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Note e discussioni Schede incrociate per editori e lettori di Pietro Albonetti Da alcuni anni gli editori presentano rendi- conti più numerosi: storie, autobiografie, memorie, documenti tratti dagli archivi. Qui, leggendo alcuni libri appena usciti, en- tro appena nella dimensione del fenomeno: le confessioni editoriali vanno dall’Europa alPAmerica. Così gli editori salgono alla ri- balta coi loro autori e la casa risalta quanto i suoi inquilini. I lettori, clienti della casa, os- servano curiosi; se sono intossicati da droga libresca sentiranno di avere una relazione più particolare con la casa. Ma in Italia non si vede ancora un deciso movimento verso la storia dell’editoria di questo secolo. Si tratta ancora di piccole storie e di limitata documentazione offerte all’attenzione di un pubblico che, ormai nu- meroso a seguire l’una o l’altra performance editoriale, è attirato anche da preludi e mo- vimenti interni. L’ansia di entrare nella cucina dell’editore e di cogliere il retroscena del pubblicare of- fre così agli editori altre occasioni editoriali, che un po’ alla volta gli studiosi indirizze- ranno ad una conoscenza più sistemata ed organica. Rispetto ad altre metamorfosi non è inna- turale che gli editori siano anche scrittori (scrittori al quadrato o alla radice quadra- ta?). Ecco qui allora memorie di due editori, due volumi di lettere e un recente romanzo1: vi cercherò indizi di una storia scontata ma non scritta: circa sessant’anni di rapporti coi lettori italiani. Non c’è bisogno di dimostra- re il contributo che può dare la storia dell’e- ditoria alla storia in generale. Non si può riprendere in questa nota la bi- bliografia dei precedenti studi e contributi: non sarebbe un consuntivo rapido, né facile. Una prima ricognizione esauriente dovrebbe raccogliere un materiale vario e più o meno celebrativo. È un inevitabile riflesso che at- torno all’industria editoriale crescano scrit- ture di accompagnamento, di commento, di celebrazione. Le memorie degli editori sono certamente meglio intese da chi è in qualche modo coinvolto nelle vicende editoriali: do- vrò mettermi semplicemente dalla parte del lettore comune e cercherò qualche elemento generale in un’attività cos socialmente in- fluente. I frammenti della memoria di Giulio Ei- naudi, le lettere con Bompiani, le lettere di Zavattini (non è editore, ma tra i due prece- denti editori è un singolare legame) sono let- ture che insieme possono produrre alcuni ef- 1 Giulio Einaudi, Frammenti di memoria, Milano, Rizzoli, 1988; Valentino Bompiani, Il mestiere dell’editore, Mi- lano, Longanesi, 1988; Caro Bompiani. Lettere con l’editore, a cura di Gabriella D’Ina e Giuseppe Zaccaria, Mila- no, Bompiani, 1988; Cesare Zavattini, Una, cento, mille lettere, a cura di Silvana Cirillo, Milano, Bompiani, 1988; Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988. Da ricordare anche due precedenti lavori di Bom- piani, Via privata, Milano, Mondadori, 1983, e Dialoghi a distanza, Milano, Mondadori, 1986. Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174

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N o te e discussioni

Schede incrociate per editori e lettoridi Pietro Albonetti

Da alcuni anni gli editori presentano rendi­conti più numerosi: storie, autobiografie, memorie, documenti tratti dagli archivi. Qui, leggendo alcuni libri appena usciti, en­tro appena nella dimensione del fenomeno: le confessioni editoriali vanno dall’Europa alPAmerica. Così gli editori salgono alla ri­balta coi loro autori e la casa risalta quanto i suoi inquilini. I lettori, clienti della casa, os­servano curiosi; se sono intossicati da droga libresca sentiranno di avere una relazione più particolare con la casa.

Ma in Italia non si vede ancora un deciso movimento verso la storia dell’editoria di questo secolo. Si tratta ancora di piccole storie e di limitata documentazione offerte all’attenzione di un pubblico che, ormai nu­meroso a seguire l’una o l’altra performance editoriale, è attirato anche da preludi e mo­vimenti interni.

L’ansia di entrare nella cucina dell’editore e di cogliere il retroscena del pubblicare of­fre così agli editori altre occasioni editoriali, che un po’ alla volta gli studiosi indirizze­ranno ad una conoscenza più sistemata ed organica.

Rispetto ad altre metamorfosi non è inna­turale che gli editori siano anche scrittori

(scrittori al quadrato o alla radice quadra­ta?). Ecco qui allora memorie di due editori, due volumi di lettere e un recente romanzo1: vi cercherò indizi di una storia scontata ma non scritta: circa sessant’anni di rapporti coi lettori italiani. Non c’è bisogno di dimostra­re il contributo che può dare la storia dell’e­ditoria alla storia in generale.

Non si può riprendere in questa nota la bi­bliografia dei precedenti studi e contributi: non sarebbe un consuntivo rapido, né facile. Una prima ricognizione esauriente dovrebbe raccogliere un materiale vario e più o meno celebrativo. È un inevitabile riflesso che at­torno all’industria editoriale crescano scrit­ture di accompagnamento, di commento, di celebrazione. Le memorie degli editori sono certamente meglio intese da chi è in qualche modo coinvolto nelle vicende editoriali: do­vrò mettermi semplicemente dalla parte del lettore comune e cercherò qualche elemento generale in un’attività cos socialmente in­fluente.

I frammenti della memoria di Giulio Ei­naudi, le lettere con Bompiani, le lettere di Zavattini (non è editore, ma tra i due prece­denti editori è un singolare legame) sono let­ture che insieme possono produrre alcuni ef-

1 Giulio Einaudi, Frammenti di memoria, Milano, Rizzoli, 1988; Valentino Bompiani, Il mestiere dell’editore, Mi­lano, Longanesi, 1988; Caro Bompiani. Lettere con l ’editore, a cura di Gabriella D’Ina e Giuseppe Zaccaria, Mila­no, Bompiani, 1988; Cesare Zavattini, Una, cento, mille lettere, a cura di Silvana Cirillo, Milano, Bompiani, 1988; Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988. Da ricordare anche due precedenti lavori di Bom­piani, Via privata, Milano, Mondadori, 1983, e Dialoghi a distanza, Milano, Mondadori, 1986.

Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174

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fetti per illuminare meglio il tempo che co­prono e particolarmente quello che va dal 1930 al 1950.

La “grata dorata” di Einaudi

Per un piccolo scarto di tempo la cronologia dovrebbe dare la precedenza a Bompiani, ma le pagine di Einaudi, la cui attività co­mincia qualche anno dopo, ci offrono un’in­troduzione migliore.

Giulio Einaudi aveva iniziato a fare l’edi­tore nel novembre 1933. Fece visita dopo poche settimane a Valentino Bompiani: “Mi fece, se ben ricordo, una lezione di editoria, e uscii dai suoi uffici molto sicuro, rinfran­cato dall’idea di avere un antagonista amico nel cammino difficile che avevo intrapreso [...] Solamente Arnoldo, il grande Arnoldo Mondadori, mi fu maestro di editoria al pari di Valentino”2. Il cenno alla solidarietà tra colleghi si trova spesso, ma l’antagonismo è una traccia pure importante. Questi rapporti di simpatia celano anche storie più ruvide. Bisognerà aspettare che sia più avanzato il lavoro negli archivi, dove si raccoglie il va­rio dialogo e confronto che ha veicolato la pubblicazione dei libri alla conquista del mercato. Se un ciclo della storia del libro sta per concludersi, come sembra, resterà alme­no il gusto di farne la storia.

Si capisce allora perché una figura come Giulio Einaudi, disponendosi a ricordare, accenda l’interesse di molti, direi, in tutta la provincia italiana. Prima di riportare al­cune mie impressioni, farò un avvicinamen­to al libro dell’editore torinese per interpo­sta persona, cioè con le parole di Cesare Cases, che della Casa Einaudi ha diretta esperienza.

È una recensione3 amichevolmente dissa­cratoria, che può aiutare anche un lettore periferico, che abbia seguito più inconsape­volmente la produzione Einaudi. Cases so­stiene che Einaudi non risponde ancora a domande importanti, nemmeno a quelle che pone a se stesso: “Ma come sono passati at­traverso il fascismo i giovani allievi di Augu­sto Monti?” . “Com’era Felice Balbo?” “Chi era, per noi del mestiere, l’ingegnere?” . Pos­sono essere anche le mie domande, attraver­so le quali ripensare esperienze culturali e politiche di tutto un periodo. Chi non vede che almeno a cominciare dalla prima guerra mondiale un più gran numero di persone via via si mise a leggere per consolarsi, per desi­derare, per risentirsi, per capire? Questa esperienza generale è ancora poco decan­tata.

Che possiamo dire noi, per adesso, se lo stesso Cases chiede più storia e vede in una grata dorata, che Einaudi ebbe in dono da Eduardo, l’allegoria del fallimento di tutta la cultura laica di sinistra in Italia? “Zitti, zitti, piano, piano, non disturbiamo per ca­rità, scendiamo giù per la scala di pietra, Ei­naudi in testa, poi tutti noi del mercoledì e Contini, Dionisotti, Segre e altri e guardia­mo dietro la grata dorata i fedeli... sullo sfondo discerniamo figure meno benevole, l’ombra di don Milani, Dal Noce, Franco Fortini... e perfino torve bande di ciellini. Ci fan le boccacce brandendo in segni di scherno il catalogo Einaudi. Non si può dire che abbiano tutti i torti”4.

Colpevole la mia parte, mi piacerebbe ca­pire meglio perché andavo in sollucchero per il catalogo Einaudi: storia passata, che conviene conoscere. Per adesso lo stesso Ei­naudi dice che in queste sue pagine è impre­ciso.

2 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 15.3 Cesare Cases, Il signore di Perno, “L’Indice”, 1988, n. 2, pp. 4-5.4 C. Cases, Il signore di Perno, cit., p. 5.

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La storia delle case editrici è un’angolatu- ra insostituibile per dare nuove dimensioni alla realtà e al fato dei libri: “Leggere resta ancora un mistero anche se lo facciamo ogni giorno”5. È necessario indagare i mo­di, le articolazioni, le scelte, le differenze e le mediazioni da editore a editore. Restano, per esempio, ancora da studiare molti viag­gi editoriali nel fascismo. Einaudi intitola il primo capitoletto delle memorie La mac­china da scrivere Olivetti: gli servì per la prima giovanile grafica antifascista alla fine degli anni venti. Ma, da editore, la prima manovra fu il rinnovamento della rivista “La cultura”, tra il 1934 e il 1935: il propo­sito era quello di non saltare per aria al pri­mo passo. Non si potè evitare invece dopo un anno la chiusura e che i redattori finisse­ro quasi tutti in prigione. La rivista suddet­ta aveva cercato una grafica più disinvolta e contenuti con meno letteratura e più storia, meno erudizione e più attualità. Ma dovet­tero cessare anche quelle prudenti innova­zioni.

Restava la vita individuale come senti­mento di antifascismo e di libertà. Carlo Le­vi “si sentiva ‘libero dal proprio tempo, così da esso esiliato, da poter essere veramente un contemporaneo’. Cioè ‘libero’, estraneo al regime totalitario da esso ‘esiliato’, e ‘contemporaneo’ di quanti cercavano i segni di ogni diversità. Per Carlo i ‘diversi’ furo­no i contadini della Lucania, nonché ‘gli uo­mini nuovi, piccoli oscuri, con cui ebbe la fortuna di formarsi e conoscersi’, così come per Leone Ginzburg i diversi furono i com­pagni e i Maestri; per Pavese i contadini del­le sue colline, le donne, i libri che leggeva, traduceva e annotava a margine; per Mila, il diverso era la musica, la frequentazione di

gente vera, i montanari, coi quali si cimenta­va nelle imprese più ardite. Per me i diversi furono tutto questo insieme. Avrebbe così ragione Fortini, quando dice che la mia gio­vinezza ‘non si distingueva da quella di tanti altri del mio ceto e classe’. Ma eravamo poi così tanti?”6.

In questa paginetta intitolata Libero dal proprio tempo troviamo tratti di esistenze che si vanno definendo come viaggiatori alla ricerca di un vero paese, un paese diverso. Si sente lo spaesamento delle persone. Giaime Pintor, che poi morì nella guerra, diceva che “le discussioni malinconiche non sono quelle dei dotti... ma quelle della gente comune, degli sportivi e degli uomini d’affari, che so­no caratterizzate da una spaventosa serietà anche quando trattano degli argomenti più futili”7. Molti anni dopo Felice Balbo ha cercato di trovare un posto fisso agli intellet­tuali: “La vedetta ha il suo momento eroico nel resistere al sonno dell’alba, quando gli altri dormono, e non nel darsi da fare con gli altri quando la nave è finita negli scogli”8. Il frastuono sul ruolo degli intellet­tuali, comunque definito, oggi non si sente quasi più.

