corazzate e l'ultima nella quale vennero eseguite manovre deliberate di speronamento.

La battaglia avvenne come parte della guerra austro-prussiana con l'Italia alleata alla Prussia, per l'Italia terza guerra d'indipendenza. L'obiettivo principale italiano era di catturare il Veneto all'Austria e scalzare l'assoluta egemonia navale austriaca nell'Adriatico.

Le flotte erano composte da un insieme di navi a vela, con motori a vapore e navi corazzate che combinavano anch'esse vele e motori a vapore. La flotta italiana, di 12 corazzate e 17 vascelli lignei, sopravanzava in numero la flotta austriaca, composta rispettivamente da 7 navi corazzate e 11 in legno. Una singola nave, l'Affondatore italiano, aveva i cannoni montati in torretta piuttosto che lungo le fiancate. attaglia, l'ammiraglio austriaco Tegetthoff dichiarò: «uomini di ferro su navi di legno avevano sconfitto teste di legno su navi di ferro»

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Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono

nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. [...]Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere. Milano, 19 gennaio 1881

Cosi introduce il suo capolavoro lo scrittore Giovanni Verga, iniziatore del movimento letterario (ma non solo) del Verismo, che influenzato dal naturalismo francese propone una descrizione il più distaccata possibile senza prendere parte alla vicenda o influenzare l'opinione dei lettori.

Il brano che abbiamo letto e esaminato è tratto dai Malavoglia di Giovanni Verga. L'intero romanzo, come del resto quasi tutta l'opera del Verga, è liberamente e legalmente scaricabile dal sito: www.liberliber.it

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Giovanni Verga nacque a Catania nel 1840. A a soli quindici anni, tra il 1856 ed il 1857, scrisse il suo primo romanzo d'ispirazione risorgimentale "Amore e patria" rimasto inedito. Iscrittosi nel 1858 alla Facoltà di legge all'Università di Catania, non terminò i corsi, preferendo dedicarsi all'attività letteraria e al giornalismo politico. Con il denaro datogli dal padre per concludere gli studi, il giovane pubblicò a sue spese il romanzo "I carbonari della montagna" (1861- 1862), un romanzo storico che si ispira alle imprese della Carboneria calabrese contro il dispotismo napoleonico di Murat.

Con l'arrivo di Garibaldi a Catania il Verga si arruola nella Guarda Nazionale e presta servizio per circa quattro anni, poi si congeda con un versamento di 3100 lire alla Tesoreria Provinciale.

Nel 1863 pubblicò a puntate sulle appendici della rivista fiorentina "La nuova Europa" il suo terzo romanzo, "Sulle lagune", nel periodo in cui, ottenuta l'indipendenza italiana, Venezia è ancora sotto la potenza austriaca. Il romanzo narra la vicenda sentimentale di un ufficiale austriaco con una giovane veneziana in uno stile severo e privo di retorica.

Nel 1865 lascia la provincia e si reca per la prima volta a Firenze, che era in quel periodo la capitale del Regno d'Italia, per tornarvi nel '69, consapevole che, per diventare un autentico scrittore, doveva liberarsi dai limiti della sua cultura provinciale e conoscere la vera società letteraria italiana. Nel frattempo, nel 1866, pubblicherà "Una peccatrice", primo romanzo fortemente autobiografico e di vasto respiro, nel quale lo scrittore narra, con toni enfatici e melodrammatici, la storia di un piccolo borghese intellettuale di Catania che, ottenuta la ricchezza e il successo, vede perire l'amore per la donna amata e ne causa così il suicidio. Sempre a Firenze, termina nel 1871 il romanzo di successo Storia di una capinera, scritto di genere sentimentale in cui si narra la storia di un amore impossibile e di una giovane donna che è costretta a farsi monaca nonostante il suo morboso amore per il cognato Nino.

Nel 1872, Verga si trasferisce a Milano, che era in quel periodo il centro culturale più vivo dell'intera penisola e quello maggiormente aperto alle sollecitazioni europee. A Milano termina il romanzo "Eva" che aveva iniziato a Firenze, storia di un giovane pittore siciliano che a Firenze brucia le sue illusioni e i suoi ideali artistici per amore di una ballerina, simbolo di una società materialistica, che vive di piaceri effimeri e nel disprezzo per l'arte.

Seguono i romanzi d'analisi di sottili passioni mondane, Eros, storia dell'inaridirsi progressivo di un giovane dell’aristocrazia, corrotto da una società senza valori, e Tigre reale dove viene analizzato il traviamento di un giovane che si è innamorato di una donna " fatale", divoratrice di uomini. I due romanzi, entrambi usciti nel 1875, vengono accolti dalla critica come esempio di "realismo" e di analisi coraggiosa delle piaghe psicologiche e sociali in un periodo in cui si conduceva una battaglia per il naturalismo e Zola veniva fatto conoscere in Italia.

Nel 1878 pubblica un racconto completamente lontano dalla materia e dal linguaggio della sua narrativa precedente con il titolo Rosso Malpelo, la storia di un giovanissimo garzone di miniera che vive in un ambiente difficile e disumano, con uno stile e una lingua molto scarna che ripropone il modo di raccontare di una narrazione popolare rappresentando così la prima opera della nuova maniera verista che si ispira ad una rigorosa impersonalità.

Nel 1874, era stato già pubblicato un bozzetto siciliano e rusticano, come lo definisce l'autore, dal titolo Nedda. L'ambiente di questa novella, ambientata in Sicilia, è un

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ambiente rurale, dove i personaggi sono contadini. La protagonista, una giovane donna che vive una situazione concreta e tragica è ben lontana dall'astrattismo e dal sentimentalismo che appare nelle figure femminili delle precedenti novelle. Nedda, che perde il suo uomo e il bambino appena nato, rimane sola.

Il nuovo modo di narrare inaugurato da Rosso Malpelo, verrà continuato in una serie di racconti pubblicati su varie riviste tra il 1879 e il 1880, come Cavalleria rusticana, La lupa, Jeli il pastore, Fantasticheria, che verranno raccolti nel 1880 in un unico volume dal titolo Vita dei campi e nel 1883 uscirà la seconda raccolta nel volume Novelle rusticane. La novella Cavalleria rusticana ispirerà successivamente una famosa opera lirica omonima di Pietro Mascagni.

Il primo romanzo del ciclo dei vinti è I Malavoglia del 1881. Esso narra le vicende di una famiglia siciliana di pescatori che le difficoltà economiche dell'Italia post-unitaria portano a compiere una speculazione commerciale che segnerà l'inizio di una serie interminabile di sventure.

Nel 1889 esce il secondo romanzo del ciclo dei vinti, Mastro don Gesualdo, storia dell'ascesa sociale di un muratore che accumula grandi ricchezze, ma va incontro ad un tragico fallimento nella sfera degli affetti familiari.

Muore nell'anno della marcia su Roma e della salita al potere del fascismo: 1922. (liberamente adattato da wikipedia)

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Scesi con lui [il medico] nell'infermeria [della nave], una

specie di stanzone oblungo, rischiarato dall'alto, con due ordini di cuccette all'intorno. C'era un bambino malato di rosolia, un amore di bambino, coi capelli biondi arricciolati, rosso dalla febbre, e accanto a lui, in piedi, una campagnuola dei dintorni di Napoli, un pezzo di donna, che appena visto il medico, si mise a piangere, soffocando i singhiozzi nelle mani. Il medico esaminò il bambino, poi le disse in tuono di rimprovero: - La malattia fa il suo corso. Non v'avete a inquietare. Levatevi quell'ideaccia dal capo. - E mi spiegò che certe donnacole le avevano sconvolto l'anima dicendole che, se fosse seguita una disgrazia, le avrebbero buttato il bambino in mare: a quest'idea essa si disperava.

Poi domandò forte, voltandosi da un'altra parte: - E voi, come va? - Allora vidi spuntare di dentro a una cuccetta bassa la testa d'un vecchio macilento; il quale, malgrado che il medico vi si opponesse, volle cacciar fuori le gambe, e mettersi a sedere sull'orlo della sua buca. Era vestito. Rispose con un filo di voce: - Non c'è tanto male. - Il medico lo esaminò, e crollò il capo. Aveva una polmonite grave, s'era dovuto coricare il dì dopo della partenza. Era un contadino pinerolese, solo, che andava all'Argentina a raggiungere un suo figliuolo. Io gli domandai in che parte dell'Argentina si trovasse. Non lo sapeva. Il suo figliuolo minore era andato all'Argentina tre anni prima, lasciandolo a casa con l'altro, che gli era morto. Allora quello gli aveva fatto scrivere che andasse con lui, mandandogli un buono per il viaggio, ma senza dargli l'indirizzo preciso perché lavorava alle strade e mutava sede. Gli aveva però indicato il modo di ritrovarlo. E dicendo questo il povero vecchio ficcò la mano scarna in una tasca del petto, e ne cavò una manata di carte logore e unte, che incominciò a far scorrere con le dita tremanti: buste lacere, carte con cifre - forse gli ultimi conti del padrone - una ricevuta, un piccolo calendario. Trovò finalmente un mezzo foglio sgualcito, dove era scritto a caratteri grossi, ma schiccherati d'inchiostro e quasi illeggibili, il nome d'un villaggio della provincia di Buenos Ayres, nel quale, al tal numero della tal via, egli avrebbe trovato ospitalità in una famiglia piemontese, presso di cui, dentro il mese, sarebbe venuto a prenderlo un patriota, suo compagno di lavoro, che l'avrebbe condotto dov'era il figliolo: 'l me Carlo. Con quelle indicazioni, vecchio, malato, ignaro di tutto, era partito per l'America! - Ho una gran paura -, disse il medico uscendo -, che sia partito troppo tardi. [...]

Il vecchio contadino piemontese, malato di polmonite era assai peggiorato. Coricato là nella sua cuccetta scura, con la barba grigia lunga, che lo faceva parere anche più scarno,

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aveva l'aspetto d'un morto disteso dentro una cassa, a cui fosse stata levata un'asse da un lato. All'apparire della signorina, che doveva aver già veduta più volte, fece quella contrazione della bocca, che annunzia il pianto nei bambini e nei malati sfiniti. E disse, con un nodo nella gola: - A'm rincress per me' fieul! M'accorsi che quelle parole diedero una stretta all'anima alla ragazza; la quale rispose subito, con voce alterata, ma fingendo franchezza: - Ma no, ma no. Che cosa dite? Rivedrete il vostro figliuolo. Oggi avete miglior cera. Badate bene di non perdere l'indirizzo. Dove l'avete messo?... (L'aveva nella giacchetta, ai piedi del letto). Sta bene. Il dottore ci farà attenzione. Volete che lo conservi io? che ve lo renda poi quando sarete guarito, all'arrivo? L'ho da pigliare? Il vecchio accennò di sì. Essa si chinò, frugò nella giacchetta, tirò fuori il piccolo pacco, trovò il foglio che conosceva, e lo piegò con grande riguardo in un bel portafoglio di bulgaro, che richiuse e rimise in tasca. Il malato osservò con molta attenzione e con compiacenza tutti quei movimenti, e mormorò con un fil di voce: -A l'è trop grassiosa, trop grassiosa... - Fatevi coraggio, - essa gli disse porgendogli la mano, - ripasserò presto. A rivederci. Coraggio. Il vecchio le prese la mano, gliela baciò due o tre volte, versando due grosse lagrime, e l'accompagnò con lo sguardo fino all'uscio: poi lasciò ricadere il capo sul cuscino con un atto di profondo abbandono, come se non dovesse rialzarlo mai più. [...]

Nella notte era morto. Era stata una scena dolorosa. Il vecchio, prima di morire, aveva voluto rivedere la signorina di Mestre, per rimetterle i suoi pochi soldi e le carte, che le facesse recapitare al suo figliolo. Negli sguardi che girava sugli astanti, e intorno, su quello strano ospedale, si vedeva un'angoscia immensa, uno sgomento di fanciullo di dover morire là, in mezzo all'oceano, e di non aver sepoltura; e si afferrava con tutt'e due le mani al braccio della Signorina, non dicendo più che: - Oh me fieul! Oh me pover fieul! - e scotendo il capo in atto di desolazione infinita. (tratto da "Sull' Oceano", in www.liberliber.it)

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Edmondo de Amicis nacque ad Oneglia nel 1846, a quasi 20 anni intraprese la carriera militare e combatté a Custoza nel 1866.

In seguito assunse la direzione della rivista L'Italia Militare e vi pubblicò alcuni suoi scritti; il successo di questa esperienza lo portò ad abbandonare l'esercito e a tentare la strada della letteratura e del giornalismo. Proprio in veste di inviato della Nazione assistette alla presa di Roma nel 1870.

Dalle sue esperienze Edmondo De Amicis trasse e pubblicò delle impressioni di viaggio piuttosto prolisse e convenzionali. Fu piuttosto nella prosa didascalica che riuscì a dare il meglio di sé, ponendo la sua attenzione sulla borghesia e sul popolo ("Cuore", 1886) e permeando le sue opere di continui spunti morali. Furono proprio questi ingredienti che ne fecero un perfetto esempio di scrittore popolare e pedagogico, un ottimo latore di quel bonario paternalismo tipico della fine del XIX secolo.

Tra le sue opere, oltre a "Cuore", possiamo ricordare: "Sull'oceano" (1889), imperniato sulle misere condizioni degli emigranti italiani; "Il romanzo di un maestro" (1890); "La carrozza di tutti" (1899); "Novelle" (1875); "L'idioma gentile" (1905). Infine "Primo Maggio", romanzo postumo pubblicato da Garzanti nel 1980, su incarico del Comune di Imperia. Il romanzo costituisce un utile strumento per comprendere il passaggio dell'autore al socialismo.

Edmondo De Amicis morì a Bordighera nel 1908.

La battaglia di Custoza del 24 giugno 1866 è stata una battaglia della Terza guerra d'indipendenza che vide la sconfitta delle truppe italiane, pur numericamente superiori e comandate dal generale La Marmora di fronte alle truppe austriache dell'arciduca Alberto d'Asburgo, duca di Teschen.

Nonostante la vittoria, Vienna fu costretta a domandare la pace di fronte al successo delle truppe prussiane nella battaglia di Sadowa, in cui gli alleati dell'Italia sbaragliarono gli austriaci.

Il XX settembre 1870, dopo la caduta di Napoleone III (battaglia di Sedan), l'esercito italiano guidato dal Raffaele Cadorna entrò in Roma (Breccia di Porta Pia) e si procedette all'annessione del millenario Stato della Chiesa al Regno d'Italia.

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LA CASA DELL'AGONIA

Il visitatore, entrando, aveva detto certamente il suo nome; ma la vecchia [...] venuta ad aprire [...], o non aveva inteso o l'aveva dimenticato; sicché da tre quarti d'ora per tutta quella casa silenziosa lui era, senza più nome, "un signore che aspetta di là". Di là, voleva dire nel salotto. In casa, oltre quella negra che doveva essersi rintanata in cucina, non c'era nessuno; e il silenzio era tanto, che un tic-tac lento di antica pendola, forse nella sala da pranzo, s'udiva spiccato in tutte le altre stanze, come il battito del cuore della casa; e pareva che i mobili di ciascuna stanza, anche delle più remote, consunti ma ben curati, tutti un po' ridicoli perché d'una foggia ormai passata di moda, stessero ad ascoltarlo, rassicurati che nulla in quella casa sarebbe mai avvenuto e che essi perciò sarebbero rimasti sempre così, inutili, ad ammirarsi o a commiserarsi tra loro, o meglio anche a sonnecchiare. Hanno una loro anima anche i mobili, specialmente i vecchi, che vien loro dai ricordi della casa dove sono stati per tanto tempo. [...]

Quasi assorbito dal silenzio della casa, l’anonimo visitatore, come vi aveva già perduto il nome, così pareva vi avesse anche perduto la persona e fosse diventato anche lui uno di quei mobili in cui s'era tanto immedesimato, intento ad ascoltare il tic-tac lento della pendola che arrivava spiccato fin lì nel salotto attraverso l'uscio rimasto semichiuso.

[...]Certo il padrone di casa non aveva più pensato all'invito che gli aveva fatto di venirlo a trovare; e già più volte l'ometto si era domandato se aveva ancora il diritto di star lì ad aspettarlo, trascorsa oltre ogni termine di comporto l'ora fissata nell'invito. Ma lui non aspettava più adesso il padrone di casa. Se anzi questo fosse finalmente sopravvenuto, lui ne avrebbe provato dispiacere. Lì confuso con la poltrona su cui sedeva, con una fissità spasimosa negli occhietti aguzzi e un'angoscia di punto in punto crescente che gli toglieva il respiro, lui aspettava un'altra cosa, terribile: un grido dalla strada: un grido che gli annunziasse la morte di qualcuno; la morte d'un viandante qualunque che al momento giusto, tra i tanti che andavano giù per la strada, uomini, donne, giovani, vecchi, ragazzi, di cui gli arrivava fin lassù confuso il brusio, si trovasse a passare sotto la finestra di quel salotto al quinto piano. E tutto questo, perché un grosso gatto bigio era entrato, senza nemmeno accorgersi di lui, nel salotto per l'uscio semichiuso, e d'un balzo era montato sul davanzale della finestra aperta.

Sul rettangolo d'azzurro della finestra spiccava un vaso di gerani rossi. Le rondini, che vi volteggiavano a stormi, come impazzite da quell'ultima luce del giorno, lanciavano di tratto in tratto acutissimi gridi e s'assaettavano contro la finestra come volessero irrompere nel salotto, ma subito, arrivate al davanzale, sguizzavano via. Non tutte. Ora una, poi un'altra, ogni volta, si

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cacciavano sotto il davanzale, non si sapeva come, né perché. Incuriosito, prima che quel gatto fosse entrato, lui s'era appressato alla finestra, aveva scostato un po' il vaso di gerani e s'era sporto a guardare per darsi una spiegazione: aveva scoperto così che una coppia di rondini aveva fatto il nido proprio sotto il davanzale di quella finestra. Ora la cosa terribile era questa: che nessuno dei tanti che continuamente passavano per via, assorti nelle loro cure e nelle loro faccende, poteva andare a pensare a un nido appeso sotto il davanzale d'una finestra al quinto piano d'una delle tante case della via, e a un vaso di gerani esposto su quel davanzale, e a un gatto che dava la caccia alle due rondini di quel nido. E tanto meno poteva pensare alla gente che passava per via sotto la finestra il gatto che ora, tutto aggruppato dietro quel vaso di cui s'era fatto riparo, moveva appena la testa per seguire con gli occhi vani nel cielo il volo di quegli stormi di rondini che strillavano ebbre d'aria e di luce passando davanti la finestra, e ogni volta, al passaggio d'ogni stormo, agitava appena la punta della coda penzoloni, pronto a ghermire con le zampe unghiute la prima delle due rondini che avrebbe fatto per cacciarsi nel nido.

Lo sapeva lui, lui solo, che quel vaso di gerani, a un urto del gatto, sarebbe precipitato giù dalla finestra sulla testa di qualcuno; già il vaso s'era spostato due volte per le mosse impazienti del gatto; era ormai quasi all'orlo del davanzale; e lui non fiatava già più dall'angoscia e aveva tutto il cranio imperlato di grosse gocce di sudore. Gli era talmente insopportabile lo spasimo di quell'attesa, che gli era perfino passato per la mente il pensiero diabolico d'andar cheto e chinato, con un dito teso, alla finestra, a dar lui l'ultima spinta a quel vaso, senza più stare ad aspettare che lo facesse il gatto. Tanto, a un altro minimo urto, la cosa sarebbe certamente accaduta.

Era inutile che a lui toccasse quella fatalità, la naturale combinazione di quel gatto, di quel vaso di gerani e di quel nido di rondini. Quel vaso era lì proprio per stare esposto a quella finestra. Se lui l'avesse levato per impedir la disgrazia, l'avrebbe impedita oggi; domani la vecchia serva negra avrebbe rimesso il vaso al suo posto, sul davanzale: appunto perché il davanzale, per quel vaso, era il suo posto. E il gatto, cacciato via oggi, sarebbe ritornato domani a dar la caccia alle due rondini. Era inevitabile. Ecco, il vaso era stato spinto ancora più là; era già quasi un dito fuori dell'orlo del davanzale. Lui non poté più reggere; se ne fuggì. Precipitandosi giù per le scale, ebbe in un baleno l'idea che sarebbe arrivato giusto in tempo a ricevere sul capo il vaso di gerani che proprio in quell'attimo cadeva dalla finestra. Da “Le Novelle”

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Pirandello nacque a Cavusu, chiamato

dallo scrittore "Caos" da Stefano e Caterina Ricci Gramitto, in una famiglia di agiata condizione borghese dalle tradizioni risorgimentali; il padre era stato garibaldino. La famiglia commerciava e estraeva zolfo.

Dopo un'istruzione elementare impartitagli da maestri privati, andò a studiare in un istituto tecnico e poi al ginnasio. Qui si appassionò subito della letteratura. A soli undici anni scrisse la sua prima opera "Barbaro", andata persa. Per un breve periodo aiutò il padre nel commercio di zolfo, facendo anche esperienza diretta con il mondo degli operai nelle miniere e sulle banchine del porto mercantile.

Lo scrittore iniziò i suoi studi universitari a Palermo nel 1886, per recarsi in seguito

a Roma, dove continuò i suoi studi di filologia romanza che poi dovette completare a Bonn a causa di un insanabile conflitto con il rettore dell'ateneo. A Bonn, Pirandello ebbe l'opportunità di conoscere maestri come Bucheler, Usener e Forster. Si laureò nel 1891 con una tesi sulla parlata agrigentina "Voci e sviluppi di suoni nel dialetto di Girgenti".

Nel 1903, poco dopo le nozze, un allagamento in una miniera di zolfo, in cui Pirandello e la sua famiglia avevano investito il loro capitale, li ridusse sul lastrico. Questa notizia accrebbe il disagio mentale, già manifestatosi, della moglie di Pirandello. Nonostante la moglie andasse a crisi isteriche, di cui Pirandello stesso era il bersaglio, egli acconsentì che fosse ricoverata in un ospedale psichiatrico solo nel 1919. La malattia della moglie portò lo scrittore ad approfondire lo studio dei meccanismi della mente e della reazione sociale dinnanzi alla menomazione intellettuale, portandolo ad avvicinarsi alle teorie sulla psicanalisi di Sigmund Freud.

Spinto dallo scarso successo economico delle sue prime opere letterarie, Pirandello insegnò per qualche tempo come professore di stilistica all'Istituto superiore di Magistero. Il suo primo grande successo fu il romanzo Il fu Mattia Pascal, pubblicato nel 1904 e subito tradotto in diverse lingue. In questo periodo collaborò con alcune riviste letterarie e anche con il Corriere della Sera.

La riflessione di Pirandello sul tema della follia appare in molte opere, come l'Enrico IV o come Il berretto a sonagli, nel quale inserisce addirittura una ricetta per la pazzia: dire sempre la verità, la nuda e cruda e tagliente verità, infischiandosene dei riguardi e delle maniere, delle ipocrisie e delle convenzioni sociali, porterà presto all'isolamento e, agli occhi degli altri, alla pazzia. Pirandello aderì al fascismo ma fu criticato più volte dalla stampa del regime per non aver scritto opere conformi allo spirito e agli ideali fascisti, pessimiste e prive di amor di Patria.

Due anni prima della morte (avvenuta a Roma nel dicembre del 1936) gli fu conferito il premio Nobel per la letteratura.

Egli scrisse nel testamento le sue ultime volontà sul suo funerale. È stato avvolto in un lenzuolo bianco e portato sul carro dei poveri. Il suo corpo è stato bruciato, e le sue ceneri sparse per il "Caos" (la sua tenuta).

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CORTIGIANA STANCA.