In queste pagine di Einaudi molte occasio­ni di confronto sono appena abbozzate. Ac­cenno solo a ciò che ritengo appartenere se non sempre a meriti oggettivi, almeno al mio sentimento grato.

Gli aspetti materiali e grafici dei libri Ei­naudi non ci hanno forse dato soddisfazioni sensorie? Chi scrive non può dimenticare il primo momento del possesso materiale di un Decameron illustrato e custodito da cofanet­to, consegnato, un giorno a metà degli anni cinquanta, all’uscita di un liceo, da un ra- tealista che non si vide più a ritirare le rate.

5 Robert Darnton, The great cat massacre and other episodes in french cultural history, Basic Books, 1984, p. 209 (tr. it., Milano, Adelphi, 1988).6 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 37.7 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 46.8 Felice Balbo, Opere 1945-1964, Torino, Boringhieri, 1966, p. 568.

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Vorrei potere unire a questo ricordo quello di tutti gli altri che cominciarono a leggere in simili occasioni e a invaghirsi non solo dei bei libri che venivano diffusi, ma anche dei contenuti che facevano sperare l’azione della cultura progressiva e liberante. Dalla parte dell’editore questa tensione si coglie negli accenni alle incursioni nella bianca provincia veneta e fino ai due processi che seguirono la pubblicazione del saggio di Pantaleone su mafia e politica (1976) e l’inchiesta di Staja- no su Africo (1979). È accaduto appena ieri e sembra un tempo lontanissimo. Con Ei­naudi, con sentimento piu elegiaco che criti­co, vediamo “editori che amano conoscere e coltivare i propri autori, di cui leggono i ma­noscritti durante lunghe notti bianche”; la vicenda del “Politecnico”, che tiene desta in modo leggendario la questione della cultura democratica e del suo errare; le figure di Contini, Momigliano, Dionisotti, Calvino, Gadda, ecc. L’ultimo scrittore nominato, di cui si parla spesso, ma non ingombra, per­ché forse lo leggiamo a piccole e saporite do­si come si potrebbe fare con Tacito, è “l’uo­mo mitissimo e buonissimo, nonostante le angosce che trapelano dai suoi scritti” . “Mi è stato ricordato recentemente — continua Einaudi — durante un soggiorno sull’Alti­piano di Asiago, da Mario Rigoni Stern, che facendomi da guida attraverso le trincee del­la prima guerra mondiale, mi indicò quella occupata dall’ingegnere e a poca distanza da quella, in campo avverso, di un altro scritto­re: Robert Musil”9. Chiudo con l’accenno alla Firenze di Montale e Contini: “quando Firenze aveva un respiro di cultura che non si è mai più verificato nel nostro paese”10. Sembra un ricordo del tutto fantasioso se si pensa che furono gli anni prima e dentro la seconda guerra.

Le oneste passioni di Zavattini

Einaudi stesso ci suggerisce come passare al­le lettere di Zavattini. Si trova a un certo punto un modo di ricordare per associazio­ni: De Filippo, Napoli, De Sica, Luzzara, Zavattini. “Con Zavattini negli anni ’60 si progettò una collana di libri fotografici, aperta e subito chiusa con Un Paese di Paul Strand. Era un paese padano, Luzzara, e le fotografie ormai classiche di Strand erano commentate da un testo di Zavattini. Il se­condo volume doveva essere un Napoli, a cura di De Sica. Erano foto bellissime, una specie di film, non ricordo perché non se ne fece nulla. Forse i tempi non erano maturi per questo genere di libri”11.

Una, cento, mille lettere, raccoglie lettere di Cesare Zavattini dal 1929 al 1983. Il pas­saggio da Einaudi a Zavattini non è forzato, come abbiamo già visto. Non è nemmeno il passaggio da un editore ad uno scrittore. Zavattini è sì un autore in proprio, ma an­che un singolare seminatore di progetti e di idee e merita un posto di primo piano nel­l’officina della cultura italiana a cominciare, anche per lui, almeno da sei decenni fa.

Con Zavattini si inizia un altro percorso di eventi culturali, probabilmente il più este­so se lo misuriamo con questioni di diffusio­ne culturale. Egli è forse l’intellettuale italia­no che ha inteso meglio degli altri il poten­ziale politico e culturale democratico nell’u­so provocatorio dei media.

Aveva già quarant’anni quando combinò idee di sperimentazione con una leale e ap­passionata scelta a sinistra. Se prendiamo la provocazione di Leo Longanesi diremo che quest’ultimo è il suo antagonista di destra. Queste 254 lettere (nell’archivio sono almeno cinquemila) lucide ed esuberanti, ormai sono

9 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 131.10 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 154.11 G. Einaudi, Frammenti di memoria, cit., p. 167.

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soltanto la testimonianza di un’ipotesi cultu­rale, che forse si è realizzata soffocando l’u­topia che conteneva.

Le idee più decise e precise sono rientrate e non se ne parla più, se non in strettissime crepe dell’imperante conformismo della cul­tura popolare. Se fosse stato per lui doveva fermentare nella politica e nella cultura una conoscenza del Paese, che potrebbe formare ora una tradizione alternativa ricca di espe­rienze intellettuali e professionali.

La strada che proponeva Zavattini era di­versa da quella del “Politecnico” . Quella di Zavattini sembra un po’ folle, a prima vista. È invece coerente e giustificata perché pro­poneva di mettersi al passo di un rinnova­mento culturale democratico partendo da dati sociali reali. Pochi hanno avuto il co­raggio di dire che bisognava utilizzare i me­dia al meglio per i poveri. Pochi hanno cer­cato di spostare così in basso la critica e la pratica della cultura. Poteva fare di più di fronte alle resistenze che ha incontrato? Non era forse gomito a gomito con produttori, editori, direttori di giornali? Una biografia non frettolosa dovrà rispondere.

È difficile intanto trovare un altro carteg­gio che contenga un’analoga battaglia cultu­rale: così accidentata, ma anche radicata ad una scelta. Zavattini dice che mutò “da al­bero a uomo” durante la guerra, ma la cor­rispondenza segnala sempre relazioni uma­nissime a cominciare dalla prima lettera qui pubblicata, cioè dal 1929. Subito, con una vivacità e vitalità sorprendenti, incontriamo giovani, soldati, caserme, poeti in provincia, scrittori celebri a tavola, e anche lettori12. Zavattini sembra subito collocarsi al centro di cronache un po’ reali e un po’ surreali13.

Nelle lettere si sente il motore di Zavattini e l’energia istintiva per una riforma culturale, attraverso giornali, cinegiornali, inchieste, promozione e diffusione delle arti: sottrarsi attraverso i mezzi tecnici alla peggiore ripro­duzione tecnica e al degrado della cultura. La cultura dei media non è guardata dal lato violento dell’industria. Indirizzando le ener­gie verso un approdo diverso da quello insi­to nell’appropriazione economico-commer- ciale della cultura e dell’arte l’intellettuale in ogni caso non avrebbe dovuto voltarsi più indietro.

Zavattini non è inerte quando indica la scoperta del mondo legata all’agire intellet­tuale coerente, perché anche la realizzazione di sé come autore è legata al mondo esterno. Si deve ammirare anche la sua vitalità prodi­ga e inesauribile, che scaturisce dal contatto che Zavattini mantiene con tutto e con tutti (anche quando si isola nel lavoro) secondo un ritmo che sembra comune alla sua vita individuale, alla natura, ai suoi paesi, alla storia: così è anche un poeta, non solo un intellettuale partecipe e propugnatore.

Lettere quindi di notevole importanza per la riflessione su un’epoca e per certi conno­tati culturali che hanno resistito fino a pochi anni fa. Zavattini è uno che ha lavorato nel­le cucine, qualcuno potrebbe anche dire nel­le basse cucine, della letteratura, del giorna­lismo, del cinema, da più di sessant’anni e spesso con mansioni di cuoco. Forse, è, suo malgrado, anche antesignano di certo fast- food della cultura di massa d’oggi.

È difficile valutare l’insieme dell’attività e dell’opera di Zavattini, in gran parte som­mersa e inedita. L’idea è resa bene dalla cu­ratrice delle lettere quando accenna a “anni

12 Vedi S. Cirillo, Itinerario di una ricerca, in C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., pp. V-XIV e le lettere ini­ziali, pp. 3-15. Per la metamorfosi da albero a uomo vedi la lettera a Bompiani, agosto 1943, citata dal destinata- rio, ivi, p. IX.13 Gianfranco Contini inserì racconti di Zavattini in un’antologia del surrealismo italiano preparata nel 1946 per un editore francese, Italie magique, ripresentata nel 1988, Italia magica, Torino, Einaudi.

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di immersione nel pescosissimo mare zavat- tiniano” 14. Peccato si sia perduta quella cas­sa di lettere e documenti, bruciati nel 1937, dopo l’arresto di Guglielmo Peirce, cugino di Carlo Bernari, coi quali Zavattini corri­spondeva. Con Zavattini si percorrono in­fatti gli anni trenta in uno dei modi più di­sinvolti e attenti. Senza quegli anni non si può capire Zavattini.

Già in quel primo decennio collabora con molti editori. Gli impegni maggiori li ha con Bompiani, Mondadori, Rizzoli: da loro se­gue e rilancia rotocalchi, prepara famosi al­manacchi, dirige collane di narrativa, aperte ad autori giovani, e pubblicazioni da edico­le, consapevole più delle armi che maneggia che del mercato. Quando sarà portato dal drammatico sfascio della guerra a tirare le somme non rinnegherà la vetrina dei suoi primi prodotti di intrattenimento, né il filo del discorso con un pubblico di massa, né la sua vena paradossale, né la risorsa dell’umo­rismo. Tutt’altro. Ma troverà una soluzione autocritica che forse si legge bene in Ipocrita ’43 e, cercando di non rallentare la veloce intelligenza del mondo della cultura di mas­sa, si metterà dalla parte dei non violenti e dei poveri, che sono uomini uguali agli altri, solo più deboli e indifesi15. Questo aspetto nella cultura italiana è anche tradizionale, ma in Zavattini non è confuso, come si tro­va in altri.

Zavattini avrà sempre dalla sua la ragione di aver cercato di elaborare una cultura sen­za reticenze su un terreno appropriato di in­tervento. Già nel 1931 scrive all’amico Atti­lio Bertolucci “Bisogna vedere certe riviste estere che belle, ogni tanto le sfoglio ma non ho il tempo di leggerle. Noi italiani siamo ta­

gliati fuori”16. Nel 1935 è preso interamente dal “Secolo illustrato”: “C’è tutto da rifare, servizi, contratti, ecc., bisogna camminare per le strade, sfogliare anche i bollettini del­la Rinascente. In tre mesi credo che lo im­pronterei come lo vedo. Ma proprio stama­ne il mio principale mi ha dato un colpo: di­ce che lo vuole per le donne che sono le no­stre lettrici, e che sia popolare (d’accordo per questo, ma ci sono classi di migliaia e di migliaia di lettori, come avvocati, professio­nisti, borghesia e anche impiegati, che non hanno il loro settimanale, a questo miravo). Rizzoli mi fa capire che in copertina vorrà le belle gambe”. Sembra perfino un’ingenua incomprensione. Chissà che cosa intendeva fornire Zavattini agli avvocati e agli altri? Sta di fatto che questo giovanotto che viene da un paese del Po vede con occhio acutissi­mo quel che piace a editori e produttori e sa fare un mucchio di cose. In città sono gradi­te queste energie modernizzanti. I valori fa­scisti sono persino battuti da questi roto­calchi?

Zavattini partiva da interessi culturali seri e da sicura sensibilità; in più capiva le novità dovunque spuntassero: basterebbe ricordare la prima lettura degli Indifferenti di Moravia17. Egli sa bene che non è la cultura un po’ coatta e un po’ noiosa dei fascisti quella che può soddisfare le nuove inquietu­dini. Si mette dalla parte di editori e produt­tori. Vorrebbe fare certe cose “leggermente” impegnate, ma i suoi padroni vedono che gli italiani si aspettano cose leggere e disimpe­gnate e annullano i suoi suggerimenti. Non se lo lasciano sfuggire; in qualche modo lo spremono. Non sa sottrarsi, spera di riuscire a salvare qualche idea dalla manipolazione

14 S. Cirillo, Itinerario di una ricerca, cit., p. V.15 S. Cirillo, Itinerario di una ricerca, cit., p. IX.16 Datata da Milano, primi mesi 1931, in C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 29.17 La recensione di Zavattini a Gli indifferenti apparve su “L’Italia letteraria” del 21 luglio 1929, vedine la riprodu­zione parziale in C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 6.