Lentamente, chiudendo la porta con una spinta del dorso e guardando fisso all'amante, il giovane entrò nella stanza. Per strada, la sua fantasia si era accanita con una specie di rabbiosa volontà a immaginare una Maria Teresa carica di autunni, dai seni pesanti, dal ventre grasso tremolante sulle giunture allentate dell'inguine, dai fianchi impastati e disfatti; una Maria Teresa, insomma, ormai giunta alla soglia della vecchiaia, che sarebbe stato agevole abbandonare ora che non aveva più denaro per mantenerla.

Queste immagini di decadenza, aggravate e incrudelite fino alla caricatura dalla sua immaginazione compiacente, gli avevano dato un po' di coraggio mentre se ne era andato di strada in strada con l'animo pieno di angoscia e i pugni stretti in fondo alle tasche vuote.

Ma ora, pur tenendo l'amante sopra le ginocchia, sul divano profondo del salotto, si accorgeva che quell'immagine inventata apposta per la separazione imminente, non resisteva di fronte alla realtà. Finita la vagheggiata ripugnanza per quel corpo che gli era piaciuto di pensare stanco e slombato, finita soprattutto la rottura fredda che aveva premeditato: " Maria Teresa sono venuto per dirti... ". Ora, come tutti gli altri giorni, il desiderio lo riassaliva, guardava la cara testa dai tratti duri e fini e si accorgeva di essersi sbagliato. Né maturità, né stanchezza. Un panno bianco e molle le circondava il capo come un turbante di sotto, il viso ovale appariva già tutto incrostato del suo belletto.

Ella era uscita appena allora dal bagno e aveva avvolto il corpo umido in una vestaglia spugnosa simile a quelle che vengono buttate sulle spalle dei pugilatori stanchi. Ma sul suo viso calmo c'era aria di vittoria. Vedendola così insensibile alla propria nudità e alla sfavorevole impressione che egli avrebbe potuto riceverne (la vestaglia era scivolata dalle sue spalle sulle ginocchia dell'amante, ma essa non si curava di rimontarla e piegando il capo da parte accendeva una sigaretta) così lontana dai suoi meschini calcoli di maturità e di giovinezza, (che importano gli anni, pareva significare quella sua noncurante impudicizia, che importa il tempo ad un corpo consacrato da tanto oro e tanta ammirazione?) così diversa dall'immagine egoista che si era voluto creare, un malessere indicibile invadeva il giovane. "L'ultima volta che sto con lei ", non poteva fare a meno di pensare con rammarico; e avidamente abbracciava quelle membra inerti.

Non se lo confessava, ma l'avrebbe amata di più, mille volte di più, di un amore intero seppure tutto mescolato di

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compassione (sei vecchia mia povera Mariateresa, ma ti resto io) se avesse sentito sotto le sue mani irrequiete una carne ancora più stanca di quella, una pelle ancora più vizza e sfiorita. Tutto il suo amore avrebbe dato ad una povera donna matura che non senza disgusto avrebbe tenuta sopra le sue ginocchia e stretta contro il proprio petto. E infatti quei seni che ad ogni respiro parevano tentare invano di risalire alla sommità del petto donde l'età li aveva scacciati, quelle anche possenti e comode che gli indolenzivano le ginocchia, quel dorso vasto e opulento, deserto antico di carne che non spartiva più il solco delle reni, lo rassicuravano sulla decadenza della donna. Finita Marité, pensava osservandola, finita la giovinezza e la bellezza. Ma se levava gli occhi dal corpo seduto, intravvedeva nell'ombra il viso duro e fermo sotto lo smalto vivace del belletto; dubitava allora dei suoi occhi e una rabbia puerile e avara lo invadeva al pensiero di dover lasciare ad altri amanti la donna ancora desiderabile.

Più tardi, nella notte, egli la vide voltarsi verso la sponda del letto e rannicchiarsi come per dormire. Allora le augurò un buon sonno e si alzò per andarsene. Era stata sua per piú di due mesi, ora che non aveva più denaro doveva lasciarla. Ma nel momento che liberava con precauzione le membra dal viluppo delle coperte, si accorse ad un tratto che piangeva. Non era più raggomitolata ma distesa sul dorso, con un braccio sugli occhi, come fanno i bambini. L'ombra impediva di scorgere le lagrime, ma un riflesso di luce giuocava sopra la grossa smorfia puerile che le contraeva gli angoli della bocca. Piangeva senza rumore, senza scosse, silenziosamente, come scorre il sangue da un corpo ferito a morte. [...]

Questa contemplazione durò poco. Poi, non senza sforzo, egli si raddrizzò, andò nel bagno, si rivestì, in punta di piedi tornò nella stanza. "Me ne vado Marité, addio", disse con voce forte. "A domani" ella gli rispose senza aprire gli occhi Egli uscì dalla stanza, poi dall'appartamento, discese la scala, aprì il portone della casa. Sulla soglia si fermò irresoluto e ascoltò la campana di una chiesa vicina battere i colpi nel silenzio di quel quartiere deserto. "Le dieci e mezza", pensò, "ho ancora il tempo di andare a ficcarmi in un cinematografo ". Questa idea gli piacque, non sapeva neppur lui perché, lo entusiasmò. Ora provava un desiderio insaziabile di quella promiscua oscurità popolata di avventure facili e di paesaggi lontani. Al diavolo Maria Teresa, pensò a mo' di conclusione; e sforzandosi di dominare il profondo malessere che l'opprimeva, richiuse dietro di sé il portone e s'incamminò verso il centro della città.

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Alberto Pincherle (Moravia è il cognome della nonna paterna) nacque a Roma il 28

novembre 1907, da una benestante famiglia borghese. Il padre Carlo, ebreo, era architetto e pittore. La madre Teresa Iginia De Marsanich era di Ancona ma di origini dalmate.

All'età di nove anni venne colpito da una seria forma di tubercolosi ossea che lo costrinse a letto per ben cinque anni, tre dei quali trascorsi a casa e due presso il sanatorio di Cortina d'Ampezzo. Ebbe molto tempo per la lettura alla quale si dedicò con fervido impegno e profonda passione.

Nel 1925 recatosi a Bressanone per la convalescenza inizierà a scrivere Gli indifferenti. Nel 1927 iniziò a collaborare alla rivista '900 dove pubblicò i suoi primi racconti tra i quali La Cortigiana stanca.

Nel '29 riuscì a pubblicare a sue spese (5.000 Lire dell'epoca) il suo primo romanzo, Gli indifferenti, che ottenne subito da parte della critica buoni consensi e venne considerato uno degli esperimenti più interessanti di narrativa italiana di quel tempo.

Il secondo romanzo, Le ambizioni sbagliate, un misto di giallo poliziesco e romanzo introspettivo alla Dostojevski avrà meno fortuna.

Dal 1930 iniziò a collaborare con La Stampa e nel 1933 fondò, insieme a Mario Pannunzio, la rivista "Caratteri", che vedrà la luce per soli quattro numeri, e la rivista Oggi. Nel 1935 si reca in America dove tenne alcune conferenze sul romanzo italiano. Ritornato in Italia scrisse un libro di racconti lunghi intitolato L'imbroglio pubblicato da Bompiani nel 1937. Per evitare la censura del regime Moravia scriverà negli anni del fascismo racconti allegorici e surrealistici, tra i quali I sogni del pigro pubblicato nel 1940 e nel 1941 il romanzo La mascherata (una violenta satira che prende di mira il regime fascista indirettamente parlando di una inventata dittatura sudamericana) che però verrà sequestrato in occasione della seconda edizione. Da questo momento sarà costretto a pubblicare i suoi articoli sui giornali e sulle riviste sotto pseudonimo.

Nel 1941 si unì in matrimonio con la scrittrice Elsa Morante che aveva conosciuto nel 1936 e con lei visse per un lungo periodo a Capri dove scriverà il romanzo Agostino. Si separarono poi nel 1962.

Dopo gli avvenimenti dell'8 settembre del 1943 si rifugiò con la moglie a Fondi, in Ciociaria e da questa esperienza nascerà il romanzo La ciociara. Nel 1944 saranno pubblicati i racconti de L'epidemia e il saggio La Speranza, ovvero Cristianesimo e Comunismo.

Con l'annuncio della Liberazione lo scrittore ritornerà a Roma e riprenderà la sua attività letteraria e giornalistica collaborando con Corrado Alvaro a "Il Popolo di Roma", a "Il Mondo", all'"Europeo" e soprattutto al "Corriere della Sera" dove sarà presente fino alla morte con i suoi réportages, le sue riflessioni critiche e i suoi racconti. Gli anni che seguono il dopoguerra vedranno aumentare la fortuna letteraria e cinematografica dello

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scrittore che pubblicò La romana (1947), i racconti La disubbidienza (1948), L'amore coniugale e altri racconti (1949) e il romanzo Il conformista (1951).

Nel 1952 gli venne assegnato il premio Strega per I racconti e iniziano le traduzioni dei suoi romanzi all'estero e i film tratti dai suoi racconti e romanzi.

Nel 1954, in seguito alla pubblicazione dell'opera I racconti romani, gli sarà assegnato il premio Marzotto. Scriverà intanto il romanzo Il disprezzo e sulla rivista "Nuovi Argomenti" il saggio L'uomo come fine. Scrisse inoltre alcune importanti prefazioni, come quella ai Cento sonetti del Belli, al Paolo il caldo di Brancati e a Passeggiate romane di Stendhal.

Nel 1960 con la pubblicazione La noia gli verrà assegnato il premio Viareggio e nel 1960 Vittorio De Sica realizzerà il film tratto dall'omonimo libro La ciociara.

Separatosi da Elsa Morante nel 1962 andò a vivere con la giovane scrittrice Dacia Maraini.

Verrà intanto realizzato il film diretto da Mauro Bolognini Agostino e la perdita dell'innocenza nel 1962 e nel 1963 Il disprezzo dal regista Jean-Luc Godard, La noia con la regia di Damiano Damiani a cui seguiranno nel 1964 Gli indifferenti di Francesco Maselli.

Moravia, nel frattempo, si occupò sempre più di teatro e a partire dal 1966 fondò con Dacia Maraini ed Enzo Siciliano una compagnia teatrale che porta il nome del Porcospino.

Nel 1967 si recò in Cina, in Giappone e in Corea, insieme alla compagna Maraini, come corrispondente, ed i suoi articoli verranno raccolti nel 1968 in un volume intitolato La rivoluzione culturale in Cina.

Nel 1971 verrà pubblicato il romanzo Io e lui e il saggio Poesia e romanzo e nel 1972 lo scrittore compierà un viaggio in Africa dal quale nascerà l'ispirazione per l'opera A quale tribù appartieni? che uscirà nello stesso anno.

Nel 1973 raccoglie in un libro alcuni dei racconti apparsi precedentemente sul ”Corriere della Sera", pubblicazione, questa, seguita nel 1976 da un'altra raccolta. Uscirà, intanto, nel 1978 il romanzo al quale aveva lavorato per molti anni, La vita interiore. Negli anni seguenti Moravia continuò a scrivere e a pubblicare racconti e saggi e a collaborare attivamente con "Il Corriere della Sera"

Il viaggio compiuto nel 1982 in Giappone e la sosta a Hiroshima gli faranno scrivere tre inchieste, che pubblicherà per l'"Espresso", sulla bomba atomica, tema che sarà poi al centro del romanzo L'uomo che guarda del 1985, ma soprattutto del particolare saggio L'inverno Nucleare strutturato lungo interviste che l'autore pone a studiosi scientifici e politici del tempo, dalle cui pagine traspaiono anche la precarietà e l'aridità umana che il periodo successivo alla bomba atomica inevitabilmente ha lasciato.

La seguente raccolta di racconti dal titolo La cosa, sarà dedicata dallo scrittore alla sua nuova compagna Carmen Llera con la quale si unirà in matrimonio nel 1986 e che susciterà un certo scandalo per il fatto che la donna aveva quarantacinque anni meno di Moravia.

Nel 1984 verrà eletto deputato europeo nelle liste del PCI, ruolo che coprirà per 4 anni. Nel 1985 gli viene conferito il titolo di "personalità europea".