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commerciale. II successo più grande gli arri­se nel dopoguerra nel cinema. Se si leggono le lettere che cadono attorno al periodo di Ladri di biciclette ci rendiamo conto di quanto fosse difficile dominare gli eventi di una linea culturale e perfino la proprietà in­tellettuale18. Ci fu chi riconobbe che la cul­tura italiana aveva espresso una creatura d’arte e di verità che realmente viveva la contraddizione profonda del popolo italia­no19. Ma l’onore della genitura era contesa al buon Zavattini.

È sempre stato difficile per gli scrittori ita­liani trovare folgorazioni realiste e la poesia dei poveri: coinvolgere nell’arte e nella cul­tura una società disgregata e maltrattata dalle classi forti. Zavattini vi giungeva con un percorso originale, ma adatto al suo istinto: da anni era riuscito a far stare insie­me, nelle sue relazioni e nel suo lavoro, sia gli uomini di “Soiaria”, sia la sezione Walt Disney alla Mondadori, sia la direzione o la redazione di tre o quattro giornali illustrati. Non che fosse l’unico ad accostarsi ad un orizzonte culturale così spurio, ma era tra i pochi a capire quel che succedeva (un altro, ma con altra ideologia, ripeto, era Longa­nesi). Capì che la nuova pubblicistica di massa metteva a nudo il vecchio lavoro let­terario. Aveva già bonariamente rimprove­rato i suoi amici nel 1929: “Mi vien voglia di sculacciarvi, cari letterati ragazzacci, ci scapperà il libro. Ci scapperà il libro sui let­terati, mio primo e antico sogno.”20 Nel 1942 per prendere le distanze da un giorna­lista fascista rifiuterà anche il pubblico: “Il pubblico non esiste, esiste soltanto come antagonista della nostra coscienza, cioè co­

me sirena che cerca di farci allontanare dal retto cammino. Il pubblico è il diavo­lo...”21. Sembra un anatema, si sente invece la sfida. Ma è una guerra difficile da vince­re. Produttori, critici e pubblico sono pron­ti a seppellire la parte migliore di un’idea, quella che sa di utopia. Che tuttavia cercas­se di non vendere l’anima al diavolo si ca­pisce anche dalle lettere a Giovanni Mosca e a Pitigrilli: gente dell’ambiente di lavoro negli anni del fascismo. Pitigrilli inoltre, in­formatore dell’Ovra, sciaguratamente in­gannava i giovani antifascisti torinesi, in mezzo ai quali era accolto, e ne provocò l’arresto. Così lo tratteggiò Aldo Garosci: “Lo stesso provocatore che condusse a que­sti arresti [...] era specialmente adatto per una operazione del tipo. Uomo dotato di non ordinaria acutezza e forse spinto al mestiere tanto da un gusto malato per l’in­trigo, dal disprezzo per ciò che può confe­rire alla persona umana una superiorità ideale, quanto da bisogni di guadagno, lo scrittore pornografo Pitigrilli (Dino Segre) che fu lo strumento di quella operazione di polizia, non era la piccola spia che agisce in un ambiente ristretto. La sua acuta e ci­nica personalità, che si adeguava nelle ap­parenze alla modernità dei giovani gruppi intellettuali, gli permetteva di penetrare fa­cilmente in essi, superato che fosse il primo istinto di diffidenza che un totale immorali­smo non manca mai di creare. Un tale one­sto Jago poteva non soltanto ottenere che gli fosse detto molto di più di quel che gli era detto; poteva valutare una personalità nei possibili pericoli che presentava per il regime con criteri più profondi...”22. Queste

18 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., pp. 125-143.19 Franco Fortini, Dieci inverni. 1947-1956. Contributi a un discorso socialista, Bari, De Donato, 1973, pp. 152- 156 (l’articolo è del 1949).20 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 11 (lettera a Gino Saviotti, novembre 1929).21 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 65 (lettera a Marco Ramperti, Roma, 11 giugno 1942).22 Aldo Garosci, Vita di Carlo Rosselli, Vallecchi, Firenze, 1973, pp. 372-373 (1a ed. 1945). Le lettere a Pitigrilli e a

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digressioni sono fili da tirare meglio: è ba­stata un’ansa nei tunnel del fascismo per ri­trovare i giovani di Einaudi. Pitigrilli era stato direttore del quindicinale di novelle “Le grandi firme”, famoso per le copertine disegnate da Boccasile. Zavattini l’aveva ri­levato per conto di Mondadori: cercò di mi­gliorare la qualità e di contenere l’influenza di Pitigrilli. Che cosa poteva intuire Zavatti­ni delle canagliate di quel signore? Certo ca­piva che occorreva differenziare anche la let­teratura di intrattenimento. In fondo le let­tere hanno sempre a che fare con la co­scienza.

Nel dopoguerra si dette da fare con pas­sione per un giornale da intitolarsi “Il diso­nesto”. L’idea aveva bisogno di appoggi so­stanziosi e naufragò: “Ecco un’altra magni­fica occasione perduta. Questo giornale era il più tempestivo che si potesse fare, tanto che molte delle idee in esso contenute e da me raccontate a tutti, come Lei sa che io faccio, le ho viste sciupate qua e là mentre invece esse avevano bisogno di un certo mo­do di espressione e di una tribuna unica da cui essere lanciate. Il giornale rispecchiava tutta la mia esperienza morale e si serviva di tutta la mia esperienza giornalistica per dif­fondere tra la gente, con un linguaggio com­prensibile, una violenta riforma del costu­me. Al di fuori dell’ ‘Uomo qualunque’, che è stato quel successo che lei sa, le edicole non hanno visto nessun foglio interessante. ‘L’Uomo qualunque’ non è una trovata giornalistica, ma una trovata politica; e pur­troppo io la credo una trovata di pessimo gusto, poiché nutre negli italiani quello che di generico e di ipocrita essi hanno nel san­gue. Il mio giornale sarebbe stato contro

‘L’Uomo qualunque’ nel senso che lo ani­mava uno spirito rivoluzionario di cui ‘L’Uomo qualunque’ ha una paura folle. Io invece non ho paura, se non delle mie abitu­dini”23. La lettera era indirizzata a Cesare Civita, che ora, 1946, viveva in Argentina. Aveva lasciato la Mondadori nel 1938 per le leggi razziali (“Quel 1938 troncò certo dei grandi progetti e delle grandi possibilità. Qualche volta eravamo un po’ troppo foco­si e impulsivi ma neH’insieme saremmo riu­sciti a portare una vera rivoluzione nel cam­po editoriale e in quelli limitrofi”24). Zavat­tini sentiva fin nelle viscere che un modo aperto della pratica culturale, elementare, alfabetico, era in grado di fare lievitare una storia ancora invisibile. Forse per questo chiedeva anche a Vittorini di testimoniare di sé la parte nascosta: “non credi insomma che lo sforzo che dobbiamo fare tutti noi è quello di lasciar vedere di tutti noi i mo­menti che compongono un nostro atto, la varietà degli umori che lo nutrono? è uno dei modi di togliere gli altri dal complesso di inferiorità che sentono nei riguardi della cultura”25. La mimesis di Zavattini è one­sta, leale, democratica. Il 22 dicembre 1950 inviava ad Alberto Mondadori la lettera di dimissioni dalla redazione di “Epoca” (un settimanale illustrato di grandi ambizioni, ma che adattò subito la rotta sulla politica del governo) con queste parole: “Non può darsi che tu non capisca che le mie dimissio­ni sono proprio vere. Mi dichiarai di sini­stra durante la guerra e da allora ho sempre cercato di farlo sapere, in altre parole di compromettermi”26. Per lui era necessario compromettersi anche con i media, ma non disorientarsi.

Mosca in C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., pp. 44-46 (a Pitigrilli, da Milano, 15 maggio 1937) e pp. 65-66 (a Mosca, da Roma, 6 luglio 1942).23 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., pp. 101-107 (da Roma, 26 agosto 1946).24 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 102.25 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., p. 113 (da Roma, 17 maggio 1947).26 C. Zavattini, Una, cento, mille lettere, cit., pp. 159-161.

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Bompiani e i suoi ‘campioni’

Come siamo usciti dalla casa Einaudi in compagnia di Zavattini, con lui possiamo entrare nella casa Bompiani. Con Valentino Bompiani Zavattini ha mantenuto il sodali­zio più lungo, da sessant’anni in qua: amici­zia, libri e altri progetti. Anche presso que­sto editore dovremmo fare una robusta so­sta bibliologica, che queste rapide compara­zioni non consentono. Caro Bompiani. Let­tere con l’editore è un volume grosso e labi­rintico: si può provare sia l’ansia del chiu­so, sia lo stupore della ricchezza documen­taria che intravvediamo. In ogni caso anche qui siamo finiti sulle rive di un altro pesco­so archivio e proviamo una sorta di capogi­ro in mezzo a tutta quella gente, che va e viene.

Bompiani è editore di molti successi. Con­corrono con lui altri editori, ma è indubbio che il suo nome è tra i primi nella mente del­l’italiano lettore di romanzi. Il suo catalogo è ricco anche di saggistica, di varie collane e opere, ma i suoi romanzieri formano una squadra che ha nomi mondiali. Basteranno i nomi di Moravia e di Eco. Proprio questi due nomi mi permettono di pensare a due tempi, a una discontinuità: con Moravia tro­vo il tempo che comincia con Gli indifferen­ti, 1929, con Eco quello che comincia con II nome della rosa, 1980. Il tempo di Moravia è quello stesso che abbiamo richiamato pri­ma con Einaudi e Zavattini e ora con Bom­piani. Potremmo farlo con alcune altre deci­ne di nomi tra editori e romanzieri. Nei loro libri e nei loro archivi c’è complessivamente una storia dell’Italia contemporanea. Isola­ti, in gruppi, ma mai lontani gli uni dagli al­tri l’hanno seguita o preceduta o si sono messi un po’ ai margini: sono però insepara­bili dalla nostra storia.

C.E. Gadda scrivendo a Gianfranco Con­tini nel settembre 1940 notava: “Tutta la let­teratura e tutte le arti figurative erano al Forte dei Marmi”27. Anche ai lettori deve es­sere parso talvolta di cogliere almeno gli scrittori in gruppo, quasi un collegio di àu­guri cui sono affidati compiti di interpreta­zione della vita e della storia, di ognuno e di tutti. La fama dello scrittore che indovina per noi si è formata poco più di un secolo fa, ma tra le date del fascismo e i primi de­cenni della Repubblica si è consolidata in una idea di consorteria confermata da alcu­ne piccole mitologie del costume: la cadenza dei libri pubblicati, i premi, le tirature, le re­censioni, le interviste, ecc. Ma la realtà è più complicata e i fenomeni anche letterari più profondi. Per studiare la reciproca influenza di letteratura e società bisogna avere metodo e andare molto al di là delle cronache curio­se, anche solo per rilevare impatti nostrani, per non dire di quelli mondiali. Così di fron­te a queste prime documentazioni si apre un’indagine lunga e paziente: i primi sopral­luoghi, tra moli di reperti, non possono che essere superficiali.

Leggendo Caro Bompiani il risalto mag­giore viene dal fervore culturale che si pola­rizza intorno alla casa editrice tra il secondo decennio del fascismo, la guerra e il dopo­guerra. Non neghiamo l’energia degli anni successivi, ma il regime della macchina edi­toriale in quegli anni ha una tensione tutta propria rispetto al tempo distruttivo e diffi­cile che passava. Non sembra un luogo felice o una torre eburnea, ma proprio una risorsa diversa in presenza di una catastrofe, il fer­vore che forse produce un certo stadio del­l’angoscia: testi nuovi, traduzioni di classici e di contemporanei, antologie di letterature, opere enciclopediche. Ci sarà da tener conto di “quel gran numero di lettori capaci, che

27 Carlo Emilio Gadda, Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario 1934-1967, Milano, Garzanti, 1988, p. 29.