Da Strasburgo dove si recò come inviato del "Corriere della Sera" lo scrittore inizierà nel 1984 la corrispondenza Il Diario europeo e nel 1986 verrà pubblicato un volume dal titolo L'angelo nucleare e altri scritti teatrali curato da Renzo Paris e il primo volume delle Opere (1927-1947) curato da Geno Pampaloni. Nel 1989 uscirà, a cura di Enzo Siciliano, il secondo volume delle Opere (1948-1968). Nel settembre 1990 Moravia viene trovato morto nel bagno del suo appartamento in Lungotevere della Vittoria, sempre a Roma. Nello stesso anno uscirà la sua autobiografia scritta insieme ad Alain Elkann ed edita da Bompiani Vita di Moravia.

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La mattina rientrai con molta gente in città mentre ancora echeggiavano in lontananza schianti e boati. Dappertutto si correva e si portavano fagotti. L'asfalto dei viali era sparso di buche, di strati di foglie, di pozze d'acqua. Pareva avesse grandinato. Nella chiara luce crepitavano rossi e impudichi gli ultimi incendi. La scuola, come sempre, era intatta.

Mi accolse il vecchio Domenico, impaziente di andarsene a vedere i disastri. C'era già stato avanti l'alba, al cessato allarme, nell'ora che tutti vanno tutti sbucano, e qualche esercente socchiude la porta e ne filtra la luce (tanto ci sono i grossi incendi) e qualcosa si beve, fa piacere ritrovarsi. Mi raccontò cos'era stata la notte nel nostro rifugio dove lui dormiva. Niente lezioni per quest'oggi, si capisce. Del resto anche i tram stavano fermi, spalancati e deserti, dove il finimondo li aveva sorpresi. Tutti i fili erano rotti. Tutti i muri imbrattati come dell'ala impazzita di un uccello di fuoco. - Brutta strada, non passa nessuno, - ripeteva Domenico. - La segretaria non si è ancora vista. Non si è visto Fellini. Non si può sapere niente -.

Passò un ciclista che, pied'a terra, ci disse che Torino era tutta distrutta. - Ci sono migliaia di morti, - ci disse. - Hanno spianato la stazione, han bruciato i mercati. Hanno detto alla radio che torneranno stasera -. E scappò pedalando, senza voltarsi. - Quello ha la lingua per parlare, - borbottò Domenico. - Non capisco Fellini. Di solito è già qui - .

La nostra strada era davvero solitaria e tranquilla. Il ciuffo d'alberi del cortile del convitto incoronava l'alto muro come un giardino di provincia. Qui non giungevano nemmeno i fragori consueti, i trabalzi dei tram, le voci umane. Che quel mattino non ci fosse trepestio di ragazzi, era una cosa d'altri tempi. Pareva incredibile che, nel buio della notte, anche su quel calmo cielo tra le case avesse infuriato il finimondo.

Dissi a Domenico di andarsene, se voleva, a cercare Fellini. Sarei rimasto in portieria ad aspettarli. Passai mezza la mattina riordinando il registro di classe per gli scrutini imminenti. Facevo addizioni, scrivevo giudizi. Di tanto in tanto alzavo il capo al corridoio, alle aule vuote. Pensavo alle donne che compongono un morto, lo lavano e lo vestono. Fra un istante il cielo poteva di nuovo muggire, incendiarsi, e della scuola non restare che una buca cavernosa. Solamente la vita, la nuda vita contava. Registri, scuole e cadaveri erano cose già scontate.

Borbottando nel silenzio i nomi dei ragazzi, mi sentii come una vecchia che borbotta preghiere. Sorridevo tra me. Rivedevo le facce. Ne erano morti stanotte? La loro allegria l'indomani di un bombardamento, la vacanza prevista, la novità, il disordine somigliava al mio piacere di sfuggire ogni sera agli allarmi, di ritrovarmi nella stanza fresca, di stendermi nel letto al sicuro. Potevo sorridere della loro incoscienza? Tutti avevamo un'incoscienza in questa guerra, per tutti noi questi casi paurosi si erano fatti banali, quotidiani, spiacevoli. Chi poi li prendeva sul serio e diceva - È la guerra, - costui era

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peggio, era un illuso o un minorato. Eppure, stanotte qualcuno era morto. Se non migliaia, magari decine. Bastavano.

Pensavo alla gente che restava in città. Pensavo a Cate. Mi ero fitto in testa che lei non salisse lassù tutte le sere. Qualcosa in questo senso mi pareva di aver sentito nel cortile, e infatti da quella volta dell'allarme non avevano più cantato. Mi chiesi se avessi qualcosa da dirle, se da lei temessi qualcosa. Mi pareva soltanto di rimpiangere quel buio, quell'aria di casa e di bosco, le voci giovani, la novità. Chi sa che Cate quella notte non avesse cantato con gli altri. Se nulla è successo, pensai, stasera tornano lassù.

Suonò il telefono. Era il padre di un ragazzo. Voleva sapere se davvero non c'era lezione. Che disastro stanotte. Se i professori e il signor preside erano tutti sani e salvi. Se suo figlio studiava la fisica. Si capisce la guerra è la guerra. Che avessi pazienza. Bisognava comprendere e aiutare le famiglie. Tanti ossequi e scusassi.

Da questo momento il telefono non ebbe più pace. Telefonarono ragazzi, telefonarono colleghi e segretaria. Telefonò Fellini, da casa del diavolo. - Funziona? - disse sorpreso. Sentii la smorfia di scontento che gli mangiò mezza la faccia. - Non c'è nessuno in portieria, cosa credi? che sia festa? Vieni subito a dare una mano a Domenico -. Chiusi. Uscii fuori. Non volli rispondere più. Dopo una notte come quella era tutto ridicolo.

Finii la mattina andando a zonzo, nel disordine e nel sole. Chi correva, chi stava a guardare. Le case sventrate fumavano. I crocicchi erano ingombri. In alto, tra i muri divelti, tappezzerie e lavandini pendevano al sole. Non sempre era facile distinguere tra le nuove le rovine vecchie. Si osservava l'effetto d'insieme e si pensava che una bomba non cade mai dov'è caduta la prima. Ciclisti avidi, sudati, mettevano il piede a terra, guardavano e poi ripartivano per altri spettacoli. Li muoveva un superstite amore del prossimo. Sui marciapiedi, dov'era avvampato un incendio, s'accumulavano bambini, materassi, suppellettili rotte. Bastava una vecchia a vuotare l'alloggio. La gente guardava. Di tanto in tanto studiavamo il cielo.

Faceva strano vedere i soldati. Quando passavano in pattuglie, con la pala e il sottogola, si capiva che andavano a sterrare rifugi, a estrarre cadaveri e vivi, e si sarebbe voluto incitarli, gridargli di correre, far presto perbacco. Non servivano ad altro, si diceva tra noi. Tanto la guerra era perduta, si sapeva. Ma i soldati marciavano adagio, aggiravano buche, si voltavano anche loro a sogguardare le case.

In un caffè dove lessi un giornale - uscivano ancora i giornali - tra gli avventori si parlava a bassa voce. Il giornale diceva che la guerra era dura, ma era una cosa tutta nostra, fatta di fede e di passione, l'estrema ricchezza che avessimo ancora. Era successo che le bombe eran cadute anche su Roma, distruggendo una chiesa e violando delle tombe. Questo fatto impegnava anche i morti, era l'ultimo di una serie sanguinosa che aveva indignato tutto il mondo civile. Bisognava aver fede in quell'ultimo insulto. Si era a un punto che le cose non potevano andar peggio. Il nemico perdeva la testa. Da “La casa in collina”. Cesare Pavese, 1947

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Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto

1950). Importante fu l'opera di Pavese scrittore di romanzi, poesie e racconti, ma anche quella di traduttore e critico: oltre all'Antologia americana curata da Elio Vittorini, essa comprende la traduzione di classici della letteratura da Moby Dick di Melville, nel 1932, ad opere di Dos Passos, Faulkner, Defoe, Joyce e Dickens. La sua attività di critico in particolare contribuì a creare, verso la metà degli anni '30, il sorgere di un certo mito dell'America.

Lavorando nell'editoria (per la Einaudi) Pavese propose alla cultura italiana scritti su temi differenti, e prima d'allora raramente affrontati, come l'idealismo ed il marxismo, inclusi quelli religiosi, etnologici e psicologici. Studioso e pensatore che si riconosceva nella sinistra italiana, morì suicida a quarantadue anni di età in una piccola camera al terzo piano dell'Hotel Roma a Torino.

Per tutta la vita aveva cercato di vincere la solitudine interiore, sentita come condanna e vocazione. Nel 1914 morì il padre e questo gli causò un primo trauma. La madre infatti si sostituì al marito defunto nell'allevare il figlio in maniera quanto mai rigida.

Pavese compì gli studi liceali a Torino con Augusto Monti, collaboratore di Gobetti, narratore, studioso di problemi della scuola. Fu il primo contatto con il mondo degli intellettuali e con personalità come Leone Ginzburg, Tullio Pinelli, Vittorio Foa, studioso di problemi politici e sociali, Norberto Bobbio. Durante gli anni dell'università Pavese maturò l'interesse per la letteratura americana; in quegli anni, intanto, alternava il lavoro di traduttore con l'insegnamento della lingua inglese.

Le poesie di Lavorare stanca (1936) furono fortemente innovative e, insieme alle sue opere di narrativa, attrassero un vasto pubblico.

Nel 1950, vinse il Premio Strega con il trittico (tre romanzi brevi) La bella estate. La delusione amorosa per la fine del rapporto sentimentale con l'attrice americana

Constance Dowling - cui dedicò gli ultimi versi di Verrà la morte ed avrà i tuoi occhi - ed il disagio esistenziale lo indussero al suicidio il 27 agosto del 1950, in una camera dell'albergo Roma, a Torino. « Il gesto non dev’essere una vendetta. Dev’essere una calma e stanca rinuncia, una chiusa di conti, un fatto privato e ritmico. L’ultima battuta. » Il suo amico scrittore Davide Lajolo bene descrisse, in un libro intitolato non casualmente, Il vizio assurdo, il malessere esistenziale che sempre aveva avvolto la vita dell'intellettuale piemontese.

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Era stata in passato, mia nonna, molto ricca, e s'era impoverita con la guerra mondiale; perché siccome non credeva che vincesse l'Italia, e nutriva una cieca fiducia in Francesco Giuseppe, aveva voluto conservare certi titoli, che possedeva in Austria, e così aveva perso molti denari; mio padre, irredentista, aveva inutilmente cercato di convincerla a vendere quei titoli austriaci. Mia nonna usava dire "la mia disgrazia" alludendo a quella perdita di denaro; e se ne disperava, la mattina, passeggiando su e giù per la stanza e torcendosi le dita.

Ma non era poi così povera. Aveva, a Firenze, una bella casa, con mobili indiani e cinesi e tappeti turchi; perché un suo nonno, il nonno Parente, era stato un collezionista di oggetti preziosi. Alle pareti c'erano i ritratti dei suoi vari antenati, il nonno Parente, e la Vandea, che era una zia che chiamavano così perché era reazionaria, e teneva un salotto di codini e di reazionari; e molte zie e cugine che si chiamavano tutte o Margherita o Regina: nomi in uso nelle famiglie ebree di una volta.

Non c'era però fra i ritratti quello del padre di mia nonna, e di lui non si doveva parlare: perché, rimasto vedovo, ed essendosi litigato un giorno con le sue due figlie, già adulte, aveva dichiarato che, per dispetto a loro, si sarebbe sposato con la prima donna che incontrava per la strada, e così aveva fatto; o almeno, così si raccontava in famiglia che avesse fatto; se poi fosse stata proprio la prima donna che aveva incontrato, sul portone, uscendo di casa, non so.

Comunque aveva avuto, con questa nuova moglie, ancora una figlia, che mia nonna non volle mai conoscere, e che chiamava, con disgusto, "la bimba del babbo". Questa "bimba del babbo", matura e distinta signora ormai sulla cinquantina, ci accadeva d'incontrarla a volte nelle villeggiature, e mio padre diceva allora a mia madre: Hai visto? Hai visto? Era la bimba del babbo! - Voi fate bordello di tutto. In questa casa si fa bordello di tutto, - diceva sempre mia nonna, intendendo dire che, per noi, non c'era niente di sacro; frase rimasta famosa in famiglia, e che usavamo ripetere ogni volta che ci veniva da ridere su morti o su funerali.

Aveva, mia nonna, un profondo schifo degli animali, e dava in smanie quando ci vedeva giocare con un gatto, dicendo che avremmo preso, e contagiato a lei, malattie; "Quell'infame bestiaccia", diceva, pestando i piedi per terra, e battendo la punta dell'ombrello.

Aveva schifo di tutto, e una gran paura delle malattie; era però sanissima, tanto che è morta a più di ottant'anni senza aver mai avuto bisogno né di un medico, né di un dentista.

Temeva sempre che qualcuno di noi, per dispetto, la battezzasse: perché uno dei miei fratelli una volta, scherzando,

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aveva fatto il gesto di battezzarla. Recitava ogni giorno le sue preghiere in ebraico, senza capirci niente, perché non sapeva l'ebraico.

Provava, per quelli che non erano ebrei come lei, un ribrezzo, come per i gatti. Era esclusa da questo ribrezzo soltanto mia madre: l'unica persona non ebrea alla quale, in vita sua, si fosse affezionata. E anche mia madre le voleva bene; e diceva che era, nel suo egoismo, innocente e ingenua come un bambino lattante.

Mia nonna era da giovane, a suo dire, bellissima, la seconda bella ragazza di Pisa; la prima era una certa Virginia Del Vecchio, sua amica. Venne a Pisa un certo signor Segrè, e chiese di conoscere la più bella ragazza di Pisa, per chiederla in matrimonio. Virginia non accettò di sposarlo. Gli presentarono allora mia nonna. Ma anche mia nonna lo rifiutò, dicendo che lei non prendeva "gli avanzi di Virginia". Si sposò poi con mio nonno, il nonno Michele: uomo che doveva essere quanto mai dolce e mite.

Rimase vedova in giovane età; e una volta le domandammo perché non aveva ripreso marito. Rispose, con una risata stridula e con una brutalità che mai ci saremmo aspettate in quella vecchia querula e lamentosa che era: - Cuccù! per farmi mangiare tutto il mio!

Da “Lessico famigliare”, 1963

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Natalia Levi nasce a Palermo da una famiglia ebraica di

origine triestina. Il padre, Giuseppe Levi, professore universitario e i suoi tre fratelli saranno imprigionati e processati con l'accusa di antifascismo.

Natalia trascorre l'infanzia e l'adolescenza a Torino, in stato di emarginazione e trova presto conforto nella scrittura.

Esordisce nel 1933 con il suo primo racconto, I bambini, pubblicato dalla rivista "Solaria" e nel 1938 sposa Leone Ginzburg col cui cognome firmerà in seguito tutte le sue opere. In quegli anni stringe legami con i maggiori rappresentanti dell'antifascismo torinese e in particolare con gli intellettuali della casa editrice Einaudi della quale il marito, docente universitario di letteratura russa, era collaboratore dal 1933.

Nel 1940 segue il marito, che era stato mandato al confino per motivi politici e

razziali, in un paese dell'Abruzzo dove rimane fino al 1943. Nel 1942 scrive e pubblica, con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte, il suo

primo romanzo intitolato La strada che va in città che verrà ristampato nel 1945 sotto il nome dell'autrice.

Nel febbraio del 1944, in seguito alla morte del marito ucciso nel carcere di Regina Coeli, Natalia ritorna a Torino e al termine della Seconda guerra mondiale comincia a lavorare per la casa editrice Einaudi.

Nel 1947 esce il suo secondo romanzo È stato così che vince il premio letterario "Tempo".

Nel 1950 sposa l'anglista Gabriele Baldini, docente di letteratura inglese e direttore dell’Istituto Italiano di Cultura a Londra. Inizia per Natalia un periodo ricco per la produzione letteraria che si rivela prevalentemente orientata sui temi della memoria e dell'indagine psicologica. Nel 1952 pubblica Tutti i nostri ieri, nel 1957 il volume di racconti lunghi, Valentino, che vince il premio Viareggio e il romanzo Sagittario, nel 1961 Le voci della sera che, insieme al romanzo d'esordio verranno successivamente raccolti nel 1964 nel volume Cinque romanzi brevi.

Nel 1962 esce la raccolta di saggi Le piccole virtù e nel 1963 vince il premio Strega con Lessico famigliare che viene accolto da un forte consenso di critica e di pubblico.

Nel 1969 muore il marito e la scrittrice si dedica sempre più alla narrativa. Negli anni settanta fanno seguito i volumi Mai devi domandarmi del 1970 e Vita

immaginaria del 1974. Nella successiva produzione la scrittrice, che si era rivelata anche fine traduttrice

con La strada di Swann di Proust, ripropone in modo più approfondito i temi del microcosmo familiare con il romanzo Caro Michele del 1973, il racconto Famiglia del 1977, il romanzo epistolare La città e la casa del 1984 oltre La famiglia Manzoni, nel 1983, visto in una prospettiva saggistica.

La Ginzburg si rivela inoltre autrice di commedie tra le quali, Ti ho sposato per allegria del 1970, e Paese di mare nel 1972.

Nel 1983 viene eletta nelle liste del Partito Comunista Italiano al Parlamento. Muore a Roma tra il 6 e il 7 ottobre 1991.

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- Noi non siamo cristiani, - essi dicono, - Cristo si è fermato a Eboli -. Cristiano vuol dire, nel loro linguaggio, uomo: e la frase proverbiale che ho sentito tante volte ripetere, nelle loro bocche non è forse nulla più che l'espressione di uno sconsolato complesso di inferiorità. Noi non siamo cristiani, non siamo uomini, non siamo considerati come uomini, ma bestie, bestie da soma, e ancora meno che le bestie, i fruschi, i frusculicchi, che vivono la loro libera vita diabolica o angelica, perché noi dobbiamo invece subire il mondo dei cristiani, che sono di là dall'orizzonte, e sopportarne il peso e il confronto. Ma la frase ha un senso molto più profondo, che, come sempre, nei modi simbolici, è quello letterale.

Cristo si è davvero fermato a Eboli, dove la strada e il treno abbandonano la costa di Salerno e il mare, e si addentrano nelle desolate terre di Lucania. Cristo non è mai arrivato qui, né vi è arrivato il tempo, né l'anima individuale, né la speranza, né il legame tra le cause e gli effetti, la ragione e la Storia. Cristo non è arrivato, come non erano arrivati i romani, che presidiavano le grandi strade e non entravano fra i monti e nelle foreste, né i greci, che fiorivano sul mare di Metaponto e di Sibari: nessuno degli arditi uomini di occidente ha portato quaggiù il suo senso del tempo che si muove, né la sua teocrazia statale, né la sua perenne attività che cresce su se stessa. Nessuno ha toccato questa terra se non come un conquistatore o un nemico o un visitatore incomprensivo.

Le stagioni scorrono sulla fatica contadina, oggi come tremila anni prima di Cristo: nessun messaggio umano o divino si è rivolto a questa povertà refrattaria. Parliamo un diverso linguaggio: la nostra lingua è qui incomprensibile. I grandi viaggiatori non sono andati di là dai confini del proprio mondo; e hanno percorso i sentieri della propria anima e quelli del bene e del male, della moralità e della redenzione. Cristo è sceso nell'inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell'eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.

Da “Cristo si è fermato a Eboli” Scritto nel 1943 e pubblicato nel 1945

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Carlo Levi nasce in una famiglia agiata della borghesia torinese, il 29 novembre

1902. Fin da ragazzo dedica molto del suo tempo alla pittura, una forma d'arte che coltiverà con gran passione per tutta la vita, raggiungendo lusinghieri successi sia di critica sia di pubblico.

Dopo avere terminato gli studi secondari, s’iscrive a medicina all'Università di Torino. Nel periodo degli studi universitari, tramite lo zio, l'onorevole Claudio Treves (figura di rilievo nel Partito socialista), conosce Piero Gobetti, che lo invita a collaborare alla sua rivista La Rivoluzione liberale e lo introduce nella scuola di Felice Casorati, intorno alla quale gravita l'avanguardia pittorica torinese.

Levi, inserito in questo contesto multiculturale, ha modo di frequentare personalità come Cesare Pavese, Giacomo Noventa, Antonio Gramsci, Luigi Einaudi e, più tardi, importante per la sua evoluzione pittorica, Edoardo Persico, Lionello Venturi, Luigi Spazzapan.

Nel 1923 soggiorna per la prima volta a Parigi e scrive il primo articolo sulla sua pittura nella rivista Ordine nuovo. Si laurea in medicina nello stesso anno e rimarrà in università come assistente fino al 1928, ma non eserciterà la professione di medico, preferendogli definitivamente la pittura e il giornalismo.

La profonda amicizia e l'assidua frequentazione di Felice Casorati valsero a orientare la prima attività artistica del giovane pittore, con le opere pittoriche Ritratto del padre (1923) e il levigato nudo di Arcadia, con il quale partecipa alla Biennale di Venezia del 1924.

Dopo alcuni soggiorni a Parigi, dove aveva mantenuto uno studio, la sua pittura, influenzata dalla scuola di Parigi, subisce un ulteriore cambiamento stilistico, proseguito poi con la conoscenza, tra il 1929 e il 1930, di Modigliani.

Con il sostegno di Edoardo Persico e Lionello Venturi, alla fine del 1928 prende parte al movimento pittorico cosiddetto dei "sei pittori di Torino", insieme a Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio, Enrico Paulucci e Jessie Boswell, che lo porterà ad esporre in diverse città in Italia ed anche in Europa (Genova, Milano, Roma, Londra, Parigi).

Levi, per una precisa posizione culturale coerente con le sue idee, considerava espressione di libertà la pittura, in contrapposizione non solo formale, ma anche sostanziale alla retorica dell'arte ufficiale, secondo lui sempre più sottomessa al conformismo del regime fascista e al modernismo ipocrita del movimento futurista.

Nel 1931 si unisce al movimento antifascista di “Giustizia e libertà”, fondato tre anni prima da Carlo Rosselli. Per sospetta attività antifascista, nel marzo 1934 Levi si procurerà

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il primo arresto, e l'anno successivo, dopo un secondo arresto, fu condannato al confino nel piccolo centro lucano di Aliano.

Da questa esperienza nascerà il suo romanzo più famoso, Cristo si è fermato a Eboli, scritto negli anni 1943-44 e pubblicato da Einaudi nel 1945. In esso Levi denuncerà le condizioni di vita disumane di quella popolazione contadina, dimenticata dalle istituzioni dello Stato, alle quali "neppure la parola di Cristo sembra essere mai giunta". Da questo libro venne tratto l'omonimo film di Francesco Rosi.

Nel 1936 il regime fascista, euforico della conquista etiopica, gli concede la grazia, e lo scrittore si trasferisce per alcuni anni in Francia per continuare la sua attività politica.

Rientrato in Italia, nel 1943 aderisce al Partito d'azione e dirige insieme ad altri Azionisti La nazione del popolo, organo del Comitato di Liberazione della Toscana. Levi continuerà nel dopoguerra la sua attività di giornalista, in qualità di direttore del quotidiano romano Italia libera, partecipando ad iniziative e inchieste politico-sociali sulla arretratezza del Mezzogiorno d'Italia, e per molti anni collaborerà con il quotidiano La Stampa di Torino.

Nel 1954 aderisce al gruppo neorealista e partecipa alla Biennale di Venezia con apprezzabili dipinti, in chiave realistica come la sua narrativa. Dopo Cristo si è fermato a Eboli, di grande interesse sono Le parole sono pietre, del 1955, sui problemi sociali della Sicilia (vincitore nello stesso anno del Premio Viareggio), Il futuro ha un cuore antico (1956), Tutto il miele è finito (1965), e L'orologio, pensosa e inquieta cronaca degli anni della ricostruzione economica italiana (1950).

Nel 1963, per dare peso alle sue inchieste sociali sul degrado generalizzato del paese, e mosso dal desiderio di contribuire a modificare una politica stratificata su un immobilismo di conservazione di certi diritti acquisiti anche illegamente, passa dalla teoria alla pratica e, convinto dagli alti vertici del partito comunista, incomincia a svolgere politica attiva. Candidato ad un seggio senatoriale, viene eletto per due legislature Senatore della Repubblica (la prima volta nel collegio di Civitavecchia, nel secondo mandato nel collegio di Velletri) come indipendente del Partito comunista italiano.