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ormai è in Italia”28, ma anche da analizza­re i legami colla letteratura più commercia­bile. La crisi della guerra poi portava a con­sumare libri, forse come altre scorte di der­rate: un consumo più vorace e indifferen­ziato.

Raymond Queneau notava il 24 settembre 1944 in un suo diario: “per quattro anni, il mattino, nel metrò, invece di vedere i lettori spiegare i giornali, si poteva sorprenderli nella lettura di Platone, di Montaigne ma anche di qualsiasi altra cosa. Ci si felicita del ritorno del pubblico alla lettura, gli editori soprattutto che esauriscono ogni prodotto, anche di cattiva qualità”29.

Il lavoro editoriale nella casa Bompiani, attraverso questi documenti, sembra qualifi­carsi invece nelle strettezze. Si può indicare, per curiosità, che il primo libro di Bompiani fu il Don Bosco di Ernesto Vercesi (1929). Per altre curiosità e coincidenze si leggano le pagi­ne rapide anche de II mestiere dell’editore. Bompiani formò presto un catalogo vivace di saggi, di narrativa e di attualità. Nel luglio del 1934 sollecitava in questo modo proprio Za- vattini, che preparava l’almanacco, che diven­ne presto eponimo degli almanacchi letterari: “L’almanacco è specchio di cronaca e consi­dera la fama letteraria come un fatto di cronaca”30. Si trattava di impegnare sul me­desimo terreno letteratura e cronaca, di porta­re le lettere all’intrattenimenlto, di incontrar­si col nuovo tempo libero e le disponibilità economiche di crescenti ceti medi: si forma­va una comunione non sempre fondata su valori artistici ed etici, ma più sulla distra­zione, sulla moda, sulla sensibilità. Era for­se andata sempre così la cosa letteraria, sia pure entro altre mode. Forse soltanto di fronte al mortale pericolo della guerra si at­tivò una comunione che sentiva la lettura

come valore morale e scoperta di destini co­muni sociali e politici. Il rapporto è via via mutato in poco tempo, ma non si possono dare nemmeno descrizioni approssimative di questo scambio tra trame letterarie e lo spi­rito dei lettori: vi trovano momentaneo rifu­gio milioni di ansie. Gli “astratti furori” di Conversazione in Sicilia di Vittorini sono forse la più bella sintesi e l’unico appello possibile alla disordinata situazione spiritua­le della fine degli anni trenta. Era un tempo maturo per capirsi di nuovo, anche con mo­di narrativi che provenivano da molte espe­rienze. Quell’onda poi è durata alcuni de­cenni.

Bompiani celebrava i suoi primi venti anni di attività con una lettera orgogliosa a Cur­zio Malaparte: “Io non ho bisogno deH’Iri, non ho banche cattoliche che mi finanziano. In vent’anni non ho avuto il minimo sussi­dio e aiuto da nessuno. Non ho mai venduto nemmeno un solo libro a un ente statale o parastatale. Non ho finanziatori segreti, non ho interessi politici, né preoccupazioni poli­tiche, se non quelle che riguardano la mia qualità di italiano. Durante il fascismo mi hanno sequestrato e fermato 152 libri. Stam­pai il Mein Kampf e il mio solo rammarico è che non tutti gli italiani lo abbiano letto ab­bastanza, perché in quel caso, forse, molte cose sarebbero cambiate e molte disgrazie sarebbero state evitate. Non ho mai stampa­to un libro di un gerarca, né grande né pic­colo, come non ho stampato i mille libri sul­la guerra etiopica, come ho rifiutato tutti i vari libri sui generali e simili dopo l’ultima guerra. Ho persino rifiutato di stampare il libro su Ciano, del quale in Svizzera aveva­no acquistato per me i diritti, e l’ho rifiutato per non mescolarmi alla cronaca e allo scan­dalo. Che fosse un affare editoriale qualsiasi

28 Carlo Bo a Bompiani, Sestri Levante, 15 gennaio 1944, in Caro Bompiani, cit., p. 95.29 Raymond Queneau, Bâtons, chiffres et lettres, Paris, Gallimard, 1965, p. 159 (29 septembre 1944).30 Caro Bompiani, cit., p. 547 (da Milano, 27 luglio 1934).

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imbecille poteva capirlo”31. In effetti quello fu un tempo di tentazioni e anche di cadute. Ma allo storico oggi interessa vedere più a fondo rispetto alle diverse diritture morali. Dietro a queste parziali documentazioni e memorie c’è da scoprire l’ossatura di una storia culturale.

Con gli scrittori americani il fiuto di Bom­piani non fu da meno di quello dei suoi mi­gliori collaboratori. Per suo conto tirò fuori due traduzioni indimenticabili: “libri di scrittori americani erano già usciti, s’inten­de, a cominciare da Dos Passos e Dreiser, ma la diffusa, rapida, incisiva cittadinanza di quella letteratura nel nostro paese comin­cia e si condensa con la pubblicazione di due romanzi: Uomini e topi di John Steinbeck e Piccolo campo di Erskine Caldwell. È anda­ta così: vidi su un giornale americano l’an­nuncio di un romanzo di Steinbeck. Telegra­fai. Quando il libro arrivò mia moglie lo les­se dalla mattina alla sera; io lo lessi quella stessa notte. Altrettanto accadde per il ro­manzo di Caldwell”32. Furono tradotti uno da Vittorini l’altro da Pavese. Era il 1938: questi romanzi appartenevano ad altre cul­ture eppure cadevano sul nostro terreno co­me pioggia sul secco. Infatti ci sembrano perfino imbarazzate le censure e le more frapposte dal Minculpop e da Alessandro Pavolini agli esiti editoriali di Americana, che Pavese definì a Vittorini come “il mito da tutti vissuto e che tu ci racconti”33.

Il 1938 fu lo stesso anno che confermò Bompiani nell’idea di preparare un diziona­rio delle opere, dei personaggi e degli autori, l’arca di Noè della cultura34. Come nel ro­

manzo fantapolitico Farenheit 451 si impa­ravano a memoria le opere da salvare da un potere persecutore, Bompiani, durante una riunione di scrittori in Germania, dove era presente anche Goebbels, sentì la voce che gli ordinava di raccogliere in un’unica opera la quintessenza di tutte, liofilizzata da esper­ti. Questo senso dell’avventura nobile agli editori piace molto.

Bompiani poi ci aiuta a concludere queste note con un richiamo all’ultimo romanzo di Umberto Eco, Il pendolo di Foucault, che per me vuole essere semplicemente la prov­visoria osservazione finale sul rapporto edi­tori, scrittori, lettori che è stata la dominan­te di queste note. La fama dei romanzi di Eco ha sollevato il problema di identificare nuovi lettori, una nuova situazione della let­tura in una nuova cultura. Non abbiamo quasi nessuno strumento per essere storio­graficamente precisi. Questa storia, pur cambiando, non sappiamo ancora spiegarla. Ma un epilogo simbolico ci viene offerto dai contenuti del Pendolo di Foucault. Dif­ficile trovare un’altra opera più piena di storia editoriale di questa: resterà certamen­te un documento indiretto per capire come lavoravano gli editori nel nostro tempo e per altri costumi culturali tra gli anni set­tanta e ottanta. Ci sarebbero da rilevare centinaia di note, da riempire schede, su schede, come quelle incrociate del protago­nista Casaubon35. Bompiani è grato a Eco e vive la fortuna editoriale del suo campione col sentimento di un’apparizione profetica: egli è l’esperto assoluto del romanzo popola­re e “rivela al proprio pubblico non ciò che

31 Caro Bompiani, cit., p. 428 (a Curzio Malaparte, Milano, 11 gennaio 1949).32 V. Bompiani, Il mestiere dell’editore, cit., p. 119.33 La frase è di Pavese, tratta da una lettera riportata ne II mestiere di vivere, Torino, Einaudi, 1962, p. 226, alla data 27 maggio 1942.34 V. Bompiani, Il mestiere dell'editore, cit., pp. 145 sgg.35 Casaubon è, come non manca di segnalare Eco, anche un personaggio di Middlemarch di George Eliot: la deli­neazione del personaggio si può leggere nel Dizionario delle opere e dei personaggi di tutti i tempi e di tutte te let­terature, Milano, Bompiani, 1964, voi. V ili, p. 155.

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si attende, ma quello che dovrebbe volere, anche se non lo sa”36. A pensarci bene è qua­si il punto di partenza di Zavattini eppure i tempi sono molto cambiati. Non è su questo però che richiamo l’attenzione. Per i miei in­teressi di storico sono attratto dalla contami­nazione storiografica operata da Eco. Sto al suo gioco, che per molti versi è perfetto, ma, dal punto di vista dello storico, riscontro un’avaria alla macchina romanzesca. Leg­gendo il Pendolo mi sono ricordato di un saggio storico (ce ne sono anche altri) che ha dato una protratta falsariga al plot di Eco37. Mi limito a citare da quello studio l’intenzio­ne che muoveva l’autore: “È forse difficile accettare che uno studio scientifico, e tutto il tempo e l’energia che richiede, possa conve­nientemente essere dedicato a un’assurda fantasia come I Protocolli o a oscure figure come il cattivo romanziere Hermann Goed- sche, il furfante Osman Bey, il mezzo matto e pseudomistico Sergei Nilus e gli altri. Tut­tavia è un grande errore supporre che solo gli scrittori che contano siano quelli che gli uo­

mini di cultura possono seriamente considera­re. Esiste un mondo sotterraneo dove le fanta­sie patologiche spacciate per idee sono sotto- prodotti senza fine di fanatici disonesti e pre­suntuosi che influenzano ignoranti e supersti­ziosi... Ci sono momenti in cui questo sotto­mondo emerge dalle profondità e rapidamente affascina, cattura e domina moltitudini di gen­te normalmente equilibrata e responsabile, che quindi si allontana dall’equilibrio e dalla re­sponsabilità...”38. Era anche questa l’idea che ha mosso Eco? Ma che segno è se Eco sente il bisogno di decostruire una storia già ricostrui­ta e di estenderla liberamente? Il feuilleton gioca coll’accertamento storico come il gatto con il topo? In un dizionario di narratologia39 si indica con la parola latina gnarus il narrato­re come colui che sa. Non sarà per caso ìgna- rus allora il lettore, nonostante l’abbondanza dei segni messi a disposizione? L’indefinitezza dei termini tra storia e romanzo non è solo una formula del successo, diventa quasi una visio­ne del mondo.

Pietro Albonetti

36 V. Bompiani, Il mestiere di editore, cit., p. 143.37 Norman Cohn, Warrant fo r genocide. The myth o f the Jewish world conspiracy and the Protocols o f the Elders o f Sion, London, Eyre & Spottiswoode, 1967 (trad. it. Licenza per un genocidio. I “Protocolli degli anziani di Sion”. Storia di un falso, Torino, Einaudi, 1969).38 N. Cohn, Warrant fo r genocide, cit., p. 18.39 Gerald Prince, A Dictionary o f narratology, Aldershot, Scolar-Gonwer, 1988.

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Vita quotidiana e seconda guerra mondialedi Luigi Cavazzoli

Solo di recente gli studi e la ricerca storici hanno iniziato a riservare una maggiore at­tenzione alla vita quotidiana della gente co­mune negli anni della seconda guerra mon­diale. A fronte, infatti, di una sterminata bi­bliografia concernente gli aspetti politi- co/militari, stanno un numero limitato di contributi mirati a lumeggiare le condizioni di vita della popolazione civile, la quale in­vece, a differenza di ciò che avvenne nei pre­cedenti conflitti, fu largamente coinvolta e partecipe delle vicende della guerra. In pro­posito Giorgio Rochat sottolinea opportu­namente che la seconda guerra mondiale ri­chiese “non solo la mobilitazione delle forze armate e degli apparati industriali, ma di tutta la società” chiamata a dare oltre all’ “obbedienza della prima guerra mondia­le”, pure “una partecipazione attiva a più livelli”1.

Per la verità già nel 1972 Nicola Gallerano aveva dedicato un incisivo saggio alle condi­zioni di vita e agli atteggiamenti di gran par­te della popolazione italiana, utilizzando co­me fonte le relazioni dei questori sulla “si­

tuazione politico-economica” delle varie province2. È comunque necessario attendere il convegno di Pesaro del 1984 su “Linea go­tica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani”, perché siano disponibili alcuni significativi contributi di ricerca su temi quali l’econo­mia di guerra — in particolare quella del pe­riodo 1943-1945, intesa come produzione, occupazione, consumi —, gli aspetti demo­grafici, la mentalità e la cultura; questioni tutte da affrontare avendo presenti le pecu­liarità delle situazioni locali; studi ora rac­colti nella seconda parte del volume che rac­coglie gli atti del convegno3. Questa sezione presenta la “linea Gotica” come un evento agganciato alla dimensione del vissuto quo­tidiano.

Gli anni che vanno dal 1943 al 1945 segna­no il ritorno a forme di vita che sembrano riaffiorare — osserva con acume il curatore della sezione Paolo Sorcinelli4, — dalla me­moria collettiva; “in proposito è sufficiente riferirsi alla socializzazione del tempo e del­lo spazio provocata dallo sfollamento e dai bombardamenti; al ripristino di tecniche

1 Giorgio Rochat, Lo sforzo bellico 1940-1943. Analisi di una sconfitta, in Aa.Vv., L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, a cura di Francesca Ferratini Tosi, Massimo Legnani, Gaetano Grassi, Milano, Angeli, 1988, pp. 220, [Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia].2 Nicola Gallerano, Il fronte interno 1942-1943, “Il movimento di liberazione in Italia”, 1972, n. 109, pp. 4-32.1 Aa.Vv., Linea Gotica 1944. Eserciti, popolazioni, partigiani, a cura di G. Rochat, Enzo Santarelli, Paolo Sorci­nelli, Milano, Angeli, 1986, [Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, Istituto pesarese per la storia del movimento di liberazione, Anpi Pesaro e Urbino].4 P. Sorcinelli, La guerra e la gente: percorsi e fon ti per la ricerca fra storia sociale e archivi locali, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 211-221. La citazione che segue è a p. 214.

Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174

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lavorative come il correggiato per la trebbia­tura del grano; ai sistemi casalinghi per la preparazione del sapone e la surrogazione del sale; fino alle forme spontanee e/o orga­nizzate di assalti ai silos e di evasione alle maglie normative sulla macinazione del gra­no con stratagemmi che sembrano rispolve­rare, dopo più di sessant’anni, l’epoca della tassa sul macinato” .

Le altre ricerche contenute nel volume af­frontano problematiche particolarmente sti­molanti, connesse a fattori quali il passaggio del fronte, il razionamento alimentare, i bombardamenti, il ruolo delle donne, lo sta­to d’animo della popolazione, i danni mora­li e materiali nella versione proposta dai par­roci. Il passaggio del fronte nel Pesarese — ma la riflessione nei suoi aspetti generali può valere anche per altre aree italiane — costituisce il momento in cui le vicende uma­ne, sia collettive che private, si riempiono di traumi, di paure, di condizionamenti, di adattamenti e di emarginazione . Diviene al­lora importante capire gli stati d’animo, le aspettative, i comportamenti dei diversi ceti di cui si compone la popolazione, all’ap- prossimarsi dello scontro militare. La nuova situazione, che si aggiunge alla piaga degli sfollati, produsse scompiglio pure nella vita delle piccole comunità rurali5. Ma già di per sé lo sfollamento dei centri urbani, progetta­to per tempo dal regime, si trasformò nel problema della preparazione militare e psi­cologica alla guerra6. Le successive vicende belliche, il ruolo dell’ideologia ruralista e quello delle migrazioni interne, la creazione di strutture assistenziali e le strategie di cat­

tura del consenso, convergono anch’esse in una prospettiva di storia sociale che ponga al centro dell’indagine le condizioni di vita alimentare, abitativa e sanitaria, le aspettati­ve, le paure e i comportamenti di una grande massa di popolazione.

Le problematiche connesse al raziona­mento alimentare si prestano anche per un approccio al tema della penetrazione dello stato nella società civile. Sotto l’incalzare degli eventi bellici, lo stato assistenziale, che il regime fascista aveva tenuto a battesimo all’inizio degli anni trenta, si accentua me­diante una pi diffusa diramazione all’inter­no della società civile. La questione alimen­tare può essere utilizzata, come fa Mario Pinotti7 (Pesaro tra la linea Gotica e il pane difficile), quale chiave di lettura del rappor­to che di volta in volta si instaura fra le preoccupazioni di mediazione politica dello stato e le logiche di funzionamento interne a ciascun apparato istituzionale da un lato e tra le esigenze, le inquietudini, le aspettati­ve, la mentalità dei diversi gruppi che com­pongono la società civile dall’altra. Alla ri- costruzione dell’atteggiamento della popola­zione nei confronti della guerra può concor­rere in misura significativa la fonte (per la verità non sempre facilmente consultabile) costituita dalle risposte dei parroci al que­stionario proposto dalia Sacra congregazio­ne concistoriale nel 1945 nell’intento di rile­vare i danni morali e materiali prodotti dal conflitto8. Un’indagine condotta da Alberto C. Federici9 assegnerebbe ai parroci, negli anni più travagliati dalle vicende belliche, il ruolo di concorrere in misura rilevante al

5 Giorgio Pedrocco, I comuni dell'entroterra pesarese di fronte ai problemi della guerra, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 263-280.6 Salvatore Adorno, Lo sfollamento a Pesaro, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 281-303.7 Mario Pinotti, Pesaro tra la linea Gotica e il pane difficile, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 223-262.8 Sul valore storiografico di questa fonte cfr. Silvio Tramontin, Il clero nella Resistenza: studi compiuti e ricerche da avviare, “Civitas” , 1975, n. 9, pp. 26-27.9 Alberto C. Federici, Il passaggio del fronte attraverso le relazioni dei parroci della diocesi di Fano, in Linea Goti­ca 1944, cit., pp. 335-380.

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mantenimento dell’identità del gruppo so­ciale in cui operavano e, quindi, al rafforza­mento del senso conservativo della popola­zione. Dalla memoria delle donne affiore­rebbe, invece10, sia la rassegnazione a fronte di eventi tanto più grandi di esse, che il sen­so di compiacimento per il ruolo svolto, so­prattutto nell’ambito familiare, sovente in sostituzione del marito, del padre o del fra­tello, e il rimpianto per una perduta solida­rietà alimentata anche dai momenti di convi­venza forzata. A cominciare dalla perma­nenza nei rifugi in cui, fra l’altro, una delle manifestazioni ricorrenti era costituita dalle preghiere singole o collettive recitate per esorcizzare l’ansia con cui era vissuta l’atte­sa che la bomba finisse di sibilare ed esplo­desse. Questo pericolo che veniva da un cie­lo propagandato per anni come inviolabile, modificò abitudini e certezze quotidiane, fe­ce provare sensazioni sconosciute e paure nuove11.

La stessa assenza di istituzioni generata dallo “sfascio” dell’8 settembre 1943, se in alcuni produsse una comprensibile esaltazio­ne, “in altri — rileva puntualmente Claudio Pavone — provocò sgomento, secondo la sequenza, ricavabile da molte testimonianze che prendono le mosse dall’annuncio del­l’armistizio, di incredulità-stupore-gioia- preoccupazione-smarrimento”12. Riferì un colonnello inglese che nella cosiddetta “terra di nessuno” la gente non rubava e non s’am­mazzava, ma s’aiutava vicendevolmente in modo incredibile, quasi a voler significa­re che la minaccia incombente delle linee

fra loro nemiche, ancor più dell’assenza del­le istituzioni, rese “gli uomini buoni”.

Certo ha ragione Sorcinelli quando sostie­ne che l’originalità e il valore storiografico di queste ricerche sono anzitutto da indivi­duare nelle fonti utilizzate: dagli archivi de­gli enti locali a quelli diocesani, dello stato e delle prefetture, integrate dalle fonti orali frutto della memoria di protagonisti e testi­moni. Ma è pur vero che gli studi così arti­colati formano un’ampia e fitta rete in gra­do di “pescare” nel profondo del vissuto in­dividuale e collettivo. Un’esperienza di ricer­ca in tal senso, condotta da chi scrive per la provincia di Mantova e i cui esiti troveranno quanto prima collocazione in un volume dal titolo La gente e la guerra, ha confermato la praticabilità d’itinerari intesi ad indagare lo stato emotivo, le condizioni alimentari e la dimensione del mercato nero, la pratica reli­giosa e il complesso fenomeno del banditi­smo. Così come Massimo Legnani ha dimo­strato il valore degli esiti desumibili da un percorso di ricerca inteso a rilevare l’in­fluenza, sia quantitativa che qualitativa, che le scelte operate dalla “finanza di guerra” hanno prodotto sui diversi ceti sociali13. Tutti filoni di ricerca in grado di esplicitare in misura significativa le condizioni di vita della società durante la seconda guerra mondiale14.

La lettura delle anamnesi contenute nelle cartelle cliniche dei ricoverati negli ospedali psichiatrici nel periodo 1940-1950, può con­sentire, ad esempio, di individuare i pazienti per i quali i medici accertarono il nesso tra

10 Sandra Lotti, Donne nella guerra: strategie di sopravvivenza tra permanenze e mutamenti, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 319-334.11 Claudio Rosati, La memoria dei bombardamenti. Pistoia 1943-1944, in Linea Gotica 1944, cit., pp. 409-432.12 Claudio Pavone, Tre governi e due occupazioni, in L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, cit., p. 425.13 Massimo Legnani, Sul finanziamento della guerra fascista, in L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Re­sistenza, cit., pp. 293-306.14 L’importanza di questo tema è sottolineata da Guido D’Agostino e Aurelio Lepre nel loro intervento 1940-1943: dalla guerra immaginata alla guerra reale. Presentazione, “Italia contemporanea”, 1986, n. 164, pp. 37-39.

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guerra e turbamento psichico, ossia tra guer­ra e “follia” . I fantasmi “laceri e lugubri” dei campi di concentramento o delle colonne dei soldati in ritirata; l’ombra terrificante degli aguzzini, dei militi delle varie polizie, dei soldati oppressori; i sibili delle bombe, le esplosioni, i lutti, le macerie dei bombarda- menti; gli spettri della fame, della sete, del congelamento, delle mutilazioni; le macabre rappresentazioni delle stragi, dei saccheggi, le vendette personali, non appartennero solo al mondo dei “folli” ma con essi convisse gran parte della popolazione. Le vicende do­cumentate nelle anamnesi — oggetto anche di una ricerca in corso dal titolo appunto Guerra e follia, ad opera di un gruppo coor­dinato da Paolo Sorcinelli — compilate da­gli psichiatri furono, infatti, in larga misura le stesse con le quali si confrontarono i com­pagni e i familiari dei militari e dei civili che varcarono la soglia dei manicomi.

Ha osservato Paul Fussell15 che una delle differenze fondamentali della seconda ri­spetto alla prima guerra mondiale è la di­stanza dei combattenti dal territorio nazio­nale. L’uso massiccio dei bombardamenti ebbe tuttavia l’effetto di provocare, per le popolazioni, una “paradossale vicinanza della violenza e del disastro alla sicurezza, al buon senso e all’amore” . La violenza e l’an­goscia invasero così “la dimensione quoti­diana e domestica avvicinando, nei periodi di bombardamenti più intensi e continuativi, la condizione dei civili a quella dei combat­tenti e persino accentuando, per contrasto, l’insopportabilità della morte”16.

Se dobbiamo dar credito a Gabriel Garcia Marquez17, non sarebbero necessarie tante

parole per spiegare ciò che si prova in guer­ra. Ne basterebbe una sola: paura; o meglio, tutte le paure, anche le più remote e incon­sce, in larga misura utilizzate da Ennio Di Nolfo18 per un approccio agli aspetti più sot­tili e profondi della mentalità sociale e del comportamento comune della popolazione nel corso degli eventi bellici.

Ma la paura e la speranza sono anzitutto temi suggestivi di ricerca che Guido Quazza assegna da tempo ai suoi allievi e attorno ai quali chiama a raccolta “navigati studiosi” , nella giusta convinzione che gli esiti non po­tranno che confortare la lezione morale, po­litica e sociale connaturata alla guerra parti- giana. Soprattutto se sarà correttamente in­dagato “l’intreccio, ecco il filo centrale — sottolinea Quazza —, fra l’ordinario e lo straordinario nella giornata di una guerra specialissima, colto dentro una banda ma senza trascurare le molteplici forme del rap­porto tra partigiani e gente del luogo, in pri­mis le donne, sia quelle che collaboravano strettamente coi militanti, sia le ‘civili’”19.