Nel gennaio 1973 subisce due interventi chirurgici per il distacco della retina. In stato temporaneo di cecità riuscirà a tracciare più di 146 quadri, e a scrivere Quaderno a cancelli, che sarà pubblicato postumo nel 1979, e i relativi disegni della cecità pubblicati nel volume "Carlo Levi inedito: con 40 disegni della cecità", a cura di Donato Sperduto, Edizioni Spes, Milazzo 2002 (D. Sperduto si è occupato anche della concezione leviana del tempo nel libro "L'imitazione dell'eterno", Schena editore, Fasano di Brindisi 1998).

Muore a Roma il 4 gennaio 1975. La salma dello scrittore torinese riposa nel cimitero di Aliano, dove volle essere sepolto per mantenere la promessa di tornare, fatta (e non potuta mantenere in vita) agli abitanti, lasciando il paese.

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Marcovaldo al supermarket Alle sei di sera la città cadeva in mano dei consumatori.

Per tutta la giornata il gran daffare della popolazione produttiva era il produrre: producevano beni di consumo. A una cert'ora, come per lo scatto d'un interruttore, smettevano la produzione e, via!, si buttavano tutti a consumare.

Ogni giorno una fioritura impetuosa faceva appena in tempo a sbocciare dietro le vetrine illuminate, i rossi salami a penzolare, le torri di piatti di porcellana a innalzarsi fino al soffitto, i rotoli di tessuto a dispiegare drappeggi come code di pavone, ed ecco già irrompeva la folla consumatrice a smantellare a rodere a palpare a far man bassa.

Una fila ininterrotta serpeggiava per tutti i marciapiedi e i portici, s'allungava attraverso le porte a vetri nei magazzini intorno a tutti i banchi, mossa dalle gomitate di ognuno nelle costole di ognuno come da continui colpi di stantuffo.

Consumate! e toccavano le merci e le rimettevano giù e le riprendevano e se le strappavano di mano; consumate! e obbligavano le pallide commesse a sciorinare sul bancone biancheria e biancheria; consumate! e i gomitoli di spago colorato giravano come trottole, i fogli di carta a fiori levavano ali starnazzanti, avvolgendo gli acquisti in pacchettini e i pacchettini in pacchetti e i pacchetti in pacchi, legati ognuno col suo nodo a fiocco. E via pacchi pacchetti pacchettini borse borsette vorticavano attorno alla cassa in un ingorgo, mani che frugavano nelle borsette cercando i borsellini e dita che frugavano nei borsellini cercando gli spiccioli, e giù in fondo in mezzo a una foresta di gambe sconosciute e falde di soprabiti i bambini non più tenuti per mano si smarrivano e piangevano.

Una di queste sere Marcovaldo stava portando a spasso la famiglia. Essendo senza soldi, il loro spasso era guardare gli altri fare spese; in quanto che il denaro, più ne circola, più chi ne è senza spera: "Prima o poi finirà per passarne anche un po' per le mie tasche". Invece, a Marcovaldo, il suo stipendio, tra che era poco e che di famiglia erano in molti, e che c'erano da pagare rate e debiti, scorreva via appena percepito. Comunque, era pur sempre un bel guardare, specie facendo un giro al supermarket.

Il supermarket funzionava col self-service. C'erano quei carrelli, come dei cestini di ferro con le ruote, e ogni cliente spingeva il suo carrello e lo riempiva di ogni bendidio. Anche Marcovaldo nell'entrare prese un carrello lui, uno sua moglie e uno ciascuno i suoi quattro bambini. E così andavano in processione coi carrelli davanti a sé, tra banchi stipati da montagne di cose mangerecce, indicandosi i salami e i formaggi

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e nominandoli, come riconoscessero nella folla visi di amici, o almeno conoscenti.

- Papa, lo possiamo prendere questo? - chiedevano i bambini ogni minuto.

- No, non si tocca, è proibito, - diceva Marcovaldo ricordandosi che alla fine di quel giro li attendeva la cassiera per la somma.

- E perché quella signora lì li prende? - insistevano, vedendo tutte queste buone donne che, entrate per comprare solo due carote e un sedano, non sapevano resistere di fronte a una piramide di barattoli e tum! tum! tum! con un gesto tra distratto e rassegnato lasciavano cadere lattine di pomodori pelati, pesche sciroppate, alici sott'olio a tambureggiare nel carrello.

Insomma, se il tuo carrello è vuoto e gli altri pieni, si può reggere fino a un certo punto: poi ti prende un'invidia, un crepacuore, e non resisti più.

Allora Marcovaldo, dopo aver raccomandato alla moglie e ai figlioli di non toccare niente, girò veloce a una traversa tra i banchi, si sottrasse alla vista della famiglia e, presa da un ripiano una scatola di datteri, la depose nel carrello. Voleva soltanto provare il piacere di portarla in giro per dieci minuti, sfoggiare anche lui i suoi acquisti come gli altri, e poi rimetterla dove l'aveva presa. Questa scatola, e anche una rossa bottiglia di salsa piccante, e un sacchetto di caffè, e un azzurro pacco di spaghetti. Marcovaldo era sicuro che, facendo con delicatezza, poteva per almeno un quarto d'ora gustare la gioia di chi sa scegliere il prodotto, senza dover pagare neanche un soldo. Ma guai se i bambini lo vedevano! Subito si sarebbero messi a imitarlo e chissà che confusione ne sarebbe nata!

Marcovaldo cercava di far perdere le sue tracce, percorrendo un cammino a zig zag per i reparti, seguendo ora indaffarate servette ora signore impellicciate. E come l'una o l'altra avanzava la mano per prendere una zucca gialla e odorosa o una scatola di triangolari formaggini, lui l'imitava. Gli altoparlanti diffondevano musichette allegre: i consumatori si muovevano o sostavano seguendone il ritmo, e al momento giusto protendevano il braccio e prendevano un oggetto e lo posavano nel loro cestino, tutto a suon di musica.

Il carrello di Marcovaldo adesso era gremito di mercanzia; i suoi passi lo portavano ad addentrarsi in reparti meno frequentati; i prodotti dai nomi sempre meno decifrabili erano chiusi in scatole con figure da cui non risultava chiaro se si trattava di concime per la lattuga o di seme di lattuga o di lattuga vera e propria o di veleno per i bruchi della lattuga o di becchime per attirare gli uccelli che mangiano quei bruchi

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oppure condimento per l'insalata o per gli uccelli arrosto. Comunque Marcovaldo ne prendeva due o tre scatole.

Così andava tra due siepi alte di banchi. Tutt'a un tratto la corsia finiva e c'era un lungo spazio vuoto e deserto con le luci al neon che facevano brillare le piastrelle. Marcovaldo era lì, solo col suo carro di roba, e in fondo a quello spazio vuoto c'era l'uscita con la cassa.

Il primo istinto fu di buttarsi a correre a testa bassa spingendo il carrello davanti a sé come un carro armato e scappare via dal supermarket col bottino prima che la cassiera potesse dare l'allarme. Ma in quel momento da un'altra corsia lì vicino s'affacciò un carrello carico ancor più del suo, e chi lo spingeva era sua moglie Domitilla. E da un'altra parte se n'affacciò un altro e Filippetto lo stava spingendo con tutte le sue forze.

Era quello un punto in cui le corsie di molti reparti convergevano, e da ogni sbocco veniva fuori un bambino di Marcovaldo, tutti spingendo trespoli carichi come bastimenti mercantili. Ognuno aveva avuto la stessa idea, e adesso ritrovandosi s'accorgevano d'aver messo insieme un campionario di tutte le disponibilità del supermarket. - Papa, allora siamo ricchi? - chiese Michelino. - Ce ne avremo da mangiare per un anno?

- Indietro! Presto! Lontani dalla cassa! - esclamò Marcovaldo facendo dietrofront e nascondendosi, lui e le sue derrate, dietro ai banchi; e spiccò la corsa piegato in due come sotto il tiro nemico, tornando a perdersi nei reparti. Un rombo risuonava alle sue spalle; si voltò e vide tutta la famiglia che, spingendo i suoi vagoni come un treno, gli galoppava alle calcagna.

- Qui ci chiedono un conto da un milione! Il supermarket era grande e intricato come un labirinto: ci

si poteva girare ore ed ore. Con tante provviste a disposizione, Marcovaldo e familiari avrebbero potuto passarci l'intero inverno senza uscire. Ma gli altoparlanti già avevano interrotto la loro musichetta, e dicevano: - Attenzione! Tra un quarto d'ora il supermarket chiude! Siete pregati d'affrettarvi alla cassa!

Era tempo di disfarsi del carico: ora o mai più. Al richiamo dell'altoparlante la folla dei clienti era presa da una furia frenetica, come se si trattasse degli ultimi minuti dell'ultimo supermarket in tutto il mondo, una furia non si capiva se di prendere tutto quel che c'era o di lasciarlo lì, insomma uno spingi spingi attorno ai banchi, e Marcovaldo con Domitilla e i figli ne approfittavano per rimettere la mercanzia sui banchi o per farla scivolare nei carrelli d'altre persone.

Le restituzioni avvenivano un po' a casaccio: la carta moschicida sul banco del prosciutto, un cavolo cappuccio tra le

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torte. Una signora, non s'accorsero che invece del carrello spingeva una carrozzella con un neonato: ci rincalzarono un fiasco di barbera.

Questa di privarsi delle cose senz'averle nemmeno assaporate era una sofferenza che strappava le lacrime. E così, nello stesso momento che lasciavano un tubetto di maionese, capitava loro sottomano un grappolo di banane, e lo prendevano; o un pollo arrosto invece d'uno spazzolone di nylon; con questo sistema i loro carrelli più si vuotavano più tornavano a riempirsi.

La famiglia con le sue provviste saliva e scendeva per le scale rotanti e ad ogni piano da ogni parte si trovava di fronte a passaggi obbligati dove una cassiera di sentinella puntava una macchina calcolatrice crepitante come una mitragliatrice contro tutti quelli che accennavano a uscire. Il girare di Marcovaldo e famiglia somigliava sempre più a quello di bestie in gabbia o di carcerati in una luminosa prigione dai muri a pannelli colorati.

In un punto, i pannelli d'una parete erano smontati, c'era una scala a pioli posata lì, martelli, attrezzi da carpentiere e muratore. Un'impresa stava costruendo un ampliamento del supermarket. Finito l'orario di lavoro, gli operai se n'erano andati lasciando tutto com'era. Marcovaldo, provviste innanzi, passò per il buco del muro. Di là c'era buio; lui avanzò. E la famiglia, coi carrelli, gli andò dietro.

Le ruote gommate dei carrelli sobbalzavano su un suolo come disselciato, a tratti sabbioso, poi su un piancito d'assi sconnesse. Marcovaldo procedeva in equilibrio su di un asse; gli altri lo seguivano. A un tratto videro davanti e dietro e sopra e sotto tante luci seminate lontano, e intorno il vuoto.

Erano sul castello d'assi d'un'impalcatura, all'altezza delle case di sette piani. La città s'apriva sotto di loro in uno sfavillare luminoso di finestre e insegne e sprazzi elettrici dalle antenne dei tram; più in su era il cielo stellato d'astri e lampadine rosse d'antenne di stazioni radio. L'impalcatura tremava sotto il peso di tutta quella mercé lassù in bilico. Michelino disse: - Ho paura!

Dal buio avanzò un'ombra. Era una bocca enorme, senza denti, che s'apriva protendendosi su un lungo collo metallico: una gru. Calava su di loro, si fermava alla loro altezza, la ganascia inferiore contro il bordo dell'impalcatura. Marcovaldo inclinò il carrello, rovesciò la mercé nelle fauci di ferro, passò avanti. Domitilla fece lo stesso. I bambini imitarono i genitori. La gru richiuse le fauci con dentro tutto il bottino del supermarket e con un gracchiante carrucolare tirò indietro il collo, allontanandosi. Sotto s'accendevano e ruotavano le scritte luminose multicolori che invitavano a comprare i prodotti in vendita nel grande supermarket.