Nell’intento di esorcizzare le paure, le an­gosce, i patemi d’animo conseguenti alla guerra, la popolazione riservò uno spazio crescente alla pratica religiosa e si strinse in larga parte attorno alla chiesa alla ricerca di conforto e di una guida. Francesco Traniello esplicita “la funzione svolta dalla chiesa ita­liana nell’ostacolare il corso di un’incom­bente barbarie, nel favorire la tenuta com­plessiva di un tessuto nazionale, nell’alimen­tare e nel sorreggere un senso di solidarietà umana elementare quanto efficace” . Una chiesa, dunque, impegnata a rafforzare un proprio ruolo “civile” oltreché spirituale, in

15 Paul Fussell, La grande guerra e la memoria moderna, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 79-86.16 N. Gallerano, Gli italiani in guerra 1940-1943. Appunti per una ricerca, in L ’Italia nella seconda guerra mondia­le e nella Resistenza, cit., p . 311.17 Gabriel Garcia Marquez; Cent’anni di solitudine, Milano, Feltrinelli, 1968, p. 322.18 Ennio Di Nolfo, Le paure e le speranze degli italiani 1943-1953, Milano, Mondadori, 1986.19 Guido Quazza, La guerra partigiano: proposte di ricerca, in L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resi­stenza, cit., pp. 482-483.

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virtù pure di un “patrimonio storico di pre­stigio morale” che si accrebbe “in ragione inversa al declino del prestigio e dell’autore­volezza dei poteri dello stato”20. Le testimo­nianze dei parroci in tal senso, sinora raccol­te, sono esplicite pur con tutte le cautele che la specificità delle fonti orali — per le quali del resto si dispone ormai di una vasta lette­ratura — comportano. Una conferma o me­no del fenomeno mediante un’analisi di tipo quantitativo è possibile con l’ausilio dei dati contenuti nelle Statistiche parrocchiali che ogni anno i parroci inviano in Curia. Esse sono costituite da schede che di ciascuna parrocchia riportano, fra l’altro, i dati ri­guardanti l’osservanza del precetto festivo e di quello pasquale; l’accostamento alla co­munione domenicale e il totale delle comu­nioni somministrate nel corso dell’anno; i matrimoni religiosi celebrati con o senza messa, quelli civili e il numero dei concubi­ni; le adesioni all’Azione cattolica, la fre­quenza alla dottrina cristiana e le lezioni im­partite dai sacerdoti nella scuola. Indubbia­mente i dati riportati nelle Statistiche non hanno valore in assoluto, in quanto la loro compilazione avviene in carenza di criteri comuni e, soprattutto, di eguale diligenza e precisione da parte dei parroci. Tuttavia le rilevazioni così effettuate, pur contraddi­stinte da evidenti approssimazioni, possono essere assunte per verificare quantomeno una linea di tendenza.

Un altro filone di ricerca va orientato alla ricostruzione della complessa rete di scambi che alimentò il fiorente mercato clandestino. Guido Quazza coglie infatti nel segno quan­do scrive che il mercato nero costituisce un

“nodo centrale” degli studi sulla seconda guerra mondiale; nodo sul quale, tuttavia, “troppi interessi di parte hanno per vie spes­so contrastanti concorso a far ombra, e non solo per ragioni di retorica commemorati­va”21. In questa ottica si sono mossi Giaco­mo Becattini e Nicolò Bellanca, dimostran­do 1’esistenza nel mercato nero di “una mor­fologia variegatissima ed onnipervasiva, nel suo intreccio con altri [...] fenomeni del pe­riodo e una percezione di esso molto diffe­renziata tra gli autori sociali che vi operano”22. Fenomeni che nel Mantovano, ad esempio, specie nella zona a ridosso del Po, compresero pure il banditismo, a sua volta intrecciato di rapporti ambigui con le polizie e il ribellismo coevi. La maggior par­te degli attori furono nel Mantovano dei braccianti, coloro cioè che nel periodo iema­le si ritrovavano per lunghi mesi senza reddi­to e costretti ad una vita di stenti. La do­manda di prodotti del mercato nero, il com­portamento equivoco di corpi come la briga­ta nera, l’azione organizzata dei partigiani, costrinsero pure il banditismo ad annodare le proprie fila e a rapportarsi con la rete di incettatori; talché il fenomeno endemico del­le rapine invernali non solo assunse dimen­sioni più cospicue ma ebbe a manifestarsi in tutte le altre stagioni dell’anno. Luciano Ca­sali nel secondo volume della Storia della Resistenza a Modena, in via di conclusione, affronta anch’egli il tema del banditismo e constata che lo stesso si moltiplica nelle zone in cui si afferma il partigianato secondo un rapporto di proporzionalità inversa. Infatti, nelle aree per tradizione “ribelli”, ove mag­giori furono le diserzioni durante la prima

20 Francesco Traniello, Il mondo cattolico italiano nella seconda guerra mondiale, in L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, cit. p. 350 e 353.21 G. Quazza, Prefazione ad Aa.Vv., Operai e contadini nella crisi italiana del 1943-1944, Milano, Feltrinelli, 1974, p. XII.22 Giacomo Becattini, Nicolò Bellanca, Economia di guerra e mercato nero, “Italia contemporanea”, 1986, n. 165, p. 6.

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guerra mondiale, il banditismo decresce ma­no a mano che si afferma il “potere” della resistenza armata.

Per ricostruire il vissuto di chi, come la gente comune, non lascia che in rarissimi ca­si una documentazione scritta a cui attingere e da far rivivere, è dunque possibile ricorre­re ad una lettura indiretta del modo con cui essa si rapportò con la guerra approfittando di indicatori quali, appunto, la follia, l’ali­mentazione e il mercato nero, la pratica reli­giosa e il banditismo. Tutte manifestazioni a loro volta ricostruibili utilizzando, con le av­vertenze sottolineate da Massimo Legnani23, le ricchissime fonti oggi disponibili nell’Acs e negli archivi di stato provinciali, nella Fondazione “L. Micheletti” di Brescia, negli archivi delle prefetture e delle curie vescovi­li. Una particolare sottolineatura meritano i “Rapporti sui riflessi della situazione nelle corrispondenze epistolari” che le commissio­ni provinciali di censura dovevano periodi­camente compilare e far pervenire alle supe­riori autorità militari e di polizia. Questi rapporti, tanto efficacemente utilizzati da Loris Rizzi24, costituiscono una fonte ecce­zionale e riportano, meticolosamente regi­strati e ordinati, i pensieri e i sentimenti più sinceri della gente e dei militari alle armi sul­la guerra, il fascismo, le condizioni di vita del paese, le sorti del conflitto.

In ogni caso una storia sociale dell’Italia durante la seconda guerra mondiale può aversi unicamente dal concorso, come in

precedenza osservato, di tante storie locali quante sono le peculiarità rilevabili nelle condizioni ambientali, nella collocazione ri­spetto al fronte di guerra, negli usi e costumi delle popolazioni, nelle condizioni di vita delle classi e dei ceti sociali, nel tipo di econo­mia prevalente, nel grado di consenso al regi­me, nel ruolo della chiesa. Insomma — per non tediare con una lunga elencazione che co­munque potrebbe non essere immune da omissioni — tutto ciò che può concorrere ad addentrarci nel vissuto quotidiano di “una società civile vivacissima a paragone di quel­le degli altri paesi europei coinvolti nella guerra, che alla guerra reagisce in modo dif­ferenziato: emergono egoismi e grandi soli­darietà, lutti e gioia di vivere, apoliticità e ca­pacità di prendere partito, difese gelose delle proprie tradizioni e delle proprie chiusure ma anche aperture verso il nuovo e speranze di cambiamento”25. È un percorso di ricerca si­curamente complesso perché comporta il ri­corso alle competenze e alle tecniche specifiche non solo della storia ma, pure, quantomeno, dell’antropologia, della sociologia e della psi­cologia; ugualmente vale la pena di praticarlo in quanto la guerra può così connotarsi come un immenso straordinario laboratorio socia­le della cui gestione potrebbe farsi carico l’I­stituto nazionale per la storia del movimento di liberazione mediante un progetto organico di ricerca che interessi l’intero territorio ita­liano.

Luigi Cavazzoli

23 M. Legnani, “Paese reale”e “paese legale” dal fascismo alta repubblica, “Italia contemporanea” , 1985, n. 161, pp. 107-110.24 Loris Rizzi, Lo sguardo del potere. La censura militare in Italia nella seconda guerra mondiale 1940-1945, Mila­no, Rizzoli, 1984.25 N. Gallerano, Gli italiani in guerra, cit., p. 322.

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Guerra, guerra di liberazione, guerra civiledi Giuliana Bertacchi

Nel fitto calendario di convegni promossi dagli Istituti della resistenza, questo di Bel­luno — “Resistenza: guerra, guerra di libe­razione, guerra civile”, 27-29 ottobre 1988— spicca in primo luogo per l’attenzione tutta particolare che ha suscitato sin dal suo primo annuncio e che è stata confermata nel corso dei lavori dalla partecipazione di un pubblico numeroso e coinvolto. Sottolinear­lo è meno ovvio di quanto non possa appari­re: richiamarsi a quell’aspettativa, infatti, può meglio far comprendere il tipo di dibat­tito che si è sviluppato nelle tre giornate den­se di relazioni e di interventi. Come tutti ben ricordano, tre anni fa, nel corso del conve­gno di Brescia sulla Rsi (cfr. La Repubblica sociale italiana, Annali della Fondazione “Luigi Micheletti” , 2, 1986), la proposta avanzata da Claudio Pavone che, invitando a riflettere sui motivi per cui la definizione di guerra civile fosse stata generalmente ri­pudiata dagli antifascisti, formulava ipotesi sull’applicabilità di quella definizione allo scontro tra partigiani e fascisti nel 1943- 1945, aveva provocato reazioni polemiche— a partire dallo stesso titolo della relazio­ne, La guerra civile — e alimentato una vi­vace discussione che ora l’appuntamento bellunese consentiva di riprendere diretta- mente.

Una parte almeno altrettanto significativa delle attese proveniva dall’interno degli Isti­tuti, impegnati a vario titolo e su vari fronti nello studio del 1943-1945, e ancora recente­

mente chiamati a intensificare e affinare gli sforzi di indagine, nella prospettiva della “nuova storia della Resistenza antifascista”, a cui fa riferimento il Programma scientifico generale dell’Istituto nazionale e degli Istitu­ti associati. L’iniziativa dell’Istituto di Bel­luno — universalmente definita “coraggio­sa” — offriva infatti la possibilità di con­frontare i risultati di ricerche recenti con le implicazioni derivanti dalle nuove proposte di categorizzazione interpretativa della Resi­stenza, soprattutto da quella della guerra ci­vile, coniugata con la definizione “tradizio­nale” di guerra di liberazione e inserita nella più generale dimensione del secondo conflit­to mondiale (la necessità di una lettura com­plessa di piani intersecati era, del resto, esplicitamente richiamata dall’intitolazione tripartita del convegno).

La speranza di confrontare ipotesi inter­pretative sulla base di ricerche specifiche, piuttosto che sul piano delle opzioni genera­li, per meglio valutarne in concreto la rica­duta storiografica, non è stata certo delusa: dalle indagini che hanno scavato nell’interno della vita di formazione, offrendo materia di riflessione attorno alla complessità dell’ “uomo partigiano” (nel senso indicato da Guido Quazza al convegno “L’Italia nel­la seconda guerra mondiale e nella Resisten­za” dell’aprile 1985), o da alcuni contributi decisivi per l’allargamento del quadro pro­blematico complessivo, sono pervenuti gli apporti — a mio avviso — più proficui e ric-

Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174

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chi di spunti per possibili, ulteriori appro­fondimenti. Tuttavia questa opportunità, ancora ribadita in apertura dei lavori da Guido Quazza e da Claudio Pavone (en­trambi, in forme e in contesti diversi, hanno sottolineato sia la complessità degli intrecci che la necessità di verifiche attraverso ricer­che innovative, invitando, implicitamente o esplicitamente, a superare logiche di schiera­mento tra favorevoli e contrari all’uso della definizione di guerra civile), non è stata col­ta fino in fondo, forse inevitabilmente, se si pensa alla carica di appassionato coinvolgi­mento non solo di chi quegli avvenimenti ha vissuto in prima persona, ma anche dei “giovani” studiosi antifascisti e alla conse­guente sollecitazione a prender posizione sul punto nevralgico della guerra civile.

Almeno altri due piani di dibattito — ol­tre al confronto di ricerche sulla Resistenza prima accennato e sul quale si ritornerà più avanti — mi pare abbiano attraversato il convegno. L’uno si può schematicamente ri­condurre alla lettura della Resistenza in chiave esclusiva o prevalente di guerra di li­berazione, con l’accentuazione del carattere antitedesco, dei valori dell’unità antifascista e dell’identità nazionale, ed è stato partico­larmente presente nei momenti di discussio­ne alla fine delle varie sessioni, nella tavola rotonda finale, riservata prevalentemente ai rappresentanti delle associazioni partigiane1, in alcuni messaggi pervenuti al convegno, come quelli dei senatori Ferrari Aggradi e Taviani. Anche in questo caso non si è trat­tato, in genere, di una lettura grezzamente unidimensionale e semplicemente riconduci­bile di per sé a interpretazioni moderate e — per questa via — agli stereotipi dell’ufficiali­

tà celebrativa. Gli aspetti sociali, le connes­sioni e i nodi internazionali, ad esempio, so­no stati tenuti in considerazione, ciò non di meno riflessi soprattutto difensivi di una de­finizione che pure ha avuto tanta parte nella costruzione della stessa identità partigiana, hanno finito per favorire, al di là della mag­giore o minore ricchezza delle motivazioni, la riduzione delle questioni dibattute al pro­nunciamento a favore o contro l’applicabili­tà dell’espressione guerra civile, piuttosto che il loro sviluppo in molteplici e complesse direzioni.

Un altro livello della riflessione si è dispo­sto attorno all’approfondimento dei termini e della formulazione delle categorie interpre­tative e ha fornito utili contributi anche sot­to il profilo del metodo, con esempi di anali­si filologica rigorosa sulle fonti coeve, for­nendo nel contempo un’efficace arma con­tro “cortocircuiti” e “manipolazioni” lessi­cali. In nessun caso, tuttavia, mi pare che il dibattito di Belluno possa essere schematiz­zato e appiattito in una specie di referendum oppositivo tra guerra di liberazione e guerra civile o sbrigativamente risolto in un pro­nunciamento perentorio sull’applicabilità della seconda espressione, come potrebbe apparire da certi resoconti, francamente ri­duttivi, apparsi sulla stampa2.

Le brevi note che qui seguono non hanno — a loro volta — la pretesa di rendere a pie­no quel dibattito, nella sua ricchezza e anche nelle sue strozzature: recuperarlo in tutte le sue componenti e valutarlo in modo com­plessivo richiede tempi non brevi. Non pen­so solamente alla pubblicazione degli atti, ma anche alla possibilità di disporre degli esiti di indagini, anticipate parzialmente in

1 Alla tavola rotonda, coordinata da Sergio Passera (Insmli), hanno partecipato Arrigo Boldrini (Anpi), Vittorio E. Giumella (Anli), Gianfranco Maris (Aned) e Lamberto Mercuri (Fiap).2 Cfr. Emilio Sarzi Amadé, Guerra civile o Resistenza?, “L’Unità”, 4 novembre 1988. Si veda anche, in termini meno schematici, il resoconto di Stefano Caviglia, Il nemico italiano. La Resistenza fu anche guerra civile? Un con­vegno a Belluno, “Il Manifesto”, 1° novembre 1988.

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sede di convegno, e alla ripresa e alla verifi­ca di indicazioni di ricerca formulate ex no­vo o ribadite in questa sede. Sin dall’apertu­ra dei lavori, Guido Quazza ha intrecciato riflessioni e spunti di ricerca con la lettura in ampiezza e in profondità di tre definizioni nate dentro la Resistenza, o riproposte dalla Resistenza in termini originali: guerra di li­berazione, guerra per la civiltà — piuttosto che guerra civile —, guerra di religione. Al deciso richiamo alla necessità di rigore e chiarezza nella definizione dei termini, si è accompagnato il riferimento ai loro possibili e auspicabili sviluppi in contesti attuali e in dimensioni di ricerca che non perdono di vi­sta l’uomo e il suo tormentato cammino. Contesti attuali, e non semplicemente attua­lizzati, come spesso avviene, in modo estrin­seco e disinvolto: è una valida indicazione che si può ricavare dall’intervento di Quazza e che si aggiunge ai “punti fermi di corret­tezza metodologica” da lui stesso illustrati inizialmente.

Claudio Pavone, proponendo una diversa possibile categorizzazione rispetto alla for­mulazione avanzata da Quazza e rispetto al­l’intitolazione del convegno, sotto il titolo Le tre guerre: patriottica, civile e di classe, ha analizzato la possibile ricaduta storiogra­fica dell’intreccio — mai scontato, mai sche­matico — delle tre componenti, individuan­do nuclei problematici aperti alla verifica di nuove indagini e di nuovi approcci: la mili­tarizzazione e la politicizzazione delle ban­de; la pratica della violenza e il suo discipli- namento; l’atteggiamento della chiesa catto­lica come istituzione e dei “cattolici come persone”; la possibile ricomposizione dell’u­nità della Resistenza nell’“aspirazione a dar vita a un uomo libero e quindi non frantu­mato, quali che fossero i contenuti, anche molto diversi, con i quali l’immagine del fu­turo veniva riempita”.

Marco Palla, entrando decisamente nel merito della questione posta da Pavone, ha sottolineato un tema a cui si sono agganciati

parecchi degli interventi in sede di discussio­ne e che si configura, a sua volta, come ter­reno di ulteriori approfondimenti: la guerra civile non si presta in sostanza a definire la situazione italiana del 1943-1945, occorre piuttosto indagare sul collaborazionismo e sull’ampia e composita “zona grigia” di chi non si schiera apertamente in campo.

Su alcuni degli specifici filoni di indagine indicati, i partecipanti hanno potuto misu­rarsi immediatamente, come ad esempio sul tema dei cattolici (di particolare interesse le relazioni di Bruna Bocchini Camaiani e di Silvio Tramontin, che hanno messo in rilie­vo differenziazioni sensibili in seno all’alto clero, tutt’altro che compatto di fronte al­l’occupazione tedesca, alla Rsi e alla Resi­stenza). Ma è soprattutto dall’esame del rap­porto tra partigiani e giustizia che sono ve­nuti contributi di indagine su un terreno de­cisivo per le questioni dibattute, vale a dire l’interno della vita delle formazioni e la me­moria partigiana. Sono stati proposti all’at­tenzione i codici morali e il particolare rigo­rismo, frutto di una composita convergenza di ideologie diverse e con svariati gradi di in­teriorizzazione (Roberto Botta), l’immagine dei fascisti e dei tedeschi nella realtà della formazione e nelle storie di vita dei combat­tenti, attraverso percorsi che mostrano il progressivo prevalere di motivazioni appar­tenenti alla guerra civile piuttosto che alla guerra patriottica (Daniele Borioli), il pro­cesso a un capobanda che diventa spia delle contraddizioni interne allo schieramento re­sistenziale e materia di mito e di affabula- zione (Angelo Bendotti), episodi e momenti che illustrano il “codice elastico” di una giu­stizia severa, ma attenta a salvaguardare il rapporto con la popolazione (Cesare Berma- ni). Di diversa impostazione l’intervento di Emilio Sarzi Amadè, rivolto piuttosto a mo­tivare il rifiuto della categoria interpretativa della guerra civile e a proporre quella di “guerra incivile” da parte dei fascisti, che vi­de protagonista “un numero molto ridotto

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di delatori, che invocavano rappresaglie contro singoli gruppi o interi paesi” .

Il tema giustizia e Resistenza non si rac­chiude soltanto nei due anni cruciali 1943- 1945: lo ha rammentato Luca Alessandrini, presentando l’archivio di Leonida Casali, coordinatore del Comitato di solidarietà de­mocratica; da queste carte emergono i con­torni della vera e propria persecuzione anti­partigiana tra la fine degli anni quaranta e l’inizio degli anni cinquanta. Le dimensioni del fenomeno e le sue implicazioni sociali e politiche ribadiscono l’opportunità di allar­gare il quadro entro cui riesaminare la possi­bile ricaduta storiografica della categoria guerra civile applicata al 1943-1945.

Un ulteriore elemento di spiccato interesse dei lavori del convegno è venuto appunto, come prima si accennava, da quegli inter­venti che, con diverse angolature e valuta­zioni, hanno contributito a precisare i signi­ficati e i percorsi di questo allargamento. Massimo Legnani ha affrontato direttamen­te il problema, offrendo indicazioni “per meglio capire in che senso il 1943-1945 ‘chiude i conti’ con il 1919-1922”; il 1943- 1945 è vissuto infatti, pur con motivazioni e prospettive diverse, come “fase finale di un processo che ingloba per intero tutta la sto­ria del fascismo” e in tema di guerra civile, Legnani ha prodotto esempi illuminanti di scavo filologico sulle fonti coeve che fanno ricorso a questa terminologia per definire aspetti del conflitto sociale in atto nel primo dopoguerra. Che i conti proseguano anche nel secondo dopoguerra lo ha mostrato an­che la relazione di Antonio Paladini, che ha proposto elementi di riflessione sulla catego­ria giuridica della continuità dello stato, at­traverso l’analisi degli orientamenti assunti dalla magistratura. Ancora una volta, dun­que, l’angolo prospettico del rapporto Resi­stenza - storia d’Italia, mostra la sua sconta­ta e non esaurita proficuità.

Una nutrita serie di contributi è stata de­dicata alla guerra della Rsi: tra i più apprez­

zabili quelli che hanno scavato in direzione dell’autorappresentazione fascista — al di là della propaganda — ricercando matrici cul­turali e referenti sociali, e, come è avvenuto nella relazione di Mario Isnenghi, delinean­do il percorso che conduce la destra dalla “memoria separata” e sommersa dei morti di Salò ai terreni dell’equiparazione e della pacificazione. Forse, tuttavia, è ancora ne­cessario attendere una più complessiva ma­turazione di indagini che superino il rischio dell’appiattimento delle fonti fasciste e una certa separatezza settoriale, inadeguata ad affrontare i complessi piani di incontro e di scontro della storia della Rsi con la storia della Resistenza e della società italiana.

Parecchi altri contributi degni di conside­razione sfuggono alla rapidità di queste note (ci limitiamo ad accennare alla contestualiz­zazione nel quadro europeo delineata da Vaccarino, alle contrastanti strategie degli occupanti tedeschi civili e militari in ordine alla situazione italiana illustrate da Lutz Klinkhammer, alla dimensione della depor­tazione e della Resistenza degli italiani all’e­stero ricordate da Vittorio Giuntella, Federi­co Cereja e altri), come pure meriterebbe un esame analitico il dibattito appassionato e intenso che ha coinvolto relatori e pubblico. In esso si sono manifestati elementi di ulte­riore arricchimento, ma anche rigidezze e contrapposizioni che non hanno saputo tro­vare gli opportuni canali di comunicazione. Non mi pare, tuttavia, che si debba insistere eccessivamente su questo punto: un conto è la discussione “a caldo”, un altro, più im­portante, è quanto di essa si sedimenta e si sviluppa, con altrettanta convinzione e forse maggiore differenziazione, ma con più omo­genei piani di confronto. C’è tuttavia un ele­mento che, a mio avviso, mette in luce una difficoltà reale per l’avanzamento del dibat­tito, che ha bisogno di nuovi apporti e con­tributi di ricerca. In presenza di un attacco quanto mai massiccio e in nessun modo ri­conducibile a banali operazioni nostalgiche,

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Guerra, guerra di liberazione, guerra civile 111

portato al patrimonio storico e cultura­le dell’antifascismo e della Resistenza, un certo numero di esponenti antifascisti tende a reagire riproponendo una linea “difensi­va”, ispirata all’esemplarità ideale della scelta, piuttosto che accogliere l’invito a scavare nella sua complessità e nei suoi molteplici e aggrovigliati legami con la so­cietà italiana di ieri e di oggi. Questa è for­se la distinzione che si può tentare, ripen­sando al dibattito bellunese, e che passa orizzontalmente tra chi accoglie la possibile categoria interpretativa della guerra civile e chi invece ritiene più proficui altri ap­procci.