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Italo Calvino nasce a Santiago de las Vegas (Cuba) il 15 ottobre 1923, durante il breve trasferimento dei genitori per motivi personali. Nel 1925 la famiglia ritorna da Cuba, stabilendosi a San Remo. Nel 1927 frequenta l'asilo infantile St.George College. Negli anni tra il 1929 ed il 1933, non può sottrarsi all'esperienza di diventare balilla, obbligo scolastico esteso anche alle scuole valdesi frequentate dal piccolo Italo.

Nel 1934 inizia la frequentazione del ginnasio-liceo "G.D. Cassi". Nel 1940, la guerra sconvolge la serena vita di provincia. Tra il 1941 e 1942, si trasferisce a Torino e si iscrive alla facoltà di Agraria. Mentre

sostiene gli esami dei primi anni, Calvino coltiva i suoi veri interessi: la letteratura, il cinema, il teatro. Scrive La commedia della gente, un lavoro teatrale e Pazzo io o pazzi gli altri che presenterà alla casa editrice Einaudi senza successo.

L'ambiente culturale di Torino, che Calvino frequenta assiduamente, ed i fermenti politici di contrapposizione al regime, più che mai vivi nel capoluogo piemontese, fondono in lui letteratura e politica. Nel 1943 si trasferisce alla facoltà di Agraria e Forestale di Firenze, dove sostiene pochi esami.

Il 9 agosto 1943 ritorna a Sanremo. L'8 settembre trova Calvino renitente alla leva. Contrario ad aderire alla Repubblica di Salò, trascorre un breve periodo nascosto e solitario a Sanremo.

La definitiva scelta per la clandestinità matura più per questioni affettive ed emozionali che per persuasione politica. All'indomani dell'uccisione del giovane medico Felice Cascione per mano fascista, Calvino aderisce assieme al fratello Floriano, alla seconda divisione d'assalto partigiana "Garibaldi" intitolata allo stesso Cascione. Nel marzo del 1945, quando ormai gli alleati sono in Italia, Calvino è protagonista attivo nella battaglia di Baiardo, una delle ultime battaglie partigiane. Ricorderà l'evento nel racconto Ricordo di una battaglia, scritto nel 1974.

Dopo la Liberazione, matura l'esigenza di organizzare forme politiche e strutture sociali a difesa dei diritti, della dignità umana e della libertà. Con questo spirito aderisce al P.C.I. e ne diviene attivista e quadro.

Si iscrive alla Facoltà di lettere di Torino, accedendo direttamente al III anno, grazie alla legislazione postbellica in favore dei partigiani ed ex combattenti. Conosce Cesare Pavese che diverrà guida culturale ed umana, oltre che "primo lettore" delle sue opere.

Scrive Angoscia in caserma ed inizia una collaborazione con Il Politecnico, periodico diretto da Elio Vittorini. Tra il '46 ed il '47 compone Campo di mine, vincitore di un concorso letterario indetto da "L'Unità", ed una serie di racconti che saranno poi messi assieme ne Ultimo viene il corvo pubblicato nel 1949. Tra l'estate e il 31 dicembre del 1946, per concorrere al Premio Mondadori per un inedito, scrive il primo romanzo Il sentiero dei nidi di ragno. Dopo la laurea nel 1947, con una tesi su Joseph Conrad, inizia una collaborazione con l'Einaudi, curandone l'ufficio stampa.

Le attività culturali si intensificano assieme alle conoscenze personali. Frequenta Vittorini, Natalia Ginzburg, Delio Cantimori, Franco Venturi, Norberto Bobbio, Felice Balbo. Collabora con "l'Unità" e con "Rinascita". Nel 1949 viene pubblicato Ultimo viene il corvo e resta inedito Il bianco Veliero. Scrive interventi politico-sociali e di saggistica letteraria, su diverse riviste culturali e pubblica anche brevi racconti, fra cui La formica argentina e le prime novelle di Marcovaldo.

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Nel mese di agosto del 1950 Cesare Pavese si suicida e Calvino perde l'amico e maestro, oltre che il suo "primo lettore". Ne rimane sconvolto poiché Pavese era da lui vissuto come uomo forte di carattere e di temperamento risoluto. Gli resta il profondo rammarico per non aver intuito il dramma dell'amico.

I suoi viaggi sporadici si infittiscono e nel 1951 visita l'Unione Sovietica per un paio di mesi, dandone puntuale resoconto nel Taccuino di viaggio in URSS di Italo Calvino, con cui vince il premio Saint Vincent. Scrive il romanzo I giovani del Po e, quasi di getto, Il visconte dimezzato.

Tra il '53 ed il '54 lavora assiduamente ad un progetto nuovo. Si tratta delle Fiabe italiane, rimaneggiamento e raccolta di antiche fiabe popolari, pubblicate nel novembre del 1956.

Sul versante dell'impegno politico, Calvino esprime il dissenso per certi aspetti che la politica sovietica va prendendo, soprattutto in ragione della libera espressione e circa l'importanza della forma democratica. Con i fatti di Poznan e Budapest matura in Calvino la decisione di abbandonare il partito.

Continua a scrivere ed a viaggiare e fonda con Vittorini "Il Menabò". Tra il '58 ed il '62 pubblica La gallina di reparto, La nuvola di smog e l'antologia Racconti. Sulla rivista culturale "Contacronache" scrive testi di canzoni: Canzone triste, Dove vola l’avvoltoio, Oltre il ponte, Sul verde fiume Po. Nel 1959 pubblica il romanzo Il cavaliere inesistente e parte per un viaggio negli Stati Uniti, esperienza che diverrà soggetto del racconto inedito Un ottimista in America. Escono su "Il Menabò" il saggio La sfida al labirinto ed il racconto La strada di San Giovanni.

Nel 1962 conosce a Parigi la sua futura moglie, la traduttrice argentina Esther Juthit Singer, detta Chiquita, che sposerà a L'Avana il 19 febbraio del 1964. A Cuba ha anche occasione di incontrare Ernesto Che Guevara. Torna in Italia e si stabilisce a Roma.

Pubblica i racconti La giornata di uno scrutatore e Speculazione edilizia. A fine '64 vanno in stampa le prime cosmicomiche La distanza della Luna, Sul far del giorno, Un segno nello spazio, Tutto in punto. Poco dopo pubblica Il barone rampante ed il dittico La nuvola di smog - La Formica argentina.

Tra il '69 ed il '73 escono il racconto I tarocchi ed i saggi Osservare e descrivere e Problema da risolvere, pubblicati nella nuova edizione del testo scolastico La lettura.

Nel 1971 scrive Gli amori difficili per la collana "Centopagine" della Einaudi. Nel 1972 vince il Premio Feltrinelli conferito dalla Accademia nazionale dei Lincei, pubblica Le città invisibili. In quell'anno inizia anche una collaborazione con il "Corriere della Sera" che durerà fino al 1979, quando inaugura la serie di racconti del signor Palomar. Pubblica due lavori autobiografici, il primo, Ricordo di una battaglia, rievoca la dura ed umanamente ricca esperienza da partigiano. L'altro, Autobiografia di uno spettatore, particolare sguardo di Calvino sul cinema.

Nel 1979 pubblica Se una notte d'inverno un viaggiatore ed inizia la sua collaborazione con il giornale "La Repubblica". Chiude quasi completamente il suoi interventi di carattere politico e sociale, con l'amaro articolo L'apologo sull'onestà nel paese dei corrotti, pubblicato l'anno successivo sul quotidiano diretto da Eugenio Scalfari.

Nel 1983 esce Palomar pubblicato da Einaudi. Per la casa editrice torinese cura anche l'introduzione ad America di Franz Kafka. A causa della seria crisi in cui versa l'Einaudi, nel 1984 è costretto a pubblicare presso Garzanti Collezioni di sabbia e Cosmicomiche vecchie e nuove.

Nel 1985, durante l'estate, Calvino colto da ictus il 6 settembre a Castiglione della Pescaia, viene ricoverato all'ospedale Santa Maria della Scala di Siena dove muore nella notte tra il 18 e il 19 settembre.

Sono usciti postumi anche i volumi Sotto il sole giaguaro, La strada di San Giovanni e Prima che tu dica pronto.

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La luna di carta. La sveglia sonò, come tutte le matine da un anno a 'sta parti,

alle setti e mezza. Ma lui si era arrisbigliato una frazione di secunno prima dello squillo, era abbastato lo scatto della molla che mittiva in moto la soneria.

Ebbe perciò, prima di satare dal letto, il tempo di girari l'occhi alla finestra, dalla luce accapì che la jornata s'appresentava bona, senza nuvoli.

Doppo, il tempo fu appena appena bastevole per pripararisi il cafè, vivirisinni una cicarata, andare a fari i so bisogni, farisi la varba e la doccia, vivirisi n'autra cicarata, addrumarisi una sicaretta, vistirisi, nesciri fora, mittirisi in machina, arrivari alle novi in commissariato: il tutto con la velocita di una comica di Ridolini o di Charlot.

Fino a un anno avanti, la procedura dell'arrisbigliata matutina aviva invece caminato secunno regole diverse e, soprattutto, senza affanno e senza currute da centometrista. In primisi, nenti uso della sveglia.

Montalbano aviva la bitudine di raprire l'occhi doppo la durmuta in modo naturale, senza bisogno di stimoli esterni: una specie di sveglia c'era sì, ma sinni stava dintra di lui, ammucciata certo nel so ciriveddro, gli bastava puntarla prima di addrummiscirisi, "ricordati ca dumani ti devi arrisbigliari alle sei", e alle sei spaccate s'attrovava con l'occhi rapruti.

Aviva sempre considerato la sveglia, quella di metallo, praticamente un oggetto di tortura: le tri o quattro volte che si era dovuto arrisbigliare con quel sono a trivella pirchì Livia, dovenno partiri, non si era fidata della so sveglia interiore, era ristato tutta la jornata col malo di testa.

Allura Livia, doppo una sciarra, aviva accattato una sveglia di plastica che invece di squillare faciva un sono elettronico, una specie di biiiiip che non finiva mai, quasi come il ronzio di una muschitta che si era inzeccata dintra la grecchia e ci era ristata imprigionata. Cosa di nesciri pazzi. L'aviva ittata dalla finestra, innescando n'autra lite memorabile.

In secunnisi, lui si autoarrisbigliava, volutamente, con un certo anticipo, minimo minimo una decina di minuti. Erano i meglio deci minuti della jornata che l'aspittava. Ah, quant'era bello starsene stinnicchiato sutta le linzola a pinsari minchiate! Questo libro che tutti dicono un capolavoro me l'accatto o no? Oggi vado a mangiari in trattoria o torno a Marinella e mi sbafo quello che m'ha priparato Adelina? Glielo dico o non glielo dico a Livia che il paro di scarpe che m'ha arrigalato non me lo posso mittiri pirchi mi stanno stritte? Ecco, cose accussì. Tambasiate col pensiero.

Evitanno però accuratamente di farisi comparire nella mente qualichi cosa che arriguardasse sesso e fimmine: quello potiva addivintari, a quell'ora, tirreno periglioso da esplorare, a meno che non c'era Livia che dormiva allato a lui e che sarebbe stata ben contenta d'affrontarne le conseguenze.

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Andrea Camilleri nasce a Porto Empedocle (AG), la futura Vigàta dei suoi romanzi,

nel 1925. Dal 1939 al 1943, studia al liceo classico Empedocle di Agrigento dove otterrà,

nella seconda metà del 1943, la maturità senza fare esami. A giugno infatti inizia, come ricorda lo scrittore, "una sorta di mezzo periplo della Sicilia a piedi o su camion tedeschi e italiani sotto un continuo mitragliamento per cui bisognava gettarsi a terra, sporcarsi di polvere di sangue, di paure"

Nel 1944 si iscrive alla facoltà di Lettere, non continua gli studi ma comincia a pubblicare racconti e poesie. Intanto aderisce al Partito comunista.