L’esperienza, l’immagine, l’uso politico e partitico della Resistenza — una vasta gam­ma di posizioni sovente contrastanti, all’in­terno delle quali non mancano né i miti né le appropriazioni indebite — sono strettamen­te intrecciati con le vicende di questo secon­do dopoguerra e per questo sono ancora tanto coinvolgenti, anche sul piano persona­le, né la pur necessaria distinzione tra i para­digmi dominanti e divulgati e l’esperienza vissuta può essere netta e cartesiana (il plu­rale mi sembra necessario, dal momento che non si tratta di uno schema univoco: si passa infatti dalla riduzione patriottica, depurata

dalla “guerra di classe”, alla proiezione im­mediata delle aspirazioni di radicali trasfor­mazioni rivoluzionarie). Quei paradigmi na­scono, almeno in parte significativa, dentro la Resistenza e per motivi che non si posso­no ricondurre solamente alla legittimazione delle forze politiche in campo, ma che coin­volgono, come è ben noto, la stessa identità nazionale e altre grandi questioni. Forse questi paradigmi andrebbero analiticamente considerati e contestualizzati e andrebbe in particolare isolata e studiata una loro com­ponente: la riduzione della Resistenza al cul­to dei morti, all’omaggio, pur doveroso, al­l’eroismo e al sacrificio. Quando questa componente viene estrapolata e chiusa in se stessa — è il paradigma prevalente dell’uffi­cialità celebrativa — si apre inevitabilmente la strada all’equiparazione tra i caduti della Resistenza e quelli della Rsi e, per questa via, a progressive convergenze con la legitti­mazione del fascismo. Anche per questo mi sembra importante che le sollecitazioni a ri­considerare i venti mesi della guerra parti- giana nella loro centralità e nella loro com­plessità, venute dai lavori del convegno di Belluno, siano attentamente valutate.

Giuliana Bertacchi

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MOVIMENTO OPERAIO E SOCIALISTA

Sommario del n. 3, 1988

Il mondo nuovo. L’utopia sociale nel teatro europeo (1870-1939) a cura di Gianni Isola e Gian­franco Pedullà

IntroduzioneGianfranco Pedullà, Il sogno di un mondo migliore nel teatro popolare francese; Eugenia Casi- ni-Ropa, Béla Balazs e il “teatro per cambiare il mondo'': Roberta Ascarelli, Gli spettacolli del po­tere. Ragioni teatrali ed emozioni cinematografiche nella socialdemocrazia tedesca: Maria di Giu­lio, Dalle origini del teatro "popolare'' russo alla nascita del teatro “spontaneo": Gianni Isola, Uto­pia sociale e società del futuro nei teatro socialista italiano delle origini: Annarita Buttafuoco, Lau­ra Mariani, I volti di Messalina. Note sul rapporto tra emancipazione femminile e teatro.

Note e discussioniAlessandro Roveri, L’Historikerstreit in un'antologia tedesca: Giovanni Casetta, Stato e società in America Latina: verso una nuova storiografia.

Schede

Rassegna delie riviste straniere

Notiziario

Libri ricevuti

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La Toscana nel secondo dopoguerradi Massimo Legnani

Il convegno “La Toscana nel secondo dopo­guerra”, indetto dall’Istituto storico della re­sistenza in Toscana e svoltosi a Firenze nel di­cembre 1988, presenta tratti ben distinti dalle molte iniziative che negli ultimi anni hanno avuto per oggetto, soprattutto dentro la rete degli Istituti, aspetti specifici o complessivi della storia locale negli anni della Costituen­te. Nel convegno fiorentino dopoguerra sta a significare, quantomeno tendenzialmente, il primo ventennio repubblicano e, per conse­guenza, una prospettiva interamente disinca­gliata dal rischio di sovrapporre al discorso sull’Italia postfascista quello sugli “esiti” del­la Resistenza, che ne costituisce solo un aspet­to particolare e che si può ormai considerare, nella sua forma tradizionale, esaurito. Ma, soprattutto, assumere come tema di studio la Toscana dalla metà degli anni quaranta all’i­nizio degli anni sessanta equivale a porsi da un osservatorio in larga misura atipico rispet­to al principale asse di sviluppo delle vicende nazionali. Se da un lato, infatti, le trasforma­zioni socio-economiche incentrate sul dissol­vimento del sistema mezzadrile e il delinearsi di una fitta trama di industrializzazione dif­fusa richiamano quel modello di “terza Ita­lia” che giungerà a maturazione solo a caval­lo degli anni sessanta e settanta, dall’altro, sul terreno del governo locale e delle aggrega­zioni partitiche e sindacali, si evidenzia il fat­to che processi di così vaste proporzioni sono retti e guidati da un ceto dirigente che la pre­valenza delle sinistre (e del Partito comuni­

sta in primo luogo) rende fortemente disso­nante rispetto agli equilibri politici che si im­pongono a livello nazionale.

Su questi due nuclei si è impiantata la struttura del convegno, che ha affrontato, in successione, l’analisi della base economica e delle dinamiche sociali connesse con i muta­menti di quella, il profilo delle lotte e del consenso politico attraverso le diverse arti- colazioni partitiche, il ruolo degli intellettua­li e delle istituzioni in cui questi hanno ope­rato. Va però subito precisato che l’efficacia di questo schema non è stata affidata solo alla sua logica interna, ma al fatto che i pas­saggi del primo quindicennio postbellico so­no stati ripercorsi senza estraniarsi dalle vi­suali suggerite dagli anni ottanta, il che equivale, tanto in termini di problematiche economiche legate ai “distretti industriali” quanto di erosione dell’egemonia comuni­sta, ad una prospettiva di accentuata “di­stanza storica” . Non dunque un puro rifles­so degli svolgimenti più recenti (chè lo sti­molo si sarebbe facilmente trasformato in lente deformante), ma il tentativo di saldare gli anni considerati ad un’ottica di più lungo periodo, guardando in avanti non meno che all’indietro (in quest’ultima direzione il rife­rimento d’obbligo, dato che alcuni relatori al convegno, da Becattini a Rossi, da Garin a Bortolotti, ne sono coautori, è al volume sulla Toscana curato da Giorgio Mori ed edito da Einaudi nel 1986 nella serie delle storie delle regioni dopo l’Unità).

Italia contemporanea”, marzo 1989, n. 174

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114 Massimo Legnarli

Uno dei contributi in cui si è più positiva- mente riflesso l’impegno di inserire il primo ventennio repubblicano nel tempo lungo è quello di Giacomo Becattini su “Crisi e svi­luppo dell’economia toscana dal 1945 al 1963”, che ha avuto anche il merito (insolito in un contesto culturale in cui gli specialismi disciplinari vengono spesso impiegati per ri­vendicare astratte gerarchie esplicative) di operare un reale scambio tra l’analisi pro­priamente economica e la stratificazione so­cioculturale che interagisce con le scelte pro­duttive. Se il filtro del discorso resta la gene­si e il consolidamento dei distretti industria­li, il problema della formazione di nuovi ceti di imprenditoria diffusa riporta alle espe­rienze accumulate all’interno del sistema mezzadrile in materia di commercializzazio­ne e di gestione della forza lavoro e il tema della caduta verticale della società contadina incardinata sulla mezzadria chiama in causa rivolgimenti provocati dalla seconda guerra mondiale in termini politici (crescita delle si­nistre in quanto interpreti della crisi dei vin­coli sociali tradizionali) non meno che eco­nomici (rientro dell’economia italiana nel mercato internazionale). La determinazione, ad esempio, con cui Becattini sottolinea la cesura rappresentata dall’esperienza della guerra e della Resistenza come fase di accu­mulazione di un forte potenziale di disponi­bilità al “nuovo”, fornisce una indicazione in grado di intrecciare livelli ed ambiti di di­scorso apparentemente lontani ed eteroge­nei. Alcune di queste tematiche sono state riprese ed approfondite dai successivi contri­buti: dalla relazione di Maria Tinacci Mas­sello su “Le trasformazioni del territorio” (appare particolarmente rilevante l’afferma­zione che, al termine del periodo considera­to, le tensioni sembrano scaturire più dalle contraddizioni ambientali che dai rapporti di produzione), agli interventi intrecciati su “crisi della mezzadria e lotte contadine” di Reginaldo Cianferoni (espulsi dalle campa­gne i mezzadri “conquistano” la città), Zef-

firo Ciuffoletti (la crescita della capacità di iniziativa dei mezzadri attraverso esperienze quali i consigli di fattoria), Pietro Clemente su una lettura del mondo mezzadrile sotto il profilo dell’antropologia culturale (e per quanto riguarda l’attuale fase degli studi su­gli aspetti politici, economici e socioculturali della mezzadria si vedano i ricchi materiali contenuti negli Annali 8 e 9, rispettivamente 1986 e 1987, dell’Istituto Cervi). Nel campo dell’economia e delle culture economiche si sono mossi anche Alfiero Falorni (“La pri­ma fase dell’industrializzazione leggera”, sullo sviluppo della piccola impresa come “industrializzazione dal basso”), Alessandra Pescarolo e Carlo Trigilia (“Insediamento sindacale e relazioni industriali” , sulle diffi­coltà della cultura sindacale a trovare le chiavi di accesso al modello toscano), Piero Roggi (“Riviste fiorentine e cultura econo­mica”).

La parte più propriamente di storia politi­ca si è sviluppata lungo l’asse, già ricordato, della formazione di una nuova classe diri­gente attraverso l’intreccio dell’insediamen­to dei partiti, della formazione dei quadri, della selezione della deputazione nazionale, dell’attività delle amministrazioni locali. Ai quadri generali di Luigi Lotti sulla lotta po­litica entro il contesto regionale, di Pier Lui­gi Ballini sulle dinamiche elettorali, di Fran­co Andreucci sui parlamentari toscani e di Mario G. Rossi su politica e amministrazio­ne nella Toscana “rossa” , hanno fatto ri­scontro i contributi specifici di Renzo Marti­nelli sul Pei, di Ariane Landuyt sui sociali­sti, di Sandro Rogari sui partiti laici, di Rita Pasquini e Tullio Innocenti sulla De. Nella ricerca delle singolarità regionali ha fatto spicco — in simmetria con molti spunti rica­vabili dalle analisi socio-economiche — il ruolo innovativo giocato dal fenomeno resi­stenziale. Esso ha trovato particolare svilup­po nella relazione di Rossi, tesa a sottolinea­re il carattere diffuso, oltre i limiti della sini­stra, del duplice patrimonio antifascista e

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La Toscana nel secondo dopoguerra 115

autonomista che, attraverso le esperienze del Ctln e delle amministrazioni ciellenistiche, si trasferisce nelle nuove concezioni del gover­no locale. In questo senso sarebbe rinvenibi­le un raccordo stretto tra primo e secondo dopoguerra, dato che il periodo repubblica­no riprende e sviluppa (prevalentemente nel­l’area “rossa” , ma non in essa soltanto) quel processo di crescita di nuovi ceti dirigenti che era culminato nei conflitti del 1919-1920 e che il fascismo sarebbe in seguito in gran parte riuscito a bloccare congelando le for­me di produzione. La diffusione e il radica­mento della guerra partigiana gioca allora un ruolo di decisiva importanza non solo co­me forma generalizzata di mobilitazione ci­vile, ma come strumento di saldatura tra cit­tà e campagna, avvio alla omologazione dei rispettivi comportamenti politici. Si tratta, relativamente alle ricerche sul governo loca­le, di un terreno sinora solo parzialmente in­vestito dalle indagini, una via da percorrere con particolare sistematicità per quanto ri­guarda la direzione del cambiamento e, at­traverso di essa, l’analisi della cultura del nuovo ceto politico locale come campo pri­vilegiato di verifica degli assunti interpretati­vi generali.

Fino a che punto la storia degli intellet­tuali e delle istituzioni culturali rientra in ta­

le contesto di mutamenti? Le risposte sono ancora parziali ed esitanti e il convegno le ha riflesse. La relazione di Eugenio Garin su “La cultura fra conservazione e rinno­vamento” ha inclinato a considerare preva­lenti, pur tra sintomi ed esperienze contra­stanti, i fattori di continuità. È però vero che la sua attenzione si è fermata in modo quasi esclusivo sui “grandi” intellettuali e sulle istituzioni — principalmente l’Univer­sità — in cui operano. Un quadro più mos­so sembra suggerito dai contributi di Mari­no Reicich sull’editoria, di Paolo Galluzzi su “Le istituzioni storico-scientifiche” , di Mariastella Parigi sulle dimensioni culturali presenti nel mondo cattolico, di Luigi To- massini sulle Case del popolo. Tuttavia, se l’apertura di discorso nei confronti del­le culture diffuse appare particolarmente pregnante in una fase di rifondazione dei valori politici, non minor rilievo dovreb­be assumere la ricostruzione del profilo di quei ceti intellettuali — tecnici, economi­sti — la cui sorte risulta strettamente anco­rata alle trasformazioni del periodo, e nella direzione dell’attività politico-amministra­tiva e per l’incidenza sul terreno delle cultu­re delPimprenditorialità diffusa.

Massimo Legnani