Dal 1948 al 1950 studia regia all'Accademia di Arte drammatica Silvio d'Amico e inizia a lavorare come regista e sceneggiatore. Nel 1954 partecipa con successo a un concorso per funzionari RAI, ma non viene assunto perché comunista. Entrerà alla RAI qualche anno più tardi. Nel 1957 sposa Rosetta Dello Siesto dalla quale avrà tre figlie e quattro nipoti.

Nel 1958 è il primo a portare in Italia il teatro di Beckett. Comincia a insegnare al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.

Nel 1959 tra le molte produzioni RAI di cui si occupa ha molto successo una serie sul tenente Sheridan con Ubaldo Lay, più tardi poi con Il commissario Maigret con Gino Cervi, e con diverse messe in scena di opere teatrali, tra cui Pirandello.

Nel 1977 ottiene la cattedra di regia all'Accademia di Arte Drammatica. La manterrà per vent'anni.

Nel 1978 pubblica "Il corso delle cose", scritto 10 anni prima: è un insuccesso, il libro non viene notato praticamente da nessuno. Due anni dopo, nel 1980, pubblica con Garzanti Un filo di fumo, primo di una serie di romanzi ambientati nell'immaginaria cittadina siciliana di Vigàta a cavallo fra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento.

Nel 1992 scrive e pubblica La stagione della caccia con Sellerio Editore: Camilleri diventa un autore di grande successo.

Nel 1994 esce con La forma dell'acqua, primo romanzo poliziesco con il Commissario Montalbano, e arriva il grande successo: Camilleri ha 69 anni.

Dal 1995 al 2003 si amplia il fenomeno Camilleri. Titoli come Il birraio di Preston (1995) (il libro ai suoi tempi più venduto con quasi 70 mila copie), La concessione del telefono e La mossa del cavallo (1999) vanno a ruba, mentre la serie televisiva su Montalbano, interpretato da Luca Zingaretti, ne fa ormai un autore cult.

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Nel 2004 esce La pazienza del ragno, a marzo 2005 esce Privo di titolo, il 23 giugno 2005 esce La luna di carta che vede protagonista il Commissario Montalbano. Anche questi volumi sono pubblicati da Sellerio.

Da non dimenticare anche il romanzo Il re di Girgenti, ambientato nel Seicento, interamente scritto in siciliano inframezzato con lo spagnolo.

Nell'aprile 2006 esce, sempre per Sellerio, il decimo romanzo che ha per protagonista il Commissario Montalbano: La vampa d'agosto.

Nel novembre 2006 esce l'undicesimo romanzo del Commissario Montalbano: Le ali della sfinge, sempre edito da Sellerio, per la collana La Memoria.

Nel marzo 2007, edito da Sellerio, per la collana La Memoria, esce Le pecore e il pastore, e nel giugno dello stesso anno, sempre per la collana La Memoria, esce La pista di sabbia, il dodicesimo romanzo del Commissario Montalbano.

Fino ad oggi Camilleri ha venduto 10 milioni di copie.

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Non è per il tram. Il tram lo devo prendere per cinque

anni alle sette di mattina. Ma non mi pesa. Mi pesa tutto quello che viene prima, quando sono ancora a casa al buio, e la luce non la posso accendere se no mia madre si sveglia e, visto che viene a letto così tardi, meglio di no; mi pesa che devo lavarmi al freddo perché il riscaldamento non è ancora partito, mettermi su il latte nel pentolino e stare attento quando sfrigola che non si metta a bollire, se no se ne esce tutto sul fuoco, ed è incredibile quanto puzza il latte quando cade sul fuoco. Veramente me la preparerebbe volentieri zia Elsa la colazione, ma siccome è molto grossa, se si alza troppo presto le gira la testa e potrebbe cadere. Mia madre mi ha detto: vuoi mica far cadere zia Elsa? Mi ci faccio la zuppa nel latte caldo.

Prendo il pane, lo rompo a pezzi, lo lascio un po' così a galleggiare che diventa morbido e poi me lo mangio. È l'ultima cosa che mi pesa la zuppa, perché sono ancora in casa tutto solo, mezzo al buio e al freddo, e mi sembra che sia toccata solo a me una vita dove ti inzuppi il pane al buio.

Adesso che esco invece mi passa tutto. Perché vedo che la città è già tutta fuori, un mucchio di persone che si sono già lavate in bagno, si sono vestite, hanno fatto colazione, magari proprio una zuppa come la mia, e sono uscite; e secondo me tutto questo senza fare tante storie, nel senso che anche loro al buio e soli, però poi sembrano felici a prendersi il loro bravo tram e non dicono niente. E allora cosa dovrei dire io? che sono il più fortunato di tutti, perché vado al liceo, non al lavoro o in una scuoletta da ridere.

Il tram è pieno zeppo di gente; quando la porta si apre sembra che vengano tutti sputati fuori addosso a te, e tu ti dici: questo tram non riesco a prenderlo manco morto, arriverò tardi e non mi faranno entrare; e invece no, devi salire lo stesso, prendi la rincorsa e li spingi tutti in avanti.

È la prima volta che vedo un tram. Su un'isola, difficile che si possa vedere un tram, dove lo metti un tram su un'isola? Sulla mia poi, che è uno sputo di isola, se ci metti un tram si prende tutta la piazza del porto e anche un pezzo di via Giuseppe Garibaldi, secondo me almeno fino alla farmacia.

La cosa che mi stupisce di più di un tram è che non se ne può andare dove vuole, visto che in basso ha i binari e in alto il filo elettrico. Mi fa anche un po' pena. La gente che ci sale secondo me lo sa benissimo, infatti è diversa dalla gente che prende i pullman, è più... non so, è più quieta e più lenta; ad esempio se deve guardare fuori dai finestrini gli occhi li gira piano, e così per tutto, anche per andare a timbrare il biglietto ci va con i piedi felpati che sembrano dentro delle pantofole di pelo.

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Arrivo un po' in anticipo, perché avevo paura di arrivare in ritardo proprio il primo giorno, che non mi facessero entrare e mi rispedissero a casa dicendomi: non lo vogliamo uno che il primo giorno arriva in ritardo; allora ho preso il tram mezz'ora avanti. Mia madre me lo dice sempre: la prima cosa, Gaspare, è arrivare in orario. Così adesso aspetto un'ora e venti che aprano il portone.

Mi siedo su una panchina del viale e guardo le foglie che cadono e quelle che non cadono. Strano che ne cadano già all'inizio di settembre, io credevo che la caduta foglie fosse un fatto autunnale con tanto di vento tremendo, nebbia e freddo; invece qui è una mattina tiepida, ancora estate, neanche una bava d'aria e le foglie cadono lo stesso. Ma come facevo a saperlo io, visto che sulla mia isola di viali neanche l'ombra?

Comunque, di aspettare così tanto qui davanti non m'importa, perché alla fine quel portone lo dovranno pur aprire. E infatti alle otto meno dieci lo aprono.

Da “Una barca nel bosco”

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Paola Mastrocola è nata nel 1956 a Torino dove tuttora risiede.

Insegna in un liceo scientifico. Dopo la Laurea ha insegnato Letteratura Italiana all’Università di Uppsala, in Svezia.

Fino al 1992 ha scritto commedie per ragazzi per la Compagnia del Teatro dell’Angolo; ha inoltre pubblicato due raccolte di poesie, "La fucina di quale Dio" (Genesi 1991), e "Stupefatti" (Caramanica 1999), nonché due raccolte di poesie e saggi sulla letteratura italiana del Trecento e del Cinquecento.

Il suo esordio narrativo è avvenuto con "La gallina volante", edito da Guanda, col

quale ha vinto il Premio Italo Calvino per l’inedito 1999, il Premio Selezione Campiello 2000 e il Premio Rapallo Carige per la Donna Scrittrice 2001.

Con "Palline di pane" (Guanda 2001) è stata finalista al Premio Strega 2001. Con il suo terzo romanzo intitolato "Alberi maestri" (Guanda 2003), un romanzo di

"sformazione", Paola Mastrocola torna a parlare di scuola, non è più vista dalla parte dei professori, ma da quella ancor più intrigante degli studenti.

Nel 2004 vince il Premio Campiello con "Una barca nel bosco", storia di un talento sprecato e pubblica "La scuola raccontata dal mio cane", un saggio che fa discutere.

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“La scuola di oggi è una scuola che si adegua. Si adegua pari pari al mondo, non gli va incontro neanche un po’, combacia

perfettamente: lo riflette, lo copia, lo reduplica. Non oppone nulla di alternativo. E’ una scuola che ‘connive’ con la società. Lo so che il verbo ‘connivere’ non esiste, ma vorrei usarlo lo stesso; in latino

voleva dire: chiudere gli occhi, quindi far finta di niente, essere complici. La scuola, sia chiaro, potrebbe benissimo non chiudere gli occhi, non

adeguarsi. Non è un suo obbligo, è una sua scelta. Non adeguandosi, la scuola potrebbe fare la scuola e basta, e non voler assomigliare ad altro. Adesso mi sembra invece voglia assomigliare a cose che per natura sono molto diverse da lei: ad esempio a un Parco Giochi. O a un Centro Sociale. Se la scuola volesse fare la scuola e basta, potrebbe puntare tutto sul suo specifico, che poi sarebbe il suo valore culturale: il fatto che la scuola ti formi culturalmente e basta non sarebbe già molto? Vorrebbe dire che ti fa leggere dei bellissimi libri, tanto per dirne una.

Invece la scuola di oggi ha scelto di essere una scuola che si conforma. Non oppone nulla al mondo così com’è, anzi cerca di uniformarsi il più possibile a tutti i modelli esistenti: è il luogo dove trionfa il conformismo.

La scuola non ci pensa neanche di proporre un modello diverso, un’alternativa al mondo, magari prendendola, come dicevamo, proprio dalla sua stessa sostanza, e cioè da una sostanza culturale. Sembra che la scuola non abbia nulla di suo dentro di sé: in questa sua totale acquiescenza, si è fatta obiettivo (questa volta fotografico) e ci rimanda all’infinito la stessa immagine della società, così com’è, fotocopiata. Un perfetto autoritratto. O meglio ancora: la desolazione di quando ti fai l’autoscatto. Perché di là dall’obiettivo non c’è più nessuno che ti fa la foto: sono tutti andati via.

La scuola che si adegua è la scuola che non fa lezione, ma brain-storming e uscite didattiche, non boccia, ma recupera; non chiede, ma offre; non segue programmi, ma percorsi; non fa letteratura, ma comunicazione; non chiede il tema, ma l’articolo di giornale; non fornisce contenuti, ma metodi; non fa vita e opere, ma analisi del testo; non impone libri da leggere, ma lascia scegliere. Evita all’allievo: la frustrazione del foglio bianco; l’umiliazione di avere un professore sapiente; la fatica di imparare delle nozioni; l’imbarazzo di prendere 4 in pagella; l’impegno di fare cose difficili; la noia di leggere un libro troppo lungo.

Abbiamo perso definitivamente l’idea di studio…” Dovremmo guardare le conseguenze dello smantellamento, avere il

coraggio di tenere gli occhi sbarrati e guardare le rovine, perché di rovine si tratta. Se dovessimo riassumere le rovine, ne illustrerei due: il permissivismo ha permesso l’ineducazione scolastica (nessuno di noi oggi è più in grado di tenere sotto controllo la normale disciplina di una classe, cioè semplicemente il fatto che quando l’insegnante parla non parlano insieme anche i ragazzi). E l’azzeramento (o riduzione) dei contenuti ha prodotto l’ignoranza.

Capisco che sia doloroso e imbarazzante girarsi a guardare le proprie rovine, ma credo si debba fare…”

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Indice

I Malavoglia Sicilia Lissa Verismo Giovanni Verga Sull’Oceano Edmondo de Amicis La casa dell’agonia Luigi Pirandello Cortigiana stanca Alberto Moravia La casa in collina Cesare Pavese Lessico Famigliare Natalia Ginzburg Cristo si è fermato a Eboli Carlo Levi Marcovaldo Italo Calvino La luna di carta Andrea Camilleri Una barca nel bosco Paola Mastrocola La scuola raccontata dal mio cane

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